Capitolo 1 Dalla città globale al progetto locale Quello della globalizzazione è uno scenario ancora aperto, così come aperto resta il dibattito sulla transnazionalizzazione dell’economia e sul ruolo dello stato nazionale al suo interno. Con accezioni differenti è però diffusamente accettata l’idea che lo stato-nazione abbia ceduto in favore di altri soggetti poteri e competenze riguardanti tanto la dimensione economica quanto quella politica e culturale (Scartezzini, 1998). Questa cessione di sovranità avviene verso l’alto e verso il basso, in un processo in cui l’autorità degli stati “è sostituita o comunque compromessa da sistemi di potere politico, economico e culturale di livello regionale e globale” (D.Held A.Mc grew, 2002). Si tratta di un processo tuttora in corso, nel quale “è molto probabile che il duplice processo di trasferimento di poteri a livello continentale (e internazionale) e di devoluzione all’interno dei singoli paesi sia destinato a proseguire nel prossimo futuro” (Bobbio 2003). Il processo di cessione di sovranità dallo stato nazionale a una molteplicità di attori emergenti nell’arena politica globale può essere riassunto in questi termini: spicca il mutato ruolo degli stati che, all’interno di ancora informi regimi di governance transnazionale non sono più protagonisti assoluti, ma attori la cui preponderanza è sfidata dalle imprese multinazionali, dalle organizzazioni intergovernative, dalla società civile globale, dai movimenti sociali transnazionali e, appunto, dalle città (d’Albergo 2004) Gli attori che assumono funzioni e poteri precedentemente propri dei governi nazionali sono diversi e legati tra loro da relazioni di natura differente, situate 1 nello spazio compreso tra le contrapposte polarità di cooperazione e competizione. Tra questi si evidenziano gli enti locali, e in particolare le città, soggetti emergenti nello scenario della governance globale, laddove per governance intendiamo con Bobbio (2003) “l’insieme delle interazioni che danno luogo a scelte di governo”. Una governance che si configura come multilivello, caratterizzata anche dall’attivismo delle istituzioni sub-nazionali, che a questo punto sarebbe meglio definire “infra-nazionali” perché, pur rimanendo all’interno dei confini geografici di uno stato, vanno acquisendo indipendenza dai suoi confini istituzionali (ibidem). Un’indipendenza in cui la definizione delle reciproche funzioni e sovranità si sfuma. Le città producono politiche in settori precedentemente di esclusiva competenza dello stato nazionale, producendo una tensione che può dare vita anche a dinamiche conflittuali. E’ stato affermato che gli enti locali: si comportano da quasi-stati, facendo politiche estere o alleanze economiche con altre regioni e città, riscoprono o inventano proprie identità locali e territoriali. L’autorità dello stato tende a ristabilire regole condivise, ma è sottoposta a tensione: deve decentrare, ma quanto? Delega funzioni, ma saprà ancora rappresentare una sintesi dei conflitti distributivi? Lo stato e i soggetti territoriali in cerca di autonomia, regioni e città, finiscono così per contendersi pezzi di sovranità e simboli di legittimazione, in un permanente disequilibrio” (Perulli, 2000) In questo capitolo si intende dare conto di come all’acquisizione di nuovi poteri e competenze delle città sull’arena politica globale sia corrisposta una pluralità di analisi e letture che, partendo da modelli interpretativi differenti, sono accomunate dalla rilevanza attribuita alla dimensione urbana, e più in generale alla dimensione locale. Se così da una parte si affermano studi che parlano di “città globali” e del ruolo differenziato che le città assumono rispetto alla loro dislocazione nei flussi informativi e finanziari globali, emerge nel contempo la prospettiva del progetto locale che, partendo da premesse 2 simili a quelle dei teorici delle global cities, assume i territori come elemento strategico per l’affermazione di un modello alternativo di globalizzazione. 1.1 Global cities L’interesse e lo studio delle realtà urbane come fenomeno globale nasce e si sviluppa nel contesto delle analisi della globalizzazione. Se è vero che i grandi centri urbani hanno da sempre svolto un ruolo di attori politici anche indipendentemente dagli stati nazione, è vero anche che il concetto di “città globale” si sviluppa negli ultimi quindici anni dello scorso secolo, con la fine dell’ordine mondiale bipolare e l’emergere di una nuova forma di governance mondiale e insieme alle riflessioni relative alla postmodernità. In questo paragrafo si intendono confrontare le analisi su questo tema di Anthony D. King, Saskia Sassen e Manuel Castells, autori degli studi più noti sul rapporto tra città e globalizzazione. Antony D. King (1991) è tra i primi a utilizzare il termine “città globali”1 attribuendo ai centri urbani, come altri dopo di lui, un ruolo centrale in relazione alla nuova distribuzione dei flussi di capitale e di informazioni nell’economia globale. Per King le città globali sono infatti "basi delle grandi banche e delle corporazioni multinazionali. Da queste basi si irradia una rete di comunicazioni elettroniche e di corridoi aerei lungo cui il capitale viene dispiegato e ridispiegato, e attraverso cui sono spedite le decisioni fondamentali sulla struttura dell'economia mondiale." (1991) L’analisi di King è tuttavia volta a cercare le origini dell’odierna configurazione delle global cities. L’autore infatti nega che queste siano sorte come 1 Per quanto il concetto sia stato utilizzato per la prima volta da Friedmann (1986) in “The world city hypothesis”. 3 conseguenza diretta della transnazionalizzazione dell’economia, ma ne ricerca le radici all’interno del colonialismo. Quelle che oggi sono città globali per King sarebbero state in precedenza città “imperiali”, come Parigi, Londra o in misura minore Lisbona. Centri quindi di imperi coloniali e dunque, ovviamente, crocevia di commerci, capitali e informazioni. A queste si vanno ad aggiungere quelle che King definisce città “coloniali” come Hong Kong, New York, Sidney, non centri delle potenze imperiali ma fondamentali snodi politici e commerciali per il controllo delle colonie. La città globale non sorge dal nulla ma dalla posizione occupata nello scenario globale in secoli di storia. E’ tuttavia evidente la novità costituita da un nuovo sistema globale di scambi non gerarchico, in cui la città non è più “imperiale” o “coloniale”, e non è più attore politico in quanto capitale di uno stato nazionale o di una sua colonia. La città globale è tale indipendentemente dalla sua dimensione nazionale, ed esclusivamente in virtù del suo essere nodo di una rete globale di flussi di informazione e di capitale. Sul solco di questa analisi si inserisce l’elaborazione di Saskia Sassen (1991), autrice degli studi tra i più noti sul tema delle global cities. Sassen focalizza l’attenzione sulle città globali in quanto luoghi materiali di concentrazione di beni e servizi che nell’economia globale non si sono virtualizzati ma riposizionati. “la combinazione di dispersione spaziale e integrazione globale ha creato un nuovo ruolo strategico per le grandi città. Anche senza considerare la loro lunga storia di centri internazionali commerciali e finanziari, queste città operano oggi in quattro modi: 1)come punti direzionali di organizzazione dell’economia globale; 2) come