I fattori dello sviluppo regionale Giuseppe Capuano A mia moglie e a mia figlia Indice Giuseppe Capuano 6 Prefazione.................................................................................................................9 Premessa .................................................................................................................13 1. Il concetto di territorio nella teoria economica dominante ......................17 1.1 Il quadro teorico di riferimento ....................................................................19 1.2 Il livello mesoeconomico tra macro e microeconomia ...................................23 2. Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale.......................31 2.1 Il modello neoclassico ...................................................................................34 2.1.1 Modello neoclassico e commercio internazionale. Il caso delle delocalizzazioni produttive .....38 2.2 Lo sviluppo esogeno trainato dalle esportazioni .............................................41 2.3 La teoria di Heckscher-Ohlin........................................................................47 2.3.1 Verso il superamento del teorema di Heckscher-Ohlin...............................................49 2.4 L’approccio input-output nei modelli di economia regionale .............................51 2.5 La teoria weberiana della localizzazione.........................................................52 2.5.1 La teoria delle zone centrali ..............................................................................53 3. I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane: il modello della convergenza non lineare......................................................57 3.1 Il dibattito teorico .........................................................................................59 I fattori dello sviluppo regionale 3.1.1 La critica all’approccio marginalista .....................................................................59 3.1.2 Le recenti evoluzioni del dibattito .......................................................................62 3.1.3 La “convergenza non lineare” (CNL) .................................................................63 3.2 La verifica “sul campo” della “convergenza non lineare” (CNL) .....................64 3.2.1 I limiti dell’utilizzo del Pil pro capite come misura del livello di sviluppo.......................64 3.2.2 I risultati dell’analisi provinciale nel periodo 1995-2002 ..........................................66 3.3 I fattori che contribuiscono alla “convergenza non lineare”................................72 3.4 Le traiettorie dello sviluppo delle province italiane attraverso l’analisi del PIL......73 4. Il ruolo del risparmio nello sviluppo regionale............................................85 4.1 Il risparmio nel modello Harrod-Domar .......................................................87 4.2 Una rivisitazione della teoria del “ciclo vitale”di Modigliani e sua applicazione ad una economia a basso livello di sviluppo ......................89 7 5. Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri regionali ............97 5.1 Lo scenario economico di riferimento ..........................................................99 5.2 La crescita del debito pubblico negli anni ottanta.........................................102 5.3 L’impatto del debito pubblico sulla redistribuzione del reddito.....................107 5.4 L’impatto del debito pubblico sugli squilibri regionali..................................113 5.5 Conclusioni.................................................................................................115 Riferimenti bibliografici ................................................................................117 Prefazione I l fattore territorio così come il concetto di sviluppo Prefazione locale hanno rappresentato una crescente attenzione nel dibattito e nelle teorie economiche a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Anche in una disciplina anch’essa relativamente giovane come il marketing, negli ultimi tempi si è evidenziata l’importanza del marketing territoriale, con la proposta di modelli di attrazione di investimenti a partire da una variabile - opportunità come il territorio. La Fondazione Tagliacarne, nata dal sistema delle Camere di Commercio e quindi degli enti espressione delle comunità economiche locali, ha occupato nell’ultimo ventennio un ruolo importante nella ricerca sullo sviluppo economico territoriale, elaborando contributi teorici e prodotti di studio come la realizzazione di osservatori settoriali, osservatori delle economie provinciali, la progettazione e gestione di importanti sistemi informativi. E’ quindi soprattutto l’esperienza maturata dall’Autore nell’Area Studi e Ricerche dell’Istituto Tagliacarne che ha favorito la realizzazione di questa pregevole pubblicazione, che può prestarsi ad orizzonti di fruizione anche più ampi di una guida didattica per un modulo formativo per il Master STARTER - Statistica, Economia e Ricerche di Mercato per lo Sviluppo del Territorio. Oltre che la utile indicazione di sintesi delle principali teorie di sviluppo regionale si sottolinea la classificazione dei vari modelli in relazione al ruolo passivo o attivo attribuito al territorio. Originale è il tentativo di lettura dell’applicazione dei vari modelli nei percorsi di sviluppo delle realtà provinciali dal 1960 ad oggi e l’analisi della convergenza o divergen- 11 Giuseppe Capuano 12 za dei processi di sviluppo territoriale che si basa sulle stime provinciali del PIL, che rappresentano storicamente una connotazione fondamentale del lavoro di ricerca Unioncamere – Istituto Tagliacarne. Altri due spunti interessanti si ritrovano nell’analisi critica dell’applicazione della teoria del “ciclo vitale” di Modigliani alle regioni in ritardo di sviluppo come il nostro Mezzogiorno e nello studio delle conseguenze che la formazione del debito pubblico negli anni ’80 hanno avuto sugli squilibri regionali NordSud. Luigi Pieraccioni Consigliere Scientifico dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne Premessa I l principale obiettivo di questo lavoro, attraverso la Premessa lettura delle più significative teorie dello sviluppo economico regionale e locale, è riflettere sul crescente ruolo che il territorio (livello mesoeconomico dello sviluppo) ha nell’articolazione del pensiero economico e nella determinazione dei percorsi di sviluppo locale e soprattutto, se la cosiddetta “cassetta dei ferri del mestiere” dell’economista è adeguata a spiegare una realtà territoriale sempre più complessa, disomogenea e in un continuo divenire. Cercare quindi di comprendere in che modo i fenomeni economici più importanti del recente passato, in particolare i processi di globalizzazione economica, le delocalizzazioni produttive, l’introduzione dell’Euro in Europa, la progressiva riduzione della propensione al risparmio, impatteranno sull’attualità del concetto di territorio, sui processi di convergenza economica tra i territori e, quindi, sulla geografia economica del nostro Paese. A tal proposito, nel libro saranno presentati tre lavori originali. Il primo sui processi di convergenza/divergenza nelle province italiane e un primo tentativo di superamento della teoria neoclassica della convergenza; il secondo, è una applicazione al Mezzogiorno della Teoria del ciclo vitale di Modigliani, con la proposta di alcune modifiche e integra- 15 Giuseppe Capuano 16 zioni per renderla più coerente con la realtà economico-sociale delle nostre regioni meridionali; il terzo, è una riflessione sulla formazione del debito pubblico negli anni ottanta e il suo impatto negativo sulla formazione degli squilibri regionali nel nostro Paese. Inoltre, nel testo si esporranno in forma schematica, senza avere nessuna pretesa di essere esaustivi, le principali teorie dello sviluppo regionale, applicando, dove è possibile, alcune verifiche empiriche relative alle dinamiche delle regioni e province italiane. L’obiettivo è puramente didattico e ha lo scopo di costituire un primo punto di riferimento, anche bibliografico, per coloro che iniziano ad avvicinarsi alla materia, rimandando a manuali e testi originali per gli eventuali e necessari approfondimenti. Il lavoro è stato realizzato nell’ambito del Master STARTER – Statistica, Economia e Ricerche di Mercato per lo Sviluppo del Territorio. Questa riflessione, che ha costituito la guida didattica per il modulo “Economia del Territorio” del suindicato Master, prende spunto dall’esperienza maturata in circa venti anni di lavori sull’osservazione e il monitoraggio delle economie regionali che l’Autore da economista ha realizzato prima, presso la Direzione Studi del Parlamento Europeo di Bruxelles, e poi, all’Istituto Guglielmo Tagliacarne dove è Responsabile dell’Area Studi e Ricerche. Negli ultimi anni, inoltre, tale riflessione, è stata arricchita da una vasta esperienza didattica maturata attraverso corsi e seminari svolti presso alcune Università Italiane (Università “La Sapienza” di Roma, Università Lumsa di Roma, Università “Cattaneo” di Varese, Università Cattolica di Piacenza, Università di Trento) ed in particolare al corso svolto presso la cattedra di Analisi Statistica - Economica Territoriale della Facoltà di Economia dell’Università “Parthenope” di Napoli, e Università straniere come l’Università della Svizzera Italiana (USI) di Lugano. CAPITOLO 1 Il concetto di territorio nella teoria economica dominante R 1.1 Il quadro teorico di riferimento ipercorrendo la storia del pensiero economico dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, con particolare riferimento alla vasta letteratura sullo sviluppo economico e sulle cause dei processi di accumulazione e di distribuzione del reddito, l’economia è stata da sempre considerata “a-spaziale”, con la rappresentazione dei meccanismi di trasmissione all’interno del circuito economico, come se l’economia di un paese fosse una unica entità omogenea. Nessuna delle principali scuole di pensiero economico del passato, da quella classica a quella neoclassica e keynesiana, alle più recenti scuole di pensiero economico1 (monetaristi, nuova macroeconomia classica, nuova macroeconomia keynesiana, etc.) se si escludono alcuni sviluppi delle teorie di Alfred Marshall2, ha introdotto in maniera sistematica nel dibattito teorico l’importanza degli aspetti territoriali nella formazione del prodotto e della distribuzione del reddito3. Una delle principali motivazioni di questa lacuna presente nelle teorie economiche del passato va ricercata soprattutto nel basso livello di sviluppo raggiunto dalle principali economie prima della fine dell’Ottocento (se si esclude la Gran Bretagna) e nella concezione teorica, di stampo meramente neoclassico, che lo sviluppo, essendo caratterizzato da un processo che porta all’equilibrio generale di lungo periodo, interessa l’intera popolazione della nazione, anche se con modalità di partecipazione alla formazione del prodotto (lavoratori, capitalisti, latifondisti) e fonti di reddito (salari, profitti, rendite) differenti. 1 Per una panoramica sulle più recenti scuole di pensiero economico sia di derivazione neoclassica che keynesiana: Boitani, A. and Damiani, M. (2003). 2 Marshall, A. (1890). 3 Per una rassegna delle principali scuole di pensiero economico: A. Graziani, (1981). Giuseppe Capuano 20 Le teorie economiche furono formulate, comunque, in una economia europea che già nel XIX e sicuramente nei primi decenni del XX secolo, conosceva evidenti differenze di tipo territoriale, in termini sia di caratteristiche dei settori partecipanti alla formazione del prodotto che nei livelli di sviluppo. Si pensi all’economia delle città, in particolare delle Capitali europee dell’epoca, alle vaste regioni agricole oppure a quelle realtà, che in particolare in Gran Bretagna, ma anche in Francia, in Germania e nella stessa Italia nell’età giolittiana dei primi del secolo, erano caratterizzate da una incipiente industrializzazione. L’evidente carenza di un impianto teorico che sostenesse l’importanza del ruolo del territorio nei processi di sviluppo nasce anche dal “rifiuto” della teoria dominante dell’epoca di considerare la presenza di squilibri regionali nel lungo periodo e dalla convinzione che l’intera economia nazionale, a parità di input di politica economica, reagisce nei medesimi tempi e modalità. Questi due ultimi aspetti sono tra i principali punti di una visione dei meccanismi economici che solo dagli anni cinquanta del secolo scorso, è stata lentamente modificata e integrata, quando il concetto di sviluppo locale è entrato a far parte del dibattito economico contemporaneo. Con il concetto di sviluppo locale si fornisce una risposta al crescente scetticismo circa la capacità delle teorie tradizionali dominanti di analizzare le relazioni esistenti tra il livello macro, quale l’economia nazionale, e il livello micro, determinato dalla singola azienda. In realtà si introducono le basi teoriche per un’analisi approfondita dell’esistenza di un livello intermedio o mesoeconomico che rappresenta il luogo dove si creano i sistemi di relazioni o d’interazioni che costituiscono a loro volta il meccanismo di trasmissione tra il singolo settore produttivo e l’intero sistema economico. In effetti, si individuano i primi fondamenti di una teoria mesoeconomica, complementare e non alternativa alle teorie micro e macroeconomiche. Con la rivisitazione delle principali teorie economiche in termini di economia regionale, gli elementi che costituiscono o determinano lo sviluppo e la competizione dei sistemi economici-politici-territoriali sono stati letti, in principio, attraverso una logica dicotomica di tipo “funzionale” (teorie tradizionali) o “territoriale” (localisti). Nell’approccio di tipo “funzionale” lo spazio è stato considerato un vincolo al comportamento dei soggetti economici e gli è stato attribuito un ruolo passivo, un costo, quasi un vincolo per le attività produttive e, quindi, per lo sviluppo. Tutte le teorie che possono essere raggruppate come modelli di sviluppo regionale equilibrato (ad esempio la teoria neoclassica della crescita) o quelle che potremmo definire come modelli di sviluppo squilibrato (ad esempio le teorie neokeynesiane relative allo sviluppo regionale) che esa- I fattori dello sviluppo regionale mineremo brevemente nel Cap.2, attribuiscono un ruolo passivo al territorio e soprattutto considerano il susseguirsi dei fenomeni economici indipendentemente dal contesto territoriale nel quale si collocano, intendendo il territorio come una “variabile esogena” al processo di sviluppo. In genere questi modelli considerano la regione come un’entità omogenea secondo il principio dell’uniformità di tutti gli elementi che la compongono. Nel caso dell’approccio “territoriale”, seguito dalla più recente letteratura in materia di sviluppo locale, al contrario, si attribuisce al territorio un ruolo attivo e in continua trasformazione. Secondo questa impostazione, gli ambiti locali assumono un ruolo fondamentale nel determinare le caratteristiche dello sviluppo. Il modello centro-periferia di Krugman (1995) e i cosiddetti modelli di rete (approccio distrettuale4, cluster industriali5, milieu innovateur6, approccio relazionale7, etc.) sono un esempio di suddetta impostazione. Essi danno un ruolo centrale al territorio inteso non solo come fattore fisico, ma di contesto più generale, nel quale le imprese, le Istituzioni, i cittadini, operano insieme per perseguire lo sviluppo. In definitiva, l’economia territoriale è considerata come un insieme di relazioni o stock di beni relazionali. L’ottica è quella di integrare le relazioni tra imprese nelle loro principali accezioni con i luoghi dove tali relazioni si formano e si sviluppano, avendo questi ultimi una nuova centralità in un contesto sempre più globalizzato; in quanto, i fenomeni delle delocalizzazioni produttive, l’internazionalizzazione delle imprese, le reti trasnazionali, hanno portato ad interpretare lo “spazio” non più come una sorgente di costo (si veda tutta la letteratura italiana in materia distrettuale – l’opera di Becattini e della scuola di Firenze o i contributi della letteratura internazionale, da Krugman, Fujita e Porter in poi) ma come un fattore di sviluppo, in un’ottica di gerarchia e di reti fra luoghi8. Il confronto e simbiosi tra scuole di pensiero simili – quella distrettualistica italiana e quella dei modelli core-periphery prevalentemente americana – hanno consentito di dare una base di teoria economica all’interpretazione dello sviluppo, con particolare riferimento ai tradizionali fattori d’agglomerazione produttiva legati alla situazione socio-istituzionale (scuola distrettualista) e alle sue determinanti tecnologico-economiche, quali economie di scala e costi di trasporto (Modelli core-periphery) che hanno interessato con diversa intensità le regioni del NEC9 ma anche quelle del nostro Mezzogiorno (Viesti, 2000 10). Il territorio, insieme alle tecnologie e alle organizzazioni, per dirla con Storper (1997), fa parte di una nuova “santa trinità” degli elementi cardine dell’economia regionale. Un paradigma eterodosso, elaborato negli anni settanta al fine di spiegare i fenome- 4 Tra gli altri: Becattini, (1989); Sabel, (1989), Sforzi (1990), Garofoli (1991). 5 Porter (1990): nel suo libro “The competitive Advantage of Nations” afferma testualmente: “l’unità elementare di analisi per capire il vantaggio nazionale è il settore industriale. Le nazioni hanno successo non per settori industriali, però, ma in aggregati o cluster (grappoli) di settori industriali, connessi da relazioni verticali e orizzontali”. 6 Tra gli altri: Aydalot, (1986); Maillat and Perrin (1992). 7 Tra gli altri: Lorenzoni (1990); Lipparini (1995). 8 Per una rassegna aggiornata sul dibattito economico: Istituto Tagliacarne, Impresa e Territorio (a cura di G. Garofoli), Il Mulino, 2003. 9 Con questa divisione si indicano le regioni italiane del Nord Est e del Centro. 10 Viesti G. (2000), Come nascono i distretti industriali, Laterza; Viesti G. (a cura di), Mezzogiorno dei distretti, Meridiana Libri. Giuseppe Capuano 22 ni di deindustrializzazione nelle regioni di antica industrializzazione e successivamente maturato a cavallo degli anni ottanta e novanta, quando si è cercato di interpretare i fenomeni di rinascita delle economie regionali. Il quadro teorico che ne consegue, potrebbe essere giudicato, però, insufficiente o parziale nello spiegare le dinamiche di sviluppo locale in un contesto di globalizzazione dell’economia che ha evidenziato l’importanza della dimensione sovranazionale dei fenomeni economici. Ciò pone al centro del dibattito economico alcuni quesiti di estremo interesse: un primo interrogativo è se un simile processo possa portare alla convergenza dei percorsi di sviluppo regionale. Un secondo si riferisce al ruolo del territorio nei modelli di sviluppo locale e se esso continui ad avere quella centralità che ha assunto fin dagli anni sessanta. Sul primo punto alcuni economisti non hanno dubbi: se negli anni trenta si riteneva la tecnologia capace di favorire una maggiore convergenza, oggi questo ruolo lo ha assunto la concorrenza, grazie all’intensificazione delle relazioni internazionali tra soggetti economici e all’elevata mobilità dei fattori produttivi. Quindi, seguendo uno schema teorico tipico della scuola marginalista, i citati elementi determinano una convergenza nei livelli di produttività e più in generale dei prezzi. Altri, al contrario, sono concordi nel ritenere che la globalizzazione, se favorisce alcune economie regionali deprime altre, determinando una accentuazione degli squilibri regionali non solo tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche all’interno dei primi. Un’ampia letteratura in materia, afferma, ad esempio, che l’introduzione della moneta unica nell’Unione europea accentuerà nel tempo i divari regionali. Ciò avverrà a causa di un processo di spostamento dei capitali da regioni meno concorrenziali verso regioni più produttive, con l’effetto di determinare concentrazioni di specializzazioni produttive a tutto favore delle regioni più ricche rispetto a quelle più povere e conseguente aumento dei divari occupazionali e di reddito a tutto favore delle prime (Krugman, 1995; Capuano, 1998; Cencini, 1999). Rispetto al secondo quesito, un filone di pensiero sostiene che, dagli anni novanta, si stia verificando una costante perdita di centralità da parte del territorio come fattore di sviluppo. L’internazionalizzazione dei mercati finanziari, gli effetti determinati dall’introduzione dell’euro finalizzata al completamento di un reale mercato unico europeo, l’armonizzazione delle politiche economiche (aspetto macro) e l’affermarsi di processi di delocalizzazione produttiva (aspetto micro) partiti soprattutto da quelle latitudini dove il territorio aveva un importante ruolo nei modelli di sviluppo locale (si veda ad esempio cosa è successo nei distretti industriali del Nord Est o dell’Emilia - Romagna) sarebbero solo alcuni esempi di un processo in atto e dell’irrilevanza dei fattori legati al territorio. Dunque, i processi di crescita stanno dando vita ad una “a - territorialità” dello sviluppo, proprio nel momento in cui le politiche regionali, in particolare nelle aree più deboli del paese, sono sempre più pensate e gestite a livello locale ma condizionate in maniera crescente da dinamiche macroeconomiche e da centri decisionali che spesso sono fuori regione se non addirittura fuori del paese interessato. Al contrario, altri autori sono più cauti nel giungere a conclusioni su di un processo che tutto può dirsi tranne che concluso e ritengono che la globalizzazione, grazie ad una crescente capacità dei territori di attrarre conoscenza e innovazione, potrà coincidere con le esigenze della domanda locale (Favaretto, 2000). Su questa posizione, pur riconoscendo l’importanza di riconsiderare il ruolo del territorio nei modelli di sviluppo locale, si collocano i “neolocalisti”11 tra i quali si inserisce la scuola di pensiero dell’Istituto Tagliacarne a cui appartiene l’Autore. In conclusione, la risposta che proviene dalla rivisitazione delle principali correnti di pensiero che da Marshall ai nostri giorni hanno dato importanza al concetto di economia e sviluppo locale e da alcune analisi originali proposte dall’Autore nei capitoli di questo libro è la seguente: la teoria economica moderna, al fine di determinare i suoi modelli interpretativi, non può prescindere dal ruolo ricoperto dal livello mesoeconomico (livello intermedio) 12 come luogo di formazione dei meccanismi di trasmissione e di mediazione economica tra i mercati nazionali dei beni reali e della moneta e le scelte di politica economica (livello macro) da un lato, e la singola impresa e più in generale dei soggetti economici (livello micro) dall’altro. 1.2 Il livello mesoeconomico tra macro e microeconomia Il livello mesoeconomico solo di recente ha assunto rilevanza nel dibattito economico come variabile analitica all’interno dei processi economici e dello sviluppo locale. Dalla Fig.1 di pag.15, in cui si è fatto un tentativo di organizzare le principali teorie e modelli di sviluppo regionale a seconda di come questi considerano il ruolo del territorio nella formazione della catena del valore, è evidente come per molto tempo gli economisti ne hanno sottovalutato il significato e, solo negli anni più recenti, la logica territoriale e la differenziazione nei percorsi di sviluppo (gli “n” modelli di sviluppo locale Il concetto di territorio nell’economia regionale I fattori dello sviluppo regionale 11 In Italia, uno dei riferimenti culturali di questa corrente di pensiero economico è sicuramente l’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRE). 