Dalla parte dell’ Uomo Rivista Trimestrale gennaio 2013 n° 7 Direttore: Paolo Cardoso Direttore responsabile: Maurizio Gori Comitato di Redazione: Paolo Cardoso Maurizio Gori Lucia Mattesini Presentazione Paolo Cardoso, Presidente Associazione Erich Fromm Questo numero raccoglie alcuni articoli di soci e non della nostra associazione, non di natura strettamente tecnica. Lo spirito della nostra Associazione è quello di promuovere la salute psicologica, ma anche di dare spazi per presentare le proprio esperienze ed il proprio pensiero. I prossimi numeri della rivista conterranno gli atti dei nostri futuri convegni. I relativi programmi sono inclusi in questa rivista. Vi prego di consultare anche la nostra pagina su Facebook: Erich Fromm Firenze. Grazie ed aspetto, da parte dei lettori, dei contributi da inserire nei prossimi numeri. Molto gradite anche le recensioni di libri che avete trovato interessanti. 2 Indice Presentazione p. 2 Paolo Cardoso, Presidente Erich Fromm Firenze Assertività per esprimere se stessi, rimanendo se stessi nell’incontro con gli altri p. 4 Erich Fromm Stress e malattia oncologica: un intervento integrato p. 35 Francesca Bernardini Relazione tra attaccamento e comportamento aggressivo nell’età dello sviluppo p. 51 Isacco Cannas Dipendenza da cibo, disturbi dell’alimentazione e obesità: una review della letteratura internazionale p. 62 Eleonora Sirsi Il fenomeno della de-umanizzazione p. 80 Claudia Spolverini Storia di Gianna p. 92 Alessandra Turchetti La cura Schopenhauer di Irvin D. Yalom e S. Prina p. 95 Recensione di Elisa Selmi Una piccola riflessione su Tanizaki, Casanova e la vita p. 96 Paolo Cardoso Programmi dei prossimi convegni della Fondazione 3 p. 98 ASSERTIVITA’ PER ESPRIMERE SE STESSI, RIMANENDO SE STESSI NELL’INCONTRO CON GLI ALTRI di Erich Fromm 1. Introduzione Il concetto di assertività presuppone la capacità dell’individuo di esprimere i propri punti di vista, opinioni ed emozioni, facendo valere i propri diritti nel rispetto dei diritti altrui. La franchezza e l’onesta con cui è possibile esprimere se stessi può incontrarsi con l’empatia verso l’interlocutore, tenendo in debita considerazione i diritti, i sentimenti e le opinioni di quest’ultimo. Assertività, infatti, significa sostenere la propria integrità e dignità e allo stesso tempo incoraggiare ed accettare questo comportamento negli altri La parola deriva dal latino ad serere, significa «asserire» o anche affermare se stessi. Sanavio (1998) descrive l’assertività come la capacità di far valere i propri diritti rispettando quelli degli altri, attraverso una comunicazione chiara, diretta e al tempo stesso, coerente e completa sul piano verbale e non verbale. L’assertività è la capacità che un individuo ha di utilizzare in ogni situazione di relazione i comportamenti e le modalità di comunicazione più idonee ad instaurare reazioni positive nell’interlocutore riducendo la possibilità di generarne di negative. La comunicazione assertiva costituisce un metodo di interazione che si attua attraverso i seguenti comportamenti: 4 un comportamento partecipe attivo e non in contrapposizione con l’altro; un atteggiamento responsabile, caratterizzato da piena fiducia in sé e negli altri; un comportamento completo che manifesta pienamente il proprio sé, funzionale all’affermazione dei propri diritti senza negare i diritti e l’identità dell’altro; un atteggiamento che non giudica e avulso da critiche non costruttive verso l’altro ovvero senza pregiudizi; la capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara e diretta e onesta senza manifestare aggressività o essere minacciosi verso l’altro. Tentando di ricondurre i concetti principali direttamente riferibili all’assertività, sebbene possano essere presenti lievi differenze tra i diversi studiosi, si ritiene che gli elementi costituitivi dell’assertività siano: - sviluppare autostima e sicurezza nelle proprie idee, riconoscendo e difendendo diritti, dunque possibilità di rifiutare richieste soggettivamente considerate come irragionevoli o esprimere il proprio disaccordo; - iniziare, continuare e portare a termine le interazioni sociali, percependo queste ultime come occasione per esprimere se stessi, di conseguenza tali interazioni sono caratterizzate dalla percezione del sentirsi a proprio agio (assertività sociale); - esprimere i sentimenti, riuscendo a comunicare i propri sentimenti quando questi sono “positivi” e quando sono negativi (assertività positiva/negativa); - risolvere problemi e soddisfare bisogni personali come il chiedere favori, avanzare richieste (assertività di iniziativa); 5 - resistere attivamente a pressioni e influenze individuali o di gruppo nella direzione del conformismo, dando voce alle proprie credenze e opinioni. I capisaldi del comportamento assertivo sono impliciti nei diritti di ciascun essere umano che vengono di seguito riportati: 1. Essere trattato con rispetto, poiché ognuno ha il diritto di gestire la propria vita come desidera e di perseguire i propri scopi ed obiettivi, senza però danneggiare gli altri. Inoltre ognuno ha il diritto di essere trattato dagli altri con gentilezza e cortesia, a prescindere dalla propria posizione sociale; il rispetto e la dignità sono i prerequisiti di una società civile 2. Esprimere le proprie opinioni ed i propri sentimenti, dato che ciascuno di noi ha il diritto di esprimere se stesso; il proprio punto di vista circa una situazione e i sentimenti che ne scaturiscono sono validi tanto quanto quelli degli altri. Se si nascondono le proprie opinioni ed i propri sentimenti, gli altri non avranno la possibilità di conoscerci o di capirci. In tal modo ci verrà negato il valore e la bellezza dell'amicizia vera. 3. Fissare i propri scopi ed i propri obiettivi, dal momento che tutti hanno il diritto di perseguire i propri scopi. Ciascuno ha il diritto di perseguire le priorità che ritiene essere più consone a se stesso, altrimenti si può avere la percezione di vivere la vita di altri. 4. Rifiutare una richiesta o dire di no, poiché ognuno ha il diritto di rifiutare. 5. Chiedere ciò che si desidera, dal momento che ognuno ha il diritto di esprimere i propri bisogni. Ciascuno ha delle necessità e desideri ed è utile esprimerli nelle relazioni. 6. Commettere degli errori; sbagli ed errori sono elementi essenziali dell'apprendimento. 6 7. Essere i giudici del proprio comportamento, indipendentemente dalla benevolenza degli altri , infatti ognuno ha il diritto di giudicare se stesso. Si può giudicare il proprio comportamento, senza avere bisogno dell'approvazione o delle critiche altrui. 8. Cambiare la propria opinione, dato che il cambiamento può essere associabile alla crescita ed allo sviluppo personale. 9. Decidere se far valere o meno i propri diritti, in conformità al diritto di scelta. 10. Decidere se dare spiegazioni e scuse per il tuo comportamen to. In ogni situazione le persone coinvolte hanno diritti particolari e correlati al contesto e alla cultura di appartenenza. Esistono, però, dei principi qualificabili come diritti inviolabili della persona che proprio in quanto tali, sono comuni a tutte le situazioni di relazione e non possono essere dimenticati. 2. Siamo sempre assertivi? L’assertività non è una caratteristica assoluta e costante di un individuo; può cambiare nel tempo ed è in stretta relazione ai pensieri che una determinata situazione sollecita all’intensità dell’emozione provata dalla persona in un determinato momento. ;La probabilità che si realizza un comportamento assertivo è inversamente proporzionale alla carica emotiva esperita: la difficoltà esperita nell’esprimere un messaggio assertivo crescerà al crescere dell’intensità emotiva. In seguito verranno analizzati gli elementi che possono influire nell’accrescimento dell’intensità emotiva: gli errori del pensiero ed il relativo comportamento anassertivo, poiché entrambi trasmettono feedback negativi alla persona, nel breve e nel lungo termine, autosvalutandola. I requisiti necessari per un comportamento assertivo sono: 7 livello di autostima e immagine di sé; capacità comunicative nelle relazioni interpersonali; libertà espressiva; umiltà; capacità di dare risposta alle richieste e alle critiche; capacità di gestire i conflitti; abilità di dare e di ricevere apprezzamenti. L’autostima è il propellente necessario per sviluppare una buona condotta assertiva; il volersi bene, il pensare di valere, essere sicuri delle proprie scelte e azioni, infine assumersi delle responsabilità ci permette di essere soddisfatti di noi stessi; se siamo soddisfatti ci relazioneremo in maniera adeguata con gli altri, mentre il pensare di non valer nulla impedisce un positivo dialogo interiore, finendo per sviluppare con gli altri, comportamenti e modi di comunicare o passivi o aggressivi (Milena Pedrotti, 2008). Le cause a cui si possono addurre le condotte anassertive possono essere molteplici, di seguito ne vengono elencate alcune: apprendimento di comportamenti errati in ambito familiare per imitazione; educazione rigida; scarsa indipendenza; bassa autostima; esperienze della vita vissute dalla persona come particolarmente negative; presenza di un abbassamento del tono dell’umore, depressione, o di una problematica riconducibile al versante ansioso Non vi è un rapporto deterministico tra i fattori sopracitati e la presenza di una condotta anassertiva. Tali elementi possono rappresentare, infatti, dei fattori di vulnerabilità che potrebbero comportare la presenza di pensieri 8 non realistici o negativi, alla cui base si pone lo stile comunicativo assertivo (figura 1. Concettualizzazione Assertività) 9 Figura 1. Concettualizzazione Assertività Educazione rigida Comportamenti familiari errati Scarsa indipendenza MODALITA’ PENSIERO Buona Autostima Esperienze negative Scarsa Autostima PENSIERO REALISTICO PENSIERO NON REALISTICO (basato su informazioni e dati reali) (vedi “errori del pensiero”) TECNICHE ANASSERTIVITA’ ASSERTIVITA’ La modalità con cui rispondiamo agli stimoli ambientali dipende dal pensiero che una determinata circostanza ci suscita. Scoprire che non esiste 10 un’unica modalità con cui interpretare un evento è già un primo passo verso la crescita in una direzione assertiva. Molto spesso, infatti, quando le nostre emozioni negative raggiungono un’elevata intensità emotiva ciò può dipendere dalla difficoltà incontrata nel cercare spiegazioni o soluzioni alternative. Ciò implica che sarebbe opportuno compiere uno sforzo nell’ascolto di sé e delle proprie connotazioni emotive, evitando che queste “alzino la voce”, ossia aumentino di intensità, per essere ascoltate! A causa di tutte le variabili circostanziali e momentanee, non è possibile parlare di “personalità assertiva”, ma di “comportamento o condotta assertiva”. L’assertività, infatti, è per chiunque una conquista, realizzabile mediante un ascolto attento di se stessi e degli altri e dall’esercizio con cui si impiegano delle tecniche specifiche. 3. Ansia e comportamento anassertivo L’assertività può essere intesa come la capacità di elaborare risposte in grado di inibire lo sviluppo di stati d'ansia. Tali risposte dovranno essere socialmente adeguate, in grado ossia, di favorire o permettere l'inserimento positivo e gratificante del singolo nella collettività. Il training assertivo ha evidenziato la propria efficienza nella risoluzione di patologie accompagnate da sintomi manifesti di ansia interpersonale ed è finalizzato a far apprendere abilità sociali appropriate ed adottive. L'ansia è considerata come una naturale risposta a stimoli reali o non reali di minaccia. Le abitudini di risposte ansiose sono abitudini apprese. L'ansia è una risposta emozionale condizionata da un meccanismo di associazione ripetuta e rinforzata di stimoli incondizionati avversivi e stimoli neutri. In seguito alla loro assimilazione, il soggetto evocherà risposte ansiose anche in 11 presenza di un solo stimolo neutro. L'ansia condizionata può venire in seguito estesa a stimoli simili o ad altri stimoli non originariamente avversivi, ossia fonte di minaccia. Il livello di ansia può gradualmente diminuire mediante un’associazione tra lo stimolo sociale precedentemente ansiogeno ed una risposta incompatibile con esso. Il training assertivo permette, dunque, di elaborare risposte comportamentali in grado di inibire lo sviluppo di stati d’ansia legati alla sfera di relazione (Alberti, Dinetto, 1988). Una condotta anassertiva può comportare il coinvolgimento prolungato in relazioni conflittuali responsabili di picchi improvvisi di ormoni dello stress. Il riuscire ad instaurare e mantenere relazioni sociali emotivamente soddisfacenti abbassa il livello di cortisolo e stimola la funzionalità del sistema immunitario, persino quando quest’ultimo è sotto stress. 4. Continuum comportamentale Nelle dinamiche interattive, a scopo prettamente illustrativo, è possibile delineare due modalità comunicative in netto contrasto l’una con l’altra, ma entrambe anassertive: quella passiva e quella aggressiva. Sebbene le persone non siano mai sempre e solo aggressive, passive o assertive, ciascuno di noi protende verso un determinato stile relazionale o tende ad adottarlo in particolari circostanze esterne o interne. Lo stile comunicativo stesso può differenziarsi sulla base di alcune variabili insite nella situazione specifica o relative allo stato psico-fisiologico della persona in un determinato momento. Un esempio di ciò può essere costituito dal silenzio, il cui valore assertivo, aggressivo o passivo è strettamente vincolato alla situazione specifica. 12 E’ pertanto da sottolineare che per rendere più agevole la comprensione dei concetti verranno illustrate esclusivamente le modalità comunicative poste ai poli del continuum relazionale, nonostante vi siano molte sfumature comportamentali e la stessa persona può adottare stili comportamentali diversi in contesti situazionali o psico-fisiologici diversi. La stessa persona può essere, infatti, remissiva e passiva con i propri genitori, ma allo stesso tempo aggressiva con il patner o con i propri figli. I concetti a cui ci riferiamo, pertanto, si riferiscono a comportamenti e non a personalità ed essendo comportamenti possono essere appresi o modificati. Per comodità espositiva si parla di un continuum che va dal comportamento passivo al comportamento aggressivo e nell’area intermedia si situerebbe il comportamento assertivo (Tabella 1. Continuum comportamentale). PASSIVO ASSERTIVO - Tendenza ad evitare AGGRESSIVO - Espressione - Tendenza a ricercare il il conflitto, ragionevole e conflitto, prevaricando rinunciando ad rispettosa delle pensieri ed esprimere pensieri opinioni altrui ed emozioni - Disponibilità nel - Difficoltà nel emozioni - Pretesa che siano gli cercare un accordo altri ad adattarsi ai rifiutare richieste tra i propri pensieri, suoi tempi e bisogni altrui bisogni ed emozioni e - Sottomissione al quelli altrui volere altrui - Attacco diretto indiretto dell’interlocutore Tabella 1. Continuum comportamentale 13 o Ciò che distingue il comportamento assertivo dagli altri due anassertivi, quello passivo e quello aggressivo, è principalmente la considerazione che la persona ha dei bisogni altrui. Nel caso del comportamento passivo vengono anteposti i bisogni altrui ai propri bi, sottostando ad essi, mentre nel caso del comportamento aggressivo è presente un’indifferenza verso i bisogni altrui, a vantaggio dei propri. Mediante il comportamento assertivo è possibile tenere presente i bisogni altrui, non sottostando ad essi, ma accogliendoli e ricercando una mediazione con i propri. 4.1. Comportamento anassertivo passivo Una condotta passiva porta la persona ad arrendersi al volere altrui ed a reprimere i propri desideri, compiendo le proprie scelte comportamentali alla ricerca del compiacimento altrui. La risposta risulta essere inadeguata poiché generata da frustrazione, insicurezza, senso di colpa, ansia... Tale comportamento può essere mantenuto da un dialogo interno disfunzionale che incide sulla paura di irritare gli altri, sulla paura di essere rifiutati o sul sentirsi responsabili dei sentimenti altrui, fino ad ipotizzarsi responsabili delle sofferenze altrui per aver ferito l’interlocutore con le proprie parole, non aver ricambiato i sentimenti o aver disatteso le sue aspettative... pervenendo difficilmente alle cause della sofferenza nel comportamento altrui. Tutti i comportamenti vengono mantenuti da vantaggi, primari o secondari, altrimenti tendono ad estinguersi nel tempo se non soddisfano gli specifici bisogni della singola persona. Compito di ciascuno di noi è comprendere i nostri bisogni per poi creare un bagaglio comportamentale capace di permettere la scelta del comportamento più funzionale nella specifica 14 situazione. Di seguito vengono elencati alcuni vantaggi a breve termine responsabili del mantenimento del comportamento anassertivo passivo. L'immediato vantaggio è quello di eludere situazioni potenzialmente ansiogene ed acquistare l'approvazione e la lode come persona molto gradita. A breve termine è presente il sollievo per essere riusciti ad evitare una situazione percepita come difficile e per aver neutralizzato il senso di colpa che talvolta si associa all’esprimere un’opinione od uno stato emotivo diversi o potenzialmente diversi dall’interlocutore. Inoltre, attraverso tale comportamento a breve termine è possibile ottenere un “rinforzo sociale”, poiché la persona passiva appare come disponibile e rispettosa dell’altro, allo stesso tempo è autorinforzante, poiché si può avere la sensazione di essere venuti incontro o di aver fatto un piacere a qualcuno. A lungo termine, però, questo comportamento può comportare progressivamente la perdita della stima di sé e dell’autoefficacia, frutto della rinuncia prolungata a se stessi in favore dei bisogni altrui. Può, inoltre, comportare risentimento, frustrazione e rabbia verso desideri ed obiettivi non realizzati, irritazione, sensi di rabbia crescenti e percezione di repressione. In questi casi è difficilmente il soggetto è consapevole di quanto sia propria la responsabilità della percezione di repressione, potrà tendere a ricercarla altrove e/o possono insorgere varie patologie fisiche e/o di origine psicosomatica (cefalea, gastriti...) Il comportamento anassertivo passivo tende a comportare conseguenze anche sull’interlocutore che può non sentirsi stimolato da una conversazione in cui non vengono posti punti di vista alternativi o contrastanti, percependola come mancanza di partecipazione. L’interlocutore, inoltre, può sentirsi confuso dal mantenere una interazione con un soggetto che non esplica le proprie idee, opinioni e sentimenti o percepire sensi di colpa legati alla sensazioni di prevaricare l’altro. 15 4.2. Comportamento anassertivo aggressivo Il comportamento anassertivo di tipo aggressivo si realizza nel momento in cui la persona per raggiungere i propri obiettivi ed ottenere la propria gratificazione si afferma con violenza, minimizzando, calpestando o disconoscendo il valore altrui. E’ presente la difficoltà nel considerare punti di vista diversi dal proprio ed una percezione di non essere mai in errore. In tale caso i fallimenti vengono attribuiti all’esterno, quindi alle circostanze o agli altri, compare una svalutazione dell’altro, rigidità, inflessibilità rispetto alle sue posizioni, ed incapacità nel distingue le opinioni dalla realtà oggettiva. La risposta che ne determina risulta essere imprevedibile, espressiva, sproporzionata rispetto allo stimolo, inadeguata e causa di sensi di colpa, espressione di ostilità o rancore; tali emozioni si possono realizzare nell'invasione dello spazio vitale altrui, nell'umiliazione o nel disprezzo. Anche il comportamento anassertivo aggressivo viene mantenuto da vantaggi a breve ed a lungo termine. Uno tra i maggiori vantaggi a breve termine è caratterizzato dal soddisfare i propri bisogni in un breve arco di tempo, la persona può avere la percezione di controllo della situazione, di forza ed apprezzamento all’esterno. Anche nel caso del comportamento aggressivo nel breve termine attraverso tale comportamento viene ridotta l’ansia legata al timore di non riuscire ad ottenere il soddisfacimento ai propri bisogni, dando all’esterno l’immagine di forza. Un ulteriore fattore di mantenimento del comportamento è, infatti, costituito dal rinforzo sociale, dato alla percezione di apprezzamento perché capaci di ottenere quanto desiderato. A lungo termine si può verificare un progressivo isolamento sociale oppure i rapporti interpersonali che la persona intrattiene possono essere caratterizzati da inimicizie, rancore, sudditanza psicologica. Il soggetto può dunque percepire di non essere accettato, di essere in pericolo oppure di dover lottare contro gli altri per mantenere la propria supremazia. 