località chiave per le società di servizi finanziarie e specialistiche; 3) come luoghi di produzione, comprendendo in ciò anche la produzione di innovazione in questi settori avanzati; 4) come mercati per i prodotti e le innovazioni create. (Sassen, 1991) 4 Secondo Sassen le città globali arrivano a configurare un sistema transnazionale che prescinde dalla dimensione nazionale. A partire da un’analisi sociale, economica e urbanistica l’autrice osserva come grandi metropoli come New York, Tokio o Londra presentino tra loro più affinità di quanta ne esistano tra le stesse città e lo stato-nazione di cui fanno parte o di cui spesso sono capitali. Ne conclude quindi che “si può osservare la formazione, quanto meno incipiente, di un sistema urbano transnazionale” (1998). Allo stesso tempo l’analisi di Sassen presenta due elementi peculiari rispetto ai molteplici studi sulle città globali. In primo luogo la sociologa statunitense articola la riflessione sul ruolo dello stato nazione nell’economia globale mettendo in discussione l’assunto secondo il quale questo avrebbe subito passivamente un processo di svuotamento di sovranità. Per Sassen assistiamo invece a una riarticolazione dei poteri, nella quale lo stato è ancora attore di primo piano, in un processo di deregolamentazione attraverso il quale i governi favoriscono e consentono coscientemente la transnazionalizzazione dell’economia. “la deregolamentazione è un veicolo per il cui tramite un numero crescente di stati favorisce la globalizzazione economica e ne garantisce un ingrediente essenziale: i diritti del capitale globale. La deregolamentazione e le politiche affini costituiscono gli elementi di un nuovo regime giuridico dipendente dal consenso degli stati sull’obbiettivo di favorire la globalizzazione” (Sassen, 2002) Questo però non significa che non si vada configurando un nuovo assetto di poteri a livello globale. E’ proprio in questo assetto che assume rilevanza nella riflessione di Sassen la città in quanto “luogo” della produzione nell’economia globale. Questa non si è virtualizzata ma continua a essere 5 legata a necessità contingenti non solo di carattere cognitivo, ma anche legate a servizi e alla produzione materiale. “l’economia globale si materializza perlopiù in processi concreti ubicati in luoghi specifici, e ciò vale anche per le industrie dell’informazione più avanzate. Si deve distinguere la capacità di trasmissione e comunicazione globale dalle condizioni materiali che la rendono possibile” (Sassen, 2002) Queste condizioni materiali si verificano soprattutto, ma non esclusivamente, nelle città globali. Città dunque come luogo, da studiare per comprendere la globalizzazione e intervenirvi, specificando una “geografia globale di luoghi strategici, come pure le microgeografie e le politiche che si manifestano all’interno di questi luoghi” (Sassen, 2001). Uno studio da cui emergono contraddizioni e conflitti irrisolti, tra le città e nelle città. In primo luogo tra le città globali dei paesi più sviluppati e le metropoli sottosviluppate del sud del mondo. “Queste reti di imprese che producono funzioni globali sono concentrate in modo sproporzionato nei paesi più sviluppati – in particolare, anche se non esclusivamente, in quelle che ho definito città globali (New York, Londra, Tokio)” (Sassen, 2001) In secondo luogo si disegna una geografia sociale urbana conflittuale, per la quale la città diventa “luogo di affermazione di nuovi diritti: da parte del capitale globale, che utilizza la città come materia prima per l’organizzazione, ma anche da parte di settori svantaggiati della popolazione urbana, che nelle grandi città sono spesso una presenza tanto internazionalizzata quanto il capitale” (Sassen, 2001) Città come luoghi, dunque, e città come arene politiche per attori non solo economici ma anche di società civile. Una società civile espressione delle 6 composizione sociale urbana, fatta di lavoratori dei servizi “parte integrante di questo sistema economico” e quindi attori politici in una prospettiva di mutamento in cui “i movimenti sociali, gli esclusi, i senza potere assumono ogni giorno un ruolo più importante” (Sassen, 2005). Il movimento altermondialista è espressione di una nuova “società civile globale”2 che si esprime su arene sovranazionali che vanno dalle mobilitazioni contro i vertici del G8, del WTO, del FMI, della WB, ma che è capillarmente organizzata in reti di cui le città sono nodi e luoghi di radicamento. Queste città, e i legami geografici che le collegano tra loro attraverso i confini nazionali, possono essere considerate parte dell’infrastruttura per una società civile globale. (…) Ci sono una varietà di organizzazioni impegnate in questioni transnazionali come l’immigrazione, il diritto d’asilo, le lotte per un’altra globalizzazione. Sebbene tali organizzazioni non siano necessariamente urbane per nascita o orientamento, la geografia delle loro operazioni è inserita in un gran numero di città” (Sassen 2005) Qui sta il secondo, e ai fini della nostra analisi cruciale, elemento di peculiarità nell’analisi di Sassen. Le città globali non sono solo nodi di scambio di informazioni e capitali ma anche e soprattutto luoghi e palcoscenici di relazioni e conflitti sociali. E, in quanto tali, terreno strategico dell’attività tanto del capitale quanto della società civile globale. Un’analisi centrale ai fini della comprensione dello sviluppo di un nuovo municipalismo emergente nei movimenti sociali, nelle amministrazioni locali e nelle loro reti. Strettamente connessa alla elaborazione di Saskia Sassen, sia pure con significative differenze, è l’analisi di Manuel Castells. Se della prima ci è utile 2 Si assume qui la definizione di “società civile globale” di Anheier (2003) per cui: “Civil society refers to the set of institutions, organizations and behaviours situated between the state, the business world, and the family. Specifically, this includes voluntary and nonprofit organizations of many different kinds, philanthropic institutions, social and political movements, other forms of social participation and engagement and the values and cultural patterns associated with them”. 7 soprattutto l’analisi delle città come luoghi, il sociologo catalano inserisce la sua riflessione sulle global cities all’interno del paradigma che ha contribuito a creare, quello della network society. Secondo Castells la città è globale in virtù del suo ruolo di nodo nella rete globale di flussi informativi. La città globale è una rete di nodi urbani, a differenti livelli e con diverse funzioni, che si estende su tutto il pianeta e funge da centro nervoso della nuova economia, in un sistema interattivo di geometria variabile a cui le aziende e le città si devono adattare in modo costante e flessibile. Il sistema urbano globale è una rete, non una piramide. E i mutevoli rapporti con questa rete determinano, in larga misura, il destino di città e cittadini (Castells 2002). Castells afferma quindi che non esistono global cities così come individuate da Sassen in centri come Londra, New York o Tokyo, ma esiste un sistema urbano globale che configura di per sé un’unica e reticolare global city (ibidem). In questo quadro quindi la città potrebbe perdere la sua dimensione di luogo peculiare, con la sua storia e le sue caratteristiche tanto geografiche quanto socioculturali. Castells non ritiene che queste caratteristiche si siano del tutto diluite nella globalità del sistema urbano, ma sottolinea l’esistenza di una tensione tra la globalità dello spazio dei flussi e la dimensione fisica della città. Nell'età dell'informazione stiamo assistendo a una crescente tensione e articolazione tra spazio fisico e spazio dei flussi. Lo spazio dei flussi stabilisce un collegamento elettronico tra luoghi fisicamente separati, creando un network interattivo di relazioni tra attività e individui a prescindere dallo specifico contesto di riferimento. Lo spazio fisico, invece, organizza le esperienze nei limiti della collocazione geografica. Le città moderne vengono contemporaneamente strutturate e destrutturate da queste due logiche contrapposte. La metropoli non si annulla nelle reti virtuali: piuttosto, si trasforma attraverso l'interazione tra 8 comunicazione elettronica e relazioni fisiche, attraverso la combinazione di luogo e network.