UNA NUOVA OPERAZIONE “MANI PULITE”? LA MISERIA DELLA

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La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
UNA NUOVA OPERAZIONE
“MANI PULITE”? LA MISERIA
DELLA POLITICA ITALIANA.
Il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa mentre riceveva
delle tangenti presso il Pio Istituto Trivulzio di Milano. Era l’inizio
dell’operazione, poi definita “Mani Pulite” condotta da un gruppo di
procuratori della Repubblica di Milano, tra cui Antonio Di Pietro,
Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Francesco
Saverio Borrelli.
Molti si illusero che fosse un’operazione che avrebbe spazzato via
dall’Italia la corruzione e la mala politica. I principali esponenti del
vecchio regime (definito la Prima Repubblica) , Andreotti, Craxi,
Forlani, furono defenestrati. La Democrazia Cristiana si dileguò. Il
Partito Socialista fu ridotto ad un gruppetto. Ma si trattò
essenzialmente di un passaggio di consegne ad un nuovo regime (la
Seconda Repubblica), probabilmente perché – senza voler togliere
nulla alla buona fede di molti giudici ­ dopo la caduta dell’URSS i
vecchi esponenti del regime non erano più utili ai poteri forti nazionali
ed internazionali.
Oggi un superstite di quel gruppo di procuratori, Davigo, divenuto
presidente dell’Associazione dei Magistrati, rilancia una campagna
moralizzatrice. Ed in effetti il nuovo regime, prima dominato a lungo
dall’avventuriero Berlusconi, ed oggi da un partito di regime, il PD,
non risulta essere migliore del vecchio. Pesano gli scandali che hanno sfiorate il ministro Maria Elena Boschi,
figlia dell’ex ­vicepresidente Pier Luigi, oggi indagato, di quella Banca
Etruria, commissariata dopo aver ricevuto una serie di favori dal
governo, e dopo aver trascinato nel baratro chi le aveva dato fiducia.
L’ex­presidente della Banca, Rosi, risulta in affari con la famiglia
Renzi ed in ottimi rapporti con il sindaco renziano di Firenze, Nardella.
Pesa lo scandalo che ha visto implicata la dimissionaria ministra
Federica Guidi, per i favori verso la TOTAL, legata al suo compagno
Luca Gemelli, favori che vedono implicata la stessa Boschi, madrina
della famigerata legge di “stabilità”. Oggi è indagato il presidente
regionale del PD per la Campania, Stefano Graziano, per sospetti
appalti truccati che avrebbero addirittura favorito la famiglia
camorristica dei Casalesi. Il governo appare sempre più come l’espressione di un regime che
copre gli interessi di una serie di lobbies, come del resto erano anche
i precedenti governi Letta e Monti, mentre Berlusconi difendeva
evidentemente altre lobbies in parte diverse. Il dato comune è il varo
di una serie di leggi tese ad aumentare la precarietà del lavoro e
limare salari e pensioni, che hanno colpito soprattutto i giovani,
condannati al 40% alla disoccupazione: dai famigerati decreti Fornero,
fino al Jobs Act varato da un ministro già re delle cooperative rosse,
ormai diventate aziende capitaliste. Il capitalismo, ed in particolare
quello italiano, è ben lontano da quegli schemi di comportamento
“classici” teorizzati anche da Marx (quando parlava anch’egli della
concorrenza), ma si dimostra un coacervo di sordidi interessi e
imbrogli per favorire gli “amici”.
Ma lo squallore di questo Governo non è dimostrato solo dalla politica
interna. La politica estera renziana è persino peggiore di quella di
Berlusconi, che , evidentemente anche per difendere interessi di
gruppi a lui vicini, aveva usato il buon senso di intrattenere buoni
rapporti con la Russia di Putin, la Bielorussia di Lukascenko e la Libia
di Gheddafi. Oggi invece, come soldatini pronti ad obbedire a tutti gli
ordini che ci vengono da Washington e dalla UE, imponiamo disastrose
(per noi) sanzioni alla Russia, imponiamo sanzioni durissime ad un
paese già martirizzato da bande terroriste come la Siria (di cui
eravamo il principale partner economico europeo), provocando
impressionati ondate di profughi. Poi scattano ipocrite lamentele sulla
sorte dei “migranti” ed addirittura si aderisce al pazzesco piano della
Merkel che, per fronteggiare il ricatto dalla Turchia, che minaccia di
destabilizzare l’Europa con nuove ondate di profughi, approva la
corresponsione di 6 miliardi di Euro al criminale Erdogan , che li
utilizzerà per alimentare il terrorismo in Siria, Iraq e Libia.
Nuove ondate di migranti arrivano anche da quest’ultimo disgraziato
paese che abbiamo destabilizzato aderendo nel 2011 al piano franco­
statunitense di bombardamenti. Diamo atto a Renzi, preoccupato per
la sua stessa sopravvivenza politica, di aver finora resistito alle
pressioni degli USA che ci chiedono un intervento armato a difesa del
nuovo governo a trazione islamica imposto dalla cosiddetta “comunità
internazionale” a Tripoli (mai votato dai Libici) e basato su alcune
frazioni dei Fratelli Musulmani locali. Ma le ultime notizie sembrano
confermare che questa resistenza sta per finire, anche perché gli USA,
la Gran Bretagna, ed i loro alleati, come la Turchia ed il Qatar non
vogliono permettere il rafforzamento del parlamento “laico” di Tobruk
(l’unico legale e votato dai Libici) e dal suo esercito, guidato dal
generale Haftar, che, pur con tutti i suoi limiti, ha comunque ottenuto
grandi progressi in Cirenaica liberando Derna dai miliziani dello Stato
Islamico e Bengasi dai jihadisti di Ansar al Sharia. Politica interna ed estera convergono verso una visione dell’Italia
come di uno stato vassallo degli USA, della NATO e della UE, in
continua stagnazione e dove la classe politica si limita a difendere
modesti interessi localistici, talvolta anche legati a vere organizzazioni
criminali.
Roma 28/4/2016 Vincenzo Brandi
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Mario Albanesi: La tigre di carta
Chi ha creduto negli USA grande democrazia garantita da una libera stampa
ha di che sentirsi umiliato: le dichiarazioni del segretario alla difesa del
Pentagono Robert Work mostrano profonda ignoranza su quanto li circonda.
Mario Albanesi: La tigre di carta
“L’accusa del veterano: la terza
bomba nucleare” di Maurizio
Torrealta e Alessandro Rampietti
Nell’inchiesta di Maurizio Torrealta che riproponiamo su Pandora tv, un
veterano americano che ha partecipato a “Dersert Storm” accusa
l’Amministrazione americana di aver utilizzato una piccola bomba nucleare a
penetrazione di 5 chilotoni di potenza nella zona tra la città irachena di
Basra ed il confine con l’ Iran. Per controllare queste dichiarazioni Rainews24
ha cercato di verificare se durante la prima guerra del Golfo era stato
registrato un evento sismico pari a 5 chilotoni . Consultando l’archivio “on
line” del “Seismological Internationa Center” ha trovato che proprio nella
zona descritta dal veterano, era stato registrato un evento sismico di
potenza corrispondente a 5 chilotoni, l’ ultimo giorno del conflitto.
Anche se non è una prova dirimente e definitiva – potrebbe infatti anche
trattarsi di una coincidenza­ la redazione ha deciso di trasmettere questa
intervista perché la situazione sanitaria a Basra ha raggiunto livelli di
pericolosità davvero critici : i decessi annuali per tumore, secondo il
responsabile del reparto oncologico dell’ ospedale di Basra , Dott Jawad Al
Ali , sono aumentati da 32 nel 1989 (prima della guerra del Golfo) a più di
600 nel 2002.
Il Dipartimento della Difesa statunitense, chiamato ad esprimersi sulle
accuse del veterano, ha dichiarato che durante “Desert Storm” sono state
utilizzate solo armi convenzionali.
torre1
La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
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ROBERT HOOKE: LA LEGGE DELL’ELASTICITA’ E LA
RICOSTRUZIONE DI LONDRA
La notizia di Manlio Dinucci ­ Moby
Prince, la pista Usa
Robert Hooke è stato certamente il maggiore scienziato inglese del
‘600 dopo Newton, e senza dubbio il più ecclettico. Fu fisico, biologo,
geologo, astronomo, abile sperimentatore ed inventore, ed infine
valente architetto.
Era nato nel 1635 nell’isola di Wight in una famiglia di modeste
condizioni (il padre era un curato di campagna). Fin da giovane
dimostrò una grande propensione per gli studi scientifici e la pittura.
Trasferitosi a Londra nel 1648, lavorò dapprima in una bottega di
pittura, ma poi riuscì a frequentare la Westminster School e
l’Università di Oxford. La svolta avvenne nel 1657 quando Robert Boyle (il fisico di cui
abbiamo scritto nel numero precedente) lo assunse come assistente
personale. La sua particolare abilità sia negli esperimenti che
nell’invenzione di nuovi strumenti (tra cui la pompa pneumatica che
permise la formulazione della Legge di Boyle sui gas, di cui al numero
precedente) gli valsero la nomina nel 1662 a “curatore degli
esperimenti” della Royal Society, di cui divenne addirittura segretario
nel 1677. Due anni prima era stato nominato anche professore di
geometria al Gresham College.
L’invenzione di un microscopio perfezionato permise ad Hooke di
scoprire la struttura cellulare degli organismi viventi (si deve a lui la
formulazione della parola “cellula”), risultato ottenuto studiando i
sugheri. Nella sua opera “Micrographia” illustrò, tra l’altro, la
struttura degli insetti, da lui stessi poi abilmente disegnati in
dettaglio. Nel campo microscopico Hooke fu il più valido scienziato del
‘600 insieme all’olandese Leewenhoek.
