Paura e meraviglia – III.4 Horkheimer e Adorno (1)

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Quarto
La paura del Piacere:
la riflessione della scuola di Francoforte
sulla società tecnologica borghese
di Nicola Zuin e Alessandro Genovese
Vista come la lunga ricerca di saperi e tecniche utili all'ideale della
razionalizzazione del mondo finalizzata a renderlo plasmabile e
soggiogabile da parte dell'uomo, la storia universale coincide con
l'illuminismo e la civiltà industriale contemporanea ne rappresenta la
perfetta realizzazione. Ma il prezzo da pagare è la felicità: solo tappando
le orecchie dei suoi compagni e facendosi legare all'albero della nave,
Ulisse può ascoltare il canto delle sirene senza cedere al suo struggente
richiamo al piacere e alla felicità.
Horkeimer e Adorno rileggono la storia della civiltà occidentale e mostrano come essa sia,
per essenza, tutta illuminismo: in questa coincidenza, tuttavia essi leggono un drammatico
conflitto dell’uomo con la (sua) natura.
Se l’auto-narrazione positiva dell’illuminismo racconta della progressiva emancipazione
dell’uomo dalla natura e del progressivo controllo e dominio che egli impone sulla natura,
A. e H. raccontano il lato oscuro e più profondo di questa storia, mostrando l’illusorietà
del dominio umano e la potenza vendicatrice della natura.
L’eclisse della ragione
Per comprendere più a fondo la critica che A. e H. muovono all’Illuminismo, è utile
richiamare Eclisse della ragione, l’opera che Horkheimer pubblicò nel 1947, nata da una
serie di lezioni tenute alla Columbia University nel 1944, mentre con Adorno metteva a
punto i testi della Dialettica dell’illuminismo.
Come spiega Horkheimer nella Prefazione, l’intento di Eclisse della ragione «è quello di
esaminare il concetto di razionalità che sta alla base della contemporanea cultura industriale e di
cercare di stabilire se questo concetto non contenga difetti che lo viziano in modo essenziale».
Secondo H., infatti,
«nel momento stesso in cui le conoscenze tecniche allargano l’orizzonte del pensiero e
dell’azione degli uomini, diminuiscono invece l’autonomia dell’uomo come individuo, la sua
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capacità di difendersi dall’apparato sempre più potente e complesso della propaganda di
massa, la forza della sua immaginazione, la sua indipendenza di giudizio. Al progresso delle
risorse tecniche che potrebbero servire a ‘illuminare’ la mente dell’uomo si accompagna un
processo di disumanizzazione; così il progresso minaccia di distruggere proprio quello scopo
che dovrebbe realizzare: l’idea dell’uomo» (Eclisse della ragione, pp. 9-10)
Nella sua analisi, tanto acuta quanto spietata, H. parte dalla distinzione tra la ragione
oggettiva e la ragione soggettiva, e dalla constatazione del predominio, nella moderna società
industriale, della seconda sulla prima. Per ragione oggettiva H. intende quella ragione che è
«riflesso della vera natura delle cose», e che esprime «lo sforzo e la capacità di riflettere l’ordine
oggettivo della realtà»; una ragione, dunque, operante «nei rapporti fra gli essere umani e fra le
classi sociali, nelle istituzioni sociali, nella natura e nelle sue manifestazioni», e per questo capace
di «scoprire una struttura fondamentale, comprensiva di tutta la realtà» e di dedurre da questa
«una concezione del destino umano».
Nella civiltà industriale, invece, a prevalere è la ragione soggettiva, interessata soprattutto al
«rapporto fra mezzi e fini». Tale ragione «non attribuisce molta importanza alla questione se in sé
gli scopi siano ragionevoli. Se si preoccupa dei fini (ammesso che lo faccia), dà per certo che essi
siano ‘ragionevoli’ in senso soggettivo, che cioè corrispondano all’interesse del soggetto per
l’autoconservazione» (p. 11). La ragione soggettiva è ridotta quindi a semplice «capacità di
calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine», e H. fa risalire la sua
nascita ai pensatori inglesi, a partire da John Locke.
