Rimettere Karl Marx al centro della riflessione culturale ed economica”: In primo luogo occorre operare un ritorno a Marx in campo culturale. Quel pensatore che tanto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, dove criticava il processo di alienazione umana prodotto dall’avvento della divisione del lavoro rigidamente dicotomizzata dal regime di fabbrica capitalistico, tanto nell’ Ideologia tedesca del 1845, dove in polemica con l’esaltazione dell’individualismo anarchico di Stirner insisteva sul carattere sociale dell’essere umano, aveva pensato alla necessità di procedere ad uno sviluppo unitario e complessivo delle capacità e facoltà dell’essere umano; la chiamava l’ “onnilateralità”( Gattungewesen). Si tratta di una questione questa di un’attualità bruciante. L’introiezione del principio di prestazione, di ottimizzazione del risultato in termini monetari ha contaminato ogni sfera dell’umano agire, tanto che anche i processi che hanno a che fare con la formazione umana sono stati fagocitati dal medesimo meccanismo: l’uomo non deve essere formato, ma addestrato per esercitare un mestiere. Dunque l’etica mercantile ha ridotto a valore di scambio ogni sfera dell’azione;la cultura è una merce come le altre da vendere e valorizzare; da mettere anch’essa a profitto. Le analisi del Marx economista, ha ricordato Vladimiro Giacché, devono essere riscoperte se vogliamo attrezzarci a fare i conti con un meccanismo produttivo che sempre più mostra la sua intrinseca irrazionalità distruttiva. Marx ,infatti, è stato prima di tutto un grande analista delle contraddizioni della società capitalista e non un semplice profeta dell’avvento della società nuova. Le sue analisi sono ancora attuali in quanto da quelle contraddizioni tipiche della società capitalistica non siamo usciti(anzi le recenti crisi di sistema le rimettono al centro con drammaticità). Ecco allora che «la barba del rivoluzionario di Treviri torna ad affacciarsi da giornali e periodici: dalle pagine del “Financial Times”[al] francesce “Le Point”[e ]alla copertina dell’ [italiano] “venerdì di Repubblica»1. Marx in sostanza, come sottolinea sempre Giacché nella sua introduzione a il Capitalismo e la crisi, ha messo a tema la questione del carattere “strutturale” e non episodico delle crisi di questo sistema medesimo2. Proprio per ribadire questo concetto, in questo lavoro, che rappresenta una selezione antologica di scritti marxiani appartenuti a diverse fasi della riflessione del grande pensatore di Treviri,vengono riportati, nella prima sezione, alcuni scritti giornalistici in cui Marx si concentra sull’analisi del “fenomeno della crisi”. Tali articoli, ci aiutano a capire come, ancora oggi, come ai tempi di Marx, non si riesce a comprendere il carattere“periodico”della crisi, inteso secondo Marx appunto come strumento necessario per il sistema capitalistico di procedere ad una sua “rigenerazione”, dato il carattere “primitivo” del suo meccanismo “accumulativo”di ricchezza, come scrive nel primo libro del Capitale3. Tale processo rigenerativo deve avvenire tramite la distruzione 1 V. Giacchè, Introduzione a K. Marx, Il Capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di V. Giacché, Roma, DeriveApprodi, 2009, p. 13 2 Cfr. V. Giacchè, Introduzione a K. Marx, Il Capitalismo e la crisi, cit.,7-58. Cfr.,K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, I: Il processo di produzione del Capitale, trad. it. E cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma, 1989, cap. 7-8. Sul carattere primitivo del sistema di produzione capitalistico, Marx torna a parlare anche nel III libro del Capitale che lo stesso Giacché antologizza nella seconda sezione del suo 3 1 di quella quantità di ricchezza, in termini sia di forza lavoro, sia di ricchezza stessa prodotta in quantità eccessiva. Ad un dato momento, infatti, essendo la redistribuzione della ricchezza venuta a restringersi sempre più e a polarizzarsi, non può più essere “socialmente”redistribuita ed assorbita in maniera sufficiente da tenere “temporaneamente”il sistema in equilibrio, senza instaurare fenomeni inflattivi e recessivi. Ecco che allora, come scrive Marx in due celebri articoli selezionati da Giacché, da un lato si va in cerca del colpevole, del capro espiatorio momentaneo. Come ai tempi di Marx, anche oggi vengono additati i banchieri e la grande finanza come i responsabili dell’esplodere della crisi, anche se fino a quel momento erano idolatrati come depositari della capacità di convertire il lavoro in profitto, senza passare per le forche caudine della redistribuzione sociale appunto. Scrive a tal proposito Marx in un articolo apparso sul NYDT il 4 ottobre del 1858: «eccoci dunque alla domanda:quali sono state le vere cause della crisi? La commissione» - quella che era stata incaricata dal Parlamento inglese di indagare e redigere un rapporto in merito alla crisi finanziaria del biennio 1857-58 - «afferma di aver accertato [..]che la recente crisi commerciale del paese, come pure quella dell’Europa e dell’America settentrionale, fu dovuta principalmente all’eccesso di speculatori e all’abuso del credito[…]accettata per vera l’affermazione (e noi siamo ben lungi dal contestarla), essa risolve forse il problema sociale, o semplicemente cambia i termini della questione? Perché venga fuori un sistema di credito fittizio ci vogliono sempre due parti in causa. Chi prende e chi dà in prestito. Che la prima fra le due parti sia sempre desiderosa di lavorare con i capitali altrui, e cerchi di arricchirsi con l’altrui rischio» è una tendenza ovvia scrive Marx; resta dunque da capire perché «presso tutte le moderne nazioni industriali, la gente sia presa, per così dire, da smanie periodiche di dar via quel che possiede cedendo ai più trasparenti inganni»; quali sono le circostanze sociali, si chiede Marx, «che riproducono, quasi regolarmente queste stagioni di generale illusione, di speculazione selvaggia e credito fittizio?»; in sostanza risponde Marx, lavoro. In esso scrive Giacché «è contenuta la più organica e dettagliata esposizione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, fondamentale per intendere la concezione marxiana della crisi» (V. Giacchè, Introduzione,cit., p. 14),nel senso che la ricchezza prodotta dal lavoro che ha un carattere “sociale”si muta progressivamente in accumulazione, accaparramento di ricchezza, da parte di pochi; quando questo processo si restringe eccessivamente, i lavoratori tendono progressivamente a perdere il loro potere d’acquisto della merce che hanno contribuito a produrre, mentre i profitti dei capitalisti continuano ad aumentare esponenzialmente, convertendosi in rendite più o meno speculative e finanziare, senza cioè possibilità che ridiventino ricchezza nuovamente “spendibile” e “investibile”. Ecco che allora si rende necessario per il sistema, per ritornare al suo equilibrio “primitivo”, l’irruzione violenza di una crisi che serve a distruggere l’ammasso di ricchezza accumulata. Solo in questo modo - scrive Marx in celebri pagine di cui Engels ha tratto i capitoli 13-15 della edizione a stampa del terzo libro edito nel 1894 e di un’attualità ancora oggi sconcertante, tanto che non a caso Giacché sceglie di ripresentare al lettore oggi – può ripartire il processo di riproduzione della “sovrapproduzione”, perché quella vecchia viene smaltita, e il sistema si rigenera (cfr. K. Marx, Il capitalismo e la crisi, cit., sezione terza, in particolare vedi pp. 110-113) . in sostanza scrive Marx «la caduta del saggio di profitto esprime la proporzione decrescente del plusvalore stesso rispetto al capitale complessivo anticipato, ed è quindi indipendente da qualsivoglia ripartizione di questo plusvalore tra diverse categorie» (ivi, p. 112), ovvero nonostante la tendenza alla crescita della massa assoluta del pluslavoro «e quindi del plusvalore, la proporzione di questa massa cresciuta 1) del capitale variabile in rapporto a quello costante, 2) del plusvalore rispetto al capitale complessivo» tende a decrescere, la proporzione appunto, perché si interrompe il temporaneo e più o meno virtuoso meccanismo della redistribuzione, che seppur mai tendenzialmente “equo”, comunque per un determinato periodo può rimanere in equilibrio. 2 siccome si tratta di circostanze «intrinseche all’attuale sistema produttivo» , ovverosia ieri, come oggi potremmo dire, quando la ricchezza si polarizza troppo e il potere d’acquisto dei lavoratori si deprime eccessivamente si cerca di mettere un “tampone”per evitare l’innesco di fenomeni depressivi tramite la finanziarizzazione del credito; pertanto «finché permane il sistema, bisogna sopportale, come in natura, i cambiamenti di stagione»4. Dall’altro, scrive in un altro articolo apparso sulla “Nuova Gazzetta renana. Rivista di politica e economia”, nel fascicolo maggio-ottobre del 1850, questo stesso meccanismo difensivo di intendere la crisi impedisce di mettere appunto le lenti focali delle critica dell’economia politica, e di capire che «come sempre la speculazione si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco»- quando appunto come abbiamo detto si interrompe la temporanea e parziale redistribuzione - «e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovra speculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione»5. Inoltre nello svolgimento del nostro lavoro dovrà emergere l’importanza e la centralità, come bene mette in luce Bruno Maffi nella sua prefazione alla riedizione di K. Marx- F. Engels, India Cina Russia uscito nel 1960 a cura di Mario Maffi6, di tutta una serie di articoli da noi scelti come oggetto privilegiato di indagine, quando, anche per riuscire a guadagnarsi da vivere, Marx fu corrispondente da Londra per il quotidiano americano “ The New York Daily Tribune” (NYDT) dal 1852 al 18637. Tale periodo non casualmente, come 4 Ivi, p. 66. 5 Ivi, p. 61. 6 Cfr. K. Marx F. Engels, India Cina Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, a cura di B. Maffi. Introduzione di M. Maffi, Il Saggiatore, Milano, 2008². 7 Il giornale fu fondato nel 1841 come organo della componente di sinistra del partito whig americano. Nei decenni Quaranta e Cinquanta fu impegnato nella campagna antischiavista e negli anni in cui vi collaborarono Marx ed Engels era l’espressione del partito repubblicano statunitense. «Marx dall’inizio del 1853 scriveva gli articoli direttamente in inglese e alcuni venivano talvolta pubblicati senza l’indicazione dell’autore. Ma le indicazioni contenute nei taccuini in cui Marx e sua moglie Jenny annotavano la data di stesura o di spedizione dei singoli articoli o quelle presenti nella corrispondenza di Marx ed Engels negli stessi anni consentono di individuare la paternità letteraria. Gli articoli di Marx, inoltre, subivano spesso più o meno pesanti interventi redazionali» (D. Santarone, Educazione interculturale e immagine europea dell’Oriente:la Cina di Marx, relazione presentata alla IV Conferenza Internazionale su L’opera di Karl Marx e le sfide del XXI secolo, Havana, Cuba, 5-8 maggio 2008, p. 4). Inoltre durante il periodo in cui Marx scrisse per la Tribune, questo era il quotidiano più diffuso nel mondo, e il giornale sarà di gran lunga «il più grande editore dell’opera di Marx(e, in misura minore di Engels): il giornale pubblicò in tutto 487 articoli, dei quali Marx da solo ne scrisse 350, Engels 125, e insieme ne scrissero 12. Il mero volume dell’opera è significativo:gli articoli della Tribune nel complesso occupano quasi sette volumi dei cinquanta dell’opera completa di Marx ed Engels»( J. Ledbetter, Introduction, in Karl Marx, Dispatches for the New York Tribune: selected Journalism of Karl Marx, Penguin Books, London, 2007, pp. xviii). 3 emergerà nello svolgimento del lavoro, risulterà “contestuale” allo studio che egli andava compiendo in merito ai “meccanismi” che stanno alla base del processo di produzione capitalistica. Si farà riferimento di conseguenza sia al Primo Libro del Capitale del 1867 sia agli importantissimi materiali-appunti preparatori contenuti in una serie di quaderni che Marx compilò tra il 1857-58, usciti solo postumi a cura dell’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca nel 1939-41 e noti come Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,i cosiddetti Grundrisse. In particolare nel primo libro del Capitale emerge lo “svelamento”da parte di Marx dei meccanismi che stanno alla base del processo di produzione, definito “accumulazione primitiva”. Come bene ha argomentato Nicolao Merker nella sua recente biografia della vita e delle opere del grande pensatore8, quella parte dell’analisi marxiana va letta come allontanamento definitivo dalla prospettiva di analisi del funzionamento del capitalismo giocato tutto sul paradigma dell’alienazione(inteso come esproprio “intenzionale”da parte del capitalista dell’oggetto prodotto dall’operaio) – paradigma che aveva indirizzato l’analisi marxiana ancora nei Manoscritti del 1844 – e per tanto da ciò dipende il definitivo distacco e critica feroce di Marx a quelli che egli definisce “semplici critici moralistici del Capitale”, ovvero i vari Proudhon o i socialisti utopisti alla Fourier e Saint-Simon. Da questo punto di vista, sempre a detta di Merker, Marx attuerebbe uno “slittamento paradigmatico” incentrato appunto non più sull’alienazione, bensì sulla “dissimulazione”: l’autovalorizzazione del Capitale, dirà espressamente Marx, ovvero quel meccanismo che permette alla merce forza lavoro di trasformarsi da plusvalore a plusprofitto, “è un processo oggettivo”, indipendente dalla volontà (nel senso di intenzionalità diretta ed esplicita) dei “singoli protagonisti” tale per cui l’ “antinomia” è che la produzione che ha un carattere sociale e il plusvalore nato dalla produzione si muta in proprietà privata del capitalista. È proprio lì che va scovato (l’arcano) la “fattura”del Capitale per trovare “il grimaldello” politico e non moralistico per aprire la cassaforte del capitalista9. Ma la lettura del primo libro del Capitale, incentrata appunto sull’analisi del meccanismo di accumulazione primitiva, sarebbe altresì - e qui entriamo nel merito dell’importanza di un lavoro di analisi sui testi dai noi scelti come oggetto di riflessione – incompleta senza la lettura contestuale , in realtà“precontestuale”e preparatoria, perché, ad esempio, gli articoli sull’India e la Cina sono antecedenti agli appunti confluiti poi nei Grundrisse10, dell’analisi che Marx compie di un secondo, non in ordine di tempo, tutt’altro, processo “accumulativo” che consiste di fatto nella “rapina di risorse, prima, nonché in una fase successiva di manodopera a basso costo(quando le lotte operaie nel vecchio mondo avranno conquistato maggiore potere contrattuale e protezioni normative, riduzione orario di lavoro, coperture assicurative ecc) , ai danni dei paesi extraeuropei. 8 Cfr., N. Merker, Karl Marx. Vita e opere,Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 112-115. 9 Cfr.,K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, I: Il processo di produzione, cit., cap. 10-11. 4 Preludio cinese 1850-1853 1) Grande muraglia e cotonerie inglesi (ed. Maffi 2008, pp. 41-1) (ediz. 1960, 31-32) In questo articolo di Marx apparso sul periodico Neue Rheinische Zeitung. Politischökonomische Revue ( Nuova gazzetta renana. Politica e Economia) nel 1850, vengono analizzati gli effetti della fine della Prima guerra dell’oppio in Cina (iniziata nel 1839 e conclusasi con i Protocolli di Nanchino 1842-43), la quale sancisce una prima e importante penetrazione da parte dell’Inghilterra in Cina. Nell’edizione Maffi omette le prime due pagine dell’articolo, presenti invece nell’edizione completa tradotta in italiano delle opere di Marx ed Engels( d’ora in poi Meoc), nel vol XV(pp. 262-265) che risultano importanti per comprendere la previsione marxiana sul futuro spostamento dell’asse geopolitico mondiale: dal mediterraneo(mondo antico) al pacifico.*(nota specchio, arrighi-silver 1) Tornando a concentrarci sugli effetti che lo scatenamento dell’offensiva inglese in Cina determina, per comprendere l’analisi di Marx su questo dovremmo leggere questo articolo insieme a due articoli in particolare, non inclusi in questa antologia di Maffi, ma nell’edizione Meoc, (in particolare vol XVI): a) Il trattato anglo-cinese, ( pp. 29-33) pubblicato come articolo redazionale, senza titolo. Nei taccuini del 1858 è indicato come “Venerdì 10. Cina”(cfr. note p. 631), all’interno del quale Marx riporta le considerazioni del giornale L’ “Economist” rispetto agli effetti che il trattato di Nanchino ebbe sulle esportazioni britanniche:in sostanza nonostante il tentativo di penetrazione “violenta”nel mercato cinese, esso si è saturato quasi immediatamente.(Nell’analisi che svolgeremo di altri articoli di Marx sulla Cina emergeranno chiaramente quali, a detta del filosofo di Treviri, sono le reali motivazioni che hanno impedito una penetrazione profonda del capitalismo britannico in Cina).* (nota specchio Masi 1) b) Il trattato anglo-cinese, (pp. 50-54): nella nota 59( p. 634) corrispondente a questo articolo è riportata un’importante lettera a Engels del 17 dicembre 1958 in cui Marx si lamenta del fatto che la “Tribune” (il New York Daily Tribune è il giornale per cui Marx scriverà come corrispondente articoli settimanali dal 1852 al 1862) per molti mesi aveva relegato i suoi articoli sulla Cina come semplici articoli di fondo, e aggiunge: “ma quando venne finalmente il testo ufficiale”(ovvero i Protocolli di Nanchino) “del trattato anglo-cinese, io scrissi un articolo” (quest’ultimo appunto) “in cui tra l’altro dicevo che i cinesi avrebbero legalizzato ora l’importazione dell’oppio, posto sull’oppio un import 5 duty(dazio d’importazione) e lasty(infine)permesso probabilmente anche la coltivazione dell’oppio nella Cina stessa e che così la second opium war (seconda guerra dell’oppio)”- scoppiata nel 1857 vedremo in seguito le analisi più dettagliate di Marx in altri articoli – “avrebbe dato un deadly blow (colpo mortale) all’opium trade (commercio dell’oppio) inglese e specialmente all’Indian Exchequer, sooner or later (erario indiano, prima o poi) (cit., p. 635). Anche di questa previsione marxiana torneremo a parlare in altri articoli. Nella parte finale dell’articolo riportato dall’antologia di Maffi emerge un concetto chiave dell’analisi marxiana dei processi storici che nel corso del tempo ha dato vita a molteplici interpretazioni e fraintendimenti. Alludendo alle sollevazioni popolari che immancabilmente la violenta penetrazione inglese genera “nell’immobile” fino ad allora mondo cinese- scrive Marx “può darsi che il socialismo cinese (Marx allude alla celebre rivolta dei T’ai-p’ing 1850-1864)(*nota specchio Masi 2) stia al socialismo europeo come la filosofia cinese all’hegelismo”(Maffi, p. 42)- egli riprende, sottolinea Maffi(cfr, p. 328) un concetto che già aveva espresso nel celeberrimo scritto Il Manifesto del partito comunista del 1848: inevitabilmente la borghesia e il processo di industrializzazione da essa portato trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. Su questa visione si sono scagliati molti critici, come vedremo,attribuendo a Marx una visione deterministica del processo storico e influenzata dall’interpretazione eurocentrico-stadiale di Hegel che leggeva la configurazione del modello asiatico come un “immobile” dispotismo di chiara impronta asiatica”. 