12 Il termine mesoeconomico o mesoeconomia ancora non è presente nei dizionari dei termini economici. Il primo elemento della parola, meso, deriva dalla parola greca mésos che significa medio. A tal fine, in questa sede, si cercherà di fornire un contributo definitorio che certamente non ha pretese di completezza. Giuseppe Capuano 24 determinati dalle specifiche caratteristiche produttive e dal differente peso dei settori nella formazione del PIL) è stata accettata dalla comunità scientifica. Secondo i teorici del localismo, lo sviluppo locale è fortemente condizionato dai comportamenti degli attori locali dello sviluppo, dal contesto istituzionale locale e soprattutto dall’esistenza di relazioni, formali e informali, tra imprese. A tal proposito, è d’estrema importanza tutta l’ampia letteratura sui distretti industriali che ha le sue radici nel pensiero dell’economista inglese Alfred Marshall e al suo esplicito riferimento alle economie esterne all’impresa (Becattini, 1989). Il territorio, come visto in precedenza, è considerato come un fattore della produzione e dello sviluppo alla stessa stregua del lavoro e del capitale ma non nel senso fisico del termine (si pensi al fattore “terra” nella teoria classica), quanto come luogo dove gli attori locali dello sviluppo (imprese, Istituzioni, cittadini, etc.) organizzano la “produzione”. A tal proposito, noi riteniamo che esiste una curva di domanda e offerta quante sono le realtà territoriali che per convenzione individuiamo nella ripartizione amministrativa della provincia, con un Prodotto Interno Lordo del territorio (Yter) che si fonda sui consumi dei suoi abitanti (Cter); sugli investimenti, sia pubblici (Gter), realizzati dagli Enti locali e/o direttamente dallo Stato centrale, sia privati (Iter), determinati dal tessuto di imprese ivi localizzate; su di una autonoma attività di esportazioni/importazioni (Eter – Mter); l’insieme di questi elementi contribuisce alla formazione del reddito dei suoi abitanti partecipanti alla produzione del territorio e alla loro propensione al risparmio. Formalmente potremmo così definire l’equazione: Yter = Cter + Iter + Gter + Eter – Mter 13 Il problema di ricavare una macroeconomia dall’analisi microeconomica si è posto sia per la nuova macroeconomia classica che la nuova scuola keynesiana. La prima, partendo dall’indirizzo teorico walrasiano, la seconda dalla teoria dei mercati imperfetti. Assistiamo, quindi, alla creazione di un passaggio intermedio (il livello “mesoeconomico”) nella creazione della ricchezza di un Paese, che si inserisce nella formazione della “catena del valore” e concorre a determinare le relazioni e i comportamenti esistenti tra singoli soggetti economici (il livello “microeconomico”) e le variabili economiche aggregate (il livello macroeconomico). Quindi, se è vero che la ricerca economica negli ultimi venti anni ha concentrato i suoi sforzi nel fornire i fondamenti microeconomici alla macroeconomia13, un nuovo filone di ricerca è nato per fornire i “mesofondamenti” sia alla macro che alla microeconomia. La conseguenza di un simile ragionamento, è la seguente: l’efficacia della politica economica di un Paese (politica monetaria restrittiva/espansiva, politica di I fattori dello sviluppo regionale In base a questi principi, anche se i processi di globalizzazione ne sfumeranno i confini e ridurranno d’importanza gli elementi di contiguità territoriale (il concetto di “meta distretto14” o i processi di delocalizzazione conosciuti dai distretti industriali ne costituiscono solo un esempio), non cancelleranno il territorio come fattore caratterizzante lo sviluppo endogeno di una determinata area. Lo sviluppo basato su fattori endogeni, quindi, individua un nuovo ruolo del territorio: non più importante per le sole risorse di cui è dotato (risorse naturali, lavoro, etc.) e come mero luogo di produzione (ciò rappresenta la vecchia concezione dei distretti) ma soprattutto come luogo dell’attività di ideazione e progettazione imprenditoriale (la risposta alla concorrenza dei Paesi di nuova industrializzazione come la Cina). Un nuovo posizionamento competitivo basato sulla capacità innovativa dei sistemi locali trainata da fattori materiali e immateriali (ambiente, servizi, infrastrutture, etc.) ivi localizzati. In ogni caso, la ricerca della crescita non sempre è risultata convergente tra regioni con livelli di sviluppo di partenza differenti (come d’altronde vorrebbe la teoria neoclassica della convergenza) ne ha avuto una diffusione sul territorio, secondo dei sentieri della crescita equilibrata o di steady state. Anzi, lo sviluppo è comunque per sua stessa natura dirompente e squilibrato, con fasi che spesso rappresentano dei momenti di rottura con i passati tassi e processi di crescita di una realtà e spesso rompono equilibri, semmai in economia ve ne fosse esistito uno. Un esempio di sviluppo squilibrato è quello trainato dalle esportazioni secondo la teoria della base economica e delle esportazioni e crescita cumulativa. A differenza dei modelli neoclassici dove la crescita è esclusivamente fondata sulle risorse locali (approccio valido per insiemi economici di grandi dimensioni), lo sviluppo (in particolare per regioni di piccole dimensioni) secondo queste teorie è determinato da fattori esogeni quali la domanda di esportazioni. Da un punto di vista empirico, come si vedrà successivamente, alcuni riscontri di queste teorie li ritroviamo nel modello di sviluppo perseguito nel cosiddetto “triangolo industriale italiano” durante gli anni sessanta-settanta. I percorsi di sviluppo regionali sono stati da sempre il risultato di una contrapposizione tra territori, tra centro e periferia, di egemonia economica di una regione Il concetto di territorio nell’economia regionale bilancio, politica dei redditi, etc.) dipenderà da come il livello mesoeconomico reagirà agli input esogeni, sia in termini temporali (immediati al tempo t, ritardati al tempo t + 1) che di trend (reazione dello stesso o differente segno). Nei casi estremi, gli interventi di politica economica potrebbero risultare “neutrali” o addirittura controproducenti per la singola economia locale. 14 Per “meta distretto” si intendono le aree tematiche di intervento di tipo orizzontale, non limitate da un territorio omogeneo e determinate sulla base dell’integrazione intersettoriale dei sistemi produttivi delle diverse sotto aree che li compongono. In altri termini, si tratta di aree non necessariamente caratterizzate da contiguità fisica, che sono assemblate sulla base dell’intensità dei legami di filiera dei sistemi produttivi che vi insistono. Attualmente questo principio è stato utilizzato dalla Regione Lombardia per l’individuazione dei distretti industriali della regione. Giuseppe Capuano 26 15 A questo proposito sul concetto di regione si veda Boudeville (1966) e Meyer (1963) e più di recente Markusen (1987). rispetto ad altre e all’interno delle stesse tra aree con caratteristiche diverse e livelli di reddito diversi. La teoria della causazione circolare cumulativa (il processo di sviluppo regionale tende a divergere piuttosto che a convergere), il modello del filtering down (l’esistenza gerarchica di aree urbane, dove diversi livelli di offerta di economie esterne portano a fenomeni di concentrazione/decentramento tra aree) o il modello del polo di sviluppo (attraverso le economie esterne l’industria motrice genera un effetto cumulativo e moltiplicativo concentrato nello spazio; modello perseguito in alcune realtà del nostro Mezzogiorno attraverso l’intervento straordinario degli anni cinquanta, sessanta), sono solo degli esempi di teorie che seguono un “approccio ineguale allo sviluppo” (per una rassegna più completa delle teorie dello sviluppo si rimanda al Cap. 2 del libro). Di conseguenza, in un contesto regionale dove è evidente che la realtà economica è formata da numerosi percorsi di sviluppo locale (a questo proposito il caso italiano è emblematico), è più coerente parlare di come gestire lo sviluppo che non quello di ridurre gli squilibri. Infatti, a nostro avviso, le traiettorie dello sviluppo locale dovrebbero essere lette in termini trasversali ai territori uscendo da un “localismo estremo” ed in una logica non strettamente settoriale ma di filiera. Da ciò ne consegue che la logica di perseguire politiche di sviluppo locale come strumento per ridurre le distanze tra gruppi di regioni forti e gruppi di regioni deboli, secondo un approccio di automatico susseguirsi di fasi di crescita, deve essere necessariamente superata. Nel Cap. 3 di questo libro si è, infatti, sostenuto che le province italiane hanno da tempo abbandonato dei processi di convergenza lineare, ma hanno perseguito negli anni novanta un sentiero di crescita che potremmo definire di “convergenza non lineare” dove le distanze in termini di PIL pro capite seguono un percorso di tipo “sinusoidale”. Questa visione è in antitesi rispetto all’approccio di sviluppo equilibrato perseguito dal modello neoclassico il quale teorizza l’annullamento delle disparità esistenti tra le regioni nel lungo periodo, in cui la convergenza dei livelli di sviluppo è certa e non esistono rapporti di dominanza e di dipendenza tra le regioni. In conclusione, tuttavia, nonostante gli studi realizzati in anni recenti sia a livello empirico che teorico, e l’interessante evoluzione e affinamento della base teorica di riferimento, incontriamo ancora difficoltà a parlare «con piena dignità scientifica di una dimensione locale della crescita economica» (Bramanti, Maggioni, 1995). E’ noto come sono ancora presenti, e solo parzialmente superate, le problematiche che si incontrano nel definire lo stesso concetto di regione economica15 essendo tutte le definizioni parziali e/o insufficienti e soprattutto riferite ad unità territoriali troppo estese o spesso ina- deguate per una corretta analisi statistico-economica del territorio e delle sue traiettorie di sviluppo. Ciò è stato possibile soprattutto per l’assenza di fondamenti mesoeconomici della teoria dello sviluppo regionale che ha impedito un collegamento organico e funzionale tra le teorie macroeconomiche e la tradizionale scuola di pensiero neoclassica legata ai comportamenti di singoli soggetti economici. Figura 1 - Territorio e modelli di sviluppo regionale Logica funzionale Modelli di sviluppo equilibrato (regione omogenearuolo passivo del territorio) Logica territoriale (ruolo attivo del territorio) • L’approccio neoclassico (ad un settore e a due settori) • L’approccio dello sviluppo per tappe 27 • Teoria weberiana della localizzazione • Teoria delle zone centrali (Christaller, Loesch e Isard) • Base esportazioni Modelli di sviluppo squilibrato Il concetto di territorio nell’economia regionale I fattori dello sviluppo regionale • Il modello di Richardson • Modello centro/periferia di Krugman • Causazione circolare cumulativa • Modelli di network: - approccio distrettuale - approccio del milieu innovativo - approccio relazionale • Il modello Kaldor/Dixon/Thirlwall • I modelli del polo di sviluppo • La teoria del filtering-down ed il ciclo di vita del prodotto • Modello di sviluppo non lineare Giuseppe Capuano Figura 2 - Esempi di modelli di sviluppo in Italia dal 1960 ad oggi 28 I fattori dello sviluppo regionale Modello grande impresa Quota occupati GI nell’area 15,1% Quota occupati GI media Italia 12,1% Quota pil industria nell’area 37,1% Quota pil terziario nell’area 85,0% Quota pil industria media Italia 30,6% Quota pil terziario media Italia 68,5% Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT Modello località centrali Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne Modello distrettuale Quota occupati PMI nell’area 91,6% Quota occupati PMI media Italia 87,9% Quota export sul totale nell’area 39,3% Quota export sul totale non area 60,7% Fonte: elaborazione propria su dati Istituto ISTAT Il concetto di territorio nell’economia regionale Figura 3 - Alcuni modelli di sviluppo in cifre Modello monocentrico Il 10-15% dei comuni concentrano circa il 65-70% dell’occupazione e della ricchezza prodotta Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT Modello agro-alimentare Quota pil agricolo sul totale nell’area 8,7% Quota pil agricolo sul totale media Italia 3,3% Quota export agro-alimentare nell’area 9,5% Quota export agro-alimentare media Italia 6,5% Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT 29 CAPITOLO 2 Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I n questa parte del lavoro si esporranno, in forma schematica e a scopo meramente didattico senza avere la pretesa di dare una esaustiva panoramica della vasta letteratura, le principali teorie dello sviluppo regionale, rimandando a manuali e testi originali per gli eventuali e necessari approfondimenti. Come Armstrong e Taylor (1985, testo preso a riferimento di questo capitolo) autorevolmente affermano nel loro manuale, sulle cause che determinano la crescita economica non c’è assoluto accordo tra gli economisti. Se alcuni seguono il sentiero tracciato dai neoclassici, dando un ruolo da protagonista nel processo di crescita ai fattori dal lato dell’offerta (offerta di lavoro, stock di capitale, progresso tecnico, etc.), altri prediligono, secondo l’insegnamento keynesiano, il ruolo svolto dai fattori della domanda. Altri ancora individuano nelle dinamiche degli scambi internazionali un importante determinante della crescita. Queste tre famiglie di filoni di analisi non danno particolare importanza allo spazio, cosa che invece, pur in un contesto teorico marginalista, è rilevante nelle teorie della localizzazione e nei modelli di rete. 33 Giuseppe Capuano 2.1 Il modello neoclassico16 34 Come è noto in letteratura, la funzione di produzione aggregata rappresenta uno dei punti di riferimento della teoria neoclassica17 della crescita. In un contesto economico dove il progresso tecnico non esiste, la produzione deve la sua esistenza a due fattori, il capitale e il lavoro: Qt = F (Kt, Lt) dove: Qt è la produzione al tempo t, Kt è lo stock di capitale al tempo t e L è la forza lavoro al tempo t. Dato il livello dell’offerta del capitale e di lavoro, il tasso di crescita della produzione è espresso come funzione dei tassi di crescita del capitale e del lavoro in un contesto di rendimenti costanti e di concorrenza perfetta, si può esprimere il seguente semplice modello di crescita: 16 Il modello neoclassico della crescita presenta una prima ipotesi ad un settore (molto semplificatrice della realtà), e una ipotesi a due settori (più realistica). Considerate le finalità del nostro testo considereremo solo l’ipotesi più semplice. 17 Essa indica nel linguaggio corrente la “teoria economica marginalista”. Il termine fu coniato dal sociologo e economista Th. Veblen. dove: rappresenta la crescita della produzione, quella dello stock di capitale e quella della forza lavoro. Le costanti α e 1 - α rappresentano, rispettivamente, il contributo degli input di capitale e di lavoro alla produzione globale. Questa equazione mostra come il prodotto per addetto possa aumentare soltanto se la crescita del capitale eccede quella dell’offerta di lavoro. Figura 4 - Prodotto per addetto e rapporto capitale / lavoro Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 35 Nota: Se la F(K,L) è una funzione omogenea di primo grado Q=F(K,L) implica Q/L=F(K/L). La più nota e utilizzata funzione della produzione è quella proposta originariamente nel 1928 dall’economista P.H. Douglas e dal matematico C.W.Cobb (funzione di Cobb-Douglas), che grazie alle sue numerose proprietà formali viene spesso utilizzata nei modelli di crescita.Tra queste citiamo i rendimenti di scala costanti, i prodotti marginali crescenti di entrambi i fattori e l’elasticità di sostituzione tra i fattori costante e uguale a uno. Essa è una funzione del tipo rappresentato nella Fig.4. Approfondendo l’analisi si giunge alle seguenti conclusioni: il prodotto per addetto aumenta con l’aumentare del capitale pro capite a disposizione dei lavoratori (processo noto come capital deepening). Inoltre, in assenza di progresso tecnico, il processo non può andare all’infinito in quanto il capitale - come del resto anche il lavoro - è caratterizzato da rendimenti marginali decrescenti. Di conseguenza Q/L aumenterà ad un tasso decrescente come si evince dalla Fig. 4. Giuseppe Capuano 36 Il modello neoclassico può essere reso più realistico se consideriamo anche l’esistenza del progresso tecnico. L’effetto “progresso tecnico” consentirà di spostare verso l’alto la funzione della produzione per addetto, e dato il livello del rapporto capitale/lavoro si avrà un aumento del prodotto per addetto rispetto ad una situazione in assenza di progresso tecnico (Fig. 5). Figura 5 – L’effetto del progresso tecnico sul prodotto per addetto Di conseguenza l’equazione della crescita con progresso tecnico sarà la seguente: dove: è il progresso tecnico. In conclusione, secondo il modello neoclassico i differenziali di crescita del prodotto per addetto e, quindi, del tasso di crescita delle regioni, sono dovuti sostanzialmente ai differenziali di crescita del rapporto capitale/lavoro e del progresso tecnico (esogeno). Si giunge, quindi, a dimostrare che il tasso di crescita della produzione (secondo un processo che coinvolge i salari le cui variazioni sono date dagli squilibri domanda/offerta) tende ad eguagliare il tasso di crescita dell’offerta di lavoro e quello del progresso tecnico. Essendo le due grandezze considerate costanti, il modello neoclassico porta alla conclusione che il livello del reddito, quando tale eguaglianza è verificata, si trova in un sentiero di steady state18 e, se ciò non si verifica, converge verso di esso. Una versione più forte della teoria esclude anche la necessità della presenza di uno squilibrio sul mercato del lavoro per avere una convergenza verso la steady state, anzi presuppone l’esistenza di un perfetto equilibrio. Dal dibattito scaturito dai risultati di ricerche empiriche è stato evidente, in ogni modo, come non vi sono prove di processi diffusi di convergenza tra le economie regionali. Questa evidenza è in netta contraddizione, come visto in precedenza, rispetto a quanto teorizzato dai neoclassici. Al fine di superare le difficoltà create alla scuola neoclassica, durante gli anni ottanta è nata la “teoria della crescita endogena”19. Secondo i neoclassici gli elementi fondamentali della convergenza sono due: progresso tecnico esogenamente dato e la produttività marginale decrescente del capitale, in connessione con una funzione di produzione con rendimenti costanti di scala. I teorici della crescita endogena affrontano i problemi connessi alle difficoltà di verificare la convergenza, seguendo principalmente due strade che possono essere combinate oppure no: Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 18 Nell’analisi economica lo stato stazionario rappresenta una condizione ideale del sistema economico caratterizzata da un prodotto netto costante, invariabilità dei processi produttivi e assenza di accumulazione e di crescita. Già Carl Marx nel Capitale e gli economisti classici (in particolare Davide Ricardo), si rifecero a questo principio nelle loro formulazioni teoriche. 19 Per un approfondimento sulla teoria della crescita endogena, tra gli altri: Boggio, L. e Serravalli, G. (1999); Solow M. R., (1994). ❏ il progresso tecnico da esogeno diventa endogeno; ❏ il concetto di capitale si allarga, considerandolo un fattore riproducibile, e quindi eliminando il concetto della sua produttività marginale decrescente. La teoria, quindi, recupera il concetto di rendimenti crescenti di scala che già altri, da Adams Smith a Alfred Marshall a Nicolas Kaldor, avevano teorizzato e utilizzato nelle loro analisi. Un approccio, in ogni modo, da sempre inviso ai neoclassici perché mal si conciliava con il principio di concorrenza perfetta e più in generale con la loro teoria dei prezzi. In questi modelli, la crescita della produttività non ha più origine da un progresso tecnico endogeno, ma dallo stato interno delle tecnologie utilizzate e dall’organizzazio- Giuseppe Capuano 38 ne dell’impresa. Situazioni che il modello neoclassico o aveva trascurato o considerato eccezionali. Altra spiegazione della riduzione degli squilibri regionali, sempre nel mondo neoclassico, è costituita dai movimenti interregionali dei fattori della produzione verso i territori dove i rendimenti sono più elevati: il lavoro si sposterà verso realtà dove i salari sono più elevati e il capitale dove i rendimenti sono maggiori. Nei modelli neoclassici della crescita il livello dei salari sarà alto nelle regioni dove è elevato il rapporto capitale/lavoro, e quindi il rendimento netto sull’investimento in capitali sarà basso. La principale conseguenza è che i fattori della produzione si muoveranno in direzione opposte: afflusso di lavoro e deflusso di capitali nelle regioni ad alti salari; il contrario nelle regioni a salari bassi, dove si registrerà un maggiore afflusso di capitale. Questo aspetto introduce un argomento di estrema attualità che associa il modello neoclassico con gli effetti del commercio internazionale sulla crescita. 