Il grande scienziato inglese si interessò anche della struttura dei
cristalli, sviluppando dei modelli tesi ad illustrare la disposizione degli
atomi all’interno dei cristalli, aprendo così la strada alla moderna
cristallografia. Si interessò anche ai fossili, attribuendoli
giustamente a specie animali scomparse, e comprendendone
l’importanza per determinare le ere geologiche precedenti. Si può dire
che aprì la strada alla moderna paleontologia.
L’uso di un nuovo telescopio a riflessione (di cui disputò la paternità
dell’invenzione con Newton) gli permise di scoprire la “macchia rossa”
di Giove e di dimostrarne la rotazione. Determinò anche il periodo di
rotazione di Marte.
Sicuramente devono attribuirsi a lui l’invenzione di un nuovo tipo di
barometro per la misura della pressione atmosferica, di un
anemometro per lo studio dei venti, e di un igrometro per la
misura dell’umidità, strumenti che gli permisero studi che anticipano
la moderna meteorologia.
La necessità di avere buoni orologi meccanici per la misura della
longitudine sulle navi lo indusse all’invenzione di un nuovo orologio
a molla, iniziatore dei moderni orologi meccanici, invenzione sulla cui
priorità si scatenò una polemica con l’olandese Huyghens (di cui
riferimmo nel numero dedicato a questo importante scienziato).
Nel campo della fisica Hooke è ricordato per la legge che porta il
suo nome sui corpi elastici, ben nota a qualsiasi studente di fisica o
di ingegneria: la forza esercitata da un corpo elastico (ad esempio
una molla) è proporzionale alla deformazione subita dal corpo.
L’ecclettico scienziato inventò anche un dinamometro a molla per la
misura delle forze.
In realtà Hooke si interessò anche a problemi di ottica. Lo studio dei
fenomeni di diffrazione ed interferenza della luce (che
dimostravano che la luce, in presenza di ostacoli, poteva non
propagarsi in linea retta e formare particolari figure in cui si
alternavano zone di luce e d’ombra) lo portò ad abbracciare le teorie
ondulatorie di Huyghens, secondo cui la luce si propaga sotto forma di
onda sferica come le onde su una superficie d’acqua turbata dal lancio
di un oggetto. Ciò lo portò a criticare le teoria “corpuscolare” di
Newton, secondo cui la luce è formata da piccoli corpuscoli che
procedono in linea retta. Ne nacque una polemica di cui abbiamo già
riferito nel numero dedicato alla natura della luce, in cui abbiamo
anche riferito che però Hooke si sbagliò nel considerare la luce bianca
come la luce naturale, e non formata dalla somma di tutti i colori
dell’iride, come dimostrato da Newton.
La polemica si spostò anche nel campo delle leggi sulla gravitazione.
In realtà Hooke (tra il 1670 ed il 1680) aveva capito che i corpi si
attraggono con una forza inversamente proporzionale alla distanza,
ma non riuscì da questo a giungere (forse per la sua insufficiente
preparazione matematica, o per l’eccessiva dispersione dei suoi
interessi) ad una teoria generale sulla gravitazione, come poi
fatto da Newton. Ne nacque una polemica perché Newton non volle
riconoscere il contributo di Hooke, ed anzi, indispettito dalla rivalità
con il collega, quando Hooke morì nel 1703, divenuto a sua volta
segretario della Royal Society, fece rimuovere i ritratti di Hooke,
cercando di offuscarne la memoria.
In realtà nella seconda metà del ‘600 la fama di Hooke era molto
cresciuta anche per un altro motivo. Dopo il grande incendio di Londra
del 1666 egli divenne il principale collaboratore di Cristopher Wren,
incaricato di ricostruire la città. Si deve a Hooke la pianificazione
della ricostruzione e la progettazione di vari nuovi edifici. Le sue
opere più note furono la ristrutturazione del famoso osservatorio di
Greenwhich e soprattutto la progettazione della cupola della
cattedrale di St. Paul (la cui sezione corrisponde ad una curva
speciale detta “catenaria”, appositamente studiata dal grande
architetto). La cupola domina ancora il panorama di Londra a ricordo
del suo autore, molto rivalutato oggi per i suoi esperimenti ed i suoi
studi, sempre geniali anche se non sempre sistematici come quelli del
grande Newton.
Vincenzo Brandi
La notizia di Manlio Dinucci - Moby...
Mario Albanesi: “Perché non
parla”
Ci siamo spesso domandati il motivo del silenzio di Piercamillo Davìgo di
fronte ai grossolani attacchi rivolti alla magistratura. Ora, finalmente, ha
parlato in termini durissimi nei confronti di una classe dirigente fallimentare.
Mario Albanesi: "Perché non parla"
Mario Albanesi: Caccia e pesca
Una notizia considerata minore, neppure riportata dai grandi mezzi di
informazione, è quella del recente rilancio di una vecchia proposta di legge
tesa a inserire nel codice penale un novo tipo di reato: quello di turbativa
nei confronti di cacciatori e pescatori. Se una norma così aberrante dovesse
passare danneggerebbe irreparabilmente le associazioni che operano in
difesa dell’ambiente, per far sì che il mondo in cui viviamo non peggiori
ulteriormente.
Mario Albanesi: Caccia e pesca
La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
Questioni della Scienza
a cura di A. Martocchia
USCIRE DAL BITUME
Mentre scriviamo queste righe il referendum del 17 aprile non ha
ancora avuto luogo e non ne possiamo dunque commentare i
risultati. Il significato simbolico e "ideale" della consultazione va
comunque ben al di là del quesito tecnico, che si limita a
chiedere l’abrogazione della possibilità, fornita dal Testo Unico
sull’Ambiente (DLgs. n.152/2006, all’art.6, comma 17), di
prorogare le estrazioni di idrocarburi in mare fino
all’esaurimento dei giacimenti, solo per le concessioni già
rilasciate che distano meno di 12 miglia nautiche internazionali
dalla costa. Se il caso specifico è piuttosto ristretto, tuttavia le
questioni che si pongono attorno a questo referendum sono di
enorme rilevanza. Non stiamo qui a farla lunga sugli effetti
strettamente politici, che sono notevoli per la tenuta del governo
Renzi – sfacciatamente schierato sulla questione, persino contro
gran parte del partito suo "azionista di riferimento" – ed anche in
vista della consultazione referendaria successiva, non meno
importante. Non ci soffermiamo sugli aspetti politici anche
perché il posizionamento sul quesito referendario, dal punto di
vista delle culture politiche intese in senso "alto", è
significativamente trasversale, come dimostra la spaccatura nel
PD ma anche, ad esempio, la divaricazione tra la tendenza
"ecologista" e la tendenza direi "consumista" nella sinistra di
derivazione marxista, oppure la scelta per il SI di ambienti di
destra e leghisti. Dunque il discorso si farebbe tanto complicato
quanto poco emozionante.
E’ il caso invece di soffermarsi sul valore profondo della
discussione sviluppatasi attorno e grazie al referendum. Il
governatore della Puglia Michele Emiliano si è bene espresso in
un talk­show televisivo quando ha fatto notare che il fatto stesso
di avere promosso ed essere arrivati al referendum con una
larga iniziativa di amministratori regionali è una vittoria,
indipendentemente dai risultati della consultazione. Infatti,
inizialmente i quesiti referendari proposti erano ben 6 e volevano
abrogare anche la "dichiarazione di strategicità, indifferibilità e
urgenza delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli
idrocarburi liquidi e gassosi", le relative nuove "procedure di
estrazione" e la "disciplina sulla durata delle attività autorizzate",
ed inoltre il "potere sostitutivo" avocato allo Stato "di
autorizzare, in caso di rifiuto delle amministrazioni
regionali [SIC], le infrastrutture e gli insediamenti strategici,
inclusi quelli necessari per trasporto, stoccaggio, trasferimento
degli idrocarburi in raffineria e altre opere strumentali per lo
sfruttamento degli idrocarburi" nonché "di autorizzare, senza
concertazione con le regioni [SIC], le attività di prospezione,
ricerca e coltivazione di idrocarburi" – tutte novità, queste, che
sono state incluse nei cosiddetti decreti «Sblocca Italia» e
«Semplifica Italia» promulgati dal governo Renzi. Possiamo
quindi dire che le Regioni hanno avuto la forza e, con i tempi che
corrono, il coraggio di opporsi al piccolo golpe in tema di
strategia energetica nazionale che è in corso da parte delle lobby
degli idrocarburi che reggono questo governo.
Sui 5 quesiti dichiarati inammissibili dall’Ufficio centrale per il
referendum è rimasto aperto un contenzioso e la partita non
sarà chiusa dopo il 17 aprile. Già però il solo fatto che un quesito
sia stato ammesso ed abbia costretto i cittadini a informarsi e
riflettere su quanto sta succedendo in tema di politiche
energetiche è molto importante. La questione sul tappeto è
quella dell’estrazione senza freni e dell’utilizzo incosciente dei
combustibili fossili. Quando si dice che le trivelle possono
effettuare le estrazioni in mare fino "all’esaurimento del
giacimento" si ammette che i pozzi non hanno una vita infinita.
