COPPIE OMOSESSUALI E COPPIE ETEROSESSUALI>> di

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FONDAZIONE INSIEME onlus.
Da psicologia contemporanea del 1-8-2014 <<COPPIE OMOSESSUALI E
COPPIE ETEROSESSUALI>> di Mauro Fornaro, (vedi nota a fine pezzo).
Per la lettura completa del pezzo si rinvia al periodico citato.
Pari dignità sì, ma pari valore?
Sulla delicata e attualissima tematica della parità tra
coppie etero e omosessuali ecco che due autorevoli e significativi
contributi che ben evidenziano le differenti tesi all’interno
della discussione in corso.
La tesi dell’omosessualità come mera variante normale della
sessualità umana", sulla quale s’è accesa una viva discussione
anche per la questione del trattamento sul piano giuridico delle
coppie gay (Lingiardi, 2012), mi pare impugnabile nella misura in
cui comporti una equiparazione in ogni senso tra la coppia
omosessuale e quella eterosessuale.
È certo merito della tradizione psicoanalitica aver
evidenziato, in contrasto con la tesi dominante nei manuali di
psichiatria fino alla metà del ‘900, che l’omosessualità non è una
patologia; inoltre, l’acquisizione psichica dell’identità sessuale
e dell’orientamento sessuale non sono un dato scontato alla
nascita, bensì il risultato di un processo che avviene
nell’intreccio tra fattori biologici e fattori psicologicoambientali, pertanto l’orientamento omosessuale e una virtualità
nello sviluppo di ogni individuo.
La cura psicoanalitica o psicoterapica non deve mirare, di
conseguenza, a correggere l’orientamento omosessuale, bensì deve
mirare a cogliere e ad appoggiare in una prospettiva dinamica,
cioè di maturazione psichica e di crescita relazionale,
l’effettivo desiderio di fondo del soggetto, aiutandolo a superare
resistenze e ostacoli che si frappongono alla realizzazione di
tale desiderio.
Sono gli stessi ostacoli che, di solito, hanno generato quel
disagio psichico e sociale che ha portato il soggetto a ricorrere
al terapeuta.
L’obiettivo della cura insomma è che il soggetto diventi
egosintonico e responsabile di fronte al suo effettivo desiderio
(il che per altro vale per ogni itinerario terapeutico, al di là
della questione dell’omosessualità).
L’INTEGRAZIONE AFFETTIVO-CORPOREA.
Tuttavia, nella stessa tradizione psicoanalitica
l’omosessualità è per lo più ritenuta una forma di relazione
immatura, risultando da uno sviluppo incompleto: se tutti più o
meno passiamo, nel corso dell’infanzia prima, e nella pubertà poi,
per momenti di incerto orientamento sessuale, la grande
maggioranza acquisisce durante l’adolescenza una definitiva
identità e orientamento sessuali, coerenti con il proprio sesso
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biologico (quindi in senso statistico la variante omosessuale non
è la norma, mentre è “normale” nel senso di “non patologico”).
L’identità e l’orientamento sessuali così acquisiti, facendo
sperimentare al soggetto la propria incompiutezza di essere ormai
separato dall’altro sesso, lo portano a desiderare l’integrazione
affettiva con il complementare somato-psichico, cioè la persona
dell’altro sesso quale “parte” a sé mancante, e non già
l’integrazione con il mero identico a sé (identico sul piano del
sesso biologico, ma spesso pure sul piano psicologico, se
prevalgono le componenti narcisistiche, rilevabili specie nella
coppia omosessuale, per cui nell’altro si ama il simile a sé).
Da ciò consegue che, pur con il rispetto dovuto alla duratura
integrazione affettiva che può realizzarsi in coppie omosessuali e dunque ferma restando la dignità che ad esse va riconosciutanon è corretto ritenere che in esse si sviluppi la medesima
completezza relazionale di una coppia eterosessuale “riuscita”.
In questa, infatti, ceterisparibus, l’integrazione affettivocorporea è più completa, in quanto avviene tra soggetti
effettivamente diversi e complementari.
Nella coppia eterosessuale, l’integrazione affettivo-corporea
è più completa in quanto avviene fra soggetti effettivamente
diversi e complementari.
Nella coppia omosessuale, invece, manca l’integrazione come
complementarità delle diversità corporee e come complementarità di
ciò che delle diversità anatomo-fisiologiche si riflette nella
psiche.
Inoltre, obiettivamente manca nella coppia omosessuale in
quanto tale l’apertura alla generatività biologica, la quale di
certo non è tutto, specie laddove difetti la genitorialità
psicologica, ma essa ha comunque la sua importanza (del resto la
coppia omosessuale cui fosse consentita l’adozione di minori non
può non avvalersi di coppie eterosessuali, oppure deve servirsi di
surrogati quali la fecondazione eterologa di un membro della
coppia, se lesbica, o di una donna estranea alla coppia, se gay).