16 Al comportamento aggressivo è direttamente riferibile stanchezza e stress poiché tale comportamento implica il costante monitoraggio delle azioni altrui e l’incessante lotta per imporre il proprio valore. Anche in questo caso si possono insorgere patologie fisiche e/o di origine psicosomatica (emicranie, ulcere, gastriti, abuso di sostanze tranquillanti, insonnia) 4.3. Il comportamento assertivo Il comportamento assertivo è tipico della persona che rispetta i diritti propri e quelli altrui, non permette agli altri di essere aggressivi, non li subisce, non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri, decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono, ha stima di sé e dell’altro, sa esprimere le proprie opinioni e le proprie emozioni in modo funzionale, raggiunge i suoi obiettivi, sa che cosa vuole e lo persegue senza calpestare gli altri. I vantaggi a breve termine, che permettono il mantenimento del comportamento assertivo possono essere riconducibili alla soddisfazione della necessità umana di esprimere i propri bisogni, desideri e pensieri e di avere un ruolo costruttivo nella relazione sociale. La disponibilità nel gestire in modo produttivo le eventuali divergenze costituirà un vantaggio condiviso per il soggetto e per il suo interlocutore, a breve ed a lungo termine. A lungo termine la coerenza con se stessi permetterà una serenità nella relazione con il sé e la chiarezza nei confronti degli altri permetterà la costruzione di rapporti interpersonali veritieri. Sarà, inoltre, possibile aumentare il senso di autoefficacia per aver raggiunto gli obiettivi desiderati ed una maggiore tolleranza alla frustrazione legata alla sconfitta o all’interloquire con persone aventi punti di vista differenti dal proprio 17 5. Errori del pensiero Il comportamento comunicativo, assertivo o anassertivo, dipende dalle inferenze, ossia dalle ipotesi relative alla presenza o assenza di condizioni fattuali (cosa sta succedendo, è successo, o succederà). Alcuni errori cognitivi tipici sono le “distorsioni cognitive” (Johnson Laird, 1993; Girotto, 1994). responsabili delle modalità con cui interpretiamo gli eventi e della relativa risposta emozionale. Tali errori del pensiero portano spesso ad un eccessivo pessimismo che è causa e conseguenza di uno scarso senso di autoefficacia, cioè di una scarsa convinzione nella propria capacità di affrontare e superare i problemi. In seguito verranno riportati i principali errori di ragionamento o modi di pensare controproducenti, che non permettono una valutazione realistica dei propri pregi e difetti: Pensiero dicotomico: le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento Ipergeneralizzazione: sopravvalutare la frequenza con cui si realizza un determinato evento es. “se prima ho sbagliato, sbaglierò sempre” oppure concludere che se qualcuno ha mostrato un atteggiamento negativo in una occasione il comportamento corrisponde alla persona, non considerando le altre situazioni in cui ha avuto atteggiamenti più opportuni Spesso tale errore del pensiero è preceduto da parole come sempre, mai, tutti, tutto, nessuno, niente, che determinano sopravvalutazioni irrealistiche della frequenza. Astrazione selettiva: Un solo aspetto di una situazione complessa è il focus dell’attenzione, e altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi. 18 Minimizzazione: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa vengono trascurate o squalificate, come se non fossero pertinenti o importanti Lettura del pensiero: interpretare, dando per scontato di sapere cosa un’altra persona pensa senza chiederlo a lei o ad altri, ad esempio convincendosi che una determinata persona ha una pessima concezione di noi, senza accertarsene Riferimento al destino: reagendo come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti già stabiliti. Ad esempio, mettere in atto il timore abbandonico come se ciò fosse già accaduto perché “destinati a rimanere da soli” Catastrofizzare: percepire gli eventi accaduti come intollerabili o aggravandone le conseguenze Spesso viene esagerata l’importanza degli errori ed insuccessi, ritenendo che non potrebbe andare peggio, che è terribile, insopportabile, irrimediabile. Ad esempio, disperarsi dopo un esame universitario, vivendola non soltanto come imbarazzante, ma come decisivo per la carriera universitaria. Giudicare in base alle emozioni, dando per scontato che le emozioni provate riflettano esattamente i fatti. “Mi sento giù, quindi le cose vanno sicuramente male”. Sarebbe meglio non decidere solamente sulla base delle emozioni, ma prestare attenzione a fatti e giudizi obiettivi. Personalizzazione: assumersi l'intera responsabilità per una disavventura o una difficoltà. I fatti accadono per una lunga serie di motivi, ma ci si prende interamente la responsabilità anche se la propria parte è irrisoria. Doverizzazioni: l’uso di “dovrei”, “devo”, “bisogna”, si deve”, segnala la presenza di un atteggiamento rigido e tendente alla confusione tra “pretendere” e “desiderare”, e ciò è in diretta connessione con regole personali. Ad esempio, il pensare che si debba essere ascoltati o che si debba sempre piacere alle persone... oppure “Devo mostrarmi sempre competente e adeguato in tutto quello che faccio”, “Devo avere chiare 19 manifestazioni di affetto e di approvazione da tutte le persone che ritengo importanti per me”.. Gli errori del pensiero precedentemente analizzati comportano una distorsione della realtà, ossia una difficoltà nel considerare oggettivamente quanto accaduto o il considerare le varie ipotesi sulla causalità di un determinato evento. Ciò facilita la considerazione del punto di vista altrui, amplia il bagaglio comportamentale utile alla soluzione di un problema e tende a far decrementare l’intensità della risposta emotiva quando le emozioni sono negative. L’identificazione degli errori del pensiero comporta che la persona possa creare affermazioni forti e positive su di sé, mettendo in evidenza le proprie risorse. 6. Comunicazione verbale e non verbale Qualsiasi persona, quando comunica, sia consapevolmente che inconsapevolmente, usa delle tecniche che sono caratteristiche del suo stile comportamentale (dominanza, sottomissione, eccetera) e che favoriscono il passaggio dell'interazione, ossia del messaggio dal punto di vista verbale. L'individuo attraverso la postura del corpo, l'espressione, il modo di gesticolare, l'intonazione e il volume della voce ecc... stabilisce relazioni con gli altri. Sebbene la comunicazione sia legata al contenuto del messaggio, ossia a “cosa” il mittente vorrebbe esprimere, essa riceve notevoli influenze dalle componenti non verbali del messaggio, che ne determinano il “come” l’emittente comunica. La modalità comunicativa, dunque è legata al contenuto del messaggio ma si declina in una serie di componenti rivelanti la qualità della relazione che 20 lega il mittente al destinatario, le emozioni connesse alla comunicazione ed alla dinamica relazionale, i meccanismi di pro cessazione delle informazioni ed attribuzione causale ecc... Anche la persona non assertiva mette in atto tecniche di comunicazione non verbale, che risultano però essere fonte di ansia in quanto non facilitano il fluire e il crescere dell'interazione o addirittura la alterano. L'esame di queste tecniche non verbali è utile per un nuovo apprendimento che promuove una migliore assertività. Di seguito verranno esaminati gli elementi di cui si compone la comunicazione, focalizzando l’attenzione sugli elementi distintivi del comportamento assertivo e di quello anassertivo, passivo ed aggressivo. 6.1. Comunicazione non verbale Le abilita non verbali manifestano la loro importanza come segni autonomi della comunicazione e fungono da supporto alla espressione verbale di cui sono un complemento. La prima risposta ad una situazione imbarazzante è generalmente non verbale: comuni sono il tremore della voce, l'agitazione disordinata delle mani e dei piedi, l'incapacità di espressione verbale ed alcune componenti di natura neurovegetativa quali il rossore e il pallore. Gli studi di Mehrabian (1972), un socio-linguista, dimostrarono come gli aspetti non verbali (i movimenti del corpo, la postura, la gestualità, le espressioni e le microespressioni facciali) e paraverbali (tono della voce, ritmo, velocità di parlata) della comunicazione hanno una grande importanza nel veicolare i messaggi. Secondo tali studi l’influenza esercitata dal linguaggio del corpo è pari al 55%, alla voce dell’emittente il 38%, mentre soltanto il 7% è rivolta al contenuto del messaggio. Ciò implica l’importanza del monitoraggio degli aspetti non verbali della comunicazione, in modo che questi possano essere coerenti con il contenuto del messaggio espresso mediante la comunicazione verbale. 21 1. Osservazione, poiché non siamo soltanto osservati, ma siamo anche osservatori, protagonisti di ciò che accade intorno a noi 2. Contatto visivo o oculare, ossia gli sguardi reciproci che due persone si scambiano durante un'interazione. L'importanza di questa abilità basilare è legata al suo essere un doppio canale nella comunicazione. Con lo sguardo si esprimono sentimenti ed emozioni e si colgono i sentimenti e le emozioni altrui. Tali informazioni costituiscono feedback che permettono la programmazione ed il riorientamento comportamentale. L'inabilità nell'esercizio del contatto oculare può esprimersi sia come carenza, cioè difficoltà di guardare gli altri, anche per un tempo limitato o come eccesso, cioè invasione dell'altro con uno sguardo troppo fisso e prolungato. 3. Mimica facciale comprende ogni variazione mimica, coerente con i sentimenti e le emozioni che si vogliono esprimere. Tecnicamente si manifesta con movimenti delle parti del viso: l'alzare o abbassare un sopracciglio, la contrazione delle pupille, il movimento delle guance, il piegarsi delle labbra. 4. La postura o posizione del corpo nello spazio conferisce importanti informazioni sulla qualità relazionale e sul bisogno dell’emittente di prevaricare l’altro o di rispettarlo, considerarlo... La postura, inoltre, permette l’espressione della compartecipazione emotiva o il disinteresse a quanto detto 5. Lo spazio corporeo è l'ambito spaziale dentro cui l'individuo si muove, interagendo. Costituiscono lo spazio corporeo l’orientamento assunto dal corpo e la distanza tra l’emittente ed il destinatario. L'uno e l'altro di questi elementi sono influenzati da condizionamenti sociali e culturali. 6. Nella comunicazione e nella relazione con gli altri la persona si manifesta entrando in contatto, anche corporeo, per esprimere una varietà di sentimenti ed emozioni: stringe la mano, abbraccia, pone la mano su una spalla, accarezza... La stretta di mano, per esempio, può 22 essere troppo molle o sfuggente, a punta di dita, con le dita rivolte verso il basso, troppo vigorosa, stritolante o prolungata oltre il sopportabile, come una prova di forza. 7. Il tono e l’inflessione della voce, ossia le varianti comunicative costituite dalla modulazione della voce, dell'accentuare delle sillabe, dal tono... influenzano la relazione, poiché nell’interazione verbale le modalità relative al “ come si dice” possono essere decisive sul contenuto del messaggio. Di seguito gli elementi della comunicazione non verbale, precedentemente illustrati, saranno riportanti in riferimento a comportamenti di tipo passivo, aggressivo ed assertivo (Tabella 2. Comunicazione non verbale anassertiva ed assertiva) CARATTER I-STICHE ANASSERTIVO PASSIVO Curva Accasciata Postura ASSERTIVO Piegata AGGRESSIVO ★ Eretta ★ Rilassata ★ Aperta Diretto verso il ★ Accogliente basso Sguardo ANASSERTIVO ★ Diretto Rigida Pugni serrati Denti stretti Diretto verso l’interlocutore Sfuggente all’interlocutor Provocatorio Contatto oculare e Fisso/vitreo sfuggente ★ Empatico 23 Povera, rigida, ★ Coinvolta poco espressiva Mimica facciale Inadeguata Esagerata Inadeguata ★ Interessata al ★ Sensibile contenuto al contenuto verbale ★ Comprensiva verbale Mascelle serrate Movimenti scarsi e poco espressivi Minaccioso Viso teso Limitata ★ Aperta Ripetitiva e ★ Mani che non superano monotona l'altezza dei Non correlata al gomiti significato della ★ Spalle diritte Sovrabbondanti Movimenti ampi e vistosi Accusatoria Tesa comunicazione Gestualità Incerta, ambigua Assenso accennato col capo Torcere le mani Gestualità smaniosa Rapidi e sommari Reclinata Spazio avanti sociale: posizione Distanza in ★ Spazio Invadente lo interpersonale spazio Dimessa in relazione al interpersonale Rigida grado dell’interlocutore Goffa intimità In fuga relazionale ★ Flessibile 24 di Ravvicinata in base ai feedback sociali Bassa Incerta Tremante Voce ★ Chiara ★ Rilassata ★ Amichevole ★ Ben calibrata ★ Non sforzata Alterata Concitata Con prevalenza di toni acuti Volume alto Tabella 2. Comunicazione non verbale anassertiva ed assertiva 6.2. Comunicazione verbale Le abilità di comunicazione sono quelle che ci consentono di iniziare, mantenere e terminare una conversazione, di saper porre domande, di dare delle informazioni generiche o personali a seconda delle esigenze della interrelazione verbale. 1. Domande chiuse, aperte e riflesse La domanda CHIUSA è una domanda che richiede una risposta brevissima, in genere un “ si” oppure un “ no”. Tali risposte possono permettere di instaurare una relazione iniziale con l’interlocutore, ma non consentono uno scorrere della conversazione, se non con ulteriori domande di tipo aperto oppure tramite affermazioni o autoaperture. Es. “Hai letto il libro di Giovanni?” “Si”. Un uso continuato ed insistente costringe alla ricerca affannosa di nuovi argomenti di conversazione e crea un'atmosfera da inquisizione e determina un rapporto di squilibrio nella trasmissione e nello scambio di informazioni. La domanda APERTA, al contrario, è strutturata in modo da ricavare una maggiore quantità di informazioni dall'altro. Esse hanno il vantaggio di 25 stimolare attivamente il destinatario a fornire più informazioni, dalle quali potranno essere tratti spunti utili a continuare il dialogo. Es. “Che cosa ne pensi del libro di Giovanni?”. Le domande aperte possono cominciare con chi, che cosa, quando, dove, come o perché ed elicitano spiegazioni piuttosto dettagliate da parte dell'individuo, forniscono l'opportunità di maggiori spunti per continuare la conversazione. Nella domanda RIFLESSA il soggetto può riconoscere all'interno dei segmenti finali dell'intervento altrui degli stimoli di aggancio intorno ai quali costruire un'informazione da rilanciare. Es. “Hai letto il libro di Giovanni? Anch’io. A me è piaciuto molto come ha trattato...”. 2. Libera informazione L’informazione o eccede la domanda o viene data senza essere stata sollecitata direttamente. Solitamente tale strategia comunicativa si basa sull’offrire informazioni di carattere pubblico o personale a cui l’interlocutore potrà riferirsi in un momento successivo, quando gli porremo la specifica domanda. Solitamente viene utilizzata per abbassare le difese dell’interlocutore, quindi solitamente gli argomenti trattati nella libera informazione saranno di pertinenza ai suoi interessi o non colludono con le sue ideologie. 3. Autoapertura E’ una informazione libera o sollecitata che noi diamo su noi stessi. Mette a proprio agio l'interlocutore e crea un ambito relazionale rilassato. Sarà cura dell’emittente decidere il livello di intimità a cui giungere mediante l’autoapertura 4. Cambio di argomento/porre fine alla conversazione La volontà di cambiare argomento oppure di concludere la conversazione dovranno essere espresse con chiarezza e decisione. In particolare la seconda non prevede il ricorso a false giustificazioni, ma una franca dichiarazione della propria intenzione di porre fine alla comunicazione. È un bene far 26 precedere il congedo da una affermazione rassicurante e gratificante circa l'incontro avuto. Es. “E’ un argomento molto interessante, ma al momento penso di....” oppure “Le dispiace se cambiamo argomento?” 5. Gestione del silenzio Tacere non è passività. Il silenzio è un momento in cui è possibile ascoltare l’altro, riorientare o riformulare le nostre strategie interattive o dare del tempo all’interlocutore per concettualizzare quanto espresso. Momenti di pausa o di silenzio possono essere vissuti in modo ansiogeno da chi vi legge il risultato della propria incapacità di relazione, anche se in realtà essi sono parte integrante del dialogo ed hanno una loro pregnanza e valenza semantica. 6. Gestione delle critiche Le critiche possono costituire dei feedback circa gli effetti del comportamento e possono rappresentare un input per il miglioramento personale e sociale, se sono percepite dal soggetto che le riceve come costruttive. Una risposta efficace alle critiche dipende dall’iniziale capacità di analizzarle e di accettarle, parzialmente o totalmente. I cambiamenti possibili sono quelli riferibili al comportamento o alle classi di comportamento: le critiche rivolte alla personalità o alle caratteristiche distintive della persona dovrebbero essere declinate nei singoli comportamenti per poter ipotizzare un cambiamento ed essere costruttive. La differenza tra le critiche manipolative e quelle costruttive è costituita dalla senso di imbarazzo, inadeguatezza, prevaricazione ed ansia generica che le prime creano appositamente nella persona che ne è vittima, mentre le critiche costruttive sono tese al miglioramento, al benessere dell’altro. Un primo esame dovrebbe essere focalizzato sulla eventualità di un reale cambiamento del comportamento e le relative conseguenze in termini di vantaggi/svantaggi rispetto al comportamento criticato. 27 Di seguito vengono riportate alcune delle caratteristiche distintive delle critiche manipolative: la critica viene rivolta alla persona nel suo insieme invece che ad un singolo comportamento: “ Sei un fallito” risvegliano idee negative o distorte che una persona ha di sé: “ Senza tuo padre non arriverai mai da nessuna parte” generalizzano in modo errato: “sei sempre troppo polemico” comprendono deduzioni arbitrarie: “lo hai fatto apposta a criticarmi davanti a tutti” al loro interno troviamo un uso improprio di avverbi quantitativi e qualitativi: “ Non mi ascolti mai” ostacolano e interrompono i tentativi di difesa “non mi interessa cosa pensi, non dovevi permetterti di dirlo!” ingigantiscono gli errori “per colpa tua stiamo fallendo” “se tu non avessi detto... noi saremo ancora felici insieme” Mentre la risposta alle critiche data da un comportamento anassertivo passivo è tesa alla ricerca della benevolenza altrui e spesso si manifesta con l’accettazione della critica o con la ricerca di cambiare se stessi per accondiscendere, la risposta aggressiva si declina con irascibilità o con una ricerca forsennata di spiegazioni; le persone con un atteggiamento assertivo cercano di trarre un vantaggio personale e relazionale dalle critiche. 6.1. Strategie di protezione o di difesa Di fronte a una critica che può essere di tipo manipolativi o costruttivo ci possono essere diversi modi di reagire. Il disagio si può vincere adottando comportamenti di fuga, adattamenti passivi o reazioni di attacco: questi comportamenti non sono validi a meno che non vengano scelti perché unica soluzione possibile. Per difenderci dalle critiche manipolative sono importanti alcuni passaggi: 28 1. riconoscere la critica come manipolativa; 2. comprendere quali possono essere le ragioni che spingono l’interlocutore ad esprimerla; 3. utilizzare le strategie di difesa più funzionali alla situazione Le tecniche proposte in seguito possono combinarsi insieme e permettono di mantenere il controllo della situazione. L'apprendimento di queste abilità verbali di protezione richiede allenamento graduale quotidiano, nel provare e riprovare, simulando di volta in volta le varie situazioni. 