MATTEO PERRINI POTENZA E IMPOTENZA DELLA RAGIONE Karl

MATTEO PERRINI
POTENZA E IMPOTENZA DELLA RAGIONE1
Karl Jaspers, in un'opera della fase più matura del suo pensiero, Ragione e antiragione (trad. it.
Sansoni), ha rinunciato a caratterizzare il suo atteggiamento come filosofia dell'esistenza per
presentarlo piuttosto come filosofia della ragione, perché «se la ragione va perduta, va perduta anche
la filosofia» e, noi aggiungiamo, vanno perduti tutti i valori di cui si alimenta la civiltà. L'avversario
della ragione – scrive Jaspers – è lo spirito dell'antiragione. Questa assai spesso avanza e domina le
intelligenze, servendosi proprio del linguaggio della ragione, padroneggiato talora con somma maestria,
pur essendo intimamente estraneo allo spirito di verità, che è la prima e fondamentale espressione della
libertà interiore. «Col sacrificio della libertà della ragione la non filosofia prepara l'uomo alla illibertà
politica». Il filosofo, nella sua lotta per la ragione e per la libertà dell'uomo, si trova dinanzi alla
necessità di un'opzione fondamentale: la ricerca della verità, per ostica, impopolare, pericolosa che
possa essere, o l'adulazione di potenti e di folle mediante la giustificazione e il consolidamento di idee
correnti e dominanti. Insomma, o ci si pone e si cammina nello spirito di ricerca disinteressata della
verità o si è fuori della filosofia; o si è uomini e filosofi con Socrate, o si è sofisti con i Sofisti. Certo,
chi si guarda intorno può essere tentato di vedere in questo nostro tempo il trionfo dell'irrazionale, tanto
grande è la babilonia delle idee e tanto incessanti sono la produzione e la diffusione di vere e proprie
«mitologie dell'anti-ragione», che non si conoscono e non si danno a conoscere per tali. Tuttavia non si
deve affatto indulgere a un pessimismo fatale, che sarebbe più assurdo delle assurdità scaturienti da un
corrotto modo di pensare e di vivere. L'inautentico, infatti, suppone l'autentico, altrimenti non si
potrebbe riconoscerlo, né se ne potrebbe parlare. Oggi il compito più urgente è quello di riscoprire
l'autenticità dei valori attraverso la ricognizione e la critica dei disvalori nei vari aspetti che essi
assumono nelle attività fondamentali dell'uomo.
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L'inautentico, dicevamo, suppone l'autentico e i disvalori logicamente rinviano a quei valori di cui
sono la caricatura o la negazione. Tuttavia la filosofia contemporanea è per tanta parte caratterizzata dal
tentativo – ripetuto, sistematico, ossessionante come un leit-motiv – di prescindere dal problema dei
valori, di espugnare i valori dalla realtà e di negare, come per tanti anni fece Benedetto Croce, la
possibilità stessa del giudizio di valore arbitrariamente contratto nel giudizio storico. Su questo punto,
che è di decisiva importanza, si deve però ricordare che le grandi ragioni dell'umanità e la delineazione
dei fini del processo formativo dei figli degli uomini, in ultima analisi, hanno avuto partita vinta
sull'agnosticismo nei confronti dei valori, almeno negli spiriti più nobilmente pensosi. In essi, infatti,
una contraddizione estremamente significativa è venuta alla luce, quasi a testimoniare il livello
superiore della loro personale umanità sulle loro stesse teorie. Particolarmente interessante è, in
proposito, non solo l'evoluzione della filosofia del Croce, a partire almeno dal 1938, l'anno dell'opera
sua più drammatica, La storia come pensiero e come azione, ma anche l'apertura ai valori dell'ultimo
John Dewey e il tormentoso oscillare di Jean Piaget, fra l'inconoscibilità dei valori e l'energica
affermazione di essi come meta dell'educazione, nel suo libro teoreticamente più impegnativo,
Saggezza e illusione della filosofia (trad. it. Einaudi). Nel maggiore dei filosofi americani l'esigenza dei
valori si è fatta più viva ed ansiosa specialmente negli anni del secondo conflitto mondiale. Il Borghi
ebbe a notare come il pensiero dell'ultimo Dewey sia ispirato ad «una sete inappagata di valore» e si
sforzi di «scavare il terreno sotto i dati del suo naturalismo» (J. Dewey e il pensiero pedagogico
contemporaneo degli Usa, Firenze, p. 241). Dewey ha voluto scavare sotto il suo naturalismo,
analogamente a quanto, nello stesso tempo, ha fatto Croce nei confronti del suo idealismo, per farne
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Giornale di Brescia, 24 luglio 1990.
scaturire quei valori che possono dare un fondamento alle aspirazioni più profonde dell'umanità:
aspirazioni che assumono in certi periodi storici una più tragica intensità.
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La posizione del Piaget sul tema fondamentale del senso della vita e dell'educazione ai valori non è
meno aporetica. Il pensatore svizzero avanza riserve sul positivismo e sul neo-positivismo logico. Il
primo «ignora o sottovaluta l'attività del soggetto a profitto della semplice constatazione o della
generalizzazione delle leggi costanti»; il secondo riduce la totalità del reale e lo stesso linguaggio al
fisicismo, prospettando così una visione limitativa dei problemi ed un metodo che vorrebbe essere
scientifico ed è aprioristico. Tuttavia la critica del Piaget, pur prendendo le distanze dalle unilateralità
più gravi dello scientismo otto e novecentesco, è inficiata da un consenso di fondo. Il Piaget avverte
come problema centrale della vita e dell'educazione l'opzione per valori che impegnino tutto l'essere;
nello stesso tempo, però, dichiara illusorio l'oggetto stesso della scelta perché nega lo statuto
ontologico dei valori e giudica, da buon positivista, «senza significato dal punto di vista cognitivo» il
problema del senso della vita o della finalità. Quindi, per un verso ci si inchina ai valori, che danno
significato alla vita dei singoli e dei popoli; per l'altro verso, però, si sostiene, come Gorgia, che quei
valori non ci sono e, quand'anche ci fossero, non li potremmo conoscere. Ma allora come potremo
suscitare negli altri, attraverso l'educazione, la coscienza e l'amore per quei valori che rendono degna la
vita? Francamente non si riescono a spiegare contraddizioni così grandi in menti che pure hanno dato,
in campi diversi, contributi geniali.
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Un'ultima osservazione. Trattandosi di filosofi, non è affatto sufficiente una dichiarazione di fede
morale per porre rimedio ai guasti prodotti da dottrine alla cui diffusione essi stessi hanno contribuito,
grazie anche alla loro superiore capacità dialettica. In fondo essi tornano a riproporci, in maniera
appena sottaciuta, il dualismo fra la presunta impotenza della ragione, in quanto teoretica, e la
compensazione che la stessa ragione è autorizzata a concedersi, in quanto pratica. Ma là dove non
riuscì il genio speculativo di Kant è ben difficile che altri faccia intendere come si possa e si debba
credere a ciò cui si rifiuta ogni effettiva giustificazione logica.