Gargani ed Enriquez: due stili a confronto - Digilander

Aldo Gargani: un filosofo nell’organizzazione
Gargani si è presentato come un professore di filosofia. Avrebbe detto probabilmente cose non molto diverse
a un convegno di filosofia. Una classica lezione ex cathedra: noi di qua e lui di là. Una separazione netta, che
ci ha riportato ai ricordi della scuola, quando eravamo ragazzini e con il suo sfoggio di cultura ci ha fatto
sentire tutti un po’ ragazzini. Una “lectio magistralis”, ha commentato qualcuno di noi. “È stato un diluvio di
citazioni dotte, recitate a memoria, dalle quali mi sono sentito schiacciato, travolto, come da un fiume in
piena”. “Tutti quei nomi, sparati a mitraglia: facevo fatica a tenergli dietro con i miei appunti”. “Cosa rimarrà
alla fine di tutti questi concetti? Me ne ricorderò almeno uno?”. “In questo sfoggio di cultura ci vedo un bel
po’ di narcisismo…”.
Poi ti rilassi: dopo tutto può essere una piacevole occasione di svago, di divertimento. Lo vedi gesticolare
come un attore e poi capisci: Aldo Gargani si diverte un mondo, è un teatrante, la sua non è una lezione
accademica, ma una performance teatrale che, quando capisci (non sempre) quello che dice, procura
godimento intellettuale, puro godimento estetico quando guardi come si muove e ascolti la sua voce. Recita
a memoria interi brani di trattati filosofici e romanzi, come Benigni con la Divina Commedia. Viene da Pisa:
l’aria della Toscana avrà contagiato anche lui? Parla di Einstein come se fosse un suo vecchio amico, da del
tu a Wittgenstein, i filosofi e gli scienziati sono suoi compagni di avventura e cerca di prenderti per mano e
portare dentro anche te in questa avventura del pensiero, come un compagno di giochi. È un affabulatore,
un pifferaio magico: ci racconta storie, ma non storie qualsiasi, storie strane, particolari, in cui i personaggi
sono concetti filosofici. Sembra di essere entrati nel mondo di “Alice nel paese delle meraviglie”, dove ogni
nuovo personaggio apre un nuovo scenario. Dopo un po’ che lo ascolti, i concetti non sono più le fredde
astrazioni di prima, diventano animati, dinamici, dotati di vita propria, di una loro profonda affettività, che
prima, quando ti sentivi oppresso dal cattedratico, non avevi intuito. Quando parla di dimensione affettiva
del pensiero, del valore cognitivo delle emozioni, Gargani non lo dice soltanto, lo esprime nei gesti, lo mostra
nel corpo, nel volto. Il suo coinvolgimento è fisico, corporale: alla fine è esausto, come dopo uno sport
agonistico. Ha infatti scritto. Ha dimostrato una sua affermazione: “Il pensiero è uno stato psicofisico”.
Noi però, dopo l’ebbrezza dello spettacolo teatrale, quando ci parliamo durante la pausa, restiamo perplessi,
con molti dubbi: ci chiediamo che cosa abbiamo appreso da quest’uomo e non abbiamo una risposta. La
filosofia, è un luogo comune, è materia astratta, per intellettuali, lontana dalla realtà pratica. “Primum
manducare, deinde philosophari” dicevano i latini, che erano gente pratica, che badava al sodo. “Che
c’azzecca un filosofo con l’organizzazione, la filosofia con il mondo reale di noi che lavoriamo fuori dalla turris
eburnea in cui vivono gli accademici?”. “Interessante, ma a cosa mi serve? Faccio fatica a trovare
un’applicazione pratica, nel mio lavoro, di quello che ha detto”. “Affascinante, ma che cosa vuoi che capisca
dei nostri problemi, che sono problemi pratici, organizzativi?”. “Sul lavoro è già difficile trovare tempo per
riflettere su quello che stiamo facendo, il mio capo non mi paga per fare il filosofo”. “Lui, come Platone, può
contemplare le Idee, ma noi lavoriamo giù, nella caverna”.