6.1.1. La persistenza È chiamata anche “ disco rotto” perché consiste nel ripetere in modo quasi coattivo ciò che si vuole, senza aggressioni o irritazioni, con tranquillità. È molto importante durante l’adozione di questa tecnica non cadere nella trappola logico manipolatoria, non concedendo agli altri spazi per raggiungere ciò che essi desiderano. È bene quindi non fare domande di tipo aperto, che iniziano ad esempio con “ perché?” o rispondere ai perché o alle colpevolizzazioni altrui, con scuse, giustificazioni o spiegazioni. 6.1.2. Annebbiamento Consiste nell'acconsentire in termini generali o di probabilità ad una parte della comunicazione dell'altro, senza però cambiare il proprio punto di vista o la propria decisione ed ha l’utilità di “annebbiare” la critica posta dalle risposte. Es: “Comprendo la tua irritazione e mi dispiace molto, ma io...”. Questa tecnica può essere utile nel diminuire il grado di ostilità dell’interlocutore ed ha lo scopo di permettere al soggetto di esporre le proprie motivazioni 6.1.3. L’asserzione negativa Talvolta l'unico modo per fronteggiare l’errore è proprio quello di ammetterlo senza ansia e senza diminuire la nostra immagine personale. La persona criticata, dunque, ammette l’errore e si dimostra disponibile verso un cambiamento. Spesso una soluzione molto elegante che risolve 29 facilmente il problema è quello di ammettere: “si è vero, avrei potuto stare attento in questa circostanza, avrei potuto fare meglio”. Confermando dignitosamente il nostro errore ed ammettendo la colpa possiamo dare dimostrazione del nostro dispiacere e della nostra non intenzionalità dell'accaduto, dichiarando il nostro impegno ad evitare il ripetersi dell'evento ed il desiderio di porvi rimedio. Es. “Sei uno stupido” “si, è vero, in questo caso non sono stato intelligente, avrei dovuto... la prossima volta lo farò” oppure “sbagli sempre” “nessuno è perfetto, imparerò!” 6.1.4. L’inchiesta negativa Consiste nel chiedere informazioni sulla critica. Se una persona pone una critica di tipo generico, costruttiva o manipolativa, è possibile chiedere delle informazioni più specifiche. Nel caso la critica sia costruttiva è possibile ottenere importanti indicazioni per migliorare il nostro comportamento, mentre se la critica è di tipo manipolativo potrà essere declinata in comportamenti specifici. Lo scopo è quello di eliminare la tonalità emotiva con cui le critiche vengono spesso condite per indicare con esattezza gli elementi su cui vi è in disaccordo. Es.: “Non sono per niente d’accordo su ciò che lei hai detto! Perché? Che cosa non vi è piaciuto? Quale parte avreste voluto fosse approfondita?”. 6.1.5. La discriminazione selettiva Permette di cogliere la parte del messaggio negativo su cui siamo disposti a discutere oppure a dare spiegazioni. Questa tecnica si basa sulla distinzione di singole parti all’interno di una domanda e della scelta di argomentare esclusivamente una di esse. Nelle tavole rotonde o nei dibattiti politici le persone sono molto esperte a cogliere soltanto quella parte della domanda sulla quale hanno dei dati, a cui possono rispondere 30 6.1.6. Il disarmo dell’aggressività Si sviluppa opponendo a una critica o ad un appunto negativo nei confronti del nostro comportamento un comportamento di estrema calma, condizionando la nostra partecipazione alla comunicazione a un decrescere dell'aggressività dell'altro. 6.1.7. Tecnica del fogging Dopo aver ascoltato attentamente ed oggettivamente la critica e gli elementi di cui si compone, evitando di attribuire false interpretazioni, è possibile rispecchiare ciò che è stato detto, mediante l’utilizzo di parafrasi o di una sintesi personale. Questa tecnica rivela la propria efficacia sia per chi è criticato, evitando il coinvolgimento personale e dandogli il tempo per comprendere meglio il messaggio, sia per l’interlocutore che è chiamato a chiarire la propria posizione. 6.2. Fare una critica E’ di fondamentale importanza denotare il singolo comportamento o la classe di comportamenti target, in modo che il soggetto criticato possa comprendere l’intento costruttivo e propositivo sottostante la critica. La probabilità della realizzazione dell’eventuale cambiamento dipenderà dalla capacità della critica di essere operazionale, dunque nella capacità di descrivere il comportamento con precisione nella frequenza, nella tipologia e nell’effetto che produce. Eventuali esempi potranno rendere più facilmente comprensibili gli elementi sottoposti a critica ed avranno l’effetto di normalizzare il comportamento, che verrà vissuto come tipico di più individui. Di fondamentale importanza sarà la congruenza tra la comunicazione verbale e non verbale durante l’espressione della critica e l’utilizzo di espressioni empatiche. 31 7. Conclusioni L’assertività è un approccio di pensiero che permette la valorizzazione di se stessi e di gestire in modo costruttivo le relazioni interpersonali. Può essere declinata nell’apprendimento di specifiche tecniche, alla cui base si pone una maggiore conoscenza di se stessi, dei propri diritti, dei propri pensieri e dei propri sentimenti. Sono state elencate una serie di modalità mediante le quali è possibile rendere più efficace la propria comunicazione, però per potenziare la propria assertività non basta apprendere meccanicamente tali tecniche. È necessario riflettere sui pensieri automatici che si attivano in noi e dai quali dipendono le nostre reazioni, emotive e comunicative. Sono stati elencate le principali classi di errori del pensiero, responsabili del nostro malessere emotivo e delle modalità comunicative anassertive con cui talvolta rispondiamo agli input sociali. “Non solo è importante conoscere le tecniche per migliorare l'assertività, ma occorre sviluppare nuove abitudini di comportamento e perfezionare l'educazione dei sentimenti e delle emozioni. Familiarizzarsi con il mondo dei sentimenti richiede, infatti, "un'educazione sentimentale". La struttura concettuale dell'assertività è l'ordine che ciascuno pone nella propria vita, quando con maggiore consapevolezza pensa a se stesso e interagisce con le altre persone. Questo modo di agire permette di stabilire un rapporto attivo e intelligente che si basa sulla valutazione corretta della situazione e sull'avere a disposizione i mezzi adeguati per poter scegliere la soluzione più appropriata.” (Domenico Di Lauro, 2011) Una comunicazione è realmente efficace se la persona è in contatto con i propri sentimenti, poiché affinché questi ultimi possano essere espressi è necessario individuarli e monitorarne l’intensità. La probabilità di una adeguata espressione dei propri sentimenti e dei propri pensieri sarà in relazione ad una intensità emotiva media. Quando il termometro emotivo 32 segnala un’elevazione troppo accentuata, dunque l’emozione è forte o medio forte, l’applicazione di tecniche specifiche sarà più difficoltosa. L’assertività è quindi un’ abilità in grado di soddisfare i propri bisogni emotivi, sociali, biologici e di proiettare all'esterno il proprio mondo interiore. Le risposte assertive permettono alla persona di esprimere i propri bisogni e sentimenti senza sviluppare ansia e lo mettono in grado di acquistare o ristabilire espressività emozionale appropriata (Wolpe, 1958). Bibliografia Alberti, L., Dinetto A. (1988) Manuale di addestramento affermativo, Buzzoni Anchisi R. & Gambotto Dessy, M. (1989). Manuale per il training assertivo. Immagine di sé e comunicazione efficace, Torino, Edizioni Libreria Cortina. Arrindell, W., Nota, L., Sanavio, E., Sica, C. & Soresi, S. (2004) SIB valutazione del comportamento interpersonale e assertivo, Trento, Erickson. Bauer, B., Bagnato, G. & Ventura, M. (2002) Assertività al femminile, puoi anche dire di no, Milano, Baldini Castaldi Dalai. Beck A.T. (1988) Principi di Terapia Cognitiva. Un approccio nuovo alla cura dei disturbi affettivi, Roma, Astrolabio Bellack, A.S., Mueser, T.K, Gingerich, S.& Agresta, J., a cura di Nicolò, G. (2003 ) Social Skills Training per il trattamento della schizofrenia. Torino, Centro Scientifico. Di Lauro O. (2011) Manuale di comunicazione assertiva, Milano, Xenia Edizioni D’Orlando, A. (2006) Intelligenza emotiva e respiro, Torino, Amrita. Fantini, A. (2005) (Anche) i genitori vanno a scuola, Varese, Monti. Girotto V. (1994) Il Ragionamento, Il Mulino, Bologna Johnson-Laird P.N. (1993) Deduzione, Induzione, Creatività, Bologna, Il Mulino Mehrabian (1972) Nonverbal communication, Aldine-Atherton Chicago, Illinois Pedrotti, M. (2008), L’assertività, Psicologi in formazione n°1, pp. 90-120 Sanavio, E (1998) Psicoterapia cognitiva e comportamentale, Carocci ed 33 Wolpe, J. (1958) Psychoterapy by reciprocal inhibition, Stanford University Press, Stanford, CA 34 STRESS E MALATTIA ONCOLOGICA: UN INTERVENTO INTEGRATO di Francesca Bernardini Psicologa e psicoterapeuta Il presente articolo descrive una ricerca effettuata presso il Centro Oncologico Fiorentino (Sesto Fiorentino – FI) sul tema dello stress legato alla malattia oncologica, proponendo i risultati di un intervento integrato, secondo il modello della Psicologia Funzionale. LA PSICOLOGIA FUNZIONALE La Psicologia Funzionale (o Funzionalismo Moderno) nasce con gli studi, le ricerche e le teorizzazioni del Prof. Luciano Rispoli nella Scuola di Napoli e nella Scuola Europea di Psicoterapia Funzionale, da lui fondate negli anni ’80. Si è sviluppato con l’intento di costruire una cornice teorica, che riuscisse a inquadrare in modo scientificamente corretto e nuovo i dati che emergevano dalla pratica clinica e i risultati delle ricerche che si stavano realizzando sui processi di terapia e sullo sviluppo evolutivo del bambino (Rispoli, 2010). Il pensiero Funzionale ha sistematizzato antiche e nuove conoscenze, costruendo una base per una teoria globale del Sé che guardasse all’insieme di tutti i processi Funzionali, con l’ipotesi di una loro presenza sin dall’inizio della vita e di una loro profonda integrazione originaria (Rispoli, 1993). Nel Funzionalismo moderno troviamo un vero e proprio salto epistemologico e scientifico: viene sostenuta la complessità della persona, superando i riduzionismi precedenti; vengono presi in considerazione tutti i fenomeni che la riguardano, tenendo conto della sua unitarietà e interezza, senza perdere, tuttavia, la possibilità di scendere nei dettagli ed arrivare a livelli di analisi molto precisi. Questo modello teorico, infatti, permette di osservare sia il macrofunzionamento che il microfunzionamento, superando 35 i concetti di ‘struttura’ e di ‘parti’ a favore di quelli di ‘organizzazione’ e di ‘Funzione’. L’individuo viene inteso come un’organizzazione integrata di diverse Funzioni in relazione reciproca ed in costante adattamento ed espansione verso l’ambiente (Rispoli, 2010). Il Funzionalismo moderno considera il Sé come organismo integrato. Il Sé non è costituito da parti contrapposte, ma è “.. un’organizzazione di Funzioni, tutte egualmente importanti, tutte circolarmente allo stesso livello. Nessuna è gerarchicamente più importante, nessuna gestisce tutte le altre in senso piramidale” (Rispoli, 2010, 28). Accanto all’idea di “Funzione”, il pensiero Funzionale introduce un altro importante concetto: le “Esperienze di Base del Sé” (EBS) o “funzionamenti di fondo”, che il bambino sperimenta nell’interazione complessa con l’ambiente e con le figure significative di riferimento. Ad esempio, la capacità di Contatto, di Amare, la Tenerezza, l’essere Tenuto, la capacità di modulare il Controllo, di Lasciare, la possibilità di sperimentare la propria Forza etc. La Psicologia Funzionale ha messo in evidenza circa 20 funzionamenti di fondo (Figura 1). Essi sono alla base della nostra esistenza e producono comportamenti, pensieri, emozioni, gesti e atteggiamenti specifici, nelle varie e differenti situazioni (Rispoli, 2010). Tenuti Essere tenuti: contenuti, fermati Essere Presi Condivisione Aprirsi: raccontare di sé Condividere: cointeressarsi, scambiare Essere Portati: guidati Alleanza: l’altro dalla propria parte Essere protetti Piacere all’altro: mostrarsi, migliorarsi per l’altro Considerati Vitalità Essere visti: ascoltati, capiti Gioia: guizzi, slancio Essere valorizzati: apprezzati Vitalità: attivarsi, energia, passione Lasciare Giocare: umorismo Lasciare: allentare muscolatura, Osare: andare oltre incantarsi 36 Fidarsi: affidarsi, fiducia Abbandonarsi all’altro Calma Calma: tranquillità Aspettare: pazienza Creatività Creatività (immaginazione) Gusto del bello Piacere Piacere: eccitazione, godersi le cose Stare:oziare Desiderare Controllo Piacere dell’altro: trarre piacere dall’altro Concentrarsi: attenzione Benessere: armonia, interezza, vagotonia Attenzione morbida Forza Allentare controllo: sciogliersi, Forza originaria: distaccarsi, perdersi farsi spazio Perdere controllo: buchi, Forza morbida esplosioni, crolli, trasgredire Sensazioni Forza calma: affrontare, fronteggiare, potenza Sensazioni: sentirsi, conoscersi Forza aperta: buttare via Percepire: percepire l’altro, la Aggressione realtà, percezione ampia o concentrata, esplorare Stupore: meraviglia, vedere il Aggressione affettuosa: giocosa noto nel non noto Contatto Aggressione: per difendersi, attaccare Contatto: vicinanza, fusione, Consistenza empatia Contatto ricettivo Presenza: visibilità, espandersi Essere nutriti: ricevere, assorbire Consistenza: sicurezza, avere peso, fierezza, valorizzarsi Chiedere: per ricevere, Affermazione richiamare Contatto attivo Assertività: affermazione delle proprie idee Prendere: sedurre, portarsi l’altro Determinazione: tenacia, andare in fondo Tenersi l’altro: pazienza Scegliere: decidere Cambiare l’altro: muovere, Autoaffermazione trasformare Dare: abbracciare, regalare Autoaffermazione 37 Amore Progettare: per concretizzare sogni Essere amati: portati dentro Realizzazione: soddisfazione Amare: portare dentro, darsi, Competere: voler vincere appartenere all’altro Continuità positiva: ricordi, Negatività aspettativa positiva Amarsi: dare a sé, piacersi, Rabbia autoconsolarsi, sistemarsi Tenerezza Odio: cattiveria Tenerezza: dolcezza, morbidezza Autonomia Cedere: accettare, tollerare Opporsi: rifiuto Necessità dell'altro: fragilità Separarsi: distacco Autonomia: star bene soli, non dipendenza Figura 1. Le Esperienze Basilari del Sé o Funzionamenti di fondo dell’individuo Le Esperienze di Base più consolidate nello sviluppo diventano capacità acquisite, solide. Per questo devono essere attraversate nell’infanzia più volte, in modo pieno, positivo e soddisfacente. Solo in questo modo costituiranno “..il serbatoio a cui possiamo attingere ogni qualvolta ne abbiamo bisogno” (Rispoli, 2004, 65). Al contrario, la non positività di un’Esperienza, la non pienezza, la carenza con cui viene vissuta, può condurre all’alterazione dell’EBS che diventa non più disponibile per la persona o inquinata da modalità che non sono caratteristiche di quella EBS. I funzionamenti di fondo (chiamati EBS in età evolutiva) sono soggetti ad alterazioni per tutto l’arco della vita. E’ evidente che, in età evolutiva, la non indipendenza produce una maggiore vulnerabilità. In sintesi, il pensiero Funzionale permette di leggere e di cogliere, al contempo, sia i particolari specifici di funzionamento sia l’organizzazione complessiva dell’organismo vivente, in un’ottica multidimensionale (Rispoli, 2010). 38 LO STRESS Il fenomeno dello stress è il più emblematico e significativo quando si vogliano comprendere i fattori molteplici che intervengono nella conservazione o nella perdita della salute, e ci permette di affrontare la complessità dell’unitarietà mente-corpo dell’individuo, senza però rimanere nel vago e nel generico. Esso è rappresentativo di un processo complesso che non può essere letto solo da alcune angolazioni, ma che necessariamente prevede una valutazione e un intervento multidimensionale (Rispoli, 1999). Tutte le ricerche sono concordi nel confermare il legame tra l’organismo cronicamente stressato e la malattia: lo stress permanente, cronico, negativo è in connessione a patologie quali il cancro, le cardiopatie, il diabete, il calo delle difese immunitarie etc. (Rispoli, 2004). Possiamo definire lo stress come un’attivazione momentanea e costruttiva utile a gestire l’impatto di un evento. Per questo motivo, lo stress non è da considerarsi necessariamente come una condizione patologica. Tuttavia può determinare malattie se sussistono alcune condizioni: l’attivazione dell’organismo può permanere indipendentemente dalla presenza dello stimolo se il Filtro del soggetto, su cui “impatta” l’evento stressante, è alterato, per cui l’individuo perde la capacità di disattivazione, di tornare alla calma. Lo stress dunque si cronicizza, e inizia un processo di logoramento dell’organismo. Le evidenze cliniche sul rapporto tra stress (dannoso, cronico) e cancro sono molte e le ricerche, in generale, hanno evidenziato come interventi di gestione e/o riduzione dello stress cronico conducano ad una maggiore sopravvivenza dei pazienti oncologici, ad una maggiore qualità della vita e ad una minore frequenza di recidive (Spiegel, 2002; Lutgendorf, et al., 2007; Andersen et al., 2008). LA VISIONE DELLA PSICOLOGIA FUNZIONALE Il contributo della Psicologia Funzionale sullo stress ha portato a definire in maniera più precisa il “circuito stress-benessere” e il ruolo del “Filtro 39 Funzionale percettivo” nella determinazione soggettiva delle risposte allo stress. Gli eventi stressanti producono un impatto su tutto l’organismo. Tra l’organismo e lo stressor si interpone il “Filtro Funzionale della percezione” (definito Funzionale perché costituito dall’insieme organizzato delle Funzioni attivate), un sistema di filtraggio degli stimoli esterni mediato da una “percezione” non solo cognitiva, ma globale e complessiva e, quindi, sensoriale, visiva, uditiva, emotiva etc. (Di Nuovo, Rispoli, 2011). Di fronte ad uno stimolo/evento stressante tutte le risorse della persona vengono messe in moto (da precisi meccanismi neuroendocrini e neurovegetativi) per attivarsi al massimo: si è allora concentrati, lucidi, pieni di energia, capaci di agire. Lo stress, dunque, è “..altamente benefico, stimola processi vitali e ci fa sentire bene” (Di Nuovo, Rispoli, 2011, 7), è temporaneo, e perciò può essere chiamato anche eustress. Una volta risolto il problema, è possibile ritornare ad una altrettanto piacevole condizione di allentamento neurofisiologico, emotivo, posturale, che permette di recuperare energie, per affrontare e gestire un altro momento difficile. Quando però l’attivazione permane, indipendentemente dalla presenza di ostacoli esterni, si realizza la condizione di stress cronico o distress: l’organismo non può reggere ad una attivazione costante e inizia a logorarsi, per cui i suoi funzionamenti biologici profondi vengono compromessi. La diagnosi di tumore rappresenta un evento stressante, per cui le Funzioni del Sé della persona si mobilizzano verso una direzione che permette di fronteggiare lo stato di allarme. Possiamo immaginare l’intero percorso di malattia come un alternarsi di reazioni di stress (rispetto ad uno stimolo reale di pericolo) e di allentamento, in cui la persona può tornare alla calma e trovare momenti di benessere. Il rischio è rappresentato proprio da una cronicizzazione della reazione di allarme da parte dell’organismo, a seguito di un’alterazione Funzionale permanente. Infatti, le caratteristiche del Filtro, che orientano l’esperienza in una direzione o nell’altra, risentono delle antiche esperienze del Sé, della storia della persona. Se il Filtro Funzionale della percezione non è eccessivamente alterato e se il contesto attorno al paziente oncologico è adeguato, l’evento 40 tumore produce uno stress temporaneo, con un’attivazione solo momentanea, per quanto prolungata nel tempo: l’individuo può reagire adeguatamente e gestire l’evento. Al contrario, nella sua condizione alterata, o in mancanza di un ambiente che aiuti il paziente a fronteggiare l’evento, il Filtro porta il soggetto a percepire in maniera inadeguata l’evento malattia e ad una precisa sensazione di incapacità