2) Rivoluzione in Cina e in Europa (ed. Maffi 2008, 43-51) (ediz. 1960, 33-40) (Meoc, vol xv, pp. 97-104) In prima istanza in questo articolo (Londra 20 maggio 1853, uscirà sul Daily il 14 giugno 1853) ritorna sul concetto che l’occasione per lo scuotimento del moto popolare in Cina è stata offerta “dai cannoni britannici quando imposero alla Cina la soporifera droga chiamata oppio. Di fronte alle armi britanniche, l’autorità della dinastia Manciù”cadde in frantumi; la fede superstiziosa nell’eternità del Celeste Impero dileguò; “il barbaro isolamento ermetico” dal mondo civile venne infranto; e si iniziarono quei rapporti scambievoli, che da allora si sono così rapidamente sviluppati sotto il segno delle dorate attrazioni della California e dell’Australia. Nello stesso tempo, cominciava l’emorragia delle monete d’argento del Celeste Impero, sua linfa vitale, verso l’India britannica”(Maffi, 2008, p. 44). Nell’articolo inoltre Marx connette l’emorragia monetaria che l’immissione di una economia di scambio ha creato, con la crisi del patriarcalismo, tratto tipico della società orientale. Se infatti filo al 1830, “un flusso ininterrotto di argento si era riversato in Cina dall’India, dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti”, contribuendo a irrobustire il prestigio dinastico, dal 1840 “l’esportazione”forzosa, ovvero voluta dagli inglesi – “di argento in India ha rischiato per poco di dissanguare la Cina”(ibid.). Questo fatto per Marx si lega non solo agli “energici decreti dell’imperatore contro il 6 commercio dell’oppio”, ma proprio il rifiuto accordato ad esso va compreso con spiegazioni non di carattere morale, ma economico: “la corruzione cresciuta intorno al contrabbando dell’oppio ha distrutto completamente il prestigio morale dei funzionari dell’impero nei distretti del sud. Esattamente come l’imperatore soleva esser considerato il padre di tutta la Cina”- sottolinea Marx“così si guardava ai suoi funzionari come se vincoli paterni li legassero ai rispettivi distretti. Ora questa autorità patriarcale […]è stata poco a poco distrutta dalla corruzione di funzionari che si arricchivano tenendo bordone al contrabbando dell’oppio”(ibid.). In qualche modo sottolinea Marx “l’introduzione dei manufatti esteri”(in particolare di cotone e di lana dall’Inghilterra) “esercitò sull’industria locale la stessa influenza che già aveva avuto in Asia Minore, in Persia e in India. In Cina, di questa concorrenza soffrirono particolarmente i filatori e i tessitori e di riflesso l’intera comunità ne fu sconvolta”(ivi, p. 45)11. Sottolineando il fatto dell’immissione violenta dei rapporti capitalistici borghesi su scala planetaria di cui la nuova epoca si fa interprete, nell’articolo Marx si concentra su un altro aspetto importante della questione: proprio perché sono saltati confini e logiche rigidamente nazionali, l’unica forma possibile che la rivoluzione socialista dei rapporti di produzione potrà avere,se vorrà risultare efficace,deve essere quella planetaria. Per questa ragione la rivoluzione in Europa e in Oriente devono procedere insieme, nel senso che esse si condizionano a vicenda. Scrive a tal proposito: «avendo l’industria britannica percorso la maggior parte del normale ciclo commerciale, si può sicuramente prevedere che la rivoluzione in Cina getterà una scintilla nella polveriera sovraccarica del sistema economico vigente e provocherà l’esplosione della crisi generale che da tempo si prepara e che debordando dall’Inghilterra sarà seguita a breve distanza da rivoluzioni politiche in Europa» (Maffi, p. 49). Sarcasticamente sottolinea ancora Marx:«sarebbe uno spettacolo curioso quello di una Cina che esporta il disordine nel mondo occidentale nell’atto stesso in cui le potenze occidentali si adoperano, con navi da guerra britanniche, a ristabilire l’ordine a Shanghai, a Nanchino» (ibid.). In merito a questo articolo possiamo aprire un confronto con quanto David Harvey ha sostenuto in La crisi della modernità. Questo autore spiega esattamente cosa Marx vuole intendere quando allude al fatto che il processo rivoluzionario dei rapporti di produzione deve essere mondiale: più in occidente infatti aumenta la capacità contrattuale dei lavoratori - e questo accade dalla fine dell’Ottocento e poi per tutto il Novecento - più il Capitale mette in moto processi che evitino il pericolo della “caduta del saggio di profitto”; per cui se è vero che in occidente continuerà la spasmodica corsa al progresso tecnologico come strumento(non filantropico certo!) per contrarre i tempi di lavoro e accelerare i profitti, così come continuerà quel processo, che secondo Harvey Marx descrive con finezza estrema nel Primo Libro del Capitale, che potremmo definire di continua ricerca “creativa” di “bisogni indotti”,manipolati e sapientemente veicolati – si pensi all’oggi- dai 11 Come ha sottolineato Maffi nel commento a questo passo Marx nel sottolineare la violenza della penetrazione britannica non fa altro che riproporre un tema caro al Manifesto quando aveva scritto che «l’epoca borghese si contraddistingue da tutte quelle che l’hanno preceduta per il continuo rivoluzionamento della produzione, per l’incessante sovvertimento di tutte le condizioni sociali, per l’incertezza e il movimento continui ch’essa crea. Tutti i modi di vita stabili e arrugginiti, col loro seguito di antiche opinioni e credenze rese venerande dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver fatto le ossa. Tutto ciò che era fisso e gerarchicamente stabilito svapora;il sacro viene sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhi liberi da ogni illusione il loro posto nella vita[…]sfruttando il mercato mondiale, la borghesia ha reso cosmopoliti la produzione e il consumo di tutti i paesi» (Maffi, cit. in p. 329) 7 mezzi di comunicazione: «la lotta per mantenere la redditività spinge i capitalisti a esplorare ogni tipo di altra possibilità. Si aprono nuove linee di prodotto e ciò significa la creazione di nuovi bisogni»12.Si tratta in sostanza, continua l’autore, del rafforzamento del lato feticistico del denaro, come espressione della sussunzione del significato(il prodotto del lavoro sociale) nel significante(mezzo-denaro che regola le relazioni umane) .Inoltre tanto più il Capitale ha bisogno di produrre profitti tanto più rafforza il valore-potere del denaro come il medium e unico veicolo(impersonale) delle relazioni umane. Dato infatti il doppio valore della merce (valore d’uso materiale, legato alla soddisfazione di un bisogno e valore di scambio simbolico) si determina, con la crescita della complessità della società capitalistica, la progressiva cristallizzazione del valore della merce in prezzi: «con il denaro il mistero della merce assume un altro aspetto, perché il valore d’uso del denaro è il fatto che esso rappresenta il mondo del lavoro sociale e del valore di scambio. Il denaro lubrifica gli scambi ma soprattutto diventa il mezzo con cui noi tipicamente confrontiamo e misuriamo , sia prima che dopo lo scambio, il valore di tutte le merci»13. In questo modo, ovvero attraverso il meccanismo della “circolazione” vengono occultate le relazioni di potere, poiché «il denaro conferisce il privilegio di esercitare il potere sugli altri:possiamo comprare il tempo del lavoro o i servizi che offrono[…]costruire sistematicamente relazioni di dominio sulle classi sfruttate semplicemente attraverso il controllo del potere del denaro»14. In sostanza si tratta di quel meccanismo che Marx aveva individuato già all’epoca dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 quando analizzando l’avvento della società moderna come frutto della separazione del lavoratore dal prodotto del suo lavoratore(avvento del lavoratore salariato), e quindi come frutto anche dell’avvento dell’economia monetaria, vengono sciolti i legami e le relazioni che formavano le comunità “tradizionali”, di modo che «il denaro diventa la vera comunità»15dominata da relazioni impersonali. Poiché poi le relazioni di scambio proliferano, il denaro sembra essere sempre più «una forza esterna e indipendente dai produttori» e ciò che «originalmente sembra un mezzo per promuovere la produzione diventa una relazione aliena»16 a essi. È come se il denaro e il mercato calassero un velo, “mascherando”le relazioni sociali tra le cose. In quanto allora produttori di merci alla ricerca di denaro dipendiamo dai bisogni e dalle capacità degli altri di comprare. I produttori di conseguenza hanno interesse permanente a coltivare negli altri appetiti, fino al punto in cui le idee riguardo a quanto rappresenta un bisogno sociale sono sostituite «dalla fantasia, dal capriccio e dalla stravaganza»17. Il produttore capitalista sempre di più «fa il ruffiano fra i consumatori» – ovvero sugli stessi lavoratori che vengono espropriati-alienati del prodotto del loro lavoro- «e il loro senso del bisogno, eccita in loro appetiti morbosi, aspetta ciascuna delle loro debolezze, il tutto per poter domandare un compenso per questo servizio d’amore[…]il capitalismo perciò produce sofistificazioni dei bisogni e dei loro mezzi da un lato, e 12 D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 2010², p. 135. 13 Ivi, p. 128. 14 Ivi, p. 131. 15 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it, Torino, Einaudi, 1949, p.23. 16 Ivi, p. 28. 17 Ivi, p. 30. 8 un imbarbarimento bestiale, una completa, non raffinata, astratta semplicità del bisogno dall’altra»18. India 1853 3) Prologo all’India bill (ediz. Maffi 2008, pp. 55-7) (ediz. 1960, 47-48) Questo articolo scritto nel maggio del 1853 è estremamente importante in quanto si staglia in un momento centrale delle scelte di politica estera del governo britannico che Marx intuisce precisamente. Alla scadenza del rinnovo della Carta della Compagnia delle Indie orientali britanniche il governo compie un ulteriore colpo di mano, esautorandola di fatto delle sue funzioni di autonomia commerciale19. L’Indian Bill in discussione proprio nel 1853 e approvato in quello stesso anno rappresenta dunque, nella lettura che ne dà Marx, il definitivo passaggio del capitalismo britannico dalla prima fase mercantilistica a quella imperialistica, caratterizzata da una aggressiva e massiccia penetrazione territoriale.(nota specchio Arrighi-Silver 2) Marx evidenzia questo passaggio sia nella parte finale di questo articolo, quando scrive che “le tre presidenze” - (Bombay, Calcutta, Madras, ovvero i nuclei originari dell’espansione territoriale della Compagnia, ciascuna amministrata da un proprio governatore di nomina regia. Con il tempo, e in particolare a partire dal Bill 1853 le amministrazioni perdono autonomia e l’amministrazione indiana subisce di fatto un processo di accentramento finalizzato al controllo governativo britannico. Nel 1858 Calcutta diviene sede del viceré inglese dell’India) – “hanno inviato a Downing Street petizioni deprecanti ogni legislazione affrettata”(p. 56); e nonostante ciò, conclude sempre nell’articolo, “il ministero è inesorabile […] è deciso a legiferare subito”(ibidem). Forse anche perché, subodora Marx in chiusura di articolo, questa “smania legislativa” si lega al fatto che “l’oligarchia inglese”- e qui allude chiaramente agli interessi della grande borghesia industriale e finanziaria britannica –“ ha il vago presentimento che i suoi giorni di gloria volgono alla fine, e un ben comprensibile desiderio di concludere un trattato con la legislatura britannica in forza del quale, se mai l’Inghilterra sfuggisse alle sue mani deboli e rapaci, rimanga tuttavia, a lei e consoci, nel prossimo ventennio, il privilegio di saccheggiare l’India”(p. 57). 18 Ivi, p. 31. 19 Essa già dal 1832 era stata in parte privata dei suoi privilegi, divenendo semplice “fidecommissaria della corona in India”. Tradizionalmente governata da una Corte di proprietari, o assemblea degli azionisti e da un’Assemblea di direttori,era divenuta nel corso del tempo troppo indipendente dalla Corte dei direttori, “divenendo una specie di giunta di governo con poteri quasi illimitati. Di fatto il Bill 1853 ridusse il numero dei direttori dai 24 precedenti a 18 e soprattutto stabilì che 6 di questi fossero eletti dalla corona:”altro passo avanti verso la liquidazione della Compagnia e il passaggio dell’intero governo dell’India alle dipendenze dirette di Londra”(cfr. B. Maffi, op. cit., nota, p. 326). 9 Ma, abbiamo accennato, Marx torna su questo discorso in altri due articoli che possono essere correlati alla discussione sul decreto legislativo(seppure non li abbiamo inclusi in questa breve ricognizione antologica): nel primo di questi [cfr. Maffi 2008, pp. 85-93; Meoc, pp. 178- 189: in questo volume la parte relativa all’India, riportata anche nell’antologia di Maffi, viene preceduta da una parte in cui sempre nel medesimo articolo Marx si occupa delle tensioni tra la Turchia e la Russia allora in discussione alla Camera dei comuni], il cui titolo completo è “La questione della guerra turca alla Camera dei comuni – Il governo dell’India”(Meoc, p. 178) e apparso sul NYDT il 20 luglio 1853, sottolinea come in realtà l’esautorazione del controllo dell’India alla Compagnia delle indie sia stato un progetto di lungo corso, e scrive: “il Bill 1833 rafforzò l’Ufficio di controllo, trasformò gli azionisti della Compagnia delle Indie orientali in puri e semplici creditori ipotecari dei redditi dell’impero , ordinò alla Compagnia di vendere le azioni, distrusse la sua esistenza mercantile, ne fece, nei limiti in cui politicamente esisteva, la fidecommissaria della corona:insomma trattò la Compagnia delle Indie orientali come questa era stata solita trattare i principi indigeni:li toglieva di mezzo, poi, per qualche tempo, continuava a governare in nome loro”(Maffi, 2008, p. 87) . È quindi per Marx già a partire dal 1833 che “la Compagnia delle Indie orientali è esistita soltanto di nome, e di un’esistenza appena tollerata”(ivi, p.88). Nel secondo articolo in questione [Maffi 2008, 94-98; Meoc, pp. 198-206: anche per questo articolo l’antologia di Maffi tralascia la parte iniziale dell’articolo, riportata in Meoc, relativa ancora una volta alle tensioni tra la Russia e la Turchia e all’ attenzione che la politica estera britannica dedica alla questione. Come vedremo nel corso della nostra analisi fino ad un certo punto, ovvero orientativamente fino al 1861, quando molto “approssimativamente”possiamo far iniziare il processo di mutamento sociale in Russia avvenuto con l’affrancamento dei contadini dalle leggi feudali che ancora li inchiodavano alla servitù della gleba, le potenze europee, in particolare l’Inghilterra e la Prussia, strizzano l’occhio all’autocrazia zarista considerandola un valido baluardo contro i pericoli rivoluzionari che già si erano manifestati nell’Europa occidentale, si pensi solo ai moti del 1848-49 solo per fare un rapido accenno] dal titolo “Difficoltà russo-turche – Tentennamenti del governo inglese – L’ultima nota di Nesselrode – La questione dell’India orientale”, apparso sul NYDT il 25 luglio 1853, Marx torna ad insistere sul fatto che “le clausole dell’ India Bill vengono approvate una dopo l’altra senza che il dibattito offra aspetti degni di rilievo”(Maffi, 2008, p. 94. Maffi in nota specifica: “si cominciava allora a discutere in Parlamento il sistema, legato al nome di Lord Dalhousie, di proclamare decaduti i principi indigeni rimasti senza discendenti diretti, invece di permettere loro di scegliersi un erede adottivo come era nella consuetudine ormai consolidata, e di annetterne i territori, p. 344). Di fatto sottolinea ancora Marx, “oggi gli stati indigeni[…]invece che alleati del governo britannico, sono i suoi vassalli sotto una grande varietà di condizioni, e in tutte le forme dei sistemi sussidiario e protettivo. Questi hanno in comune la rinunzia degli stati indigeni al diritto all’autodifesa, come a quello di mantenere rapporti diplomatici e appianare i reciproci contrasti senza l’intervento del governatore generale britannico. Tutti devono pagare un tributo, o in contanti, o in reparti armati agli ordini degli ufficiali inglesi (ivi, p. 95). 