In un Appello del 2014 (1) docenti e ricercatori affermavano che
<< mentre fonti governative parlano di un “mare di petrolio” che
giace sotto l’Italia, secondo la BP Statistical Review del giugno
2014 le riserve di combustibili fossili sfruttabili nel nostro paese
ammontano a 290 Mtep. Poiché il consumo di energia primaria
annuale è di 159 Mtep, queste ipotetiche riserve corrispondono
al consumo di meno di due anni. Spalmate su un periodo di 20
anni, ammontano a circa il 9% del consumo annuale di energia
primaria. Si tratta quindi di una risorsa molto limitata, il cui
sfruttamento potrebbe produrre danni molto più ingenti dei
benefici che può apportare. >> Per quale motivo allora ostinarsi
a succhiare fino a sicuro esaurimento queste poche risorse
presenti nel territorio nazionale, in un contesto in cui si impone
invece l’elaborazione di una radicalmente nuova strategia
energetica? I (pochi) combustibili fossili presenti nel nostro
sottosuolo andrebbero piuttosto preservati come un "tesoretto"
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cui eventualmente attingere in caso di necessità estrema, in
momenti di incrudimento delle crisi. Essi rappresentano cioè un
patrimonio strategico che non può più essere sfruttato
consumisticamente e ciecamente, come si è preteso di poter fare
fino ad oggi con tutti gli idrocarburi ed i loro derivati.
La materia del contendere è quindi proprio questa: da un lato c’è
l’urgenza di sviluppare nuove politiche energetiche, richieste
anche dai recenti Trattati internazionali sul controllo dei
cambiamenti climatici; dall’altro c’è l’ignobile vizio, del quale in
Italia siamo esperti, di voler campare di rendita come se questo
fosse un irrinunciabile diritto, senza alcuna spinta al
rinnovamento, allo sviluppo nel senso virtuoso di questo
termine (che è invece generalmente usato in modo fuorviante).
La vittoria del SI non risolverebbe tutto subito: i primi effetti sulle
concessioni per le trivelle si avrebbero tra 5–10 anni, le ultime
concessioni che non potranno essere rinnovate scadranno non
prima di 20 anni... Ma il referendum stesso equivale a reclamare
strategie nazionali lungimiranti, alle quali purtroppo il ceto
politico nostrano non è avvezzo. L’atteggiamento dei fautori del
NO al referendum del 17 Aprile è riassumibile con la formula:
"meglio tutta la gallina oggi piuttosto che garantirsi le uova per
domani e i dì a venire", ovvero: indigestione subito e morire di
fame dopo. Per questa ottusa miopìa delle nostre classi dirigenti
ci ritroviamo a non avere alcuna strategia – né
energetica, né industriale, né economica, né scientifica –
per il futuro. Le quattro strategie appena elencate sono
indissolubilmente legate tra di loro, tant’è vero che a
scendere in campo su queste questioni è anche un drappello di
ricercatori e scienziati. Anche questa discesa in campo di alcuni
"scienziati responsabili" è un fatto abbastanza nuovo, dopo anni
di sostanziale qualunquismo (e alcuni dei firmatari non mancano
di responsabilità pregresse...). Nello specifico, oltre all’Appello
del 2014 già menzionato, va segnalato il nuovo Appello (aprile
2016) per il SI al referendum, che vede tra i firmatari anche
alcuni nomi ben noti della scienza e della divulgazione scientifica
italiane. Questa evenienza ci riporta alla mente l’esperienza, di una
quindicina di anni fa, del Comitato Scienziate/i contro la
Guerra. Sorto per reazione ad un altro golpe – quello del governo
D’Alema, che fece entrare l’Italia in una guerra di aggressione
nel 1999 senza nemmeno una discussione parlamentare e
aprendo la strada allo stravolgimento dei valori costituzionali
fondanti della Repubblica –, il Comitato Scienziate/i contro la
Guerra prese subito coscienza di doversi fare carico della
individuazione ed esplicitazione di alcuni nessi semantici che sono
alla radice dei maggiori problemi della fase contemporanea: in
particolare i nessi che legano le nuove guerre alla crisi
energetica e la crisi economico–industriale alla
mancanza di investimenti nei settori della produzione e
riproduzione della conoscenza. Si tratta di questioni che
negli anni si sono solamente aggravate, prefigurando quei baratri
di fronte ai quali sta sospesa la società in cui viviamo. Purtroppo
quel Comitato non ha tenuto alla prova della necessità di
organizzazione e sintesi collettiva che è richiesta a qualsiasi
consorzio umano che ponga questioni fondamentalmente
politiche (in senso alto, di nuovo); esso ha anche scontato la fase
di destrutturazione e desertificazione dei luoghi di produzione e
riproduzione della conoscenza. Il fatto che, nonostante lo stato
comatoso del mondo scientifico italiano, alcune voci trovino
ancora la forza di dire cose importanti, è il segno della grandezza
dei problemi che ci troviamo tutti, volenti o nolenti, a dover
affrontare.
NOTE:
(1) Appello al Governo sulla Strategia Energetica Nazionale
(2014) << Il recente decreto Sblocca Italia agli articoli 36­38,
oltre a promuovere la creazione di grandi infrastrutture per
permettere il transito e l’accumulo di gas proveniente dall’estero,
facilita e addirittura incoraggia le attività di estrazione di petrolio
e gas in tutto il territorio nazionale (...) Il decreto attribuisce un
carattere strategico alle concessioni di ricerca e sfruttamento di
idrocarburi, semplifica gli iter autorizzativi, toglie potere alle
regioni e prolunga i tempi delle concessioni con proroghe che
potrebbero arrivare fino a 50 anni. Tutto ciò in contrasto con le
affermazioni di voler ridurre le emissioni di gas serra e, cosa
ancor più grave, senza considerare che le attività di trivellazione
ed estrazione ostacolano e, in caso di incidenti, potrebbero
addirittura compromettere la nostra più importante fonte di
ricchezza nazionale: il turismo. D’altra parte il decreto non
prende in considerazione la necessità di creare una cultura del
risparmio energetico e più in generale della sostenibilità
ecologica e non semplifica le procedure che ostacolano lo
sviluppo delle energie rinnovabili. >>
(2) Appello degli scienziati per il SI al referendum (2016).
La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
PAGINA h ­ 32
Comunicato stampa ASPO Italia
Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio Sezione Italiana di ASPO
International
Lesbo: il realismo della
DICHIARAZIONE CONGIUNTA ... e
qualche sbavatura nella
organizzazione
"Noi, Papa Francesco, Patriarca Ecumenico Bartolomeo e Arcivescovo di Atene e
di Tutta la Grecia Ieronymos, ci siamo incontrati sull’isola greca di Lesbo per
manifestare la nostra profonda preoccupazione per la tragica situazione dei
numerosi rifugiati, migranti e individui in cerca di asilo, che sono giunti in
Europa fuggendo da situazioni di conflitto e, in molti casi, da minacce
quotidiane alla loro sopravvivenza. L’opinione mondiale non può ignorare la
colossale crisi umanitaria, che ha avuto origine a causa della diffusione della
violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di
minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie
case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali
dell’uomo.
La tragedia della migrazione e del dislocamento forzati si ripercuote su milioni
di persone ed è fondamentalmente una crisi di umanità, che richiede una
risposta di solidarietà, compassione, generosità e un immediato ed effettivo
impegno di risorse. Da Lesbo facciamo appello alla comunità
internazionale perché risponda con coraggio, affrontando questa
enorme crisi umanitaria e le cause ad essa soggiacenti, mediante
iniziative diplomatiche, politiche e caritative e attraverso sforzi
congiunti, sia in Medio Oriente sia in Europa.
Come capi delle nostre rispettive Chiese, siamo uniti nel desiderio della pace e
nella sollecitudine per promuovere la risoluzione dei conflitti attraverso il
dialogo e la riconciliazione. Mentre riconosciamo gli sforzi già compiuti per
fornire aiuto e assistenza ai rifugiati, ai migranti e a quanti cercano asilo, ci
appelliamo a tutti i responsabili politici affinché sia impiegato ogni mezzo per
assicurare che gli individui e le comunità, compresi i cristiani, possano
rimanere nelle loro terre natie e godano del diritto fondamentale di
vivere in pace e sicurezza. Sono urgentemente necessari un più ampio
consenso internazionale e un programma di assistenza per affermare lo stato di
diritto, difendere i diritti umani fondamentali in questa situazione divenuta
insostenibile, proteggere le minoranze, combattere il traffico e il contrabbando
di esseri umani, eliminare le rotte di viaggio pericolose che attraversano l’Egeo
e tutto il Mediterraneo, e provvedere procedure sicure di reinsediamento. In
questo modo si potrà essere in grado di assistere quei Paesi direttamente
impegnati nell’andare incontro alle necessità di così tanti nostri fratelli e sorelle
che soffrono. In particolare, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo greco
che, nonostante le proprie difficoltà economiche, ha risposto con generosità a
questa crisi.
Insieme imploriamo solennemente la fine della guerra e della violenza in
Medio Oriente, una pace giusta e duratura e un ritorno onorevole per coloro
che sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Chiediamo alle comunità
religiose di aumentare gli sforzi per accogliere, assistere e proteggere i rifugiati
di tutte le fedi e affinché i servizi di soccorso, religiosi e civili, operino per
coordinare le loro iniziative. Esortiamo tutti i Paesi, finché perdura la situazione
di precarietà, a estendere l’asilo temporaneo, a concedere lo status di rifugiato
a quanti ne sono idonei, ad ampliare gli sforzi per portare soccorso e ad
adoperarsi insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per una fine
sollecita dei conflitti in corso.