(Castells 2004) Questa tensione fa delle città arene politiche globali, in conseguenza dell’emergere in esse di attori sociali che producono azioni – anche conflittuali – finalizzate all’acquisizione di nuovi diritti. Come Sassen, anche Castells studia le città come luoghi di espressione dei movimenti sociali. Attingendo alle teorie azionaliste il sociologo catalano osserva come la tensione tra spazio globale dei flussi e identità locali dia vita, in ragione della contemporanea scomparsa delle forme classiche di organizzazione dei movimenti operai, a nuovi movimenti caratterizzati dal prevalere di una dimensione identitaria. La resistenza identitaria assume il luogo come base culturale e arena politica. Una resistenza che può assumere caratteri progettuali e divenire vettore di nuove forme di democrazia, come nei casi dello zapatismo in Chiapas o dell’autonomismo catalano. Castells (2002) la definisce resistenza identitaria progettuale, una medaglia che ha come altra faccia resistenze che si esprimono in forme non progettuali, come i localismi xenofobi o i fondamentalismi religiosi. Nella nostra ricerca l’opera di Castells assume rilievo centrale anche per gli studi condotti dall’autore sulle reti di città. L’internazionalizzazione delle grandi città si riflette chiaramente, in termini istituzionali, nella partecipazione attiva dei governi urbani e dei principali artefici dello sviluppo alla vita internazionale. Questo avviene fondamentalmente attraverso tre meccanismi: adesione ad associazioni di città, partecipazione a reti, sviluppo di un marketing cittadino e presenza agli eventi internazionali. (2002) La transnazionalizzazione dei flussi economici e cognitivi e lo svuotamento di poteri dello stato nazione ha quindi disegnato una nuova geografia politica 9 globale in cui a dominare la scena è un sistema urbano i cui nodi sono articolati essenzialmente in ragione delle esigenze del capitale. Ma questa articolazione lascia aperti spazi di intervento per nuovi attori politici come i movimenti sociali e i governi locali. Attori che hanno a disposizione nuovi strumenti e nuove strategie di azione, come le reti di città, e ne vanno prendendo coscienza. Su questi elementi, centrali in questa ricerca, torneremo più volte. 1.2 Città globali e strategie di azione L’analisi operata da molti autori sulle città globali, su alcuni dei quali abbiamo condotto una breve rassegna, non risolve però la questione sollevata dall’esistenza di prospettive divergenti sulla possibilità di considerare la città come un attore collettivo o meno. La città è infatti un’arena politica nella quale si confrontano differenti attori portatori di diversi interessi: attori di natura economica, attori istituzionali, di società civile. In questa prospettiva alcuni autori (Marcuse e Van Kelpen, 2000, cit. in d’Albergo 2006) rifiutano come fuorviante la definizione di “attore” attribuita alla città, sostenendo che essa diviene arena per singoli attori diversificati che ne sfruttano la dimensione globale per intessere relazioni che travalicano i confini nazionali. La stessa analisi di Sassen vede nella città un’arena utilizzata da differenti attori nella rivendicazione di nuovi diritti. E tuttavia la prospettiva che vede l’emergere di un sistema urbano transnazionale, condivisa dagli autori degli studi sulle global cities, implica l’esistenza di una politica della città così come di una politica nella città, due dimensioni strettamente connesse tra loro e che lasciano pensare alla città tanto come arena quanto come attore. 10 La risposta sembra essere suggerita da Perulli (cit. in d’Albergo, 2004) secondo cui le città stesse sono attraversate da reti che rendono loro difficile dotarsi di un’identità unitaria ma, “attraverso la ricerca intenzionale di un’immagine e di un riconoscimento esterni, si propongono anche come attori unitari e collettivi in cerca del proprio potere” (ib.). E’ possibile teorizzare che la configurazione di una città come attore globale o meno dipenda anche dalla natura delle politiche da essa attuate e dall’impatto che queste hanno sui differenti attori che vivono al suo interno. Le politiche internazionali possono infatti produrre “effetti di riduzione della frammentazione nel governo di una città, se prendono la forma di una strategia prevalente” (d’Albergo, 2004) alterando così i rapporti fra “attori politici, amministrativi e non istituzionali” (ibidem). Le politiche delle città, laddove anche le questioni tradizionalmente caratterizzate da una spiccata dimensione territoriale sono “elaborate all’interno di arene decisionali in cui il livello sopranazionale acquista importanza” (Lotrecchiano, 2004), possono quindi porsi dentro uno spazio tipologico delimitato dalle polarità “integrazione” e “frammentazione”. Un alto livello di integrazione implica l’esistenza di una strategia prevalente, intesa come “insieme delle risposte politiche (e non solo economiche) alle pressioni dei mercati globali e alla transnazionalizzazione della politica e delle istituzioni” (d’Albergo 2004). Un alto livello di integrazione implica la possibilità di individuare una strategia prevalente nelle politiche di una città, la cui natura può essere diversificata, e identificabile attraverso indicatori quali la visibilità, quindi il coverage delle attività da parte dei media, e l’importanza politica osservabile nei processi di agenda setting locali (ib) 11 Questa differenziazione è individuabile principalmente nella polarizzazione tra politiche social oriented e market oriented. Si tratta di polarità che attengono soprattutto alla struttura di relazioni che dà vita alle politiche. Secondo Carlo Donolo (2005) nel primo caso c’è “l’intreccio di istituzioni pubbliche e attori civili (su arene)”, mentre nel secondo c’è “intreccio di istituzioni publiche e interessi di impresa privata (su mercati o quasi-mercati)”. Per quel che concerne gli impatti, con una politica social oriented “si creano ibridi istituzionali, cresce la varietà, e forme almeno embrionali di democrazia deliberativa, viene salvaguardata o addirittura enfatizzata la natura pubblica dei beni”. In una politica market oriented invece “si creano nuove merci, nuovi mercati, e magari produzione privata di beni pubblici” (ibidem). Una strategia social oriented è quindi strettamente connessa all’attivazione della società civile nelle politiche pubbliche, attraverso processi decisionali caratterizzati dalla dimensione partecipativa: “senza una deliberazione (in una qualche forma o misura) la politica non può essere implementata e neppure realmente formulata” (ibidem). L’orientamento strategico social oriented o market oriented è determinante anche rispetto alla collocazione assunta dalle città nell’arena politica globale. Una strategia basata sulla relazione con attori economici sarà “coerente con agende politiche neoliberiste e indirizzerà le strategie internazionali verso la promozione economica, il city marketing e la pressione nei confronti delle istituzioni internazionali volta a influenzarne le agende distributive e acquisire risorse materiali” (d’Albergo 2004). Una strategia internazionale social oriented, al contrario: “è più coerente con strategie di governo che fanno da un lato della redistribuzione e, dall’altro, della cultura, dell’attaccamento a valori, ideali, norme, visioni del mondo e identità post-materiali il principale elemento connettivo della città” (ib). 