Nel predominio della ragione soggettiva a spese di quella oggettiva, H. individua così
quella che lui definisce, appunto, «eclisse della ragione»:
«La crisi odierna della ragione consiste fondamentalmente nel fatto che a un certo punto il
pensiero è diventato incapace di concepire una tale oggettività, o ha cominciato a negarla
affermando che si tratta di un’illusione ... Per la concezione soggettivistica, il pensiero non
può essere di nessuna utilità per stabilire se un fine è desiderabile in sé. La validità degli
ideali, i criteri delle nostre azioni e convinzioni, i principi basilari dell’etica e della politica,
tutte le nostre decisioni fondamentali son fatti dipendere da fattori diversi dalla ragione: da
una scelta, da una predilezione soggettive. Ed appare ormai privo di senso parlare di verità
nel prendere decisioni pratiche, morali o estetiche» (pp. 14-15).
Nell’età moderna, dunque, secondo H., «la ragione ha rivelato una tendenza a dissolvere il
proprio contenuto oggettivo». In questa prospettiva, «il pensiero può servire per qualunque scopo,
buono o cattivo. È uno strumento di tutte le azioni della società, ma non deve cercare di stabilire le
norme della vita sociale o individuale, che si suppone siano stabilite da altre forze». La ragione
finisce così per essere ridotta a «una facoltà intellettuale di coordinazione, la cui efficienza può
essere aumentata con l’uso metodico e con la rimozione di tutti i fattori non intellettuali, come le
emozioni consce o inconsce» (p. 15).
Al trionfo della ragione soggettiva H. attribuisce inoltre il «divorzio della ragione dalla
religione». Con la Francia del sedicesimo secolo, infatti, e con il nuovo concetto di ragione
che si afferma,
«le controversie religione non vennero più prese sul serio e nessun credo o ideologia parvero
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più meritevoli di essere difesi fino alla morte. Questo concetto della ragione era
indubbiamente più umano ma nello stesso tempo più debole del concetto religioso di verità,
più facile ad arrendersi agli interessi prevalenti e ad adattarsi alla realtà così com’è» (p. 19).
La ragione illuministica, insomma, secondo H. «ha liquidato se stessa in quanto strumento di
comprensione etica, morale, religiosa», e, «avendo rinunciato alla sua autonomia, è diventata
uno strumento, aggiogandosi completamente al processo sociale:
«Unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare
gli uomini e la natura … Si potrebbe dire che il pensiero stesso è stato ridotto al livello dei
processi industriali, assoggettato a tabelle orarie rigorose; in breve, che sia diventato parte
integrante del processo di produzione». (p. 25).
Le conseguenze di questo processo sono, secondo H., devastanti: il linguaggio stesso è
ridotto a «uno strumento come gli altri, nel gigantesco apparato di produzione della società
moderna», e «il significato è soppiantato dalla funzione, dall’effetto sul mondo delle cose e dei fatti».
La vittima più illustre di questa degenerazione è dunque la verità:
«Il controllo della società impone dei limiti alla ricerca di verità. Si crede che non esista
nessuna differenza fra pensare ed agire: così ogni pensiero è considerato un atto, ogni
riflessione una tesi, e ogni tesi una parola d’ordine. Ognuno è chiamato a rispondere di ciò
che dice e di ciò che non dice: ogni cosa e ogni persona sono classificate ed etichettate (p. 26)
Il trionfo della ragione soggettiva, strumentale, «riduce la verità a un’abitudine, e così la
spoglia di ogni autorità spirituale», e «quanto più il concetto di ragione si svigorisce, tanto più
facilmente porta alla manipolazione delle idee e alla propaganda di bugie talvolta sfacciate» (p. 27).