2.1.1 Modello neoclassico e commercio internazionale: il caso delle delocalizzazioni produttive Il teorema del pareggiamento dei prezzi dei fattori, affermando che il libero commercio tenderà a parificare i prezzi dei fattori nelle varie regioni smentisce, almeno parzialmente, quanto assunto dalla teoria neoclassica. La relazione tra commercio e prezzi dei fattori regionali è importante. In ciascuna regione, la specializzazione della produzione per l’esportazione provoca un aumento effettivo della domanda derivata per i fattori in precedenza abbondanti, diminuendo, allo stesso tempo, quella per i fattori scarsi. Come risultato, le differenze interregionali nei prezzi dei fattori - anche in assenza di spostamenti dei fattori stessi - tenderanno a ridursi, ed “il commercio funziona, quindi, come perfetto sostituito della mobilità fattoriale, poiché esso implica il pareggiamento dei prezzi dei fattori anche in condizioni di immobilità dei fattori della produzione” (Krauss e Johnson, 1974). Osservando questo fenomeno da una prospettiva leggermente diversa, una regione con una abbondante dotazione di lavoro e bassi salari, esporta lavoro sostanzialmente in due modi: direttamente, tramite il deflusso di questo fattore, ed indirettamente, sotto forma di servizi lavorativi incorporati nei beni nella cui esportazione si è specializzata la regione. Il commercio, quindi, agisce come sostituto degli spostamenti, consentendo alle regioni di utilizzare intensivamente il loro fattore relativamente più abbondante. Ciò porta a due diversi tipi di beneficio. In primo luogo, i prezzi dei fattori vengono pareggiati in tutte le regioni. In secondo luogo, l’economia nel suo insieme se ne avvantaggia, poiché commercio e specializzazione sono più efficienti dell’autarchia, e tutte le regioni ne trarranno beneficio. Se questo approccio è realistico, i processi di delocalizzazione di fasi o dell’intera produzione da regioni di paesi relativamente ricchi (si veda ad esempio il caso del Veneto o dell’Emilia Romagna) in regioni di paesi relativamente poveri (si veda ad esempio le localizzazioni produttive presenti a Timisoara in Romania da parte di imprese trevigiane) sono dettati da una strategia di breve-medio periodo che sarà probabilmente sconfessata nel lungo periodo. Questo perchè l’introduzione materiale dell’euro, ha eliminato le frontiere tra economia internazionale ed economia regionale nell’Unione europea e nel medio-lungo periodo, l’integrazione europea riduce le differenze in termini di salari tra le regioni, enfatizza le specializzazioni produttive locali e i rendimenti crescenti dei fattori della produzione e cambierà la nozione di “spazio”, da non intendersi più come dizione limitata al territorio dove è localizzata l’azienda (le imprese si deterritorializzano), ma come ambiente economico più vasto, a volte sovranazionale, da cui deriveranno la crescita sostenuta e la determinazione del ciclo economico di un’area. Ne scaturisce un modello di sviluppo europeo con una componente di internazionalizzazione maggiore.Tale componente è centrata non soltanto sul miglioramento della propensione all’esportazione delle singole regioni, ma su una serena consapevolezza dell’esistenza di una incipiente attività di delocalizzazioni di parti di “distretto” o di fasi di produzioni aziendali di imprese non distrettuali, da aree più sviluppate o comunque a sviluppo industriale avanzato, verso realtà dell’Est Europa a più bassi salari. Da un punto di vista teorico, la “fase di delocalizzazione” potrebbe essere collocata, in relazione al distretto, come successiva alla “fase di maturità” nel ciclo di vita del distretto marshalliano20. Questi avvenimenti hanno anche cambiato l’approccio teorico di riferimento utile a spiegare il perchè degli scambi internazionali (ormai regionali) in Europa, rendendo superato il modello ricardiano dei vantaggi comparati (al centro dell’analisi sono poste le differenze di produttività del lavoro e quindi dei salari) e, più in generale, l’approccio neoclassico. Molto spesso l’esplorazione dei mercati esteri attraverso le esportazioni ha rappresentato per le imprese italiane una prima fase dell’approccio ai nuovi mercati, che successivamente si è sviluppata, in alcuni casi, in investimenti diretti all’estero o in varie iniziative di internazionalizzazione. Infatti, se dai primi anni novanta si è assistito, da un lato, ad un brusco rallentamento della crescita multinazionale dell’industria italiana, dall’altro, Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 39 20 Per “distretto marshalliano” si intende la capacità di un territorio di coniugare economia e società nell’ambito di un ambiente caratterizzato da processi di agglomerazione di imprese, spesso di piccole e medie dimensioni, con specializzazione monosettoriale, nel quale hanno un ruolo importante le economie esterne o più in generale le esternalità. Giuseppe Capuano 40 21 Essa è anche chiamata “traffico di perfezionamento passivo”, in quanto le imprese grazie allo sfruttamento di un particolare regime di tariffe doganali, trasferiscono fasi di produzione all’estero, reimportando i semilavorati, rifinendo il prodotto in Italia. è andato aumentando il numero di investitori italiani all’estero secondo un processo delocalizzativo. In particolare, il processo di internazionalizzazione produttiva ha riguardato sempre più le PMI, polarizzandosi verso i settori con maggiori vantaggi competitivi (tessile, abbigliamento, cuoio, pelletteria, calzature e prodotti in legno), la meccanica strumentale e l’alta tecnologia. Il sistema produttivo italiano inserito in questo scenario dinamico, deve essere pronto a conquistare nuovi mercati e ad accrescere la propria competitività anche attraverso una riorganizzazione della catena del valore sul territorio. La crescente tendenza all’innovazione e l’evoluzione della società dell’informazione, ha consentito anche al sistema di piccole e medie imprese di rispondere ai cambiamenti imposti dalla globalizzazione, sfruttando le opportunità legate alla presenza diretta all’estero e all’ampliamento delle potenzialità produttive e commerciali che da essa scaturiscono. In generale, la delocalizzazione della filiera produttiva può conseguire i suoi obiettivi attraverso joint venture, accordi di fornitura di lungo periodo21 e acquisizioni o creazione in loco di unità produttive. Quest’ultima tipologia di IDE si può definire “labour (resource) seeking”. Se quanto detto è vero, e comunque considerando la delocalizzazione di attività produttive una “normale” strategia aziendale da non demonizzare e comunque perseguita da tempo dai grandi gruppi industriali italiani, va fatta qualche precisazione. Il problema della competitività del tessuto produttivo locale e/o del distretto, trova solo parziale soluzione con delocalizzazioni che hanno queste caratteristiche, in quanto non sempre a bassi salari corrispondono livelli di produttività soddisfacenti (in genere, in paesi a bassi salari con livello di sviluppo inferiore, la produttività media è inferiore rispetto ai paesi economicamente più avanzati) ne è possibile ricreare e realizzare in loco tutte quelle attività e quel “microclima” tipico del territorio distrettuale di origine (ad esempio la creazione di network locali). In effetti, le scelte localizzative dovrebbero essere pensate in termini soprattutto di produttività complessiva dell’investimento realizzato e del potenziale mercato di sbocco, in quanto un’analisi costi-benefici centrata solo sul costo della manodopera può essere valida nel breve periodo ma presentarsi fallimentare in quello medio-lungo. Inoltre, la delocalizzazione comporta una riorganizzazione della “rete” nella nuova area prescelta, in quanto essa dovrà ricreare e realizzare in parte o in toto tutte quelle attività e quel “microclima” tipico del territorio distrettuale di origine. Alla luce di queste brevi considerazioni, si arriva alla conclusione che non per tutti i Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale settori merceologici la competitività può essere individuata prevalentemente nei costi relativi al fattore lavoro ne è possibile ricreare ovunque le medesime condizioni tipiche delle economie di agglomerazione presenti soprattutto in un distretto. Comunque, sembrerebbe che una simile strategia trovi la sua migliore applicazione nei settori labour intensive e/o con alta elasticità della domanda nei confronti del prezzo. In prospettiva, in ogni caso, anche per questi settori, in base al “teorema del pareggio dei prezzi dei fattori” dovuto al commercio interregionale, a nostro avviso lo scenario di riferimento cambierà. Infatti, il vantaggio assoluto dei livelli salariali nei Paesi dell’Est tenderà a ridursi/scomparire a causa di un aumento della domanda di manodopera dall’area comunitaria, dei movimenti dei lavoratori “in entrata” nell’Ue, e soprattutto grazie al graduale ingresso, dal 2004, di questi Paesi nell’Unione europea, che li costringerà a seguire una politica economica più vicina al dettato di Maastricht. A questo proposito l’esempio della Repubblica Ceca è emblematico, dove salari e costi di produzione, dal 2001, seguono un trend al rialzo, soprattutto nelle aziende a capitale straniero. Ciò che è avvenuto nella Repubblica Ceca è solo una incipiente fase di un processo piu’ complesso. In un primo momento si porrà in essere un modello dualistico dove i salari saranno più elevati nelle imprese a capitale straniero rivolte prevalentemente all’export; al contrario, i salari saranno più bassi nelle imprese locali proiettate soprattutto sul mercato domestico. Nel medio – lungo periodo, per un effetto “dimostrazione”, i salari del secondo gruppo di imprese tenderanno ad eguagliare il livello salariale del primo gruppo, con l’effetto di un generalizzato aumento del monte salari dell’economia.22 Questi processi e la loro gestione rappresenteranno una ulteriore sfida per le prospettive di crescita delle imprese a capacità produttiva in parte o totalmente delocalizzata e per avere successo, le iniziative imprenditoriali dovranno avere necessariamente una visione rivolta ai mercati di sbocco e non solo ad una mera ricerca di manodopera a basso costo. 41 2.2 Lo sviluppo esogeno trainato dalle esportazioni I modelli regionali di crescita basati sull’effetto trainante delle esportazioni (export-led growth) rifiutano le spiegazioni fornite dal modello neoclassico, dando una particolare importanza alle componenti della domanda secondo l’insegnamento keynesiano. Le evidenti carenze del modello neoclassico basato prettamente sui fattori dell’offerta e del pro- 22 Su questo argomento: A. Graziani (1979) (a cura di), L’economia italiana dal 1945 a oggi, il Mulino, Bologna, pag. 225 – 262. Giuseppe Capuano 42 gresso tecnico, sono colmate secondo questi economisti dal fatto che le regioni possono commerciare tra di loro e che proprio la differenza tra la propensione ad esportare di una regione rispetto ad un’altra determina i differenziali di crescita tra una realtà e l’altra. I modelli della base economica furono tra i primi modelli formali per la determinazione del reddito regionale collegati ad un settore di base che ha come principale mercato di sbocco le vendite ad altre regioni. Il reddito prodotto da questo settore, come si vedrà, secondo il modello, determinerà il reddito totale della regione che a sua volta condiziona l’andamento del reddito percepito dal settore non di base (proiettato sul mercato locale). Ampliando l’approccio potremmo individuare in questo modello uno dei primi a considerare le vendite extraregionali e quindi le esportazioni, un volano della crescita. A questo seguirono altri approcci come quello della “base delle esportazioni” che, partendo dal principio che lo stimolo iniziale allo sviluppo regionale può essere individuato nelle esportazioni di materie prime, fu esteso successivamente al commercio dei prodotti industriali. Molti limiti sono stati attribuiti a tali teorie in quanto l’influenza della domanda estera sulla crescita di una regione dipende da tanti altri fattori, sia dal lato della domanda (ad esempio il livello del reddito dei paesi/regioni importatrici) che dell’offerta (ad esempio tutti quei fattori che determinano la competitività di un regione sui mercati esteri). Un’interessante evoluzione di tali teorie fu dovuta prima a Kaldor (1970) e poi a Dixon e Thirlwall (1975) che collegarono le esportazioni regionali con il processo di causalità cumulativa. In pratica, il processo di crescita creato dalle esportazioni può generare un processo cumulativo. In particolare, secondo Kaldor la rapidità con la quale si determina la crescita della produzione pro capite di una regione viene spiegata soprattutto dalla capacità di quest’ultima di sfruttare le economie di scala e nei benefici dettati da una più intensa specializzazione, in particolare nel settore manifatturiero rispetto a specializzazioni “landbased” come l’agricoltura o il settore minerario. Le regioni con queste caratteristiche cresceranno più rapidamente secondo un processo di tipo cumulativo che le renderà più concorrenziali rispetto ad altre, rinforzando la propria specializzazione grazie all’espansione delle proprie esportazioni. Dixon e Thirlwall specificano quanto già intuito da Kaldor spiegando in modo rigoroso i meccanismi che determinano il processo di causazione cumulativa tenendo conto di un effetto di ritorno che lo sviluppo regionale ha sulla competitività e quindi dei volumi di prodotti esportati. Il circolo virtuoso che lega competitività-esportazioni-produzione-produttività-crescita permette agli autori di legare il proprio approccio a quello dettato dalla Legge di Verdoorn (1949) secondo la quale “la crescita della produttività è in parte determinata dalla crescita della produzione”. A tal proposito, un altro elemento può essere aggiunto al circolo virtuoso quale la densità di impresa, in quanto, a nostro avviso, la presenza di una fitta rete di unità produttive presenti sul territorio favorisce la capacità di esportare del sistema produttivo. Infatti, da una verifica empirica, incrociando il dato provinciale della propensione all’export con quello della densità di impresa, è evidente come le realtà che esportano di più in termini di PIL sono, spesso, anche quelle con i valori di impresa più elevati. Da un punto di vista macroeconomico, invece, ci sono alcune attinenze tra il modello di sviluppo in questione e quello seguito in Italia dalla seconda metà degli anni cinquanta. Infatti, l’Italia, ed in particolare le regioni del Nord Ovest (il cosiddetto “triangolo industriale”) secondo alcuni economisti (Ackley, 1961) ha conosciuto il boom economico nel periodo 1958-1963 grazie ad un meccanismo di questo genere. Inoltre, la relativa arretratezza di molte realtà del nostro Mezzogiorno, è addebitata proprio ad una bassa propensione all’export , come lo sviluppo di molti distretti industriali italiani è attribuito al dinamismo conosciuto dalla componente estera. Non è un caso che le realtà provinciali a maggiore presenza distrettuale sono anche quelle a più alta intensità di imprese, con una maggiore propensione ad esportare e, quindi, con un più elevato valore del PIL pro capite. In sintesi, partendo dall’assunto della causazione cumulativa, arricchendolo con nostre considerazioni, si potrebbe arrivare alla seguente conclusione dimostrata dai dati presenti nella tab. 1: la crescita della produttività è in parte determinata dalla crescita della produzione che beneficia degli effetti della componente estera della domanda aggregata. Quest’ultima è tanto più importante quanto maggiore è la presenza di uno spesso tessuto di impresa organizzato “in distretti” o comunque dove le relazioni sono fitte sul territorio. Il risultato è un tasso di crescita e un valore del PIL pro capite più elevato. Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 43 Giuseppe Capuano Tab. 1 - Graduatoria delle province italiane per grado di propensione all’export (2002) Pos 44 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 Prov. Propensione Vicenza Gorizia Prato Reggio E. Arezzo Pordenone Modena Chieti Treviso Siracusa Como Mantova Novara Vercelli Bergamo Biella Lecco Varese Lucca Verona Belluno Ancona Cuneo Milano Udine Bologna Parma Torino Brescia Frosinone Padova Rieti Pistoia Alessandria Massa Carrara 56,8 54,9 48,2 46,1 46,0 45,4 44,8 43,0 42,5 42,3 39,5 39,5 38,8 36,8 36,2 35,9 35,6 34,1 32,9 32,6 32,4 32,1 31,1 30,8 29,4 29,1 28,6 28,3 28,2 27,8 27,8 27,7 27,7 27,7 27,5 Pos 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 Prov. Propensione Ascoli Piceno Firenze Pesaro e Urbino Venezia Pisa Latina Pavia Macerata L’Aquila Forlì Terni Isernia Teramo Asti Ravenna Piacenza Ferrara Cremona Siena Trieste Potenza Lodi Trento Bolzano Rovigo Rimini Verbania Cagliari Bari Livorno Aosta Matera Savona Taranto Sondrio Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT 27,1 25,3 24,3 24,3 24,2 24,1 23,9 23,7 23,4 23,0 22,8 21,5 21,5 21,5 21,1 20,4 19,9 19,8 19,8 18,4 18,1 17,7 17,2 16,5 16,0 15,6 15,4 14,4 14,2 13,6 12,7 12,3 11,9 11,8 11,8 Pos 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Prov. Propensione Avellino Perugia Genova Napoli Brindisi Salerno Caserta Imperia Lecce La Spezia Caltanissetta Pescara Catania Roma Viterbo Campobasso Sassari Foggia Ragusa Grosseto Messina Trapani Palermo Oristano Benevento Nuoro Vibo Valentia Reggio Calabria Agrigento Crotone Cosenza Enna Catanzaro 11,7 11,7 11,3 11,3 10,6 10,1 9,2 8,4 7,9 7,8 7,8 7,6 6,4 6,4 5,9 5,7 4,5 4,5 4,1 4,0 3,9 3,6 2,8 2,3 2,1 2,1 2,1 1,5 1,4 1,3 0,8 0,7 0,6 ITALIA 22,5 IL MOLTIPLICATORE DELLA BASE ECONOMICA Al fine di ottenere il moltiplicatore della base economica si scompone il reddito totale della regione in due componenti: T=S+B dove: T = reddito regionale totale S = reddito percepito nel settore non di base (che “serve” la regione) B = reddito percepito nel settore di base S = sT Dove unendo le equazioni 1 e 2 otteniamo: T = (1 / 1 - s) * B Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale dove 1 / (1 - s) è il moltiplicatore della base economica ESPORTAZIONI E CRESCITA CUMULATIVA Il modello viene esposto formalmente attraverso quattro relazioni funzionali: 1) crescita del volume della produzione e crescita della produttività; 2) aumento dei costi di produzione e tasso di inflazione; 3) crescita delle esportazioni dipende dal tasso di inflazione dei prezzi della regione, dal tasso di inflazione dei principali concorrenti e dalla crescita mondiale; 4) crescita del volume della produzione con la crescita delle esportazioni. 1) dove: 45 Giuseppe Capuano 2) dove: 46 3) dove: η e σ rappresentano l’elasticità della domanda rispetto ai prezzi, e ε quella rispetto al reddito; 4) dove: Possiamo ottenere il tasso di equilibrio della crescita del volume della produzione sostituendo le equazioni 1, 2 e 3 nella 4, e risolvendo per . Questo ci dà: I fattori dello sviluppo regionale 2.3 La teoria di Heckscher-Ohlin Un paese ha un vantaggio comparato negli scambi internazionali nella produzione di quei prodotti per i quali, relativamente ad altri, ha una maggiore disponibilità di risorse produttive, in quanto il lavoro non è l’unico fattore della produzione. Una spiegazione, quest’ultima, più realistica dei processi economici che assegna anche ad altri fattori della produzione un ruolo da svolgere. Questo è il principio sul quale si basa la teoria sviluppata da Eli Heckscher nel 1919 e successivamente riproposta da Bertil Ohlin (1933)23 nota in letteratura come il teorema di Heckscher-Ohlin. Secondo i due economisti svedesi, il commercio internazionale è in larga misura determinato dalle differenze nelle dotazioni di risorse e poiché questa teoria mostra l’importanza dell’interazione tra le proporzioni in cui i fattori produttivi sono disponibili nelle diverse economie nazionali e la proporzione in cui essi sono utilizzati nei diversi settori, spesso si definisce come teoria della proporzione dei fattori. La teoria non solo perfeziona, mediante l’introduzione di altri fattori della produzione, come ad esempio il capitale, la spiegazione data da Ricardo alle cause del commercio internazionale24, ma tenta anche di dare una concisa esplicitazione delle cause del vantaggio comparato. Non è possibile applicare meccanicamente questa teoria per spiegare le cause del commercio interregionale, anche se essa, come vedremo, costituisce un importante punto di partenza per gli economisti che hanno intrapreso un percorso di verifica sia teorica che empirica. Dal momento che le regioni hanno relazioni commerciali con il resto del mondo, le variabili che influenzano i flussi commerciali internazionali sono evidentemente importanti anche per esse e quindi, le teorie che ne spiegano le cause, sono ragionevolmente applicabili, oltre alla componente internazionale del commercio, anche a quella interregionale di una regione. Il commercio interregionale è molto più libero per innumerevoli e intuibili motivi del commercio internazionale e le cause che ne determinano la specializzazione non sono certamente riconducibili ad una unica spiegazione. La versione più semplice del teorema di Heckscher-Ohlin afferma che esistono solo due fattori della produzione, il lavoro e il capitale. La causa di fondo del vantaggio comparato è data dalla dotazione iniziale di lavoro e capitale di ogni regione. Secondo questo ragionamento, una regione dotata della risorsa lavoro si specializzerà in prodotti labour intensive (ad esempio nel settore tessile) o viceversa, se dotata di capitale si specializzerà in attività capital intensive (ad esempio nella produzione dell’acciaio). 23 Ancora oggi questa teoria desta un forte interesse ed è una delle più importanti dell’economia internazionale. Essa da una visione complessa e articolata del commercio internazionale che contrasta con i modelli matematici più rigorosi e semplificati che la seguirono. 24 Secondo il modello ricardiano dei vantaggi comparati (David Ricardo (1817), Sui principi dell’economia politica e della tassazione) il lavoro è il solo fattore di produzione e il vantaggio comparato si può determinare solo per effetto di differenze internazionali nella produttività del lavoro. Queste ultime, pur importanti nello spiegare le cause del commercio internazionale, non sono esaustive in quanto, quest’ultimo, è anche determinato da differenze nella dotazione di risorse di ogni paese. Giuseppe Capuano 48 25 Il commercio regionale e lo spostamento dei fattori sono collegati tra loro anche per quanto prevede il teorema del pareggiamento dei prezzi dei fattori. A tal proposito si veda il par.2.1.1. L’ipotesi che esistono solo due fattori della produzione, oltre a non rispondere alla realtà, non corrisponde al lavoro iniziale di Heckscher-Ohlin, in quanto l’importanza delle risorse naturali per il processo produttivo è evidente. Inoltre, noi aggiungiamo anche il fattore ”territorio” inteso non solo come elemento fisico ma come l’insieme di attività, relazioni, come ambiente economico favorevole all’attività economica di una determinata regione. Esso influenza fortemente lo sviluppo di specializzazioni produttive di una determinata area. Una ulteriore ipotesi del teorema di Heckscher-Ohlin che deve essere abbandonata è quella relativa ai rendimenti costanti. A livello regionale tale ipotesi è estremamente irrealistica. Pur se non vi sono economie interne di impianto, da tempo si è riconosciuta l’esistenza di economie esterne e di agglomerazione che influenzano l’attività produttiva in alcune aree e ne favoriscono la localizzazione (ad esempio aree densamente popolate o a forte presenza di localizzazioni industriali). Un’altra importante ipotesi posta dal teorema di Heckscher-Ohlin riguarda l’assenza di mobilità fattoriale tra le varie regioni. Se l’aggiunta delle risorse naturali ai fattori capitale e lavoro ha migliorato il modello di base ed è comunque stata abbastanza agevole, abbandonare l’ipotesi di assenza di mobilità fattoriale in modo da rendere il modello più realistico non è altrettanto facile. Il fattore fondamentale che nel teorema determina il vantaggio comparato è l’abbondanza locale di lavoro o di capitale. Se questi ultimi possono essere alimentati da un afflusso dei fattori o ridotti da un loro deflusso, il risultato è che la teoria non può più prevedere quali sono i prodotti per i quali una regione mantiene un vantaggio comparato. Quindi, se i fattori possono circolare liberamente la teoria di Heckscher-Ohlin viene a cadere25. E proprio questa potrebbe essere la ragione per cui tale teoria non è riuscita a prevedere la specializzazione commerciale all’interno del Regno Unito (Smith,1975) oppure le specializzazioni produttive dei distretti italiani, dove la distanza tra una area e l’altra è relativamente piccola - se paragonata, ad esempio, con la situazione degli Usa. In conclusione, il semplice teorema a due fattori di Heckscher-Ohlin sostiene che il nocciolo della specializzazione regionale consiste nell’abbondanza locale di fattori. Le dettagliate verifiche empiriche condotte su questa teoria indicano che il teorema di Heckscher-Ohlin non fornisce, di per sé, una spiegazione adeguata. In considerazione di ciò, gli studiosi si sono rivolti allo sviluppo di spiegazioni alternative più radicali che esporremo in sintesi nel paragrafo successivo. 