Thomas Hobbes

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Filosofia - Prof. Monti - a.s. 2016-2017 - Thomas Hobbes
Thomas Hobbes
1588 – 1679
*
1. VITA, OPERE E CENNI GENERALI
La filosofia di Hobbes rappresenta, nei confronti di quella di Cartesio, l’altra
grande alternativa cui l’elaborazione del concetto di "ragione" mise capo nel XVII
secolo.
Egli nacque a Westport, in Inghilterra. Compì gli studi a Oxford, ma la sua
formazione fu influenzata soprattutto ai contatti che stabilì nei suoi frequenti
viaggi sul continente. Dimorò a lungo a Parigi dove frequentò Gassendi. Conobbe
anche Galileo.
La sua opera principale è considerata Il leviatano, ossia la materia, la forma e
il potere di uno stato ecclesiastico e civile, pubblicata nel 1651.
Nella trilogia composta da Il cittadino (1642), Il corpo (1655) e L’uomo (1658)
espose ordinatamente il suo sistema in tutte le sue parti. Gli ultimi anni della sua
vita furono occupati da alcune polemiche, come ad esempio la difesa della
corporeità di Dio.
Morì a Londra a 91 anni di età.
La sua filosofia ha come scopo principale quello di gettare le fondamenta per
la costituzione di una comunità ordinata e pacifica, che egli crede possibile
solo sulla base del potere assoluto dello Stato.
Una filosofia metafisica, come quella di Aristotele e degli scolastici, sarebbe a suo
parere incapace di fornire tale fondamento. Hobbes vuole costruire una filosofia
del tutto razionale, umanamente razionale: che escluda ogni rivelazione
soprannaturale, l’autorità dei libri e degli antichi autori, e prenda la sua ispirazione
solo dal mondo della natura.
La famosa obiezione che Hobbes rivolse al cogito cartesiano è utile ad
esplicitare una delle direzioni che, sulla comune base del meccanicismo,
caratterizzò la filosofia del ‘600 e, in particolare, il lavoro di Hobbes.
Cartesio, a parere di Hobbes, ha ragione nel derivare l’esistenza dal pensiero
(cogito ergo sum), ma sbaglia nel qualificare la modalità di tale esistenza. L’uomo
non è affatto un essere spirituale, una res cogitans di contro alla res extensa, la
sua natura è interamente materiale: l’anima stessa è materia, la res cogitans si
riduce a res extensa.
- Il pensiero di Hobbes è qualificabile come meccanicismo materialistico: esso
resta cartesiano in quanto al metodo, ma riduce i contenuti alla sola materia.
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2. L'OGGETTO DELLA FILOSOFIA
Oggetto della filosofia sono solo e soltanto i corpi, la materia.
Se è vero che essi possono essere naturali (creati da Dio) o artificiali (creati
dall’uomo), anche il sapere sarà parimenti diviso: la filosofia naturale è preposta allo
studio della natura (insomma la nostra fisica, ma anche le matematiche), mentre la
filosofia civile si occuperà di quella costruzione tutta umana che sono la società civile
(etica: emozioni, bisogni, costumi dell’uomo) e lo Stato (politica, che tratta dei doveri
civili).
Nel campo della filosofia naturale, vi sono conoscenze a priori (ovvero ricavate in
virtù del solo ragionamento: logica, matematica, geometria) e a posteriori (dipendenti
dall’esperienza: fisica).
Il materialismo di Hobbes non significa un rifiuto della religione, ma solo una netta
divisione di campo: la nozione di Dio è razionalmente incomprensibile, occorre dunque
rimettersi alla sola fede.
3. RAGIONE E CALCOLO
La ragione umana è essenzialmente logica e il suo scopo è la previsione. Ad
avviso di Hobbes, diversamente da quanto sostenuto da Cartesio, anche gli
animali posseggono un certo grado di ragione: essi sanno appagare i loro
bisogni e conservare la loro vita imparando dall’esperienza passata e prevedendo
il futuro, seppure in modo limitato.
Diversamente dagli animali l’uomo può prevedere e progettare a lunga scadenza
la sua condotta e i mezzi per raggiungere i suoi fini. Se la ragione dell’uomo è più
efficace e potente la ragione è una: l’uomo possiede il linguaggio, che consiste
nell’impiego di segni convenzionali per designare le idee delle cose esistenti.