Pertanto restando nell’omo alla coppia manca, oltre alla
fecondità biologica di coppia, l’apertura radicale, che è quella
all’etero, data dall’incontro con l’altro sesso e le sue peculiari
qualità biologiche e psichiche.
LE DIFFERENZE DI GENERE.
Si potrà discutere su quanto le differenze anatomofisiologiche si riflettano sulle differenze psicologiche e
comportamentali tra i due sessi, e quanto invece queste ultime
siano solo il risultato di cultura ed educazione.
Sta di fatto che le differenze, almeno fino al giorno d’oggi,
sono evidenti, in ordine sia all’identità psicosessuale, sia
all’identità di genere.
Differenze che maturano già nel rapporto madre bambino/a: un
rapporto asimmetrico rispetto ai sessi, nella misura in cui la
madre, vedendo nella bimba una persona identica a sé, tende di
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solito a favorire l’attitudine allo scambio e alle relazioni
intime, nel bimbo, invece, vedendo un diverso che ha da
differenziarsi da sé, tende a favorire l’attitudine alla
separazione e all’indipendenza (Chodorow, 1978).
In ogni caso, quand’anche si negasse l’esistenza di
un’essenza del femminile e un’essenza del maschile (ancora Jung si
esprimeva in tal senso con le nozioni rispettivamente di “anima” e
di “animus”, ma oggi prevale l’orientamento contrario), si
rilevano però una serie di tratti e attitudini presenti più di
frequente nel genere femminile e altri più frequenti nel genere
maschile; tratti che dunque sono da ritenersi rispettivamente
tipici di ciascun sesso.
Il che non toglie che una donna possa avere taluni tratti
psico-comportamentali ritenuti tipicamente maschili (spesso
acquisiti per identificazione con aspetti della figura paterna), e
viceversa per un uomo, senza che per ciò sia pregiudicata la
sostanziale coerenza con il proprio sesso biologico in fatto di
identità e di orientamento sessuali.
Nei singoli membri di una coppia omosessuale spesso si rileva
una combinazione di tratti, di sensibilità maschili e femminili,
senza che vi sia una netta o stabile prevalenza di un tipo di
tratti rispetto all’altro, con il risultato che nel rapporto
affettivo e sessuale tra i due può realizzarsi una certa
complementarità di tratti eterogenei, a ruoli anche invertibili;
il che comunque accade in una situazione di incoerenza con
l’identità somatico-sessuale dei singoli (sovente uno dei due
momentaneamente o continuativamente “fa la parte” dell’altro
sesso).
E la coerenza è preferibile all’incoerenza, per altro spesso
fonte di conflitti intrapsichici prima ancora che sociali.
(Certo la preferenza per la coerenza è un giudizio di valore,
mentre l’analisi obiettiva si limita a rilevarne o meno la
presenza).
Altre volte, tra le variegate dinamiche affettive
dell’omosessualità, prevale decisamente un’integrazione fra tratti
di genere omogenei, come accade esemplarmente in quelle coppie
lesbiche il cui “gioco” è come tra madre e figlia: una
complementarità pure questa, se si vuole, ma con evidenti aspetti
di immaturità e di assenza del simbolo maschile, almeno a livello
conscio.
Si rilevano una serie di tratti e attitudini presenti più di
frequente nel genere femminile e altri più frequenti nel genera
maschile.
COMPLEMENTARITÀ COME INTEGRAZIONE.
Del resto non pochi di quei tratti prevalenti in un genere
piuttosto che nell’altro sono riconducibili alla nostra storia
filogenetica.
Si pensi alla maggiore attitudine femminile, in media,
all’immedesimazione empatica nel piccolo e nel sofferente, alla
maggiore abilità nelle operazioni manuali fini, ecc., alla
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maggiore intelligenza verbale; viceversa, alla maggiore attitudine
maschile, in media, all’orientamento spaziale, alle abilità
motorie, all’intelligenza logico-formale (Rumiati, 2010): in
lunghe centinaia di migliaia di anni, nel corso delle quali le
femmine occupavano il breve arco di vita in un susseguirsi di
gravidanze e i maschi nella caccia-pesca e nella guerra, si sono
selezionate nei due sessi le attitudini più favorevoli ai diversi
ruoli.
Anche le disposizioni filogenetiche possono mutare, ma non
nei tempi brevi.
Insisterei sul pregio della complementarietà bio-psichica
delle differenze, in quanto porta a una forma di integrazione più
promettente.