Filosofia e organizzazione: un accostamento che all’inizio è uno shock culturale, alla fine della performance
lascia un senso di lontananza, distanza, un effetto di spaesamento. Il bisogno di un ponte tra lui e noi,
qualcosa, anche solo una metafora, che colleghi noi terrestri a questo marziano, per favore…
Forse il titolo del suo libro può darci la chiave, fare da ponte: “L’organizzazione condivisa”. Mi aspetto di
trovarci finalmente qualcosa di utile e pratico, ma scopro leggendolo che non parla affatto di organizzazione:
è un libro di filosofia, ahimè, dovevo aspettarmelo. Lo leggo, lo rileggo e scopro una filosofia che ci riguarda
da vicino. Il libro parla infatti del linguaggio, di come attraverso il linguaggio il pensiero organizza la realtà:
la prima fondamentale forma di organizzazione. Il linguaggio come organizzazione condivisa: “non siamo mai
soli nel linguaggio”. Il linguaggio dunque come comunicazione, relazione con gli altri, strumento di
condivisione della conoscenza, di costruzione di un mondo comune, premessa per infiniti “giochi linguistici”
che possiamo giocare insieme ad altri esseri umani. Gargani sottolinea, nel seminario come nel libro, la
centralità della dimensione simbolica, fondamentale per la collaborazione non solo nel mondo della scienza
(del quale Gargani ci offre molti esempi), ma, possiamo aggiungere noi, anche nel mondo dei servizi e della
produzione: “non afferriamo mai le cose per se stesse, ma attraverso un sistema simbolico” (Rorty) ed è
attraverso questi simboli che possiamo lavorare assieme ad altri.
L’organizzazione condivisa come metafora del linguaggio. Se, attraverso il linguaggio, il pensiero è
organizzazione, in questo senso un filosofo può senz’altro avere qualcosa da dirci sull’organizzazione. Al
contempo noi possiamo vederci, nel nostro piccolo, come filosofi, perché no? Siamo abituati a vederci come
uomini pratici, ma siamo anche pensatori e quando pensiamo generiamo rappresentazioni, organizziamo la
realtà. Dal filosofo Gargani è difficile che possa venirci qualcosa di pratico, cioè di immediatamente fruibile
per i nostri problemi organizzativi, ma possiamo certamente imparare da lui a provare il gusto di essere
filosofi, nel nostro contesto lavorativo, a prendere le distanze dalle rappresentazioni stereotipate e guardarle
con occhio filosofico, che non è solo un occhio critico, ma un occhio panoramico, prospettico, che include
nello sguardo l’orizzonte delle possibilità alternative, apre a una dimensione più ampia della realtà, che
comprende ciò che non è ancora reale ma potrebbe diventarlo, lascia spazio all’invenzione. Quando leggo gli
appunti e il libro di Gargani la mia organizzazione rimane lontana, sullo sfondo, ma questa distanza non è
necessariamente lontananza, separazione, può essere un’occasione preziosa di distacco: ci consente di
disidentificarci dalle rappresentazioni dominanti nella nostra organizzazione che, ci ha fatto capire Gargani, è
innanzitutto un modo di organizzare il nostro pensiero, la nostra esperienza.
Il linguaggio come organizzazione condivisa è il punto di vista dal quale Gargani sottopone a una critica
serrata i fondamenti della filosofia classica, in particolare la nozione di verità come corrispondenza, ma
anche le idealizzazioni filosofiche e scientifiche, l’uso patologico del linguaggio, l’individualismo
esistenzialista, il relativismo. Sembrano a prima vista complicate astrazioni filosofiche, ma ancora una volta
l’impressione è che ci riguardino da vicino, che l’approccio critico di Gargani possa aiutarci ad essere più
consapevoli delle “mitologie filosofiche” che ci condizionano inconsciamente si nascondono dietro il nostro
modo di pensare, cioè di lavorare.