di gestire le situazioni: si approda direttamente allo stress cronico e l’attivazione del circuito permane anche in assenza dello stressor. L’INTERVENTO FUNZIONALE IN AMBITO ONCOLOGICO Da quanto detto, emerge che il paziente oncologico necessita di un sostegno e un intervento completo, integrato, che agisca su tutti i sistemi integrati dell’organismo (neurovegetativo, neuroendocrino, emotivo, sensoriale, cognitivo, motorio, posturale) che sono profondamente interconnessi in uno stato di salute, di benessere, di funzionamenti pieni e sani (Rispoli, 2010). La Psicologia Funzionale propone: una valutazione accurata dell’entità e della specifica configurazione dello stress, attraverso strumenti diagnostici specifici; un intervento integrato sui funzionamenti di fondo maggiormente alterati nell’evento malattia, finalizzato a riequilibrare l’organismo e recuperare un naturale alternarsi di attivazione/eccitazione a momenti di rilassamento/riposo (Di Nuovo, Rispoli, 2011). L’intervento Funzionale è un intervento su tutta la persona, orientato ad una migliore qualità di vita e a mantenere o recuperare un livello di benessere che possa sostenere il paziente nell’affrontare la propria malattia. I principali funzionamenti di fondo su cui si interviene con i pazienti oncologici sono: Lasciare, Controllo, Sensazioni, Piacere, Vitalità, Essere Tenuti, Tenerezza. È fondamentale che il paziente possa sentirsi totalmente preso in carico, sentire che può essere accolto, Essere Tenuto, contenuto senza viverlo come 41 una debolezza. Normalmente il paziente oncologico è immerso in una situazione di allarme, paura, preoccupazione continua, è sottoposto a persistenti controlli medici ed è inserito in programmi di cura che prevedono terapie molto forti, con effetti collaterali importanti, che danno un generale senso di malessere e di pesantezza. E’ importante, dunque, che il paziente abbia la possibilità di recuperare la capacità di Lasciare, di allentare il Controllo, di aprire le Sensazioni positive, spesso chiuse per non sentire il dolore e la sofferenza. E’ importante accompagnarlo nel ritrovare la capacità di sentire il Piacere e il benessere, nonostante le terapie ed i loro effetti, come anche recuperare una certa Vitalità nei movimenti, nei ricordi, nelle emozioni. E’ importante, inoltre, per il paziente contattare la propria Tenerezza, senza per questo perdere la forza, sentire la propria fragilità e il bisogno dell’aiuto degli altri, per smussare la durezza a cui spesso si trova costretto, per essere forte e affrontare la malattia. LA RICERCA È stata effettuata presso il Centro Oncologico Fiorentino (C.F.O.), una realtà sanitaria che si occupa di prevenzione, diagnosi, cura, ricerca e formazione in campo oncologico. Nello specifico, è stato preso in considerazione il Progetto Zefiro che prevede interventi antistress di gruppo, con la metodologia della Psicologia Funzionale. Il gruppo antistress è una terapia focalizzata che ha l’obiettivo di accompagnare il paziente a vivere l’evento malattia usando al meglio le proprie risorse. Obiettivi Valutare l'efficacia dell’intervento Funzionale di un gruppo antistress progettato ad hoc per la riduzione dello stress correlato all’evento malattia oncologica; 42 Valutare un cambiamento nei sintomi specifici, considerati associati al programma di cura seguito dalle pazienti; Valutare un cambiamento rispetto allo stato di salute ed ai vissuti nei confronti della malattia delle pazienti; Raccogliere dati ed evidenze scientifiche sugli effetti positivi di un intervento psicologico multidimensionale e limitato nel tempo, nella prospettiva che, insieme alle cure mediche, possa entrare sempre di più nei protocolli terapeutici. Campione È costituito da 13 pazienti, donne, di età compresa fra 32 e 65 anni, con diagnosi di tumore alla mammella. Le pazienti sono tutte operate ed a diversi stadi di trattamento chemioterapico, radioterapico o terapia ormonale. Il campione è stato suddiviso in: gruppo sperimentale: pazienti (n. 7) sottoposte a trattamenti antistress di gruppo, con metodologia Funzionale, a cadenza settimanale. E’ stato valutato il livello di stress prima del percorso e dopo un minimo di 6 incontri (massimo 10 incontri) svolti nell’arco di tre mesi; gruppo di controllo: pazienti (n. 6) che hanno scelto di non usufruire di trattamenti antistress. E’ stato valutato il livello di stress in una fase iniziale e dopo 3 mesi dalla prima valutazione. Strumenti Questionario M.S.P. - Misura dello Stress Psicologico (Rispoli, 2000) Scheda di rilevazione del Respiro e dell’Atteggiamento corporeo (Rispoli, 1997) Colloquio strutturato con i pazienti oncologici (Rispoli, 2007) Scheda disturbi e sintomi (Rispoli, 2008) 43 Scheda sullo stato di salute e sui vissuti sulla malattia (Rispoli 2008) Analisi dei dati I dati ottenuti dalla somministrazione dell’MSP e dalla rilevazione del Respiro e Atteggiamento corporeo sono stati inseriti all’interno del programma M.I.S. (Rispoli, Di Nuovo, 2000) ottenendo il valore dell’ Indice Integrato dello stress, che può variare da 0 (Benessere) a 10 (Stress). Il Colloquio strutturato e la Scheda Disturbi e Sintomi sono stati analizzati calcolando le frequenze delle risposte A+B (buon livello di funzionamento) e C+D (funzionamento alterato) e le percentuali delle risposte C+D, sia nel gruppo sperimentale che nel gruppo di controllo. Per la scheda Stato di salute e vissuti sulla malattia sono state calcolate le percentuali rispetto al punteggio totale ottenuto da ogni paziente, per cui valori alti coincidono con maggior benessere, mentre valori bassi indicano un peggior stato di salute Risultati Verranno di seguito presentati i risultati delle valutazioni effettuate, con i cinque strumenti presentati precedentemente, sul gruppo sperimentale e sul gruppo di controllo. Per tutelare la privacy dei pazienti, sono stati utilizzati dei nomi fittizi. Per quanto riguarda i valori dell’Indice integrato del livello di stress (Grafico 1), tratti dal Questionario M.S.P. e dalla Scheda di rilevazione del Respiro e Atteggiamento corporeo, è evidente un notevole miglioramento nel valore dell’Indice integrato dello stress del gruppo sperimentale (da 6,55 a 3,95) che possiamo attribuire al trattamento antistress effettuato dalle pazienti (il Test T di Student è risultato significativo per questo gruppo); nel gruppo di controllo, il valore del livello di stress scende lievemente da 5,77 a 5,29, ma 44 per motivi legati presumibilmente al caso (il Test T di Student non è risultato significativo per questo gruppo). Media Indice integrato 10 5 0 6,55 3,95 5,77 5,29 Gruppo sperimentale Gruppo Controllo I valutazione II valutazione Grafico 1. Media Indice integrato: differenze fra gruppo sperimentale e gruppo di controllo tra la I e II valutazione Dunque, dai primi dati relativi alla misura integrata del livello di stress, emerge un miglioramento importante sulle pazienti che hanno partecipato ad interventi antistress Funzionali di gruppo, confermando l’efficacia e l’importanza di un intervento altrettanto integrato. Il Colloquio strutturato con il paziente oncologico (Grafico 2) ci conferma ulteriormente questi dati. La scheda è composta da 8 scale, ciascuno orientato a valutare determinati funzionamenti, nelle loro polarità (Progettualità/Chiusura; positive/Fant.negative; Forza calma/Rabbia; Leggerezza/Pesantezza; Fantasie Serenità/Tristezza; Movimenti ampi/Mov. morbidi; Contatto/Isolamento; Piacere/Doverismo). Nel post trattamento del gruppo sperimentale emerge una notevole riduzione dei funzionamenti alterati (C+D), che vengono quasi totalmente sostituiti da funzionamenti sani (A+B); diversamente avviene nel gruppo di controllo che, anche nella II valutazione, presenta frequenti alterazioni. L’unico funzionamento non alterato risulta essere quello del Contatto, per 45 cui i pazienti dei due gruppi mostrano una buona capacità di entrare in Contatto, sia nella I che nella II valutazione. Nel gruppo sperimentale si evidenzia, nella II valutazione, un miglioramento su tutti i funzionamenti: si riducono molto le fantasie negative facilitando un aumento di quelle positive; scompare la tristezza e l’angoscia a favore di una maggiore serenità, aumentano i movimenti piccoli e morbidi; anche il “doverismo”, caratteristica tipica del paziente oncologico, viene soppiantato dalla possibilità di vivere con maggior piacere e divertimento. Due Funzionamenti, in particolare, risultano nettamente migliorati passando da un 100% di alterazione ad un 100% di buon funzionamento: la Rabbia, inizialmente difficile da accettare, chiusa, irrigidita, si modifica profondamente, attraverso l’apertura e la condivisione all’interno del gruppo, a favore di una maggiore accettazione e di una Forza calma; anche il senso di Pesantezza e drammaticità viene totalmente sostituito da una maggiore capacità di vivere con “Leggerezza”. Grafico 2. Percentuale di risposte C+D (funzionamenti alterati) del Colloquio strutturato nel gruppo sperimentale (blu) e nel gruppo di controllo (arancio), nella I (tinta unita) e nella II valutazione (rigate). Nel gruppo 46 sperimentale valutazione. le alterazioni scompaiono quasi totalmente nella II Per quanto riguarda la Scheda disturbi e Sintomi (Grafico 3) sono stati considerati i sintomi maggiormente legati alle terapie seguite dalle pazienti (nausea, vomito, dolori generalizzati, stanchezza, disturbi del sonno, variazione del peso, modificazione della funzione intestinale). In generale, possiamo notare che non ci sono differenze significative tra il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo nelle due valutazioni. Nel gruppo sperimentale emerge che i disturbi più frequenti nella I valutazione sono i Dolori, il senso di Stanchezza e di mancanza di energia e i Disturbi del sonno; nella II valutazione migliora lievemente la Stanchezza e, in particolare, i Disturbi del sonno, tuttavia, nel quadro complessivo, non vi sono differenze rilevanti tra le due valutazioni. Nel gruppo di controllo è evidente, nella I valutazione una presenza consistente di quasi tutti i disturbi; nella II valutazione la situazione complessiva migliora lievemente, ma senza variazioni significative. Questi dati vanno spiegati tenendo conto del fatto che non c’è omogeneità nei gruppi rispetto alle terapie seguite: tutte le pazienti erano sottoposte, nel corso delle due valutazioni, a trattamenti differenti ed a diversi cicli, di chemioterapia, radioterapia e/o terapia ormonale. 47 Grafico 3. Percentuale di risposte C+D (funzionamenti alterati) della Scheda Disturbi e Sintomi nel gruppo sperimentale (blu) e nel gruppo di controllo (arancio), nella I (tinta unita) e nella II valutazione (rigate). Considerando la non omogeneità dei gruppi rispetto alle terapie cui le pazienti erano sottoposte (chemioterapia, radioterapia o terapia ormonale), il grafico mostra, sia nel gruppo sperimentale che nel gruppo di controllo, una permanenza delle alterazioni nella II valutazione. Riguardo la Scheda sullo stato di salute e sui vissuti sulla malattia, infine, i risultati mostrano un aumento dei punteggi medi (3,6%) per il gruppo sperimentale (Grafico 4), e quindi un miglioramento dello stato di salute e dei vissuti sulla malattia. Viceversa, per il gruppo di controllo (Grafico 5), si assiste ad una riduzione (1,5 %) di questo valore. 48 Vissuti malattia gruppo sperimentale 100% 57,8% 54,2% 50% 0% I valutazione II valutazione Grafico 16. Percentuali dei valori relativi allo Stato di salute e ai vissuti sulla malattia del gruppo sperimentale nella I e II valutazione Vissuti malattia gruppo di controllo 100% 50% 0% 34,1% 35,6% I valutazione II valutazione Grafico 5. Percentuali dei valori relativi allo Stato di salute e ai vissuti sulla malattia del gruppo di controllo nella I e II valutazione CONCLUSIONI Questa ricerca vuole essere un piccolo contributo ad un grande lavoro. I dati confermano che un intervento integrato può essere importante, non solo come strumento di riduzione dello stress, ma soprattutto perché considera la possibilità di sostenere pienamente la categoria dei pazienti oncologici; e non solo per il numero crescente di malati, ma anche come testimonianza della possibilità di poter lavorare, nel percorso di cura ospedaliero, anche sul Benessere e sul recupero di funzionamenti di fondo. Funzionamenti che tutti 49 noi possediamo e che ci permettono di migliorare la qualità della vita, anche e, soprattutto, laddove la vita è minacciata dalla malattia. Dai risultati emergono modificazioni importanti dei funzionamenti di fondo, che ci confermano l'utilità dell’intervento Funzionale, un intervento che dà la possibilità ai pazienti di sfruttare al meglio le proprie risorse, vivendo pienamente la malattia e non semplicemente accettandola. BIBLIOGRAFIA Andersen B.L., Yang H.C., Farrar W.B., Golden-Kreutz D.M., Emery C.F, Thornton L.M., Young D.C., Carson W.E. (2008). Psychological intervention improves survival for breast cancer patients. Cancer, Dec 15. Di Nuovo S., Rispoli L. (2011). L’analisi funzionale dello stress. Dalla clinica alla psicologia applicata. Franco Angeli, Milano. Lutgendorf, S., Costanza, E.S., Siegel, S.D. in Ader, R. (2007). Psychoneuroimmunology, IV ed., Academic Press, Amsterdam. Rispoli L. (1993). Psicologia Funzionale del Sé. Astrolabio, Roma. Rispoli, L. (1999). La valutazione integrata dello Stress. Articolo non pubblicato. Rispoli L. (2004). Esperienze di base e sviluppo del Sé. Franco Angeli, Milano. Rispoli L. (2010). Il manifesto del Funzionalismo Moderno . S.E.F. edizioni. Spiegel D. (2002). Effects of psychoterapy on cancer survival. Nature Reviews Cancer, may vol. 2: 1-7 50 RELAZIONE TRA ATTACCAMENTO E COMPORTAMENTO AGGRESSIVO NELL’ETÀ DELLO SVILUPPO di Isacco Cannas Potessimo essere portatori di tutto lo scibile umano questo non basterebbe per comprendere in pieno l’origine e il significato dell’aggressività umana, un tema vecchio quanto le origini dell’uomo stesso. Basterebbe gettare uno sguardo sulla mole degli studi intrapresi per capirne la vastità, la complessità e l’intangibilità. Da teologi a filosofi, da biologi ad antropologi, da psicologi a sociologi, da giuristi ad economisti, gli studi talvolta si incontrano e talvolta si scontrano. Indice del fatto che il fenomeno dell’aggressività può avere cause, manifestazioni e conseguenze molto varie. Infatti reputiamo aggressivo tanto il bambino che prende a calci un’ oggetto o inveisce contro un compagno quanto una nazione che entra in guerra. Si tratta evidentemente di comportamenti molto diversi tra loro, sia per la gravità e le conseguenze che possono avere, sia per le motivazioni che li hanno originati. Appare quindi subito chiaro che il termine aggressività viene usato per designare una vasta gamma di comportamenti molto diversi tra loro. Ma se la comprensione di questo fenomeno è costellata ancora di molti punti oscuri, per lo meno, nel corso dei secoli, siamo arrivati a definirne alcune caratteristiche, punti di partenza su cui lavorare. Il maggior dilemma che si sono posti gli studiosi sull’aggressività è sempre stato quello della sua origine. Se l’aggressività è connaturata nell’uomo, sia essa di origine diabolica, genetica o pulsionale, o se l’uomo sia come una tabula rasa aperta alle incisioni del mondo esterno. Partendo da un’attenta analisi etimologica notiamo che la parola aggressività viene dal latino aggredior, quindi dalla preposizione ad, con significato di “verso”, “contro”, “allo scopo di”, “per”, e dal verbo gradior, con significato di “andare”, “procedere”, “avanzare”, “camminare”, “aggredire”. 51 Aggredior assume quindi sia il significato di “assalire” sia di “andare verso”, “intraprendere”, “cominciare”, “cercare di ottenere”.1 In questo senso si può considerare l’evoluzione di un comportamento aggressivo come un pensiero che nasce da uno spazio “interiore” e viene spinto all’esterno a seguito di una determinata elaborazione cognitiva. Molti autori concordano nel ritenere come condizione necessaria la presenza della componente “intenzionalità”. Non necessariamente, poi, questa spinta, questo “andare verso” conduce in un comportamento vistoso. Può, altresì, manifestarsi in forme mascherate come il sarcasmo o la critica intellettuale aspra, in forme ritualizzate come le querele che arrivano in tribunale o addirittura può consumarsi nelle fantasie e nei sogni, fino ad assalire anche la propria persona, dalla patologia psicosomatica al suicidio. L’ “altro” da “assalire” può essere rappresentato quindi da una persona, da un'oggetto (un asta da superare in una gara di salto in alto, un “re” in una partita di scacchi, libri o cibo da “divorare”) o da una situazione (un esame all’università, incassi di vendite da superare). In questo caso la manifestazione della condotta aggressiva si fa simbolo dell'affermazione dell'Io, come fanno notare molti psicoanalisti. Vediamo quindi come questa, per esempio, diventi importante per superare un sentimento di inferiorità (Adler), per conseguire una certa autonomia personale (Storr), per ricercare autostima (Fenichel) o altri vantaggi (Buss). Ma quando questa spinta incontra una frustrazione (Reich, Dollard, Fairbain), un trauma (De Zulueta), un abbandono (Spitz), causato dall'ambiente esterno, che sia la società (Fromm) o il gruppo (Lewin) o i genitori, si genera “rabbia narcisistica” (Kouth) che può assumere connotati di distruzione. In accordo con Bandura, come già avevano spiegato anche Sears e Miller, la frustrazione non implica necessariamente una reazione violenta; le persone, sostiene Bandura dopo accurate ricerche, non nascono con repertori 1 S.Bonino, G.Saglione, “Aggressività e adattamento”, Edizioni Boringhieri, Torino 1978. 52 preformati del comportamento aggressivo ma lo apprendono attraverso processi sociali che si basano sull'osservazione e sull'imitazione di modelli. In questo caso dispensatori di modelli comportamentali diventano la famiglia, il gruppo sociale di appartenenza ed i mezzi di comunicazione di massa. Kurt Lewin, di formazione gestaltita, insiste sul potere determinante del gruppo inteso come un tutto, e più precisamente come un “campo” entro cui un soggetto opera. Le caratteristiche comportamentali del singolo, secondo Lewin, si plasmano in funzione dell'assetto complessivo del gruppo. Un po' come succede ad una carica elettrica che si muove a seconda delle caratteristiche dinamiche del campo elettromagnetico in cui si trova. Il diverso comportamento del gruppo poi dipende dal complessivo “clima” relazionale in cui vi si trovano immersi i membri. Bisogna comunque fare attenzione a non considerare l'uomo esclusivamente in balia degli agenti esterni. Le diverse teorie di stampo psicologico hanno considerato una sola faccia di quella realtà poliedrica che è l’aggressività nell’uomo. Così l’etologia ha considerato soprattutto le origini filogenetiche dell’aggressività, mentre comportamentisti e psicologi sociali hanno prevalentemente volto l’attenzione allo studio degli stimoli ambientali che possono attivare o inibire il comportamento aggressivo. All’interno della psicoanalisi si sono affermate concezioni diverse, che hanno studiato ora la radice innata dell’aggressività ora l’influenza ambientale e la funzione mediatrice dell’Io. Le differenti posizioni, pur partendo da diverse concezioni teoriche e pur considerando aspetti differenti, sono confrontabili ed hanno punti di contatto. Si riconosce oggi sempre di più che il comportamento umano è il risultato dell’interazione reciproca tra potenzialità biologiche e influenze sociali e ambientali. 