2.3.1 Verso il superamento del teorema di Heckscher-Ohlin Alcune versioni più complesse e articolate del teorema di Heckscher-Ohlin, soprattutto quelle che tengono conto delle risorse naturali e del capitale umano come fattori addizionali, possono sicuramente spiegare meglio il contesto economico nel quale vengono a formarsi le specializzazioni produttive delle regioni. Tali versioni, in ogni modo, non sono da sole sufficienti, in quanto una visione più completa delle dinamiche e le cause che caratterizzano il commercio interregionale richiede uno sforzo aggiuntivo che non sia il semplice abbandono di alcune delle ipotesi meno realistiche del teorema di Heckscher-Ohlin. In questa sede esamineremo brevemente cinque tesi alternative. Le prime due, ossia la teoria del divario tecnologico di Posner (1961) e la teoria del ciclo del prodotto di Vernon (1966), sono molto simili, in quanto entrambe evidenziano l’importanza del ruolo svolto dall’innovazione e dal progresso tecnico. Le spiegazioni che traggono origine dalla teoria della localizzazione industriale (terza teoria di Hay 1979; Harrigan 1982), poi, sono molto diverse dal teorema di HeckscherOhlin. Inoltre, esiste la possibilità che il commercio interregionale abbia le stesse peculiarità degli scambi “infrasettoriali” che caratterizzano il commercio internazionale (quarta teoria di Grubel e Lloyd 1973). Iniziamo con la teoria del divario tecnologico. Essa sostiene che “una regione in grado di dar vita ad un ampio flusso di nuovi prodotti ed innovazioni ne trarrà un vantaggio per la produzione dei prodotti stessi”. Vantaggio che non potrà essere permanente, anche se è possibile che ci sarà un ritardo temporale prima che le altre regioni possano produrre il medesimo prodotto. Nello stesso filone di pensiero della teoria del divario tecnologico si può collocare la teoria del ciclo del prodotto di Vernon. Comunque simile, ma non identica.Tale teoria sostiene che alcune regioni possono costituire, ad un certo stadio del ciclo di vita di un prodotto, la localizzazione migliore per la sua produzione, mentre in stadi successivi altre regioni potrebbero risultare preferibili. A tal proposito sono stati identificati tre stadi. Nel primo stadio, quello innovativo, è la regione che è più capace di fornire i necessari input di ricerca e sviluppo ad alto livello e di manodopera altamente specializzata che monopolizzerà la produzione; Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 49 Giuseppe Capuano Nel secondo stadio, il prodotto diviene più standardizzato, e si cominciano ad introdurre le tecniche di produzione di massa; 50 Nell’ultimo stadio, quello di maturazione, le regioni dove i salari sono più bassi e con abbondanza di manodopera semispecializzata, risultano avvantaggiate per la produzione di massa del prodotto ormai altamente standardizzato. Un terzo filone per la spiegazione della specializzazione del commercio regionale si basa sull’analisi della localizzazione industriale. Un’analisi particolarmente interessante, dato che pone in evidenza alcune variabili, trascurate dal teorema di Heckscher-Ohlin, che influenzano la specializzazione produttiva regionale. La teoria tradizionale della localizzazione, ad esempio, sostiene che l’insediamento delle attività industriali avverrà nei luoghi dove i costi di produzione sono minori (costi di trasporto, non presi in considerazione dal teorema di Heckscher-Ohlin, e della manodopera). I costi di localizzazione, inoltre, sono fortemente condizionati dalle economie esterne di scala e di agglomerazione. Anche in questo caso aspetti trascurati dal teorema di Heckscher-Ohlin, nonostante la loro potenziale importanza per la spiegazione della specializzazione regionale. Un quarto approccio è determinato dal fenomeno del commercio infrasettoriale che ha attirato negli ultimi anni molta attenzione. Le teorie del commercio internazionale finora esaminate, supponevano che ogni regione si concentrasse sui propri prodotti caratteristici, che esportavano in cambio di prodotti diversi. Cosa vera ma incompleta, in quanto, tra le regioni, riveste una notevole importanza anche il commercio infrasettoriale. Ultimo, ma non meno importante, è il commercio di beni intermedi. Spesso trascurato dalla ricerca a livello regionale. Le teorie della localizzazione partono dal principio che le economie regionali si specializzino in prodotti, e quindi, in tutti gli stadi della loro produzione. Ciò rappresenta una parte della realtà se consideriamo che anche la specializzazione per stadi di produzione è molto diffusa. Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 2.4 L’approccio input-output nei modelli di economia regionale26 La predisposizione di una particolareggiata analisi dei legami input-output (tra settori produttivi) esistenti all’interno di una regione rappresenta uno strumento alternativo alla costruzione di modelli di economie regionali. L’approccio input-output è stato sviluppato da Leontief negli anni ‘30, con notevole successo applicativo, inclusa l’analisi dell’impatto regionale. La rete di legami “input-output” presenti in una economia (regionale/nazionale) può essere formalizzata e costituire una chiara fotografia mediante la costruzione di una Tavola delle transazioni (o matrice dei flussi). In essa si registrano le connessioni tra i vari settori produttivi e quindi, tutti i flussi produttivi che si verificano all’interno dell’economia regionale durante un determinato periodo (generalmente un anno). La costruzione di una tavola input-output per l’economia regionale non si limita ad avere come obiettivo, pur importante, la descrizione dei flussi input-output, in quanto, dopo aver quantificato le relazioni settoriali, è possibile valutare l’effetto sull’intero sistema di qualsiasi variazione si verifichi nella domanda finale. La tecnologia produttiva è a “coefficienti tecnici fissi” (a volte nota come tecnologia di Leontief). Ciò significa che l’industria J, per poter raddoppiare la sua produzione (output), dovrebbe raddoppiare i fattori della produzione impiegati (input). La relazione tra output e input rimane costante nel tempo per il quale ogni previsione viene formulata: 51 flusso di output dal settore i al settore j, intendendo i come riga e j come colonna; Dall’equazione si evince che il flusso di output dal settore i al settore j costituisce una proporzione fissa del prodotto lordo del settore j. Se il prodotto lordo del settore j aumenta di 1 unità, vi è allora bisogno di aij input extra dal settore i. Il coefficiente aij si ottiene dalla tavola delle transazioni semplicemente dividendo xij per xj. 26 A tal proposito: Leontief, W. (1953); Leontief, W. (1956). Giuseppe Capuano 2.5 La teoria Weberiana della localizzazione 52 Il principale obiettivo della teoria di Weber (1909) della localizzazione è il superamento dell’ipotesi di territorio omogeneo (come visto nel Cap 1 essa è presente nei modelli macroeconomici regionali, sia di tipo neoclassico che Keynesiano) e introduce il concetto di regione nodale. La conseguenza di tale approccio è quello di considerare il territorio come eterogeneo all’interno di un contesto regionale più vasto. La teoria weberiana inserisce nell’analisi della localizzazione l’importante ruolo svolto dall’agglomerazione (diffusione sul territorio delle attività produttive) e della distanza misurata sulla base degli spostamenti, considerando la collocazione delle imprese in relazione ai costi di trasporto e del peso di localizzazione. Il calcolo del costo di trasporto viene introdotto attraverso la stima delle isopadane. Per isopadana si intende una curva che esprime uguali costi di trasporto. Supponendo che il trasporto sia possibile in tutte le direzioni, si otterranno curve di costi di trasporto concentriche. Il centro della curva rappresenterà il luogo dove il costo di trasporto è minimo. L’isopadana sarà definita “critica” se identifica il luogo geometrico delle curve a minor costi di trasporto. Ciò significa che non è possibile individuare un punto avente un costo di trasporto minimo al di fuori di quella isopadana, in quanto, in caso contrario, l’impresa preferirà un’altra localizzazione. I costi dello spostamento sono pari al prodotto tra peso di localizzazione (del totale delle merci), distanza dello spostamento e costo unitario di trasporto. Ci sarà convenienza alla delocalizzazione se: A > Ldt dove: A= vantaggio in termini di economia di agglomerazione; L d e t = peso di localizzazione, distanza dello spostamento e costo unitario di trasporto. 2.5.1 La teoria delle zone centrali La teoria della localizzazione trascurava, evidentemente, il ruolo dei servizi in una economia moderna. La teoria delle zone centrali, in considerazione della crescente importanza del settore dei servizi nella formazione del PIL e, più in generale, della vita economica, arricchisce il dibattito teorico cercando di colmare una lacuna. Infatti, pur esaminando il problema della localizzazione delle attività economiche, la teoria poneva al centro della riflessione la localizzazione delle attività terziarie con una considerazione del mercato più marcata di quanto rilevasse la teoria weberiana. La definizione di località centrali si riferisce al luogo dove si forniscono una vasta gamma di beni e servizi alla popolazione del suo entroterra (regione complementare), che esprime quella domanda. Gli elementi chiave della teoria sono la soglia della domanda (livello minimo per quantificare l’offerta di un servizio) e la sua entità (ambito territoriale entro il quale il servizio viene offerto). Partendo da questi due elementi è possibile definire l’area che caratterizza la zona d’influenza di un’impresa rappresentata da una forma esagonale. Quest’ultima è la figura geometrica più indicata per delimitare il mercato di riferimento, in quanto consente la massima agglomerazione delle aree, in coerenza con l’esigenza di minimizzare i costi di trasporto. Inoltre, partendo dalla considerazione che non tutti i servizi sono uguali e non rispondono alla medesima domanda, si introduce il concetto di “rango dei servizi offerti” (ad esempio i servizi di rango superiore o rari). Si definisce, quindi, una “gerarchia dei centri” in cui sono offerti questi beni e servizi. Seguendo l’approccio di W. Christaller (1933) la ripartizione gerarchica delle località si realizza in modo che una zona che offre beni e servizi di livello gerarchico superiore, fornisce anche tutti quelli dei livelli gerarchici inferiori. I punti centrali della teoria sono sostanzialmente due: ❏ esiste una relazione stabile tra la popolazione di una zona centrale e quella dell’a- rea di mercato che la zona centrale serve; ❏ l’ampiezza del centro, quanto quella della popolazione da esso servita, aumenterà al crescere del livello gerarchico, in coerenza con l’aumento delle funzioni del centro all’aumentare del livello gerarchico del centro stesso. Tali aspetti rappresentano un punto di debolezza della teoria, dandogli scarsa flessibilità. Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 53 Giuseppe Capuano 54 27 A questo proposito il richiamo al circuito della causazione circolare cumulativa è evidente. In risposta ai limiti dell’approccio di Christaller e la fine di introdurre una maggiore flessibilità nel modello delle località centrali,A. Lösch (1954) ha sviluppato la teoria delle località centrali. Egli sostiene che il rapporto tra i ranghi delle diverse località non è fisso e definito, ma esiste la possibilità di sviluppo di centri e di aree con dimensioni molto diverse a seconda dell’offerta di beni e servizi. Nel modello viene meno anche il principio che i centri di ordine superiore forniscono tutti i servizi di rango inferiore con la possibilità di specializzazioni di centri con diverso ordine gerarchico. Emerge la possibilità di identificare un sistema di centri urbani specializzati. L’impostazione dei due modelli, comunque, ha un importante limite: essi considerano la ripartizione della popolazione in modo omogeneo sul territorio, senza rilevare nessuna differenza. Ciò, ovviamente, non si verifica nella realtà, e poiché dalla numerosità della popolazione dipende l’ampiezza del mercato (quindi la dimensione degli esagoni) occorre un correttivo che successivamente sarà introdotto da Isard (1956). Egli introduce il concetto di differenziazione della dimensione degli esagoni in ragione della diversa distribuzione spaziale della popolazione e dei mercati di riferimento. In questo modo il modello delle località centrali può meglio comprendere le dinamiche dello sviluppo urbano. In tutti i modelli esposti brevemente in precedenza non si assegna al mercato un ruolo determinante, se non marginalmente come nella teoria delle località centrali. Il modello centro-periferia di Krugman (1995), al contrario, cerca di colmare questa lacuna. Infatti, pur considerando l’importanza dei vantaggi localizzativi, il modello, partendo proprio dalle caratteristiche del mercato, spiega la localizzazione delle imprese in un determinato territorio come un problema che favorisce un percorso cumulativo di diversificazione dello sviluppo regionale27. Il modello centro-periferia, infatti, spiega la concentrazione o i deflussi di attività economiche e, più in generale, dei fattori produttivi, da e verso alcune aree geografiche coniugando alcuni aspetti localizzativi con quelli dello sviluppo delle attività produttive. Krugman, inoltre, arricchendo l’impianto teorico, inserisce alcuni elementi trascurati dalle tradizionali teorie della localizzazione: ❏ non c’è un unico percorso di localizzazione; ❏ la funzione di equilibrio è legata al ruolo svolto da particolari circostanze stori- che. Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale Secondo questo Autore la localizzazione geografica di attività produttive è favorita da tre fattori principali: la presenza di economie di scala elevate; costi di trasporto bassi; ed infine, un quota elevata della produzione non fissa sul territorio come nel caso dell’industria manifatturiera. La presenza di queste tre condizione favorisce il formarsi di un circolo virtuoso che si autoalimenterà e che porterà ad una maggiore concentrazione delle attività produttive in luoghi dove la domanda è più elevata che a sua volta si autoalimenterà grazie alla stessa maggiore concentrazione di imprese. Il modello, comunque, non spiega le cause dell’inizio di un simile processo, che potrebbe essere attribuito ad un caso della storia o alle aspettative che un simile fenomeno genera. La teoria introduce, da un punto di vista formale una doppia modellistica, la pr ima macro (come una struttura del tipo nucleo-periferia possa emergere su scala nazionale), la seconda micro (sono considerati gli aspetti di localizzazione delle attività economiche) e prevede la possibilità di path-dependence28 con possibili percorsi di crescita divergenti tra loro. Qualche riflessione aggiuntiva merita un simile approccio, soprattutto a seguito delle trasformazioni in atto dovute alla globalizzazione. Castells (1996) sostiene che l’economia globale non è simmetrica ma si muove per linee asimmetriche, superando una chiave di lettura centro-periferia dei fenomeni economici. Una geografia economica che supera, anche in Italia, il concetto Nord-Sud, se è vero che, come nelle regioni settentrionali esistono fenomeni di declino industriale ovvero di riconversione produttiva, in alcune realtà del nostro Mezzogiorno, si individuano luoghi di eccellenza o sistemi produttivi locali estremamente interessanti dal punto di vista del livello di sviluppo raggiunto. Quindi, anche la realtà italiana si presenta territorialmente policentrica e diffusa, con caratteristiche da economia matura. Da qui, la conclusione che ragionare in termini esclusivamente dicotomici (sviluppato-sottosviluppato; centro-periferia; aree costierearee interne, etc.) per spiegare le traiettorie dello sviluppo, può essere oggi limitativo e poco calzante rispetto alle reali caratteristiche di molte economie regionali. 55 28 Per path-dependence si intende la condizione data dal confronto tra alternative diverse, quando la scelta dipende dall’ordine in cui le alternative sono state considerate. CAPITOLO 3 I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane: il modello della convergenza non lineare L 3.1 Il dibattito teorico 3.1.1 La critica all’approccio marginalista a teoria marginalista ipotizza che le forze del mercato si trovino tendenzialmente in equilibrio, in una situazione di concorrenza perfetta in cui non esistono asimmetrie informative (l’informazione sui mercati è ampiamente diffusa tra i soggetti economici), e in un contesto di assoluta mobilità e sostituibilità dei fattori della produzione (capitale e lavoro). Inoltre, la funzione di produzione è caratterizzata da rendimenti di scala costanti, rendimenti marginali decrescenti del capitale e del lavoro, con un tasso costante e predeterminato di crescita della produttività, e da un progresso tecnico “free good” esogenamente dato29. Ciò porta alla conclusione, se tale ipotesi è verificata, che Paesi o regioni con uguali tecnologie e con la medesima propensione al risparmio creino dei meccanismi “automatici” di convergenza (misurati attraverso i valori del PIL pro capite) tra le regioni più forti e quelle più deboli, con una crescita dello stock di capitale e del reddito pro capite maggiore nelle seconde. Le diverse performance regionali sono determinate dal fatto che le regioni meno sviluppate, caratterizzate da un più basso stock iniziale, pur registrando rendimenti decrescenti del capitale sperimentino una discesa meno rapida. In altri termini, esisterebbe una relazione inversa tra variazioni del tasso di crescita e livello iniziale 29 Negli anni ottanta, al fine di superare i limiti dell’approccio neoclassico, nasce la “teoria della crescita endogena”. Essa affronta il problema della non-convergenza, sostituendo l’ipotesi di progresso tecnico come free good con quella di progresso tecnico endogeno e allarga il concetto di capitale (fattore riproducibile), al fine di eliminare ogni fattore ad esso complementare e, di conseguenza, anche le cause della sua produttività marginale decrescente. Per un approfondimento sul tema: Solow M. R., op.cit.; Musu e Cazzavillan (1997); Boggio,L., Seravalli, G., op.cit. Giuseppe Capuano del reddito pro capite, nota in letteratura come convergenza beta assoluta30, che, partendo dall’equazione di convergenza marginalista o neoclassica fornita dal modello di Solow (1956) e Swan (1956), potremmo esprimere come segue: 60 30 Oltre al concetto di convergenza beta, in letteratura è presente anche il concetto di convergenza sigma, che indica una riduzione nel tempo della variabilità del prodotto pro capite. dove il termine di sinistra rappresenta il tasso di crescita del reddito pro capite in un determinato periodo di riferimento (0,t), il coefficiente b è il tasso di convergenza verso uno stato di equilibrio (steady state) e (y/l)o rappresenta il livello di reddito pro capite di partenza, dove y sintetizza il reddito e l la popolazione residente. Una variante a questo approccio è rappresentata dal contributo di J. G. Williamson (1973) che, a differenza dei teorici neoclassici che consideravano nei loro modelli solo i fattori capitale e lavoro, esamina anche la capacità che una elevata domanda e un alto livello dei consumi di una regione hanno di attrarre investimenti, rispetto a realtà locali con un livello di domanda inferiore. Egli sostiene, secondo una visione storicistica dell’economia, che esiste una significativa relazione tra squilibri regionali e livello di sviluppo di un Paese, dove, in una fase iniziale della crescita, la presenza di squilibri è minore. Nelle fasi successive di raggiungimento del proprio “take off ” e di maturità, gli squilibri andranno progressivamente ad aumentare, per poi ridursi e quindi scomparire del tutto, seguendo un andamento “campanulare” della crescita. In pratica si considera lo sviluppo come un processo a tappe, nel quale, a differenza dell’approccio “neoclassico puro”, pur arrivando alle stesse conclusioni, si sottolinea l’esistenza di squilibri regionali transitori che spariranno grazie ad un progressivo adeguamento strutturale di medio-lungo periodo. Entrambi gli approcci semplificano le fasi dello sviluppo e rappresentano, in maniera schematica, l’economia reale che è invece molto più complessa e meno “equilibrata”. Al contrario, l’evidenza empirica smentisce la continuità nel tempo della riduzione degli squilibri regionali. La teoria marginalista della convergenza assoluta, basandosi su un approccio parametrico (convergenza Beta e Sigma), può essere accettata solo in particolari casi, nei quali il livello di sviluppo di partenza è eccezionalmente basso, costituendo un caso particolare di un principio più generale. Ciò si verifica principalmente perché non sempre le fasi di sviluppo sperimentate da un paese o da una regione sono necessariamente identiche e caratterizzate dalla medesi- I fattori dello sviluppo regionale ma intensità e durata; inoltre, i differenziali di crescita non sono temporanei e spesso vengono amplificati dalla presenza di imperfezioni dei mercati dalla presenza/assenza di economie esterne e/o economie di agglomerazione e dai rendimenti crescenti/decrescenti delle attività produttive31. La conclusione, alquanto semplicistica rispetto alla reale dinamica dei fenomeni economici, alla quale perviene l’approccio neoclassico, è che i differenziali regionali di sviluppo sono meramente temporanei, destinati nel lungo periodo (processo di convergenza) ad essere assorbiti grazie ai meccanismi sprigionati dalle libere forze del mercato. Inoltre, tale approccio presuppone un’altra condizione, pur in forma latente e poco dibattuta: i percorsi di sviluppo locale, pur partendo da condizioni iniziali diverse, tendono ad assumere le stesse caratteristiche, secondo le traiettorie di crescita settoriali indicate dalla “teoria dei tre settori” di Colin Clark (1951). Anche in questo caso, i differenti livelli di sviluppo conosciuti negli ultimi decenni dai sottosistemi regionali (ad esempio le province) che qualificano qualsiasi sistema economico «maturo» rendono obsoleta una simile visione dello sviluppo locale, e la prova è rappresentata dal fatto che le economie provinciali non si comportano uniformemente rispetto agli input di politica economica (comunitaria, nazionale e regionale) e non reagiscono con la stessa intensità e cadenza temporale agli impulsi provenienti dal “centro”. Nella realtà, l’influenza dei diversi livelli di sviluppo, le peculiarità produttive locali e le caratteristiche geografiche del territorio, insieme ad altri fattori endogeni ed esogeni al sistema subregionale, condizionano fortemente i comportamenti degli operatori economici e, quindi, l’andamento dell’economia locale, vanificando gli effetti dell’utilizzo di strumenti di politica regionale troppo spesso standardizzati e non adeguatamente calibrati. L’evidenza empirica tratta da una nostra elaborazione con la “clusterizzazione” del contributo dei principali settori economici (agricoltura, manifatturiero, turismo e servizi) alla formazione del PIL delle 103 province italiane dimostra come si sia in presenza di 412 valori32 diversi (Tab. 2) relativi ad un solo anno di riferimento (1999). Questo risultato non è ovviamente esaustivo, ma rappresenta sicuramente una proxy di come ogni realtà locale conosca una diversa traiettoria del proprio sviluppo e take-off differenziati nel tempo. 31 Le relazioni empiriche presentate, note anche come “leggi di Kaldor”, potremmo riassumerle come segue: forte correlazione positiva tra tasso di crescita del reddito e tasso di crescita della produzione manifatturiera; tra crescita della produttività e crescita della produzione all’interno del settore manifatturiero; effetto indotto dalla crescita della produzione manifatturiera sul trasferimento intersettoriale dell’occupazione. Citazione ripresa da: N.Kaldor, Causes of the Slow Rate of Economic Growth in the United Kingdom, Cambridge U.P., Cambridge, 1966. 