L’Europa oggi si trova di fronte a una delle più serie crisi umanitarie dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale. Per affrontare questa grave sfida, facciamo
appello a tutti i discepoli di Cristo, perché si ricordino delle parole del Signore,
sulle quali un giorno saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete
accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e
siete venuti a trovarmi. […] In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a
uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35­36.40).
Da parte nostra, in obbedienza alla volontà di nostro Signore Gesù Cristo,
decidiamo con fermezza e in modo accorato di intensificare i nostri sforzi per
promuovere la piena unità di tutti i cristiani. Riaffermiamo con convinzione che
«riconciliazione [per i cristiani] significa promuovere la giustizia sociale
all’interno di un popolo e tra tutti i popoli […]. Vogliamo contribuire insieme
affinché venga concessa un’accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini
migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa» (Charta Oecumenica, 2001).
Difendendo i diritti umani fondamentali dei rifugiati, di coloro che cercano asilo,
dei migranti e di molte persone che vivono ai margini nelle nostre società,
intendiamo compiere la missione di servizio delle Chiese nel mondo.
Il nostro incontrarci oggi si propone di contribuire a infondere coraggio e
speranza a coloro che cercano rifugio e a tutti coloro che li accolgono e li
assistono. Esortiamo la comunità internazionale a fare della protezione
delle vite umane una priorità e a sostenere, ad ogni livello, politiche
inclusive che si estendano a tutte le comunità religiose. La terribile
situazione di tutti coloro che sono colpiti dall’attuale crisi umanitaria, compresi
tantissimi nostri fratelli e sorelle cristiani, richiede la nostra costante preghiera.
Lesbo, 16 aprile 2016
Ieronymos II Francesco Bartolomeo I
La ’negligenza’ degli organizzatori ha consentito una gravissima falla nella
sicurezza e un reale attentato alla libertà di culto dei cristiani e delle minoranze
in Siria e in Iraq , in quella che doveva essere una visita « di natura umanitaria
ed ecumenica ».
Chi gli ha messo in fila quei 150 ragazzi inquadrati con l’opposizione ? Nella penosa parata qualcuno saluta il Papa addirittura militarmente . Eppure
quella bandiera ’simbolo dei ribelli’ rappresenta anche persone che si sono
macchiate del sangue dei cristiani. A queste persone si dà perfino l’opportunità
di usare come passerella l’incontro con il Papa ?
Gas e petrolio, lasciamoli sotto terra.
Quattro ragioni di un SI al referendum
Il referendum del 17 aprile prossimo ci chiamerà ad esprimere un’opinione su un
aspetto delle attività estrattive in mare. Non entreremo nei dettagli del quesito
referendario che altri hanno spiegato meglio di come possiamo fare noi.
Consideriamo semplicemente il voto come una consultazione sul grado di coscienza
raggiunto dall’opinione pubblica sulla questione energetica ed ambientale: due
questioni che sono logicamente legate a doppio filo. Ci sono varie ragioni per rispondere con un "SI" e tutte queste ragioni hanno a che
fare con la necessità di dare una svolta alla politica energetica del nostro paese,
dell’Europa e del mondo intero.
Una svolta che, finalmente, metta mano alla creazione di una vasta infrastruttura
funzionante per la generazione di energia da fonti rinnovabili e che preveda una
transizione all’uso dell’energia elettrica per i principali consumi energetici.
LA LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO NON VUOLE SOLO PAROLE
Com’è apparso chiaro nella conferenza di Parigi sul clima non possiamo più perdere
tempo per uscire dal paradigma fossile. I dati climatologici che si accumulano, mese
dopo mese, indicano una accelerazione dei processi di cambiamento climatico anche
rispetto ai modelli dell’IPCC; dunque quello che va fatto, va fatto al più
presto, creando, da ora, una vasta e funzionante infrastruttura energetica basata sulle
fonti rinnovabili di energia. In questo processo le fonti fossili saranno necessarie,
ma la maggior parte di esse dovrà restare nel sottosuolo dove non nuoce
all’ambiente. Secondo stime pubblicate recentemente se si vuole mantenere
l’aumento di temperatura globale ben al di sotto dei 2 °C, come raccomandato nel
documento finale della COP21 di Parigi nello scorso novembre, un terzo delle
riserve di petrolio e la metà di quelle di gas non dovrebbero essere estratte (oltre
all’80% di quelle di carbone).
Per quale ragione le riserve italiane dovrebbero fare eccezione? Dal momento in cui
si è deciso, e l’Italia ha firmato l’accordo, di fare tutto il possibile per ridurre le
emissioni di anidride carbonica e promuovere la transizione energetica rinnovabile,
attardarsi in attività dannose ed obsolete è contraddittorio. Qui si parla di non
estendere i permessi di estrazione, non di abrogarli del tutto. Si dovrebbe piuttosto
discutere su come utilizzare le risorse fossili residue piuttosto che perseguire
ulteriormente un’estensione del loro uso nel tempo. Fra l’altro ricordiamo che c’è
una campagna internazionale per evitare di estrarre i fossili e mantenerli dove sono.
LE RISERVE ITALIANE DI GAS E PETROLIO SONO SCARSE
Da anni si parla delle riserve di idrocarburi italiane come se fossimo una specie di
Arabia Saudita del Mediterraneo che rinuncia ad una fortuna per motivi futili. La
realtà è diversa: le riserve ufficiali, quelle riportate sui documenti pubblici del
MISE, sono da anni attestate su valori che corrispondono ai consumi nazionali di un
anno e mezzo per il gas naturale e due anni e mezzo per il petrolio.
La realtà dietro alle affermazioni pubblicitarie fatte da politici e agenti di pubbliche
relazioni delle compagnie petrolifere travestiti da esperti, mostra che i tanto auspicati
aumenti produttivi possibili potrebbero essere mantenuti per un periodo non
superiore agli 8 anni, e anzi quasi certamente inferiore ai 5. Un nostro modello
pubblicato nell’Ottobre 2015 sulla rivista Sapere, mostra come un ipotetico
raddoppio della produzione nazionale per cinque anni (raddoppio che, non
dimentichiamolo, porterebbe la produzione dal 10 al 20% dei consumi nazionali)
richiederebbe anche un raddoppio delle riserve attualmente accertate.
Ma questo raddoppio delle riserve, date le condizioni di maturità dei bacini
petroliferi nazionali e il crollo naturale delle perforazioni esplorative, appare a dir
poco improbabile. Si ricorda che tutte le produzioni nazionali di idrocarburi ed in specie quelle legate
alle piattaforme che potrebbero chiudere hanno già superato il picco di produzione in
passato, prima del 2000.
PETROLIO E GAS HANNO USI IMPORTANTI COME MATERIE PRIME
La terza ragione è strategica e riguarda la natura stessa degli idrocarburi come materie
prime.
Se è vero che l’uscita dall’era dei fossili non sarà immediata, è anche vero che la
storia petrolifera mondiale insegna che è poco saggio dar fondo alle proprie risorse
di idrocarburi nel minor tempo possibile. Basti per tutti l’esempio del Regno Unito,
che ha letteralmente svenduto le proprie riserve petrolifere nel ventennio in cui il
prezzo del Barile è stato ai minimi, ed ora è diventato un paese importatore [5]. Va
ricordato inoltre che gli idrocarburi non hanno solo usi energetici, ma sono materie
prime fondamentali in vasti campi di applicazione dell’industria petrolchimica come
la produzione di polimeri (plastiche), farmaci e fertilizzanti. La stessa transizione
energetica verso l’efficienza e le fonti di energia rinnovabile si baserà e si manterrà
grazie agli usi non energetici degli idrocarburi. Vista l’esiguità delle riserve italiane
rimanenti, sarebbero opportune politiche di conservazione per mantenere una scorta
“strategica” su cui poter contare in futuro in caso di bisogno.
Esattamente come si fa con l’oro della Banca d’Italia. Tutti i benefici relativi agli
idrocarburi non estratti (occupazione, proventi per la collettività) possono essere
lasciati ai nostri figli e nipoti che ce ne saranno grati.
GLI IMPATTI NEGATIVI SAREBBERO ASSAI RIDOTTI
I sostenitori del "NO" e, in genere, i sostenitori dell’industria petrolifera si sforzano
di convincere gli italiani che le attività estrattive sono importanti sia sul piano
occupazionale sia su quello delle royalties e della tassazione che la pubblica
amministrazione, a vari livelli, percepisce dalle compagnie petrolifere grazie alla loro
attività sul territorio nazionale.
In realtà una vittoria del SI al referendum del 17 Aprile inciderebbe in modo lento,
progressivo e ridotto sull’estrazione di idrocarburi in Italia. I giacimenti interessati
sono quelli entro le 12 miglia, tra i primi ad essere stati messi in produzione in
Italia e quindi per la quasi totalità giacimenti in via di esaurimento, su cui insistono
piattaforme la cui attività è ormai ridotta. Solo pochissime concessioni scadranno
nei prossimi anni, molte hanno già richiesto proroghe con la vecchia normativa e le
otterranno. Alcune non hanno richiesto proroghe perché comunque destinate alla
chiusura delle attività. In totale meno del 26% della produzione di gas naturale, e il
9% di quella petrolifera, verrebbero chiuse progressivamente tra il 2017 e il 2027.
In termini economici non è facile fare una stima dei minori introiti per la collettività
(tassazione sulle attività petrolifere, royalties), ma è possibile individuare una stima
per eccesso. Il centro studi Nomisma, partecipato da banche e industrie italiane, ha
calcolato un vantaggio economico complessivo dal settore dell’estrazione degli
idrocarburi di circa un miliardo di euro l’anno nel periodo 2000–2010.