Se ricordo questi fatti non è certamente per relegare il
singolo a predefiniti ruoli affettivi e sociali su una base
biologica e filogenetica, sorda alla varietà di tratti omo- ed
eterosessuali presenti in ciascuno, indifferente inoltre agli
sviluppi culturali e di sensibilità cui abbiamo assistito nella
storia dell’umanità; è invece per attestare ulteriormente la
realtà delle differenze psichico-attitudinali tra i due generi,
correlate alle differenti strutture anatomo-fisiologiche e ai
differenti ruoli nella riproduzione.
E quanto più significative sono le differenze, tanto più è
giustificata l’integrazione come complementarità: insisterei sul
pregio della complementarità bio-psichica a tutto campo delle
differenze, in quanto, ripeto, essa porta a una forma di
integrazione possibile tra due esseri umani di sesso diverso, che
si presenta -obiettivamente parlando- più promettente, cioè dotata
di più potenzialità a parità di altre condizioni, che non
l’integrazione tra due esseri dello stesso sesso.
Quest’altra forma affettiva -soggettivamente parlando- è pur
sempre un bene per i singoli implicati e dunque un valore da
salvaguardare anche sul piano sociale e giuridico, ma
oggettivamente non si può dire che sia il meglio, con tutto il
rispetto per chi sente di non poter realizzare la propria
integrazione affettiva se non con l’omo.
(Certo si può impugnare l’idea che esistano valori oggettivi
al di là delle preferenze soggettive, ma così si entra in una
questione trattabile in sede diversa da quella della psicologia).
IPERCULTURALISMO.
A monte della discutibile equiparazione psicologica e
valoriale del rapporto omo con quello eterosessuale è spesso
rilevabile l’errore ideologico di ritenere mero effetto
dell’educazione e della cultura le differenze psicocomportamentali tra individui di sesso diverso: l’identità di
genere non sarebbe che un carattere acquisito, un’imitazione di
cui manca l’originale.
Pertanto ai fini della determinazione delle differenze tra i
singoli individui sarebbe irrilevante l’oggettiva appartenenza
biologica a un dato sesso.
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È vero, al contrario, che la corporeità sessuata con i suoi
dinamismi fisiologici, bio-chimici e con le correlate sensazioni e
fantasmatiche, seppur non determina rigidamente le attitudini
psico-comportamentali, tuttavia le orienta: non solo “abbiamo” un
corpo, che psiche e cultura interpretano, plasmano e utilizzano,
ma “siamo” anche un corpo, il quale precede, condiziona e pure
delimita l’attività psichica e simbolica, nella specie come nel
singolo.
Il difetto invece di una posizione “iperculturalista”, quale
quella sopra accennata, mentre chiude unilateralmente la
dialettica tra l’avere e l’essere un corpo a favore del mero
averlo, finisce con il risuscitare il dualismo tra l’ordine
biologico-naturale e l’ordine psicologico-culturale.
Il che accade nella misura in cui il primo è ritenuto
indifferente alle determinazioni del secondo, o, peggio, nella
misura in cui il secondo è ritenuto riassorbire in sé le stesse
determinazioni somatiche: il corpo sessuato nelle relazioni
sociali non sarebbe che mero effetto di linguaggio, secondo la
posizione estrema della Butler (2004).
Curiosamente, per questa via che dissolve di fatto le nozioni
di identità e differenza di genere, riducendole a contingenti
effetti di cultura e di linguaggio, da una parte è favorita
l’identità cosiddetta “queer” (che rifiuta ogni idea di stabili
identità e polarità maschile/femminile, omo/eterosessuale,
comunque le si intenda).
Non solo "abbiamo" un corpo, che psiche e cultura
interpretano, plasmano e utilizzano, ma "siamo" anche un corpo.
Dall’altra parte, come chiudendo un ciclo, si torna a prima
dei fecondi gender studies (“studi di genere”, una conquista del
pensiero femminile a partire dagli anni Settanta), riabilitando
quell’indifferenza per le specificità di genere propria del
passato, che poi di fatto significava uniformazione monocratica al
genere maschile.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.
BUILER J. (2004). La disfatta del genere. (trad.it) Meltemi, Roma 2006.
CHODOROW N. (1978) la funzione materna. Psicoanalisi e sociologia del ruolo materno (trad. it.).
La Tartaruga edizioni, Milano, 1991.
LINGIARDI V. (2012) Citizen gay. Affetti e diritti, il Saggiatore, Milano.
RUMATI R. (2010) Donne e uomini, Il Mulino, Bologna
L’AUTORE.
MAURO FORNARO. Ordinario di Psicologia dinamica presso l’Università di Chieti-Pescara,
psicologo e psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico, ha pubblicato oltre un centinaio tra volumi e
articoli, principalmente su temi di storia ed epistemologia della psicologia e della psicoanalisi.