Anche i vocalizzi degli animali sono segni, ma non costituiscono un linguaggio.
Questo è tale solo quando costituito da parole, segni puramente convenzionali.
- La ragione dell’uomo è fortemente condizionata e potenziata dalle parole: solo
esse consento, infatti, le generalizzazioni e le astrazioni che guidano la nostra
condotta di vita.
Facciamo un esempio: una volta inventata la parola “triangolo”, ogni uomo saprà
che ogni triangolo, comunque sia fatto, sarà portatore delle medesime proprietà.
La parola – solo la parola! – permette di abbracciare infiniti casi simili.
Proprio grazie a tale proprietà, il linguaggio consente all’uomo ciò che si chiama
ragionamento: nomi si uniscono in affermazioni, affermazioni formano
sillogismi, catene di sillogismi formano ragionamenti complessi.
Che cosa è il ragionamento? Esso altro non è che un calcolo che permette di
mettere in luce quale sia la causa di un certo fenomeno (ricordiamo che – come
già insegnava Aristotele – la scienza è conoscenza di cause).
La scienza, dice Hobbes, è tutta fatta di dimostrazioni di questo genere: ogni
discorso scientifico dimostra la connessione per la quale da una causa
determinata si genera un effetto determinato.
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Questo fa sì che non tutto, ad avviso di Hobbes, possa essere oggetto di
conoscenza scientifica.
Solo le scienze matematiche e le scienze morali danno origine ad una autentica
conoscenza scientifica: queste, infatti, sono le uniche il cui oggetto sia stato creato
dall’uomo.
Le cose naturali, al contrario, non sono state create dagli uomini, ma da Dio:
questo significa che l’uomo non può conoscerne in modo compiuto le cause. Per le
cose naturali una dimostrazione rigorosa non sarebbe possibile (ogni effetto può
avere più di una causa: non possiamo sapere con certezza quale sia quella giusta!)
e occorre accontentarsi di conclusioni solo probabili.
Abbiamo detto che per Hobbes (e non solo per lui!) il ragionamento è una specie
di calcolo.
Spieghiamo un poco meglio: per l’empirista Hobbes il mondo è fatto di singoli
corpi, diciamo di quelle che noi chiamiamo “cose”. L’uomo assegna ad ogni cosa
un nome convenzionale.
Una volta assegnati i nomi alle cose, attraverso il linguaggio non facciamo altro
che mettere in relazione fra loro le cose del mondo (utilizzando i loro nomi),
cercando di spiegarne i rapporti. Arriviamo, per esempio, a comprendere che
“uomo = animale + razionale”.
Qui la parola calcolo non ci deve far pensare immediatamente alla matematica: i
nomi delle cose, diversamente da quanto accade per le variabili e le costanti di
una equazione, rappresentano necessariamente cose reali, non pure relazioni
teoriche.
Se Hobbes parla comunque di calcolo è perché ritiene sia possibile ridurre tutto
ciò che chiamiamo ragionamento e qualcosa di altrettanto certo e rigoroso del
calcolo matematico. Questa idea sarà ripresa in termini assai più solidi e
complessi da Leibniz: quindi ne riparleremo!
4. IL MATERIALISMO
Riprendendo una nozione dello stoicismo antico, Hobbes identifica le nozioni di
corpo e di esistenza: solo ciò che è corporeo esiste, in quanto solo ciò che è
corporeo può subire un’azione o determinarla.
Parlare di sostanze spirituali – cioè di cose esistenti che, però, non sono corporee
– è ad avviso di Hobbes un’assurdità. Le stessa parola “incorporeo” è priva di
senso: persino quando essa è riferita a Dio non esprime un suo attributo autentico,
ma la sola pia intenzione di onorarlo. Se Dio esiste, allora deve essere corporeo!
Come abbiamo detto, anche lo spirito umano è corporeo, fisico.
La sensazione, l’immaginazione, la memoria, il pensiero: tutte queste cose –
tradizionalmente ritenute immateriali – altro non sono che un qualche genere di
movimenti, di fenomeni fisici, concernenti gli organi del nostro corpo.
Il cogito di Cartesio esiste, certo, ma è corpo, non spirito! Non è necessario che la
res cogitans – la cosa pensante – sia spirito, pensiero: essa è corpo. Che cosa
pensa? Il cervello!