Un SI al referendum si tradurrebbe quindi in una perdita sicuramente inferiore a 170
milioni di euro all’anno, a regime e via via in diminuzione.
Per quanto riguarda il vantaggio occupazionale va detto innanzitutto che le attività
estrattive degli idrocarburi sono fra quelle a maggior intensità di capitale e pertanto a
più bassa intensità di lavoro.
Questo dato, confermato da diversi studi, non viene mai smentito, ma
semplicemente dimenticato. Per dare un’idea, la Fondazione Eni Enrico Mattei
stima in circa 4200 unità l’occupazione diretta e indiretta in Val d’Agri, dove si
estrae circa il 65% del petrolio nazionale.
Alla limitatezza quantitativa dei vantaggi occupazionali delle attività estrattive va
aggiunta la loro limitatezza temporale. È noto infatti che solo nelle fasi iniziali dei
progetti estrattivi si osserva un effettivo aumento locale dell’occupazione che quando
gli impianti sono a regime si riduce fino a scomparire al termine del ciclo di vita del
giacimento. Anche da questo punto di vista gli idrocarburi non sono rinnovabili.
Aggiungiamo che esistono impatti negativi diretti sull’ambiente (inquinamento
chimico ed acustico) che sono stati poco divulgati ma sono provati dai sia pur
limitati monitoraggi condotti da ISPRA e divulgati dall’azione di Greenpeace.
LA POSIZIONE DI ASPO ITALIA
Per questi motivi ASPO Italia ritiene che sia necessario iniziare una strategia che
riduca lo sfruttamento delle risorse di idrocarburi nazionali. Lo strumento offerto dal
referendum del 17 Aprile, seppur non ottimale, rappresenta una reale occasione per
intraprendere questa strada.
21/3/2016, Il Comitato Direttivo di ASPO Italia
La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
PAGINA e ­ 33
L’esempio e l’attualità di Jurij Gagarin a
48 anni dalla sua scomparsa
di Partizan Kom, 27/03/2016
"Subito dopo compresi l’enorme responsabilità che pesava su di me. Essere il primo a
compiere il sogno di molte generazioni di uomini, ad aprire all’umanità la via del
cosmo. C’è oggi un compito più complesso di questo? E’ una responsabilità assunta
non davanti a una sola persona, davanti a qualche decina di uomini o davanti a un
collettivo. E’ una responsabilità assunta davanti a tutto il popolo sovietico, davanti
all’umanità, al suo presente e al suo avvenire. E se sono fermamente deciso a compiere
questo volo è perché sono comunista, perché alle mie spalle ho una folla di esempi
dell’eroismo dei miei compatrioti." (J. Gagarin)
A soli 34 anni, il 27 marzo del 1968, si è spento in un drammatico incidente, mentre
pilotava il suo caccia MiG­15UTI, vicino alla cittadina di Kiržač, uno degli
uomini che ha segnato il corso del XX secolo. Quest’uomo, questo compagno (poiché
egli era comunista) fu il primo cosmonauta della storia, Jurij Alekseevič Gagarin.
Quarantotto anni sono parecchi; mezzo secolo ci separa oggi da quel giorno infausto.
Eppure, se qualcosa ci hanno insegnato le vite di uomini e donne come Gagarin, ciò è
proprio il fatto che non è importante quanto lunga o breve sia la nostra permanenza in
questo mondo, bensì la qualità e l’intensità con cui conduciamo tale esistenza; una vita,
quella del compagno Jurij, dedita al raggiungimento del sogno primitivo che l’uomo
insegue dall’alba dei tempi: librarsi in aria come uccelli, volare per raggiungere le stelle e
quei mondi così lontani ed affascinanti che possiamo solo indicare con una mano nelle
notti limpide. Un sogno che coincide con i sogni di interi popoli, con quella libertà così
spesso negata loro dagli interessi economici e geopolitici della classe dominante. Un
sogno che è stato realizzato dalle capacità straordinarie e ammirevoli della società
veramente umana: quella socialista.
martedì 18 04 1955 Si spegneva a
Princeton il fisico tedesco Albert
Einstein famoso tra l'altro per la
teoria della relatività nella forma
ristretta e generale.
Dewey e il Ministero del Disturbo:
l’impatto filosofico della
rivoluzione darwiniana
di Andrea Parravicini
Chi era Jurij, ce lo spiega lui stesso nella sua biografia, intitolata nella versione originale
"Doroga k kosmosu" (La via del Cosmo), e, in quella italiana, "Non c’è nessun Dio
quassù". Egli, figlio di un carpentiere, dopo essersi mantenuto gli studi lavorando in
fabbrica, divenne uno dei piloti d’aerei MiG più capaci e validi dell’esercito sovietico. In
quel periodo storico ben definito, uno degli aspetti che contrassegnava la sfida tra il
blocco socialista e quello capitalista era anche il progresso tecnico e scientifico.
Dopo la prova di forza delle stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki ad opera degli
Stati Uniti D’America, il livello di sviluppo sociale si stava misurando non solo sotto
l’aspetto microscopico, bensì anche sotto la dimensione macroscopica; in tal senso si
intendeva soprattutto il tentativo di raggiungere lo spazio aperto e poter esplorare
fisicamente l’universo. E’ naturale, perciò, che in un quadro così particolare vi siano
state delle spinte decisive da parte del blocco socialista, ed in particolare dello stato
sovietico, al fine di consegnare tale primato al solo tipo di società che possa definirsi
genuinamente umana ed ugualitaria.
Vincere la sopracitata sfida implicava non solo un merito "formale" nei confronti del
progresso scientifico; stava ad indicare anche che, al contrario di ciò che la propaganda
dei paesi capitalisti affermava, non era vero che nel socialismo vi fosse una
standardizzazione atta a rende pigre le menti della popolazione e a lobotomizzarle in
maniera subdola e pericolosa; anzi, proprio perché in questo diverso sistema sociale ad
ognuno sono offerte le stesse possibilità di studiare, lavorare, realizzarsi, l’essere umano
è predisposto ad una maggiore spinta intellettuale e accrescitiva delle proprie capacità, la
quale predispone il progresso scientifico e tecnico a migliorare con una velocità
nettamente maggiore e a metterlo al servizio del popolo.
Il significato e gli effetti della teoria dell’evoluzione di Darwin per il pensiero
e la cultura occidentali sono ancora oggi spesso poco compresi, se non
fraintesi, anche da parte di affermati filosofi e intellettuali. Il contributo che
segue intende presentare alcune delle originali e profonde riflessioni che
circa un secolo fa John Dewey, uno dei più grandi pensatori americani di
tutti i tempi, dedicò alla questione. L’obiettivo di Dewey era quello di
mettere a fuoco in modo ampio e lucido l’influenza profonda esercitata dalla
rivoluzione darwiniana non solo sul nostro sguardo nei confronti del mondo
vivente, ma anche riguardo al nostro modo di intendere le questioni etiche e
politiche, mirando a un rinnovamento radicale del pensiero filosofico che
oggi deve ancora largamente compiersi. In tutta questa vicenda storica si inserisce la vita di Jurij. Egli, dopo aver superato
selezioni durissime fisicamente ed estremamente severe, viene scelto come cosmonauta
della prima missione aerospaziale con esseri umani al proprio interno, la Vostok 1.
Nonostante effettivamente esso fosse solo l’esordio della conquista umana dello spazio, è
importante, secondo noi, ricordare chi ha dato lo slancio alla sopracitata epocale opera, la
quale ha per sempre cambiato il nostro modo di intendere la composizione fisica del
mondo e dei fenomeni che ci circondano. Ma concentriamoci sulla memoria e
sull’esempio che il compagno Gagarin ci ha lasciato.
Le teorie scientifiche, si sa, hanno sempre avuto un ruolo importante per il
pensiero filosofico, la cultura, il senso comune. Si pensi alla rivoluzione
copernicana, alla relatività einsteiniana, alla fisica quantistica. La teoria
dell’evoluzione di Darwin, che attualmente costituisce il nucleo teorico
fondamentale del programma scientifico evoluzionistico, ha avuto in
particolare un impatto enorme non solo sulla filosofia e sul senso comune,
ma anche sul pensiero etico­sociale e politico.
In primo luogo, la sua vita ci è da insegnamento poiché Jurij è stato la testimonianza
concreta di come non bisogna mai rinunciare ai propri sogni, ai propri obiettivi; io vedo
un parallelismo interessante tra il sogno del compagno di librarsi in aria e poter quasi
toccare con mano le stelle, e la lotta che noi, gioventù comunista, conduciamo ogni
giorno per cambiare continuamente noi stessi e questo sistema. Proprio come
nell’esistenza di Jurij, se si hanno chiari i propri obiettivi, e si procede con ferrea
disciplina e determinazione, si possono raggiungere mete ad un primo impatto
impensabili; d’altronde, nonostante le condizioni attuali sembrino disperate, nulla è
perduto. Il "cielo" si può ancora conquistare. Solo con costanza, dedizione, sacrificio e
ferrea disciplina, possiamo formare e creare quella avanguardia che un domani sarà il
Partito Comunista, avente il compito storico di guidare il proletariato verso la conquista
del potere e l’instaurazione della dittatura democratica del proletariato. Solo in questo
modo potremo realizzare la società comunista del domani.