32 Il dato è il risultato del prodotto dei quattro indicatori per le 103 province italiane. Giuseppe Capuano Tab. 2 - Peso percentuale del valore aggiunto dei settori sul totale - 1999 (prime e ultime dieci province) Agricoltura Pos Prov. 62 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Ragusa Oristano Foggia Siracusa Matera Viterbo Cremona Caserta Enna Agrigento 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Torino Firenze Roma Como Lecco Trieste Varese Milano Genova Prato Industria Valore Pos Prov. Servizi Valore Pos Prov. Turismo Valore Pos Prov. Valore 17,87 14,19 12,71 12,29 9,79 9,55 9,39 9,27 9,26 8,75 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Lecco Vicenza Biella Reggio E. Bergamo Modena Treviso Varese Novara Belluno 40,9 39,0 38,2 38,2 37,7 37,5 36,9 35,4 34,8 34,5 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Roma Trieste Palermo Genova Messina Catania Reggio C. Napoli Agrigento Aosta 84,5 83,9 83,0 81,4 81,3 80,3 80,1 80,1 78,9 78,5 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Bolzano Rimini Savona Genova Imperia Belluno Siena Grosseto Livorno Trento 15,5 10,8 83,0 10,0 8,6 8,1 7,7 7,4 7,4 7,1 0,94 0,84 0,68 0,64 0,54 0,50 0,42 0,39 0,31 0,13 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Cosenza Vibo Valentia Ragusa Trapani Messina Enna Oristano Agrigento Reggio C. Imperia 9,9 9,2 9,0 9,0 8,9 8,6 8,4 7,7 7,3 6,5 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Cuneo Cremona Novara Bergamo Modena Treviso Mantova Lecco Reggio E. Vicenza 57,1 56,4 56,1 55,1 55,1 54,6 54,4 54,2 52,9 52,8 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Bari Ragusa Siracusa Avellino Torino Taranto Milano Vercelli Prato Biella 2,2 2,2 2,1 2,0 2,0 2,0 1,9 1,7 1,5 1,3 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne 3.1.2 Le recenti evoluzioni del dibattito 33 Tra gli altri, Bernard e Durlauf (1995) hanno mostrato come lo stimatore Beta nelle regressioni cross-country non raggiunga l’obiettivo perché non permette di identificare l’intensità e la direzione dei movimenti dei diversi Paesi/Regioni. La più recente letteratura in materia, criticando l’approccio parametrico (neoclassico), ha tentato di spostare l’attenzione da questi concetti, essendo misure medie e sintetiche allo studio analitico in termini dinamici di tutta la distribuzione per classi di reddito di un’economia secondo un approccio non parametrico (Quah, 1993). La critica parte dall’assunto che utilizzando l’equazione della crescita, che comprende tra i regressori il livello del PIL pro capite iniziale con coefficiente Beta, se si perviene ad un risultato di segno negativo (e significativo del coefficiente), lo stesso viene interpretato come convergenza condizionata “tout court”, ma non si raggiunge l’obiettivo in quanto non si identificano i Paesi che divergono da quelli che convergono33. I fattori dello sviluppo regionale Inoltre, lo stesso Quah sostiene che le regressioni basate sul tasso di crescita medio di ciascun Paese sarebbero accettabili solo nel caso in cui essi evidenziassero, nel corso degli anni, un tasso di crescita del PIL stabile. Ciò che, invece, nella realtà non avviene. Partendo da queste critiche, altri autori (Boggio, Serravalli, op.cit.) sostengono che per accertare la convergenza si può utilizzare il concetto di Sigma-convergenza, che basa l’approccio sulla varianza dei livelli del PIL pro capite tra Paesi/regioni. Anche questo approccio, in ogni modo, presenta dei limiti di tipo statistico e l’alternativa è di spostare l’attenzione non più sull’utilizzo di misure medie, o comunque di sintesi (come perseguito dall’approccio di tipo parametrico) quanto sullo studio dell’evoluzione dinamica della distribuzione per classi di reddito (approccio non parametrico), o più semplicemente, come nel nostro caso, valutare le variazioni del PIL pro capite a livello provinciale in un periodo relativamente ampio (sette anni), studiandone i processi di convergenza/divergenza rispetto ad un valore medio nazionale, attraverso il calcolo della varianza e dello scarto quadratico medio. 3.1.3 La “convergenza non lineare” (CNL) In questo quadro teorico si è svolta la nostra analisi, che, applicando un approccio non parametrico alle dinamiche del PIL pro capite delle province italiane, è giunta alla seguente conclusione: le economie locali in Italia e soprattutto nelle province, hanno conosciuto una CNL dove i percorsi di sviluppo non tendono ad un automatico annullamento degli squilibri nel lungo periodo ma perseguono un percorso di tipo “sinusoidale” che porta solo in alcuni casi ad un annullamento/riduzione degli squilibri iniziali ed interessano, nel lungo periodo, realtà territoriali diverse. Si tratta di una altalenante riduzione-aumento-riduzione dei divari regionali. Secondo il nostro approccio, la lettura degli avvenimenti di lungo periodo non può essere fatta in modo dicotomico in termini di convergenza o divergenza. La realtà economica, infatti, non si presenta in forme così nette e lineari.34 Ciò è dovuto ad una velocità non costante della crescita (come d’altronde già verificato da Quah in un lavoro del 1993 (op.cit.) in relazione a 118 Paesi) che può assumere, in alcuni casi e in determinati periodi, anche valori negativi, aumentando il gap con i valori medi di riferimento e modificando la geografia degli squilibri regionali. Questo punto differenzia la nostra tesi dalla “scuola delle divergenze” ed in particolare dalla “teoria della causazione circolare cumulativa” (Myrdal, 1957; Hirschman, 1958). 34 Su questo aspetto teorico si veda: G. Capuano, L’osservatorio economico: strumento quantiqualitativo per la lettura e l’analisi delle dinamiche economiche e dei processi di convergenza/divergenza, Memoria di Licenza presentata alla Facoltà di Scienze Economiche, Università della Svizzera Italiana, Lugano, 2000 - ripreso anche in: IRE, Monitor strutturale: 10 anni di crescita economica tra divari e convergenze interregionali, Lugano, 2002 - nel quale si dimostra che, anche dal confronto tra le dinamiche del PIL del Canton Ticino e di alcune province della Lombardia, che insieme formano l’area ticinese, oltre al fatto che l’ipotesi neoclassica della convergenza assoluta o per tappe progressive non è verificata, siamo di fronte a percorsi che sembrerebbero seguire l’ipotesi della “convergenza non lineare”; G. Capuano (2001), “I processi di convergenza e i percorsi di sviluppo locale”, in Del Colle E. (a cura di), Lo Stato di salute dei comuni. Una ricerca sulle condizioni economiche, sociali e demografiche dei comuni italiani, Franco Angeli, Roma. Giuseppe Capuano 64 35 36 I dati utilizzati nel paragrafo sono relativi alla serie storiche del valore aggiunto provinciale dell’Istituto G. Tagliacarne, calcolato a prezzi base (comprese le imposte indirette alla produzione e i contributi correnti sui prodotti ed escluse le imposte indirette sui prodotti ed i contributi correnti sulla produzione) e a prezzi correnti secondo quanto definito dal Sec 95. In precedenza il v.a. era calcolato al “costo dei fattori”. I più recenti dati disponibili del reddito pro-capite comunale in Italia risalgono al 1987, con una pubblicazione del Banco di Santo Spirito. L’Istituto Tagliacarne da alcuni anni ha iniziato una sperimentazione che dovrebbe portare ad un aggiornamento di questi dati. Secondo questa teoria, lo sviluppo regionale tende, comunque, ad innescare dei processi di divergenza più che di convergenza, in quanto i differenziali di reddito tendono ad accentrarsi anziché restringersi. Ciò è provocato dal fatto che gli effetti di diffusione (positivi) presenti nelle aree meno sviluppate risultano inferiori agli effetti di riflusso (negativi), alimentando quindi e consolidando gli squilibri esistenti. La conclusione è che dovremmo assistere a processi di divergenza tra regioni storicamente sviluppate e non sviluppate, a tutto favore delle prime. Al contrario, a nostro avviso, non è possibile dare una lettura degli avvenimenti di lungo periodo in maniera dicotomica (convergenza/divergenza), seguendo un approccio deterministico (i casi della storia hanno determinato il livello di sviluppo di una regione o i differenziali di crescita tra di esse). La realtà economica non si presenta in forme così nette e lineari e i percorsi di sviluppo di medio-lungo periodo possono capovolgere i rapporti di forza tra regioni con livelli di sviluppo di partenza differenziati. 3.2 La verifica sul “campo” della “convergenza non lineare” (CNL)35 3.2.1 I limiti dell’utilizzo del PIL pro capite come misura del livello di sviluppo Le basi teoriche della nostra tesi si fondano su di una articolata verifica empirica che si è avvalsa dell’utilizzo delle variazioni annuali del PIL pro capite a livello provinciale (i limiti presentati dall’indicatore sono notori in letteratura). Per ridurre al massimo l’errore, prima di iniziare le elaborazioni, si è proceduto a delle semplici quanto importanti verifiche, come descritto successivamente. Il PIL pro capite come indicatore statistico è notoriamente definito come una misura in valore dei beni e servizi finali prodotti in un determinato paese ed è utilizzato come indicatore di sintesi del livello di sviluppo raggiunto da un certo ambito territoriale (ad esempio una regione, provincia o comune36). L’utilizzo dell’indicatore, in particolare ai fini dell’analisi della crescita di realtà territoriali (ad esempio le province, NUTS III) pone una serie di problemi e limiti evidenziati da tempo dalla letteratura economica internazionale. Esso esclude dal calcolo i servizi non retribuiti (ad esempio il lavoro delle casalinghe, il volontariato), non tiene conto delle dinamiche demografi- che (ad esempio il più elevato tasso di natalità al Sud e il tasso di invecchiamento della popolazione più alto al Nord), mentre non viene decurtato dei danni che il processo produttivo apporta all’ambiente. Limiti che possono presentare degli inconvenienti, con fenomeni di distorsione dei dati e, quindi, inficiare le conclusioni di carattere economico37. In ogni caso, come d’altronde conferma anche la Commissione europea, al momento non esistono misure alternative, altrettanto valide, del livello di sviluppo. La Commissione ritiene che il PIL pro capite in termini di SPA (standard di potere di acquisto) sia l’indicatore chiave per valutare i livelli di sviluppo economico delle regioni e le loro disparità di andamento. Il suo ruolo è sancito dai regolamenti dei Fondi strutturali e dall’art.87 (3)a del Trattato sulla politica delle concorrenza e viene utilizzato anche da numerose istituzioni internazionali (tra cui Banca Mondiale, FMI, OCSE, etc.). Esso può evidenziare un mutamento nel rapporto tra un’economia ed un’altra non solo a causa di una differenza nel tasso di crescita del PIL in termini reali (la cosiddetta “convergenza reale”), ma anche per effetto di un cambiamento nel livello dei prezzi relativi. Questo aspetto distorce l’analisi delle variazioni del PIL pro capite nel tempo, in quanto un suo aumento relativo, determinato da una riduzione nel livello relativo dei prezzi, potrebbe avere implicazioni leggermente differenti rispetto ad un aumento determinato da una crescita relativa del PIL reale. L’indicatore alternativo più semplice consiste nella misurazione del PIL pro capite in Euro anziché in SPA. In questo modo si evidenzia il valore di mercato della produzione in ciascuna regione, anziché i livelli di reddito reale. Tale indicatore, comunque, accresce l’entità delle differenze a livello regionale, dato che i livelli dei prezzi sono positivamente correlati con la ricchezza di una regione: un basso livello del PIL pro capite presente nelle regioni economicamente sfavorite, tende ad essere parzialmente compensato da un minore costo della vita. Quindi, pur tenendo conto dei problemi e dei limiti evidenziati in precedenza, anche la nostra analisi sulla convergenza si è fondata sullo studio dell’evoluzione di lungo periodo del PIL pro capite (Y/P = Y/L * L/P) delle province (1995-2002), dove Y/P = PIL pro capite;Y/L = produttività media del lavoro; L/P = tasso di occupazione. Tali componenti svolgono un importante ruolo nel determinare le dinamiche del PIL pro capite delle singole realtà territoriali e quindi dei processi di catching up; infatti, distinguendo il PIL pro capite nelle due componenti rappresentate dalla produttività del lavoro e dalla quota di occupati sulla popolazione, si rileva come la formula risenta, nel primo caso, della dotazione di capitale, del livello di tecnologie presenti e della struttura settoriale del- I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 65 37 A questo proposito: Guarini, R. e Tassinari, F., Statistica Economica, Il Mulino, 2000. Giuseppe Capuano 66 l’occupazione. Sulla seconda influiscono principalmente le caratteristiche del mercato del lavoro, oltre ai fattori socio-demografici (ad esempio il tasso di invecchiamento della popolazione). In uno studio dell’ISAE (2001) relativo alle regioni appartenenti all’Ue 12, si rileva esserci stato un processo di convergenza dei livelli di produttività all’interno dei 12 stati membri considerati (tra cui l’Italia). Il PIL pro capite, però, non ne ha beneficiato sia per la presenza di un “effetto divergenza” dei tassi di occupazione, sia a causa della relazione negativa esistente tra produttività e occupazione. La conclusione è che le regioni caratterizzate da bassi livelli di produttività relativa erano quelle che avevano incrementi del tasso di occupazione inferiori alla media comunitaria. 3.2.2 I risultati dell’analisi provinciale nel periodo 1995-2002 38 Tra gli altri: S. Fabiani, G. Pellegrini, Convergenza e divergenza nella crescita delle province italiane, Ricerche quantitative per la politica economica, 1997. 39 In analogia al Regolamento relativo ai Fondi Strutturali, una regione (NUTS II) è ritenuta in ritardo di sviluppo quando presenta un livello soglia del PIL pro capite uguale o inferiore al 75% della media comunitaria (EUR15 =100). L’approccio CNL trova una sua evidenza empirica grazie all’analisi delle dinamiche del PIL pro capite delle province italiane nel periodo 1995-2002, che per certi aspetti aggiorna alcune analisi realizzate negli anni scorsi38 per periodi immediatamente precedenti. Il primo risultato è dato dallo studio dell’evoluzione del coefficiente di variazione del numero indice del PIL pro capite provinciale nel periodo considerato. Esso ci rivela che il coefficiente si riduce nel Mezzogiorno (dallo 0,14 del 1995 allo 0,12 del 2002) portandosi sui livelli delle province del Centro (rimasto invariato nel periodo a quota 0,12) e avvicinandosi alle province del Nord (0,11), che al contrario registrano un leggero incremento rispetto al 2001 (0,10). Ciò fa supporre che, pur restando evidenti gli squilibri territoriali tra le aree, all’interno delle province del Mezzogiorno, in particolare negli ultimi anni, si è assistito ad un lento ma costante processo di crescita che interessa tutte le province, premesso che ha consentito di ridurre gli squilibri interni all’area. Cosa che non avviene nelle province settentrionali, dove si afferma invece l’esistenza di un “Nord nel Nord”. Il secondo risultato che scaturisce dalla nostra analisi è che il principio della convergenza assoluta sembrerebbe verificato solo quando il livello di reddito pro capite di partenza è molto più basso rispetto al valore medio di riferimento: nel nostro caso tale valore è stato individuato convenzionalmente, in analogia alle direttive comunitarie39, al di sotto del 75% del dato medio dell’Italia. Infatti, nella graduatoria delle prime 10 province italiane, costruita in base alla variazione cumulata del PIL pro capite nel periodo 19952002 (Tab.3), seguono un percorso di convergenza lineare solo le prime tre (Crotone,Vibo Valentia e Matera); ben 3 province, con un valore del PIL pro capite superiore al 75% (nel- l’ordine di PIL pro capite, Bolzano, Massa Carrara e Isernia) evidenziano un andamento “sinusoidale”, in quanto, alcune delle sette osservazioni effettuate (dal 1995 al 2002) hanno presentato un andamento del PIL pro capite altalenante (Tab.4). Quest’ultimo gruppo si arricchisce di 11 province se si allarga la graduatoria alle prime 30. La conclusione che si può trarre è la seguente: è poco verificata la relazione inversa tra livello di partenza del reddito e tasso medio di crescita (convergenza beta assoluta), ma si rileva in molti casi una relazione diretta, in quanto si è evidenziato che le province con un livello di sviluppo di partenza più elevato hanno registrato tassi di crescita più sostenuti rispetto alle province con un PIL pro capite di partenza più basso, e molte di esse presentato un andamento non lineare (sia in termini di convergenza che di divergenza). Quindi, soprattutto nel caso delle province cosiddette “intermedie” (convenzionalmente si è utilizzato il range compreso tra 75 e 115 del valore medio Italia=100), la velocità del processo di convergenza o rallenta o addirittura si trasforma in divergenza rispetto ad un valore medio, dando vita ad un percorso che potremmo definire a “balzi” o di tipo sinusoidale, e che noi definiamo di “convergenza non lineare”. I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 67 Giuseppe Capuano Tab. 3 - Tassi medi annui di crescita del PIL pro capite e numeri indice - 1995/2002 (Dato Italia=100) Pos 68 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 Prov. Var. % 95-02 Crotone 7,19 Vibo Valentia 6,35 Matera 6,00 Isernia 5,95 Grosseto 5,94 Potenza 5,79 Massa Carrara 5,61 Ragusa 5,56 Bolzano 5,48 Enna 5,39 Belluno 5,27 Sassari 5,27 Trapani 5,24 Siena 5,18 Benevento 5,18 Napoli 5,13 Reggio Calabria 5,12 Ravenna 5,09 Catanzaro 5,03 Catania 5,03 Oristano 4,97 Lecce 4,94 Cosenza 4,92 Campobasso 4,91 Agrigento 4,90 Genova 4,89 Avellino 4,88 Forlì 4,87 Venezia 4,86 Terni 4,84 Messina 4,83 Gorizia 4,79 Salerno 4,79 Firenze 4,77 Taranto 4,76 N.I. 1995 Pos 48,3 55,9 63,5 77,5 85,8 70,4 83,6 68,2 139,9 54,6 120,5 74,4 61,4 104,4 63,9 60,6 62,5 113,4 64,4 63,0 68,0 58,1 59,2 75,0 56,9 100,9 67,3 118,3 117,7 93,5 68,4 108,6 68,0 124,0 66,0 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne Prov. Var. % 95-02 Palermo Ascoli Piceno Rovigo Pescara Pesaro Urbino Bari Pistoia Macerata Caserta Asti Lucca Ancona Arezzo Piacenza Cremona Chieti Rimini Roma Savona Treviso Pavia Lodi Verbano C. O. Ferrara Perugia Alessandria Latina Trento La Spezia Novara Imperia Livorno Bologna Padova Varese 4,67 4,62 4,57 4,56 4,54 4,52 4,52 4,52 4,51 4,50 4,49 4,45 4,36 4,35 4,32 4,26 4,25 4,24 4,22 4,16 4,15 4,14 4,14 4,10 4,10 4,10 4,09 4,08 4,07 4,06 4,06 4,06 4,04 4,04 4,02 N.I. 1995 63,8 95,1 99,6 85,3 96,8 68,0 99,2 96,3 63,0 98,9 104,4 110,0 104,2 109,4 113,2 87,1 122,4 120,0 110,0 119,4 104,1 106,9 96,8 106,7 99,9 107,9 92,3 125,1 102,4 117,1 105,8 105,2 139,8 112,9 114,1 Pos 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Prov. Var. % 95-02 N.I. 1995 Foggia Cagliari Torino Milano Cuneo Mantova Frosinone Parma Modena Nuoro Sondrio Verona Rieti Teramo Brindisi Pisa Caltanissetta Vicenza L’Aquila Bergamo Udine Trieste Brescia Vercelli Biella Siracusa Reggio Emilia Pordenone Viterbo Prato Como Lecco Aosta 4,02 4,01 4,00 4,00 3,89 3,81 3,78 3,78 3,74 3,74 3,71 3,69 3,68 3,64 3,64 3,53 3,53 3,49 3,44 3,40 3,38 3,35 3,34 3,33 3,23 3,14 3,09 2,98 2,93 2,76 2,68 2,34 2,31 59,5 75,5 122,1 154,6 123,7 129,3 86,0 132,3 142,1 70,2 104,0 119,4 84,3 85,3 70,8 110,6 60,5 127,1 85,5 122,0 116,1 112,9 122,8 111,7 116,8 79,4 133,4 122,7 90,1 126,0 114,6 119,7 136,2 ITALIA 4,29 100,0 Tab. 4 - Andamento del PIL pro capite provinciale - 1995/2002 Pos 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 Province N.I. 95 N.I. 96 N.I. 97 N.I. 98 N.I. 99 N.I. 00 N.I. 01 N.I. 02 Crotone Vibo Valentia Matera Isernia Grosseto Potenza Massa Carrara Ragusa Bolzano Enna Belluno Sassari Trapani Siena Benevento Napoli Reggio Calabria Ravenna Catanzaro Catania Oristano Lecce Cosenza Campobasso Agrigento Genova Avellino Forlì Venezia Terni 48,3 55,9 63,5 77,5 85,8 70,4 83,6 68,2 139,9 54,6 120,5 74,4 61,4 104,4 63,9 60,6 62,5 113,4 64,4 63,0 68,0 58,1 59,2 75,0 56,9 100,9 67,3 118,3 117,7 93,5 49,4 55,3 66,1 79,8 86,2 71,6 83,3 68,4 142,2 55,0 119,8 75,2 61,6 104,9 64,2 60,4 61,0 114,9 65,0 61,3 69,7 58,9 58,1 75,8 57,8 102,7 66,3 120,6 117,8 92,1 49,5 57,3 66,2 82,0 87,9 73,0 85,4 70,1 139,1 58,8 120,0 76,0 60,9 107,0 65,0 62,8 62,8 111,9 65,6 61,4 71,3 57,7 59,3 80,2 59,6 104,3 67,1 117,9 118,1 91,3 51,6 57,1 69,2 82,3 89,1 72,4 83,9 69,6 143,0 56,6 121,1 77,5 60,5 108,6 63,9 64,0 62,4 112,7 63,0 61,4 69,6 58,4 60,1 75,7 57,3 104,6 66,2 118,9 118,3 90,3 52,9 57,8 73,1 78,5 91,9 73,4 84,0 69,5 139,6 56,1 120,3 78,4 61,6 110,5 64,0 63,7 62,9 112,0 64,5 62,8 75,4 59,2 62,8 75,6 57,0 105,1 67,3 118,9 117,6 92,5 54,3 57,4 70,6 82,1 92,1 73,5 85,4 70,7 144,2 58,1 122,7 78,2 63,4 113,0 62,7 63,3 62,1 113,0 65,1 63,4 70,2 59,9 62,4 76,4 55,3 106,2 69,4 118,7 117,5 93,1 56,1 59,3 70,9 86,1 92,5 74,2 88,9 71,2 148,9 58,9 123,9 80,3 62,7 109,5 64,1 63,7 64,8 117,1 67,1 64,1 72,2 60,4 63,2 77,0 56,2 107,4 71,3 118,6 121,4 93,4 58,5 64,2 71,2 86,6 95,8 77,8 91,3 74,3 151,5 58,8 128,7 79,4 65,4 110,9 67,8 64,1 66,1 119,7 67,7 66,2 71,1 60,7 61,8 78,1 59,2 105,0 70,1 123,0 122,3 97,0 ITALIA 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 69 Giuseppe Capuano Graf. 1 - Coefficiente di variazione del numero indice del PIL pro capite provinciale (Anni 1995/2002) 70 Fonte:Elaborazione propria su dati Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne Graf. 2 – Convergenza beta assoluta del PIL pro capite provinciale (Anni 1995-2002) Fonte:Elaborazione propria su dati Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne In conclusione, una lettura delle dinamiche dei percorsi di sviluppo locale può essere valida seguendo gli automatismi della teoria marginalista della convergenza solo in contesti palesemente in ritardo di sviluppo e solo per periodi di tempo ben limitati. Al contrario, quando si utilizzano le stesse categorie concettuali per studiare dinamiche che interessano gruppi di province caratterizzate da livelli di sviluppo intermedio/alto, ovvero tendenze di sviluppo di lungo periodo di economie non sviluppate, la stessa funzione risulta essere inadeguata e si preferisce utilizzare il concetto di “convergenza non lineare”. Graf. 3 - Coefficiente di variazione del numero indice del PIL pro capite provinciale (Anni 1995/2002) I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 71 Giuseppe Capuano 3.3 I fattori che contribuiscono alla “convergenza non lineare” 72 In questo lavoro non ci si è limitati a verificare gli andamenti economici sintetizzati attraverso lo studio del PIL pro capite, ma si è cercato anche di individuare i fattori che contribuiscono alla permanenza degli squilibri territoriali. Essi sono molteplici, a partire da una differente dose di progresso tecnico incorporato nella funzione di produzione, dalla presenza di rendimenti di scala crescenti, ad una produttività marginale non sempre decrescente del capitale, secondo quanto verificato dalle più recenti “teorie dello sviluppo endogeno” (Romer, 1986; Lucas, 1988). Oltre a queste concause spesso riprese dalla letteratura specialistica, in questa sede si propongono altri elementi che a nostro avviso condizionano, e non poco, la permanenza degli squilibri territoriali. Grazie alla disponibilità di dati provinciali in serie storica, abbiamo verificato alcuni fattori che direttamente (popolazione, tasso di occupazione e produttività media del lavoro) o indirettamente (fattori che potremmo definire di contesto, come la reattività della crescita del PIL alle variazioni del tasso di apertura verso i mercati esteri e alla riduzione del costo del danaro) hanno alimentato gli squilibri territoriali nel corso del tempo. Formalmente potremmo descrivere quanto in precedenza affermato con la seguente equazione: dove: il termine di sinistra rappresenta il differenziale tra il PIL pro capite delle province i e j in un determinato anno; il termine di destra rappresenta la differenza dei contributi forniti, negli n anni precedenti a quello di riferimento, da fattori socio-economici diretti e indiretti alla formazione del PIL pro capite delle province i e j. Le nostre elaborazioni relative al periodo 1998-2002 hanno preso in considerazione i seguenti indicatori: ❏ saldo migratorio e naturale della popolazione residente; ❏ tasso di occupazione; ❏ tasso di interesse a breve per flussi di cassa; ❏ tasso di apertura verso l’estero; pervenendo ad un eloquente risultato: se si escludono 7 casi su 984 verifiche, nessuna provincia conserva la stessa posizione in graduatoria relativa al singolo indicatore nei due anni presi a riferimento (1998 e 2002) e rispetto a tutti gli indicatori utilizzati. Un risultato che è stato determinato da livelli diversi dell’indicatore rilevato e dalla presenza di differenziali, in alcuni casi rilevanti, tra un anno e l’altro. La conclusione che se ne trae è che esiste una forte variabilità dei fattori che determinano lo sviluppo, ne condizionano il tasso di crescita del PIL pro capite e il suo livello, e, cosa più importante ai fini del nostro lavoro, contribuiscono alla creazione di differenziali provinciali in termini di crescita relativa. 