10 4) La dominazione britannica in India (o l’Inghilterra rivoluzionaria malgrado se stessa) (Maffi, 2008, pp. 67-74) (ediz. 1960, pp. 56-62) Questo articolo apparso sul NYDT il 25 giugno del 1853, scaturisce, ricorda Maffi (cfr., note, p. 335), “da un intenso scambio di idee fra Marx ed Engels sui problemi dell’Oriente, parzialmente documentato dal Carteggio”. Utilizzando l’idea di Engels(cfr. lettera a Marx 9 giugno 1853, p. 336) per cui la peculiarità dell’oriente, ovvero l’assenza di proprietà fondiaria privata, sarebbe riconducibile a ragione climatiche ovvero alla stragrande prevalenza di terre desertiche in Arabia, Persia India, per esempio (tesi che Engels, come traspare dal Carteggio riprende dal lavoro del medico francese F. Beriner, cfr. Maffi,pp. 335-36) , Marx nell’articolo sviluppa questa idea arrivando a scrivere che proprio dall’esigenza pratica di canalizzare, attraverso un forte e rigoroso controllo statale, le inondazioni per fecondare le terre desertiche si sarebbe in parte rafforzato il centralismo statale tipico delle società orientali e scrive: “come in Egitto e in India, così nella Mesopotamia, in Persia ecc., le inondazioni sono utilizzate per fecondare il suolo; si sfruttano le piene per alimentare i canali d’irrigazione. Questa necessità primaria di un uso comune ed economico dell’acqua, che in Occidente, come nelle Fiandre e in Italia, spinse a forze di volontaria associazione l’iniziativa privata, in Oriente, dove la civiltà era troppo rudimentale e le superfici troppo estese per chiamare in vita l’associazione volontaria, impose di necessità l’intervento del potere centralizzatore del governo”(p. 69). Ciò che però occorre mettere in luce di questo articolo, a nostro giudizio, è che l’accusa di eurocentrismo rispetto alla visione dell’oriente da parte di Marx, che trasparirebbe dalla sua prosa, sostenuta da alcuni interpreti sia eccessiva : ad esempio Amin nel suo Lo sviluppo ineguale sostiene che ancora nel 1953 prevalga in Marx una visione hegeliana della storia, per certi versi quella interpretazione stadiale della fasi di sviluppo storico proprie dell’Ideologia tedesca del 1845. Pertanto, sempre a detta di questo interprete ,se è vero che per quanto riguarda gli articoli sulla Cina, come vedremo, “Marx pensava sostanzialmente in termini hegeliani(ivi, p. 25), vedendovi l’espressione massima della forma di un “dispotismo patriarcale” e invece negli articoli relativi all’India legge una certa evoluzione - [grazie anche alle contestuali letture e studi economici, del resto già ricominciati a partire dal suo soggiorno londinese del 1849, fra l’altro “le Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” di A. Smith, le Letture introduttive sull’economia politica di Richard Jones, i Principi di economia politica di J. Stuart Mill, la Storia dell’India britannica di James Mill, i Viaggi in India del Bernier” – testo citato nel carteggio sopra ricordato con Engels- “e altre opere di storici e viaggiatori sull’Oriente”(ibid)] - ciononostante, argomenta ancora Amin, nell’articolo preso in esame se per un verso traspare un’avversione profonda ai metodi del capitalismo britannico, dall’altro emerge anche un “freddo disprezzo (per certi versi ancora hegeliano) per il mondo indiano tradizionale”(p.33) quando ad esempio Marx scrive: “fu l’invasore inglese a spezzare il telaio e il filatoio a mano. L’Inghilterra cominciò a espellere le cotonerie indiane dal mercato europeo;poi introdusse nell’Indostan i suoi filatoi ritorti; infine inondò dei suoi manufatti cotonieri la patria stessa del cotone[ma aggiunge] questo tramonto di città indiane celebri per i loro tessuti non fu certo la conseguenza più grave: il fatto è che il vapore e la scienza britannici sradicano sull’intera superficie dell’Indostan la combinazione fra industria 11 agricola e industria manifatturiera” (p. 71). Queste due circostanze e cioè il fatto che “gli indù, come tutti i popoli orientali, lasciassero al governo centrale la cura delle grandi opere pubbliche in quanto condizione prima dell’agricoltura e del commercio, e dall’altra fossero dispersi sull’intera superficie del paese e agglomerati in piccoli centri dall’unione di attività agricole e industriale di tipo domestico, queste due circostanze avevano generato dai tempi più remoti un sistema sociale tutto proprio[…]il cosiddetto sistema di villaggio”(ibidem). Ora scrive Marx, “l’intervento inglese ha distrutto queste piccole comunità semibarbare e semicivili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto(p.73) Sicuramente l’accusa di radicale “eurocentrismo” rivolta al Marx interprete dell’oriente è per certi versi eccessiva. L’evoluzione del suo pensiero lo condurrà, come ad esempio osserveremo negli articoli sulla Russia, ad una affrancamento definitivo da un approccio hegeliano e quindi eurocentrico della visione della storia. Anche se è pur vero – e lo vedremo ancora più in dettaglio in altri articoli relativi all’India ma anche alla Cina – probabilmente nonostante la sua capacità di porre l’attenzione sulla dimensione “planetaria”della storia mondiale, gli mancavano alcuni strumenti “tecnici” in grado di fornirgli elementi per analizzare approfonditamente la storia dei paesi a cui guardava pur con attenzione. È questa ad esempio, come vedremo negli articoli sulla Cina, l’accusa che muove a Marx una grande storica della società cinese come Edoarda Masi. Su questo aspetto, ovvero sulla necessità di “contemperare” l’accusa rivolta ad un presunto “Marx eurocentrico”si è espresso Kunihiko Uemura, in Marx and modernity (cfr.,Marx for the 21st Century, edited by Hiroshi Uchida, pp. 9-21). Indubbiamente, sottolinea Uemura, Marx è un pensatore della modernità, la quale idea necessariamente presuppone una visione “eurocentrica”. Egli infatti indaga i processi e i passaggi epocali, in particolare l’avvento della società industriale, che hanno riguardato in prima istanza l’Europa e in primo luogo l’Inghilterra. Conseguentemente il suo sguardo “centrato”sull’Europa sarebbe una diretta conseguenza dell’interesse rivolto ai processi di cambiamento messi atto dalle dinamiche della modernizzazione e della nuova società di mercato. Ma proprio perché più di ogni altro autore a lui contemporaneo ha voluto indagare non tanto gli aspetti progressivi di quel cambiamento, quanto le storture che quel processo stava(e avrebbe come quasi da autore profetico diagnosticò) mettendo in luce(alienazione e pauperizzazione estrema di una nuova classe sociale affacciatasi sulla storia, il proletariato; dinamiche di accaparramento selvaggio di risorse e materie prime necessarie all’accumulazione capitalistica ai danni dei paesi extra-europei), Marx è sicuramente un interprete problematico della modernità. Nel senso che più di ogni altro – per citare il concetto di “contrappunto”saidiano, ripreso da Uemura, ha disvelato il lato oscuro, selvaggio e predatorio di quella modernità che la fiducia ottimistica nel progresso della scienza e della tecnica e nella sua capacità di migliorare automaticamente le condizioni di vita dell’umanità intera, tanto celebrata dalla coeva filosofia del positivismo, aveva occultato. Sicuramente il progresso tecnico ha per Marx, e lo vediamo anche in questi articoli presi in esame, permesso ad esempio a milioni di contadini poveri dell’India e della Cina di affrancarsi da forme di produzione arcaiche e non capaci anch’esse di garantire condizioni di vita degne(qui a dire il vero, lo sottolinea anche Uemura, forse Marx non ha approfondito in ogni suo aspetto la storia e l’evoluzione del “modo di produzione” asiatico, per citare il prima ricordato lavoro di Sofri) . Ma allo stesso tempo egli si è guardato bene - come contestualmente faceva ad esempio pensando ai proletari europei- dall’affermare che il passaggio a nuove “forme di produzione” avrebbe 12 “automaticamente” garantito il miglioramento complessivo delle condizioni di vita di tutti gli esseri umani. Come analiticamente dimostrerà nelle pagine del Capitale non è la tecnica in sé e il suo progresso a poter garantire un progresso sociale, bensì sono i “rapporti di produzione” e le forme di organizzazione sociale e politica che da essi possono scaturire a mettere semmai in moto l’avvento di una umanità più solidale in cui la ricchezza non sia solo prodotta e “accaparrata” da pochi, ma anche più “equamente”redistribuita. Così come più equilibrato, nel suo giudizio verso Marx, sembra essere un pensatore appartenente all’area dei Postconial studies Hosea Jaffe, il quale in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo,sottolinea come è maggiormente nella posizione di Engels che emergerebbe una visione deterministica del processo storico(cfr. ivi, pp. 19-20)tale per cui “la necessità storica dell’esistenza e della diffusione mondiale del capitalismo” sono “precondizione essenziale per una successiva rivoluzione proletaria per il socialismo”(ivi, p. 19). Questi teoremi, sempre per Jaffe, sono fondamentali per Engels, ma “non per Marx”, il quale si spinse sino a scrivere – come vedremo più avanti proprio negli articoli relativi alla Russia – che quel paese avrebbe potuto saltare lo “stadio capitalistico”nel processo rivoluzionario; e quindi proprio in questa analisi-previsione in realtà di Marx risiederebbe tutta la forza del suo marxismo-antideterministico. Certo è allora, ha argomentato Maffi(cfr., introduz., pp. 22-3), che se in alcune espressioni presenti nell’articolo di Marx può trasparire un certo cinismo, come quando scrive: “per quanto sia sentimentalmente deprecabile lo spettacolo di queste miriadi di laboriose comunità sociali[…]gettate in un mare di lutti[…] non si deve dimenticare [che il vero] problema[che occorre porsi ] “è: può l’umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali in Asia?(p. 73). Si tratterebbe argomenta ancora Maffi della messa in luce di quel concetto già espresso nel Manifesto del partito comunista del 1848, ovvero di quel riferimento, sottolineato anche in questo articolo del resto, ad un presunto “strumento inconscio della storia”(p. 74. Qui l’allusione è alla penetrazione britannica ovviamente),che lungi dal rappresentare un richiamo al determinismo teleologico presente nella filosofia della storia di matrice hegeliana, significherebbe invece, come ben ha argomentato Harvey, che Marx rappresenta contemporaneamente sia un pensatore della modernità(intesa come fiducia ottimistica nel progresso che ha visto nella cultura espressa dal positivismo ottocentesco il suo portato fondante), sia un pensatore “contrappuntistico”, per dirla con Edward Said, in grado di disvelare anche il lato oscuro e violento di quel processo. Marx in sostanza ha messo in luce la grande mistificazione che si cela dietro l’apparente e fluida circolazione monetaria che metterebbe, nella società borghese, tutti gli uomini, formalmente liberi(come sosteneva nello scritto del 1844 La questione ebraica riferendosi alla democrazia moderna nata dalla rivoluzione francese come espressione e sanzione di una libertà astratta che non tiene conto delle condizioni materiali d’esistenza che determinano la possibilità reale per gli uomini di esercitare e godere dei propri diritti) in condizione di scambiare con uguali possibilità sul mercato. Dall’analisi del doppio valore della merce (come valore d’uso e valore di scambio) condotta nel Primo libro del Capitale, Marx mette in luce tutto il meccanismo ambiguo(feticistico) che esso genera. La merce dobbiamo consumarla o scambiarla? A ben guardare si tratta di una domanda retorica. Essa era possibile agli albori della società mercantile, quando ancora l’economia curtense basata sull’auto sostentamento era prevalente. Ma con l’avvento della rivoluzione industriale e la 13 conseguente proliferazione dei mercati, dei rapporti di scambio, si è determinato necessariamente quel processo noto come “cristallizzazione del valore della merce in prezzi”20. Il problema era allora per Marx quello di liberarsi dal feticismo degli scambi di mercato e di demistificare(e per estensione smitizzare) il mondo sociale e storico proprio allo stesso modo. Questo era il compito scientifico che Marx si era proposto con il Capitale. Ma sottolinea ancora Harvey, già negli appunti dei Grundrisse scrive pagine illuminanti su questo, quando allude al fatto che la vecchia “mitologia”del progresso necessario all’accrescimento tecnologico, si è sostituita una nuova “mitologia”espressa dalla giustificazione dello “sfruttamento barbarico”necessario al progresso dell’intera umanità: «col capitale la natura diviene puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teorica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione. In conformità con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determinati dei bisogni esistenti, e la riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto questo esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito» 21. 5) I Risultati futuri della dominazione britannica in India (Maffi 2008, pp. 103-109) (ediz. 1960, pp. 86-91) (Meoc, pp. 223-229) L’articolo, pubblicato sul NYDT l’8 agosto 1853, continua per certi versi il ragionamento del precedente sempre in relazione alla dominazione britannica in India. Ad incipit dell’articolo, come è solito fare Marx nella sua perizia di contestualizzazione storica, si interroga e spiega come sia avvenuta questa “egemonica”penetrazione britannica in India e scrive: “il potere supremo del gran Mogol fu spezzato dai vicari mongoli; il potere dei vicari dai maharatta;il potere dei maharatta dagli afgani; e, mentre tutti combattevano contro tutti, gli inglesi intervennero, e furono in grado di soggiogarli in blocco. Un paese diviso non soltanto fra musulmani e induisti, ma fra stirpe e stirpe, fra casta e casta;una società la cui struttura si fondava su una specie di equilibrio derivante da una mutua repulsione e da un costituzionale esclusivismo fra tutti i suoi membri, un simile paese e una cosiffatta società non erano”- si interroga Marx – “la vittima predestinata della conquista?”(p. 103). Ecco 20 Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità,cit. pp. 128-29. 21 K. Marx, Grundrisse I, pp. 377, cit. in ivi, p. 141. 14 allora che proseguendo nel suo ragionamento, se l’India ha sempre avuto la vocazionetendenza strutturale ad essere una terra di conquista, meglio è che siano gli inglesi a farlo. Infatti scrive ancora:”l’Inghilterra in India ha una doppia missione da compiere; una distruttiva, l’altra rigeneratrice:demolire l’antica società asiatica, e gettare le basi materiali della società occidentale in Asia”(ivi, p. 104). Torna in sostanza nelle parole di Marx il concetto della borghesia come strumento inconscio della storia e portatrice di un processo di civilizzazione(che sappiamo, da quanto finora abbiamo tentato di argomentare occulta tutto il lato oscuro e barbaro del processo stesso). Gli inglesi infatti continua ancora Marx “furono i primi conquistatori superiori e quindi inaccessibili alla civiltà undù”(p.104). Mentre infatti “gli arabi, i turchi, i tartari, i mongoli, che avevano successivamente invaso la penisola, ben presto si induizzarono, essendo legge eterna della storia che i conquistatori barbari vengano conquistati dalla civiltà superiore dei vinti”(ibid.). Marx, assumendo appunto la superiorità inglese in termini di progresso tecnologico, afferma che gli inglesi riuscirono dove le precedenti invasioni non avevano potuto: distrussero la civiltà indù, nel senso di frantumare “le comunità indigene, sradicando l’industria indigena e livellando tutto ciò che, nella società indigena, era grande ed elevato”(p. 104). L’occidentalizzazione dell’India, mettendola in “rapida e regolare comunicazione con l’Europa[…]l’ha strappata all’isolamento ch’era la prima legge della sua stagnazione(ivi, p. 105). Più avanti scrive infatti: “in India, l’isolamento dei villaggi”, ovvero “l’organizzazione municipale” intesa come unità economica a se stante delle comunità di villaggio, “ha prodotto l’assenza di strade;l’assenza di strade ha perpetuato l’isolamento dei villaggi. Su questo piano, dato un certo grado di attrezzature elementari, una comunità esisteva quasi senza rapporti di scambio con altre e senza i desideri e gli sforzi che sono indispensabili al progresso sociale”(ivi, p. 106). Per questa ragione osserva Marx, avendo la tecnologizzazione inglese dotato lo sterminato territorio indiano di mezzi di comunicazione in grado di accorciare le distanze(esempio le ferrovie), da un lato ha creato le premesse per una “unità politica più solida e molto più estesa che non fosse sotto i gran Mogol, dall’altra ha gettato le fondamenta per il suo decollo economico: “l’introduzione di ferrovie può essere facilmente posta al servizio dell’agricoltura mediante formazioni di serbatoi là dove si richiede terreno per gli argini, e mediante scavo di canali lungo questa o quella linea. Così si potrebbe estendere l’irrigazione, che è la conditio sine qua non dell’agricoltura in Asia, e sventare le ricorrenti carestie locali dovute alla siccità (ivi, p. 105). Ma anche, anzi in particolare per questo articolo, le critiche al Marx eurocentrico non si sono risparmiate. Secondo Amin Marx tornerebbe decisamente ad una visione stadiale deterministica del processo storico, propria soprattutto dell’Ideologia tedesca(quindi ancora forte influenza visione hegeliana della storia). Inoltre - e questa critica va segnalata con precisione- poiché nella parte conclusiva dell’articolo Marx torna a ragionare sulla necessità che affinché sia dia davvero un progresso dell’umanità e un affrancamento dalla schiavitù dell’economia borghese sia necessaria una rivoluzione mondiale e che quindi la rivoluzione in occidente e oriente deve tenersi insieme(cfr., pp. 108-9) c’è stato chi, come Sofri, ha considerato questo auspicio di Marx legittimo ma utopico. La previsione di Marx, argomenta l’autore in Il modo di produzione asiatico, che il passaggio dalla fase del capitalismo 15 definito ancora per certi versi mercantilistico, proprio del tardo Settecento e del primo Ottocento, al capitalismo maturo del tardo Ottocento e in seguito proprio del xx secolo secondo il quale il processo di industrializzazione e quindi non più solo di “rapina di risorse e materie prime”, avrebbe fatto si che anche nei paesi extra-europei si mettessero in moto processi rivoluzionari nei rapporti tra le classi(ovvero la prefigurazione propria del Manifesto del 1948 che la borghesia crea la classe destinata a seppellirla), non fa i conti, sempre a detta dell’autore con un fenomeno fondamentale: “in realtà i monopoli, di cui Marx non poteva immaginare il grande sviluppo, si incaricano di impedire che un capitalismo locale, che effettivamente sorge, possa far loro concorrenza:lo sviluppo del capitalismo alla periferia rimarrà extravertito, basato cioè sul mercato estero; esso non potrà dopo di allora portare a un’espansione compiuta del modo di produzione capitalistico alla periferia(ivi, p. 209). 