Ma che cosa determina la morte della verità, e la fine di ogni sua ricerca? Secondo H., a
cambiare radicalmente sono innanzitutto «i criteri di giudizio» in tutti i campi
dell’esistenza:
«La società moderna possiede un implicito metro di giudizio, così per l’arte come per il
lavoro non specializzato: il tempo. La ‘bonta’, nel senso di efficienza specifica, è infatti in
funzione del tempo» (p. 33)
Ogni aspetto dell’esistenza viene misurato, calcolato, sia a livello esteriore che interiore, e
«la capacità di afferrare rapidamente i fatti sostituisce quella di penetrare intellettualmente i
fenomeni dell’esperienza».
A dominare è il mito della «produttività», da cui deriva, con il sorgere della società
industriale, «la trasformazione di tutti i prodotti dell’attività umana in beni di consumo»,
«Le attività che non siano utili o che non contribuiscano – come in tempo di guerra – al
mantenimento delle condizioni generali in cui l’industria può prosperare sono condannate
come insensate o superflue, come lussi. Il lavoro produttivo, manuale o intellettuale, è
diventato rispettabile, anzi è diventato l’unico modo rispettabile di impiegare la propria vita,
e si chiama produttiva qualunque attività che renda quattrini» (p. 41).
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«Per dimostrare il proprio diritto ad essere ‘concepito’, ogni pensiero deve avere un alibi,
presentare documenti che dimostrino la sua utilità pratica» (p. 49).
«Il pensiero che non serve agli interessi di un gruppo costituito o agi scopi della produzione
industriale è considerato inutile o superfluo» (p. 124).
Ci troviamo così a vivere in una società all’insegna dell’opportunismo e del
«pragmatismo», una società «che non ha tempo di ricordare né di meditare», dove «idee, concetti
e teorie sono solo schemi o progetti d’azione … veri sono quando e in quanto hanno successo». Un
concetto e un’idea hanno un significato solo in forza delle loro conseguenze, e così alla
logica della verità si è sostituita la logica della probabilità e della «calcolabilità».
Il pragmatismo è un riflesso dell’industrialismo moderno, per il quale «la fabbrica è il
prototipo dell’esistenza umana e il lavoro di tutti i campi dell’attività culturale dev’essere modellato
sulla produzione a catena o sui metodi di direzione razionalizzata».
Il trionfo della ragione soggettiva e del suo spirito antifilosofico – in quanto orfano del
bisogno di ricerca della verità – segna, in definitiva, secondo H., «l’umiliazione» e la
«neutralizzazione» della ragione, trasformata «in un apparato buono solo a registrare dati».
Al culmine del processo di razionalizzazione, la ragione è dunque diventata «irrazionale e
stupida», il nostro solo interesse è conquistare il potere sociale attraverso il dominio sulle
cose, senza capire che «quanto più intensamente l’individuo si preoccupa di acquistare potere
sulle cose, tanto più le cose lo dominano e tanto più egli perde ogni genuino carattere individuale e
la sua mente si trasforma in un automa della ragione formalizzata».
È questo processo di istupidimento che è alla base, secondo H., della nascita della «cultura
di massa», quella cultura che «cerca di vendere agli uomini il genere di vita che già conducono e
che inconsciamente odiano benché a parole lo lodino», e che, nel contempo, fa gli interessi dei i
poteri costituiti:
«Non il pensiero teoretico, bensì la sua decadenza favorisce l’obbedienza ai poteri costituiti,
siano questi rappresentati dai gruppi che controllano il capitale o da quelli che controllano il
lavoro» (p. 125).
La ragione strumentale appare dunque il mezzo più efficace per l’affermazione di
quell’«ideale della produttività» che si è affermato con la civiltà industriale e che – si badi –
non è finalizzato alle necessità di tutti, bensì «misurato nei termini dell’utilità rispetto alla
struttura del potere».
A prevalere, così, sono i più forti, e quelli che, grazie alla loro ‘efficienza’, riescono a
diventarne amici:
«L’efficienza, l’unico criterio moderno di valore, l’unica giustificazione dell’esistenza stessa
di ogni individuo, … è una sola cosa con il sapersi guadagnare la protezione di gruppi
potenti, con il saper fare una certa impressione sugli altri, con il sapersi ‘vendere’ bene, con
la capacità di coltivare amicizie giuste: tutte abilità in cui tanti oggi sono maestri» (p. 134).