3.4 Le traiettorie dello sviluppo delle province italiane attraverso l’analisi del PIL Dopo una lettura delle dinamiche di sviluppo delle province italiane attraverso la strumentazione teorica fornita dall’ampia letteratura della convergenza, in questo paragrafo cercheremo una valutazione di tipo qualitativo dei percorsi di sviluppo intrapresi dalle economie locali nel periodo 1995-2002. I cicli economici che si sono susseguiti in questo periodo, non sembrano aver inciso sulla distribuzione del PIL pro capite in Italia, se è vero che le prime quattro province più ricche nel 1995 (nell’ordine, Milano, Modena, Bolzano e Bologna) sono le stesse del 2002. Milano risulta sempre al primo posto, questa volta seguita da Bolzano, Bologna e Modena. In fondo alla graduatoria delle province ritroviamo Crotone, come nel 1995, seguita da Foggia (che perde tre posizioni rispetto al 1995) ed Enna (terzultima nel 1995). Se agli estremi della graduatoria non si sono verificati evidenti ribaltamenti, in quanto il trend di crescita del PIL non è stato tale da permettere un radicale riposizionamento competitivo delle province (non è un caso che le posizioni delle prime e delle ultime 10 province sono state generalmente mantenute), significativi cambiamenti si sono avuti, invece, nelle realtà a sviluppo intermedio o che hanno conosciuto un consolidamento delle traiettorie di sviluppo attraverso processi di riconversione economico-produttiva intrapresi durante le fasi del ciclo più favorevoli. Cambiamenti conosciuti, almeno quelli più evidenti, soprattutto dalle province del Centro-Nord, contro un “fisiologico” movimento, tranne casi isolati, delle realtà del Mezzogiorno. I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 73 Giuseppe Capuano Tab. 5 - Prime 10 e ultime 10 province italiane per PIL pro capite - 1995/2002 Province 74 Milano Bolzano Bologna Modena Firenze Parma Belluno Roma Reggio Emilia Mantova Province Vibo Valentia Palermo Caserta Lecce Cosenza Agrigento Caltanissetta Enna Foggia Crotone pos. 02 N.I. 02 pos. 95 N.I. 95 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 152,6 150,6 136,5 135,4 129,0 127,9 127,4 124,6 122,9 122,9 1 3 4 2 11 7 20 13 6 8 155,4 139,1 139,1 140,8 125,1 133,3 119,3 123,6 133,7 127,4 pos. 02 N.I. 02 pos. 95 N.I. 95 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 64,1 64,0 63,4 61,6 61,3 60,5 58,8 57,7 57,5 56,9 101 91 92 97 98 100 95 102 99 103 56,1 62,5 62,2 59,1 58,7 57,9 61,0 54,2 58,5 47,2 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne Una lettura del cambiamento, quest’ultima, che probabilmente supera un approccio dicotomico “Nord-Sud” spesso alla ricerca di probabili, ma comunque deboli, segnali di riduzione degli squilibri tra le province: tra l’inizio e la fine del periodo considerato, il Mezzogiorno passa (dato Italia=100) da 65,8 a 68 contro il 119,6 e il 118 del CentroNord. Una riduzione del divario che risulta essere trainata nel periodo 1995-2002 dalla maggiore crescita di molte province meridionali rispetto a quelle del Nord: delle dieci province con il più alto tasso di crescita cumulato, ben sette appartengono infatti al Mezzogiorno. In particolare Crotone, nonostante l’ultimo posto in graduatoria per il PIL pro capite, evidenzia segnali di recupero posizionandosi al primo posto per tasso di crescita. Ciò le consente di migliorare il numero indice del PIL pro capite che, posto il dato Italia=100, passa dal 48,3 del 1995 al 56,9 del 2002. Proprio dall’analisi dei dati di Crotone emerge come le traiettorie dello sviluppo locale debbano essere lette in termini trasversali alle tradizionali grandi ripartizioni territoriali ed in una logica non strettamente settoriale ma di filiera, e che richiedono policy rivolte più alla ricerca dello sviluppo (più elevati tassi di crescita) che non alla riduzione degli squilibri tra province forti e province deboli del Paese, che tra l’altro ne rappresentano una mera conseguenza. Passando all’analisi dei singoli dati provinciali, segnali chiaramente positivi provengono da Siena, che nel periodo 1995-2002 guadagna 18 posizioni (dal 47° al 29° posto). Una performance dovuta soprattutto ad un processo di internazionalizzazione dell’economia iniziato nei primi anni novanta ed a un modello produttivo integrato sostenuto dal settore manifatturiero di qualità (soprattutto farmaceutico-biomedicale-meccanico) e dalla filiera agroalimentare-turismo. Ugualmente interessante la performance di Ravenna, che guadagna nello stesso periodo ben 15 posizioni (dal 31° al 16° posto), e di Genova, che ne guadagna 13, passando dal 52° al 39° posto. Un cenno particolare merita il capoluogo ligure che, distinguendosi in ciò dal resto della regione (da La Spezia in particolare), deve molto di questa performance ad un processo di riconversione economica forse tra i più forti fra le “tradizionali” capitali dell’industria italiana, con un terziario che oggi pesa per l’80,3% (8° posto nella graduatoria settoriale) nella formazione del PIL contro appena il 19,2% dell’industria (85° posto della graduatoria settoriale). Un processo di terziarizzazione conosciuto dalle altre capitali dell’industria italiana degli anni sessanta-settanta, quali Torino (15° posto nella graduatoria del PIL pro capite) e Milano, che consente loro di mantenere sostanzialmente le posizioni del 1995; senza escludere peraltro Roma che, in questo contesto, si conferma al primo posto per peso del terziario nella formazione del PIL (87,1%) e guadagna cinque posizioni in termini di PIL pro capite (dal 13° all’8° posto). Tra le realtà locali, che al contrario hanno accusato vistosi arretramenti, rientrano in particolare quelle province della cosiddetta “distrettualità tradizionale”, legate ad un modello di specializzazione produttiva tradizionale, ad alta elasticità della domanda rispetto al prezzo ed esposte fortemente alla concorrenza dei Paesi di Nuova Industrializzazione (NICs) come la Cina. Ci riferiamo nell’ordine a Lecco (passata dal I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 75 Giuseppe Capuano 76 22° posto del 1995 al 47° del 2002), Como (dal 29° al 50° posto), Prato (dal 22° al 47° posto) e Pordenone (dal 19° al 31° posto). Realtà provinciali dove il peso dell’industria nella formazione del PIL è tra i più alti d’Italia, con punte del 45,9% a Lecco (1° posto in Italia), del 40% a Pordenone (9° posto) e del 39,9% a Prato (10° posto). Province a vocazione distrettuale, a forte presenza industriale (soprattutto made in Italy) che come si evince anche dal “Rapporto PMI 2002” dell’Unioncamere-Istituto Tagliacarne e dalle analisi delle Camere di Commercio locali risultano in evidente crisi da alcuni anni. Una situazione di particolare disagio presenta l’industria del pratese, il cui peso in termini di PIL si riduce tra il 1995 e il 2002 di circa cinque punti percentuali, e del lecchese dove la riduzione si assesta contemporaneamente sui quattro punti percentuali. Una perdita di posizioni determinata anche da un andamento dell’economia sostanzialmente stagnante negli ultimi anni, ascrivibile soprattutto alla debolezza dei mercati esteri. Infatti, nell’ordine, Lecco, Como, Prato e Pordenone registrano il 102°, il 101°, il 100° e il 98° posto nella graduatoria relativa ai tassi di crescita cumulati del PIL nell’intervallo 1995-2002. Un andamento peggiore registra solo Aosta (ultima in graduatoria) che perde anch’essa 14 posizioni in termini di PIL pro capite. Un altro indicatore del cambiamento delle traiettorie dello sviluppo è la crescente importanza del settore agricolo e della filiera agroalimentare nella formazione del PIL. Infatti, nelle realtà provinciali a maggior valenza della filiera agroalimentare (le prime 15 province più agricole d’Italia), dopo il “tradizionale” buon posizionamento di Mantova (10° posizione nella graduatoria italiana del PIL pro capite) ritroviamo gli interessanti miglioramenti di Vibo Valentia e Isernia (+ 7 posizioni), Grosseto (+ 6 posizioni), Matera (+ 6 posizioni), Ragusa (+ 3 posizioni) e Benevento (+ 3 posizioni). Province con un tessuto imprenditoriale formato da micro-piccole imprese con una spiccata vocazione agroalimentare di qualità ed una organizzazione produttiva sul territorio di tipo sistemico, in alcuni casi caratterizzata dalla presenza di prodotti tipici con marchio di tutela (ad es. DOP, IGP, etc.). A supporto di questa lettura della geografia economica italiana va rilevato che, secondo la graduatoria dei tassi di crescita del periodo 1995-2002, nelle prime 15 province d’Italia ben 7 sono realtà a forte vocazione agroalimentare. Questi sono tutti segnali che indicano come, dopo il processo di industrializzazione conosciuto dall’Italia negli anni cinquanta-sessanta a cui è seguito il periodo post-industriale con l’avvento della terziarizzazione dell’economia e dello sviluppo diffuso caratterizzato dall’impresa minore e distrettuale degli anni ottanta-novanta, oggi siamo in presenza di un nuovo fenomeno caratterizzato dalle filiere produttive a forte valenza agroalimentare. Non è un caso che, con tutta la prudenza che l’argomento impone, nell’arco di tempo considerato, le province del Mezzogiorno presentano dinamiche interessanti sia in termini di crescita del PIL (ben 9 province delle 15 che hanno registrato un tasso di crescita cumulato del PIL più elevato appartengono al Mezzogiorno) che di performance settoriali, con particolare risalto della filiera agroalimentare, che in una fase di crescita rallentata, è probabilmente il comparto che ha tenuto meglio il mercato. Detto ciò, i segnali di riduzione degli squilibri territoriali in termini di PIL pro capite appaiono sostanzialmente deboli dovuti ad una maggiore omogeneità (al ribasso) nelle performance economiche. Probabilmente la risposta a questa apparente contraddizione è indicata dal fatto che la crescita segnata dalle province meridionali non è stata abbastanza forte e il risultato finale osservato è da attribuire, tra l’altro, ad un rallentamento delle aree economiche del Centro-Nord, notoriamente più aperte al ciclo economico internazionale e dove il peso della componente pubblica sul totale dell’economia, relativamente basso, costituisce un fattore di stabilizzazione del ciclo minore rispetto al Sud. Tab. 6 - Prime 15 e ultime 15 province italiane per peso dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi sul PIL - 1995/2002 Agricoltura Prov. Oristano Foggia Ragusa Cremona Mantova Matera Viterbo Benevento Enna Ferrara Vibo Valentia Rovigo Grosseto Catanzaro Imperia Pos. 02 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Peso % 02 Peso % 95 10,5 9,9 9,6 8,1 7,8 7,6 7,2 7,1 6,9 6,7 6,6 6,6 6,3 6,2 6,0 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne 9,9 12,6 15,5 9,1 8,7 10,1 8,3 8,2 8,0 7,6 6,4 8,0 6,6 5,6 11,0 Prov. I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 77 Pos. 02 Lucca 89 Belluno 90 Massa Carrara 91 Trieste 92 Biella 93 Como 94 Firenze 95 Torino 96 Roma 97 Lecco 98 Verbano-Cusio-Ossola 99 Genova 100 Varese 101 Prato 102 Milano 103 Peso % 02 Peso % 95 1,1 1,0 1,0 0,8 0,8 0,8 0,8 0,7 0,6 0,5 0,4 0,4 0,4 0,3 0,3 2,1 1,1 1,4 0,9 1,4 0,7 0,9 0,9 0,7 0,4 1,0 0,5 0,4 0,3 0,3 Giuseppe Capuano Industria Prov. 78 Lecco Reggio Emilia Bergamo Vicenza Novara Modena Treviso Biella Pordenone Prato Belluno Varese Como Brescia Mantova Pos. 02 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Peso % 02 Peso % 95 45,9 44,7 42,7 42,7 41,8 40,9 40,9 40,2 40,1 39,8 38,9 38,8 38,1 37,4 37,3 49,5 45,3 47,1 47,3 44,1 43,9 45,0 46,2 42,2 44,7 41,9 44,0 42,1 41,3 40,9 Prov. Ragusa Foggia Napoli Enna Catania Catanzaro Agrigento Reggio Calabria Trieste Grosseto Vibo Valentia Messina Palermo Imperia Roma Pos. 02 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Peso % 02 Peso % 95 17,9 17,1 16,7 16,7 16,7 16,0 15,9 15,8 15,6 14,8 14,3 14,0 13,8 13,7 12,4 16,9 17,0 19,6 18,3 19,3 17,7 16,2 14,1 17,7 16,8 17,0 16,1 16,2 13,8 14,6 Servizi Prov. Roma Palermo Trieste Messina Napoli Catania Imperia Genova Vibo Valentia Grosseto Reggio Calabria Agrigento Massa Carrara Aosta Catanzaro Pos. 02 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Peso % 02 Peso % 95 87,1 84,0 83,6 83,3 81,7 80,8 80,4 80,3 79,1 78,8 78,8 78,8 78,4 78,2 77,7 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne 84,6 80,9 81,3 80,4 78,7 77,1 75,3 79,5 76,6 76,6 77,9 76,6 74,0 73,5 76,8 Prov. Belluno Prato Brescia Biella Cuneo Pordenone Cremona Treviso Modena Novara Bergamo Vicenza Mantova Lecco Reggio Emilia Pos. 02 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 Peso % 02 Peso % 95 60,2 59,8 59,4 59,0 58,1 57,3 57,0 56,9 56,3 56,1 55,9 55,2 54,9 53,7 52,0 57,0 55,0 55,0 52,5 54,5 53,7 54,2 52,1 52,9 53,4 51,6 50,5 50,4 50,1 51,1 Tab. 7 - Prime 15 e ultime 15 province italiane per tasso medio di crescita del PIL pro capite - 1995/2002 Prov. Crotone Vibo Valentia Matera Isernia Grosseto Potenza Massa Carrara Ragusa Bolzano Enna Belluno Sassari Trapani Siena Benevento Var. % 95-02 7,19 6,35 6,00 5,95 5,94 5,79 5,61 5,56 5,48 5,39 5,27 5,27 5,24 5,18 5,18 n.i. 95 48,3 55,9 63,5 77,5 85,8 70,4 83,6 68,2 139,9 54,6 120,5 74,4 61,4 104,4 63,9 Prov. L’Aquila Bergamo Udine Trieste Brescia Vercelli Biella Siracusa Reggio Emilia Pordenone Viterbo Prato Como Lecco Aosta Var. % 95-02 3,44 3,40 3,38 3,35 3,34 3,33 3,23 3,14 3,09 2,98 2,93 2,76 2,68 2,34 2,31 n.i. 95 85,5 122,0 116,1 112,9 122,8 111,7 116,8 79,4 133,4 122,7 90,10 126,00 114,60 119,70 136,2 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne Da ultimo, l’analisi dei dati delle serie storiche del PIL con le relative articolazioni (valori pro capite e di settore) fornisce ulteriori indicazioni. L’attenzione delle policy, come già accennato, dovrebbe avere tra le priorità (uscendo da una lettura tradizionale dei fenomeni economici su base regionale) soprattutto la determinazione di maggiori tassi di crescita, più che la riduzione degli squilibri, che notoriamente possono essere conseguiti anche in un contesto di sviluppo territoriale debole. Conseguire lo sviluppo e non gestire gli squilibri, potrebbe essere un buon punto di partenza per la riflessione degli attori locali dello sviluppo e per le Autorità centrali competenti. I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 79 Giuseppe Capuano Cartina 1 - Mappatura provinciale in base al numero indice del PIL pro capite - Anno 2002 80 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne Cartina 2 - Mappatura provinciale in base al peso dell’agricoltura sul PIL - Anno 2002 I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 81 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne Giuseppe Capuano Cartina 3 - Mappatura provinciale in base al peso dell’industria sul PIL - Anno 2002 82 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne Cartina 4 - Mappatura provinciale in base al peso dei servizi sul PIL - Anno 2002 I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane I fattori dello sviluppo regionale 83 Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne CAPITOLO 4 Il ruolo del risparmio nello sviluppo regionale A 40 I tratti principali della teoria keynesiana sono i seguenti: eguaglianza tra risparmio e investimento; l’investimento determina il risparmio; la domanda aggregata determina il livello di produzione ed è composta da consumi, investimenti, spesa pubblica e esportazioni nette. 41 La teoria dell’investimento basata sul principio dell’acceleratore considera che gli investimenti siano stimolati dall’accrescimento della domanda finale. Se quest’ultima fosse stazionaria, gli investimenti sarebbero limitati alla mera sostituzione dei beni capitali obsoleti, in base alla seguente relazione: I = b (Xt – Xt-1). Il coefficiente b, che misura il rapporto tra aumento di reddito e aumento del fondo capitale investito, è l’acceleratore. Per un approfondimento sul tema: A. Graziani (1981), Teoria Economica, ESI, Napoli, pp.439- 455. 4.1 Il risparmio nel modello Harrod-Domar A partire dagli anni ’60 quasi tutti i piani di sviluppo elaborati nei Paesi in via di sviluppo (PVS), hanno seguito implicitamente l’uso dei modelli di Harrod (1948) e Domar (1958) o di loro derivazione (successivamente denominati H-D). Questi modelli appartengono alla tradizione keynesiana, in quanto accolgono in pieno la “teoria del reddito” di J. M. Keynes (1936)40. Il modello H-D è uno dei più semplici modelli macroeconomici dello sviluppo ed è il primo che utilizza esplicitamente il meccanismo dell’acceleratore41, trasformando la teoria del reddito nazionale (statica e di breve periodo) in teoria dello sviluppo (dinamica e di lungo periodo). La caratteristica di questo modello è quella di considerare la propensione al risparmio (s/y) come variabile data e costante42, con la conseguenza che il tasso di sviluppo di equilibrio del sistema economico è determinato dal valore di questa variabile. In questo contesto le scelte individuali sulla ripartizione delle risorse tra consumi e investimenti sarà fondamentale per la determinazione del tasso di sviluppo, relegando in secondo piano le decisioni degli imprenditori-investitori43. Per comprendere meglio quanto svilupperemo successivamente, faremo un esempio pratico del modello, utilizzando degli elementari esempi numerici. Se la popolazione di un paese/regione aumenta del 2% l’anno, per ottenere una crescita del reddito pro capite del 2%, occorrerà che il reddito nazionale/regionale cresca del 4%. Ipotizzando che il rapporto marginale capitale-prodotto sia 3 (ciò significa che per aumentare il prodotto di 1 Euro sarà necessario investirne 3), per conseguire un aumen- Giuseppe Capuano 88 42 Nella teoria postkeynesiana la propensione al risparmio non è considerata costante come nella teoria keynesiana ma dipende dalla distribuzione del reddito nazionale tra salari (la propensione al risparmio dei salariati è più bassa) e profitti (la propensione degli imprenditori è più elevata). Di conseguenza, la propensione media al risparmio dell’intera collettività dipenderà dalla distribuzione del reddito nella società. 43 Altre correnti di pensiero hanno sostenuto posizioni opposte, ponendo il ruolo dell’imprenditoreinvestitore in primo piano rispetto alle scelte individuali. Tra questi si veda la posizione dei Post-Keynesiani come J. Robinson, N. Kaldor, R. Kahn e L. Pasinetti. Per una esposizione generale sul pensiero postkeynesiano: I. Musu (1980), I neokeynesiani, Bologna, Il Mulino. to del reddito del 4% bisognerà risparmiare e investire il 12% del PIL. Infatti, la formula finale del modello è rappresentata dal rapporto: G = s/br dove: G è il tasso di accrescimento del reddito; s è la propensione al risparmio; br è il coefficiente di capitale. In termini numerici il rapporto nel nostro esempio sarà: 12%/3 = 4%. Questa impostazione è stata sostenuta da numerosi economisti del sottosviluppo (ad esempio Lewis, 1963; Myint, 1967, etc.), i quali ritenevano che una economia per raggiungere il “take-off ” dovrà risparmiare ed investire più del 10% del reddito nazionale/regionale. Tale tesi è stata comprovata da alcuni studi sul risparmio riguardante i paesi occidentali durante il loro decollo economico. Considerando con riserva la possibilità di applicazione di modelli economici e risultati empirici dei Paesi occidentali ai PVS o comunque a regioni in ritardo di sviluppo dei Paesi industrializzati, riteniamo che il problema vada differenziato a seconda che si considerino i primi o i secondi. La realizzazione dei piani di sviluppo nei PVS ha visto nell’accumulazione del capitale, prima ancora della mancanza di un’adeguata propensione ad investire, uno dei maggiori problemi. Infatti, i modelli di sviluppo che si rifacevano a quello di H-D non hanno dato i risultati sperati, a causa di un’insufficiente livello del risparmio necessario a favorire l’espansione degli investimenti. Al contrario, il problema centrale del nostro Mezzogiorno, è antitetico a quello dei PVS, in quanto il livello del risparmio potrebbe risultare sufficiente (grazie anche al risparmio generato in altre realtà del nostro Paese e dai trasferimenti dovuti alla Pubblica Amministrazione) a garantire una potenzialità d’investimento elevata, mentre la vera strozzatura del modello è rappresentata dalla insufficienza degli investimenti e dalla loro bassa produttività dove sono realizzati. Di conseguenza, nel caso dei PVS, sarà il valore del numeratore (propensione al risparmio) ad essere troppo basso da poter generare un tasso di crescita sufficientemente elevato; nel Mezzogiorno, invece, è il livello degli investimenti ad essere insufficiente, dando origine ad un tasso di accrescimento “effettivo” del reddito, inferiore al tasso di accrescimento “giustificato”, dalle risorse disponibili e creare fenomeni di divergenza rispetto alle economia regionali più forti del nostro Paese. I risparmi, quindi, superano gli investimenti (esiste anche un gap negativo tra depositi e impieghi realizzati nella macroregione) e ciò si manifesta generalmente in un accumularsi delle scorte e quindi in un eccesso del coefficiente di capitale “effettivo” rispetto a quello “giustificato”. La conseguenza è il perpetuarsi degli squilibri Nord-Sud e la realizzazione di tassi di crescita insufficienti per il conseguimento del “take-off ” dell’economia meridionale. I fattori dello sviluppo regionale Il ruolo del risparmio nello sviluppo regionale In conclusione, seguendo l’impostazione di H-D, è la propensione al risparmio a determinare il tasso di sviluppo di equilibrio di una economia, e solo interventi che ne determinino il livello (in aumento/diminuzione), prescindendo da variazioni della produttività del capitale, possono accelerare o ritardare lo sviluppo. 4.2 Una rivisitazione della teoria del “ciclo vitale” di Modigliani e sua applicazione ad una economia a basso livello di sviluppo Il livello della propensione al risparmio e del volume di reddito risparmiato in una economia, in un determinato periodo è sempre stato ritenuto di estrema importanza nel quantificare il grado di sviluppo raggiungibile da un paese/regione. J.M. Keynes considerava il risparmio come mero residuo derivante dalla scelta del soggetto economico di quanto destinare al consumo del reddito percepito, e teorizzava una relazione diretta tra incremento del reddito ed incremento del risparmio (Y=sY), anche se la quantificazione di tale relazione non risultava proporzionale. Dallo studio delle serie storiche relative ai Paesi occidentali, però, tale incremento non si registrava, nonostante l’aumento del livello del reddito. Modigliani dette negli anni sessanta una brillante spiegazione della contraddizione che si aveva tra l’ipotesi Keynesiana e la realtà economica. Egli elaborò una teoria del “ciclo vitale” secondo la quale i soggetti economici risparmiano durante la loro età lavorativa per disinvestire durante la vecchiaia44. La formulazione di tale teoria ha vissuto due momenti fondamentali: il primo risale all’elaborazione di un lavoro presentato nel 1958 nel quale si sosteneva che la domanda di beni di consumo dipende oltre che dal reddito corrente anche dal reddito futuro atteso.Tale ipotesi risulta irrilevante quando la differenza tra i due redditi è tendente a zero, mentre al contrario essa è di estrema importanza in economie in fase di sviluppo. Modigliani parte dalla considerazione che un individuo risparmi per preservarsi da fluttuazioni di reddito future e contro l’incapacità di produrre reddito durante la vecchiaia, quindi egli fa le proprie scelte basandosi su un livello medio del reddito ritenuto normale. In una economia dove sia crescita del reddito che della popolazione siano ritenute stazionarie, il risparmio netto ne risulterebbe nullo. Al contrario, in una società progressiva, dove sia il reddito che la popolazione abbiano degli incrementi netti positivi, vi sarà un risparmio netto positivo, dovuto sia al fatto che le classi che risparmiano, ossia quelle più giovani, sono più numerose di quelle anzia- 89 44 Per un approfondimento sui principali scritti scientifici di Franco Modigliani: Modigliani, Reddito, Interesse e Inflazione, scritti scientifici raccolti da Tommaso e Fiorella Padoa-Schioppa, Einaudi, 1987, Torino. Giuseppe Capuano 90 ne, sia perché, essendo il reddito previsto per la vecchiaia commisurato ad un reddito medio crescente, l’ammontare di reddito risparmiato sarà maggiore. Il secondo momento della teoria del “ciclo vitale” è rappresentato da uno studio apparso nel 196345, dove Modigliani riformulò parzialmente quanto ora detto, sostenendo che il consumo (e quindi il risparmio), dipende dall’insieme di risorse in possesso del soggetto economico e cioè: a) reddito corrente; b) ricchezza accumulata; c) reddito futuro atteso. Dato che si presume che il reddito futuro atteso sia proporzionale al reddito corrente, si può ritenere che il consumo dipenda solo dalle prime due grandezze (reddito corrente e ricchezza cumulata), potendo scrivere: Ct = Wt + cXt dove: W rappresenta la ricchezza accumulata e c rappresenta l’influsso esercitato sul consumo dal reddito corrente e dal reddito atteso (Xt). Dalle considerazioni fatte da Modigliani sul perché si possa avere un livello anziché un altro del volume di risparmio presente in una economia, riferendoci al caso specifico di una economia regionale in fase di sviluppo come il Mezzogiorno d’Italia, riteniamo che le motivazioni addotte da Modigliani per spiegare il livello del risparmio in una economia nazionale o regionale che non sia fortemente sviluppata, presentano qualche punto debole, nel senso che la teoria del “ciclo vitale” è valida a spiegare il livello di risparmio quando si tratta di economie avanzate; al contrario presenta qualche problema di tipo esplicativo quando l’analisi si sposta su realtà in fase di sviluppo. Per dare una evidenza empirica alle nostre affermazioni daremo successivamente alcuni dati sull’andamento della popolazione e del risparmio nel Mezzogiorno confrontandoli con quelli del Centro-Nord d’Italia e traendone alcune conclusioni. La popolazione nel Mezzogiorno è passata dai 18 milioni 874mila unità del 1971 ai 20 milioni 475mila del 2002 (Tab.8), passando dal 34 al 35,9% sulla popolazione totale italiana, contro una riduzione del peso delle regioni del Centro-Nord (65% nel 1971 contro il 64% del 2002). Tab. 8 - Andamento della popolazione (migliaia di unità) 45 Modigliani, F. (1963), The “Life Cycle” Hipothesis of Saving: Aggregate Implications and Test, in “ American Economic Review”, vol. 53. 