6) Per la legge di compensazione storica(la rivolta dei sepoys) (Maffi, 2008, pp. 113-116) (ediz. 1960, pp107-110) In questo articolo pubblicato il 4 settembre 1857 sul NYDT Marx continua nella disamina degli effetti dell’Indian bill del 1853. Prendendo in considerazione le modalità con cui il progressivo accentramento e occidentalizzazione degli stati indiani era avvenuto, rispetto al quale, agli occhi del giornalista, «le violenze commesse dai sepoys»(*nota specchio Torri 1) pur «mostruose, atroci, ineffabili» non possono non essere valutate lucidamente che come una conseguenza «della condotta degli stessi inglesi in India», Marx ha in mente non solo le violenze che si sono prodotte all’inizio della fondazione dell’impero orientale britannico, ma intende soffermarsi in particolare sull’«ultimo decennio di una dominazione ormai consolidata, per caratterizzare la quale basti dire 16 che la tortura formava un istituto organico della politica finanziaria del governo» (Maffi, 2008, p. 114). (*nota specchio Torri 2) Ancora una volta come in molti articoli che abbiamo esaminato torna centrale il concetto espresso nel Manifesto del 1848 in merito ad un presunto strumento inconscio della storia, in questo caso riferito al fatto che il popolo indiano non si è limitato a sottomettersi alla dominazione britannica ma ha assimilato la sua tecnica, la sua scienza e in questo caso specifico la sua brutalità; le sue parole sono ancora una volta lucidissime: « v’è nella storia qualcosa di simile alla legge di compensazione;e uno degli articoli di questa legge è che il suo strumento sia forgiato non dagli oppressi, ma dagli oppressori»(ibid). Nella parte finale dell’articolo Marx introduce un tema foriero di sviluppi futuri importanti. Parlando della disparità nel modo di valutare le crudeltà “oggetto d’analisi”egli specifica sarcasticamente, che sul piatto della bilancia pesa sempre di più, in termini di atrocità, quelle commesse dall’altro. Certo questa dell’alterità non è una categoria marxiana ma appartiene all’ambito degli studi post-coloniali, che emergeranno, a partire dal movimento di decolonizzazione successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, come area complessa e multiforme di approfondimento teorico, volta a mettere in luce il nesso tra secolare dominio coloniale e subordinazione culturale.(*nota specchio Hobsbawm) Qui Marx si limita a sottolineare il fatto che «mentre delle crudeltà degli inglesi si discorre come di atti di vigor marziale , e se ne parla in tutta semplicità, rapidamente senza trattenersi su particolari disgustosi, le violenze dei ribelli, sia pure rivoltanti, vengono esagerate di proposito» (ivi, 115) Dunque le osservazioni condotte da Marx in queste pagine ci consentono di aprire uno sguardo sul modo in cui l’occidente ha costruito l’immagine dell’oriente per utilizzare un’immagine cara al grande esponente degli studi post-coloniali, il palestinese Edward Said. (*nota specchio Said) Del resto come ha osservato Michelguglielmo Torri il nuovo rapporto di forze fra stati occidentali e asiatici, che aveva iniziato a prendere corpo fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, trovò espressione nel copernicano mutamento d’atteggiamento degli europei nei confronti delle civiltà extra-europee. Mentre ancora nell’età dell’illuminismo la maggioranza degli intellettuali europei aveva assunto una posizione di rispetto e nel caso della Cina di vera e propria ammirazione, con l’inizio dell’Ottocento quella che si potrebbe definire «la critica delle armi demolì in maniera rapida e irreversibile il rispetto e l’ammirazione nei confronti delle altre grandi civiltà: il cosmopolitismo dell’illuminismo divenne una cosa del passato mentre l’atteggiamento nei confronti delle culture non europee incominciò a essere caratterizzato in misura crescente da sufficienza, disprezzo e, in un secondo tempo, razzismo. Si trattò di un’evoluzione ideologica che, ovviamente, era legata alla necessità di dare una giustificazione etico-culturale al riordino in senso gerarchico dell’economia mondiale, un riordino imposto e mantenuto con la forza delle armi».(nota specchio Torri 3) Gli inglesi in Cina 1857-1860 17 Ritorniamo ora a concentrarci sugli articoli marxiani relativi alla Cina con cui Maffi ha aperto la sua raccolta antologica22. Prima di affrontare in particolare l’articolo in cui Marx si concentra sulla scaturigine del secondo conflitto in Cina (la seconda guerra dell’oppio del 1857) dobbiamo richiamare alcune considerazioni. Aprendo infatti la prima sezione dell’antologia abbiamo fatto riferimento in particolare ad un articolo, non compreso nell’antologia di Maffi, ma facente parte delle opere complete(Meoc), dal titolo Il trattato anglo-cinese (cfr, infra supra, pp..) in cui Marx, analizzando gli effetti degli accordi scaturiti dalla fine del primo conflitto con la Cina(la prima guerra dell’oppio iniziata nel 1839 e conclusasi con gli accordi di Nanchino del 1842) sottolineava come, nonostante il tentativo di penetrazione violenta nel mercato cinese, di fatto gli inglesi, per riuscire ad inserirsi in quel mercato e nell’economia cinese, pagheranno prezzi molto alti; essi dovranno stabilire- lo vediamo ora analizzando l’articolo seguente- quasi un regime di guerra permanente. Le ragioni di questa situazione si evinceranno dall’analisi marxiana degli articoli che abbiamo selezionato in questa sezione; ma appunto procediamo con ordine. Come bene sottolinea Maffi nell’introduzione alla sua antologia23 per Marx ciò che agli inglesi fu possibile in India(ci riferiamo in particolare al modo in cui Marx negli articoli che abbiamo selezionato analizza a partire dall’ Indian Bill il passaggio dal controllo delle rotte commerciali con l’India da parte della Compagnia delle indie orientali ad un controllo stanziale e politico della gran parte del continente indiano sotto l’egida della corona britannica) non riuscì in Cina se non appunto prezzo di sanguinosissime guerre. Questo accadde non solo perché, come già abbiamo sottolineato citando Edoarda Masi l’accusa di “sino centrismo”, ovvero il fatto di vedere il popolo cinese auto centrato e chiuso al contatto esterno, nella quale per certi versi a suo dire incorre anche Marx, è fuorviante in quanto il popolo cinese è stato sempre un popolo di viaggiatori e commercianti24 , ma anche perché gli inglesi non riuscirono ad impiantare un mercato di sbocco e smercio dei loro prodotti proprio a causa, come vedremo nell’ultimo articolo che chiude questa sezione, della struttura sociale e agricola cinese. Inoltre, come ha evidenziato bene Donatello Santarone, se da una parte per Marx, sulla scia di quanto affermato nel Manifesto del Partito comunista del 1848, la penetrazione del capitalismo in società non capitaliste è un processo necessario «per consentire l’industrializzazione di quei paesi e la conseguente formazione di un proletariato moderno»25. E in questa sua analisi egli non dimentica 22 Gli articoli che Marx scrisse sulla Cina per il NYDT sono 16. Più uno, dal titolo Persia-Cina,scritto da Engels su richiesta di Marx(cfr. lettere dell’8 e del 20 maggio 1857, MEOC, XL). Marx inoltre scrisse altri tre articoli sulla Cina che non vennero pubblicati. Nel complesso gli articoli come in parte già abbiamo visto in apertura della selezione antologica proposta da Maffi «spaziano dalle Guerre dell’Oppio ai trattati commerciali, dai rapporti Cina-Russia alla rivolta dei T’ai-p’ing fino alle ripercussioni che la politica coloniale inglese ha sulla politica interna della Gran Bretagna. Il tutto tenuto insieme dalla chiara consapevolezza che Marx ha della necessità per lo sviluppo del capitalismo britannico di sottomettere i grandi giganti asiatici, India e Cina. Non può esserci sviluppo mondiale del capitale senza l’impero» (D. Santarone, Educazione interculturale e immagine europea dell’Oriente,cit., p.5). 23 Cfr. B. Maffi, Prefazione a K. Marx F. Engels, India Cina Russia, cit., pp. 23-25. 24 E. Masi, op. cit., pp. 10-11. 25 D. Santarone, Educazione interculturale e immagine europea dell’Oriente,cit., p. 5. È vero pure che dal punto di vista della valutazione storica tale schema, ipotizzato da Marx, non sempre ha funzionato soprattutto quando è stato 18 mai, come vediamo anche da questi articoli, di sottolineare la brutalità e gli orrori che questo processo implica, ipocritamente mascherati dalla propaganda imperialista britannica come eventi necessari e civilizzatori. Dall’altra parte nulla lascia intendere nei suoi articoli, come invece alcuni critici hanno evidenziato( su tutti il più volte citato Amin26), che il materialismo storico «implicasse un’unica sequenza di modi di produzione – comunismo primitivo- schiavitù-feudalesimocapitalismo-socialismo»27. Tutta la fecondità “euristica” della marxiana analisi della storia in chiave anti-deterministica emergerà in particolare, come vedremo, nell’ultima sezione dell’antologia proposta da Maffi dove il filosofo di Treviri arriverà a ipotizzare, per la Russia, un diverso sviluppo delle forme dell’organizzazione sociale ed economica(come avverrà di fatto con la rivoluzione bolscevica del 1917) che non necessitano appunto il previo passaggio per la rivoluzione borghese. Tornando all’analisi della Cina, come ha sottolineato Arrighi «la nuova visione della Cina come antitesi dello stato egemonico europeo in formazione preparò il terreno al crescente scontro di civiltà che culminò nelle guerre dell’oppio degli anni 1839-1842 e degli anni 1856-1858. Le guerre dell’oppio furono combattute soprattutto per decidere se dovesse prevalere la concezione britannica o quella cinese del diritto, dell’amministrazione pubblica e dell’etica; e ciò non in astratto, ma all’interno dei domini dell’Impero cinese stesso[…]obbligando la Cina ad aprire i propri domini a un commercio privo di vincoli e al proselitismo, la Gran Bretagna stava effettivamente rappresentando l’interesse generale degli stati occidentali»28. Leggiamo ad esempio l’analisi che fa Marx nell’articolo che segue a proposito della violenza con cui gli inglesi danno inizio a quella che viene definita la seconda guerra dell’oppio.(* nota specchio maffi cina 1) 7) Il Caso dell’ Arrow (Maffi, 2008, pp. 125-132; ediz. 1960, pp. 121-126) Apparso sul NDTY il 23 gennaio 1857 l’articolo esordisce riportando la controversia fra «britannici e le autorità cinesi a Canton»; sarcasticamente Marx si appella ad uno spirito imparziale – evidentemente mancante agli inglesi- nella valutazione della ripresa delle ostilità: «la causa » scrive «che gli inglesi adducono per giustificare l’incidente è che un certo numero di funzionari imperiali, invece di ricorrere al console britannico per i provvedimenti del caso» - il riferimento è all’incidente dell’ Arrow, gli accordi di Nanchino che avevano concluso la prima guerra dell’oppio avevano stabilito la necessaria consultazione delle autorità britanniche nella valutazione delle controversie tra le parti- «hanno tratto in arresto alcuni malviventi cinesi a bordo di una lorcha all’ancora nel fiume delle perle,e ammainato dal pennone della stessa la bandiera inglese»(Maffi, 2008, p. 126). applicato in modo dogmatico. Anzi proprio in Cina la rivoluzione comunista del 1949 guidata da Mao Zedong fu essenzialmente a carattere contadino e non operaio (cfr. su questi aspetti storici, E. Masi, op. cit., pp. 97 e ssg). 26 S. Amin, Lo sviluppo ineguale, cit., in particolare pp. 21-23. 27 D. Santarone, Educazione interculturale e immagine europea dell’Oriente,cit., p. 5. 28 G. Arrighi, I. Ahmad, Miin Shih, Le egemonie occidentali in una prospettiva storica mondiale in Caos e governo del mondo,cit., p. 264. 19 Ma il punto per Marx non è tanto la valutazione delle clausole giuridiche del trattato, quanto il fatto che da questo fraintendimento gli inglesi traggono la possibilità di riaprire le ostilità con i cinesi che, come abbiamo sottolineato in apertura di questa sezione, risulterà funzionale al tentativo di avviare una penetrazione commerciale in Cina più massiccia di quanto finora gli inglesi erano riusciti a fare. In chiusura di articolo inoltre Marx si chiede: «forse ci si può chiedere se le nazioni civili della terra approveranno questo modo di invadere un tranquillo paese, senza preventiva dichiarazione di ostilità, per una supposta infrazione al capriccioso codice dell’etichetta diplomatica»29. Infatti, sottolinea ancora Marx, se durante la prima guerra dell’oppio le altre nazioni avevano accettato l’aggressione nell’allettante prospettiva di una apertura della Cina al commercio con l’occidente, l’evoluzione della situazione ha mostrato che la forza dei cannoni non è sufficiente a impiantare una struttura commerciale in grado di assorbire i prodotti occidentali. Nei prossimi articoli proseguiamo nell’analisi svolta da Marx su questa questione. 8) Commercio o oppio? (Maffi, 2008, pp. 167-172; ediz. 1960, pp. 157-160) Dunque dopo il precedente articolo del 1857, gli articoli sulla Cina riprendono solo l’anno successivo. Nel frattempo il governo Palmerston, come abbiamo accennato, è stato rovesciato da una coalizione conservatrice guidata da Lord Derby che utilizza la propaganda anti-bellicista per prendere il potere, salvo poi decidere di proseguire essa stessa le ostilità contro la Cina30. In particolare la nuova serie di scritti di Marx, che inizia non appena giungono a Londra le prime 29 Maffi, 2008, p. 131. Come ha sottolineato ancora una volta Arrighi «gli aspetti diplomatici e commerciali del braccio di ferro anglo-cinese non si risolsero facilmente. Si risolsero dopo più di mezzo secolo, attraverso l’imposizione forzata alla Cina di trattati estremamente iniqui, in nome dell’uguaglianza diplomatica e della reciprocità commerciale. Né il commercio e la diplomazia, comunque, erano i soli terreni di conflitto[…]il problema era se l’economia dell’Asia orientale avesse dovuto continuare ad avere come centro la Cina o se avesse dovuto invece diventare un elemento subordinato e periferico di un sistema capitalistico sempre più globale, con al centro la Gran Bretagna». Da un punto di vista sostanziale l’oppio non fu semplicemente un prodotto su cui l’interesse commerciale britannico si imbatté, «ma il solo mezzo commerciale di cui la Gran Bretagna disponesse per estromettere forzatamente la Cina dai vertici dell’economia dell’Asia orientale. In questa lotta l’oppio non fu un incidente della storia più di quanto ferro, carbone, ferrovie e navi a vapore non lo fossero per il vittorioso tentativo britannico di egemonizzare il mondo occidentale»( G. Arrighi, I. Ahmad, MIin Shih, Le egemonie occidentali, cit., in Caos e governo del mondo, cit., p. 264). 30 Ecco che allora anche in presenza di una scena parlamentare mutata, «la guerra in Cina continua a opera dei contingenti anglofrancesi che nel dicembre del 1857 occupano Canton e nella primavera 1858 Taku e nel giugno 1858 si conclude col Trattato di Tientsin, seguito a pochi giorni di distanza da analoghi trattati fra la Cina, la Russia e gli Stati Uniti»(Maffi, 2008, p. 168). 20 notizie sull’avvenuta conclusione diplomatica della seconda Guerra dell’oppio, analizzano la storia del commercio anglo-indo-cinese, per studiare le prospettive di un suo possibile incremento o piuttosto, come Marx evidenzia in un articolo dal titolo appunto Storia del commercio dell’oppio31, di un suo ristagno e quindi di un possibile riaprirsi del conflitto, come di fatto avverrà con la terza guerra dell’oppio. In questo articolo Marx mette in luce proprio il carattere controproducente per i sperati guadagni commerciali inglesi di una imposizione forzosa dello smercio dell’oppio; scrive infatti: «la continua emorragia di argento, provocata dalle importazioni d’oppio, aveva cominciato a creare problemi sia all’erario sia alla circolazione monetaria del Celeste Impero»32. Ci fu anche una discussione, sottolinea Marx, tra alcuni illustri uomini di Stato cinesi di legalizzare il commercio dell’oppio, impiantando così un’economia di mercato capace di portare profitti al paese; « ma dopo matura discussione, cui parteciparono tutti gli alti funzionari dell’impero e che durò oltre un anno, il governo cinese concluse che, visti i danni che infliggeva alla popolazione, il traffico nefando non andava legalizzato »33. In questa contraddizione, sottolinea ancora Marx, si inserisce la politica inglese con tutta la sua ipocrita pretesa «di esportare civiltà», salvo poi indugiare in una politica ambigua e doppiogiochista: «in quanto governo imperiale, esso ostenta assoluta estraneità al contrabbando dell’oppio,stipula anzi trattati che lo proibiscono. Ma in quanto governo dell’India, impone la coltivazione d’oppio nel Bengala con grave detrimento delle risorse produttive del paese, costringe una parte dei contadini indiani a coltivare il papavero, altri ne induce a farlo con l’incentivo di anticipi in denaro;detiene il rigido monopolio della fabbricazione all’ingrosso di questa droga deleteria;ne sorveglia con un intero esercito di spie la crescita, la consegna in determinati porti, la sua confezione nei modi che meglio si prestano alla necessità del contrabbando, e infine il suo trasporto a Calcutta, dove viene messo all’asta in luoghi di proprietà del governo e consegnato da funzionari governativi agli speculatori, per passare poi di lì nelle mani dei contrabbandieri che lo sbarcano in Cina»34. Ecco perché sostiene Marx nell’articolo apparso sul NYDT il 20 settembre 1858, e riportato da Maffi con il titolo Commercio o oppio? in fondo sia la prima sia la seconda guerra dell’oppio valsero solo a «stimolare il commercio della droga a spese del commercio legalmente riconosciuto»; e questo perché «i cinesi non possono smaltire insieme oppio e manufatti»35. Come scrive anche nell’articolo precedentemente riportato in fondo «se il governo cinese legalizzasse il commercio dell’oppio tollerando in pari tempo la coltivazione del papavero sul suo territorio, l’erario anglo-indiano subirebbe una vera catastrofe. Mentre predica apertamente il libero commercio di veleno, ne difende segretamente il monopolio della 31 cfr., MEOC, cit., pp. 17-20. 32 Ivi, p. 18. 33 Ibid. 34 Ivi, p. 19. 35 Maffi, 2008, p. 169. 21 manifattura»36. «Quando si esamina da vicino la natura del libero commercio britannico» chiosa Marx «non c’è quasi volta che al fondo della sua libertà non si scopra il monopolio»37. 