- Il corpo, la materia è l’unica realtà, l’unica sostanza che esista realmente in se
stessa; il movimento è l’unico principio di spiegazione di tutti i fenomeni
naturali.
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5. L'ANTROPOLOGIA
Tutto ciò che è e accade è corpo e movimento: anche l’anima, dunque, è corpo ed
è caratterizzata da “movimenti” ad essa peculiari. Il suo studio è oggetto della
morale.
Movimenti dell’anima sono le cosiddette “passioni”: appetito, avversione, amore,
speranza, ira, invidia, ecc. Esse, tutte spiegabili fisicamente, sono dominate
dall’istinto e la loro destinazione naturale è il dolore o il piacere.
Per natura l’istinto tende verso il piacere e rifugge il dolore, ciò che gli uomini
spesso chiamano “bene” e “male”. Ma attenzione: in natura non vi è nulla che sia
assolutamente buono o cattivo, né c’è una norma distintiva assoluta fra bene
e male.
Al meccanismo dell’istinto è, a parere di Hobbes, riconducibile qualunque azione
umana, anche quelle che sono spiritualmente più elevate. Anche le emozioni che
appaiono più altruistiche, come l’amore o la pietà, sono in qualche modo
espressione del naturale istinto di conservazione.
Esempio: provo pietà per il dolore di un estraneo? Questo accade solo perché
immagino di trovarmi al suo posto!
In questa morale esclusivamente naturale non c’è posto alcuno per la libertà.
La volontà è stimolo all’azione: essa però non è libera, ma viene messa in moto da
stimoli fisici, interni ed esterni alla persona. Le passioni e l’istinto di
conservazione fanno della volontà il proprio “organo esecutivo”: essa non è niente
più di questo.
Precisiamo meglio: l’uomo, in generale, chiama bene ciò che egli desidera (non
liberamente, ma mosso dalle sue passioni) e male ciò che odia.
Quando, come spesso accade, nella mente dell’uomo si alternano desideri diversi
ed opposti, si ha quello stato che si chiama stato di deliberazione, che termina
nell’atto della volontà che decide di agire o meno.
Ancora: visto che l’uomo non può mai raggiungere uno stato di totale e
definitiva soddisfazione, non ha senso parlare di “sommo bene” o di “fine
ultimo” della vita umana.
Un fine ultimo sarebbe tale che una volta conseguito niente altro dovrebbe essere
desiderato. Ma sappiamo che il desiderio è legato alla sensibilità: l’uomo che non
desiderasse nulla non sentirebbe più nulla, non vivrebbe affatto, sarebbe come
morto!
Ancora sulla libertà: nella vita umana, abbiamo detto, non c’è posto per essa.
L’unica libertà esistente è definita da Hobbes come l’assenza di tutti gli
impedimenti all’azione non inerenti alla natura. Questa libertà si ha quando la
volontà non è impedita nelle sue manifestazioni esteriori, ma essa non è ciò che si
intende con l’espressione “libertà del volere”.
Quando l’uomo vuole qualcosa che prima non voleva, infatti, la causa non è la
volontà stessa, ma qualcosa che non dipende da lui. La volontà è causata
necessariamente da altre cose: in quanto hanno cause necessarie, le azioni umane
sono necessitate!
Ecco perché Hobbes pensa la morale e anche la politica come discipline
fondate su principi solidi e certi, come lo è la geometria. Le necessità della
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scienza politica sono riflesso delle necessità fisiche che agiscono nella volontà
umana.
6. LA POLITICA
Due sono i postulati certissimi della natura umana: da essi discende l’intera
scienza politica.
1) La bramosia naturale. Ogni uomo pretende di godere da solo dei beni
comuni; ogni uomo è radicalmente egoista e vuole tutto per sé: homo homini
lupus!
2) la ragione naturale. Ogni uomo rifugge dalla morte violenta come dal
peggiore dei mali naturali.
Il primo postulato esclude che l’uomo sia per natura un “animale politico”
(Aristotele). Hobbes non nega che gli uomini abbiano bisogno gli uni degli altri,
ma nega che abbiano per natura un istinto che li porta alla benevolenza e alla
concordia reciproche.