12 La variabile indipendente da cui deriva la strategia prevalente nelle politiche di una città è dunque individuabile nella “leadership” e nel “blocco sociale di riferimento”, che forniscono le risorse politiche e una visione in ragione delle quali una politica internazionale può entrare a far parte o meno dell’agenda politica di una città (ib.). In questo contesto, come vedremo di grande rilevanza per la cultura politica neomunicipalista, la società civile può configurarsi anche come attivatore delle politiche delle città, per perseguire tramite esse “finalità di cambiamento nelle relazioni internazionali o per reindirizzare processi e politiche di natura transnazionale” (ib.). Una strategia che è al centro del dibattito e dell’elaborazione del movimento altermondialista. In questo quadro, quale che sia la strategia prevalente scelta dalle città, entra in gioco quella che è stata definita come una “nuova forma di governo nel postfordismo”, ovvero la rete. L’attività di governo nelle città infatti non può prescindere dall’attivazione di relazioni tra attori diversi dando vita a un modello per cui la città si avvicina a un modello di rete: il governo urbano è infatti non tanto la struttura del potere locale in sé, quanto l’insieme dei meccanismi alternativi di negoziazione tra diversi gruppi, reti, sottosistemi, suscettibili di rendere possibile l’azione di governance (Perulli 2002). 1.3 La Carta del Nuovo Municipio Porto Alegre, capitale dello stato brasiliano del Rio Grande do Sur, non si può certo definire una città globale nei termini proposti da King o da Sassen. Ma proprio per questo è interessante osservare come dal 2001 in poi questa città abbia assunto un ruolo globale quasi unico, non in virtù di una posizione nodale rispetto a flussi di capitale, ma in quanto crocevia di culture politiche e movimenti sociali. 13 E’ una città sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro e che è stata definita non solo “capitale dei movimenti” (Cannavò, 2002) ma anche “capitale della democrazia” (Pont, 2005): qui in quattro occasioni su sei hanno avuto luogo gli incontri del World Social Forum3. E’ qui che la riflessione sulle global cities e sul loro ruolo emergente nell’arena politica globale si è incontrata con quelle portate avanti dal movimento altermondialista alla ricerca di un modello possibile di “globalizzazione dal basso” (Pianta 2001) Le città come nuovo attore transnazionale sono entrate prepotentemente a far parte del dibattito all’interno dei Forum Sociali Mondiali, a partire dalla convinzione,condivisa dalla pluralità di culture che costituisce il movimento, he esse costituiscano un elemento strategico nella proposta di modelli alternativi all’orientamento dominante nella governance globale: “All’interno delle culture politiche del movimento alterglobal, le dimensioni locale e transnazionale sono direttamente connesse e ciò consente alle azioni e alle politiche locali di guadagnare crescente importanza come risorsa per resistere nei confronti della globalizzazione neoliberista. Le città sono presentate come possibili attori della globalizzazione dal basso e gli amministratori cittadini prendono parte a forum e reti permanenti collegati da vicino con i Social Forum mondiale ed europeo” (d’Albergo 2006) Non è un caso che la scelta per la sede di questo dibattito sia caduta su Porto Alegre, considerata capitale dei movimenti perché città simbolo della democrazia partecipativa. Qui ha origine il primo e più significativo 3 Il World Social Forum è definito dai suoi organizzatori (sul sito www.forumsocialmundial.org.br) come “open meeting place where social movements, networks, NGOs and other civil society organizations opposed to neo-liberalism and a world dominated by capital or by any form of imperialism come together to pursue their thinking, to debate ideas democratically, for formulate proposals, share their experiences freely and network for effective action”. Si è tenuto a Porto Alegre nelle edizioni del 2001, 2002, 2003 e 2005. Nel 2004 si è tenuto a Mumbay in India e nel 2006 è stato organizzato in forma policentrica tra Bamako (Mali), Caracas (Venezuela) e Karachi (Pakistan). 14 esperimento di bilancio partecipativo4 al mondo, che alla fine degli anni Novanta vedeva coinvolti oltre centomila cittadini, l’8% circa della popolazione (De Sousa Santos 2005). Da allora la formula del Bilancio Partecipativo si è estesa a macchia d’olio in tutti i continenti, fino ad assumere il valore simbolico di processo capace di rappresentare un’alternativa concreta e praticabile alla crisi della democrazia rappresentativa su base nazionale ai tempi della globalizzazione neoliberista. Un dibattito, quello sul ruolo delle città nell’attuale ordine mondiale e nella costruzione di un modello ad esso alternativo, che ha avuto un momento di svolta con un workshop tenutosi nel World Social Forum del 2002, il cui titolo già di per sé costituiva un manifesto di intenti: “Sviluppo locale autosostenibile: ruolo e compiti dei nuovi municipi, e valorizzazione delle reti sociali di attori locali per una globalizzazione dal basso”5. 4 Il processo di Bilancio Partecipativo è sperimentato da 16 anni nella città brasiliana di Porto Alegre (e ormai in altre 200 città brasiliane e di altri Paesi del mondo tra cui circa 50 casi europei), ha assunto notorietà anche in Italia, tanto che dal giugno 2001 – su stimolo del dibattito suscitato dai 4 Forum Sociali Mondiali, dai 4 Forum delle Autorità Locali per l'Inclusione Sociale, dalle Best Practices ONU e dal programma euro-latinoamericano URBAL - si contano già una decina di città in Italia che ne stanno tentando un’emulazione. In termini generali, il Bilancio Partecipativo potrebbe essere definito come un processo decisionale che consiste in un’apertura della macchina statale alla partecipazione diretta ed effettiva della popolazione nell’assunzione di decisioni sugli obiettivi e la distribuzione degli investimenti. Si caratterizza come processo partecipativo di discussione sulle proposte di Bilancio (Circoscrizionale, Municipale, Provinciale, Regionale) che si snoda durante tutto l’anno fino a disegnare una proposta articolata di Bilancio per ogni anno di gestione successiva, sulla base delle richieste della cittadinanza (Allegretti, 2004). 