9) Gli effetti del trattato 1842 sul commercio cino-britannico (Maffi, 2008, pp. 177-182) In sostanza allora, anche alla luce di quanto finora detto, se è vero che, osserva Marx, nell’articolo apparso sul NYDT il 5 ottobre 1858, sin dalla fine della prima guerra dell’oppio nel 1842, il commercio inglese con la Cina non ha fatto altro che ristagnare; anzi si può tranquillamente osservare come mentre l’afflusso di merci cinesi come la seta e il thea in Inghilterra ha continuato ad aumentare, le esportazioni inglesi sono diminuite drasticamente e questo nonostante le clausole presenti in entrambi i trattati sia del 1842(Nanchino) e poi del 1858(Tientsin), avessero imposto alla Cina l’apertura forzosa di sempre più porti alle merci britanniche38. Ci fu bisogno dell’apertura di un nuovo conflitto, quello del 1860 che sancirà l’inizio della terza guerra dell’oppio, per tentare, ancora una volta inutilmente, di avviare una penetrazione commerciale. Scrive così Marx in un articolo apparso sul NYDT il 27 settembre 1859, dal titolo appunto La nuova Guerra cinese: «in un momento in cui l’Inghilterra riceveva da ogni parte congratulazioni per aver estorto al Celeste Impero il trattato di Tientsin, io cercai di dimostrare che la Russia»39era di fatto la sola potenza «che avesse tratto beneficio dalla piratesca guerra anglo-cinese, e che perciò i vantaggi commerciali che venivano all’Inghilterra dal trattato erano abbastanza irrisori; mentre da un punto di vista politico, ben lungi dall’aver instaurato la pace, quel trattato ha reso inevitabile una ripresa della guerra. Il 36 MEOC, cit., p. 20. 37 Ibid. La seconda parte di questo articolo viene antologizzata da Maffi con il titolo redazionale Libero scambio uguale monopolio, scritto il 3 settembre 1858 apparirà sul NYDT il 25 settembre 1858, (cfr. ivi, pp. 173-76). 38 In particolare le clausole presenti nel secondo trattato «contemplavano l’apertura di nuovi porti, il diritto di rappresentanza diplomatica a Pechino, il diritto di navigazione sullo Yangtze fino a Hankow, il libero accesso e movimento degli stranieri in Cina, l’extraterritorialità, il riconoscimento delle missioni cristiane:inoltre, erano previste la revisione dei trattati di commercio e un’indennità di guerra» (Maffi, 2008, p. 360). 39 In un articolo apparso sul NYDT il 7 aprile del 1857 e selezionato da Maffi con il titolo appunto La Russia si inserisce nel gioco Marx aveva già individuato il futuro ruolo strategico giocato dalla Russia nelle relazioni commerciali con il celeste impero. I russi«godono di una rappresentanza a Pechino. È vero che, a quanto si dice, la Russia paga questo vantaggio accettando graziosamente d’essere considerata alla Corte celeste come stato vassallo e tributario dell’impero cinese; ma esso permette alla sua diplomazia di assicurarsi in Cina, come già in Europa, una influenza che non si limita a pure e semplici operazioni diplomatiche. Essendo esclusi dal commercio marittimo con l’impero cinese, russi sono infatti liberi da qualunque interesse e da qualunque legame in dispute passate o presenti in materia; e sono al riparo da quella antipatia con cui, da tempi immemorabili, i cinesi guardano i forestieri che si avvicinano per mare alle loro terre[inoltre ] a titolo di indennizzo per tale esclusione dal commercio marittimo, i russi godono di una forma tutta particolare di commercio, terrestre e confinario, in cui pare impossibile che debbano trovare rivali. Questi scambi, regolati da un trattato concluso nel 1787[prevedono]nei principali articoli negoziati, da parte cinese,il tè, da parte russa, le lanerie e cotonerie » (Maffi, 2008, pp. 147-48). 22 succedersi degli avvenimenti ha confermato in pieno quelle opinioni. Il trattato di Tientsin sembra ormai appartenere al passato, e le parvenze della pace sono scomparse di fronte alle dure realtà della guerra»40. Ma osserva ancora Marx in seguito, questa volta l’apertura di nuove ostilità sarà molto più difficile da giustificare e non solo agli occhi dell’opinione pubblica britannica. Ad esempio presso i ceti mercantili britannici è tutt’altro che popolare l’idea dell’apertura di una terza guerra cinese. Mentre infatti ancora nel 1857 «questi cavalcavano il lenone britannico perché si aspettavano grandi profitti commerciali dall’apertura forzata del mercato cinese. Ora invece sono alquanto irritati perché si vedono sfuggire di mano improvvisamente i frutti del trattato ottenuto. Sanno che la situazione è già abbastanza preoccupante in Europa e in India, senza l’ulteriore complicazione di una guerra cinese su vasta scala. Non hanno dimenticato che nel 1857 le importazioni di tè sono cadute di oltre 24 milioni di libbre, il tè essendo il prodotto più importato quasi esclusivamente da Canton, che era allora il teatro della guerra; e temono che la stasi commerciale determinata dalla guerra possa ora estendersi a Shanghai e agli altri porti commerciali del Celeste Impero»41. Questo ristagno, in parte, come vedremo nel prossimo articolo, era dovuto alla struttura sociale ed economica cinese, in parte, come è stato osservato, anche al fatto che la Gran Bretagna non attribuiva nessuna importanza strategica alla Cina, rispetto ad esempio a quella accordata all’Impero ottomano, il quale«in virtù della sua posizione geografica», era considerato «anello di congiunzione tra il continente europeo e l’India britannica»42. Per la Gran Bretagna in particolare il valore strategico principale della Cina «era circoscritto al ruolo che i suoi acquisti di oppio indiano giocavano nel facilitare le operazioni fiscali tra India e Gran Bretagna , un ruolo che non necessitava di un governo centrale forte ma che, al contrario, rendeva gradito ai britannici un governo debole»43. Date simili circostanze quindi «il governo dei Qing aveva molto più da perdere che da guadagnare da un ingresso nel sistema interstatale imperniato sull’Europa e proprio per questa ragione era molto meno disponibile del governo ottomano alle aperture commerciali e diplomatiche»44. In sostanza il problema con l’Impero cinese, soprattutto in seguito alla prima guerra dell’oppio, stava nel fatto che «rimase troppo forte per soddisfare gli interessi britannici in Estremo Oriente»45; anche se è pur vero che il processo di disgregazione dell’Impero cinese, causato dal commercio dell’oppio, fu aggravato dal trattato di Nanchino, le cui disposizioni accelerarono il declino della dinastia dei Qing46. Comunque nonostante ciò negli anni cinquanta e sessanta del XIX secolo il progressivo indebolimento della Cina dei Qing «non procedette abbastanza velocemente da esaudire la crescente volontà imperialista dei suoi avversari 40 MEOC, vol vxi, cit, p. 512. 41 Ivi, p. 527. 42 G. Arrighi I. Ahmad Miin-wen Shih, Le egemonie occidentali, cit., in Caos e governo del mondo, cit., p. 271. 43 Ibid. 44 Ibid. 45 Ivi, p. 272. 46 Cfr. su questo aspetto anche E. Masi, op. cit., pp.38-41. 23 britannici»47. Inoltre durante la seconda guerra dell’oppio, quando la struttura imperiale cinese sembrò ulteriormente indebolirsi, come abbiamo visto, a causa dello scoppio di una delle rivolte popolari più famosa della sua storia, quella dei Taiping, la Gran Bretagna tentò anche di giocare la “carta diplomatica”, aiutando il governo dei Qing a sopprimere la rivolta. Ma nonostante questo estremo tentativo lo scopo delle guerre britanniche del XIX contro la Cina «non fu quello di creare una condizione favorevole alla costruzione di rapporti commerciali basati sulla reciprocità e il rispetto delle rispettive sovranità, ma fu quello di imporre alla Cina e al mondo non occidentale una condizione di vassallaggio politico che era totalmente in contraddizione con le idee occidentali di uguaglianza internazionale e di sovranità nazionale»48. 10) I rapporti commerciali con la Cina alla luce della struttura sociale indigena (Maffi 2008, pp. 205-210; ediz. 1960, pp. 188-192) In sostanza per Marx, quello che agli inglesi fu possibile in India, ovvero di avviare una penetrazione commerciale a carattere politico stanziale, non fu possibile in Cina. Questo fatto dipese non solo dalle ragioni storico-diplomatiche finora ricordate, ma anche, come si evince bene da un articolo antologizzato da Maffi con il titolo redazionale “I rapporti commerciali con la Cina alla luce della struttura sociale indigena”49, dalla struttura sociale ed economica cinese. Secondo le 47 G. Arrighi I. Ahmad Miin-wen Shih, Le egemonie occidentali, cit., in Caos e governo del mondo, cit., p. 273. 48 Ivi, p. 277. Fu del resto questa la modalità di relazione politica ed economica più diffusa, fino al Novecento inoltrato come ha sottolineato Sofri, nel suo lavoro più volte ricordato, da parte delle potenze occidentali nei confronti dei governi e delle popolazioni del mondo non occidentale. Si tratta della forma di commercio monopolistico organizzata dal grande capitale occidentale il cui obiettivo rimane, nelle relazioni con i paesi extraeuropei, “l’extraversione”, ovvero un’organizzazione del mercato locale finalizzato unicamente al commercio estero e non al decollo di una base industriale matura in quei paesi (cfr., G. Sofri, Il modo di produzione asiatico,cit., pp. 122 e segg). Anche J. Ledbetter nella sua introduzione alla selezione antologica inglese di testi marxiani, già ricordata, sottolinea questo aspetto. In particolare mette in luce come la lettura – ma del resto anche nell’introduzione al nostro lavoro l’abbiamo ricordato(cfr., infra supra pp. 1-2)- degli articoli marxiani sul colonialismo britannico vadano affiancati alla lettura “contestuale” del primo libro del Capitale dove Marx analiticamente mette in luce il fatto che la prosperità dell’ sviluppo capitalistico dell’occidente possa continuare ad accrescersi (si pensi al processo di industrializzazione su larga scala che coinvolge l’Europa Occidentale e gli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento) a condizione di poter continuare a sfruttare(come vediamo in questi articoli Marx non esita a parlare di rapina di risorse e sfruttamento brutale della manodopera locale) le risorse delle colonie(cfr., J. Ledbetter, Introduction to Dispatches for the New York Tribune, cit., pp. xxiii-xxv). 49 Questo articolo, pubblicato anonimo, apparve sul NYDT il 3 dicembre 1859 (cfr., Maffi, 2008, p. 362). 24 tesi presenti in alcuni brani del rapporto del rappresentante commerciale inglese a Canton (Mitchell) e di cui nell’articolo vengono riportati ampi stralci, una delle ragioni principali di tale situazione dipende dalle «abitudini di vita dei cinesi» le quali essendo «così parsimoniose e conservatrici»50 difficilmente possono conformarsi con un sistema economico basato sull’accrescimento artificiale di bisogni, alla base dell’economia monetaria capitalistica. Infatti, continua il rapporto, «essi» i cinesi «portano appena ciò che portavano prima di loro i padri e i nonni; cioè lo stretto indispensabile e niente più, per quanto sia basso il prezzo al quale vengono offerte altre merci»51. Sulla base di queste affermazioni nell’articolo si dice che «il mistero è risolto dalla combinazione fra agricoltura minuta e industria domestica»52. Tale struttura determina un’economia di villaggio basata prevalentemente sull’autoconsumo, la quale non permette la creazione di possibili bisogni indotti artificialmente e l’instaurazione di un’economia di mercato. Ed è per questa ragione - come Marx ha messo in luce anche negli articoli in precedenza riportati dove si sottolineava il tentativo estremo inglese di penetrare nel mercato cinese tramite l’attivazione quasi di un sistema di guerra permanente – che molto probabilmente non ha senso inondare il mercato cinese di manufatti che non saranno mai assorbiti tramite la circolazione monetaria che caratterizza il regime capitalista. Inoltre nell’articolo viene affrontato un altro problema relativo alla difficoltà di estendere un’economia di mercato. Si tratta della nota questione relativa alla celebre definizione marxiana riguardo al carattere patriarcale dello Stato asiatico. (*Nota specchio Maffi cina 2)Mentre infatti, scrive ancora Marx nell’articolo, anche nelle Indie orientali gli inglesi ebbero inizialmente difficoltà ad avviare un’esportazione commerciale stabile vista «questa stessa combinazione di attività agricola e industria casalinga», in un successivo tempo, dato il fatto che qui(in India) «tale combinazione si basava su un regime di proprietà che gli inglesi, come supremi proprietari fondiari, furono in grado di corrodere e infine distruggere, convertendo con la forza una parte delle comunità autosufficienti dell’Indostan in pure e semplici farms » alla cultura di materie prime «da scambiare contro i prodotti finiti britannici»; in Cina, questo stesso meccanismo non riesce in quanto essi(gli inglesi) «non detengono ancora – e non è probabile che abbiano a conquistare – questo potere»53. 50 Maffi, 2008, p. 205. Nell’articolo vengono utilizzati come strumenti di analisi alcuni brani del Rapporto Mitchell (rappresentante commerciale inglese a Canton) presenti nel volume di Lord. Elgin, citato nell’articolo, Correspondence relative to Lord Elgin’s Special Missions to China and Japan (cfr., ivi, p. 362). 51 Cit., in ivi, p. 208. 52 Ibid. 53 Maffi 2008, p. 210. 25 Condizioni sociali e prospettive rivoluzionarie in Russia (1858-1894) Volendoci ora concentrare sull’ultima parte della selezione antologica di Maffi e riguardante gli articoli sulla Russia, dobbiamo dire, come già ribadito più volte, che proprio dalla lettura di questi articoli si comprende tutta la fecondità euristica del materialismo storico messo in campo da Marx e Engels. Diciamo subito che Marx ed Engels cominciano a guardare con interesse alla Russia in quel tornante storico in cui essa si stava trasformando da retroguardia della reazione in Europa a paese in cui nuove forze sociali rivoluzionarie cominciavano ad emergere con forza e vigore . Nella sezione antologica proposta da Maffi, riguardante la Russia, nella prima parte con il titolo “Sintomi di risveglio sociale, primi interrogativi e speranze”(cfr. pp. 219-222), vengono riportati alcuni stralci tratti dalla corrispondenza epistolare tra Marx ed Engels in cui i due appunto cominciano ad interessarsi all’evoluzione politica interna del paese «che potrà contrastare la sua tradizionale politica estera» (Marx a Engels, 29 aprile 1858, cit in p. 219). 26 Come sottolinea giustamente Maffi(cfr. nota pp.365-66 ) il risveglio dei moti contadini e l’inizio di quel costituzionalismo dall’alto promosso da Alessandro II a partire dal 1858, in risposta alle pressioni provenienti da varie parti dell’intellighenzia russa e di notabili per avviare uno schema di riforma agraria, avrà come esito, nonostante le resistenze da parte della nobiltà più reazionaria, l’importante abrogazione della servitù della gleba del 1861. È questo evento per i nostri autori a costituire lo spartiacque decisivo: da questo momento in poi, anche se lentamente, la Russia muta la sua posizione in Europa e da bilanciamento della politica delle alleanze conservatrici, inizia a divenire un pericoloso contenitore di istanze di rivendicazione e tensione sociale permanente. In particolare Maffi riporta una parte di un articolo di Marx apparso sul NYDT del 17 gennaio 1859 in cui egli afferma chiaramente: «è una storia vecchia quanto la storia delle nazioni che non si può emancipare la classe oppressa senza danneggiarne la classe che opprime[nella fattispecie] i contadini russi, essendosi fatta un’idea alquanto esagerata di ciò che lo zar intendeva concedere loro, sono divenuti sempre più intolleranti degli indugi dei padroni. Gli incendi che scoppiano in diverse province sono un sintomo d’irrequietudine, che non si deve sottovalutare[…]nella Grande Russia sono scoppiati disordini accompagnati da scene terribili, in seguito alle quali la nobiltà è fuggita dalle campagne in città, dove, sotto la protezione di mura e guarnigioni, può sfidare gli schiavi inferociti. In tali circostanze, Alessandro II ha creduto opportuno di convocare qualcosa come un’assemblea di notabili»(p. 220). A questo punto si chiede “retoricamente”Marx:« e se questa convocazione segnasse una svolta radicale nella storia della Russia?»(p. 221). Come sottolinea Maffi nel commento all’articolo il fatto è che molto probabilmente una volta messa in moto dallo stesso governo per l’irresistibile forza delle cose e sfruttata dalla nobiltà per ottenere a suo favore un certo allentamento del regime autocratico(nel 1862-63 saranno istituiti i consigli provinciali e distrettuali) «la situazione sfuggirà prima o poi al controllo delle classi dirigenti. In situazioni come il ’48 europeo le rivoluzioni devono ricevere il biglietto d’ingresso alla scena ufficiale dalle mani delle stesse classi dominanti»54. Vale la pena a questo punto soffermarsi sullo scritto di Engels seguente: 11) Le condizioni sociali in Russia( Maffi 2008, pp. 223-239; ediz. 1960, pp. 216-230) scrive a questo proposito Maffi «pubblicato nel Volksstaat col titolo “Soziales aus Russland” nel 1875, in epoca contrassegnata dagli ultimi sviluppi della polemica antibakuniana dopo il congresso della prima Internazionale all’Aia (1872)» (nota p. 367.)55 . Proprio in questo scritto il bersaglio polemico di Engels è un certo Traciov(1844-85) che, emigrato prima in Svizzera, si era successivamente trasferito a Parigi dove si avvicinò alle idee di Blanqui. È in particolare uno scritto di Traciov, sottolinea ancora Maffi, “i compiti della propaganda rivoluzionaria in Russia” del 1874, a fornire a Engels lo spunto per una satira sull’infantilismo bakuninista presente in questo scritto(cfr. nota p. 368). Riferendosi all’articolo pubblicato appunto nel Volksstaat ricordato, Engels sottolinea di aver operato una resa dei conti con una certa deriva anarchica e sovversiva dell’ideologia rivoluzionaria 54 P. 365. Maffi cita qui una frase da un articolo di Marx del NYDT del 27 luglio 1857. 55 Scrive ancora maffi: «questo articolo , fondamentale sia per la delimitazione ideologica del marxismo dalle varie sfumature populiste russe, sia per l’analisi dei processi economici e sociali in atto nelle campagne, venne ripubblicato da Engels, insieme ad altri saggi sul movimento internazionale, in volumetto apposito nel 1894 (Internationales aus dem Volksstaat)nella forma che qui seguiamo»(p. 367). 