Lo sapeva bene John Dewey (1859­1952), uno dei più grandi filosofi
americani di tutti i tempi, il quale nei suoi oltre sei decenni di attività
accademica colse, in anticipo sui tempi, il profondo e ampio significato che
la teoria darwiniana ha avuto per il pensiero occidentale. Certamente colse
questo significato in modo più lucido di molti filosofi contemporanei
considerati oggi tra i maggiori viventi, come il celebre professore emerito di
filosofia alla New York University Thomas Nagel, che nel suo ultimo libro
Mente e cosmo. Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi
certamente falsa (Raffaello Cortina Editore, Milano 2015) discute della
teoria dell’evoluzione e, nella foga di “dimostrarne” la falsità, non fa che
fraintenderne malamente persino i concetti centrali. Dewey, inoltre, colse
questo significato in maniera differente e più profonda rispetto a coloro che,
seguendo la linea di pensiero di Herbert Spencer, sostengono ancora oggi
interpretazioni politico­economiche del darwinismo inteso come una
giustificazione “scientifica” di visioni conservatrici e neo­liberiste (si vedano,
tra gli altri, gli scritti di Matt Ridley, Larry Arnhart o Paul Rubin)[1].
Il secondo aspetto dell’esistenza di Gagarin che ci dona un esempio di enorme autorità
morale e politica risiede proprio nel fatto che egli sia, nella maniera più profonda, figlio
della Rivoluzione d’Ottobre, figlio del socialismo, figlio della patria sovietica. E questo
merito chiaramente non è derivante da una mera condizione casuale di nascita, bensì dal
fatto che egli, in maniera totalmente autonoma, ha incarnato pienamente lo spirito
comunista del ’17 per cui sono morte migliaia di persone tra contadini e operai
rivoluzionari.
Ciò non si manifesta così evidentemente a causa di una pacchiana ostentazione di
simboli o di pregiudizi "ideologici", ma dal fatto che la prima frase trasmessa da Jurij,
una volta raggiunto lo spazio, è stata di pace: "Da quassù la Terra è bellissima, senza
confini né frontiere". Al contrario di quello che gli anticomunisti e i revisionisti dicono
dell’URSS e dei suoi abitanti, essi non sono bestie assetate di sangue e guerrafondai
indottrinati da una dittatura disumana; e il fatto che, in piena guerra fredda, una delle
punte più avanzate non solo dal punto di vista scientifico, ma anche da quello politico,
compiuta una impresa epocale, comunichi praticamente a tutto il mondo una frase tanto
meravigliosa, può solo darci l’ulteriore conferma dello spirito genuinamente comunista
che ha animato allora e anima oggi chi, come noi, ha saputo trarre gli insegnamenti dalle
più avanzate esperienze passate.
Il compagno Gagarin, in un modo semplice, il quale denota una sensibilità straordinaria,
ci ha voluto dire perentoriamente che le frontiere, i confini, le postazioni armate le hanno
create i padroni, i potenti; che solo chi detiene il controllo il controllo dei mezzi di
produzione e della speculazione finanziaria può trarre profitto dalla guerra; che,
riprendendo un concetto brechtiano, i poveri e gli sfruttati non possono trarre nessun
giovamento dal fratricidio. E che cosa, se non questo pensiero, si incastra perfettamente
nella situazione estremamente difficile che viviamo tutti noi giovani proletari? In questo
periodo, fatto di richiami terrificanti a guerre coloniali efferate compiutesi esattamente un
secolo fa, di razzismo sfrenato nei confronti dei disperati che fuggono proprio da quella
distruzione causata dalla sete di risorse e profitto delle potenze occidentali, della stessa
NATO, braccio armato di questo genocidio.
In tutti questi aspetti, così ampiamente interconnessi con la condizione contemporanea,
si vede la portata e lo spessore del personaggio di Gagarin; è con questo esempio
genuino di sacrificio e disciplina d’acciaio che la gioventù comunista intera dovrebbe
formarsi e temprarsi, nelle lotte quotidiane e nelle battaglie che il mondo complesso in
cui viviamo ci pone davanti. Jurij ha saputo raccogliere e vincere la sfida del suo tempo;
e forse proprio attraverso gli occhi, di chi ha saputo abbracciare con uno sguardo
l’umanità tutta, il compagno Gagarin ci ha lasciato in testimonianza queste parole
apparentemente ingenue, le quali, però, rivelano una grandezza d’animo straordinaria:
"Girando attorno alla Terra, nella navicella, ho visto quanto è bello il nostro pianeta.
Il mondo dovrebbe permetterci di preservare e aumentare questa bellezza, non di
distruggerla".
La bellezza di cui parla non è uno spettacolo di carattere strettamente ambientale e
naturale, bensì anche umano; la meraviglia e lo stupore che provocano le mille
ramificazioni e diversità delle miliardi di persone che animano questo pianeta, la forza
con cui ogni giorno si sacrificano per poter vivere un altro giorno, per poter dare un
futuro a chi verrà dopo, per proteggere chi amano, potrà essere difeso e valorizzato solo
in una società egualitaria e priva di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. "Il futuro" –
citando Honecker nel suo "Appunti dal carcere" – "appartiene al socialismo".
Nel primo di una collezione di saggi dal titolo The Influence of Darwin on
Philosophy (H. Holt & Co., New York 1910), più di un secolo fa Dewey
faceva notare come già il titolo del capolavoro di Darwin, L’origine delle
specie (1859), contenendo i termini “origine” e “specie”, esprimesse una
rivolta intellettuale contro i presupposti della filosofia della natura e della
conoscenza che aveva regnato nel pensiero occidentale per duemila anni. Da
sempre la cultura occidentale considera tutto ciò che in natura e nel sapere
umano è fisso, non cambia, o ha uno scopo finale, come qualcosa di
superiore rispetto a ciò che cambia, diviene senza scopo o ha un’origine. Il
cambiamento, il divenire cieco, sono sempre stati considerati dalla cultura
occidentale come segni di difetto e di irrealtà. L’origine delle specie, scrive
Dewey, “nel trattare le forme, che erano state considerate come tipi fissi e
perfetti, come entità che hanno un’origine, cambiano e scompaiono, […] ha
introdotto un modo di pensare che alla fine era destinato a trasformare la
logica della conoscenza, e dunque il modo di trattare la morale, la politica e
la religione” (pp.1­2).
Per duemila anni, nota Dewey, cogliere le essenze, le forme immobili insite
nella natura (come le cosiddette “specie”), i “fini” permanenti all’interno del
perenne divenire delle cose del mondo, è stato lo scopo della conoscenza
scientifica. Questa filosofia ha dominato in tutti i campi del sapere umano
relativo alla natura, fino a che la scienza moderna, con Galilei e Cartesio,
non ha eliminato i principi fissi e le cosiddette cause finali di aristotelica
memoria dall’astronomia, dalla fisica, dalla chimica. Con la nuova fisica
galileiana (e in particolare il suo principio di inerzia) e la nascita della
scienza moderna iniziò a imporsi quello che Jacques Monod, nel suo Il caso e
la necessità (1970), chiamava il principio di oggettività della natura,
considerato “la pietra angolare del metodo scientifico […], vale a dire il
rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza
‘vera’ mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause
finali, cioè di ‘progetto’” (tr. it. Mondadori ­ Oscar saggi, Milano 1996,
p.33). Tale principio escludeva dal territorio scientifico ogni tipo di
spiegazione che facesse ricorso a fini, a menti intelligenti o a misteriose
forme a priori sottostanti ai fenomeni, e li confinava in uno spazio
soggettivo e “secondario”. Ma, come ben intuisce Dewey, questa rivoluzione
di pensiero operata della scienza moderna, in realtà, per compiersi del tutto
aveva bisogno ancora della rivoluzione darwiniana. Infatti, nonostante la
rivoluzione scientifica, a metà dell’Ottocento, fosse già compiuta in fisica,
La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
Segue da pag.33: Dewey e il Ministero del Disturbo: l’impatto filosofico
della rivoluzione darwiniana
astronomia e chimica, non si può dire lo stesso per l’interpretazione dei
fenomeni viventi. La scoperta e l’esame sempre più dettagliato dei
meravigliosi adattamenti di piante e animali al loro ambiente, della
complessità di certi organi come l’occhio, dello sviluppo articolato e
funzionale dei piani corporei, e così via, rafforzarono l’idea, nelle scienze
della vita, dell’esistenza di un disegno intelligente e di un fine
trascendente che guidava la natura. Queste convinzioni sostenute dalla
teologia naturale ancora ai tempi di Darwin ebbero l’effetto di bloccare
l’accesso del genuino metodo scientifico al campo delle scienze umane e
sociali. Afferma Dewey,
prima di Darwin l’impatto del nuovo metodo scientifico sulla vita, la
mente e la politica, era stato arrestato, perché tra questi interessi ideali
o morali e il mondo inorganico si interpose il regno delle piante e degli
animali. I cancelli del giardino della vita furono sbarrati alle nuove idee;
e solo attraverso questo giardino c’era l’accesso alla mente e alla
politica. L’influenza di Darwin sulla filosofia risiede nel suo aver
soggiogato i fenomeni della vita al principio di transizione (principle of
transition), e per mezzo di esso nell’aver aperto la strada alla nuova
logica per una sua applicazione alla mente, alla morale e alla vita.
Quando egli disse delle specie ciò che Galileo aveva detto della Terra, e
pur se muove, emancipò, una volta per tutte, le idee genetiche e
sperimentali elevandole a strumento di conoscenza per porre domande e
cercare spiegazioni (The Influence of Darwin, cit., pp.8­9).
