Velleio Patercolo II,89
Nihil deinde optare a dis homines, nihil dii hominibus praestare possunt, nihil voto concipi, nihil felicitate
consummari, quod non Augustus post reditum in urbem rei publicae populoque Romano terrarumque orbi
repraesentaverit. 3 Finita vicesimo anno bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum
furor, restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium magistratuum ad pristinum redactum
modum, tantummodo octo praetoribus adlecti duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. 4 Rediit
cultus agris, sacris honos, securitas hominibus, certa cuique rerum suarum possessio; leges emendatae utiliter,
latae salubriter; senatus sine asperitate nec sine severitate lectus. Principes viri triumphisque et amplissimis
honoribus functi adhortatu principis ad ornandam urbem inlecti sunt. Consulatus tantummodo usque ad
undecimum quin continuaret Caesar, 5 cum saepe obnitens repugnasset, impetrare non potuit: nam dictaturam
quam pertinaciter ei deferebat populus, tam constanter repulit. Bella sub imperatore gesta pacatusque 6 victoriis
terrarum orbis et tot extra Italiam domique opera omne aevi sui spatium impensurum in id solum opus
scriptorem fatigarent: nos memores professionis universam imaginem principatus eius oculis animisque
subiecimus.
Nulla possono gli uomini chiedere agli dei, né gli dei concedere agli uomini, nulla può essere vagheggiato con il
desiderio, nulla può essere realizzato con pieno successo che non sia stato posto in opera da Augusto dopo il suo
ritorno a Roma, per lo stato, per il popolo romano, per il mondo. Finite dopo venti anni le guerre civili,
scomparse le guerre esterne, ritornata la pace, placato ovunque il furore delle armi, restituita la forza alle leggi,
l’autorità ai tribunali, la maestà al senato; ricondotti alla forma primitiva i poteri dei magistrati con la sola aggiunta
agli otto pretori di altri due; restaurata la primitiva e antica struttura dello stato. Fu restituito il lavoro ai campi, il
rispetto alla religione, la sicurezza agli uomini, a ciascuno il sicuro possesso dei suoi beni; furono con vantaggio
modificate vecchie leggi, altre furono utilmente sancite; le liste dei senatori furono rivedute senza asprezza, ma
con serietà; le personalità più in vista, che avevano ottenuto trionfi e altre cariche furono spronate
dall’esortazione del principe ad abbellire la città. Nonostante che vi si fosse opposto energicamente, questo solo
non ottenne, evitare la ripetizione dei suoi consolati che raggiunsero il numero consecutivo di undici; quanto alla
dittatura, la rifiutò con tanta fermezza quanta era l’ostinazione con la quale il popolo gliela offriva. Le guerre
condotte sotto la sua guida, la pacificazione del mondo grazie alle sue vittorie, tutte le sue opere in Italia e fuori
non lascerebbero spazio a uno storico che volesse dedicare la sua vita a questo solo lavoro.
Tacito, Annales I, 9-10
[9] Multus hinc ipso de Augusto sermo, plerisque vana mirantibus, quod idem dies accepti quondam imperii
princeps et vitae supremus, quod Nolae in domo et cubiculo in quo pater eius Octavius vitam finivisset. numerus
etiam consulatuum celebrabatur, quo Valerium Corvum et C. Marium simul aequaverat, continuata per septem et
triginta annos tribunicia potestas, nomen imperatoris semel atque viciens partum aliaque honorum mutiplicata
aut nova. at apud prudentes vita eius varie extollebatur arguebaturve. hi pietate erga parentem et necessitudine rei
publicae, in qua nullus tunc legibus locus, ad arma civilia actum, quae neque parari possent neque haberi per
bonas artes. multa Antonio, dum interfectores patris ulcisceretur, multa Lepido concessisse. postquam hic
socordia senuerit, ille per libidines pessum datus sit, non aliud discordantis patriae remedium fuisse quam [ut] ab
uno regeretur. non regno tamen neque dictatura, sed principis nomine constitutam rem publicam; mari Oceano
aut amnibus longinquis saeptum imperium; legiones, provincias, classes, cuncta inter se conexa; ius apud cives,
modestiam apud socios; urbem ipsam magnificio ornatu; pauca admodum vi tractata quo ceteris quies esset.