5 Referente e organizzatore del workshop è stato il Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti (Lapei) dell’Università di Firenze, coordinato da Alberto Magnaghi, che della Carta del Nuovo Municipio è anche autore materiale. Insieme a Magnaghi la Carta è stata presentata a Porto Alegre da dodici tra docenti e ricercatori italiani ed è entrata nel dibattito fino ad essere inclusa tra i documenti conclusivi della conferenza generale sulla democrazia partecipativa del WSF di Porto Alegre del 2002, dopo essere stata presentata dalla allora Presidente della provincia di Torino Mercedes Bresso al Forum delle Autorità Locali (FAL) in seno al WSF. Da allora la Carta del Nuovo Municipio è stata sottoscritta in Italia da amministratori locali, associazioni e società civile, studiosi e docenti universitari. Nel 2004 si contavano 190 adesioni. 15 Il workshop è stato l’occasione per la presentazione del documento che è alla base dell’elaborazione teorica e della pratica politica del neomunicipalismo: la Carta del Nuovo Municipio. Secondo i suoi autori essa “non è soltanto una procedura amministrativa, ma un manifesto politico” (Magnaghi 2002), che pone la necessità di un “laboratorio orientato culturalmente e politicamente che sperimenta una trasformazione nella direzione indicata dalla Carta”. Una direzione indicata già nel titolo dello stesso documento che allude al “Nuovo Municipio per una globalizzazione dal basso, solidale e non gerarchica”. La Carta è un documento complesso, che comprende differenti issues e indica un “multiverso£ di pratiche possibili che, insieme, vanno a delineare uno “scenario futuro ambizioso, in cui molteplici contenuti e temi appaiono compresenti e si combinano sulla base di modalità di gestione delle trasformazioni territoriali di carattere partecipativo e vanno, così, a definire un progetto locale complesso” (Allegretti et al. 2004). Una prospettiva che prende atto delle differenti strategie prevalenti possibili nell’azione di governo di un’amministrazione territoriale, scegliendo allo stesso tempo il sostegno a un paradigma radicalmente social oriented e indicando strategie conflittuali per gli attori sociali nel caso in cui la politica dell’amministrazione sia caratterizzata da una strategia orientata al mercato. La Carta del Nuovo Municipio riprende e rielabora temi propri del dibattito teorico e politico sulle città globali. Le premesse da cui partono gli autori della Carta sembrano essere simili a quelle dei teorici delle global cities. Una prospettiva considerata però in termini assai critici, a partire dalla crescita in esse di polarizzazioni sociali e nuove povertà. La metropoli contemporanea è caratterizzata da modalità insediative tendenzialmente illimitate, frammentate, diffusive e pervasive, fortemente indipendenti dal contesto. La 16 conurbazione metropolitana polarizzata, la città diffusa, la ville eclatée, la megalopoli illegale terzomondiale ne sono le manifestazioni più evidenti. La definizione dei suoi confini territoriali è sempre più ardua, in coerenza con la forma imperiale del mercato mondiale e del sistema mondo che, a differenza dei suoi precedenti storici, per la prima volta è privo di confini geografici, avvolge a rete l’intero globo terracqueo ed è raggiungibile in ogni suo punto in tempo reale (Magnaghi 2000) La risposta della scuola territorialista6, alla quale si deve l’ideazione della Carta del Nuovo Municipio, alla forma-metropoli così delineata sta nella restituzione alla città dei suoi confini, nel restituire alla città la dispersa dimensione di “municipio”, proponendo che esso torni ad essere “sede reale di autogoverno della comunità locale” – in contrapposizione quindi alla formametropoli che è espressione sui territori del dominio dell’economia globale -. Questo significa contrapporre allo spazio dei flussi descritto da Castells uno spazio non virtuale: “far planare il cyberspazio nelle piazze reali”. La complessità e la molteplicità delle issues poste dal suo documento fondativo non rendono facile il tentativo operare una definizione scientifica o sociologica del “neomunicipalismo”, definizione che infatti ad oggi non è data. Ma è prioritaria per condurre una simile indagine sulle culture e le strategie che lo compongono una disanima dei principi fondamentali che compaiono all’interno della Carta che rappresenta il “manifesto politico” del Nuovo Municipio. 6 La scuola territorialista è nata all'inizio degli anni 90 in Italia per opera di alcuni docenti e ricercatori di urbanistica e di sociologia che hanno deciso di coordinare la loro attività di ricerca: A. Magnaghi (Università di Firenze), G. Ferraresi (Politecnico di Milano), A. Peano (Politecnico di Torino), E. Trevisiol (IUAV), A. Tarozzi (Università di Bologna), E. Scandurra (Università di Roma La Sapienzaí), A. Giangrande (Università Roma Tre), D. Borri (Università di Bari) e B. Rossi Doria (Università di Palermo). L'approccio territorialista evidenzia come i problemi della sostenibilità dello sviluppo mettano in primo piano la valorizzazione del patrimonio territoriale - nelle sue componenti ambientali, urbanistiche, culturali e sociali - come elemento fondamentale per la produzione durevole di ricchezza. 17 Già definibile come tale a partire dalle sue righe introduttive che partono da una critica di un mercato globale che per gli autori “considera spazio e risorse locali come beni da trasformare in prodotti di mercato e di cui promuovere il consumo, senza alcuna attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale dei processi di produzione”.(Carta del Nuovo Municipio) Aggiungendo quindi che “l’alternativa alla globalizzazione parte da qui: da un progetto politico che valorizzi le risorse e le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di rifiuto della eterodirezione del mercato unico”. Ma quali sono gli attori e le politiche da attivare nella prospettiva neomunicipalista? Allo scopo di sistematizzare l’esposizione è opportuno riferirsi alla schematizzazione operata da Magnaghi (2003) e Allegretti (2004) che individuano “cinque ambiti di interesse principali, che hanno fatto da principio orientatore”: Costruzione di elementi di empowerment delle comunità locali Autosostenibilità e riduzione dell’impronta ecologica Costruzione di nuovi indicatori di sviluppo Autoriconoscimento del patrimonio e dei saperi locali Costruzione di reti di relazione e di scambio solidale Come elemento preliminare alla ricerca sul campo rispetto a culture e strategie del nuovo municipalismo, e in assenza di una definizione condivisa del significato del termine, è utile prendere in considerazione ciascuno dei principi di base elencati per chiarire le caratteristiche della prospettiva indicata dalla Carta del Nuovo Municipio. 