1971 1981 1991 2001 2002 Centro-Nord 35.262 36.504 36.241 36.054 36.598 Mezzogiorno 18.874 20.053 20.537 20.251 20.475 Italia 54.137 56.557 56.778 56.306 57.073 Fonte: ISTAT I fattori dello sviluppo regionale Tab. 9 - La popolazione italiana e l’indice di vecchiaia 1971 1981 1991 2000* Più di 65 anni 6.101.820 7.475.719 8.700.185 10.555.935 Totale 54.136.547 56.556.911 56.778.031 57.844.017 Indice di vecchiaia 41,9 66,8 105,2 127,1 CENTRO-NORD 1971 1981 1991 2000 Più di 65 anni n.d. 5.212.362 6.052.997 7.256.540 Totale n.d. 36.564.493 36.240.547 36.993.866 Indice di vecchiaia n.d. 75,2 124,4 154,4 MEZZOGIORNO 1971 1981 1991 2000 Più di 65 anni n.d. 2.263.357 2.647.188 3.299.395 Totale n.d. 19.992.418 20.537.484 20.850.151 Indice di vecchiaia n.d. 44,2 63,9 91,5 * Il dato non censuario relativo alla popolazione presenta una notevole differenza con quello presente nella tabella precedente (censuario, 2001) a causa delle diverse modalità di calcolo. Fonte: ISTAT Tale andamento ha portato ad un invecchiamento della popolazione italiana più forte al Centro-Nord che al Sud. Seguendo la teoria di Modigliani, il risparmio nelle regioni meridionali avrebbe dovuto avere un trend migliore rispetto al Centro-Nord. Invece, l’evidenza empirica sembrerebbe confutare tale ipotesi: se al Nord la propensione al risparmio del sistema economico macroregionale, nell’ultimo decennio, è stata pari a circa il 21%, nel Mezzogiorno risulta pari a circa il 17%. Inoltre, il risparmio delle regioni del Centro Nord nello stesso periodo è cresciuto del 23% contro il 19% del Sud. Il ruolo del risparmio nello sviluppo regionale ITALIA 91 Giuseppe Capuano Tab. 10 - Tasso di disoccupazione 92 1981 1991 2001 2002 Centro-Nord 7,2 6,5 5,0 4,7 Mezzogiorno 13,9 19,9 19,3 18,3 Italia 9,2 10,9 9,5 9,0 Fonte: ISTAT A nostro avviso tale situazione è spiegabile con l’inserimento nel ragionamento teorico anche del concetto di “aspettativa” e di differenti tipologie di fonte di reddito. Nel modello presentato da Modigliani una popolazione più giovane, è sinonimo di maggiore produttività e maggiore occupazione, caratteristiche tipiche di una economia altamente sviluppata, con un relativo incremento del volume di reddito risparmiato. Al contrario in una economia in fase di sviluppo, come quella del Mezzogiorno, una popolazione in crescita è una delle cause della maggiore disoccupazione (Tab. 10). L’alto livello della disoccupazione meridionale produce una rilevante quota di redditi da trasferimento di vario genere (a volte integrate anche da redditi derivanti da “lavoro nero”), atti a compensare il mancato reperimento di redditi da lavoro (Tab. 11). Tab. 11 - Struttura del reddito familiare (2000) Reddito lavoro Reddito libera Reddito da dipendente professione trasferimento Reddito da capitale Totale Centro-Nord 41,0 14,4 21,5 22,9 100,0 Mezzogiorno 38,1 15,3 28,0 18,6 100,0 Italia 40,0 14,6 23,2 22,1 100,0 Fonte: BANCA D’ITALIA Caratteristica di queste particolari fonti di reddito è che esse hanno una più bassa propensione media al risparmio dovuta sia all’esiguità dell’importo pro-capite dei sussidi sia alla temporaneità della loro erogazione. Partendo da questo assunto e ampliando il campo di applicazione della riflessione, noi sosteniamo che esistono non una ma n propensioni medie al risparmio quante sono le tipologie di fonti di reddito dalle quali è generata, in quanto i comportamenti umani sono diffe- I fattori dello sviluppo regionale Il ruolo del risparmio nello sviluppo regionale renziati in base alle caratteristiche, in termini di valore e durata, del reddito percepito e, soprattutto, di quello atteso. Questa nostra conclusione si basa sui principi dettati dall’economia comportamentale ed in particolare sul concetto di “contabilità mentale”, che unisce la scienza economica alla psicologia. Questa idea, sviluppata da Richard Thaler dell’Università di Chicago, sottolinea come uno degli errori più comuni e costosi legati al denaro, ovvero la tendenza a valutare il valore, ad esempio di un euro, minore di un altro euro a seconda della fonte di reddito e della sua quantità46. Formalizzando una simile conclusione si può descrivere il fenomeno con la seguente equazione: S/Y = Sj/Yj + Sn/Yn dove: S/Y è la propensione media al risparmio totale; Sj/Yj è la propensione media al risparmio determinata da redditi da lavoro dipendente/autonomo; Sn/Yn è la propensione media al risparmio determinata da altre fonti di reddito (in particolare sussidi, trasferimenti, etc.); Più le caratteristiche delle fonti di reddito si avvicinano a quelle da lavoro dipendente/autonomo (reddito costante nel tempo, adeguato almeno ai livelli minimi di settore, etc.) maggiore, a parità di condizioni, è la propensione media al risparmio (S/Y) di una regione rispetto a quelle dove la composizione del reddito vede le fonti di reddito “non permanenti” o che si avvicinano alla “gratuità” (Sn/Yn), avere un peso più elevato. Questa affermazione ben si sposa con un assunto già conosciuto nella letteratura economica con il quale si afferma che le regioni economiche con più basso livello di reddito hanno una propensione al consumo (C/Y) più elevata rispetto a realtà a reddito più alto. Altra componente che influenza la formazione del risparmio, sono le aspettative riguardanti la possibilità di uno sviluppo accelerato o comunque con tassi di crescita più elevati rispetto al resto del Paese. Esse sono mediamente peggiori perché basate su informazioni di tipo storico che ne influenzano fortemente la formazione. La differenza di segno delle aspettative tra una realtà regionale più ricca rispetto ad una più povera non è l’unica, in quanto, a parità del trend previsto, i comportamenti sono diversi secondo il livello del reddito: in un paese avanzato economicamente, la presenza 93 46 Per un approfondimento sull’economia comportamentale: Belsky, G. and Gilovich, T, (2003), Soldi al vento, Etas. Giuseppe Capuano 94 47 In questa direzione va anche il modello econometrico del Ministero del Tesoro nel Piano di Sviluppo del Mezzogiorno 2000-2006 che, grazie all’input degli investimenti generati dai Fondi Strutturali, aveva previsto una crescita tanto elevata (5-6% annuo, tasso tre volte superiore alla crescita media registrata dal Mezzogiorno nella seconda metà degli anni novanta), da riassorbire in parte la disoccupazione meridionale e un cambiamento della struttura sociale, in quanto il sottosviluppo del Sud non ha cause solo economiche, ma soprattutto culturali e politiche; in pratica “crescita più cambiamento” come affermava H. Singer (1975), The strategy of economic development, Mac.Millan. Per una critica ai risultati in termini di tasso di crescita del modello econometrico del Ministero del Tesoro: Capuano, G., Il ciclo di vita dell’Osservatorio Economico Locale. Un approccio teorico alla lettura delle dinamiche del territorio, W.P. Istituto Tagliacarne, n.27.00. di aspettative negative favorisce il risparmio per far fronte ad una diminuzione in termini reali del reddito futuro atteso con una conseguente contrazione dei consumi; in una economia più debole avviene generalmente il contrario. Infatti, in economie in fase di sviluppo, come possono essere considerate molte regioni del Mezzogiorno, le aspettative negative sulla crescita, coadiuvate da livelli di reddito pro-capite medio-bassi e da particolari fonti di reddito (in particolare da trasferimenti, sussidi, etc.), portano ad una diminuzione della propensione media al risparmio del sistema o comunque ad un suo livello più basso rispetto ad una situazione di “ottimo paretiano” ed a un aumento dei consumi. Altro aspetto riguarda la formazione del reddito futuro atteso. In una economia in fase di sviluppo esso risulta essere indipendente rispetto al reddito corrente o comunque non avere un forte legame. Ciò è in parte spiegabile in base all’esperienza storica dei trend di crescita del PIL. Lo sviluppo di una economia si manifesta quasi sempre per “balzi” e l’esempio del “boom” italiano nel periodo 1958-1963 o l’esempio dei Paesi di nuova industrializzazione ne sono una prova47. Solo se la crescita è graduale e costante nel medio-lungo periodo (come quella statunitense alla quale Modigliani fa riferimento), il reddito futuro atteso è proporzionale al reddito corrente. Ciò non accade per le motivazioni esposte in precedenza in quelle economie nazionali o regionali in fase di sviluppo/deboli. Per questo motivo uniformare il reddito futuro atteso con quello corrente nella funzione al consumo è discutibile quando si analizza il livello del consumo in una economia del secondo tipo. Inoltre, anche la propensione al consumo è condizionata, secondo le tesi esposte in precedenza, dalla fonti di reddito che lo generano. Da ciò la funzione del consumo potrà essere scritta nella forma seguente: 1) C = Cr + Cf ; 2) Cr = Cn + Cj; 3) C = Cn + Cj + Cf ; dove : Cr = reddito corrente; Cj è il consumo determinato da redditi da lavoro dipendente\autonomo; Cn è il consumo determinato di altre fonti di reddito; Cf è il consumo determinato dalle aspettative sul reddito futuro atteso. Considerando l’equazione del reddito in termini keynesiani ossia Y = C + S e andando a sostituire al secondo membro la funzione del consumo e al risparmio (modificata con la componente determinata dalle aspettative) come da noi esposte ed integrate in precedenza, avremo: 4) Y = (Cn + Cj + Cf) + (Sj + Sn + Sf) 5) Y – Cn – Cj – Cf = (Sj + Sn + Sf) L’equazione 2) può anche essere espressa in funzione del consumo totale introducendo dei coefficienti che esprimono il rapporto tra il consumo derivante dalle altre fonti di reddito, da lavoro e dalle aspettative sul reddito futuro atteso. Più elevato sarà il valore dei sussidi erogati (componente importante delle “altre fonti di reddito” in una realtà economica debole), maggiori saranno le aspettative negative nei termini spiegati precedentemente, più alti saranno i consumi, e di conseguenza più basso sarà il livello di reddito risparmiato. In conclusione, la teoria del “ciclo vitale” può spiegare meglio il livello di risparmio in un paese economicamente avanzato, mentre la teoria del “ciclo vitale integrata” (come si sintetizza nella 4), ci sembra più efficace nel tentare di spiegare la formazione del risparmio in una regione in fase di sviluppo o a economia debole di un paese industrializzato come potrebbero essere alcune realtà regionali del nostro Mezzogiorno. Il ruolo del risparmio nello sviluppo regionale I fattori dello sviluppo regionale 95 CAPITOLO 5 Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri regionali I n questo ultimo capitolo si analizzerà un particolare aspetto di finanza pubblica, quale il finanziamento del deficit dello Stato attraverso il debito pubblico e come quest’ultimo ha impattato sulla distribuzione del reddito e su come la sua formazione abbia contribuito agli squilibri regionali Nord-Sud. Al centro della nostra analisi è lo studio delle dinamiche del debito pubblico nel periodo compreso tra il 1975 ed il 1985 (anno in cui per la prima volta il debito pubblico superò il valore complessivo del PIL), anni cruciali per la formazione del debito dello Stato sui livelli che ancora oggi conosciamo. La nostra tesi è che la forte crescita del debito pubblico di quegli anni e il suo successivo mantenimento su livelli superiori al 100% del PIL ha influito negativamente sulla riduzione degli squilibri Nord-Sud a tutto vantaggio delle regioni settentrionali del Paese. L’analisi svolta è un evidente esempio di come fattori di natura palesemente macroeconomica e di apparente neutralità sul livello mesoeconomico, hanno un impatto notevole nella determinazione delle traiettorie dello sviluppo regionale. 5.1 Lo scenario economico di riferimento Dalla fine degli anni ’50 gli Stati europei si sono dotati di un regime di protezione sociale che non aveva precedenti nelle economie occidentali: il cosiddetto “Welfare State”. L’impostazione macroeconomica che accompagnava la costituzione dello “Stato sociale”, era prevalentemente Keynesiana e prevedeva un aumento dell’intervento dello Stato nell’economia tramite l’incremento dei livelli di spesa. 99 Giuseppe Capuano 100 La spesa pubblica doveva essere lo strumento di politica economica atto a sollecitare la crescita del PIL ed assumere il ruolo di ammortizzatore sociale nell’intento di elevare il tenore di vita dei soggetti economici con livelli di reddito medio-bassi. In ogni caso questo tipo di intervento statale era l’espressione di una situazione congiunturale che negli anni sessanta presentava alti tassi di crescita del PIL (in media 5-6% annuo) e forti incrementi dell’occupazione (aumento medio annuo dell’1-1,5%). Il favorevole andamento ciclico subì una inversione di tendenza negli anni ’70. Le cause principali che portarono al mutamento dello scenario dell’economia internazionale le ritroviamo principalmente nell’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari negli anni 1970-72 e nelle due crisi petrolifere (1973–1974 e 1978-1979) e in tutti gli effetti a catena che da esse generarono. Questo decennio fu caratterizzato (come i primi anni ’80) da una fenomeno sconosciuto alle economie europee fino ad allora: la stagflazione, ossia un mix tra alti tassi d’inflazione e elevata disoccupazione (Tab.1). Tab. 12 - Inflazione e disoccupazione nell’Europa a 10 Paese 48 Per “curva di Phillips” si intende la relazione empirica rilevata dall’economista inglese A.W.Phillips (1914-1975) tra variazione dei salari (successivamente trasformata da R.G.Lipsey in tasso di inflazione) e livello della disoccupazione in uno studio sull’economia britannica apparso nel 1958. Belgio Danimarca Germania Grecia Francia Irlanda Italia Lussemburgo Paesi Bassi Regno Unito 1961-70 Infl. 3.1 5.8 2.7 2.5 4.3 4.6 3.8 2.5 4.1 3.9 1971-80 Disoc. 2.2 1.1 0.8 °*° 0.9 4.5 5.2 0.1 1.0 1.9 Infl. 7.1 10.1 5.1 13.6 9.5 13.8 14.6 6.7 7.8 13.3 1985 Disoc. 5.5 3.8 2.7 °*° 3.8 7.4 6.0 0.3 4.5 4.2 Infl. 6.0 4.2 2.1 18.0 5.8 5.7 8.6 3.7 2.4 5.3 Disoc. 13.8 9.1 8.4 8.3 10.7 17.1 12.6 1.7 13.2 12.0 Fonte: Commissione Europea, Relazione Economica Annuale 1985-86 La presenza di questo fenomeno mise in discussione tutta l’impostazione Keynesiana, a cominciare dal ruolo svolto dallo Stato nell’economia a finire alla validità empirica della “curva di Phillips”48. Nonostante lo scenario economico internazionale fosse cambiato radicalmente in senso negativo, si vollero mantenere gli stessi livelli di spesa, anzi essi aumentarono in ter- Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri ... I fattori dello sviluppo regionale mini reali, passando nella Ue dal 37,9% del PIL nel 1970 al 51,5% del PIL nel 1985. Tale incremento portò inevitabilmente ad una crescita dei deficit nazionali. Ciò si verificò in quanto se la spesa pubblica poteva essere agevolmente finanziata con prelievi obbligatori in anni di forte crescita, in un periodo in cui il tasso di crescita del PIL era debole o addirittura negativo (1981-1983) l’equilibrio tra entrate e uscite degli Stati veniva a rompersi. Altra caratteristica presente nella spesa pubblica negli anni settanta - ottanta è la modificazione della sua struttura. Se nel 1973 le spese in conto capitale rappresentavano mediamente il 4,1% del PIL, esse cadevano al 2,9% nel 1982, mentre le spese in conto corrente delle Amministrazioni Pubbliche aumentavano, nello stesso periodo, dal 35% al 47% del PIL 49. Tutto ciò andava contro gli stessi principi Keynesiani, ai quali essa si era ispirata, dato che, J.M. Keynes teorizzava che solo le spese per investimenti fossero finanziate in deficit e non certo, anche e soprattutto quelle per trasferimenti. Non a caso, nella Ue, il deficit pubblico dal 3,1% del PIL nel 1971-80 passò al 5,7% nel 1982, per poi discendere al 5,2% del 1985, al 4,6% nel 1986 e al 4,4% nel 1987. Ovviamente la situazione dei singoli Paesi Ue si presentava alquanto eterogenea (Tab. 13): vi erano alcuni Paesi dove il deficit superava il 10% del PIL (Irlanda, Portogallo e Italia), altri in cui il saldo del bilancio statale era in attivo (Lussemburgo e Danimarca). Di conseguenza, quando si parla di media Ue in quel periodo, bisogna considerare lo stato di eterogeneità in cui si presentavano le singole economie, situazione che, attraverso il rispetto dei parametri di Maastricht, si è abbastanza modificata a favore di una maggiore omogeneità. Nonostante tutto, gli Stati europei hanno ancora oggi l’esigenza di contenere un deficit strutturale che comunque si è molto ridimensionato negli ultimi anni, in particolare in Italia (da alcuni anni il deficit di bilancio è al di sotto del 3% in termini di PIL). 101 49 M.Albert - R.J.Ball, Per una ripresa dell’economia europea negli anni ’80, in Documenti di Lavoro, Parlamento Europeo, 1983. Giuseppe Capuano Tab. 13 - Evoluzione del deficit del bilancio dello Stato (in % del PIL) Paese 102 1970 1973 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 Belgio Danimarca Germania Grecia Spagna Francia Irlanda Italia Lussemburgo Olanda Portogallo Regno Unito -2.2 4.1 0.2 °*° 0.7 0.9 °*° -3.5 2.7 -1.2 °*° 3.0 -3.3 5.2 1.2 °*° 1.1 0.9 °*° -7.0 3.3 1.0 °*° -2.7 -12.6 -7.1 -3.9 -10.6 -3.0 -1.8 -15.8 -11.7 -2.3 -5.2 -10.1 -2.7 -11.1 -9.3 -3.4 -9.4 -5.8 -2.5 -14.2 -12.7 -1.3 -7.1 -8.8 -2.4 -11.7 -7.3 -2.5 -8.9 -5.4 -3.2 -11.8 -12.4 -0.8 -6.5 -7.1 -3.7 -9.8 -4.2 -1.9 -10.1 -5.0 -2.9 -9.7 -13.0 1.5 -6.3 -7.7 -4.2 -9.3 -1.9 -1.1 -13.9 -6.2 -2.6 -11.4 -14.0 4.2 -5.1 -11.1 -3.1 -8.9 2.4 -0.7 -9.5 -5.1 -2.4 -9.6 -12.7 3.7 -5.2 -11.2 -3.2 -8.1 3.2 -0.3 -6.4 -4.7 -2.6 -9. -12.8 2.6 -5.8 -11.2 -2.9 UE a 12 0.3 1.0 -5.2 -5.7 -5.6 -5.4 -5.2 -4.6 -4.4 Fonte: Commissione Europea 5.2 La crescita del debito pubblico negli anni ottanta La presenza di un elevato deficit di bilancio, a partire dalla fine degli anni settanta, determinò in Italia un forte aumento del debito pubblico. Le alternative di finanziamento del debito possono essere generalmente le seguenti: a) espansione della base monetaria; b) aumento della pressione fiscale; c) ricorso al debito pubblico; d) prestiti esteri. A riguardo della base monetaria la tentazione di far ricorso all’espansione degli aggregati monetari (M1; M2; M3) in quegli anni era molto forte. Essa si attuava principalmente tramite un processo di monetizzazione del debito pubblico. La Banca centrale sottoscriveva dei titoli pubblici, rimpiazzando con un debito non remunerato (la moneta Banca centrale) i titoli di Stato con remunerazione reale. I fattori dello sviluppo regionale Infatti, in uno studio dell’OCSE 50 si dimostrava che, anche se non vi era una relazione diretta e proporzionale tra crescita del deficit pubblico e base monetaria, esisteva negli anni ’70 un preciso rapporto causa-effetto (Tab. 14). Tab. 14 - Espansione monetaria in alcuni Paesi occidentali (in %) Paese 1970 1975 1982 USA Giappone Germania Fed. Francia Gran Bretagna Italia Belgio Danimarca 5.9 16.9 8.9 15.0 9.4 14.9 8.1 4.8 10.2 14.5 11.5 15.7 7.1 15.7 15.3 27.0 12.2 7.6 6.9 11.3 11.4 17.5 7.7 11.1 Fonte: FMI, Statistiques Financières Internationales, 1983. Ma la spinta a finanziare il deficit tramite l’aumento della base monetaria doveva rientrare per problemi di natura inflazionistica, che portarono i governi europei ad applicare una politica monetaria restrittiva con un aumento dei tassi d’interesse, che seguendo a ruota la crescita dell’inflazione, aumentavano il costo medio del debito. Se si fosse seguita all’infinito tale politica, la crescita del PIL nominale sarebbe stata necessariamente maggiore, con un tasso di inflazione costantemente accelerato, superiore ai tassi d’interesse pagati per il debito corrente, ottenendo la riduzione del debito pubblico, del deficit e dell’onere sul debito in termini di PIL, operando anche la possibilità di far aumentare la spesa. Di conseguenza negli anni ’80 si conobbe una situazione economica in cui la politica di spesa risultava espansiva e la politica monetaria restrittiva. Il risultato fu l’annullamento dei reciproci effetti, dove gli incrementi di produzione e domanda interna messi in essere dalla politica di bilancio espansiva, furono quasi totalmente frenati dall’aumento dei tassi d’interesse51. Per quanto riguarda la pressione fiscale, in quel periodo aumentò fortemente, limitando i margini di manovra negli anni successivi, portando la pressione fiscale in Europa ai livelli poi conosciuti anche negli anni novanta52. 50 P. Atkinson - A. Blundell Wignall, Financement du déficit budgétaire et controle monétaire; R. Price, Déficit du secteur public: problémes et implication em matiére de politique; i due lavori sono stati presentati dall’OCSE nel 1983. 51 M. J. de Larosiére, Les récentes augmentations de la dette pubblique menacent la reprise économique, in Bulletin del FMI del 10 settembre 1984. 