27 di cui lo stesso Traciov è imbevuto. E inoltre sempre questo scritto gli serve per approfondire, in contrapposizione, dei chiarimenti in merito allo sviluppo e all’articolazione di un possibile processo rivoluzionario in Russia. Infatti scrive: «nella seconda parte» dello scritto appunto «mi occupo prevalentemente delle condizioni sociali in Russia come si sono configurate dopo il 1861»(Maffi, p. 224). Per Engels in particolare gli sviluppi della situazione russa rivestono un’importanza enorme per la classe operaia tedesca. Se infatti fino a quel momento, come abbiamo già specificato, l’impero russo aveva costituito l’ultimo baluardo della reazione in Europa; in particolare tra Prussia e Russia c’era stato un sostegno reciproco: la Germania aveva interrotto il moto rivoluzionario in Polonia nel 1848-49 e lo Zar di tutta risposta aveva sostenuto la repressione della rivoluzione ungherese che si era pericolosamente avvicinata alle porte di Vienna. Dato questo sistema di alleanze, per Engels appare evidente la convinzione, propria anche di Marx, che «nessuna rivoluzione può ottenere vittoria definitiva in Europa occidentale finché l’odierno stato russo le sussiste accanto» (ibid.). per questa ragione «la caduta dello stato russo, il crollo dell’impero zarista è una delle condizioni preliminari della vittoria finale del proletariato tedesco» (ibid.). come sottolinea Maffi nel commento a questo, qui Engels allude ad un concetto che poi formulerà espressamente nella prefazione all’edizione russa del Manifesto del partito comunista, ovvero: «la rivoluzione a cui mira il socialismo moderno è, in sintesi, la vittoria del proletariato sulla borghesia, e il riordinamento della società mediante la soppressione di ogni differenza di classe. Essa presuppone non solo un proletariato che compia questa trasformazione radicale, ma anche una borghesia nelle cui mani le forze produttive sociali abbiano raggiunto un tale grado di sviluppo, che la soppressione definitiva delle differenze di classe sia possibile» (ivi, p. 226)56. Ora prosegue Engels «questo grado di sviluppo è stato raggiunto dalle forze produttive soltanto in regime borghese»(ivi, p. 227). Si osservi bene inoltre come questa affermazione di Engels non allude ad una visione determinista del processo rivoluzionario(anzi, come vedremo le sue, come quelle di Marx, osservazione sull’evoluzione della situazione in Russia, condurranno in tutt’altra direzione). Piuttosto, in adesione alla visione dialettica della storia, Engels mette in luce l’aspetto anche violento determinatosi con l’affrancamento dei contadini dalla servitù della gleba, in quanto quel processo ha «gettato la gran massa dei contadini in condizioni intollerabili di miseria»; dato infatti il loro “formale affrancamento liberatorio” «ora essi devono pagare gli interessi e il graduale ammortamento del debito contratto »(ivi, p. 228) per il fatto di essere divenuti potenziali proprietari delle terre liberate. In realtà quindi «la conseguenza più notevole di questa “riforma”fu appunto di accrescere l’imposizione fiscale dei contadini: lo stato conservò, grosso modo, l’ammontare delle entrate, ma scaricò sulle province e sui distretti una gran parte delle spese, a copertura delle quali si dovettero decretare nuove tasse – e si sa che in Russia, la norma è che i ceti superiori sfuggano quasi del tutto alle imposte e i contadini paghino, in pratica, anche per loro»(ivi, p. 229). Si è determinata così una 56 In nota scrive Maffi «rievocando nel 1884 la storia della gloriosa Neue Rheinische Zeitung Engels scriiveva: “il programma della N.Rh.Z consisteva in due punti principali: repubblica tedesca una, indivisibile, democratica, e guerra contro la Russia anche al fine di reintegrare la Polonia[…]La politica estera era semplice: sostenere la causa di ogni popolo rivoluzionario, fare appello alla guerra generale dell’Europa rivoluzionaria contro la gran riserva della reazione europea, la Russia» (nota Maffi, p. 269 28 situazione al limite della speculazione tale per cui il Kulak, ovvero il contadino arricchito. si presta, sotto forma di strozzinaggio, a prestare denaro di cui il semplice contadino ha assoluto bisogno per far fronte alle nuove imposte. Egli così si trova ancora più nei guai:«viene la stagione del raccolto e con esso il mercante di granaglie: carico di debiti, il contadino svende una parte del frumento, sul quale tuttavia egli e la sua famiglia dovrebbero campare. Il mercante [inoltre]sparge voci tendenziose che deprimono le quotazioni[ecco che ]la notevole esportazione di grano dalla Russia poggia dunque sulla fame della popolazione rurale»(ibid.). Dunque mettendo in luce questo aspetto, ovvero come nonostante l’abolizione della servitù della gleba la condizione dei contadini sia addirittura peggiorata, Engels sottolinea il fattoin polemica con la lettura(questa si deterministica di intendere il processo rivoluzionario) in particolare del Signor Traciov- che il problema non tanto quello di sbandierare una semplice rivoluzione sociale, questa è «pura tautologia»(ivi, p. 230). Infatti «ogni vera rivoluzione è una rivoluzione sociale dal momento che spinge al potere una nuova classe e le permette di modellare la società a propria immagine e somiglianza»(ibid.). Ma questo in Russia sarà possibile non pensando come fa Traciov, e vedremo anche il fronte populista, esaltando la superiorità del popolo russo rispetto al resto dell’Europa e la sua capacità di passare “direttamente” dalle forme primitive e originarie di organizzazione dell’economia agricola l’Artel’(forma cooperativa di produzione artigiana) e dell’ Obscina(forma di comune rurale) alla socializzazione dei mezzi di produzione propri della futura società socialista. Questa visione idolatrica e romantica del “comunitrarismo primitivo”(lo vedremo soffermandoci più in dettaglio sulla polemica di Marx e Engels con l’ideologia del populismo) distorce i termini della questione. Innanzitutto sottolinea ancora Engels in questo articolo, ad esempio l’Artel’è una forma cooperativa «sviluppatasi spontaneamente e tutt’altro che esclusivamente russa o anche slava. Associazioni analoghe si formano dovunque se ne presenti il bisogno: in Svizzera per le latterie, in Inghilterra per la pesca»; i tedeschi ad esempio «i terrazzieri della Slesia, che negli anni quaranta costruirono tante ferrovie germaniche, erano organizzati in veri e propri arteli» (ivi, p. 232). Per tale ragione a detta di Engels «il predominio di tale forma in Russia non prova affatto la sua capacità di spiccare direttamente il salto direttamente dall’Artel’ad un ordine sociale socialista» (ibid.). In particolare esso dovrebbe mostrarsi capace «di evolvere» nei rapporti sociali che di fatto, per il momento, vanno più a difesa del Capitale che della forza lavoro57. Per questa ragione sottolinea nella parte finale del suo scritto Engels la possibilità che in Russia si dia un passaggio della comune agricola a forme di collettivizzazione di tipo socialista della terra autogovernate dai contadini dipende principalmente – come ribadito più volte- dalla possibilità che in «occidente trionfi una rivoluzione proletaria che fornisca al muzik le condizioni preliminari indispensabili di questo trapasso e quindi anche i presupposti materiali che gli sono necessari, non foss’altro che per la trasformazione completa dei metodi di coltura a esso indissolubilmente legata»(ivi, p. 237). Ciò detto è proprio la rivoluzione dei rapporti sociali che deve avvenire congiuntamente in occidente e oriente e 57 Di fatto sottolinea Maffi, nonostante l’atto di emancipazione del 1861 i rapporti sociali nelle campagne rimasero immutati: invece dei canoni agrari versati in natura, ora i contadini dovevano affittare, o comprare(monetizzando il pagamento) i lotti di terreno su cui aveva lavorato per secoli in cambio di canoni versati in natura(cfr. pp. 372-73). 29 non l’avvento di una economia monetaria(intesa come presupposto primo per giungere poi alla socializzazione dei mezzi di produzione) – che tra le altre cose non fa altro che , come abbiamo visto descrive bene Engels, rintrodurre forme di sfruttamento capitalistico nelle campagne, a poter salvare la comune elevandola a forme superiori di organizzazione sociale. È questa profonda convinzione d’altronde a far distanziare Marx ed Engels dall’ideologia populista. È lo stesso Marx ad essere molto chiaro su questo punto in una lettera indirizzata a Vera Zasulic58 l’8 marzo del 1881(cfr. Maffi, pp. 246-47). Muovendo da una falsa e schematica alternativa, a detta di Marx, radicata nell’ideologia populista, poi passata anche nel futuro Partito operaio socialdemocratico russo, fondato da Plekhanov, e legata ad una lettura “deterministica”dei processi storici desunta dalla lettura del suo Capitale, si pensa che l’unica trasformazione possibile in Russia sia: di dissolvere la struttura sociale esistente per vie violente e immediate passando ad una forma “superiore”di organizzazione dei coltivatori agricoli, oppure di attendere, “fatalmente” ed “evoluzionisticamente”(sulla falsa riga dello schema descritto per la rivoluzione in Occidente) che avvenga prima il passaggio attraverso le forme della rivoluzione borghese per poi approdare al comunismo superiore. Per Marx tale schema di ragionamento si traduce in un astrattismo antistorico incapace appunto di comprendere le dinamiche economiche e politiche, così finemente descritte ad esempio da Engels nell’articolo precedente, legate all’evoluzione della società russa. Poiché inoltre il ragionamento descritto nel Capitale attiene ad un particolare momento storico di sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione in Occidente(dove la società borghese e i rapporti di proprietà e divisione del lavoro sono da tempo consolidati) , quell’analisi, sottolinea Marx, «non fornisce ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale»; piuttosto, continua, «lo studio che ne ho fatto mi ha convinto che la comune è il punto d’appoggio della rigenerazione sociale in Russia. Tuttavia perché essa possa funzionare come tale, occorrerebbe prima eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti, poi assicurarle condizioni normali di sviluppo organico»(ivi, p. 247). Anche per questa ragione scriverà ad esempio Engels il 23 aprile 1885 sempre alla Zasulic «la teoria storica di Marx è la premessa necessaria di ogni tattica rigorosa e conseguente; e per scoprire questa tattica non v’è che da applicare la teoria alle condizioni economiche e sociali del paese in oggetto»(Maffi, p. 261). Per questa ragione pur avversando per certi versi lo spontaneismo presente ancora nella matrice populista dei narodniki(l’ala più sovversiva dei rivoluzionari russi contro cui il nascente Partito operaio socialdemocratico russo tenderà sempre più a distanziarsi), sia Marx sia Engels ritenevano per la Russia venuto il momento di dar corso ad una rottura rivoluzionaria in grado di smuovere nel profondo quella scletorizzazione dei rapporti sociali immobilizzati. E questo non volendo sottovalutare l’importanza dell’organizzazione e del programma politico che il nascente partito operaio voleva darsi, ma scrive Engels «quello che so o credo di sapere sulla situazione russa mi induce comunque a pensare che laggiù il 1789 si avvicina. La rivoluzione può scoppiare al momento buono». C’è in sostanza qui una sottolineatura dell’importanza dell’innesco di una rivoluzione politica immediata tale da scuotere 58 Attivista populista aderisce poi al gruppo di Plekhanov, dal quale nascerà nel 1883 “Liberazione del Lavoro”, nocciolo del futuro Partito operaio socialdemocratico di Russia. 30 l’immobilismo dei rapporti sociali senza sottovalutare con questo il ruolo svolto dal programma e da un partito organizzato. Ma per certi versi l’inerzia fatalista in cui si avvolge l’ideologia del Partito operai russo rischia di sottovalutare l’importanza dell’azione politica. Come sottolinea Maffi viene prefigurato qui lo scenario del doppio salto del 1917 che trasformò una rivoluzione borghese progressista in quella socialista sotto la direzione dei bolscevichi. 12) Possibilità teoriche e premesse storiche del passaggio dalla comune rurale russa al comunismo superiore (Maffi 2008, 243-256;ediz. 1960 234-246). Veniamo ora all’esame di una serie di scritti di Marx redatti alla fine del 1877, raggruppati unitariamente nell’antologia da Maffi59. L’occasione dell’incipit degli scritti è offerta a Marx dalla volontà di rispondere in modo puntuale ad una serie di violente critiche che l’introduzione e la lettura del Capitale in Russia aveva sollecitato soprattutto tra le fila della intellighentzija rivoluzionaria russa. Non casualmente l’inizio degli scritti selezionati da Maffi è una risposta ad un certo Yu. G. Zukovskij(1882-1907), un economista già appartenente al gruppo periodico Sovremennik,che uscì dal 1836 al 1866. Quest’ultimo dalle colonne del liberale Vestnik Evropi aveva sferrato una violenta polemica contro Marx. Questa critica fece tanto scalpore tanto che un certo N. K. Michajlovskij, di idee populiste ritenne necessario cimentarsi in un’accasa difesa di Marx. 59 In realtà con il titolo redazionale “Possibilità teoriche e premesse storiche del passaggio dalla comune rurale russa al comunismo superiore”vengono riuniti sotto un unico titolo tre scritti perché, scrive Maffi, essi rappresentano un tutto organico: «chiarimenti di Marx sul concetto della inevitabilità dei processi storici, l’analisi delle possibilità teoriche di passaggio diretto dalla comune rurale primitiva al comunismo superiore e dei fattori storici positivi e negativi agenti sulla comune russa, affermazione della sola possibilità al 1882 di un “salto” dall’obscina al comunismo pieno» (Maffi, nota p.p. 375-76). 31 In sostanza questa serie di scritti sono messi insieme da Maffi proprio al fine di evidenziare l’equidistanza marxiana sia dall’ideologia più deterministica e meccanicistica di intendere il processo rivoluzionario sia dal fronte spontaneistico sovversivo proprio dell’ideologia populista. Marx infatti ritiene che se «la Russia continua a battere il sentiero sul quale dal 1861 ha camminato» - e che si sostanzia in una lettura deterministica e meccanicistica di intendere il processo rivoluzionario che è proprio sia del fronte riformista-moderato dell’ intellighentzija sia del fronte sovversivo populista (entrambi in sostanza partendo da una lettura riduttiva della dialettica rivoluzionaria presente nel Capitale, da posizioni opposte, aderiscono ad una visione evoluzionistica di intendere i processi storici) - «perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo e subirà tutte le peripezie del regime capitalistico»(Maffi, p. 244). Se infatti «[anche] la Russia aspira a diventare una nazione capitalistica alla stessa stregua delle nazioni dell’Europa occidentale […] essa non lo potrà fare senza aver prima trasformato buona parte dei suoi contadini in proletari: dopo di che, presa nel turbine del sistema capitalistico, ne subirà, come le altre nazioni profane le leggi inesorabili»(ivi, p. 245). Come abbiamo messo in luce nello scritto di Engels precedente non è l’introduzione dell’economia di mercato il mezzo fondamentale per accelerare il passaggio alla società socialista; essa semmai, abbiamo detto, può solo peggiorare le condizioni dei lavoratori agricoli che seppur affrancati da vincoli feudali si trovano in balia degli effetti speculativi propri del sistema di proprietà privata. Piuttosto la Russia ha oggi agli occhi di Marx la grande opportunità storica di evolvere dalle vecchie forme di comunitarismo primitivo al comunismo superiore, senza passare necessariamente e “dolorosamente” per il processo borghese, se, come abbiamo messo in luce in un articolo all’inizio del nostro lavoro e dal titolo “Rivoluzione in Europa e in Cina”, il processo rivoluzionario procederà parallelamente in Occidente e Oriente(cfr. supra, pp. 9-10). Avendo la rivoluzione borghese infatti fatto saltare confini e logiche rigidamente nazionali, attraverso l’uniformazione che la forma merce, per citare ancora una volta Harvey, impone al mercato mondiale,l’unica forma possibile che la rivoluzione socialista dei rapporti di produzione potrà avere,se vorrà risultare efficace,deve essere quella planetaria. 13) Bilancio finale nel proscritto di Engels a Condizioni sociali in Russia (Maffi, 2008, pp. 285-299; ediz. 1960, pp. 273-285). 32 Questo scritto di Engels, giunge a chiusura della ormai ventennale polemica coi populisti sulla questione della obscina, ma ancora di più come sottolinea Maffi, esso si occupa dell’analisi delle prospettive di sviluppo economico e sociale russo sul finire del secolo60 . Dunque Engels esordisce nell’articolo correggendo leggermente l’appellativo attribuito al Signor Traciov(che era stato l’oggetto della polemica dello scritto del 1875 su cui ci siamo soffermati), sostenendo che più che un anarchico, era un idolatra della superiorità del comunismo primitivo russo. Questa posizione viene ricondotta ad un certo Herzen e più in generale a quella ideologia propria del pensiero nazionalista panslavista che non era stata capace di vedere in una prospettiva storica l’evoluzione della comune agricola. Essa sottolinea bene Engels nello scritto è stata un’organizzazione sociale presente in molti popoli dall’India alla Germania in determinate fasi di sviluppo della loro storia, per questa ragione, essendo presente nella storia di molti popoli, non può essere vista come l’espressione della superiorità del popolo russo. Sulla base di questa ideologia quindi scrive Engels, Traciov vede «nei contadini russi dei comunisti nati[…] vicini al socialismo[che]per giunta stanno infinitamente meglio che i poveri e derelitti proletari europei occidentali»(Maffi, p. 286). Seguendo questo schematico ragionamento, scrive Engels, mentre «i repubblicani francesi considerano il loro popolo politicamente eletto, a quell’epoca molti socialisti proclamavano il loro popolo come il popolo socialmente eletto, e attendevano la rigenerazione del vecchio mondo economico non dalle lotte del proletariato occidentale, ma dalle segrete profondità dei contadini in patria»(ibid.). Ma sulla base del ragionamento di Marx ed Engels, più volte richiamato, bene sappiamo come nessuna rivoluzione dei rapporti sociali di produzione può avvenire senza una prospettiva mondiale. Per cui scrive ancora Engels «nell’atto stesso in cui, nell’Europa occidentale, il capitalismo è in crisi e gli antagonismi inseparabili dal suo sviluppo ne minacciano il crollo, una metà della terra coltivata in Russia è proprietà collettiva delle comuni agricole. Ora se in occidente» - ecco il punto dirimente del ragionamento- «la premessa della soluzione di questi antagonismi mediante una nuova organizzazione della società è il passaggio di tutti i mezzi di produzione, e quindi anche della terra, in proprietà sociale, in quale rapporto» - si chiede Engels «la proprietà comune già esistente(o meglio ancora esistente) in Russia sta con la futura proprietà collettiva socialista?»