18 1.3.1 Empowerment delle comunità locali Il concetto di empowerment non compare all’interno della Carta del Nuovo Municipio, ma è un termine che si presta bene a definire l’approccio con cui la Carta affronta il tema della partecipazione. L’ empowerment è un concetto che compare negli studi di sociologia e politologia sin dagli anni ’60 e che entra a far parte della letteratura relativa alle teorie della democrazia e dei movimenti per i diritti civili, delle donne e delle minoranze. Si connota come “processo” e “prodotto”, risultato cioè di “un'evoluzione di esperienze di apprendimento che portano un soggetto a superare una condizione di impotenza” (Pieroni, 2005). Un “saper fare” e “saper essere” caratterizzati da una condizione di fiducia in sé, capacità di sperimentare, di confrontarsi attivamente con la realtà circostante. Le azioni e gli interventi centrati sull'empowerment mirano quindi a “rafforzare il potere di scelta degli individui e dei gruppi, migliorandone le competenze e le conoscenze in un’ottica di emancipazione politica” (ib). E’ non a caso il primo dei principi messi in campo dagli autori della Carta, nella quale si legge che il Nuovo Municipio “si realizza attraverso l’attivazione di nuovi istituti di decisione che affiancano gli istituti di democrazia delegata, allargati al maggior numero di attori rappresentativi di un contesto sociale ed economico, per la promozione statutaria di disegni di futuro localmente condivisi”. L’orizzonte strategico del Nuovo Municipio mette al primo posto la partecipazione, che nella prospettiva disegnata dalla Carta si lega al tema della “democratizzazione della democrazia”, prima che a quello del “miglioramento delle prestazioni” o della “messa in trasparenza” di apparati amministrativi, come pure è osservabile (Allegretti, 2005) in diverse esperienze concrete di attuazione del politiche partecipative in Europa (ib). Una prospettiva che nasce da una consapevolezza esplicitata da chi ha 19 scritto la Carta, secondo cui “non si può governare in generale senza implicare nei processi decisionali il soggetto sociale che è all’origine della legittimazione democratica” (Ferraresi, 2003). Partecipazione che non ha solo valore in sé nella promozione di “scenari di futuro”, ma è anche elemento di resistenza e di apertura: essa “permette da un lato di resistere agli effetti omologanti e di dominio della globalizzazione economica e politica, dall’altro di aprirsi e promuovere reti non gerarchiche e solidali”. Una prospettiva che nelle intenzioni di chi ha aderito alla Carta vuole contrastare “il nuovo paradigma globale del dominio della finanza e dei mercati sull’uomo” (Ummarino, 2005), e rispondere alla “umiliazione dei processi democratici di ogni ordine e grado” (Smeriglio, 2005). 1.3.2 Autosostenibilità e riduzione dell’impronta ecologica. La Carta non affronta la partecipazione come issue procedurale ma la inserisce in una prospettiva strategica generale. In questo quadro al tema della partecipazione si affianca l’altro elemento portante nella proposta neomunicipalista: la costruzione di “nuovi sistemi economici locali autosostenibili”. Uno scenario nel quale il Nuovo Municipio “deve guidare lo sviluppo economico autocentrato, aiutando attori deboli ad emergere, decidendo cosa, come, quanto, dove produrre per creare valore aggiunto territoriale, favorendo la crescita delle autonomie della società locale come soggetto collettivo e complesso”. Il caso delle Agende 21 locali7 come pratica centrale per il nuovo municipio sembra essere esemplificativo a questo riguardo. 7 Il Documento Agenda 21, approvato a Rio de Janeiro nel 1992 a conclusione dell’Earth Summit e sottoscritto da oltre 170 nazioni, è un ampio catalogo delle politiche-azioni da mettere in atto in tutti i paesi per avviarsi sulla strada di uno Sviluppo Sostenibile. L'Agenda 21, proprio in considerazione delle peculiarità di ogni singola realtà, invita le autorità locali di tutto il mondo a dotarsi di una propria Agenda: 20 L’autosostenibilità è uno dei concetti cardine alla base della cultura del nuovo municipalismo. E’ una teorizzazione che si deve in primo luogo alla scuola territorialista italiana, che si è in seguito andata arricchendo dei contributi dell’ecologismo radicale e della critica allo sviluppo, dalla teoria della decrescita di Latouche alla scuola antiutilitarista nelle scienze sociali8. Il principio alla base di un nuovo sistema economico locale è la “sostenibilità dell’impronta ecologica, con particolare riferimento alla chiusura tendenziale dei cicli delle acque, dei rifiuti, dell’alimentazione, dell’agricoltura; alla riduzione della mobilità e alla diffusione dei servizi rari; al grado di autonomia del sistema territoriale locale nella produzione” (Carta). Quello che si propone è dunque un sistema economico che privilegi i cicli corti. Dunque sviluppare economie e filiere produttive legate al territorio e alle sue peculiarità, che consenta di ridurre la mobilità delle merci (e di conseguenza l’impronta ecologica) e al contempo di spostare la concorrenza dal costo (e diritti) del lavoro alla peculiarità del luogo e delle sue capacità produttive. L’obiettivo dichiarato è quello di perseguire modelli di sostenibilità non solo ambientale, ma anche sociale, impegnando il nuovo municipio a “tutelare i diritti dei lavoratori del proprio territorio, promuovere una politica "Ogni autorità locale, dovrebbe dialogare con i cittadini, le organizzazioni locali e le imprese private ed adottare una propria Agenda 21 locale. Attraverso la consultazione e la costruzione del consenso, le autorità locali dovrebbero apprendere ed acquisire dalla comunità locale e dal settore industriale, le informazioni necessarie per formulare le migliori strategie." (Agenda 21, Cap. 28, 1992). 8 Il Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali (MAUSS) nasce a Parigi nel 1981. Ne fanno parte numerosi intellettuali di spicco francesi, ma non solo, tra cui Alain Caillé, Gérald Berthoud, Serge Latouche, Jacques Godbout, Jean-Luc Boilleau. Caillé in particolare è l'animatore del movimento, il direttore della rivista La revue de Mauss e autore del manifesto dell'antiutilitarismo "Critica della ragione utilitaria". Il nome del movimento rappresenta anche un chiaro riferimento all'antropologo Marcel Mauss, il cui saggio sul dono come "fenomeno sociale totale" costituisce un punto di riferimento cruciale, mettendo al centro della teoria del valore il concetto di “dono” e di “relazione” prima dell’”utile” nel senso dato al termine dall’economia classica. 21 tesa a favorire la piena occupazione, la stabilità del posto di lavoro, il rispetto delle norme contrattuali e di sicurezza del lavoro, e a favorire lo sviluppo delle imprese a finalità sociale ed etica” (Rete del Nuovo Municipio, Carta di intenti). Contemporaneamente alla riduzione della mobilità delle merci si persegue l’obiettivo di “massimizzare la circolazione delle informazioni e delle conoscenze” (Allegretti, 2005). Questo processo è sostenuto in quanto “aumenta la capacità di resistenza e di liberazione dalle reti lunghe della globalizzazione economica e di attivazione di scambi e reti globali solidali e non gerarchiche” (ib): Economia locale e partecipazione sono due temi inscindibili nella definizione di un Nuovo Municipio: l’obiettivo è provocare un “cortocircuito” tra “pratiche partecipative, commercio giusto e la pluralità delle forme dell’altra economia”, che comporti la “valorizzazione delle potenzialità di una comunità ponendo la priorità sulla cura e il benessere della persona e del contesto ambientale” (Smeriglio, 2005). 1.3.3 Nuovi indicatori di sviluppo: dal PIL al benessere al ben vivere. A partire dalla critica dello sviluppo e dalle teorie della “decrescita” la Carta del nuovo municipio propone un “drastico ridimensionamento del Pil9 come unico indicatore di benessere”. I nuovi indicatori delineati anche nell’orizzonte neomunicipalista prendono in considerazione fattori diversi dalla produzione quali la “qualità urbana, ambientale, sicurezza, spazi pubblici, inclusione, riconoscimento multiculturale, partecipazione”. Il Pil è criticato in quanto “incapace di valutare la distribuzione della ricchezza prodotta, che cresce a ogni aumento di movimentazione del denaro, anche se esso è dovuto alla crescita di catastrofi ecologiche, guerre e malattie”. 