Darwin, dunque, ebbe il merito di operare una rivoluzione nei capisaldi
dominanti del pensiero occidentale, eliminando dal mondo naturale la
preminenza di ciò che si credeva fisso (come le specie) e la presenza di
fini intelligenti e divini nel processo evolutivo e di sviluppo, affermando
altresì l’importanza della differenza, della variazione cieca, del divenire,
della contingenza, della mancanza di un piano preordinato nel processo
evolutivo. Questo rivolgimento di valori nel pensiero filosofico, che
coinvolge in pieno anche la concezione dell’essere umano e della sua
mente, produce anche un profondo rivolgimento etico e politico, come
Dewey coglie limpidamente. L’uomo ha davanti a sé la libertà di agire in
un mondo il cui esito è ora aperto, incerto. L’effetto delle nostre azioni,
lungi dall’essere già scritto e preordinato da una qualche Mente superiore
o da una qualche meta finale già prefissata, è imprevedibile e non
deciso. Darwin introduce in questo modo, con la sua concezione, un
forte elemento di responsabilità etica dell’uomo rispetto alle sue azioni e
al suo futuro, che ora è tutto da decidere e da pensare.
Si comprende dunque il motivo per cui, secondo Dewey, solo con Darwin
quel metodo scientifico impostosi con Galilei e Cartesio può finalmente
accedere anche alle scienze umane, alle scienze etiche, sociali e
politiche. Alla luce del nuovo metodo darwiniano e del nuovo scenario
del pensiero da esso dischiuso, anche la filosofia deve essere ricostruita
radicalmente, diventando “un metodo per individuare e interpretare i
conflitti più seri che accadono nella vita, e nello stesso tempo un
metodo per progettare i modi adatti per affrontarli: un metodo di
diagnosi e di prognosi morale e politica” (ivi, p.17).
Uno dei punti fondamentali dell’approccio di pensiero proposto da Dewey
è l’idea che la filosofia debba adottare il metodo sperimentale
caratteristico della scienza e applicarlo anche in campo etico, morale e
politico. L’indagine scientifica ci insegna che la ricerca è qualcosa di
continuo, provvisorio e mai definitivo, che non conosce conclusioni finali
o arresti, e non riconosce alcun dogma o autorità esterni e superiori, che
siano quelli della tradizione, della routine, o di essenze metafisiche.
Nelle sue opere, Dewey sottolinea continuamente la capacità di auto­
correzione della scienza, che è sempre pronta a rimettersi in
discussione, senza considerare i risultati ottenuti come qualcosa di
definitivo e concluso. Questo atteggiamento critico e antidogmatico,
scrive Dewey in Reconstruction in Philosophy (1920), è una necessità
vitale per la salute di una società davvero democratica e aperta. Egli
sottolinea “l’importanza di uscire dal tracciato in cui la mano pesante
della consuetudine tende a spingere ogni forma di attività umana,
compresa l’indagine intellettuale e scientifica”, fino a proporre e a
rivendicare addirittura l’esigenza di istituire “un Ministero del Disturbo,
una fonte istituzionale di scompiglio, uno scardinatore del tran tran e del
compiacimento” (J. Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, Roma 2008,
p.10).
Secondo Dewey, scienza e democrazia non possono e non devono fare a
meno l’una dell’altra e la filosofia ha il compito di incorporare e
promuovere la posizione di questi nuovi valori, i quali tengano conto
delle possibilità e delle esigenze introdotte dalla scienza. Una filosofia
rinnovata e ricostruita “deve fare, per l’indagine della condizione umana
e quindi della morale, ciò che i filosofi dei secoli scorsi hanno fatto per
promuovere l’indagine scientifica sugli aspetti fisici e fisiologici della vita
umana” (ivi, p. 13). La filosofia guarisce dal suo male presente soltanto
se cessa di perpetuare quell’antico distacco dai problemi umani e sociali
nella considerazione del problema di “una realtà suprema, ultima e
vera”, che le ha fatto dimenticare la sua responsabilità etica e la sua
possibile fecondità. In breve, “La filosofia riconquista se stessa quando
cessa di essere un mezzo di trattare i problemi dei filosofi e diventa un
metodo, coltivato da filosofi per trattare i problemi degli uomini” (J.
Dewey, Intelligenza Creativa, La Nuova Italia, Firenze 1957, p. 105,
enfasi mia).
In questo nuovo ruolo che Dewey assegna alla filosofia, la teoria
darwiniana rappresenta sicuramente una rivoluzione teoretica cui la
filosofia dovrebbe guardare con grande interesse e attenzione in tutti i
suoi aspetti e le sue conseguenze. Ad esempio, l’idea dualistica
prevalente nella filosofia moderna che, contrapponendo mondo e mente,
materia e spirito, sostiene che l’io sia “straniero e pellegrino in questo
mondo” e antitetico a esso, oggi è destituita di ogni fondamento
scientifico alla luce della teoria dell’evoluzione. Come Dewey insisteva
nel dire già un secolo fa, sarebbe fondamentale estendere la visione
dell’evoluzione organica anche al modo in cui il soggetto dell’esperienza
viene concepito. Una volta accettata la teoria dell’evoluzione biologica, il
soggetto dell’esperienza diventa un animale in continuità con le altre
forme organiche, a loro volta continue con i processi chimico­fisici che
nei processi viventi sono organizzati in modo da costituire realmente le
attività della vita con tutti i caratteri che li definiscono. E allo stesso
modo, il pensiero e la conoscenza umani diventano qualcosa di
paragonabile ai tratti evoluti in tutti gli altri organismi. “La riflessione è
una risposta indiretta all’ambiente”, ma ha “la sua origine nel
comportamento biologico adattativo e la sua funzione ultima nel suo
aspetto cognitivo è un controllo prospettico sulle condizioni del suo
ambiente” (ivi, p. 39n).
PAGINA f ­ 34
Pensare e conoscere sono le attività che una particolare specie animale,
Homo sapiens, pratica per controllare le proprie interazioni con l’ambiente
in cui vive. L’impegno dell’intelligenza nel mondo, più che un contemplare
lo stato attuale delle cose, consiste dunque nel saper prevedere e
preparare ciò che avverrà nel futuro, far fronte alle nuove situazioni che
stanno per accadere. Per questo pensare è un’invasione nel futuro che
comporta anche grandi rischi, perché la decisione di imboccare questa o
quella decisione può significare errore e catastrofe. In un mondo dominato
da un’incertezza radicale e da una condizione di precarietà e fallibilità,
l’intelligenza e le conoscenze sono dispositivi efficaci per la risoluzione dei
problemi, mediante cui l’essere umano può orientarsi e far fronte alle
difficoltà della vita.
In uno scenario filosofico di questo tipo, profondamente segnato dalla
nuova prospettiva dell’evoluzione darwiniana, obiettivo di Dewey è quello
di stabilire una solida interazione tra scienza, ricerca etica e politica, per
fare in modo che il progresso scientifico venga ricompreso nel più ampio
progetto di un progresso morale dell’umanità. Sulla scorta di questo
progetto filosofico rinnovato, Dewey prende le distanze sia da coloro che
assumono un atteggiamento entusiasta, elogiando in modo indiscriminato
ma acritico l’impresa scientifica, sia da quelli che ne sottolineano
esclusivamente i limiti e i difetti. Se pensiamo a come questi due
atteggiamenti siano più che mai presenti nei dibattiti odierni,
comprendiamo bene quale sia il valore di un pensiero anti­dogmatico,
costruttivo e responsabile come quello proposto da Dewey, che invece di
prendere acriticamente la parte di uno dei due schieramenti pro o contro
la scienza e la tecnica, si preoccupa di porre il problema del loro uso,
delle loro finalità e del loro ruolo in una società democratica. Dewey
insiste sul fatto che le conoscenze scientifiche e i loro sviluppi tecnici
debbano essere “posti al servizio della speranza e della fede democratica”
mediante un impegno responsabile a “formare ed educare libere e aperte
attitudini all’osservazione e alla comprensione”.
Scrive Dewey in Individualismo vecchio e nuovo (1930):
L’adozione generale dell’atteggiamento scientifico nelle questioni umane
significherebbe nientemeno che un cambiamento rivoluzionario nella
morale, nella religione, nella politica e nell’industria. Il fatto di averne
limitato l’uso quasi esclusivamente ai problemi tecnici non vuole essere
un rimprovero alla scienza, ma agli uomini che lo usano per fini privati e
che combattono per scongiurare la sua applicazione sociale per paura degli
effetti distruttivi che avrebbe sul loro potere e sui loro guadagni […].
L’atteggiamento scientifico è sperimentale ed intrinsecamente
comunicativo. Se fosse universalmente applicato, ci libererebbe dal
pesante fardello che ci viene imposto dai dogmi e dalle norme estrinseche
[…]. ‘Accettare’ la scienza è pericoloso soltanto per quelli che, per pigrizia
o interesse personale, manterrebbero immutato l’ordine sociale esistente.
Infatti l’atteggiamento scientifico richiede lealtà a tutto ciò che è scoperto
e risolutezza nell’accogliere le nuove verità (J. Dewey, Individualismo
vecchio e nuovo, Edizioni Diabasis, Parma 2013, pp.120­1).
Secondo l’insegnamento ancora profondamente attuale di Dewey,
l’applicazione del metodo scientifico alle questioni morali e sociali è
dunque un’istanza cruciale per promuovere lo sviluppo dell’intelligenza
sociale e per prevenire lo sviluppo di un terreno di coltura per i poteri più
arroganti o perversi. Il metodo scientifico deve allearsi all’impegno etico e
filosofico per sviluppare, come scrive Rosa Calcaterra, “una società
democratica che possa salvaguardare tanto gli interessi e le aspirazioni
individuali quanto la coesione e il progresso della realtà sociale” (ivi,
p.19).