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Ma esiste un rimedio a questa tragica situazione, o siamo destinati a soccombere in un
tempo nel quale «non ci sono zone di sosta sulle grandi strade della nostra civiltà: tutti devono
continuare a correre»? Secondo H. una via d’uscita c’è, e passa necessariamente attraverso il
recupero di quella ragione oggettiva che poi altro non è che la ragione filosofica, l’unica
capace di aiutarci a sconfiggere la paura:
«Aver fede nella filosofia significa non permettere alla paura di diminuire la nostra capacità
di pensare» (p. 140).
Una filosofia, però, che non va intesa come un insieme di formule («non esistono formule,
in filosofia»), né come un sapere che abbia la pretesa di «dare ordini», bensì, in senso
schiettamente kantiano, come una disciplina con un compito ben preciso: incoraggiare la
critica, la messa in discussione dei dogmi che si pretendono assoluti ed escludenti, e
tornare a «chiamare le cose con loro vero nome». Una filosofia, dunque, che operi sempre e
soltanto nel nome della ragione e del suo riscatto:
«Se per progresso intellettuale e scientifico intendiamo la liberazione dell’uomo dalla fede
superstiziosa nell’esistenza di forze malvagie di demoni e fate, di un cieco destino – in breve
l’emancipazione della paura – allora la denuncia di ciò che viene comunemente chiamato
ragione è il più grande servigio che la ragione possa rendere all’umanità» (p. 160)
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Dialettica dell’illuminismo
Il libro è scritto tra il 1942 e il 1944. Gli autori vivono una situazione di concreta e
multiforme contraddizione: tedeschi di origine ebraica, alto-borghesi di orientamento
marxista, filosofi continentali in esilio in California, impegnati in quel momento in una
serie di ricerche sociologiche.
La forma frammentaria del testo risponde all’esigenza di raccontare la “totalità
disgregata”, la crisi epocale della civiltà occidentale al culmine della sua potenza e assieme
al punto più basso della sua degenerazione. L’intento del libro è di illuminare
l’illuminismo su se stesso.
L’illuminismo è considerato uno dei momenti più felici della storia dell’uomo: la stagione
della ragione, della liberazione da ogni oppressione, della critica, del progresso, dei diritti.
In questo senso determinato è inteso dalla storiografia per indicare un periodo che dalla
metà del XVII secolo caratterizza il Settecento, ma arriva sostanzialmente a noi.
“L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità imputabile a lui stesso. Minorità
è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Questa minorità è
imputabile a se stessi quando la sua causa consiste nella mancanza non dell'intelletto, ma
della decisione e del coraggio di servirsi di esso senza una guida altrui. Sapere aude! Abbi il
coraggio di servirti del tuo proprio intelletto! — ecco dunque il motto dell'illuminismo”
(Immanuel Kant, Risposta alla domanda “che cos’è l’Illuminismo?”)
A. e H. vanno oltre questa determinatezza, cogliendo l’essenza ultima dell’Illuminismo nel
logos, nella ratio, nell’esplicarsi della razionalità pratica, palesemente moderna, ma che essi
retrodatano a norma originaria della civiltà occidentale.
Di questa razionalità è portatore il soggetto (da sempre “borghese”) impegnato ad
emanciparsi da ogni timore e autorità esterna e ad affermare la propria identità razionale,
la propria libertà.
Ragione illuministica e natura mutilata
L’itinerario del soggetto è letto da H. e A. nel lungo peregrinare di Ulisse da Troia verso
Itaca, il viaggio del Sè attraverso i miti. Ulisse è la figura archetipa dell’illuminismo e
raccoglie in sé le caratteristiche dell’uomo occidentale, non solo moderno e borghese, ma,
appunto, originario: egli infatti è colui che secolarizza il mondo mitico nello spazio che egli
percorre, ricacciando nelle caverne i demoni che popolavano i margini estremi del
Mediterraneo civilizzato.