9 Il Prodotto Interno Lordo (PIL) è il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all'interno di un paese in un certo intervallo di tempo (solitamente l'anno). E' considerato la misura della ricchezza prodotta in un Paese. 22 (Allegretti, 2004). Altro limite individuato nell’indicatore è quello di “non considerare il valore dell’economia non mercantile e i beni non monetizzabili, come le risorse naturali-ambientali e il patrimonio culturale” (ib). La critica al Pil presuppone l’insostenibilità ecologica e sociale del modello di sviluppo neoliberista: “Se si assume come indice dell'impatto ambientale del nostro stile di vita l'"impronta" ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista dell'equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera” (Latouche, 2003). La Carta del Nuovo Municipio dunque fa tesoro delle differenti elaborazioni della scuola territorialista e dei teorici antiutilitaristi, uniti nel ritenere che “In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. È dunque urgente pensare a una società della "decrescita", se possibile serena e conviviale” (Latouche, 2005). L’obiettivo è quello, secondo Marcon e Messina (2005) di “ridurre il Pil e riconvertire l’economia verso produzioni e servizi dolci, sobri, compatibili con una dimensione umana non strangolata dalla tirannia dell’utile che non va cancellato, ma piegato ad una dimensione sociale, di giustizia e di incentivo all’economia reale”. Gli indici proposti in alternativa al Pil sono molteplici e già sperimentati: l’Human Development Index10, L’Ecological Footprint11, l’Index of Sustainable Economic Welfare12, ma molti altri se ne potrebbero citare. 10 L’HDI (Human Development Index) elaborato dall’UNDP, è un indicatore nel quale si tiene conto della Speranza di vita alla nascita; del Tasso di alfabetizzazione, come percentuale della popolazione adulta che sa leggere e scrivere; del Tasso di istruzione, cioè del livello di studio; del PIL reale pro-capite, calcolato dalle Nazioni Unite col metodo della «parità del potere d’acquisto», che valuta la produzione dei vari paesi usando i prezzi medi mondiali (informazioni tratte da da www.hdr.undp.org) 11 L’Impronta Ecologica (Ecological Footprint) valuta il carico antropico generato da un individuo, sulla base del proprio stile di vita, prendendo in considerazione il consumo di generi alimentari, di energia elettrica e combustibili, lo smaltimento dei rifiuti, degli scarti e delle emissioni, prodotte dai vari consumi e l’occupazione di territorio per l’allocazione di infrastrutture, impianti, abitazioni, etc (www.myfootprint.org). 23 La proposta di nuovi indicatori di sviluppo vuole avere un valore non solo in campo ambientale ma anche sociale. Tra i criteri di valutazione proposti dalla Carta compare infatti “il grado e la forma della partecipazione alle decisioni, rispetto all’obiettivo dell’empowerment delle società locali” (Carta). L’utilizzo di indicatori di sviluppo non monetari è infatti lo strumento per misurare parametri come l’inclusione sociale non contemplati nell’economia tradizionale. Questo “facilita la legittimazione e l’inserimento di soggetti sociali deboli, portatori di istanze insorgenti –bambini, anziani, migranti, disabili, giovani, famiglie ecc- nei tavoli di decisione, superando i tradizionali obiettivi dello sviluppo degli attori forti” (Magnaghi 2003). In questo quadro l’utilizzo di nuovi indicatori di sviluppo umano assume un valore strategico interno rilevante all’interno della proposta neomunicipalista. Gli indicatori non sono considerati solo strumento di misurazione degli output delle politiche ma parte delle politiche stesse, poiché i parametri scelti rappresentano già una scelta valoriale e sono quindi parte di un orizzonte strategico. Come vedremo infatti il concetto di “decrescita” non contempla solo una diminuzione di volume della produzione economica, ma la sua graduale sostituzione con forme di produzione e di economia alternativa: “decrescita delle economie distorsive e contemporanea crescita di forme alternative di economia: questo potrebbe valere un 20 per cento in meno del Pil” (Marcon e Messina, 2005). La curva discendente del PIL potrebbe compensata dalla considerazione di valoriradizionalmente economici: “l’inversione della curva delle nuove povertà si può attuare solo con l’internalizzazione negli indicatori della crescita della 12 Elaborato nel 1989 l'indice di benessere economico sostenibile (Index of Sustainable Economic Welfare, ISEW) oltre alla produttività economica misura anche prestazioni non monetarie e costi generati, come quelli ambientali. A tutt'oggi sono state calcolate curve ISEW per numerosi Paesi industrializzati quali la Francia, l'Italia, la Germania, i Paesi Bassi e gli Stati Uniti (informazioni tratte da da www.hdr.undp.org). 24 ricchezza la produzione di ambienti insediativi ad alta qualità territoriale” (Magnaghi 2000) Nella prospettiva neomunicipalista benessere e ben vivere sono quindi le misure di una “scelta politica per orientare investimenti e azioni al benessere degli abitanti”. Una scelta che orienta politiche poiché “retroagisce e trasforma gli obiettivi strategici, gli orizzonti di futuro e le forme della pianificazione sia a livello locale che di area vasta” (Magnaghi, 2000). 1.3.4 Autoriconoscimento del patrimonio territoriale locale Sistemi economici locali, pratiche partecipative, superamento dei tradizionali indicatori di sviluppo: si tratta di proposte che per il Nuovo Municipio non possono essere disgiunte dall’identità e dalle caratteristiche peculiari sociali, antropiche, territoriali, culturali del territorio: “il Nuovo Municipio assume una definizione estensiva di patrimonio che identifica con il territorio dei luoghi e delle genti, con i suoi caratteri e valori ambientali, paesistici, urbani, con i suoi saperi, culture, arti, nella sua integrale individualità che vive tra passato e futuro. La valorizzazione del patrimonio è possibile nell’incontro fra le energie del futuro e la memoria e i giacimenti dei luoghi” (Carta del Nuovo Municipio) Si propone un “patto condiviso di futuro” che sia basato su uno “statuto dei luoghi” che sia riconosciuto dal maggior numero possibile di attori sociali e richiede la condivisione della conoscenza dei valori del patrimonio locale. In questo contesto lo statuto assume valore centrale nel processo che viene indicato come “rifondazione delle città in quanto municipalità” (Magnaghi 2000). In questo quadro “esso è l’occasione per attivare nuovi istituti di democrazia che consentano di realizzare il suo auspicato carattere di patto costituzionale per lo sviluppo locale”(ibidem). 