53 Anche Erikson fonda la propria analisi dello sviluppo su “quel reciproco compenetrarsi del biologico, del culturale e dello psicologico”2 che costituisce la base della sua teoria. La concezione freudiana dell’aggressività è stata ampiamente criticata non solo per il suo rigido istintivismo ma anche poiché ipotizza l’esistenza di un impulso alla distruzione, il che libererebbe il genere umano “dalle responsabilità personali della crudeltà e della distruttività”.3 È proprio su questa concezione essenzialmente negativa dell’aggressività che si sono appuntate le maggiori critiche degli stessi psicoanalisti che hanno invece riconosciuto l’aggressività come volta tendenzialmente alla vita e alla sua conservazione (che sia individuo o gruppo sociale), e che solo alcune condizioni e situazioni particolari la trasformano in distruttività. Ammon, Adler, Storr, Fromm, e gli etologi vanno in tal senso. Se la concezione freudiana ha considerato l’aggressività come una pulsione capace di tradursi in un comportamento distruttivo, comportamentisti ed alcuni psicoanalisti hanno commesso l’errore opposto. La loro concezione dell’aggressività si inserisce in una visione dell’uomo alquanto riduttiva, essendo la persona considerata un’entità inerte, plasmabile via via secondo il gioco delle influenze ambientali. Interpretare il comportamento umano unicamente in termini di influenza culturale e ambientale non fa che spostare il problema. La cultura e la società non sono forse un prodotto dell’uomo? Il ricondurre ogni spiegazione alla cultura richiude la ricerca psicologica in un circolo vizioso, in cui si va alternativamente dall’uomo alla cultura e dalla cultura all’uomo. Possiamo quindi considerare l’aggressività come una pulsione innata, radicata nell’evoluzione filogenetica che si evolve e manifesta in modi diversi, in rapporto alle situazioni ambientali ed alle influenze socio culturali ed alla storia personale dell’individuo. 2 Erik H. Erikson, “infanzia e società”, Armando Editore, Roma, 1988, pag.99. F.de Zulueta , “Dal dolore alla violenza: le origini traumatiche dell’aggressività”, Cortina Editore, Milano 1999. 3 54 Secondo Piaget “la maturazione del sistema nervoso apre semplicemente una serie di possibilità (.....) ma senza che tali possibilità diano luogo a un’immediata attualizzazione, fino a che le condizioni di esperienza concreta o d’interazione sociale non comportino quest’attuazione”.4 J. P. Scott parla di un “meccanismo fisiologico che deve solo essere stimolato per produrre un comportamento aggressivo” .5 Spiegare però il comportamento aggressivo unicamente in termini neurofisiologici sarebbe alquanto riduttivo. Le ricerche sulla stimolazione elettrica del cervello e sulla rimozione di alcune aree cerebrali si limitano in realtà a considerare gli aspetti emotivi dell’aggressività, quali l’ira, la rabbia, la collera. Ma l’aggressività umana non si limita, nemmeno nel bambino, a queste emozioni. Non si constatano variazioni fisiologiche tipiche dell’ira nell’uomo che sgancia da un aereo una bomba all’idrogeno su un paese “nemico”; eppure si tratta di un atto aggressivo e distruttivo, tipicamente umano. L’aggressività può quindi costituire una delle componenti di base della persona, allo scopo di permetterle un rapporto più adattivo con la realtà. Questa aggressività, presente fin dalla nascita (se non prima, nei movimenti fetali), consente al bambino di conquistarsi il suo spazio nell’ambiente. Ambiente che, allo stesso tempo, sarà determinante nella modulazione del comportamento del bambino, creando così un circolo azione-reazione che accompagnerà il neonato nel suo processo di crescita. I punti d'incontro delle diverse teorie sull'aggressività, da quelle psicoanalitiche a quelle comportamentiste sono resi più evidenti alla luce delle teorie sull'attaccamento. Queste ci insegnano come fin dalla nascita, o meglio fin dalla gravidanza, il “piccolo uomo” sia legato al mondo esterno. Il primo legame è con la figura materna, sia fisicamente tramite la placenta, sia sopratutto attraverso una rete di sensazioni e di emozioni che il piccolo si 4 5 J.Piaget, “Lo sviluppo mentale del bambino”, Einaudi, Torino, 1967, p.123. J.P.Scott, “Aggressività", Giunti Barbera, Firenze, 1974, p.74. 55 scambia con la madre, dalle prime fantasie al primo abbraccio, tra il dare e il ricevere protezione e amore. Successivamente entreranno in queste dinamiche altre figure significative, a partire dal padre, in un percorso che non è unilaterale ma che si basa su un reciproco scambio, su un reciproco alternarsi ed influenzarsi. È in questa interdipendenza che l’aggressività, vista come potenziale che permette l’adattamento, la propria affermazione ed autonomia, si traduce e si plasma, anche alla luce del successivo sviluppo psico-fisico del bambino, in una molteplicità di comportamenti, compreso quello violento e distruttivo. Greenberg, Speltz, e De Kleyn (1993) hanno elaborato un modello che pone quattro fattori all’origine dei disturbi del comportamento aggressivo nel bambino6: - le caratteristiche individuali come il temperamento del bambino o eventuali problemi neurologici, - la presenza di fattori di stress all’interno e all’esterno della famiglia quali la presenza di nonni o di altre figure, le condizioni socio-economiche, patologie psichiatriche, condizioni di alcolismo o tossicodipendenza in famiglia, il particolare contesto storico-culturale in cui vi si trova immersa, i mass-media, la scuola, ecc... - Il tipo di disciplina, ossia gli stili educativi parentali, tra autorità e permissivismo, - la relazione di attaccamento Tutte queste condizioni e molte altre saranno per il bambino ostacolo o vantaggio nel suo processo di crescita. In questo contesto ho voluto dare importanza primaria alla relazione di attaccamento tra il bambino e le figure che si prendono cura di lui. Per due motivi principali: Innanzitutto l’attaccamento permette ciò che l’ambiente non può fare, e cioè creare un dialogo tra due mondi affettivi. 6 Greenberg M.T., Speltz M.L. and DeKlyen M. (1993) “The role of attachment in the early development of disruptive behavior problems”. Development and Psychopathology 5, pp. 191-213. 56 Un dialogo “interno”, dapprima nel ventre materno, in cui le più svariate emozioni, frutto delle esperienze della madre, possono scatenare alterazioni nell’equilibrio placentare che verranno “percepite” dal futuro nascituro. In seguito, alla nascita, questo dialogo continuerà tramite una serie di comportamenti non verbali (sguardi, piccoli gesti, tono e ritmo della voce…)e con tutto ciò che possono percepire i cinque sensi. A seconda del tipo di atteggiamento dei genitori e sulla base delle emozioni provate, il neonato modellerà il proprio comportamento, permettendo una certa intesa nel dialogo. Qui spetterà alle figure genitoriali sperimentare la comunicazione più efficace per accompagnare il bambino nel suo adattamento all’ambiente esterno. Ciò ci fa comprendere l'altro importante motivo per cui la relazione d’attaccamento è di primaria importanza: le figure che si prendono cura di lui sono esse stesse “portatrici” (“sane” o “malate” ) dell’ambiente che circonderà il bambino e al tempo stesso fungono da “medici”. Saranno loro ad “accompagnare” il bambino, con tutto il suo bagaglio temperamentale, attraverso l’ambiente (“malato” o no che sia). In questo percorso di crescita, e quindi di regolazione dell’aggressività, prenderanno vita i comportamenti del bambino che, se ben “accompagnato”, potrà superare gli ostacoli che si presenteranno, per un buon adattamento all’ambiente. Secondo Bolwlby l'attaccamento nasce come manifestazione pulsionale, ma si sviluppa in seguito come fenomeno interazionale. I primi comportamenti istintuali danno moto alle dinamiche di attaccamento. In seguito, attraverso l'interiorizzazione dei sentimenti e delle modalità affettive delle figure genitoriali, si organizzano i primi modelli operativi interni, fondati sui processi mentali di attenzione, percezione e memoria. Fonagy, poi, spiega che una buona interpretazione dei bisogni e delle intenzioni del bambino e una comunicazione comprensibile dei propri 57 processi mentali sono fondamentali per lo sviluppo di un “Sé riflessivo”, importante per cogliere il proprio e l'altrui stato mentale. Potremmo ipotizzare che una mancata strutturazione del “Sé riflessivo” potrebbe porsi alla base del processo di “disimpegno morale”, delineato da Bandura, che tiene al riparo dal senso di colpa che procurerebbe la condotta aggressiva. Un attaccamento insicuro o disorganizzato o una comunicazione inefficace o distorta diventeranno causa di sviluppo di future forme adattive, comportamentali e relazionali, distorte. Si potrebbe così generare una condotta aggressiva che, a seconda delle situazioni, il bambino riverserà al proprio interno, dando vita a svariati disturbi psichici, o all’esterno, laddove più lo scontro con una situazione imprevista, o difficile, è forte, più prenderà vita un comportamento distruttivo (subdolo o manifesto). Molti studi hanno dimostrato come in molti ragazzi, che hanno avuto un attaccamento di tipo insicuro, vi sia una prevalenza di ostilità e difficoltà a gestire la rabbia. Zimmermann e Grossmann7 rilevano, in una serie di ricerche, una scarsa capacità di regolazione degli affetti, con l’utilizzo particolare di emozioni negative e dell’aggressività, da parte di bambini classificati evitanti all’età di dodici mesi con la Strange Situation. L’attaccamento disorganizzato è invece caratterizzato da modelli operativi frammentari e reciprocamente incompatibili, anche definiti da Bowlby come multipli. Ciò può costituire un importante fattore di rischio, in età adulta, di psicopatologie che implicano processi ed esperienze di dissociazione, come i disturbi borderline e dissociativi, sopratutto se determinato da traumi psicologici nel corso dello sviluppo (Liotti, 2001).8 Nella relazione di attaccamento entrano quindi in gioco svariati fattori. 7 P.Zimmermann, K.E.Grossmann, (1994). “Attaccamento, emozioni e comportamento aggressivo”, Età Evolutiva, 47. 8 G.Liotti, “Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivoevoluzionista”, Cortina Raffaello Editore, Milano, 2001. 58 Vulnerabilità, esplorazione, adattamento, autonomia, protezione, sono espressi attraverso quattro livelli: comportamentale (non verbale), cognitivo (verbale), emotivo-affettivo e simbolico ( legato a esperienze e cultura). La loro interazione sarà determinante nell’indirizzare lo sviluppo del bambino verso percorsi adattivi o verso manifestazioni patologiche. Caregiver incoerenti, con traumi irrisolti, ipercontrollanti o evitanti danno moto a determinati meccanismi cognitivi e affettivi che possono provocare nel bambino manifestazioni di attaccamento insicuro o disorganizzato. Bowlby spiega il comportamento atteggiamento di protesta per aggressivo del bambino come situazioni di deprivazione, separazione o perdita delle figure di attaccamento. L'angoscia e la “collera” che si vengono a creare in situazioni del genere, quando non trovano libero sfogo verso le figure scatenanti, può finire col dirigersi verso altre persone, oggetti o eventi, attraverso un'ampia gamma di comportamenti, compreso quello distruttivo. Assume quindi grande importanza, durante la gravidanza, il sostegno psicologico ai genitori. Accompagnare e sostenere una coppia, per la sua futura relazione con un neonato, soprattutto in questa società, piena di incertezze, diventa indispensabile per rompere quel circolo vizioso di esperienze negative che si trasmettono da una generazione all’altra. Una qualità della relazione costellata di attenzione, sensibilità, soddisfazione reciproca e amore diventa quindi la base per un futuro equilibrio con l’ambiente. Nota Bowlby: “Fare il genitore con successo è una chiave di volta per la salute mentale delle nuove generazioni; abbiamo bisogno di sapere tutto il possibile riguardo alle molteplici condizioni sociali e psicologiche che influenzano in senso positivo o negativo lo sviluppo di tale processo ”. E ancora: “ la caratteristica più importante dell’essere genitori è quella di fornire una base sicura da cui il bambino o l’adolescente possa partire per affacciarsi al mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, 59 rassicurato se spaventato. In sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario”. Bibliografia: Bandura Albert, “Aggression: a social learning analysis”, Prentice-Hall Inc, Englewood Cliffs, New Jersey, 1973. Bonino Sivia, Saglione Gianfranco, “Aggressività e adattamento”, Edizioni Boringhieri, Torino 1978. Bowlby John, “Collera, angoscia e attaccamento” in: “Attaccamento e perdita”, Vol. II, Edizioni Boringhieri, Torino 1978. Caprara G.V., “Personalità e aggressività”, Bulzoni, Roma, 1981. De Zulueta Felicity, “Dal dolore alla violenza: le origini traumatiche dell'aggressivita'”, Cortina Editore, Milano 1999. Erik H. Erikson, “Infanzia e società”, Armando Editore, Roma, 1988. Filippi Alessia, “Il bullismo scolastico”, UNI Service Editrice, Trento 2007. Fonagy Peter, Moran George S., Target Mary, “L'aggressivita' e il Se'”, in: “Attaccamento e funzione riflessiva”, Cortina Editore, Milano 2001. Fornaro Mauro, “Aggressività”, Centro Scientifico Editore, Torino 2004. Fromm E., “Anatomia della distruttivita' umana”, Edizione Mondadori, Milano 1975. Genta, M.L., Il rapporto madre-bambino, Carocci Editore, Roma, 2000. Greenberg M.T., Speltz M.L. and DeKlyen M. (1993) “The role of attachment in the early development of disruptive behavior problems”. Development and Psychopathology 5. Labella A., Cantone D., “I percorsi della maternità”, Venetucci Centro Editoriale, Napoli, 2006. 60 Liotti G., “Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivo-evoluzionista”, Cortina Raffaello Editore, Milano, 2001. Lorenz K., “L’aggressività”, (1962), Il Saggiatore Tascabili, Milano, 2008. Loriedo Camillo, Picardi Angelo, “Dalla teoria generale dei sistemi alla teoria dell’attaccamento”, Franco Angeli Editore, Milano 2000. Maffei Cesare, Battaglia Marco, Fossati Andrea, “Personalità, Sviluppo e psicopatologia”, Editori Laterza, Roma 2002. Muratori Filippo, “Ragazzi Violenti”, Edizione Il Mulino, Bologna 2005. Paccagnella Prelec Maria,; Paccagnella Marta, “L’attaccamento genitori-figli: l’importanza dei primi contatti: un fattore di salute sottovalutato”, La Nuova Italia, Scandicci, 1992. Piaget J., “Lo sviluppo mentale del bambino”, Einaudi, Torino, 1967. Scott J.P., “L’aggressività”, Giunti Barbera, Firenze, 1980. Spitz R. “Il primo anno di vita del bambino”, (1958), Giunti Barbera, Firenze, 1965. Storr A., “L'aggressività nell'uomo”, De Donato, Bari, 1968 Zimmermann P., Grossmann K.E., (1994). “Attaccamento, emozioni e comportamento aggressivo”, Età Evolutiva, 47 61 DIPENDENZA DA CIBO, DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE E OBESITÀ: UNA REVIEW DELLA LETTERATURA INTERNAZIONALE di Eleonora Sirsi Introduzione L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive il concetto di dipendenza patologica o di sindrome della dipendenza come “quella condizione psichica e talvolta anche fisica, derivante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione” (Pigatto, 2003). In modo simile, l’ultima versione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR, 2001) dà una definizione di dipendenza che prende in considerazione esclusivamente la dipendenza da sostanze psicoattive, mettendo in evidenza i sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici dovuti alla modalità d’uso patologica delle diverse sostanze. Negli ultimi anni, la nozione di dipendenza, da un punto di vista clinico, include anche quadri sintomatologici in cui l’oggetto stesso della dipendenza non è una sostanza chimica, bensì comportamenti o attività più o meno accettati (in qualche caso addirittura promossi) dalla società moderna. Recentemente si sono diffuse dipendenze da attività legali e diversi autori hanno coniato nuove definizioni, quali technological addictions (Griffiths, 1995) e dipendenze da comportamenti (Rigliano, 1998). Esse non possono essere inserite nel DSM-IV-TR sotto la categoria diagnostica dei disturbi da 62 abuso di sostanze, perché ciò che viene abusato non è più una sostanza chimica, ma un comportamento o un’attività, così vengono definite con il generico termine di “Nuove Dipendenze” o “New Addictions” (Caforio, 1999). Alonso-Fernandez (1999) sostiene che sia possibile distinguere le dipendenze sociali (ad esempio attività quali mangiare, giocare, lavorare) o legali (sostanze quali tabacco, caffè, alcol), da quelle antisociali o illegali (che invece fanno riferimento alle classiche dipendenze da sostanze quali cocaina, oppiacei…). L’autore sostiene che nella prima categoria, le nuove forme di dipendenza senza droga sono agevolate dall’innovazione tecnologica e dalla nuova civiltà che, da una parte genera stress, vuoto e noia, e dall’altra stimola la tendenza all’immediata gratificazione, fornendo sempre gli strumenti appropriati. Mulè (2008) con il termine “nuove dipendenze” definisce un gruppo di disturbi eterogenei che implicano un coinvolgimento in una abitudine ripetitiva e persistente, tesa a modificare lo stato di coscienza dell’individuo, e che a lungo termine comportano una compromissione significativa della sfera lavorativa, affettivo-relazionale e sociale del soggetto. Questo lavoro si concentra sulla dipendenza da cibo, o food addiction, ossia una condizione in cui una persona desidera il cibo in maniera continua e intensa, ma di fatto non rimane gratificata dal pasto, anzi un residuo umore negativo rappresenta la regola post-prandiale: il cibo per queste persone è considerato gratificante per la propria vita, ma nel contempo rappresenta un pensiero ossessivo da rimuovere. In particolare, verrà indagato il rapporto tra la dipendenza da cibo e altri disturbi mentali, come classificati dal DSM-IV-TR, cioè i disturbi correlati a sostanze e i disturbi dell’alimentazione. La dipendenza da cibo risulta essere a cavallo tra i due tipi di dipendenze evidenziati sopra, in quanto è possibile considerare il cibo come una 63 sostanza, in quanto viene ingerita e provoca delle modificazioni a livello corporeo, ma non è illegale e non dà, in quantità adeguate, nessuna complicanza fisica, anzi è necessaria alla sopravvivenza. Che cos’è la dipendenza da cibo? Il concetto di dipendenza da cibo ha recentemente guadagnato attenzione sia da parte dei media che della letteratura scientifica. La dipendenza da cibo è implicata nel craving (termine solitamente utilizzato per indicare una forte pulsione soggettiva ad utilizzare una sostanza), nelle abbuffate e nell’obesità. È dunque un concetto pervasivo. Tuttavia, secondo Corwin e Grigson (2009) il concetto di dipendenza da cibo è tutt’oggi controverso. Nonostante la massiccia presenza di reports aneddotici, pochi studi hanno tentato di determinare la capacità di creare dipendenza del cibo usando rigorosi criteri scientifici. Secondo le autrici, uno dei problemi principali risulta essere il fatto che il cibo è necessario alla sopravvivenza di tutti gli esseri umani. Dunque risulta difficile definire il cibo (in un’accezione negativa) come qualcosa che crea dipendenza, dal momento che la vita dipende dal cibo (in modo positivo e sano). Allo stesso modo, Gearhardt e colleghi (2012) evidenziano che il concetto di dipendenza da cibo rappresenta un tema controverso in quanto, il cibo, diversamente dalle droghe (per le quali il termine dipendenza è assolutamente adeguato), è richiesto per la sopravvivenza. In quest’ottica, risulta non solo difficoltoso, ma anche rischioso, definire dei criteri per distinguere un “uso” sano del cibo da uno disfunzionale. È necessario, per avere una visione più completa della situazione, riportare la distinzione che, nella lingua inglese, esiste tra i termini dependence e addiction (Maddux e Desmond, 2000): il primo indica la dipendenza fisica e chimica, il secondo prende in considerazione come ogni aspetto della vita del 64 soggetto risulti danneggiato dal fatto di avere una dipendenza. Dunque, proprio per il fatto di poter sviluppare una dipendenza nei confronti di un’attività, e non solo di una sostanza, è chiaro che in alcuni casi si possa parlare di addiction senza dependence e vice versa (Shaffer, 1996). Come sostenuto da Gearhardt e colleghi (2012), le difficoltà sopra esposte sono rese evidenti dalla mancanza di una definizione largamente accettata di “dipendenza da cibo”. Infatti, ad oggi, non esiste una definizione univoca e condivisa di food addiction, sebbene sia possibile rintracciare delle proposte valide. Gold e colleghi (2004) definiscono la dipendenza da cibo come un problema cronico e tendente alla ricaduta causato da vari fattori che incoraggiano il craving per il cibo per ottenere uno stato di grande piacere, energia o eccitazione. Gearhardt e colleghi (2011, 2012) hanno proposto di utilizzare i criteri diagnostici