“dove la semplice falsità dei miti (il fatto che terra e mare, in realtà, non sono abitati da
demoni), la fantasmagoria diffusa della religione popolare tramandata, diventa, agli occhi
dell’eroe maturo, “errore”, peripezia, rispetto alla chiara univocità del fine della propria
conservazione, del ritorno alla patria e della proprietà stabile”
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(Horkheimer, Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, p. 54)
La razionalizzazione del reale costringe la natura entro rapporti di equivalenza e
interscambiabilità che negano le concretezze particolari: in tedesco, tauschen (scambiare) e
täuschen (con la umlaut, ingannare). L’inganno come alienazione, distacco dalla cosa, si
cela anche nel concetto di Strumento: Meccanico, da mechanè che, appunto, significa
inganno, strumento e strumentalizzante
Questa ragione strumentale è inoltre conflittuale e prevede il conflitto come propria
dimensione naturale: verso la natura, verso l’altro, verso sé: per addestrarsi al conflitto il
soggetto deve imporsi una auto disciplina che lo porti alla insensibilità verso impulsi e
passioni: per individuarsi il soggetto deve entrare in conflitto con se stesso.
Per H e A, dunque, la natura mutilata, la ragione irrazionale, la libertà come coazione sono
il nucleo originario che genera le dinamiche della civiltà occidentale
Dialettica (dell’illuminismo) esprime la contraddizione che a tale pensiero inerisce, senza
che esso - in generale - se ne avveda.
Alla narrazione che l’illuminismo fa di se come lotta contro il mito, H e A oppongono che
l’antitesi è in realtà segreta complicità. Il mito è già oltre la magia, è impegnato a eliminare
radicalmente la paura davanti alla natura. Gli dei del mito preparano gli universali del
logos.
Ma l’individuazione del soggetto si dà solo nell’identificazione autoritaria, con la logica
del potere: il potere del soggetto sull’oggetto è pagato con la sottomissione di entrambi al
potere universale, al sistema del dominio.
Il pensiero in questo modo porta dentro di sé la natura negata, come colpa rimossa, che
produce l’inconscia coazione a negare la natura fuori di sé e dentro di sé. Ma in questa
negazione coatta è allo stesso tempo una paradossale riproposizione della natura.
L’uscita dallo stato di natura è dunque per l’illuminismo necessaria e impossibile.
L’illuminismo diventa allora regressione barbarica:
“La maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione”
(Horkheimer, Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, p. 43)
Il piacere negato: Ulisse, le sirene i marinai
Secondo A. e H., nel dodicesimo canto dell’Odissea “è custodito il nesso di mito, dominio e
lavoro”. Si tratta del passagio di Ulisse davanti alle sirene: la tentazione che esse
rappresentano è quella di perdersi nel passato: “l’onda di ciò che fu rifluisce dalla roccia del
presente e il futuro campeggia nuvoloso all’orizzonte”. Il passato dell’eroe è ancora/già passato
mitico, e a questo egli deve rimediare “con un solido ordinamento del tempo”: la tripartizione
del tempo serve a Ulisse per riscattare il presente dalla potenza del passato, e mettendolo “come sapere utilizzabile, a disposizione dell’ora”. L’arte rinuncia a questa trasformazione,
salva il passato come vivente, ma non lo usa per il progresso (così fa pure la storia), si
esclude dalla prassi: per questo è tollerata dalla prassi sociale come il piacere. Ma il canto
delle sirene non è ancora depotenziato e ridotto a pura arte: la loro è una promessa di
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piacere, “esse minacciano, con l’irresistibile promessa di piacere con cui si annuncia e viene
ascoltato il loro canto, l’ordine patriarcale con cui viene restituito a ciascuno la sua vita”, ma
“chiedono in cambio il futuro, e la promessa del lieto ritorno è l’inganno con cui il passato cattura il
nostalgico”: chi cede ai loro artifizi è perduto.