(ivi, p.288). Ancora una volta Engels, come nell’articolo Le condizioni sociali in Russia(cfr. supra,pp. 38-39), seguendo il ragionamento dialettico di Marx, contesta tanto lo schema populista che vedeva nella comune agricola la realizzazione già compiuta del socialismo, tanto la posizione del determinismo economicista(cara agli economisti liberali) secondo cui la Russia avrebbe dovuto prima distruggere la comune agricola «per passare di qui al regime capitalistico»(iv, p. 289), premessa a sua volta della rivoluzione socialista. Ancora una volta dunque Engels pone i termini della questione non sulla base appunto di una presunta celebrazione o meno della comune agricola, piuttosto analizzando la questione degli 60 Esso rappresenta la prosecuzione dell’articolo su cui già ci siamo soffermati (cfr. Le condizioni sociali in Russia) sempre dedicato alla polemica con l’ideologia populista, apparso nel 1875 sul Volksstaat, questa parte del 1894 ne rappresenta la naturale prosecuzione e conclusione(cfr Maffi, p. 388) 33 sviluppi rivoluzionari su scala mondiale, poiché, sulla scorta del Manifesto del partito comunista sappiamo che sono le forze produttive(sociali) a poter rivoluzionare i rapporti di produzione consolidati. Questi ultimi, senza le prime non sono capaci di mutamenti autonomi. Perciò scrive «l’iniziativa di un’eventuale metamorfosi della comune russa può venire non da essa, soltanto dai proletari industriali dell’Occidente. La vittoria del proletariato europeo occidentale sulla sua borghesia e la sostituzione, a essa collegata, di una produzione diretta socialmente alla produzione capitalistica:ecco le premesse necessarie di un innalzamento della comune russa sullo stesso piano » (ivi, p. 289). E questo continua Engels perché è vero che «mai e in nessun luogo il comunismo agrario tramandatosi dalla società gentilizia ha prodotto da se stesso altro che la sua disgregazione. Perfino la comune agricola russa era già, nel 1861, una forma relativamente indebolita di questo comunismo;la coltivazione in comune del terreno[…]aveva dovuto cedere il posto alla coltivazione per singole famiglie»(ivi, p. 290). In sostanza scrive ancora «tutte le forme di società gentilizia nate prima della produzione di merci e dello scambio individuale hanno questo in comune con la futura società socialista:che certe cose, i mezzi di produzione, sono in possesso collettivo e in uso comune di determinati gruppi. Ma questo carattere comunitario non abilita la forma sociale inferiore a produrre da se stessa la futura società socialista, questo prodotto ultimo e specifico del capitalismo»(p. 291). Anche per questa ragione, sul finire dello scritto, Engels vede di buon occhio l’accelerazione del processo di industrializzazione che si stata avviando in Russia sul finire dell’800. Certo nelle forme di un capitalismo di stato, e non, come si è verificato in occidente, a partire dalla rivoluzione borghese dei rapporti di produzione. Infatti, scrive, «quando malgrado le sconfitte della guerra di Crimea» quella del 1855-56, «e il suicidio dello Zar Nicola, dispotismo zarista riuscì a sopravvivere immutato, una sola via rimase aperta:il passaggio il più rapido possibile all’industrialismo capitalista[ecco che allora]bisognava [ammodernare velocemente il paese]annullare le distanze costruendo una rete di ferrovie strategiche[ma appunto]le ferrovie significano industria capitalistica e rivoluzionamento dell’agricoltura primitiva. Da un lato i prodotti del suolo anche delle regioni più sperdute entrano in collegamento diretto col mercato mondiale; dall’altro non si può costruire una vasta rete ferroviaria senza un’industria nazionale che fornisca binari, locomotive, vagoni, ecc»(ivi, p. 296); ecco allora il punto: non è pensabile introdurre un ramo della grande industria senza «importare nello stesso tempo l’intero sistema;di qui l’intero slancio dell’industria tessile su base relativamente moderna», cosicché «alle ferrovie e alle fabbriche seguirono l’ulteriore espansione delle banche già esistenti e la creazione di nuove»(ibid.). Inoltre dal punto di vista sociale c’è stato una innegabile accelerazione del dinamismo sociale. Anche se in Le condizioni sociali in Russia Engels leggeva l’affrancamento dei contadini dalla servitù della gleba come un processo che da solo non avrebbe determinato “necessariamente”la loro liberazione da forme di sfruttamento vessatorie, come abbiamo più volte sottolineato, ciò detto, ora egli sottolinea un fatto innegabile: l’emancipazione dei contadini ha indubbiamente facilitato «la libertà di movimento personale» e questo in attesa «della liberazione di una gran parte dei contadini anche dal possesso della terra»(ibid.). In breve tempo furono gettate tutte le basi del modo di produzione capitalistica; la borghesia «in rapida ascesa»ha impresso un’accelerazione nel ritmo di sviluppo, avviandosi ormai secondo il sentiero già battuto dallo sviluppo capitalistico in occidente. La lettura di Engels in tal senso non si configura in termini deterministici, ma parte dalla constatazione di un fatto storico: «non si poteva pretendere dalla Russia, accanto al secondo impero in Francia e alla splendida 34 fioritura dell’industria capitalistica in Inghilterra, di gettarsi dall’alto in esperimenti di socialismo di stato sulla base della comune rurale» (ivi, p. 297). Solo dopo l’avvento delle rivoluzioni dall’alto inaugurate dalla Germania «e con essa, per contraccolpo, l’era del rapido sviluppo del socialismo in tutti i paesi europei. La Russia partecipò al moto generale , che vi assunse, come era logico, la forma di un’offensiva per l’abbattimento del dispotismo zarista, per la conquista delle libertà di movimento intellettuale e politica»(ibid.). In sostanza «il capitalismo ha fatto trionfalmente il suo corso, ottenendo ciò che al terrorismo non era riuscito: di spingere alla capitolazione il regime zarista»(ibid.). Nota 1 1) grande muraglia e cotonerie inglesi Come hanno argomentato Giovanni Arrighi e Beverly J. Silver l’analisi marxiana è ancora centrale. Essa ci aiuta ad affrontare le questioni attuali segnate ad esempio dal declino dell’egemonia economico-politica americana e dal passaggio a nuove e per certi versi non ancora del tutto decifrabili forme di egemonie che gli autori definiscono “sistema multipolare”, senza cioè un centro di riferimento determinato. Marx infatti proprio negli scritti che ci accingiamo ad analizzare affronta le questioni allora all’ordine del giorno, specie qui la penetrazione del capitalismo britannico in Cina e India, allargando e approfondendo l’analisi in un quadro storico più complessivo. Utilizzando le “lenti focali”dell’economia marxiana pertanto gli autori mettono in luce come per quanto riguarda la storia del capitalismo europeo e in più in generale della modernità europea si possa parlare di tre fasi ben distinte, in cui appunto è possibile individuare un passaggio d’egemonia di un paese e un sistema economico all’altro. Scrivono in tale senso: «il proposito di questo libro è di dissipare almeno un po’ della nebbia che ci circonda, investigando le dinamiche del cambiamento sistemico in due precedenti periodi di trasformazione del mondo moderno, che assomigliano al presente per alcune caratteristiche chiave» (G. Arrighi, B. J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, 2010, p. 3). Secondo gli autori quella attuale è «un’epoca di declino e di crisi dell’egemonia mondiale americana[iniziata già molto tempo fa, la quale ]condivide importanti analogie con i due precedenti periodi di transizione dell’egemonia mondiale – la transizione dall’egemonia mondiale olandese a quella britannica nel XVIII secolo, e la transizione dall’egemonia mondiale britannica a quella statunitense nell’ultimo scorcio del XIX secolo e all’inizio del XX»(ivi, p. 4). 1 A tal proposito la storica della Cina, Edoarda Masi, ha sottolineato il fatto che occupandosi delle guerre dell’Oppio Marx evidenzierebbe ancora una visione eurocentrica della storia. La vulgata che vedeva, e nella quale secondo Masi incorre per certi versi lo stesso Marx, una «Cina barbaramente chiusa al commercio con l’estero»- la storica si riferisce al periodo precedente la guerra dell’oppio - «è una falsa nozione diffusa dagli aggressori [invece]fin dall’antichità e dal medioevo la Cina ha commerciato con gli altri paesi(inclusi quelli dell’occidente), soprattutto attraverso i mercanti dell’Asia centrale e occidentale(via della seta) e gli arabi(vie marittime). Gli stessi mercanti inglesi dal 1685 al 1760 erano stati autorizzati ad approdare e commerciare in tutti i porti cinesi della costa sud-orientale. La chiusura dell’impero cinese [quindi] dipendeva da una visione del mondo sinocentrica ed era politica e culturale, non commerciale» (E. Masi, Breve storia della Cina contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1979, p. 10). Inoltre sempre Masi si è espressa nel seguente modo rispetto alla vicenda della prima guerra dell’oppio e agli accordi che ne scaturirono: «quando gli inglesi si rifiutarono di sottoscrivere un impegno a non importare più oppio in Cina salvo rispondere davanti a tribunali cinesi, il commissario imperiale Lin Zexu chiuse il porto di Canton al commercio straniero e indusse il governatore portoghese di Macao( Aomen) a espellere gli inglesi, rifiutando loro i rifornimenti. Gli inglesi risposero con la guerra. La guerra dell’oppio(1839-1842) si concluse con una dura sconfitta per la Cina, ratificata nelle condizioni pesanti del Trattato di Nanchino (Nanjing):oltre alla cessione di Hong Kong (Xianggang) all’Inghilterra e al pagamento di un indennizzo di 21 milioni di dollari d’argento, i cinque porti di Canton, Shanghai, Ningbo, Fuzhou, Amoy furono dichiarati “aperti” al commercio degli stranieri, col diritto per questi ultimi di resistenza di consoli e di extraterritorialità(sottrazione al giudizio dei tribunali cinesi), di aprire scuole e di acquistare terreni, e di accesso di navi da guerra; i diritti doganali cinesi furono limitati al 5% e si stabilì l’adozione della clausola della “nazione più favorita” 35 negli accordi con le potenze occidentali(in tal modo ogni vantaggio ottenuto da un paese occidentale si estendeva automaticamente a tutti gli altri) »; in sostanza secondo Masi «la guerra dell’oppio segna il momento in cui l’Europa capitalistica per la prima volta aggredisce direttamente l’impero cinese con un’azione militare a sostegno del banditismo economico. È l’inizio di un processo che contribuirà alla disgregazione della società e dello Stato e alla bancarotta dell’economia cinese. Tuttavia la Cina non fu mai acquisita per intero nel mondo capitalistico-borghese»(ivi, p. 14). 1 Gli effetti distruttivi della pesante e violenta penetrazione britannica in Cina «fecero precipitare le già gravissime tensioni prodotte dalla decadenza economica e amministrativa interna, e nel ventennio fra il 1850 e il 1870 la Cina fu percorsa dalle rivolte popolari:oltre a quella gigantesca del Taiping Tianguo (1850-1864) nel medio e basso bacino dello Yangtze e quella dei Nian (1853-1868)[…]bersaglio prevalente delle rivolte erano l’amministrazione imperiale e la proprietà terriera, e al comune orientamento contro la dinastia Manchu si soprapponeva la generale e profonda ostilità agli stranieri e alla loro ingerenza nelle faccende interne cinesi[in particolare] la rivolta del Taiping Tianguo(Regno celeste della grande pace) [assunse caratteri di radicalismo egaulitario]: i Taiping infatti adottarono una politica egualitaria e comunistica, ispirandosi ad alcuni aspetti della dottrina cristiana. Il cristianesimo ebbe presso di loro una funzione analoga a quella che il taoismo e il buddhismo avevano avuto in precedenti rivolte popolari:l’affermazione di una verità in opposizione a quella delle classi dirigenti, espressa dalla classe confuciana, e la speranza di un millennio dove avesse fine la subordinazione dei poveri e la disuguaglianza fra gli uomini [inoltre secondo Masi] il fatto che i Taiping non facessero riferimento a sette taoiste o buddhiste ma a una religione non cinese né da lungo tempo acquisita in Cina è prova degli effetti multipli e contraddittori della presenza occidentale, e uno dei primi segni, anche fra gli umili, di una concezione più universalistica dell’umanità,dentro cui l’autoriconoscimento del popolo cinese comincerà a trasformarsi da pansinismo assoluto in mozione nazionalistica » (E. Masi, op. cit., p. 18). Inoltre come sottolinea bene Maffi nel commento all’articolo «quando scriveva Marx, il fondo sociale prevaleva ancora, dando al movimento un’impronta che andava oltre i termini di un cambio di dinastia e di una violenta reazione nazionalista sia al governo mancese sia alle ingerenze occidentali, e assicurandogli l’appoggio fattivo dei contadini ai quali i T’ai-p’ing avevano promesso una radicale riforma agraria. La situazione comincerà a mutare nella seconda metà del decennio quando, come in tutti i moti nazionalpopolari(giusta l’interpretazione già data da Marx e da Engels nel 1848-49-50), apparvero in luce le fratture interne di classe della grande rivolta, gli elementi conservatori imposero il rinvio a tempo indefinito della riforma agraria[…]mentre i rappresentanti del Celeste Impero della pace non disdegnavano di allacciare rapporti mercantili con britannici e francesi e le azioni militari si esaurivano nel terrorismo puro, non di rado a carico delle stesse masse popolari»(Maffi, p. 328) Nota 2 in 3) prologo all’indian bill Abbiamo già avuto modo di richiamare l’importante lavoro di G. Arrighi e B. J. Silver (cfr., Caos e governo del mondo,cit.) a proposito dell’analisi proposta dagli autori in merito ai passaggi epocali di egemonia - nella storia del capitalismo europeo dal xvii al xx secolo- quindi dall’egemonia olandese, a quella britannica ed infine quella americana. Ora nel primo capitolo di quest’opera, Geografia ed alta finanza,gli autori esaminano più in dettaglio proprio quella fase, la seconda, caratterizzata appunto dal passaggio dal capitalismo ancora prevalentemente mercantile, come era stato quello olandese, a quello imperialistico britannico che è l’oggetto d’attenzione degli articoli di Marx sull’India, quando come proprio in quest’ultimo egli si concentra sul significato “paradigmatico”relativo all’esautorazione del potere della Compagnia delle indie Orientali del controllo dei traffici con le indie. Secondo gli autori già all’epoca della fine della guerra dei Trent’anni (1614-1648) che si concluse con la pace di Westfalia e che determinò il passaggio «di un autorità sovrastatale imperial-papale» - all’interno della quale le Province Unite, ovvero «un’organizzazione a sovranità limitata, ancora in lotta per un riconoscimento giuridico della propria condizione di stato» e che tuttavia era riuscita ad aprirsi un varco nell’affermazione della propria supremazia sui mari a scapito della decadente potenza spagnola – ad una fase in cui «gli stati europei formavano un singolo sistema politico basato sul diritto internazionale e sull’equilibrio di potere» (ivi, p. 45), va rintracciata l’origine dell’affermazione della futura egemonia britannica. Una volta infatti consolidata la monarchia costituzionale e finite le guerre civili interne [il riferimento è ovviamente alla gloriosa rivoluzione del 1688 quando e non casualmente con l’intervento della potenza olandese allora ancora egemone(in questa fase inoltre l’Olanda e l’Inghilterra si trovarono “temporaneamente”alleate 36 contro il pericolo intravisto nella ascesa della potenza continentale francese di Luigi xiv che voleva candidarsi al ruolo un tempo ricoperto dalla Spagna) la reazionaria monarchia Stuart restaurata dopo la prima fase della rivoluzione, quella Cromwelliana del 1945, fu definitivamente sconfitta. L’Inghilterra instaurò una monarchia costituzionale sotto la guida di Guglielmo d’Orange e da quel momento in poi si candidò ad esautorare l’egemonia olandese nel ruolo di regina dei mari e dei traffici commerciali]. «Sotto Guglielmo iii la strategia inglese [fu quella] del “mare aperto, [ovvero] di contrastare il peso delle potenze continentali attraverso il controllo del commercio marittimo europeo[infatti]anche se l’Inghilterra si dotò di un solido esercito, la decisione strategica che venne presa fu quella di concentrarsi sulla marina, come conveniva a una potenza insulare» (ivi, p. 53). Insomma ci fu quasi una redistribuzione dei poteri fra stati alla Francia fu lasciata la sua ascesa politica territoriale in sede europea e l’Inghilterra si concentrò sull’ascesa economia del suo capitalismo, che come mette in evidenza Marx, per tornare al confronto con gli articoli oggetto d’analisi del lavoro, fu dalla metà dell’ottocento sempre più un tentativo di penetrazione politica e territoriale dei domini extraeuropei conquistati. L’altro volto del “pacifismo pragmatistico” in Europa, come lo definiscono gli autori nel quarto capitolo del libro, Le egemonie occidentali in una prospettiva storica mondiale, dimostrato soprattutto all’indomani del Congresso di Vienna del 1814 che permise sia di operare una “restaurazione autoritaria”dopo l’esplosione rivoluzionaria delle due rivoluzioni americana e francese, ma servì anche proprio all’Inghilterra per concentrare il suo sforzo soprattutto di aggressione militare nei paesi extraeuropei. Si trattò «di un appetito vorace per l’azione militare e per la conquista di mondi non occidentali. Solamente nel subcontinente indiano, la Gran Bretagna combattè dieci guerre. Queste inclusero due guerre anglo-maratha(1803 e 1818) – che portarono al controllo britannico su gran parte dell’India centrale e delle regioni dell’India nordoccidentale, una guerra anglo-gurkha(1814-1816) – che stabilì la presenza britannica in Nepal, due guerre anglo-birmane(1824 e 1852) – che portarono parte dei territori birmani sotto il controllo britannico, due guerre anglo-sikh – che estesero il controllo britannico ai confini con l’Afghanistan – e le infami guerre anglo-afghane del 1839-1842 e del 1878. Se consideriamo l’Asia e l’Africa nel loro insieme, ci furono ben settantadue distinte campagne militari britanniche tra il 1837 e il 1900» (ivi, 259). Soprattutto «la Gran Bretagna poté intraprendere tutte queste guerre e tuttavia ridurre la spesa militare e il personale in patria perché deteneva il controllo del più grande esercito “all’europea”in Asia, costituito prevalentemente – e pagato interamente- da