per la dipendenza da sostanze così come descritti nel DSM-IV-TR ed applicarli al comportamento alimentare. Da questa idea è così nata la Yale Food Addiction Scale (YFAS) (Gearhardt et al., 2009) come tentativo di operazionalizzare il concetto di dipendenza da cibo. Gearhardt e colleghi difendono la scelta di utilizzare i criteri diagnostici della dipendenza da sostanze per la food addiction sulla base del crescente numero di ricerche che lega l’eccessivo consumo di cibo con la dipendenza. Gli autori mettono in evidenza la comune attivazione dei sistemi della dopamina e degli oppioidi sia grazie all’assunzione di cibo che all’uso di droghe. Per quanto riguarda gli studi sugli essere umani, Wang e colleghi (2010) hanno messo in evidenza che il cibo e l’uso di droga producono lo stessi risultato a livello cerebrale, ossia un rilascio di dopamina nelle regioni 65 mesolimbiche. La quantità di dopamina rilasciata correla con il grado di percezione soggettiva di ricompensa proveniente dal cibo o dalla droga. Inoltre, Wang e colleghi (2001), grazie a studi condotti tramite PET per immagini, hanno trovato che un numero ridotto di recettori D2 per la dopamina è associato sia a obesità che a abuso di droghe, identificando così una potenziale base neurochimica comune per la tolleranza in questi due gruppi di persone (necessità di maggiore sostanza/cibo per avere l’effetto desiderato). Gearhardt e colleghi (2011) hanno osservato che pattern simili di attivazione neurale sono implicati nella dipendenza alimentare e nella dipendenza da sostanze: in particolare si nota un’elevata attivazione delle regioni della ricompensa in risposta a stimoli scatenanti riguardanti il cibo e allo stesso tempo un’attivazione ridotta delle regioni deputate all’inibizione del craving in risposta all’assunzione di cibo. Infine, Gearhardt e colleghi (2009) hanno evidenziato come molti degli indicatori comportamentali di dipendenza sembrano essere comuni anche nei comportamenti alimentari problematici, come ad esempio la perdita di controllo, l’uso continuato nonostante le conseguenze negative e l’incapacità di ridurre o eliminare l’uso problematico. Gli studi sugli animali prendono in considerazione non solo gli indicatori biologici, ma anche quelli comportamentali della dipendenza da cibo. In primo luogo, Avena, Rada e Hoebel (2008) hanno scoperto che cavie a cui era stato dato libero accesso a zuccheri, grassi o cibo raffinato mostravano alterati meccanismi neurali collegati alla ricompensa che sono solitamente implicati nelle dipendenze. Johnson e Kenny (2010) hanno inoltre dimostrato che queste cavie mostravano segni di dipendenza quali tolleranza, astinenza, abbuffate e 66 continuavano a nutrirsi di questi cibi nonostante fossero collegati a conseguenze negative (ad esempio, scosse elettriche). Altri studi (Colantuoni et al., 2005, Wideman et al., 2005) hanno trovato che quando l’accesso agli zuccheri era limitato agli animali con una dieta con molti zuccheri, la temperatura del corpo si abbassava e si evidenziavano cambiamenti comportamentali tipicamente associati con l’astinenza, come movimenti nervosi e agitati. Gearhardt e colleghi (2009) analizzano tutti i criteri diagnostici per la dipendenza da sostanze mettendoli in relazione al cibo e valutando a che punto si trova la ricerca internazionale a proposito di questo specifico argomento. Da questa revisione è messo in evidenza che sono necessari molti altri studi sul potere che il cibo ha di dare dipendenza, in quanto solo recentemente la letteratura si è interessata a questo argomento e solo alcuni cibi sono oggetto di studio (gli zuccheri). Sono stati riportati fenomeni di tolleranza e astinenza per dolci ad alto contenuto di grassi. Il criterio per cui molto tempo sarebbe speso per ottenere, usare e riprendersi dall’eccessivo consumo di cibo potrebbe non sembrare rilevante (tuttavia è necessario sottolineare la grande quantità di tempo che le persone spendono per le diete, per comprare cibi dietetici e per preoccuparsi del loro peso. Inoltre persone con bulimia nervosa o disturbo da alimentazione incontrollata, nelle quali la dipendenza da cibo è una delle caratteristiche fondamentali, passano molto tempo a fare i conti con le conseguenze fisiche e soprattutto psicologiche dell’eccessivo consumo di cibo). Un criterio della dipendenza da sostanze che sembra andare controcorrente rispetto alla dipendenza da cibo è quello relativo al grado con cui importanti attività sono abbandonate a causa dell’iperalimentazione, alla luce della natura “sociale” e altamente accessibile del cibo. È necessario però evidenziare che, soprattutto in alcune malattie, l’eccessiva alimentazione può portare a nascondersi e a isolarsi, 67 rinunciando così a molti aspetti della propria vita. Ci sono prove evidenti del fatto che alcune persone perdono il controllo sul loro consumo di cibo, desiderano e tentano ripetutamente e infruttuosamente di ridurre o controllare l’uso del cibo e sono incapaci di astenersi da alcuni tipi di cibi o di ridurne l’uso a fronte delle conseguenze negative. Queste ultime considerazioni sostengono l’ipotesi per la quale il cibo possa rappresentare una sostanza in grado di dare dipendenza e sottolineano ancora una volta la necessità di ulteriori ricerche in merito. Ifland e colleghi (2009) hanno proposto una definizione simile a quella di Gearhardt e colleghi, in quanto vengono presi in considerazione i criteri per la dipendenza da sostanze secondo il DSM-IV-TR e applicati alla dipendenza da cibo. Tuttavia, gli autori avanzano l’ipotesi che cibi molto raffinati con alte concentrazioni di zuccheri, dolcificanti, carboidrati complessi, grassi, sale e caffeina siano effettivamente sostanze in grado di dare dipendenza e dunque alcune persone possano perdere il controllo sulla loro capacità di regolare l’assunzione di tali sostanze. Quali cibi danno dipendenza? Alla luce dei dati sopra indicati, il cibo può essere considerato a tutti gli effetti una sostanza che dà dipendenza. A questo punto sembra necessario indagare in modo più approfondito se e quali cibi siano in grado di indurre questo stato in modo più incisivo e, in particolare, quali componenti di esso abbiano un maggiore effetto. Anche secondo il senso comune, è possibile rintracciare alcuni cibi maggiormente in grado di indurre dipendenza rispetto ad altri, ad esempio cioccolata e dolci molto appetibili. Gearhardt e colleghi (2009) evidenziano che la ricerca si è focalizzata fino ad oggi su un nutriente in particolare, cioè lo zucchero, e dunque la naturale 68 prosecuzione di questi studi dovrebbe essere la categoria dei grassi. Una categoria di sostanze che vale la pena studiare sembra essere quella degli aromi e dei conservanti, ossia quelle sostanze che l’industria alimentare chiama “esaltatori di sapidità”. Gli autori mettono in evidenza che cibi molto saporiti ricchi di grassi, zuccheri e/o sale, potrebbero avere una maggiore capacità di dare dipendenza rispetto a cibi più tradizionali, come la frutta, la verdura, la carne magra. Avena e Gold (2011) sottolineano che, sulla base di studi sul comportamento alimentare, è noto che nutrienti diversi possono avere effetti su specifici sistemi di neuropeptidi e di neurotrasmettitori del cervello. Inoltre, studi pre-clinici suggeriscono che introdurre zuccheri in eccesso produca comportamenti simil-dipendenti diversi rispetto all’assunzione eccessiva di grassi. Infine, c’è una specificità legata ai nutrienti nell’effetto che alcuni trattamenti farmacologici hanno sulla riduzione dell’iperfagia. Tuttavia, Pelchat (2009) evidenzia che, sebbene l’appetibilità dei cibi incrementi la loro introduzione nel breve termine, non è sicuro che questa lo faccia anche nel lungo termine. Infatti, alcuni studi evidenziano che il trattamento con naltrexone (farmaco che riduce l’appetibilità dei cibi senza ridurre la fame) non è associato con una maggiore perdita di peso (Mitchell et al., 1987). Inoltre, soggetti sottoposti ad una dieta monotona hanno dimostrato di imparare a desiderare fortemente (craving) un cibo non molto appetibile come supplemento alla dieta (Pelchat et al., 2000). Dunque, secondo questi studi, non è indispensabile che il cibo sia iper-appetibile perché si sviluppi il craving, ma questo può essere frutto di un apprendimento. 69 Qual è la relazione tra dipendenza da cibo e disturbi dell’alimentazione? I disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati, secondo il DSM-IV-TR, dalla presenza di grossolane alterazioni del comportamento alimentare e comprendono l’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN). L’obesità, inclusa nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD10) tra le condizioni mediche generali, non compare nella classificazione del DSM-IV-TR, poiché non è stata accertata l’associazione costante con alcuna sindrome psicologica o comportamentale. Il disturbo da alimentazione incontrollata (BED o DAI) non risulta incluso nel DSM-IV-TR, se non nella categoria dei Criteri e Assi utilizzabili per ulteriori studi. Attualmente, sembra verosimile che questo disturbo sarà inserito nel DSM-V. Per i fini di questo lavoro, i disturbi che verranno presi in considerazione saranno la bulimia nervosa, l’obesità e il disturbo da alimentazione incontrollata. La bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffate, seguiti dall’adozione di mezzi inappropriati per controllare il peso, come il vomito autoindotto, l’uso di lassativi o diuretici, il digiuno. Questi comportamenti iperfagici con condotte compensatorie si verificano in media almeno 2 volte alla settimana per tre mesi. Infine, il livello di autostima della persona è indebitamente influenzato dalla forma e dal peso corporei. Il DSM-IV-TR propone una suddivisione in due sottocategorie del disturbo bulimico. La prima presenta la messa in atto di condotte di svuotamento, mentre la seconda le sostituisce con altri comportamenti compensatori inappropriati, quali il digiuno o l’eccessivo esercizio fisico. La bulimia non esordisce soltanto in soggetti normopeso, ma anche in quelli sottopeso, come conseguenza di una fase anoressica, oppure in persone 70 sovrappeso ed obese, a seguito di un periodo di restrizioni alimentari (ipotesi della restrizione). L’obesità è un disturbo dall’eziopatogenesi complessa, che consiste in un’alterazione della composizione del corpo, caratterizzata da eccesso di grasso, con conseguente peggioramento della qualità della vita e sviluppo di complicazioni che possono condurre alla morte (Scopinaro, 2000). Gli indici che la medicina moderna utilizza per classificare questa patologia sono l’eccesso ponderale e l’indice di massa corporea. L’eccesso ponderale è un concetto importante perché serve a stabilire oltre quali limiti un eccesso di peso risulta patologico. Tali limiti sono fissati in relazione ad un peso ideale. Quest’ultimo è un’entità statistica, specifica per i due sessi e per ogni statura, a cui corrisponde la minore mortalità, rilevata nelle casistiche delle grandi compagnie assicurative americane. Un altro indice di facile utilizzo è il Body Mass Index (BMI), cioè l’indice di massa corporea, ottenuto dal rapporto tra peso espresso in kg e altezza espressa in metri quadrati. Per stabilire quale sia il limite oltre il quale si può parlare di sovrappeso grave, quindi di patologia, si deve far riferimento ad un abbassamento notevole della qualità e della durata della vita. Le statistiche sembrano concordi nello stabilire che il suddetto limite sia coincidente con un indice di massa corporea equivalente a 30 kg/m2. Il disturbo da alimentazione incontrollata è caratterizzato da ricorrenti episodi di alimentazione impulsiva, associata con indicatori soggettivi e comportamentali di perdita di controllo (abbuffata). Questi episodi sono poi accompagnanti da almeno tre dei seguenti sintomi: mangiare molto più rapidamente del normale, mangiare fino a sentirsi spiacevolmente pieni, mangiare grandi quantitativi di cibo, anche se non ci si sente fisicamente affamati, sentirsi disgustati verso se stessi, depressi o molto in colpa dopo le 71 abbuffate. Tale comportamento incontrollato deve manifestarsi per almeno due giorni a settimana in un periodo di sei mesi. Il binge eating disorder (BED) è ritenuto da Cuzzolaro (2004) un disturbo trasversale ai disturbi alimentari elencati sopra: obesità, anoressia e bulimia. Si caratterizza, infatti, per la presenza di un comportamento iperfagico, tipico anche di alcuni tipi di anoressia e della bulimia. Tuttavia, mentre in queste ultime l’episodio di abbuffata è seguito da condotte di svuotamento improprie, nel BED ciò non accade e neppure nel caso di obesità. Inoltre, la presenza di sovrappeso, rende il BED più affine all’obesità che agli altri disturbi. Come messo in evidenza da Umberg e colleghi (2012), la bulimia nervosa presenta un’elevata comorbilità con l’abuso di droghe e può essere considerata essa stessa un disturbo da dipendenza da sostanze, in quanto potenzialmente soddisfa tutti e 7 i criteri del DSM-IV-TR per questo disturbo. In particolare gli autori sostengono che lo specifico pattern alimentare della bulimia (cioè abbuffate con condotte compensatorie) sia in grado di dare dipendenza secondo diverse modalità. In primo luogo, l’assunzione di cibo fa sì che sia rilasciata dopamina, in particolar modo nel nucleus accumbens. Inoltre, maggiore è la dolcezza del cibo e maggiore è la quantità di dopamina rilasciata. Dunque, dal momento che persone bulimiche sembrano essere più responsive ai sapori dolci e dato che i cibi dolci sono più rinforzanti, gli individui con bulimia nervosa sarebbero più predisposti ad abbuffarsi di questi cibi e, in ultima analisi, ad essere dipendenti da questi cibi. Inoltre, anche le condotte compensatorie potrebbero rinforzare il comportamento bulimico, dando dipendenza. Nello specifico, il vomito incrementa in modo acuto il rilascio di oppioidi endogeni nelle persone bulimiche, rinforzando così questo comportamento. 72 In secondo luogo, nella bulimia si nota lo sviluppo di tolleranza dopo qualche tempo dall’inizio del disturbo, così che dosi sempre maggiori di cibo sono introdotte, in particolar modo dolci, forse per una ridotta sensibilità ai sapori dolci. Ciò contribuisce a mantenere la dipendenza da questi cibi. Si evidenziano inoltre sintomi fisici e psicologici di astinenza nelle persone bulimiche che tentano di ridurre l’uso di cibo, che potrebbero essere una valida spiegazione delle frequenti ricadute durante il trattamento di questo disturbo. La relazione tra obesità/BED e dipendenza da cibo sembra seguire un percorso simile. Come detto sopra, il binge eating disorder e l’obesità presentano tratti molto simili tra loro ed hanno in comune con la bulimia nervosa la presenza di abbuffate, la perdita di controllo e, in alcuni casi, il sovrappeso. Gearhardt e colleghi (2012), attraverso uno studio condotto con uno strumento di loro creazione, la Yale Food Addiction Scale, hanno messo in evidenza che dipendenza da cibo, come da loro definita, e BED sono costrutti altamente correlati, ma non si sovrappongono tra loro, in quanto alcune persone possono presentare una diagnosi, ma non l’altra. Gli autori sostengono inoltre che la dipendenza da cibo in pazienti obesi con BED potrebbe essere associata con una frequenza più alta di abbuffate a causa della necessità di fare i conti con emozioni negative e bassa autostima (che si sono dimostrate molto frequenti in questi pazienti), piuttosto che come risultato di una dieta troppo restrittiva (ipotesi della restrizione). Questo risultato potrebbe essere molto importante per comprendere meglio anche la bulimia nervosa. Da quanto detto fino ad ora, è possibile sostenere che i concetti di bulimia nervosa, obesità, disturbo da alimentazione incontrollata e dipendenza da cibo risultano essere separati gli uni dagli altri, ma spesso si sovrappongono. La dipendenza da cibo sembra essere una componente fondamentale di tutti 73 questi disturbi, sia essa vista come apprendimento (cibo → rilascio di dopamina → piacere), come modalità di far fronte a emozioni negative (stress, dolore, noia sono attutiti dal cibo, che viene utilizzato come un calmante o un antidepressivo), o come condizionamento da parte della società (che da una parte spinge ad essere perfetti e dall’altra a non faticare per raggiungere gli obiettivi, mettendo tutto alla portata di molti). Tuttavia, essa sembra esplicarsi in modo diverso a seconda della condizione in cui si presenta: si può essere dipendenti dal cibo facendo abbuffate come nel BED e nella BN. Si può mangiare “poco”, ma continuamente per tutta la giornata, come in alcune persone obese. Si può essere dipendenti da alcuni cibi in particolare, ma non mostrare alcun interesse per altri. Infine, si può essere dipendenti dal cibo, ma essere, per dirla alla maniera del DSM-IV-TR, sottosoglia, ossia non soddisfare i criteri per nessun disturbo, pur presentando alcuni sintomi. Evidentemente esistono dei meccanismi cerebrali per cui si può sviluppare una dipendenza dal cibo, anche per il fatto che il corpo umano permette l’eccessivo introito di cibo con una certa facilità, ma non sostiene altrettanto facilmente un ridotto apporto di cibo, perlomeno nel breve termine. Questa osservazione può essere spiegata dal fatto che il corpo umano, nel corso dell’evoluzione della specie, ha sviluppato dei meccanismi per difendersi dalla perdita di peso e, possibilmente, dalla morte. Ad esempio, come evidenziato da Dalle Grave (2002), più scarse sono la quantità di cibo e le calorie che vengono fornite all’organismo e più esso si adatta consumando il meno possibile e conservando energia. Inoltre, in assenza o scarsità di cibo, i meccanismi di controllo della fame e della sazietà sono alterati, spingendo la persona a mangiare di più. Invece, un maggiore introito di cibo è sostenuto dal corpo senza problemi, in vista anche di periodi di carestia nei quali del “grasso” in più può essere necessario alla sopravvivenza. Tuttavia, mentre il 74 corpo umano pensa in termini “antichi” dal punto di vista evolutivo, le persone vivono e pensano nel presente. Oggi, diversamente dalla preistoria o anche solo da 100 anni fa, sono disponibili cibi ipercalorici, molto appetibili e poco costosi che attivano processi sia biologici che psicologici particolari. Questi cibi, in particolare per la dipendenza da cibo, ma anche per gli altri disturbi sopra evidenziati, creano una vera e propria dipendenza in quanto seguono il tipico percorso delle dipendenze di abbuffata, astinenza, craving. Conclusioni La dipendenza da cibo è un concetto che necessita di approfondimenti per alcuni motivi. In primo luogo, da quanto emerge dalla letteratura internazionale, sembra che questa condizione segua lo stesso percorso biologico e comportamentale delle principali dipendenze da sostanze, quali tabacco, droghe illegali, alcol. Da questo punto di vista, la comprensione più profonda di tutti i meccanismi alla base di questa nuova dipendenza potrebbe far sì che il suo trattamento segua le orme di quelli, ormai ben validati, delle dipendenze classiche. In particolar modo, come evidenziato da Gearhardt e colleghi (2009), l’interesse per la dipendenza da cibo dovrebbe seguire quello mostrato per il tabacco. Esaminando la cultura americana, è possibile osservare che l’alcolismo è visto come una malattia. Questo modello in parte riduce lo stigma sociale associato all’alcolismo, togliendo la colpa dalla persona singola, ma in parte riduce anche le responsabilità delle industrie degli alcolici. Infatti, l’alcol è visto come qualcosa che tutti possono usare con moderazione e che rappresenta un problema solo per pochi individui ed è su questi che ci si dovrebbe concentrare, tralasciando 75 del tutto la parte relativa all’informazione e alla prevenzione. Per quanto riguarda il tabacco, invece, esso è visto come una sostanza che porta alla dipendenza per tutte quelle persone che ne fanno uso. Questa diversa visione ha portato a significativi cambiamenti nel modo di pubblicizzare e utilizzare la nicotina, tanto da far ridurre i livelli di fumo e da portare avanti un’adeguata campagna di prevenzione. Per questo motivo, il trattamento della dipendenza da cibo dovrebbe ricalcare i passi di quello per il fumo e iniziare da un’adeguata educazione alimentare e psicologica, continuare con una buona campagna di prevenzione e, in ultima analisi, pervenire ad un trattamento vero e proprio nei casi dove si riveli necessario. In secondo luogo, secondo fonti nazionali e internazionali (World Watch Institute, ISTAT, Ministero della Salute) sostengono che: 1 miliardo e 200 milioni di persone in tutto il mondo hanno problemi di peso, L’obesità è un’epidemia globale perché interessa oltre il 50% della popolazione adulta delle civiltà industrializzate, 23 miliardi di dollari è la spesa sanitaria annua per i soggetti con BMI > 29, 6 miliardi per i normopeso, l’obesità è una malattia riconducibile per il 50% a fattori genetici e per il 50% a fattori ambientali. Per questi motivi, l’obesità non è solo un problema della persona, ma diventa una questione che coinvolge l’intera società, sia per quanto riguarda il benessere generale che la spesa pubblica. Dal momento che la dipendenza da cibo risulta associata con l’obesità, sembra necessario approfondire in questo senso la conoscenza di questa condizione. Infine, sembra necessario prendere in considerazione anche quei casi dove la situazione psicologica e fisica della persona non è così grave da far 76 propendere per la presenza di una malattia, ma comunque si evidenziano comportamenti o affetti ricorrenti propri della dipendenza da cibo. Si tratta di quei casi in cui si riportano saltuarie abbuffate, sentimenti di colpa dopo aver mangiato più di quanto si era previsto, vergogna nel far sapere agli altri quanto si è mangiato, sensazioni fisiche di astinenza e craving. Questi episodi non si verificano con la frequenza o l’intensità simili a quelli di un disturbo, ma in alcuni casi, se non se ne capisce la causa, possono essere un fattore di rischio molto importante. Per questo motivo è necessario, come spiegato sopra, dare molta importanza alla prevenzione, unendo alle spiegazioni biologiche alla base delle dipendenze, un’educazione “psicologica”, riguardante emozioni, cognizioni e comportamenti, e una discussione critica sui modelli e i valori della società attuale. Bibliografia Alonso-Fernandez, F. (1999). Le altre droghe. Roma: E.U.R. American Psychiatric Association (2001), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV-TR), A.P.A, Washington, DC. Avena, N.M., Gold, M.S. (2011). Food and addiction: sugars, fats and hedonic overeating. Addiction, 106, 1214. Avena, N.M., Rada, P., Hoebel, B.G (2008). Evidence for sugar addiction: Behavioral and neurochemical effects of intermittent, excessive sugar intake. Neuroscience and Biobehavioural Reviews, 32, 20–39. Colantuoni, P., Rada, P., McCarthy, C., et al. (2005). Evidence that intermittent, excessive sugar intake causes endogenous opioid dependence. Obesity Research, 10, 478–488. Corwin, R.L., Grigson, P.S. (2009). Food addiction: fact or fiction? The Journal of Nutrition, 139, 617-619. 