Si fece allora un gran parlare di Augusto, chiacchierando la maggior parte della gente di cose banali, che lo stesso
giorno era stato una volta il primo del suo potere e l’ultimo della sua vita, che era spirato a Nola, nella stessa casa
e nella stessa camera di suo padre; si commemorava anche il numero dei suoi consolati con i quali aveva
eguagliato Valerio Corvo e Gaio Mario, la tribunizia potestas rivestita ininterrottamente per trentasette anni, il
titolo di imperator ventuno volte attribuitogli e altre cariche o rinnovate più volte o nuove; ma i più accorti
esaltavano o biasimavano la sua vita in modi diversi; gli uni dicevano che per rispetto verso il padre e per il
pericolo in cui era lo stato, nel quale non c’era più spazio per le leggi, aveva voluto le guerre civili, che non si
possono né organizzare né gestire con mezzi onesti; che aveva concesso molto ad Antonio, molto a Lepido pur
di vendicarsi degli assassini di suo padre; ma quando l’uno invecchiò nell’inerzia e l’altro si lasciò andare alle
passioni, non ci fu altro rimedio per la patria lacerata che il potere di uno solo; lo stato venne però costituito non
come un regno ma sotto il titolo di principe; l’impero era chiuso tra l’Oceano e grandi fiumi; le legioni, le
province, le flotte, tutto era ben organizzato; diritto verso i cittadini, rispetto verso gli alleati; la città medesima
magnificamente abbellita; pochi gli episodi di forza per tenere le cose sotto controllo.
[10] Dicebatur contra: pietatem erga parentem et tempora rei publicae obtentui sumpta: ceterum cupidine
dominandi concitos per largitionem veteranos, paratum ab adulescente privato exercitum, corruptas consulis
legiones, simulatam Pompeianarum gratiam partium; mox ubi decreto patrum fasces et ius praetoris invaserit,
caesis Hirtio et Pansa, sive hostis illos, seu Pansam venenum vulneri adfusum, sui milites Hirtium et machinator
doli Caesar abstulerat, utriusque copias ocupavisse; extortum invito senatu consulatum, armaque quae in
Antonium acceperit contra rem publicam versa; proscriptionem civium, divisiones agrorum ne ipsis quidem qui
fecere laudatas. sane Cassii et Brutorum exitus paternis inimicitiis datos, quamquam fas sit privata odia publicis
utilitatibus remittere: sed Pompeium imagine pacis, sed Lepidum specie amicitiae deceptos; post Antonium,
Tarentino Brundisinoque foedere et nuptiis sororis inlectum, subdolae adfinitatis poenas morte exsolvisse. pacem
sine dubio post haec, verum cruentam: Lollianas Varianasque clades, interfectos Romae Varrones, Egnatios,
Iullos. nec domesticis abstinebatur: abducta Neroni uxor et consulti per ludibrium pontifices an concepto
necdum edito partu rite nuberet; Q. +Tedii+ et Vedii Pollionis luxus; postremo Livia gravis in rem publicam
mater, gravis domui Caesarum noverca. nihil deorum honoribus relictum, cum se templis et effigie numinum per
flamines et sacerdotes coli vellet. ne Tiberium quidem caritate aut rei publicae cura successorem adscitum, sed
quoniam adrogantiam saevitiamque eius introspexerit, comparatione deterrima sibi gloriam quaesivisse. etenim
Augustus paucis ante annis, cum Tiberio tribuniciam potestatem a patribus rursum postularet, quamquam
honora oratione quaedam de habitu cultuque et institutis eius iecerat, quae velut excusando exprobraret. ceterum
sepultura more perfecta templum et caelestes religiones decernuntur.
Si diceva al contrario: il rispetto verso il padre e le necessità dello stato erano state un pretesto; i veterani erano
stati arruolati con donativi per volontà di potere, un ragazzo senza titoli aveva messo insieme un esercito, le
legioni del console erano state corrotte, il favore verso il partito pompeiano era frutto di simulazione; subito
dopo appena ebbe occupato per decreto del senato i fasci e la carica di pretore, uccisi Irzio e Pansa – sia che
fossero stati i nemici, sia che a Pansa avessero messo veleno sulle ferite e Irzio lo avessero eliminato i suoi soldati
e la macchinazione di Cesare – si impossessò degli eserciti di entrambi; strappato il consolato ad un senato
contrario, rivolte contro lo stato le legioni che aveva preso per combattere contro Antonio; le proscrizioni dei
cittadini e le assegnazioni agrarie erano disapprovate da quegli stessi che le avevano volute; passi la morte di
Cassio o dei Bruti, immolati alla vendetta paterna ( benché sia un dovere sacrificare l’odio personale al bene
pubblico) ma Sesto Pompeo fu ingannato con la prospettiva della pace e Lepido con una falsa amicizia; in
seguito Antonio venne adescato dagli accordi di Taranto e di Brindisi e dal matrimonio con la sorella e scontò
con la morte questa parentela ingannatrice. Certo, dopo venne la pace, ma una pace piena di sangue: le disfatte di
Lollio e di Varo, gli assassinii a Roma di uomini come Varrone, Egnazio, Iullo. E non gli si risparmiava
nemmeno la vita privata: aveva preso la moglie di Nerone per poi consultare per scherno i pontefici sulla
legittimità delle nozze con una donna incinta e le esibizioni di ricchezza di …e di Vedio Pollione. Infine Livia,
madre nefasta per lo stato e matrigna ancor più nefasta per la casa dei Cesari. Deploravano che non ci fosse più
spazio per il culto degli dei, poiché Augusto aveva voluto essere onorato con templi e con statue divine da
flamini e sacerdoti. E aveva designato Tiberio come suo successore non per affetto o per amore verso lo stato,
ma perché aveva intuito la sua arroganza e la sua crudeltà e voleva assicurarsi la gloria da questo odioso
confronto; infatti pochi anni prima, chiedendo ai senatori il rinnovo della tribunizia potestas per Tiberio, aveva
accennato nel discorso, pur di elogio, al suo atteggiamento e alle sue abitudini per rimproverarlo mentre lo
scusava. Comunque, conclusa la cerimonia della sepoltura, ad Augusto furono decretati un tempio e onori divini.