Hobbes nega l’esistenza di un amore naturale dell’uomo verso il suo simile. “Se
gli uomini si accordano per commerciare, ciascuno si interessa non del socio ma
del proprio avere”.
Una fazione nasce più per timore reciproco che per amore. “Ogni associazione
spontanea nasce o dal bisogno reciproco o dall’ambizione, mai dalla benevolenza
o dall’amore verso gli altri”.
Anche le più grandi e durature società si basano sul timore reciproco. La
causa di questo timore è, in primo luogo, l’uguaglianza di natura fra gli uomini
per la quale tutti desiderano la stessa cosa, cioè l’uso esclusivo dei beni comuni.
In secondo luogo, è la volontà naturale di danneggiarsi a vicenda o anche
l’antagonismo: esso deriva dal contrasto delle opinioni e dall’insufficienza del
bene.
Il naturale diritto di tutti su tutto e l’ugualmente naturale volontà di
danneggiarsi a vicenda, fanno sì che lo stato di natura sia uno stato di guerra
incessante di tutti contro tutti (bellum omnium erga omnes).
In questa situazione non c’è nulla che si possa definire “giusto” o “sbagliato”: la
nozione della giustizia e dell’ingiustizia, nasce solo dove c’è una legge e la legge
nasce solo dove c’è un potere comune: dove questo manca, manca anche la
possibilità di distinguere giusto e ingiusto.
Ognuno ha “diritto” su tutto, compresa la vita altrui: si tratta di un naturale e
insopprimibile istinto che porta ogni individuo a fare tutto ciò che è in suo potere
per difendersi e prevalere sugli altri.
Se la natura umana fosse governata solo da questo primo postulato, la
condizione di guerra universale avrebbe ben presto condotto all’estinzione
della specie umana. Se l’uomo fosse privo di ragione, il secondo postulato, la
condizione di guerra totale sarebbe insormontabile: l’abbrutimento e la
distruzione della specie sarebbero l’inizio e la fine della storia umana.
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Ma, come abbiamo visto, la ragione umana è la capacità di prevedere e
provvedere accortamente ai bisogni dell’uomo. È la ragione naturale che
suggerisce all’uomo la norma o il principio generale da cui discendono le
leggi naturali del vivere civile, proibendo a ciascun uomo di fare ciò che reca
la distruzione della vita e ciò che gli toglie i mezzi di evitarla e di omettere ciò
che serve per conservarla meglio.
Per Hobbes, come per Grozio e per tutto il giusnaturalismo moderno, la legge
naturale è un prodotto della ragione umana. La naturalità del diritto
significa la razionalità di esso.
Le norme fondamentali della legge naturale sono dirette a sottrarre l’uomo al
gioco spontaneo e distruttivo degli istinti e a imporgli una disciplina che gli
procuri una almeno relativa sicurezza e la possibilità di dedicarsi alle attività
che rendono agevole la sua vita.
La prima norma è: “cercare e conseguire la pace in quanto si ha la speranza di
ottenerla; e quando non si può ottenerla usare tutti i vantaggi e gli ausilii della
guerra.”
Da questa legge ne derivano altre: “L’uomo spontaneamente, quando anche gli
altri lo facciano e per quanto lo giudicherà necessario per la pace, deve
rinunciare al suo diritto su tutto e avere tanta parte di libertà rispetto agli altri
quanta egli stesso ne riconosce agli altri rispetto a sé”.
Questo permette di uscire dalla lotta di tutti contro tutti e implica che gli
uomini stringano patti con i quali rinunciano al loro diritto originario o lo
trasferiscano a persone determinate. Ma i patti vanno mantenuti, infatti la
seconda legge fondamentale è: “bisogna stare ai patti, cioè osservare la parola
data”.
In tutto le leggi naturali sono venti. Ne citiamo solo alcune: non bisogna essere
ingrati; bisogna essere utili agli altri; occorre comportarsi con misericordia; non
bisogna ricorrere alle ingiurie; non bisogna essere superbi; deve essere garantito il
diritto di primogenitura e il diritto del primo occupante.
Queste leggi naturali sono anche morali ed anzi, per Hobbes, costituiscono il
compendio della filosofia morale. Si trovano anche nelle sacre scritture come
precetti di vita promulgati da Dio.