77 Dalle Grave, R. (2002). Perdere peso senza perdere la testa. Positive Press: Verona. Gearhardt, A.N., Corbin, W.R., Brownell, K.D. (2009). Food addiction: An examination of the diagnostic criteria for dependence. Journal of the American Medical Association, 3, 1–7. Gearhardt, A.N., Corbin, W.R., Brownell, K.D. (2009) . The preliminary validation of the Yale food addiction scale. Appetite, 52, 430–436. Gearhardt, A.N., Yokum, S., Orr, P.T., Stice, E., Corbin, W.R., Brownell, K.D. (2011). Neural correlates of food addiction. Archives of General Psychiatry, 68(8), 808-816. Gearhardt, A.N., White, M.A., Masheb, R.M., Morgan, P.T., Crosby, R.D., Grilo, C.M. (2012). An examination of the food addiction construct in obese patient with binge eating disorder. International Journal of Eating Disorders, 45(5), 657-663. Griffiths, M. (1997). Psychology of computer use: XLII. Some comments on ‘Addictive use of the Internet’ by Young. Psychological Reports, 80, 81-82. Gold, M.S., Byars, J.A., Frost-Pineda, K. (2004). Occupational exposure and addictions for physicians: case studies and theoretical implications. Psychiatric Clinics of North America, 27, 745–53. Ifland J.R., Preuss, H.G.,Marcus, M.T., Rourke, K.M., Taylor, W.C., Burau, K., Jacobs, W.S., Kadish, W., Manso, G. (2009). Refined food addiction: A classic substance use disorder. Medical Hypothesis, 72, 518-526. Johnson, P.M., Kenny, P.J. (2010). Dopamine D2 receptors in addictionlike reward dysfunction and compulsive eating in obese rats. Nature Neuroscience, 13, 635–641. Maddux, J. F., Desmond, D. P. (2000). Addiction or dependence? Addiction, 95(5), 661-665. Mitchell, J.E., Morley, J.E., Levine, A.S., Hatsukami, D., Gannon, M., Pfohl, D. (1987). High-dose naltrexone therapy and dietary counseling for obesity. Biological Psychiatry, 22, 35-42. Mulè, A., 2008. Aspetti neurobiologici delle nuove dipendenze. Nòoς, 2, 99-106. Pelchat, M.L., Schaeffer, S. (2000). Dietary monotony and food cravings in young and elderly adults. Physiology and Behaviour, 68, 353-9. 78 Pigatto A. (2003), La condizione di dipendenza patologica, in U. Zizzoli, M. Pissacroia (a cura di), Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, Piccin, Padova. Rigliano, P. (a cura di) (1998). In-dipendenze. Torino: Gruppo Abele. Shaffer, H. J. (1996). Understanding the means and objects of addiction: technology, the Internet, and gambling. Journal of Gambling Studies, 12(4), 461-469. Umberg, E.N., Shader, R.I., Hsu, L.K.G., Greenblatt, D.J. (2012). From disordered eating to addiction. Journal of Clinical Psychopharmacology, 32, 376-389. Wang, G.J., Volkow, N.D., Freimuth, P., et al. (2001). Brain dopamine and obesity. Lancet, 357, 354 –357. Wang, G-J., Volkow, N.D., Logan, J., Pappas, N.R., Wong, C.T., Zhu, W., et al. (2010). Brain dopamine and obesity. Lancet, 357, 354–357. Wideman, C.H., Nadzam, G.R., Murphy, H.M. (2005). Implications of an animal model of sugar addiction, withdrawal and relapse for human health. Nutritional Neuroscience, 8, 269 –276. 79 IL FENOMENO DELLA DE-UMANIZZAZIONE di Claudia Spolverini Introduzione L’essere umano, per sua natura, ha bisogno di riconoscimento sociale, in quanto vive ed agisce all’interno di un preciso contesto, e non in una condizione di vuoto semantico. L’uomo, come un animale sociale, è un’affermazione già formulata da Aristotele nell’antichità. Molti secoli più tardi, lo psicologo sociale Kurt Lewin (1935) riprese quest’affermazione di Aristotele, che in un suo scritto Psychosociological problems of a minority group, ha sostenuto che, all’interno di ogni gruppo, accadono fenomeni collettivi. Anzi, è attraverso questi ultimi che gli individui interagiscono, operano e si collocano correttamente nel processo di interazione e comunicazione. Dunque l’uomo diventa persona se entra in relazione con l’altro. Ma è possibile un processo inverso, di spersonalizzazione, una regressione, come la chiamerebbe Freud, nel processo di socializzazione? Negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un vero e proprio fenomeno di deumanizzazione. Una definizione di questo termine indica un processo secondo cui un gruppo asserisce e provoca l'inferiorità di un altro attraverso atti e strategie mirate; la de-umanizzazione ha lo scopo di creare gerarchie, dove chi sta più in alto ha un livello di dignità maggiore di chi si trova più in basso. 80 Ma questa definizione, secondo il mio pensiero, non è onnicomprensiva nella spiegazione di questo fenomeno. Per de-umanizzazione intendo il fenomeno per cui l’essere umano tende ad isolarsi dalla società, non ricoprendo più il ruolo di animale sociale, richiudendosi in sé stesso, come in una sorta di “bozzolo autistico”. La deumanizzazione è la logica conseguenza di una società globalizzata, conformista ed egoista, che tende a sopprimere la libertà di espressione di ognuno, a favore dell’omologazione di tutti. Ed in questo scenario, le relazioni interpersonali tendono sempre più a cristallizzarsi in scambi asettici di informazioni, privi di reali emozioni ed interessi. Questo tipo di situazione ha senza ombra di dubbio spianato la strada ad altri tipi di problematiche. Ad esempio, nell’era della de-umanizzazione, le persone si relazionano attraverso le moderne tecnologie: telefoni cellulari, videochiamate, social networks, chat ecc …, facendone un uso spropositato. Per meglio rendere comprensibile questo concetto: per esprimere la mia felicità rispetto ad un evento, utilizzo una emoticon (una faccina sorridente già pre-impostata nel cellulare o nelle chat) piuttosto che esprimerla esplicitamente (abbracciare qualcuno per la felicità, saltare di gioia, urlare di felicità, piangere di gioia …). Tutto dunque viene ridotto ad un semplice simbolo, che una volta inviato, ha riassunto il tuo stato emozionale in meno di un secondo. Il mio intento in questo articolo non è certo quello di demonizzare la tecnologia, che ritengo una cosa preziosa, che se utilizzata per i fini per i quali è stata creata, può sicuramente renderci la vita più facile, ma piuttosto indurre i lettori ad una riflessione. È la tecnologia a provocare questa de-umanizzazione? Oppure è l’uomo che se ne serve per divenire un animale anti-sociale? 81 La diatriba L’ecologia umana è una sottodisciplina dell’ecologia, che si occupa degli esseri umani. Più in generale, è uno studio interdisciplinare e transdisciplinare del rapporto tra gli individui e il loro ambiente naturale, sociale e quello che sono in grado di costruire. Il termine “human ecology” apparve per la prima volta nel 1907, in uno studio che riguardava le pratiche sanitarie a domicilio. La filosofia scientifica dell’ecologia umana ha una storia correlata ai progressi della geografia, della sociologia, della psicologia, dell’antropologia, della zoologia, della famiglia, della scienza del consumatore e dell’ecologia naturale. In generale, i teorici della “human ecology” tradizionale, enfatizzano il ruolo di base della competizione (e quindi delle variabili quasi strutturali che la coinvolgono: densità sul territorio ecc …), ed hanno finito col trascurare il ruolo delle variabili più propriamente sociali e culturali e col dare l’impressione di un vero e proprio determinismo bio-geografico sulla vita di una comunità (Gettys, 1940). Queste critiche sono oggi in gran parte superate nell’ambito di quelle aree disciplinari che dall’ecologia umana hanno ricevuto molti input: la sociologia dell’ambiente, la sociologia urbana, la psicologia ambientale, le quali tengono tutte conto di un ambiente definito non soltanto dalle sue caratteristiche strutturali ma anche, e soprattutto, da quelle sociali, culturali e psicosociali. Particolarmente interessante è la ripresa della “human ecology” in quell’ecologia psicologica che diviene una delle basi essenziali della psicologia di comunità, un’ottica che la psicologia ha sviluppato avendo a 82 disposizione praticamente un solo modello ispiratore, costituito dalla field theory di Kurt Lewin. Una caratteristica importante della psicologia di comunità è l’enfasi posta sulla cosiddetta << prospettiva ecologica >> (Rappaport, 1977), consistente nell’interesse per le relazioni degli individui tra loro in quanto comunità, raggruppamento sociale differenziato con sistemi elaborati di relazioni formali ed informali (Mann, 1978). Secondo tale prospettiva, il comportamento umano è visto in termini di adattamento della persona alle risorse e alle circostanze: si possono correggere gli adattamenti malriusciti modificando la disponibilità delle risorse, si possono cioè creare nuovi servizi, scoprire la forza di reti sociali esistenti, creare le condizioni per rafforzare l’uso di tali risorse. L’ecologia diventa nella psicologia di comunità una metafora fondamentale, che comprende sia un paradigma scientifico sia un set definito di assunzioni generali. Vi è, ad esempio, l’opinione che l’ambiente abbia effetti significativi sul comportamento umano e che perciò le persone possano spiegare e anche controllare il proprio comportamento mediante una comprensione maggiore delle influenze ambientali specifiche. Un altro aspetto è che, una volta raggiunta la comprensione, il soggetto ha l’obbligo di tradurla in azioni per migliorare la qualità di vita delle persone. Per Brofenbrenner (1979), invece, la comprensione del comportamento umano richiede l’esame di sistemi di più persone in interazione non limitata ad un solo contesto, e deve tener conto di aspetti dell’ambiente che vanno al di là della situazione immediata di cui fa parte il soggetto. Ciò che costituisce il cuore dell’orientamento ecologico così inteso, l’ecologia dello sviluppo umano, è l’interesse per il progressivo adattamento tra l’organismo umano che cresce e il suo ambiente immediato, nonché per il modo in cui tale relazione viene mediata da forze che derivano da ragioni più remote, 83 appartenenti ad un ambiente fisico e sociale più ampio. Lo scopo dell’autore è quindi di ampliare il concetto di “ambiente ecologico”, rispetto alle definizioni precedenti, vedendolo come una serie ordinata di strutture concentriche, incluse l’una nell’altra, simili ad una serie di matriosche, denominate microsistema, mesosistema, ecosistema e macrosistema. Il microsistema è quel complesso di relazioni esistenti tra la persona e l’ambiente di cui la persona ha esperienza diretta, quali ad esempio la casa, la scuola, il gruppo di lavoro. Include gli oggetti e le persone con cui l’individuo interagisce e le connessioni che si svolgono in tale ambiente tra le altre persone. Il mesosistema è definito un sistema di microsistemi, in quanto comprende due o più contesti ambientali, a cui l’individuo partecipa in modo attivo, e le loro connessioni. Le ricerche condotte a questo livello consentono di indagare gli effetti congiunti dei processi che si verificano in più microsistemi. Esempi sono le ricerche che analizzano i rapporti tra la famiglia e il gruppo dei pari, le relazioni tra famiglia e scuola, oppure, per un adulto, tra famiglia, lavoro e vita sociale. L’esosistema è costituito da una o più situazioni ambientali a cui l’individuo non partecipa direttamente, nei quali però si verificano eventi che influenzano l’ambiente con cui la persona ha contatto. Esempi tipici sono, nel caso di un bambino piccolo, il rapporto tra i processi intrafamiliari ed il posto di lavoro dei genitori (si pensi agli effetti dell’insoddisfazione del lavoro materno sulle relazioni madrebambino). Il macrosistema rappresenta il contesto sovrastrutturale che condiziona i sistemi di livello più basso ed è legato a culture, subculture e organizzazioni sociali più ampie, con i relativi sistemi di credenze, norme, ideologie. Questi complessi di credenze e norme comportamentali vengono trasmessi da una generazione all’altra attraverso i processi di socializzazione condotti dalle varie istituzioni della cultura, come la 84 famiglia, la scuola, la chiesa, il luogo di lavoro e le strutture politicoamministrative. In sostanza, la prospettiva di Brofenbrenner sul problema individuoambiente è molto articolata, in quanto cerca di recuperare nell’ambito dell’approccio ecologico, la prospettiva sistemica, e quindi interattiva ed olistica. Viene proposta una concezione di ambiente sociale che comprende la dimensione soggettiva, cioè i modi in cui l’individuo vive il proprio ambiente e contribuisce a costruirlo intorno a sé. Le caratteristiche biologiche, cognitive e di personalità dell’individuo partecipano a definire alcune caratteristiche dei contesti con cui l’individuo interagisce nel corso del suo sviluppo. Tali contesti, dal più vicino al più remoto, vengono analizzati nelle loro dimensioni più generali e nelle loro interconnessioni, nelle loro trasformazioni relative sia al ciclo di vita, sia alle modificazioni più ampie storiche e culturali, in cui gli individui sono coinvolti. Questa prospettiva porta l’autore ad elaborare il concetto di <<nicchie ecologiche >>, definite come quelle regioni dell’ambiente che sono particolarmente favorevoli o sfavorevoli per lo sviluppo di individui che hanno determinate caratteristiche. La definizione delle combinazioni di fattori personali ed ecologico-sociali, che operano congiuntamente nel produrre risultati evolutivi, nonché l’individuazione delle relative nicchie ecologiche è di grande importanza, come sottolinea Varin (1995), per lo studio dei gruppi a rischio di sviluppo, specie se vengono condotte ricerche di tipo longitudinale. Dalla letteratura, emerge quasi in maniera uniforme, la tendenza a sottolineare che l’ambiente abbia effetti significativi sul comportamento umano. 85 Dunque ogni essere umano viene influenzato dall’ambiente che lo circonda, in tutte le azioni che egli mette in atto. Questo potrebbe essere uno dei motivi alla base della de-umanizzazione. Se l’individuo si dovesse imbattere in “nicchie ecologiche” particolarmente sfavorevoli per l’individuo, questo porterebbe indubbiamente a manovrare il comportamento dell’individuo stesso. La spersonalizzazione che vive la società odierna è figlia di una società che sta pietrificando la socializzazione, sostituendola con altri processi, come l’omologazione, il conformismo e quello che io chiamo qualunquismo, ovvero una perdita parziale o totale della propria identità, dei propri valori, del proprio Sé. Oggi viviamo in un’epoca dove non viene favorito il processo di costruzione della persona. Ogni individuo deve continuamente lottare per far rispettare i propri doveri, i propri diritti, la propria unicità! Da questo deterioramento sociale, ne consegue un più generale deterioramento di tutte le relazioni dell’individuo all’interno del suo ambiente di vita. Molte situazioni della vita contemporanea portano alla spersonalizzazione e alla de-umanizzazione (Bernard, Ottember e Redl). La burocrazia, l’automazione, l’urbanizzazione e la forte mobilità geografica portano a rapporti reciproci anonimi, impersonali. Per di più, le pratiche sociali che dividono le persone in membri accettati o non-accettati dai gruppi producono un effetto di estraniamento che incoraggia la de-umanizzazione. La denuncia di una de-umanizzazione crescente dei rapporti non viene solo dal mondo sociale, ma anche da ambiti autorevoli e importanti come quello creativo (arti visive, cinema, letteratura), quello della riflessione filosofica e spirituale. Mondi diversi, approcci filosofici tra loro estremamente lontani, personalità impegnate su fronti in apparenza non comunicanti ci mettono di fronte alla 86 tragedia sociale costituita dalla spersonalizzazione, ovvero dal privare una persona dell’identità che la distingue. Le parole di una critica d’arte come Bice Couriger, la studiosa svizzera curatrice della Biennale d’arte di Venezia del 2011, e quelle di un pastore e teologo come il cardinale Dionigi Tettamanzi, già arcivescovo di Milano, dall’altra, approdano a conclusioni veramente simili. In sintesi, entrambi sostengono che solo una veloce inversione di rotta, che ponga al centro di ogni attenzione la persona, potrà salvarci dall’autodistruzione. C’è bisogno, per contrastare la crescente spersonalizzazione e de-umanizzazione della nostra società, di illuminazioni in campo artistico, certo, ma anche in campo sociale; è necessario in tutti gli ambiti celebrare il potere dell’intuizione, la possibilità di esperire attraverso il pensiero favorito dall’incontro con la bellezza e con la sua capacità di affinare gli strumenti di percezione. C’è forse bisogno, anche, di un ritorno ad apprezzare le cose semplici, la grandezza e l’unicità del condividere con gli altri le proprie emozioni, paure, la propria speranza in un futuro migliore, piuttosto che isolarsi in sé stessi, ed utilizzare le tecnologie come forma di comunicazione prevalente. Non a caso, la maggior parte degli 84 artisti di tutto il mondo a Venezia per Illuminations ha evidenziato, nelle proprie opere, il buio di società indifferenti e disumane, un buio rischiarato solo dal punto di luce costituito dall’ illuminazione di chi sa e vuole imboccare strade nuove, di chi sceglie consapevolmente di non volersi omologare, di voler difendere la propria unicità e la diversità, come valore aggiunto per l’intera società. Nel suo libro De-umanizzazione. Come si legittima la violenza (2011), Chiara Volpato tratta il tema della spersonalizzazione dell’altro e