52 Già C. Clark affermava che una pressione fiscale del 25% poteva provocare fenomeni inflazionistici mentre J.M. Keynes preannunciava la rivoluzione se tale pressione avesse superato il 50%. Giuseppe Capuano 104 Mediamente nei paesi della CEE, nel 1984, essa era pari al 46,4%, per assestarsi su questi valori sia nel 1985 (46,3%) che nel 1986 (46%). Anche in questo caso la situazione nell’Unione Europea si presentava eterogenea: in Danimarca e Olanda la pressione fiscale era pari al 55%, in Italia al 48%, in Germania al 46%, in Francia al 45%, in Gran Bretagna al 41%, in Grecia al 25%, e in Spagna al 26,3%. In ogni caso, per ragioni di ordine economico-sociale e per il livello della spesa pubblica, interventi sul volume delle entrate, sia in aumento che in diminuzione, erano tecnicamente improponibili se non si fossero verificati mutamenti sia qualitativi che quantitativi del bilancio degli Stati membri. Secondo l’annuale relazione della Banca centrale spagnola del 1986, una soluzione duratura del deficit pubblico doveva basarsi sulla riduzione della spesa pubblica, in quanto, come confermava l’esperienza maturata, gli intenti di risolvere il problema con un aumento delle entrate, senza ridurre la spesa, finiscono spesso per creare una situazione nella quale il maggior volume di introiti fiscali finanzia un livello superiore di spesa. A questo proposito, è rilevante ai fini del nostro lavoro sottolineare la composizione di alcune voci delle entrate dei vari Stati Ue nel periodo 1970 - 1985. Se le imposte indirette rappresentavano un peso alquanto invariato in termini di PIL tra il 1970 ed il 1985 (anzi una leggera diminuzione), le imposte dirette crebbero dal 10,3% del 1970 al 13,2% del 1985 (Tab. 15). Tab. 15 - Struttura delle entrate della UE (in % del PIL) Imposte indirette Imposte dirette 1970 1982 1985 13.9 10.3 13.5 13.0 13.8 13.2 Fonte: EUROSTAT Questi dati confermano l’ipotesi che i redditi da lavoro dipendente erano quelli che maggiormente subirono l’aumento della pressione fiscale sia per far fronte agli aumenti della spesa pubblica sia, come vedremo successivamente, per l’aumento dell’onere degli interessi sul debito pubblico. E cosa più preoccupante è che l’andamento della struttura produttiva europea, a partire da quel periodo, si indirizzò sempre più ad aumentare il peso del lavoro autonomo sul totale, a discapito del lavoro dipendente, con la conseguenza di concentrare in maniera crescente la pressione fiscale su un numero decrescente di contribuenti. Questo dato è ancora più rilevante se lo commisuriamo all’aumento pro-capite dei redditi da lavoro dipendente nei singoli Paesi Ue nel triennio 1983 - 85. Tab. 16 - Redditi da lavoro dipendente (RDL), imposte dirette (ID), tasso di inflazione (infl.) (var.%) RDL 1983 ID infl. RDL 1985 ID infl. Belgio Danimarca Germania Grecia Francia Irlanda Italia Lussemburgo Paesi Bassi Regno Unito 6.7 6.4 3.9 19.7 10.9 19.3 16.0 6.6 3.4 8.7 1.9 13.3 3.6 17.6 11.9 15.1 25.2 18.6 -2.4 6.6 7.5 7.1 3.2 19.5 9.4 8.3 14.9 9.1 2.8 5.2 5.7 3.7 3.2 19.0 5.9 7.0 10.2 4.9 1.4 7.7 7.4 9.5 6.3 23.2 4.6 6.8 8.9 6.1 0.1 8.6 4.9 4.2 2.1 18.0 5.8 5.7 8.6 3.7 2.4 5.3 CEE 10.1 11.1 8.7 6.8 8.1 6.0 Paese Fonte: elaborazione propria su dati EUROSTAT Dalla Tabella 5 si nota che in termini reali i redditi da lavoro dipendente pro-capite crebbero di poco tra il 1983 ed il 1985, anzi in alcuni Paesi (come ad esempio in Danimarca e Olanda), subirono un decremento. Al contrario, le imposte dirette si attestarono su incrementi reali consistenti in tutti i Paesi (ad accezione dell’Olanda e della Francia nel 1985) o, in molti casi, si registrò un aumento più che proporzionale delle imposte dirette sulla crescita conseguita dai redditi del lavoro dipendente. Gli unici Paesi dove l’aumento dei redditi da lavoro dipendente crebbero maggiormente sia rispetto alle imposte dirette che all’inflazione furono l’Italia, la Francia e l’Irlanda (1985), anche se il nostro Paese nel 1983 fece registrare il più alto incremento delle imposte dirette (+25,2%) nella Comunità Europea di allora. Quanto rilevato ci sarà di estrema utilità per le conclusioni di questo breve saggio. In riferimento ai punti c) e d) se si considera modesto il finanziamento della spesa pubblica italiana tramite i prestiti esteri (è il caso ad esempio della Germania), non ci Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri ... I fattori dello sviluppo regionale 105 Giuseppe Capuano 106 rimane che analizzare il ricorso al debito pubblico, che è stato lo strumento di politica di bilancio maggiormente utilizzato fino ad oggi. Infatti, tra il 1975 ed il 1986 il valore del debito pubblico in percentuale al prodotto interno lordo italiano crebbe enormemente, superando nel 1985 la “barriera” del 100% in termini di PIL (tab. 17), fino a raggiungere nel 1994 il suo valore più alto (il valore del debito pubblico italiano raggiunse in quell’anno il 124,9% del PIL). Anche in altri Paesi europei tale percentuale superò in quegli anni il valore del prodotto interno lordo (oltre all’Italia, anche Belgio e Irlanda), mentre in altri subì un incremento molto forte (Danimarca). Una delle ragioni di questo processo indiscriminato di crescita lo si deve alla sottovalutazione per molto tempo del problema, in quanto l’accelerazione dell’inflazione (in quel periodo a “due cifre”), con la caduta dei tassi d’interesse reali, provocò l’effetto di ridurre temporaneamente il livello del debito pubblico sul reddito nazionale. Tab. 17 - L’indebitamento pubblico in Europa (in % del PIL) Paese Belgio Danimarca Germania Grecia Spagna Francia Irlanda Italia Lussemburgo Olanda Portogallo Regno Unito UE a 12 1973 1981 1982 1983 1984 1985 1993 1994 1995 63.2 5.0 18.6 °*° °*° 25.1 65.5 62.5 20.5 43.4 °*° 63.3 88.1 43.6 36.4 33.0 21.0 26.0 89.8 73.2 14.0 50.3 59.0 51.1 96.1 52.7 39.5 36.7 26.2 29.1 96.6 80.0 14.4 55.6 62.2 57.7 105.1 62.7 41.7 41.4 32.1 30.7 107.7 87.6 14.8 62.3 70.9 57.4 111.6 67.6 42.0 49.9 39.3 29.3 113.6 94.5 14.8 67.0 75.7 58.7 118.3 66.3 42.7 56.8 46.3 31.8 115.7 103.0 14.5 70.6 81.2 56.9 135.2 81.6 48.0 111.6 60.0 45.3 96.3 119.1 6.1 81.2 63.1 48.5 133.5 78.1 50.2 109.3 62.6 48.5 89.1 124.9 5.7 77.9 63.8 50.5 131.3 73.3 58.0 110.1 65.5 52.7 82.3 124.2 5.9 79.1 65.9 53.9 40.35 44.9 49.8 53.4 56.0 58.9 65.9* 68.0* Fonte: Commissione Europea (*) I valori relativi agli anni 1993, 1994 e 1995 sono il risultato di una media considerando l’Ue a 15 e non a 12. 71.0* Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri ... I fattori dello sviluppo regionale D’altro canto il forte incremento dei tassi di crescita degli anni ’60 e inizio anni ’70 aveva fatto pensare, erroneamente, che tale crescita potesse persistere all’infinito e permettere di finanziare senza problemi il debito pubblico. Ciò si spiega col fatto che quando il tasso di crescita del PIL è elevato il valore del deficit pubblico diminuisce (effetto combinato di maggiori entrate fiscali e minori spese assistenziali) facendo decrescere anche il valore del debito dello Stato in termini del PIL. La situazione è molto differente quando la crescita dell’economia è debole, i deficit sono alti e i tassi d’interesse reali tendono a crescere. Questa ipotesi rispecchia fedelmente la reale situazione economica verificatasi nella Ue nei primi anni ottanta, con il risultato di accrescere sia il debito pubblico che l’onere degli interessi pagato dallo Stato sullo stesso. 5.3 L’impatto del debito pubblico sulla redistribuzione del reddito Dopo la descrizione dello scenario di riferimento nel quale si è determinata la crescita del debito pubblico tra il 1975 ed il 1985, arriviamo alla formulazione della prima tesi sostenuta in questo capitolo: il debito pubblico ha determinato un effetto redistributivo del reddito. Già nel XIX secolo alcuni economisti si ponevano il problema del deficit dello Stato e se fosse irrilevante finanziarlo con ulteriori imposte o facendo ricorso al debito pubblico. Davide Ricardo, in un primo momento, sosteneva la tesi “dell’equivalenza” per poi disconoscerla successivamente dicendo che se le imposte riducono i consumi, il debito riduce il risparmio e se nel breve periodo esso ha un effetto espansivo sull’economia rispetto alle imposte, nel lungo periodo provoca delle strozzature nell’accumulazione del capitale53. Altri economisti, rifacendosi alla prima tesi di Ricardo, ritengono che il debito pubblico non provochi un “effetto ricchezza” ma che esso crei un “effetto zero” per l’intera collettività, con un processo di traslazione del debito tra una generazione e l’altra54, mentre altri ancora sono di opinione nettamente contraria55. In questo ultimo filone si pone il nostro lavoro, dove si tenta di dimostrare che il debito pubblico favorisce una redistribuzione del reddito all’interno del Paese, quindi esso è un fenomeno che produce effetti netti e non nulli. La nostra tesi si basa sul fatto che i soggetti che sono titolari di titoli di Stato e che quindi usufruiscono del pagamento degli interessi, sono differenti e numericamente 53 D. Ricardo, On the Principales of Political Economy and Taxation, in J. R. Mc Culloch, The Works of Davide Ricardo, Cambridge, 1951. 54 R. Barro, Are Governement Bonds Real Wealth in Journal of Political Economy, nov. dic. 1984, pp. 1095-1117. 55 W. Buiter - J. Tobin, DEBT Neutraly: A Brief Review of Doctrine and Evidence, in Social Security vs. Private Saving, a cura di G.von Fustemberg, Cambridge (Mass), 1980, pp. 39-63. Giuseppe Capuano 108 meno numerosi rispetto a coloro sui quali grava il maggior peso della pressione fiscale: i lavoratori dipendenti (vedere paragrafo precedente). Con questo non si vuol dire che i lavoratori dipendenti non posseggono titoli di Stato, ma che la percezione degli interessi sui titoli da loro posseduti li compensa solo in parte delle imposte pagate allo Stato per far fronte al maggiore onere in conto interessi. Onere che tra il 1975 e il 1985 in molti Paesi Ue, assunse un peso rilevante sul valore del PIL (tab. 18). Tab. 18 - Valore dell’onere degli interessi sul debito pubblico in rapporto al PIL (%) Paese Belgio Danimarca Germania Grecia Spagna Francia Irlanda Italia Lussemburgo Olanda Portogallo Regno Unito 1973 1981 1982 1983 1984 1985 1993 1994 1995 63.2 5.0 18.6 °*° °*° 25.1 65.5 62.5 20.5 43.4 °*° 63.3 88.1 43.6 36.4 33.0 21.0 26.0 89.8 73.2 14.0 50.3 59.0 51.1 96.1 52.7 39.5 36.7 26.2 29.1 96.6 80.0 14.4 55.6 62.2 57.7 105.1 62.7 41.7 41.4 32.1 30.7 107.7 87.6 14.8 62.3 70.9 57.4 111.6 67.6 42.0 49.9 39.3 29.3 113.6 94.5 14.8 67.0 75.7 58.7 118.3 66.3 42.7 56.8 46.3 31.8 115.7 103.0 14.5 70.6 81.2 56.9 135.2 81.6 48.0 111.6 60.0 45.3 96.3 119.1 6.1 81.2 63.1 48.5 133.5 78.1 50.2 109.3 62.6 48.5 89.1 124.9 5.7 77.9 63.8 50.5 131.3 73.3 58.0 110.1 65.5 52.7 82.3 124.2 5.9 79.1 65.9 53.9 40.35 44.9 49.8 53.4 56.0 58.9 56 J.F. Melon, Essai politique sur le commerce, 1791, pag.296. 57 A. De Viti De Marco, Principi di Economia Finanziaria, Torino, 1961, pag. 402. Fonte: Commissione Europea 58 E.F. Schumacher, La finanza pubblica e il suo rapporto con la piena occupazione, in AA.VV., L'economia della piena occupazione, Torino, 1979, pag. 138. 59 W. H. Beveridge, Full Employment in a Free Society, London, 1948, pag. 201. Per questi motivi non siamo d’accordo con chi sostiene che “i debiti di una nazione sono debiti che la mano destra deve alla mano sinistra, senza indebolire il corpo sociale56 ma siamo più vicini alle posizioni di Antonio de Viti De Marco57, E. F. Schumacher58 e W. H. Beveridge59 e più in generale alla visione dei Post Keynesiani della stratificazione sociale sostenendo che: se per lo Stato il debito pubblico può rappresentare una “partita di giro” certamente non lo è per l’intera collettività, in quanto aumenta i redditi di alcuni cittadini nella stessa misura in cui le imposte necessarie al servizio del debito diminuiscono quelle degli altri e tale situazione diventa un grave ostacolo per una qualsiasi politica basata sull’eliminazione degli squilibri economico-sociali tendente a ridurre le UE a 12 65.9* 68.0* 71.0* (*) I valori relativi agli anni 1993, 1994 e 1995 sono il risultato di una media considerando l’Ue a 15 e non a 12. disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. I dati in nostro possesso riferiti ai possessori di titoli di Stato di alcuni Paesi europei e degli Stati Uniti d’America nella metà degli anni ottanta confermano questa linea di pensiero. Infatti, nella tabella 8, si riscontra che tra i detentori di titoli pubblici le “famiglie” non superano mai la soglia del 50% del totale dei titoli emessi.Al contrario, come in Italia (42%), Germania (40%), e USA (27%), il settore famiglie, in quel periodo, aveva una percentuale di detenzione di titoli pubblici molto più piccola.Anche in Spagna si ha lo stesso fenomeno, dove le famiglie, pur essendo conteggiate insieme alle imprese non finanziarie, che generalmente detengono titoli di Stato per valori intorno al 5-10%, registrano il 43% del totale di obbligazioni pubbliche emesse. Inoltre, bisogna puntualizzare che, in alcune contabilità nazionali, come quella italiana, nella voce “famiglie” si comprendono anche piccole imprese artigiane e industriali e naturalmente anche tutti quei soggetti economici che percepiscono il proprio reddito con un lavoro autonomo. Questi ultimi, nell’aggregato, sono proprio i detentori dei redditi più alti che maggiormente risultano possessori di titoli di Stato. Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri ... I fattori dello sviluppo regionale Tab. 19 - Detentori di Titoli di Stato in alcuni Paesi occidentali (in %) (1984) Famiglie Altri di cui: Banche Assicurazioni Imprese ind. Italia Belgio Danimarca Spagna USA 42 58 53 1 4 64* 36 28 8 - 40 60 33 8 5 43* 57 42 11 - 27 73 43 23 0.5 * In questi Paesi il dato è comprensivo anche della quota spettante alle imprese (Spagna) e altri (Belgio) Fonte: elaborazione propria su dati BankItalia e OCSE (1985) Se la realtà italiana rappresenta il caso più evidente di questo fenomeno, dalle tabelle mostrate in precedenza riteniamo che la maggior parte dei Paesi Ue sia interessata all’”effetto redistributivo” dovuto all’espansione del debito pubblico. Lo stesso Lord Beveridge, il padre del “Welfare State” britannico, già negli anni ‘40 paventava qualche preoccupazione a questo proposito. Tale tesi è sostenuta dal fatto che sono i redditi medio-alti ad avere una propensione al risparmio maggiore e quindi con crescenti possibilità di allocare il proprio risparmio anche e soprattutto in periodi di stagnazione economica, nell’acquisto di titoli di Stato. 109 Giuseppe Capuano 110 Anche la Commissione Ue nella relazione economica annuale 1985-1986 riconobbe una simile eventualità dicendo testualmente: “non è escluso poi che sorgano problemi di distribuzione del reddito tra titolari di obbligazioni e i lavoratori dipendenti”60. In pratica, il valore degli interessi, pagato tramite la tassazione, viene trasferito da coloro che li pagano a coloro che li ricevono, dal contribuente allo Stato, al creditore verso lo Stato. Tab. 20 - Depositi e impieghi per categorie (in %) Depositi Imprese Famiglie Altri (P.A.) Impieghi Imprese Famiglie Altri (P.A.) 1975 1978 1982 1984 1985 21.0 72.6 6.4 100.0 19.9 71.9 8.2 100.0 20.7 74.5 4.8 100.0 20.8 74.8 4.4 100.0 20.1 75.6 4.3 100.0 79.0 8.0 13.0 100.0 85.6 8.9 5.5 100.0 83.5 11.5 5.0 100.0 83.4 11.1 5.5 100.0 84.5 12.1 3.4 100.0 Fonte: Banca d’Italia Graf. 4 - Evoluzione grafica del reddito da lavoro dipendente (RDL), imposte dirette (ID), inflazione (Infl.) (media UE a 10) (ID) (RLD) (Infl.) 60 Commissione Europea, Relazione Economica Annuale 1985-86, Bruxelles, nov. 1985, pag. 63. Fonte: Commissione UE Graf. 5 - Evoluzione grafica del debito pubblico e l’onere per interessi sul debito pubblico (in % del Pil, media UE a 10) (Debito Pubblico) Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri ... I fattori dello sviluppo regionale (Onere interessi) 111 Fonte: Commissione UE Tab. 21 - Investimenti in titoli (in %) Titoli di Stato Titoli di altri emittenti Fonte: Banca d’Italia 1974 1978 1982 1984 1985 32.9 67.1 100.0 53.6 46.4 100.0 60.0 40.0 100.0 65.5 34.5 100.0 67.5 32.5 100.0 Giuseppe Capuano Tab. 22 - Differenziali dei tassi 112 1974 1978 1982 1984 1985 14.31 8.06 6.25 16.86 10.66 6.20 23.08 15.03 8.05 19.07 12.93 6.14 17.51 11.66 5.85 n.d. n.d. - 18.90 9.40 9.50 26.60 13.20 13.40 22.30 11.90 10.40 20.30 10.80 9.50 Calcolati su depositi e impieghi censiti dalla Centrale Rischi (1) Tassi sui prestiti in Lit. Tassi lordi sui depositi Differenza Rendimenti a costi unitari stimati dalla Banca d’Italia (2) Tassi impieghi int. Lit. Tassi raccolta int. Lit. (1) Sui depositi - solo per quelli superiori a 20 milioni di lire. (2) Sui prestiti - solo per quelli superiori a 30 milioni di lire fino al 1979, 50 milioni di lire dal 1980 al 1983, 80 milioni di lire dal 1984. Fonte: Banca d’Italia - Relazione annuale 1985 - Tav. AD 14 In realtà, il contribuente, in parte è ricambiato delle imposte da lui pagate con i servizi pubblici, ma questi ultimi sia per l’inefficienza presente nell’amministrazione statale, sia per la cattiva allocazione delle risorse pubbliche, certamente è compensato in maniera meno che proporzionale. Di conseguenza, l’abnorme crescita del debito pubblico ha favorito la formazione dei “rentiers” da interessi sui titoli di Stato a tutto discapito dei lavoratori dipendenti, arrivando al paradosso che se l’intervento dello Stato nell’economia e la creazione del “Welfare State” era destinato a regolare le forze del mercato dirigendole verso una più equilibrata distribuzione della ricchezza nazionale, la degenerazione del ruolo dello Stato, da strumento equilibratore a “Stato assistenziale”, portò a favorire i “rentiers” a tutto discapito delle classi medio-basse. Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri ... I fattori dello sviluppo regionale 5.4 L’impatto del debito pubblico sugli squilibri regionali Nella presente sezione esamineremo la seconda tesi sostenuta nel capitolo: la crescita dell’indebitamento dello Stato ha favorito l’aumento degli squilibri regionali in Italia. Il nostro ragionamento parte dai dati presenti nella tabella 8: il settore bancario è quello che maggiormente detiene titoli di Stato negli anni ottanta. Per quanto riguarda le imprese e le società di assicurazioni, in tutti i Paesi rappresentano valori non trascurabili sul totale. Questi dati mettono in evidenza un aspetto del problema molto interessante. La maggior parte delle aziende creditizie, industriali e assicurative hanno i loro centri decisionali generalmente in quelle aree che presentano maggiori caratteristiche di dinamicità economica (ad esempio la Lombardia in Italia oppure la Catalogna in Spagna, etc.) specialmente in quei Paesi dove i problemi regionali sono più gravi e accentuati. Un fenomeno che si è molto stressato negli ultimi anni, con la “scomparsa” del sistema creditizio meridionale.61 Di conseguenza, la maggior parte degli interessi percepiti dalle aziende di credito rappresentano un flusso di reddito aggiuntivo verso le regioni più sviluppate che va ad aggiungersi ai flussi di reddito percepiti dai detentori di titoli di Stato residenti nelle regioni medesime. Considerando l’entità del fenomeno, potremmo ritenere che esso ha contribuito certamente negli ultimi anni ad aumentare gli squilibri regionali in Italia e all’interno della stessa Ue. In questo caso ritroviamo che, in base a politiche regionali basate sull’afflusso di spesa pubblica in regioni dove la propensione al consumo è maggiore62 (generalmente quelle meno sviluppate) per favorire la diminuzione degli squilibri regionali, le stesse hanno portato, tra i molti effetti positivi anche alcuni negativi.Tra questi si possono considerare i trasferimenti di ingenti flussi di redditi supplementari alle regioni a crescita superiore in virtù del pagamento dell’onere degli interessi sul debito pubblico, con la conseguenza che se tali politiche dovevano favorire le aree più deboli, con il ricorso al debito pubblico per coprire il fabbisogno dello Stato, si è prodotto un effetto di ritorno a tutto vantaggio delle regioni più forti. Si pensi, ad esempio, che in Italia, nel 1985, lo Stato ha pagato per l’onere degli interessi sul debito pubblico 46.6 miliardi di euro di cui 27.9 miliardi di euro sono andati alle aziende creditizie e non, e che il nuovo piano per lo sviluppo del Mezzogiorno dell’epoca prevedeva uno stanziamento in 9 anni di 62mild di euro pari a 6,9mild di euro 113 61 Nel 1990 le banche con sede legale nel Mezzogiorno erano pari a 313 contro le 168 del 2001. Nello stesso periodo le fusioni/acquisizioni gestite da banche del Nord e che hanno interessato le banche del Sud sono state 219. Su questo argomento: Istituto Tagliacarne, Le dinamiche creditizie a livello provinciale, Collana “Le Ricerche”, giugno 2003. 62 H. Richardson, Economia Regionale, Bologna, 1970. Giuseppe Capuano 114 63 Sull'influenza esercitata sui tassi d'interesse dal debito pubblico e quindi sugli investimenti si veda la "teoria dello spiazzamento" ad opera della "scuola di St. Louis". A riguardo degli effetti sul risparmio si veda il lavoro di J.E. Meade, Is the National Debt a Burden?, in Oxford Economic Papers, giugno 1958. all’anno, ossia circa il 25% di ciò che le aziende finanziarie e non, percepivano per il possesso di titoli di Stato in un solo anno. In conclusione, il forte accrescersi del debito pubblico, nel periodo 1975-1985, è stato uno dei fattori che ha contribuito all’accentuazione/mancata riduzione degli squilibri economici, sia dal punto di vista della distribuzione dei redditi, provocando un andamento a tutto vantaggio delle fasce di reddito più elevate, sia dal punto di vista della diminuzione degli squilibri regionali, accentuandoli a tutto favore delle regioni più ricche, tramite un flusso aggiuntivo di reddito. La conclusione di policy che si trae dal nostro ragionamento è che una sana politica che tenda a ridurre le differenze a livello sociale e regionale deve assolutamente includere nel suo programma la riduzione del debito pubblico che altrimenti, in particolare in quei periodi dove esistono degli alti tassi d’inflazione, determina una divaricazione a forbice tra percettori di reddito da lavoro dipendente e regioni deboli da un lato, e percettori di reddito da lavoro autonomo e da capitale e regioni forti dall’altro, a tutto vantaggio dei secondi. Questo particolare aspetto del problema, determinato dall’aggravarsi della situazione debitoria dello Stato nei confronti dei privati, non sempre viene rilevato quando si analizzano gli effetti che un crescente debito pubblico ha sull’economia. Spesso le analisi economiche si soffermano sull’accrescimento che il debito pubblico esercita sul livello della pressione fiscale (in particolar modo gli economisti di scuola monetarista), o sulla struttura dell’imposizione, che tende a gravare maggiormente sui redditi da lavoro dipendente (economisti di scuola keynesiana). Oppure, si cerca di mettere in evidenza i vantaggi che un minore livello del debito dello Stato conferisce ad una economia, sia in termini di allocazione del risparmio privato, sia sul livello degli investimenti (essendo la pressione fiscale minore e il livello dei tassi d’interesse più bassi, gli investimenti produttivi sono incentivati)63. 5.5 Conclusioni Dopo circa dieci anni dal momento in cui l’Italia raggiunse il più alto valore del debito pubblico (1994 = 124,9%) e dopo diciotto anni dal momento che il debito pubblico superò per la prima volta la barriera del 100% in termini di PIL (1985 = 103%) e nonostante gli sforzi realizzati per rispettare i parametri di Maastricht (il parametro relativo al debito pubblico è pari al 60% del PIL), al 2003, il valore del debito è fermo al 106,2 in termini di PIL, con una stima per il 2005 pari al 102,6% e una previsione di conseguimento dell’obiettivo europeo solo nel 2013. Un risultato che sarà raggiunto con estrema difficoltà se i livelli di deficit pubblico rimarranno superiori al 2% in termini di PIL (valore medio dell’ultimo triennio) e soprattutto se l’avanzo primario (differenza tra entrate e uscite), dai valori positivi del 5,5% del PIL della fine degli anni novanta, è sceso al 2,6% nel 2003, con una stima per il 2004 pari al 2,5% del PIL. Ciò è ancora più importante se consideriamo che la spesa per interessi in valore del PIL si è assestata intorno al 5% e che difficilmente, considerati gli attuali livelli dei tassi di interesse, potrà migliorare. Se tutto ciò è vero, molto probabilmente le “colpe” dei padri ricadranno nel prossimo futuro sui figli e gli squilibri regionali Nord-Sud, fermo restando la struttura proprietaria dei titoli di Stato, avranno maggiore difficoltà a ridursi. Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri ... I fattori dello sviluppo regionale 115 Riferimenti bibliografici ARMSTRONG, H. AND TAYLOR, J. 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