I, 1-3
[1] Urbem Romam a principio reges habuere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. dictaturae ad tempus
sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium, neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. non
Cinnae, non Sullae longa dominatio; et Pompei Crassique potentia cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma
in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis sub imperium accepit…..
Roma in origine fu una città governata dai re; l’istituzione della libertà e del consolato spettano a Lucio Bruto;
l’esercizio della dittatura era temporaneo e il potere dei decemviri non durò più di un biennio né a lungo resse la
potestà consolare dei tribuni militari. Non lunga fu la tirannia di Cinna né quella di Silla e la potenza di Pompeo e
di Crasso finì ben presto nelle mani di Cesare mentre gli eserciti di Lepido e di Antonio passarono ad Augusto il
quale con il titolo di principe concentrò in suo potere tutto lo stato stremato dalle lotte civili…..
[2] Postquam Bruto et Cassio caesis nulla iam publica arma, Pompeius apud Siciliam oppressus exutoque Lepido,
interfecto Antonio ne Iulianis quidem partibus nisi Caesar dux reliquus, posito triumviri nomine consulem se
ferens et ad tuendam plebem tribunicio iure contentum, ubi militem donis, populum annona, cunctos dulcedine
otii pellexit, insurgere paulatim, munia senatus magistratuum legum in se trahere, nullo adversante, cum
ferocissimi per acies aut proscriptione cecidissent, ceteri nobilium, quanto quis servitio promptior, opibus et
honoribus extollerentur ac novis ex rebus aucti tuta et praesentia quam vetera et periculosa mallent. neque
provinciae illum rerum statum abnuebant, suspecto senatus populique imperio ob certamina potentium et
avaritiam magistratuum, invalido legum auxilio quae vi ambitu postremo pecunia turbabantur.
Dopo che, uccisi Bruto e Cassio, lo stato restò indifeso e con la sconfitta di Pompeo in Sicilia, l’allontanamento
di Lepido e l’uccisione di Antonio, non restò a capo delle forze cesariane se non Cesare Ottaviano, costui,
deposto il nome di triumviro, si presentò come console, accontentandosi della tribunizia potestas a difesa della
plebe. Quando ebbe adescato i soldati con donativi, il popolo con le distribuzioni di grano, tutti con la dolcezza
della pace, cominciò pian piano la sua ascesa, a concentrare in sé le competenze del senato, dei magistrati, delle
leggi senza trovare alcuna opposizione: gli avversari più fieri erano scomparsi sui campi di battaglia o nelle
proscrizioni, mentre gli altri nobili, quanto più disposti a servire tanto più accresciuti in beni o cariche pubbliche,
divenuti potenti nel nuovo sistema preferivano il presente sicuro ai rischi passati. Né si opponevano a questa
situazione le province: sospettavano del governo del senato e del popolo per la rivalità dei potenti, l’avidità dei
magistrati, l’aiuto debole delle leggi che erano stravolte dalla violenza, dagli intrighi e infine dalla corruzione.