delle sue conseguenze. La sua tesi è ormai entrata nel patrimonio culturale di chi studia queste tematiche già da molti anni, e si può racchiudere nell’ idea 87 della strutturale inclinazione alla sottrazione di qualità umane all’oggetto di violenza o di una discriminazione, intendendo questo processo sia come fattore generatore, sia come condizione indispensabile dell’atteggiamento conflittuale-escludente. criminologia alla Studi storiografia, interdisciplinari dalle scienze che oscillano psico-sociali a dalla quelle pedagogiche, hanno elaborato a più livelli la fenomenologia del processo di disumanizzazione, o de-umanizzazione. È stato notato spesso come un serial killer manifesti quasi sempre il bisogno di coprire o sfigurare il volto della sua vittima, per poter sopportare il peso morale della violenza perpetrata. Nel vivere quotidiano, riusciamo a nostra volta a giustificare un nostro comportamento discriminatorio o dannoso nei confronti di altri soggetti, soltanto rappresentandoli come inferiori, inetti, ignobili. Ciò accade palesemente nei fenomeni di bullismo. Ingenuamente i ragazzi, testati su questo tema, lasciano trapelare la loro idea della vittima come definita da tratti personali che ne segnano la vocazione alla subalternità. I gruppi sociali indugiano spesso in strutture lessicali disumanizzanti. Penso, ad esempio, alla definizione dei giovani anticonformisti come "zecche" da parte dei figli della borghesia, e, viceversa, il paragone tra i fascisti e i "topi", il cui destino sarebbe quello del ritorno nelle fogne. Un primo grado di de-umanizzazione è senz'altro quello che sta alla base delle letture dei rapporti inter-umani sulla base di una chiave xenofoba. Il gruppo sociale ostile è privato di pensieri e sensibilità "umane", e dunque è più facilmente aggredibile, ed è così più agevole sostenere il peso dei propri comportamenti distruttivi. Non a caso, la rappresentazione del nemico in chiave zoologica è propria dei contesti bellici, dove pure si ricorre con frequenza alla metafora igienico-sanitaria, per cui gli "altri" sono equiparati a pidocchi, parassiti, virus da debellare attraverso un'operazione di igiene sociale. Si riconosce 88 bene la pervasività di questo linguaggio, verbale e grafico, nella propaganda nazista e fascista (ad esempio nella rivista Difesa della razza). Si intrecciano in questa tematica problemi diversi, che richiedono differenti e strutturate ricostruzioni storiche e culturali, e che qui vengono schiacciate un po' troppo sulla dinamica psicosociale, che attraversando disinvoltamente le epoche della storia all'insegna di un elemento di convergenza tra fenomeni assai eterogenei, rischia di rompere uno dei fattori più qualificanti della psicologia sociale stessa, cioè il suo radicamento alle culture di riferimento. Gli autori ai quali si ispira il discorso dell'autrice, sono principalmente Zimbardo, noto per le sue ricerche psicosociali sugli abusi di potere e sul conformismo, e Bandura, uno degli psicologi più importanti del Novecento, e metodologicamente più innovativi. Ma questi autori non possono essere sufficienti a cogliere, neanche in parte la problematica - ad esempio - della Shoah. Dopo aver illustrato i principali riferimenti teorici nell’ambito della spersonalizzazione e della de-umanizzazione, resta ancora da chiarire se questi processi siano la causa del deterioramento nel processo di socializzazione oppure siano essi stessi causati da esso. Dunque, non vi è dubbio che il deterioramento sociale sia correlato della de-umanizzazione, ma ad oggi probabilmente non siamo ancora in grado di stabilirne i rapporti di causa-effetto che legano questi due fenomeni. Questa diatriba ricorda molto quella tra il fenomeno della de-umanizzazione e l’uso spropositato delle tecnologia. Come rispondere alle domande: È dunque la tecnologia a provocare questa de-umanizzazione? Oppure è l’uomo che se ne serve per divenire un animale anti-sociale?È il deterioramento, la crisi della società a provocare questa de-umanizzazione o viceversa? 89 Rispondere a queste domande è veramente molto difficile, perché siamo in grado solo di dimostrare che esiste una correlazione oggettiva, ma non possiamo stabilirne i nessi di causa-effetto. La mia personalissima opinione, in merito a questo argomento, è che la crisi profonda della nostra società, questo deterioramento e disgregamento della sua identità comunitaria, sia alla base di questa de-umanizzazione e spersonalizzazione. Sarebbe troppo facile, e anche fin troppo comodo, trovare dei capri espiatori per dar loro la colpa dei nostri fallimenti come società. Lo sferrarsi contro la tecnologia, perché ritenuta colpevole di indurre dipendenza negli esseri umani (dipendenza da internet, da videogiochi, dai social networks), non è altro che un modo per spostare l’attenzione dal problema, e per non affrontarlo direttamente. La società odierna porta l’individuo a rinchiudersi in sé stesso, a diffidare degli altri, a mantenere i propri rapporti sociali al minimo, spesso basati su scambi di convenienza, ed in questa perdita generale del piacere di condividere con gli altri le proprie emozioni e la propria vita, in quanto animale sociale, l’uomo si trova a doversi adattare nuovamente ad una situazione per lui estranea, e lo fa scegliendo di astenersi dal vivere sociale, regredendo così ai primordi dell’evoluzione, dove forse qualche nostro antenato viveva in delle caverne, isolato dal resto del mondo, una vita solitaria. Con l’aumentare del progresso, quando ci sarebbero dunque le condizioni favorevoli per vivere in una società migliorata qualitativamente da questo incessante sviluppo evolutivo e tecnologico, si manifesta invece una regressione nell’uomo, nel costruirsi come persona. 90 Conclusioni In questo articolo è stato trattato il fenomeno della de-umanizzazione da diversi punti di vista, cercando di indurre e spronare i lettori ad una riflessione profonda, nella propria intimità, riguardo a questa tematica. Personalmente, ritengo che solamente con la collaborazione di tutti si possa migliorare la nostra società, e renderla un luogo di confronto e di condivisione, e non solo di scontro ed isolamento, e che grazie al lavoro di tutti, si possa provare ad arrestare quest’ incessante regressione. Dunque, credo che dovremmo finalmente scegliere da quale parte stare: esseri umani o disumani? Bibliografia Amerio, P. (2000). Psicologia di Comunità. Il Mulino, Bologna Amerio, P. (2007). Fondamenti di psicologia sociale. Il Mulino, Bologna. Lewin, K. (1935). Psycho-sociological problems of a minority group. The Journal of Personality, 175-187. Orford, J. (1995). Psicologia di Comunità. FrancoAngeli Editore, Milano. Volpato, C. (2011). Deumanizzazione. Come si legittima la violenza . Editori Laterza, Roma. Zani, B., Palmonari, A. (1996). Manuale di Psicologia di Comunità. Il Mulino, Bologna. Zani B. a cura di (2012). Psicologia di comunità: Prospettive, idee, metodi. Carocci, Roma. 91 STORIA DI GIANNA di Alessandra Turchetti E’ stato un incontro toccante quello con Gianna Jessen, la ragazza americana, oggi trentacinquenne, sopravvissuta all’aborto a cui sua madre decise di sottoporsi al settimo mese di gravidanza, e che ora attraversa i continenti per dare la sua testimonianza di vita. Ho avuto il piacere di conoscerla in occasione del convegno organizzato per la 35° Giornata per la vita dal Movimento per la Vita fiorentino dal titolo “La vita è bella, insieme bellissima”. Comunque la si pensi sull’aborto, le sue parole attraversano il cuore. Qualcosa non è andato per il verso giusto quel giorno, o, come racconta Gianna, è andato tutto meravigliosamente bene, lasciando trapelare da subito un forte sentimento di fede. “Sono qui per dire che ognuno di noi è immensamente amato da Dio. Questo è il mio messaggio numero uno. Tutto quello che dobbiamo fare è lasciarci semplicemente amare da Lui”. Ma cosa è successo esattamente? La mamma biologica di Gianna decide di abortire nel 1977, a soli diciassette anni, la stessa età del padre, ma è ormai è già al terzo trimestre di gravidanza, e dai medici di una delle maggiori cliniche americane per aborti le viene consigliato di sottoporsi alla procedura del cosiddetto “aborto salino tardivo”. La pratica è diffusa e consiste nell’iniettare nell’utero materno una soluzione salina che provoca ustioni esterne ed interne al feto fino a soffocarlo. Gianna viene però partorita viva nonostante la somministrazione 24 ore prima della soluzione. “Devo la mia vita al fatto che quel giorno il medico abortista non era ancora entrato in servizio”, racconta Gianna. “Se non fosse stata l’infermiera presente che ha immediatamente chiamato i soccorsi, io non sarei qui. Dopo 18 ore ero ancora viva, e così è cominciata la mia avventura umana”. Fino al 2002, in America era concesso di sopprimere la vita di un bambino sopravvissuto all'aborto mediante 92 strangolamento, soffocamento o lasciandolo in disparte fino al momento della morte. Il governo Bush ha emanato nel 2002 il "Born Alive Infants Protection Act", una legge che assicura l’assistenza e le cure al sopravvissuto di qualunque pratica abortiva. “Chiunque al mio posto ora si salverebbe, ma allora, è stato solo un ritardo nell’entrata in servizio del medico di turno a darmi la possibilità di vivere”, ha continuato. “La verità è che io vivo grazie a Colui che ha voluto che mi salvassi e testimoniassi che i progetti umani non contano nulla di fronte al Suo amore”. A 17 mesi Gianna viene adottata. Gli effetti dell’aborto sono una paralisi e trauma cerebrale ma, nonostante i medici continuino a ripetere che non ce l’avrebbe fatta a curare le sue disabilità, la bambina migliora grazie alle tante ore di fisioterapia fatte insieme a mamma Penny che si dedica al suo recupero con grande impegno. “Devo tutto a mia madre - spiega Gianna che ha creduto nella mia guarigione, al fatto, ad esempio, che prima o poi sarei riuscita anch’io ad alzare la testa. A tre anni sono stata in grado di camminare grazie a dei tutori e ad un deambulatore. Ho avuto due operazioni chirurgiche ma la situazione ora è molto buona”. Gianna, infatti, si sposta autonomamente e riesce a viaggiare. “Zoppico, come vedete, ma va bene”, aggiunge. “Il problema vero, credetemi, non è questo, anzi, la vita è addirittura più interessante così. Quello che mi preme dire è: se l’aborto è una questione dei diritti delle donne, dove erano i miei diritti quel giorno?”. Il tono della voce si alza quando afferma che è terribile arrogarsi il diritto di decidere della vita di un’altra persona. “Pensiamo ai disabili. Se si vede dall’ecografia che il bambino nascerà disabile, per intendersi, meglio interrompere la gravidanza, come se la qualità della vita e l’anima dipendessero dalla forma del corpo. Sono i deboli, sempre messi in disparte, a possedere la luce di Dio”. L’entusiasmo di Gianna è così forte da farle girare il mondo per portare un messaggio di speranza. “Nessuno può dirvi chi siete e che cosa potete o non potete fare, come i medici che negavano qualsiasi possibilità di progredire a 93 mia madre. La mia missione è questa: dire a chi ha il cuore spezzato che non è dimenticato, che può essere libero e opporsi alla violenza, al dolore, alla crudeltà che spesso sono nel mondo”. La “bambina di Dio” lascia il segno. “Dalle avversità può nascere una grande gioia. Io non posso stare in questo mondo senza testimoniare l’amore di Cristo che ogni giorno ringrazio per il dono della vita che mi ha voluto fare. L’odio degli uomini non ha vinto, ben poca cosa rispetto alla Sua misericordia”, ha concluso Gianna. 94 LA CURA SCHOPENHAUER DI IRVIN D. YALOM E S. PRINA Recensione di Elisa Selmi La cura Schopenhauer è un bel libro, se non ne sapete niente di filosofia, di psicanalisi e di voi stessi. Avvincente, coinvolgente, colorato. Superficiale, consumistico, americano. Tutti questi aggettivi si adattano benissimo al romanzo. Decidete voi da che parte stare. A me è sembrato di leggere una grossa copia di un'opera d'arte: con spirito tutto a stelle e strisce, l'autore prova a rendere semplice ciò che per sua natura è profondo e complicato ed il risultato è il fast food, o meglio, il fast-philosophy che può piacere solo a chi la filosofia vera non l'ha mai mangiata. Lo so, giudizio severo ed integralista, ma potendo scegliere, chi mangerebbe la mozzarella dell'Ohio piuttosto che quella di Caserta? Personaggi carini, a volte un po' confusi: situazioni cliché un po' stile Hollywood. Il libro l'ho letto volentieri e sono arrivata fino in fondo, proprio perché i temi affrontati sono talmente universali che anche solo superficialmente sono interessanti. Insomma, se siete sotto all'ombrellone, questo libro non solo sarà una lettura piacevole, ma servirà a farvi sembrare un grande intellettuale con il vicino di lettino. 95 UNA PICCOLA RIFLESSIONE SU TANIZAKI, CASANOVA E LA VITA di Paolo Cardoso “Sarebbe un grosso sbaglio concludere che, poiché non riesco più a scrivere, ho esaurito il mio talento. La mia creatività non è nella scrittura, ma nella vita stessa, è in essa che si realizza la mia vera arte.” Jun’chiro Tanizaki “ Jotaro” Può sembrare strano l’associazione del titolo, ma io che sono un grande amante di Giacomo Casanova scrittore, che attraverso i suoi scritti ci ha lasciato un quadro bellissimo di cos’era la vita in Europa nel ‘700, e che ho letto molti saggi e libelli scritti su di lui, ho sempre avuto la sensazione che mi sfuggisse qualcosa. La sua vita avventurosa, i suoi sbagli, l’aver dissipato fortune ed essere finito poi a morire in miseria nello sperduto castello di Dux. Si potrebbe e lo hanno già fatto scrivere interessanti studi psicologici su di lui. L’essere stato in pratica trascurato dai genitori, il non essere nato nobile vivendo in un ambiente di nobili. Lui alla fine ha frequentato tutte le Corti d’Europa, ma è stato sempre un protagonista marginale, accolto solo per la sua prestanza e per la sua intelligenza, non per il suo status di nascita. Poi ho letto Jotaro di Tanizaki ed ho trovato la frase che ho scritto all’inizio. D’un tratto ho capito ciò che mi girava nella testa senza manifestarsi. Ovvero che l’aspetto veramente affascinante di Casanova non è la sua ricerca continua delle conquiste femminili, né la ricchezza, né la passione per il gioco. Era, molto più semplicemente, il sentirsi davvero vivo solo quando metteva in atto la sua creatività. Quando si gettava a capofitto nelle sue conquiste, nell’architettare modi per ingannare le ricche signore. 96 Quando riconcorreva la fortuna al gioco. Quando scriveva e passava da un genere letterario ad un altro. La sua fuga dai Piombi fu un impresa unica ed epica, ed invece di arrendersi all’avversa sorte si gettò con tutto se stesso nel trovare un modo per realizzare ciò che nessuno, prima di lui, era riuscito a fare. La sua insaziabile curiosità, un po’ tipica dell’uomo colto del ‘700, lo spinse a spaziare in ogni campo: in quello musicale, militare, di scrittore e traduttore, di analista politico, di giocatore e si potrebbe proseguire per molto. In effetti “l’Histoire de ma vie” e “La mia fuga dai Piombi” sono due capolavori, due opere di arte letteraria. Giacomo Casanova e Jun’chiro Tanizaki semplicemente vivendo e rincorrendo sé stessi hanno creato la loro opera d’arte. Oggi, purtroppo, la vita ci lascia meno spazi e meno opportunità, rispetto a loro. Però è solo rendendosi conto che ciò che ognuno deve fare, per dirla con Nietzsche, è “diventare sé stessi”. L’unico modo che esiste per fare l’arte è essere l’artista di sé stesso. E’ rincorrere a qualsiasi costo, i nostri sogni e non permettere a niente e nessuno di fermarci o distrarci. In oriente dicono che la vita che ci è data è un grande privilegio ed ognuno di noi si dovrebbe porre la domanda se davvero sta vivendo la sua vita o se la sta facendo scivolare addosso. Forse il senso del tempo che passa è proprio questo. Nessuno sa quanto ne ha ancora, per cui nessuno può permettersi di non viverlo. Io credo però che, per vivere veramente, bisogna anche avere una grande attenzione a chi ci circonda ed al mondo in cui viviamo, che è poi il messaggio che in ogni sua opera Erich Fromm ha mandato. Se noi riusciamo ad essere noi stessi, a sentire e vivere i propri sentimenti, ad ascoltare ed aver cura degli altri, noi creiamo la nostra opera d’arte. 97 L’Associazione Erich Fromm Firenze propone un incontro su: "Le patologie da stress lavoro correlato: difficoltà della diagnosi clinico eziologica" giovedì 4 aprile 2013, ore 15 Presso CESVOT Via Ricasoli 9 – Firenze Ore 15,00 Introduzione del Presidente dott. Paolo Cardoso, Psicoterapeuta e psicologo del lavoro Ore 15,30: "Le patologie stress lavoro correlate: la diagnosi di malattia professionale" Dott. Rodolfo Buselli Ambulatorio per lo Studio del Disadattamento Lavorativo U.O. Medicina Preventiva del Lavoro Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana Ore 16: “Stress lavoro-correlato: il punto di vista dell’INAIL” Dott. Marco Roggi - Dirigente Medico di II livello INAIL Firenze. 98 Ore 16,30: “L’esperienza di un RSPP in azienda.” Arch. Nicole Antoniozzi - RSPP. Ore 17,00 “La valutazione dei rischi come primo elemento di analisi per la gestione del rischio stress correlato al lavoro” Dott. Pier Luigi Faina - Dirigente medico U.F.PISLL Zona Mugello Dipartimento di prevenzione Asl 10 Firenze Ore 17,30 Domande del pubblico Con il patrocinio dell’Ordine Provinciale dei Medici- Chirurgi ed Odontoiatri di Firenze 99 L’Associazione Erich Fromm Firenze propone un incontro su: "Le Nuove Dipendenze" giovedì 18 aprile 2013, ore 15 Presso CESVOT Via Ricasoli 9 – Firenze Ore 15: Introduzione del Presidente dott. Paolo Cardoso, psicoterapeuta e psicologo del lavoro Ore 15,30: " Gli adolescenti, la scuola e le nuove dipendenze “ Dott.ssa Elisa Romolini, psicologa Ore 16: “ Gli interventi del Volontariato: la Formazione dei Volontari ” Dott.ssa Claudia Spolverini, psicologa Ore 16,30: “ Gli interventi del Volontariato: i Servizi del Volontariato “ Dott.ssa Eleonora Sirsi, psicologa 100 Ore 17,00: “Disturbo Ossessivo Compulsivo e dipendenza da cybersex” Dott. Giampaolo La Malfa, psichiatra, neurologo, psicoterapeuta - Università degli Studi di Firenze Ore 17,30: Domande del pubblico 101 7 maggio 2013 dalle 16 alle 18 Presso Il Quartiere 2 Villa Arrivabene P.za Alberti 1/a Memoria , attenzione e concentrazione nella terza età: normale decorso o iniziale malattia? Saluti del presidente Associazione E. Fromm: Dott. Paolo Cardoso Introduzione a cura della Dott.ssa S. Gnaldi, psicologa - psicoterapeuta Invecchiamento e longevità; Stabilità e cambiamento della persona: guadagni e perdite funzionali con l’invecchiamento. Qualità della vita come mantenimento dello stato cognitivo e funzionale. Aspetti cognitivi a cura della Dott.ssa C.Gambetti, psicologa - neuropsicologa Le capacità cognitive: descrizione e funzionamento. L’invecchiamento: come si sviluppa la funzionalità del cervello e il limite fra normale decorso e malattia. Pseudodemenza o Neurodegenerazione? L’importanza dei fattori depressivi. Adattamento al contesto: come modificare l’ambiente, la casa e il comportamento in caso di difficoltà. 102 Aspetti psicologici a cura della Dott.ssa S.Gnaldi, psicologa - psicoterapeuta Vissuto emotivo del cambiamento Caratteristiche della nuova relazione Proposte di intervento a cura della Dott.ssa Gambetti, psicologa - neuropsicologa 103 L’Associazione Erich Fromm Firenze In collaborazione con Vi invita all’incontro sul tema: "I vantaggi economici per le aziende di una corretta valutazione dello stress lavoro correlato" venerdì 17maggio 2013, ore 15 Presso CESVOT Via Ricasoli 9 – Firenze Ore 15: Introduzione del Presidente dott. Paolo Cardoso, Psicoterapeuta e psicologo del lavoro Presentazione AISL_O: dr.ssa Maria Grazia De Angelis, Presidente AISL_O 104 Ore 15,45: "Metodologie di valutazione dello stress lavoro correlato: sostenibilità e vantaggi per le aziende” Dr.ssa Patrizia Deitinger, Psicologa del lavoro, Primo Ricercatore ex-ISPESL e socia AISL_O Ore 16,30: “Indagine sulla valutazione dello stress lavoro correlato: il punto di vista degli RLS” Dott.ssa Paola Mencarelli, Psicologa del lavoro e psicoterapeuta Uil Milano e Lombardia. Ore 17,00: Domande del pubblico 105