L’atto fondamentale che segna il passaggio dallo stato di natura a quello
civile è quello compiuto in conformità della seconda legge naturale: cioè la
stipulazione di un contratto con il quale gli uomini rinunziano al diritto
illimitato dello stato di natura e lo trasferiscono ad altri.
Solo se ogni uomo sottomette la sua volontà ad uno solo, o ad una assemblea, e si
obbliga a non fare resistenza si ha una stabile difesa della pace.
Quando questo trasferimento è stato effettuato, si ha lo Stato o società civile,
detto anche persona civile perché, conglobando la volontà di tutti, si può
considerare una sola persona.
Colui che rappresenta la persona civile è il sovrano ed ha potere sovrano;
ogni altro è suddito. Questa è l’origine di quel grande Leviatano o di quel Dio
mortale, al quale, dopo il Dio immortale, dobbiamo pace e difesa.
La teoria di Hobbes è comunemente ritenuta tipica dell’assolutismo. Egli
insiste in primo luogo sull’irreversibilità del patto fondamentale. Una volta
costituito lo Stato i cittadini non lo possono dissolvere, infatti il patto è dei sudditi
fra loro e con lo Stato, non dei sudditi con lo stato. Inoltre il potere sovrano è
indivisibile, nel senso che non si può distribuire fra diversi poteri che si limitino a
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vicenda. Appartiene, poi, allo Stato e non ai cittadini il giudizio sul bene e sul
male, giacché la regola che consente la distinzione è data dalla legge civile e
non può essere affidata all’arbitrio dei cittadini.
In quarto luogo fa parte della sovranità la prerogativa di esigere obbedienza
anche per ordini ritenuti ingiusti o peccaminosi.
In quinto luogo, la stessa sovranità esige che si escluda la liceità del tirannicidio.
Ma il tratto più caratteristico dell’assolutismo di Hobbes è la sua negazione
che lo Stato sia comunque soggetto alle leggi dello Stato. Lo Stato, infatti, non
si può obbligare né verso i cittadini, il cui obbligo è unilaterale e irrevocabile, né
verso se stesso, perché ci si può obbligare solo verso altri.
Tutto questo non significa che Hobbes non ponga limiti all’azione dello Stato.
Neppure lo Stato può comandare ad un uomo di uccidere o ferire se stesso o una
persona cara o di non difendersi o di non prendere cibo o aria o altra cosa
necessaria; né può comandargli di confessare un delitto perché nessuno può essere
costretto ad accusare se stesso.
Per il resto però il suddito è libero solo di fare ciò che il sovrano non ha regolato
con delle leggi. Lo Stato, invece, è sempre libero. Come anima della comunità, lo
Stato congloba in sé anche l’autorità religiosa e non può riconoscere
un’autorità religiosa indipendente: pertanto Chiesa e Stato coincidono. Per
Hobbes la diversità fra le due è puramente verbale: “Si chiama Stato in quanto
consta di uomini e Chiesa in quanto consta di Cristiani”.
6. HOBBES NELLA FILOSOFIA MODERNA E NEL DIBATTITO CONTEMPORANEO
Sebbene la sua teoria dello Stato abbia influito su alcuni contemporanei, come
Spinoza, ed egli sia divenuto con il tempo uno dei classici del pensiero moderno,
le cui tesi più caratteristiche, come quella dell’uomo-lupo, hanno avuto vasta
risonanza presso il pubblico colto d’Europa, per quasi due secoli Hobbes è stato
considerato un filosofo minore della scuola empiristica inglese. La sua figura
“inquietante” è apparsa a lungo come il simbolo stesso dell’immoralismo e
dell’irreligione. La sua filosofia ha suscitato più spesso anatemi e condanne che
critiche e interpretazioni positive.
È solo nel ‘900, e precisamente negli ultimi decenni, che la filosofia di Hobbes è
divenuta oggetto di ampio interesse e dibattito. Sostanzialmente d’accordo nel
sostenere il legame del suo materialismo meccanicistico con la Rivoluzione
scientifica e nel sottolineare la modernità delle sue osservazioni di gnoseologia,
logica, filosofia della scienza e del linguaggio, gli studiosi sono invece in
disaccordo sulla valutazione del significato preciso del suo materialismo e delle
sue connessioni con le teorie etico-politiche: è la prospettiva materialistica che
fonda la teoria dello Stato o viceversa?
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