[3] Ceterum Augustus subsidia dominationi Claudium Marcellum sororis filium admodum adulescentem
pontificatu et curuli aedilitate, M. Agrippam ignobilem loco, bonum militia et victoriae socium, geminatis
consulatibus extulit, mox defuncto Marcello generum sumpsit; Tiberium Neronem et Claudium Drusum
privignos imperatoriis nominibus auxit, integra etiam tum domo sua. nam genitos Agrippa Gaium ac Lucium in
familiam Caesarum induxerat, necdum posita puerili praetexta principes iuventutis appellari, destinari consules
specie recusantis flagrantissime cupiverat. ut Agrippa vita concessit, Lucium Caesarem euntem ad Hispaniensis
exercitus, Gaium remeantem Armenia et vulnere invalidum mors fato propera vel novercae Liviae dolus abstulit,
Drusoque pridem extincto Nero solus e privignis erat, illuc cuncta vergere………..bellum ea tempestate nullum
nisi adversus Germanos supererat, abolendae magis infamiae ob amissum cum Quintilio Varo exercitum quam
cupidine proferendi imperii aut dignum ob praemium. domi res tranquillae, eadem magistratuum vocabula;
iuniores post Actiacam victoriam, etiam senes plerique inter bella civium nati: quotus quisque reliquus qui rem
publicam vidisset?
Del resto, Augusto a sostegno del proprio potere innalzò alla carica di pontefice e di edile curule Claudio
Marcello, figlio della sorella, ancora giovane, e nominò console per due anni di seguito Marco Agrippa, di umili
origini ma buon soldato e compagno della vittoria e poi, morto Marcello, lo volle come genero. Diede il titolo di
imperator ai figliastri Tiberio Nerone e Claudio Druso pur essendo ancora viventi esponenti della sua casa.
Aveva infatti introdotto nella casa dei Cesari Gaio e Lucio, figli di Agrippa, e aveva desiderato molto che essi,
ancora in toga puerile, fossero nominati principi della gioventù e designati consoli, sebbene fingesse di rifiutare
questi onori. Ma appena Agrippa morì, una morte precoce o forse le trame della matrigna Livia eliminarono sia
Lucio Cesare mentre era diretto all’esercito di Spagna, sia Gaio al ritorno dall’Armenia, ferito; poichè Druso era
morto da tempo, dei figliastri era rimasto solo Nerone (Tiberio) e a lui si rivolsero tutte le aspettative…….A quel
tempo di guerre non ne erano rimaste se non quella contro i Germani e più per cancellare la vergogna
dell’esercito perduto con Quintilio Varo che per estendere l’impero o perché fosse vantaggiosa. A Roma tutto era
tranquillo, ricorrevano sempre gli stessi titoli di magistrati. I più giovani erano nati dopo la vittoria di Azio, e
anche la gran parte dei più vecchi era nata durante le guerre civili: chi c’era più che avesse visto la repubblica?
III, 28,2
exim continua per viginti annos discordia, non mos, non ius; deterrima quaeque impune ac multa honesta exitio
fuere. sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu iusserat abolevit deditque
iura quis pace et principe uteremur
Difatti per venti anni ci furono continue lotte, nessuna morale, nessuna legalità; cose abominevoli restavano
impunite e molte altre oneste furono causa di rovina; nel suo sesto consolato, infine, Cesare Augusto, ormai
certo del suo potere, abolì le norme date durante il triumvirato e ci diede le regole per cui abbiamo la pace e un
principe.
Svetonio, vita di Augusto
[28] De reddenda re p. bis cogitavit: primum post oppressum statim Antonium, memor obiectum sibi ab eo
saepius, quasi per ipsum staret ne redderetur; ac rursus taedio diuturnae valitudinis, cum etiam magistratibus ac
senatu domum accitis rationarium imperii tradidit. Sed reputans et se privatum non sine periculo fore et illam
plurium arbitrio temere committi, in retinenda perseveravit, dubium eventu meliore an voluntate. Quam
voluntatem, cum prae se identidem ferret, quodam etiam edicto his verbis testatus est: "Ita mihi salvam ac
sospitem rem p. sistere in sua sede liceat atque eius rei fructum percipere, quem peto, ut optimi status auctor
dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei p. quae iecero.
Pensò due volte di lasciare il potere che aveva sullo stato : la prima, subito dopo aver vinto Antonio ricordando
che gli aveva più volte rinfacciato che il governo dello stato non veniva ripristinato proprio per colpa sua; la
seconda quando, prostrato da una lunga malattia, convocò presso di sé i magistrati e i senatori presentando loro
il bilancio della sua amministrazione. Ma poi, pensando che per lui non sarebbe stato privo di pericoli tornare ad
essere semplice cittadino né per lo stato essere affidato all’arbitrio di molti, continuò a tenere il governo; e non si
sa se sia stato migliore l’esito o il proposito. Di questo proposito, oltre a parlarne spesso, diede anche
attestazione in un editto con queste parole : ‘Mi sia concesso che la repubblica resti salda e sicura sulle sue basi e
che io possa avere il risultato che desidero, cioè che sia considerato fondatore di un ottimo stato di cose e
morendo porti con me la speranza che le fondamenta della repubblica restino sulle basi che ho stabilito’.