Nessun dubbio che questa prospettiva, e in particolare l’esigenza di una
ricostruzione della filosofia prospettata dal pensatore americano in tante
sue opere, debba trovare realizzazione nello spirito della rivoluzione
darwiniana. Come scrive Dewey a conclusione del suo saggio su Darwin,
“Senza dubbio il più grande fattore solvente di vecchie questioni nel
pensiero contemporaneo, il più grande agente precipitante di nuovi
metodi, nuove intenzioni, nuovi problemi, è quello messo in atto dalla
rivoluzione scientifica che ha trovato il suo punto culminante nell’Origine
delle specie” (J. Dewey, The Influence of Darwin, cit., p.19)[2].
NOTE
[1] Si vedano ad es. M. Ridley, La regina rossa. Sesso ed evoluzione
(1993), Instar Libri, Torino 2003; Id., Le origini della virtù (1997), Ibl
Libri, Torino 2012; P. Rubin, La politica secondo Darwin (2002), Ibl Libri,
Torino 2009; L. Arnhart, Darwinian Conservatism, Imprint Academic,
Exeter 2005.
[2] Per una presentazione generale della figura e del pensiero di John
Dewey si rimanda al testo di Alberto Granese, Introduzione a Dewey,
Editore Laterza, Roma­Bari 1973 (6a ed.: 2005) provvisto di un’ampia
bibliografia ragionata e di una storia della critica riguardante il filosofo
americano. Per un’agile introduzione divulgativa e aggiornata del pensiero
del filosofo e dei suoi rapporti con la più ampia corrente di pensiero
pragmatista mi permetto di rimandare al mio testo uscito nelle edicole lo
scorso 8 marzo per la collana “Scoprire la filosofia”, A. Parravicini,
Dewey. Sperimentare il pensiero, Hachette Fascicoli, Milano 2016.
In rete ci sono parecchi siti dedicati al pensiero e alla figura di Dewey.
Una lista pressoché completa dei siti più importanti si trova in
http://dewey.pragmatism.org/], un sito contenente anche ampie
informazioni bibliografiche sulla enorme produzione deweyana (di e su
Dewey). La biblioteca elettronica di “Internet Archive”
https://archive.org], contiene un gran numero di opere di Dewey
digitalizzate e liberamente consultabili, mentre
http://deweycenter.siu.edu/] rimanda al sito del “Center for Dewey
Studies” della Southern Illinois University di Carbondale, che ha curato
l’imponente progetto dei 37 volumi che compongono i Collected Works of
John Dewey, e possiede oltre 22000 lettere indirizzate a, provenienti da, o
su, John Dewey, e catalogate in una banca dati elettronica. Infine
http://www.johndeweysociety.org/] ospita il sito della “John Dewey
Society for the Study of Education and Culture”, uno spazio che mira alla
costruzione e al sostegno di un network di studiosi della filosofia
deweyana.
(28 marzo 2016)
Tag:Darwin, democrazia, Dewey, filosofia, metodo scientifico
La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
PAGINA g ­ 35
APPELLO PER UNA CAMPAGNA SPECIFICA PER LA RIMOZIONE
DELLE BOMBE NUCLEARI IN ITALIA
No alle bombe nucleari in Italia
PER LA SICUREZZA, LA SOVRANITA’, LA LEGALITA’
Comitato promotore della campagna
#NO GUERRA #NO NATO
Italia
22 APR 2016 — Per la sicurezza, la
sovranità, la legalità
Sono in fase di sviluppo negli Stati Uniti le
bombe nucleari B61­12, destinate a
sostituire le attuali B61 installate dagli Usa
in Italia, Germania, Belgio, Olanda e
Turchia.
La B61­12 non è una semplice versione ammodernata della B61, ma
una nuova arma nucleare. Ogni singola bomba ha una testata con
quattro opzioni di potenza selezionabili: può così svolgere la funzione
di più bombe. La potenza media della B61­12 equivale circa a quella
di quattro bombe di Hiroshima. tutte le iniziative opportune, affinché all’interno della "Déclaration
universelle de droits et de devoìrs de l’humanité", che sarà presentata dal
presidente francese Hollande alla prossima Assemblea Onu e preannunciata
alla COP21 di Parigi, venga inserito un esplicito riferimento all’eliminazione
di qualsiasi minaccia connessa con una guerra nucleare e al diritto al
disarmo nucleare.
Bombe nucleari per l¹Italia «non­nucleare»
289
Mario Albanesi: La greppia larga
Contestare la “banda larga” sembra una eresia contro il progresso, ma alla
maggioranza dei cittadini che hanno normali esigenze interessano affidabilità
dei collegamenti, basse tariffe, e rapidi interventi di riparazione.
Mario Albanesi: La greppia larga
A differenza della B61 sganciata in verticale sull’obiettivo, la B61­12
viene lanciata a distanza e guidata sull’obiettivo tramite una speciale
sezione di coda. Sono in corso test per dotare la B61­12 della capacità di penetrare nel
terreno prima di esplodere, distruggendo i bunker dei centri di
comando e altre strutture sotterranee in un attacco nucleare di
sorpresa. Queste sono le nuove bombe nucleari Usa destinate anche all’Italia.
Foto satellitari – pubblicate dalla Federazione degli scienziati
americani (Fas) –mostrano che a tale scopo sono già state effettuate
modifiche nelle basi di Aviano e Ghedi­Torre. Secondo le ultime stime della Fas, gli Usa mantengono oggi 70
bombe nucleari B61 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi), 50 in
Turchia, 20 rispettivamente in Germania, Belgio e Olanda, per un
totale di 180. Nessuno sa però con esattezza quante effettivamente
siano le B­61, destinate ad essere sostituite dalle B61­12. Una cosa comunque è certa: le B61­12, che gli Usa si preparano a
installare in Italia, sono armi che abbassano la soglia nucleare, ossia
rendono più probabile il lancio di un attacco nucleare dal nostro paese
e lo espongono quindi a una rappresaglia nucleare.
L’Italia – che fa parte del Gruppo di pianificazione nucleare della Nato
– mette a disposizione non solo il suo territorio per l’installazione di
armi nucleari, ma anche piloti che vengono addestrati all’attacco
nucleare con cacciabombardieri italiani sotto comando Usa.
L’Italia viola in tal modo il Trattato di non­proliferazione delle armi
nucleari, firmato nel 1969 e ratificato nel 1975, che all’Art. 2
stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia
Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi
nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi
e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente». L’Italia deve smettere di violare il Trattato di non­proliferazione e,
attenendosi a quanto esso stabilisce, deve chiedere agli Usa di
rimuovere immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio
italiano e rinunciare a installarvi le nuove bombe B61­12 e altre armi
nucleari. Liberare il nostro territorio nazionale dalle armi nucleari, che non
servono alla nostra sicurezza ma ci espongono a rischi crescenti, è il
modo concreto attraverso cui possiamo contribuire a disinnescare
l’escalation nucleare e a realizzare la completa eliminazione delle
armi nucleari che minacciano la sopravvivenza dell’umanità. Comitato No Guerra No Nato
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E’ urgente che lanciamo la nostra proposta, focalizzata sulla
rimozione delle bombe nucleari Usa dall’Italia e sull’osservanza
del TNP.
Giulietto Chiesa: Negli USA si
riapre il caso 11 settembre
L’ex senatore Bob Graham, in una recente intervista alla rete CBS, ha
dichiarato :”Credo che sia impossibile che 19 persone, la maggior parte dei
quali non parlava inglese, non era mai stata negli USA e non aveva
un’educazione superiore, potesse portare a termine una tale operazione
senza un qualche aiuto dall’interno degli Stati Uniti.”
Giulietto Chiesa: Negli USA si riapr...
Il tema della denuclearizzazione viene ora intrecciato da alcuni
parlamentari e movimenti con quello del cambiamento climatico (vedi
qui sotto mozione della senatrice di SEL): l’ideale per fare
demagogia. Vedi testo completo della mozione La mozione impegna il Governo:
1) ad applicare nell’immediato quanto previsto dall’accordo di Parigi,
approvato il 12 dicembre 2015;
2) a revisionare radicalmente la "Strategia energetica nazionale", in
modo da consentire l’abbandono delle fonti fossili e la totale
decarbonizzazione dell’economia, promuovendo in tal senso un piano
nazionale di riconversione ecologica ed energetica;
Plasticità, tra filosofia
continentale e neuroscienze
3) ad adottare obiettivi scadenzati in ambito nazionale che consentano
il drastico abbattimento delle emissioni e il raggiungimento della
neutralità emissiva nel 2050;
4) a predisporre la progressiva riduzione, sino alla soppressione, di
qualsiasi tipo di facilitazione o sussidio alle fonti fossili in favore di
investimenti nel settore delle energie rinnovabili, della resilienza al
cambiamento climatico e della lotta al dissesto idrogeologico;
5) ad agire in tutte le sedi, a partire dall’Unione europea, affinché
venga riconosciuto dalla comunità internazionale il soggetto giuridico
di "umanità", tutelando in tal senso il suo diritto a sopravvivere e,
soprattutto, a vivere senza la minaccia dell’inquinamento termico e
della guerra termonucleare;
6) a dare seguito agli impegni previsti dalle risoluzioni di cui in
premessa;
7) ad avviare, anche nel rispetto dell’impegno accolto dal Governo, e
previsto dalla citata risoluzione 6­00178, approvata dalla Camera,
Intervista a Catherine Malabou di Diego Ferrante e Marco Piasentier
Leggi l’intera intervista in .pdf
La VOCE ANNO XVIII N°9
maggio 2016
PAGINA h ­ 36
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