25 L’autoconsapevolezza del patrimonio territoriale è delineata come “autonomia cosciente e responsabile”, che rifiuti quella che è definita “eterodirezione” del mercato unico, e risponda all’effetto “omologante” della globalizzazione. Una proposta in cui sono riconoscibili i tratti della resistenza identitaria progettuale, così come teorizzata da Manuel Castells per definire i conflitti derivanti della tensione tra flussi globali e identità locali. L’analisi di Castells, precedente rispetto alla scrittura della Carta, individuava la progettualità delle resistenza proprio nell’intreccio di rivendicazioni identitarie e di valori universali di democrazia e cittadinanza. Il patrimonio territoriale di un luogo non può prescindere dalle differenze e dalla molteplicità di identità che ne sono componenti. Dell’identità culturale di un luogo sono componente centrale quelle componenti sociali che si considera siano escluse dai processi di democrazia rappresentativa e dalle dinamiche dell’economia globale. Partecipazione e democrazia diretta sono anche considerate strumento per “produrre politiche pubbliche più efficaci nei confronti di soggetti diversi, spesso coincidenti con soggetti deboli sottorappresentati nei luoghi della decisione” (Carta del Nuovo Municipio). L’autoriconoscimento del valore territoriale ha un valore tanto culturale quanto economico, nella prospettiva di un’economia in cui la produzione di beni differenziati e fortemente legati ai territori valorizzino la conoscenza/informazione dei beni piuttosto che la produttività in termini meramente quantitativi. La Carta del Nuovo Municipio delinea la figura di un produttore non più slegato dal luogo nel quale la produzione avviene, e che in quanto tale è definito “produttore-abitante” che “prende cura di un luogo attraverso la propria attività produttiva”, attraverso la crescita “del lavoro autonomo, della microimpresa, del volontariato, del lavoro sociale, delle imprese a finalità etica, solidale, ambientale” (Carta del Nuovo Municipio). 26 1.3.5 reti di relazione interlocale e di scambio solidale La Carta propone lo sviluppo di sistemi economici locali autogovernati in grado di essere concorrenziali con le “reti lunghe della globalizzazione economica”. Per questo propone l’attivazione di forme di relazione e di scambio internazionale non più articolate tra individui e imprese, ma tra sistemi locali. Il nuovo municipio si fa interprete di nuove relazioni di scambio di culture, di prodotti tipici, di saperi tecnici e politici, improntati al superamento della competizione economica selvaggia verso forme di cooperazione e di mutuo scambio solidale fra città del nord, fra sud e nord, fra sud e sud. (…) Le reti dello scambio equo e solidale costituiscono la trama minuta ma densa della strategia lillipuziana contro la globalizzazione economica.(Carta del Nuovo Municipio) Il progetto locale quindi propone come fondamento di una nuova globalizzazione dal basso la costruzione di “reti alternative (…) fondate sulla valorizzazione delle differenze e specificità locali, di cooperazione non gerarchica e non strumentale” (ib.). Una prospettiva che riflette la cultura pacifista condivisa e radicata nel movimento altermondialista e che intende contrapporsi a quello che è definito “il regno della paura, dell’insicurezza, e dell’impotenza prodotti dalla militarizzazione delle reti di governo globale” (ib.). Termini come “rete” e “cooperazione” sono ricorrenti nella Carta, a sottolineare esplicitamente la distanza del progetto neomunicipale da esperienze di “localismo chiuso e difensivo” (ib.), secondo dinamiche di chiusura identitaria (non progettuale) ben presenti alle scienze sociali (Castells 2002, Touraine 1993, Wiewiorka 2002). 27 Le politiche attraverso cui attivare reti non gerarchiche e solidali sono molteplici, ma mettono al centro un rovesciamento dell’approccio dominante nella politica globale, basate prevalentemente su processi di policy transfer la cui direzione va da Nord a Sud (Allegretti, 2005). Della critica al concetto dominante di sviluppo consegue anche il rifiuto della polarizzazione dell’economia globale tra “paesi sviluppati” e “paesi in via di sviluppo”. Lungi quindi dal voler esportare un proprio modello di sviluppo il nuovo municipio definito come “occidentale” esporta “la consapevolezza della crisi del proprio modello industrialista e sviluppista”, proponendo al contempo “”germi delle alternative sperimentali a questa crisi”. Da parte sua il municipio del Sud del mondo, definito come “in via di non sviluppo”, può proporre “gli insegnamenti della autorganizzazione della sopravvivenza allo sviluppo stesso”. Nell’ambito della governance globale quindi il progetto locale attribuisce alle città un ruolo strategico nel delineare un modello di globalizzazione dal basso contrapposto al modello dominante, di stampo neoliberista e orientato al mercato. La città globale non solo diviene nodo di reti di flussi informativi, o capitale di poteri economici e finanziari transnazionali ma, nella sua dimensione territoriale “rifondata”, assume nella complessità delle sue componenti un ruolo di attore di primo piano nell’arena politica globale. Come si è osservato attori del progetto locale sono una pluralità di soggetti che nel loro complesso sono definiti “società locale”. Ogni componente viene considerata decisiva nella definizione dell’identità locale, e dunque in diritto di essere partecipe della costruzione di uno “scenario di futuro condiviso”. Le politiche proposte dalla Carta a loro volta sono caratterizzate da un livello molto elevato di intersettorialità: la scelta di individuare cinque principi di base nell’ambito dei quali inserire le diverse pratiche risponde a esigenze di schematizzazione. Ma resta evidente come ognuna di esse sia riconducibile 28 a più di un principio, e come la loro formulazione sia riconducibile all’obiettivo di “produrre trasformazioni del sistema socioeconomico locale”. Alla base del progetto locale sta un “patto strategico” tra amministrazioni locali, le cosiddette “soggettività insorgenti” (bambini, anziani, migranti, disabili, minoranze in genere), e la società civile (Magnaghi, 2003). Un concetto, quest’ultimo, utilizzato nel senso più ampio del termine, comprendendo in esso tutti gli attori non istituzionali, dai movimenti sociali agli attori economici del territorio. Resta però da osservare come nella prospettiva neomunicipalista l’amministrazione locale non sia che una componente, e neppure la più importante, di quella “società locale complessa” chiamata a definire il progetto locale. Il progetto del nuovo municipio non è variabile dipendente della disponibilità delle istituzioni del territorio a produrre politiche ispirate al modello definito dalla Carta. Qualora questo non avvenga si fa appello al “tessuto di iniziative dal basso, di cantieri sociali di trasformazione esistente in molti territori” (Carta d’Intenti) allo scopo di dare vita a “una sorta di Contro Municipio organizzato dal basso che viene messo all’opera da parte di associazioni, soggetti sociali, comitati, comunità di base” (ib.) La Carta del Nuovo Municipio è un documento complesso, nella cui struttura confluiscono differenti proposte relative a pratiche economiche e politiche, ma soprattutto una molteplicità di culture politiche la cui pluralità riflette quella riscontrabile anche nel movimento altermondialista in cui esse sono “tanto differenziate quanto le identità degli attori che ne fanno parte” (d’Albergo 2006). Se dunque il movimento altermondialista, e nello specifico quello che si è espresso nei Forum Sociali Mondiali è stato rappresentato come “relazione 29 tra differenze” (Ferraresi 2002) la Carta riflette appieno questa rappresentazione. A partire da questa evidenza, e dalla rassegna delle proposte contenute nella Carta del Nuovo Municipio, si intendono ricercare le premesse di esse nelle differenziate culture politiche che compongono il movimento altermondialista e nelle culture dei movimenti sociali che lo hanno preceduto. 30