“Qui presto vieni o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei,
ferma la nave, la nostra voce a sentire.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,
se prima non sente, suono di miele, dal labbro la nostra voce;
poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.
Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia
Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;
tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice.”
(Omero, Odissea, XII, 185-191, p. 339).
Ulisse è stato avvisato del pericolo da Circe, ma la tentazione delle sirene resta invincibile.
«Alle sirene prima verrai, che gli uomini
stregano tutti, chi le avvicina.
Chi ignaro approda e ascolta la voce
delle sirene, mai più la sposa e i piccoli figli
tornato a casa, festosi l’attorniano,
ma le sirene col canto armonioso lo stregano,
sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri
umani marcenti: sull’ossa le carni si disfano.
Ma fuggi e tura gli orecchi ai compagni,
cera sciogliendo profumo di miele, perché nessuno di loro
le senta: tu, invece, se ti piacesse ascoltare,
fatti legare nell’agile nave i piedi e le mani
ritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde ti attacchino
sicché tu goda ascoltando la voce delle sirene.
Ma se pregassi i compagni, se imponessi di scioglierti,
essi con nodi più numerosi ti stringano»
(Omero, Odissea, XII, 39-54, p. 331).
“L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si
consolidasse il Sè, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si
ripete in ogni infanzia. Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’Io in tutti i suoi stadi, e
la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo”.
“L’angoscia di perdere il Sè, e di annullare, col Sè, il confine tra se stessi e il resto della vita, la
paura della morte e della distruzione, è strettamente congiunta ad una promessa di felicità da
cui la civiltà è stata minacciata in ogni istante. La sua via fu quella dell’obbedienza e del
lavoro...”
(Horkheimer, Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, p. 41)
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Ulisse, infatti, applica le uniche due vie di fuga che conosce: ai compagni riserva il cieco
(sordo) lavoro:
“Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare avanti e lasciar stare tutto ciò che è a lato.
L’impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato -con rabbiosa amarezza- in ulteriore
sforzo”
Odisseo, invece, “il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sè”, decide di ascoltare,
facendosi legare:
“così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno la felicità quanto più -crescendo la loro
potenza- l’avranno a portata di mano.”
Ecco, solo ora il canto delle sirene è neutralizzato a puro oggetto di contemplazione, senza
effetti o seguito, solo arte, tenuto lontano dalla prassi con gli stessi vincoli con cui alla
prassi è legato il soggetto.
“Lo spirito si trasforma di fatto in quell’apparato di dominio e auto-dominio, che la filosofia
borghese (fraintendendolo) ha visto in esso da sempre.”
Citando esplicitamente l’hegeliana dialettica tra signoria e servitù, H e A evidenziano
come, in questo rapporto, da un lato il signore non può cedere alla tentazione del piacere
(“dell’abbandono di sè”), non partecipa al lavoro e per di più si nega la stessa direzione,
dall’altro lato, gli schiavi non godono del lavoro perché compiuto sotto violenta
costrizione e altrettanto violentemente sono privati dei sensi e, con essi, della speranza.
“Nella limitazione del pensiero ai compiti organizzativi e amministrativi, praticata dai
superiori, dallo scaltro Odisseo fino agli ingenui direttori generali, è già implicita l’ottusità
che colpisce i grandi quando non è più solo questione di manipolare i piccoli. ... La sordità
rimasta ai docili proletari dai tempi del mito, non rappresenta alcun vantaggio rispetto
all’immobilità del padrone. Dell’immaturità dei dominati vive la decadente società.”
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Totalitarismi: fascismi, comunismo, democrazia di massa
cultura di massa: kitch funzionale
evasione-accettazione
affermativa e mai critica
tempo libero serve a ritemprare per lavorare
antisemitismo come fenomeno normale, non patologia
dio cristiano immagine della volontà di potenza
contro dio ebraico assolutamente altro
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