A volte sul lavoro ci comportiamo come filosofi realisti: prendiamo le nostre rappresentazioni acriticamente e
passivamente come rispecchiamento di una realtà precostituita, che prescinde completamente da noi come
soggetti portatori di valori. A volte facciamo i relativisti che, osserva Gargani, è un modo per disimpegnarci,
per non assumerci la nostra responsabilità, per chiamarci fuori. A volte siamo invece esistenzialisti,
romantici: siamo coinvolti emotivamente nella verità in cui crediamo, il nostro impegno è fuori discussione,
ma è solitario, non produce effetti sul contesto. Perché, come fanno i filosofi esistenzialisti, non ci
interessiamo al linguaggio, alla comunicazione.
Spesso siamo ideologici: Gargani dice che le teorie filosofiche classiche sono idealizzazioni di un punto di
vista, ma lo stesso possiamo dire delle idealizzazioni che sostengono le culture specialistiche, i saperi
professionali, tecnici, istituzionali: le idealizzazioni con l’iniziale maiuscola, come la Qualità, la Responsabilità
Sociale d’Impresa, la Medicina, la Scuola, ecc. ecc.. Le idealizzazioni fanno astrazione dalle soggettività e dal
contesto, ci esonerano dalla fatica della condivisione e del confronto con altri esseri umani. E, osserva
Gargani, sono una forma di narcisismo, rispetto al quale egli indica, come via d’uscita, l’”epistemologia della
sofferenza”, grazia alla quale la disillusione da ferita narcisistica può evolvere in distacco (l’occhio filosoficocritico) e diventare così fonte di apprendimento, lasciando spazio alla comunicazione.
Le idealizzazioni non assimilate, non maturate alla prova dell’esperienza, ci dice Gargani, tendono a
degenerare in linguaggi stereotipati, forme di pensiero meccanico che ci condizionano. È una vera e propria
patologia del pensiero, del linguaggio: un linguaggio che rende impossibile comunicare nuove esperienze, un
pensiero solitario, autoreferenziale, una trappola che ci imprigiona, produce frammentazione, non
comunicazione, in noi stessi e nelle organizzazioni.
Alla nozione classica di verità come corrispondenza Gargani oppone una nozione più aperta e flessibile,
secondo la quale esistono diversi criteri di verità (coerenza, semplicità, valore estetico, bontà, maneggiabilità
ecc.): in questo modo la verità scende dall’iperuranio e diventa un manufatto, qualcosa che ci può servire,
uno strumento di lavoro, utilizzabile nelle organizzazioni. Analogamente alla pretesa di univocità “inesorabile”
delle idealizzazioni e dei linguaggi stereotipati egli oppone la ricchezza del linguaggio umano che trova la sua
efficacia comunicativa proprio in ciò che per i razionalisti è un limite: la flessibilità, la molteplicità dei
significati, l’ambiguità, il suo potenziale metaforico. A questo proposito Gargani ha insistito sulla dialettica tra
metafora viva, che attiva nuovi vocabolari e metafora morta, il linguaggio stereotipato. Ma secondo Gargani
hanno un valore anche le rappresentazioni stereotipate, in quanto condivise.
La filosofia del linguaggio di Gargani è profondamente umanistica: alla fine ci rinvia a una soggettività
relazionale, non individualistica, portatrice di verità che sono valori umani. Ci conduce così alla dimensione
valoriale ed etica della verità. Ciò apre una prospettiva sulla dimensione affettiva del pensiero e del
linguaggio, sul valore cognitivo dell’emozione e dell’empatia. Il pensiero affettivo: uno spazio tutto da
indagare e di grande interesse per chi opera nelle organizzazioni e, come Gargani, pensa che “non c’è
nessuna tecnologia per far condividere i valori”. Del resto Gargani (un filosofo molto sui generis, bisogna
ammetterlo) ce lo ha fatto vedere con la sua performance: come il pensiero possa essere divertente,
appassionato e appassionante, cioè ricco di emotività; come i concetti, quando sanno diventare metafore e
veicolano esperienze coinvolgenti, non siano più mere astrazioni statiche, ma qualcosa che ci muove e
commuove, guidandoci oltre la routine, il pensiero meccanico.