Orazio, odi a confronto Vides ut alta stet nive candidum Soracte nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto. Dissolve frigus ligna super foco large reponens atque benignius deprome quadrimum Sabina o Thaliarche, merum diota. Permitte divis cetera, qui simul stravere ventos aequore fervido deproeliantes, nec cupressi nec veteres agitantur orni. Quid sit futurum cras, fuge quaerere et, quem Fors dierum cumque dabit, lucro adpone nec dulces amores sperne, puer, neque tu choreas, donec virenti canities abest morosa destinatario Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati. Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem quam minimum credula postero. L’ode I,9 è rivolta a un uomo, Taliarco, probabilmente un amico del poeta (v.8). Il nome significa “re del banchetto”, ma non ci dà alcuna indicazione precisa sull’identità del personaggio. L’ode I,11 si rivolge a una donna, Leuconoe 8v.2), la cui identità non ci è nota. Il nome significa “dalla bianca mente”. Il fatto che il poeta abbia scelto un interlocutore diretto a cui rivolgersi con il “tu” conferisce a entrambe le odi un tono confidenziale e colloquiale. paesaggio Orazio ha scelto l’inverno come stagione in cui collocare le sue riflessioni sul tempo. L’ode I,9 presenta un paesaggio gelato, immobile, cristallizzato da un gelo pungente, Più che gli aggettivi (candidum e acuto), sono i verbi a dare l’idea delò freddo e dell’immobilità: stet (v.1) e constiterint (v.4), entrambi voci – composte o no – del verbo sto. Il participio presente laborantes, invece, comunica l’impressione della sofferenza che l’inverno sembra arrecare anche agli uomini, oltre che alla natura. La stessa stagione e la stessa idea di sofferenza e di disagio sono proposte nell’ode I,11, dove l’inverno (hiems, v.4) è però agitato e burrascoso e affatica (debilitat, v.5) le coste con una tempesta. Tempeste che non mancano neppure nell’ode I,9 (vv.812), per quanto non siano sufficienti a offuscare l’impressione di immobilità iniziale. Ruolo degli dèi Secondo la concezione oraziana espressa nei due componimenti, gli dèi sono coloro che danno e tolgono le cose agli uomini secondo disegni insondabili, sui quali non vale neppure la pena di interrogarsi. Nelle due odi in realtà prevale il senso del “dare” e il verbo do compare in entrambi i testi: in I,11 sono gli dei (di) che dederint finem (v.2); in I,9 è la sorte (fors, v.2), forza soprannaturale sostanzialmente coincidente con la divinità, a dare il tempo della vita (quem dierum cumque dabit, v.14), oppure il re degli dèi, Iuppiter, che lo assegna (tribuit, v.4). Di fatto, in entrambi i componimenti è ribadito il concetto secondo cui le sorti umane dipendono da entità superiori, che allo stesso modo hanno pieni poteri sui fenomeni naturali (I,9, vv.9-12 e I,11, vv.5-6) Soluzione Di fronte a una simile prospettiva, il poeta propone ai suoi interlocutori due soluzioni proposta perfettamente compatibili, una negativa e una positiva. La prima indica cose che NON si devono fare ed è espressa tramite imperativi negativi o comunque di senso negativo: ne quaesieris (I,11, v.1) e fuge quaerere (I,9, v.13). Quel che non si deve fare è porsi domande sul futuro. E’ interessante notare come in entrambi i casiil verbo sia lo stesso (quaero), seguito da un’interrogativa indiretta molto simile nelle due odi. www.forumlive.net – inviato da Paola Lerza Nell’Ode I,11 c’è anche l’esortazione, negativa, a non tentare le sorti con sistemi irrazionali come gli oroscopi babilonesi (v.2), mentre l’ode I,9 consiglia in modo deciso di affidarsi agli dei (v.9). Le soluzioni positive invece sono tutte rivolte al quotidiano e alla vita pratica e a tratti appaiono meno “forti”, in quanto all’imperativo si sostituisce talvolta il congiuntivo esortativo (sapias, liques, reseces, I,11, v.6-8). Prevale il tema simposiaco (quadrimum merum, I,9, vv. 7-8), vina liques, I,11,v.6), ma nel componimento più lungo si parla anche dell’amore e del divertimento (dulces amores… choreas, vv.1516). Quanto all’atteggiamento esistenziale e allo stato d’animo con cui affrontare la vita, nell’ode I,9 esso consiste in una disincantata consapevolezza del fatto che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, e quindi va considerato come un guadagno(vv.14-15 lucro adpone),. Più articolata la soluzione dell’ode I,11: alla ribadita mancanza di ogni illusione (spem longam reseces, quam minimum credula postero) si aggiunge l’esplicito invito ad afferrare l’attimo (il verbo carpere è fortissimo in questo senso) Concezione del tempo Il senso della fugacità del tempo, nel pensiero oraziano, si fonda sulla concezione pagana della fine di ogni cosa, per cui l’invito a godersi la gioventù e la vita appare fin troppo scontato. Ma se nell’ode I,9 prevale un atteggiamento di rassegnazione e di accettazione di quel che sarà, in quanto non è di nostra competenza, il tempo nell’ode I,11 è connotato assai più negativamente. In I,9 infatti si lascia intravvedere l’esistenza di un futuro, “altro da noi” (cetera, v.9) e proiettato nel domani (quid sit futurum cras, v. 13), mentre in I,11 prevale prepotentemente l’oggi, l’adesso (diem), mentre il futuro resta qualcosa di infido, in cui non bisogna credere (quam minimum credula postero, v. 8), risultante dello scorrere di un tempo che non ci ama (invida aetas, v.7) www.forumlive.net – inviato da Paola Lerza