indiani» (ivi, p. 260). Nota 3 in 6) per la legge di compensazione storica La seconda guerra mondiale sancì la definitiva crisi del colonialismo e l’affermazione, a livello internazionale, del principio di autodeterminazione. La decolonizzazione avvenne in forme relativamente indolori nei possedimenti inglesi, mentre la Francia applicò nelle sue colonie, vedi il caso della lunga e dolorosa vicenda dell’indipendenza dell’Algeria conclusasi solo nel 1962, una politica di forte resistenza nei confronti dei movimenti indipendentisti. Continuando a rimanere concentrati sull’area geografica oggetto d’analisi degli articoli marxiani, va ricordato che fu proprio l’Asia a precedere di quasi dieci anni il continente africano ad esempio nella liberazione dal dominio coloniale. Come ha scritto Eric J. Hobsbawm del resto «non c’è da sorprendersi se i vecchi sistemi coloniali si infransero innanzitutto in Asia. La Siria e il Libano(ex colonie francesi) divennero indipendenti nel 1945; l’India e il Pakistan nel 1947; la Birmania, Celylon(Sri-Lanka), la Palestina (Israele) e le Indie orientali olandesi (Indonesia) lo divennero nel 1948[…] l’Africa settentrionale islamica era già scossa, ma era ancora sotto controllo. La maggior parte dell’Africa sub sahariana e le isole dei Caraibi e del Pacifico rimanevano relativamente tranquille. Solo in alcune parti del Sudest asiatico ci si oppose seriamente alla decolonizzazione, i particolare nell’Indocina francese(gli attuali Vietnam, Cambogia e Laos) dove le forze di resistenza comunista avevano dichiarato l’indipendenza dopo la liberazione sotto la guida della nobile figura di Ho Chi minh. I francesi sostenuti dagli inglesi e poi dagli Usa, condussero una disperata lotta di retroguardia per riconquistare e mantenere il paese contro la rivoluzione vittoriosa. Furono sconfitti e costretti a ritirarsi nel 1954, ma gli Usa impedirono l’unificazione del paese e mantennero un regime satellite nella parte meridionale del Vietnam diviso in due» (E. J. Hobsbawm, Il secolo breve.1914-1991:l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1995, p. 258). Quello che lo storico inglese sottolinea in particolar modo e che interessa il nostro discorso sull’India è che 37 «diversamente ai francesi e dagli olandesi, la Gran Bretagna aveva imparato per lunga esperienza in India che dinanzi all’esistenza di un serio movimento nazionalista il solo modo di conservare i vantaggi dell’impero era di cedere il potere formale» (ivi, p. 260). Già la fine del primo conflitto mondiale la crescita infatti del Partito del congresso, espressione della borghesia indiana e soprattutto dell’influenza politica e morale di Gandhi, con una serie di campagne di disobbedienza civile e di boicottaggio delle istituzioni inglesi, aveva portare gli inglesi a importanti concessioni come la nascita della costituzione federale del 1935. Cosicché «Gli inglesi si ritirarono dal subcontinente indiano nel 1947, prima che diventasse palese la loro incapacità di controllarlo, e senza tentare alcuna forma di resistenza» (ibid). Del resto già durante la seconda guerra mondiale il Partito del congresso, guidato dal 1941 da Nehru, uno dei più stretti collaboratori di Gandhi, aveva promosso un movimento di resistenza non violenta alla guerra strappando agli inglesi la promessa di concedere all’India lo status di dominion, che equivaleva a una promessa di lì a poco di una indipendenza di fatto. Nota 5(64) in 10) I rapporti commerciali con la cina alla luce della struttura sociale indigena Nella nota relativa a questo articolo Maffi riporta la definizione contenuta nel Capitale di Marx. Nella parte introduttiva del nostro lavoro(cfr. infra supra pp. 2-4) abbiamo ricordato l’importanza della lettura contestuale, assieme agli articoli qui selezionati, sia del Primo libro della celebre opera marxiana(si è fatto riferimento in particolare all’edizione italiana curata da Delio Cantimori, per gli Editori Riuniti del 1989 ), riguardo ai meccanismi che presiedono l’accumulazione originaria della ricchezza(cfr. infra supra p. 2 nota 4), sia altri luoghi significativi di quell’opera e di alcuni appunti preparatori redatti tra il 1857 e il 1858 che costituiscono il primo abbozzo del Capitale. In generale «degli scritti di Marx del periodo 1855-67 hanno avuto pubblicazione postuma i manoscritti economicofilosofici del 1857-58. Costituiscono i cosiddetti Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica usciti nel 1839-41 a Mosca; ivi anche, sempre nel 1939-41 è uscita l’Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica(1859)» (N. Merker, op. cit., p. 116). Nel presente lavoro come integrazione alla selezione antologica di Maffi, sempre nell’introduzione(cfr. infra supra, pp. 1-4), abbiamo fatto riferimento a una recente antologia curata da Vladimiro Giacchè che seleziona importanti passi della monumentale opera marxiana e a cui ancora rimandiamo(cfr. V. Giacché, op. cit., pp. 67 e segg) . Proprio nel III Libro del Capitale, che anche Giacchè antologizza, è presente questa definizione dello stato asiatico riportata da Maffi in nota a p. 362 del suo volume e dove è scritto: «in Asia lo stato è il supremo proprietario fondiario; la sovranità è qui la proprietà terriera concentrata su scala nazionale. D’altra parte non esiste proprietà privata , pur esistendo il possesso e l’uso sia privato che comune della terra» (Capitale, Libro III, sez. Vi, cap. XLVII, cit. in ivi., p. 362). Inoltre sempre Maffi in un’appendice presente nel volume riporta anche in merito a questa questione, ovvero ad una resistenza «della struttura economica e sociale asiatica alla penetrazione del commercio capitalistico»(ivi,p.320) altri passi marxiani: una lettera di Marx a Engels dell ‘8 ottobre 1858, in cui in sostanza viene sottolineata la contraddizione esistente tra l’esigenza propria della «società borghese di creare il mercato mondiale» per accrescere sempre più il suo potere produttivo e le resistenze che, in determinati luoghi della terra,(la prospettiva del capitalismo ottocentesco è ormai già planetaria) essa incontra come appunto in Cina. Scrive infatti così Marx:«per quanto riguarda la Cina in particolare, mi sono accertato, mediante un’analisi rigorosa del movimento del commercio dal 1836 in poi, primo, che lo slancio delle esportazioni inglesi e americane dal 1844 al 1846 si rivelò nel 1847 un semplice imbroglio e, anche nel decennio successivo, la media rimase pressoché stazionaria, mentre le esportazioni cinesi in Inghilterra e America crescevano enormemente; secondo, che l’apertura dei cinque porti e l’occupazione di Hong Kong ebbero soltanto l’effetto di spostare i traffici da Canton a Shanghai. Gli altri empori non contano nulla. Il motivo principale del fallimento di questo mercato sembra doversi ricercare nel commercio dell’oppio, al quale in realtà si limita ogni incremento delle esportazioni in Cina; ma» - scrive Marx sottolineando quanto emerge anche dall’articolo di cui stiamo trattando - «v’è anche l’organizzazione economica interna del paese, la sua agricoltura minuta ecc., la cui distruzione richiederà un tempo enorme» (cit. in ivi, p. 321). Come ribadisce ancora nel III Libro del Capitale, di cui Maffi nella medesima appendice riporta un altro passo, mentre appunto in India nonostante la presenza «di comunità rurali basate sulla proprietà comune del suolo» comunque gli inglesi «come dominatori e come proprietari terrieri, si servirono della loro forza politica ed economica diretta per 38 distruggere queste piccole unità economiche»(cit. in ivi, p. 321). Infatti «l’influsso rivoluzionario del loro commercio sul modo di produzione indigeno» è reso possibile dal basso costo dei loro manufatti che distrugge «la filatura e la tessitura», le quali «da tempi immemorabili, fanno parte integrale di queste unità di produzione industrialiagricole»(ibid.); e ciononostante anche qui«l’opera di distruzione procede solo lentamente», in Cina, «dove non viene loro in aiuto la forza politica diretta, l’impresa è impossibile. La grande economia e il risparmio di tempo derivanti dalla combinazione immediata di agricoltura e manifattura offrono qui la resistenza più ostinata ai prodotti della grande industria, nei cui prezzi entrano i faux frais del processo di circolazione dovunque li penetra. In contrasto col commercio inglese, quello russo lascia invece intatta la base economica della produzione asiatica» (cit. in ivi, p. 322).Abbiamo visto(cfr. infra supra p. 33) come rispetto alla Gran Bretagna per Marx i rapporti commerciali dei russi con i cinesi fossero favoriti. Anche se in una nota redatta successivamente da Engles a questo passo del Capitale, e sempre riportata da Maffi, è scritto: «da quando la Russia si sforza accanitamente di sviluppare una produzione capitalistica propria, esclusivamente rivolta al mercato interno e a quello confinante in Asia, anche questo comincia a non essere più vero» (cit. in ivi, p. 322). Nota 8 in 7) Il caso dell’Arrow La serie degli articoli 1857-60 sulla Cina ha inizio quando già è iniziata la seconda guerra dell’oppio, «l’incidente dell’Arrow è dell’ottobre 1856, il primo bombardamento di Canton lo segue di poco» (Maffi 2008, p.125) . Lo scoppio delle ostilità provoca un vivace dibattito parlamentare, la caduta di Lord Palmerston (più che di un ministero si trattò di una vera e propria dittatura parlamentare, iniziata nel 1855 essa, con un breve intervallo proprio a causa dello scoppio della seconda guerra dell’oppio tra il 1858-’59, durerà fino al 1865) e il suo successivo ritorno al potere. L’analisi inoltre delle vicissitudini interne della politica inglese in coincidenza con la discussione sulle ragioni del nuovo conflitto aperto con la Cina sono l’occasione per Marx, come scrive nel secondo articolo antologizzato da Maffi, Dibattiti parlamentari sulle ostilità in Cina (cfr. ivi, pp. 133-38), per svelare tutta l’ipocrisia della propaganda bellicista. Infatti allo scoppio delle nuove ostilità con la Cina si era formata una vasta coalizione contro Palmerston, formata sia dai conservatori come Lord Derby ma anche dai sostenitori più agguerriti delle dottrine liberoscambiste «alla Cobden(autore della mozione di censura del governo per il bombardamento di Canton) e da radicali e liberali; ma la grande ironia storica che aveva riavvicinato i nemici di un tempo volle poi che gli avversari occasionali del premier si schierassero con lui in vario modo o, comunque, ne continuassero la politica di espansione imperiale: lord Derby, divenuto primo ministro nel febbraio 1858, proseguirà e concluderà la guerra cinese che un anno prima aveva combattuto alla Camera Alta; Cobden negozierà per conto di Palmeston, pur non facendo parte del suo gabinetto, il trattato di commercio 1860 con la Francia napoleonica»(ivi, pp. 351-52). Nota 2 in 1) Grande muraglia e cotonerie.. A tal proposito la storica della Cina, Edoarda Masi, ha sottolineato il fatto che occupandosi delle guerre dell’Oppio Marx evidenzierebbe ancora una visione eurocentrica della storia. La vulgata che vedeva, e nella quale secondo Masi incorre per certi versi lo stesso Marx, una «Cina barbaramente chiusa al commercio con l’estero»- la storica si riferisce al periodo precedente la guerra dell’oppio - «è una falsa nozione diffusa dagli aggressori [invece]fin dall’antichità e dal medioevo la Cina ha commerciato con gli altri paesi(inclusi quelli dell’occidente), soprattutto attraverso i mercanti dell’Asia centrale e occidentale(via della seta) e gli arabi(vie marittime). Gli stessi mercanti inglesi dal 1685 al 1760 erano stati autorizzati ad approdare e commerciare in tutti i porti cinesi della costa sud-orientale. La chiusura dell’impero cinese [quindi] dipendeva da una visione del mondo sinocentrica ed era politica e culturale, non commerciale» (E. Masi, Breve storia della Cina contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1979, p. 10). Inoltre sempre Masi si è espressa nel seguente modo rispetto alla vicenda della prima guerra dell’oppio e agli accordi che ne scaturirono: 39 «quando gli inglesi si rifiutarono di sottoscrivere un impegno a non importare più oppio in Cina salvo rispondere davanti a tribunali cinesi, il commissario imperiale Lin Zexu chiuse il porto di Canton al commercio straniero e indusse il governatore portoghese di Macao( Aomen) a espellere gli inglesi, rifiutando loro i rifornimenti. Gli inglesi risposero con la guerra. La guerra dell’oppio(1839-1842) si concluse con una dura sconfitta per la Cina, ratificata nelle condizioni pesanti del Trattato di Nanchino (Nanjing):oltre alla cessione di Hong Kong (Xianggang) all’Inghilterra e al pagamento di un indennizzo di 21 milioni di dollari d’argento, i cinque porti di Canton, Shanghai, Ningbo, Fuzhou, Amoy furono dichiarati “aperti” al commercio degli stranieri, col diritto per questi ultimi di resistenza di consoli e di extraterritorialità(sottrazione al giudizio dei tribunali cinesi), di aprire scuole e di acquistare terreni, e di accesso di navi da guerra; i diritti doganali cinesi furono limitati al 5% e si stabilì l’adozione della clausola della “nazione più favorita” negli accordi con le potenze occidentali(in tal modo ogni vantaggio ottenuto da un paese occidentale si estendeva automaticamente a tutti gli altri) »; in sostanza secondo Masi «la guerra dell’oppio segna il momento in cui l’Europa capitalistica per la prima volta aggredisce direttamente l’impero cinese con un’azione militare a sostegno del banditismo economico. È l’inizio di un processo che contribuirà alla disgregazione della società e dello Stato e alla bancarotta dell’economia cinese. Tuttavia la Cina non fu mai acquisita per intero nel mondo capitalistico-borghese»(ivi, p. 14). Nota 3 in 1) grande muraglia.. Gli effetti distruttivi della pesante e violenta penetrazione britannica in Cina «fecero precipitare le già gravissime tensioni prodotte dalla decadenza economica e amministrativa interna, e nel ventennio fra il 1850 e il 1870 la Cina fu percorsa dalle rivolte popolari:oltre a quella gigantesca del Taiping Tianguo (1850-1864) nel medio e basso bacino dello Yangtze e quella dei Nian (1853-1868)[…]bersaglio prevalente delle rivolte erano l’amministrazione imperiale e la proprietà terriera, e al comune orientamento contro la dinastia Manchu si soprapponeva la generale e profonda ostilità agli stranieri e alla loro ingerenza nelle faccende interne cinesi[in particolare] la rivolta del Taiping Tianguo(Regno celeste della grande pace) [assunse caratteri di radicalismo egaulitario]: i Taiping infatti adottarono una politica egualitaria e comunistica, ispirandosi ad alcuni aspetti della dottrina cristiana. Il cristianesimo ebbe presso di loro una funzione analoga a quella che il taoismo e il buddhismo avevano avuto in precedenti rivolte popolari:l’affermazione di una verità in opposizione a quella delle classi dirigenti, espressa dalla classe confuciana, e la speranza di un millennio dove avesse fine la subordinazione dei poveri e la disuguaglianza fra gli uomini [inoltre secondo Masi] il fatto che i Taiping non facessero riferimento a sette taoiste o buddhiste ma a una religione non cinese né da lungo tempo acquisita in Cina è prova degli effetti multipli e contraddittori della presenza occidentale, e uno dei primi segni, anche fra gli umili, di una concezione più universalistica dell’umanità,dentro cui l’autoriconoscimento del popolo cinese comincerà a trasformarsi da pansinismo assoluto in mozione nazionalistica » (E. Masi, op. cit., p. 18). Inoltre come sottolinea bene Maffi nel commento all’articolo «quando scriveva Marx, il fondo sociale prevaleva ancora, dando al movimento un’impronta che andava oltre i termini di un cambio di dinastia e di una violenta reazione nazionalista sia al governo mancese sia alle ingerenze occidentali, e assicurandogli l’appoggio fattivo dei contadini ai quali i T’ai-p’ing avevano promesso una radicale riforma agraria. La situazione comincerà a mutare nella seconda metà del decennio quando, come in tutti i moti nazionalpopolari(giusta l’interpretazione già data da Marx e da Engels nel 1848-49-50), apparvero in luce le fratture interne di classe della grande rivolta, gli elementi conservatori imposero il rinvio a tempo indefinito della riforma agraria[…]mentre i rappresentanti del Celeste Impero della pace non disdegnavano di allacciare rapporti mercantili con britannici e francesi e le azioni militari si esaurivano nel terrorismo puro, non di rado a carico delle stesse masse popolari»(Maffi, p. 328) Nota 4 in 6) Per la legge di compensazione storica… In particolare possiamo considerare Orientalismo di Said il testo fondamentale di messa in discussione della pretesa egemonica dell’occidente, una vera e propria sfida nei confronti di Hegel. Orientalismo infatti non si limita a tematizzare la rappresentazione dell’Oriente da parte dell’Occidente, ma spiega come senza questa rappresentazione, che nulla ha a che fare con la realtà dell’Oriente, non esisterebbe concettualmente l’Occidente medesimo. «Mi riferisco» - argomenta l’intellettuale palestinese in quest’opera- « ad uno stile di pensiero fondato su una distinzione sia ontologica sia epistemologica tra l’Oriente da un lato, e (nella maggior parte dei casi) l’Occidente dall’altro. È in 40 virtù di tale distinzione che un gran numero di scrittori –poeti, romanziari, filosofi, ideologi, economisti, funzionari e amministratori coloniali – hanno adottato la contrapposizione tra “Oriente” e “Occidente”come punto di partenza per le loro opere poetiche, teorico-scientifiche o politiche sull’Oriente e sul suo popolo[…]Prendendo il tardo secolo xviii quale approssimativo limite cronologico, l’orientalismo può essere studiato e discusso come l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente, gestione basata oltre che sui rapporti di forza economici, politici e militari, anche su fattori culturali, cioè su un insieme di nozioni veritiere o fittizie sull’Oriente. Si tratta, insomma, dell’orientalismo come modo occidentale per esercitare la propria influenza e il proprio predominio sull’Oriente» (E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 12-13). In sostanza il dominio coloniale ha generato anche una egemonia culturale interiorizzata dai colonizzati. La forma decisiva di dominio, di introiezione del consenso che diviene – per utilizzare le parole di Antonio Gramsci- forza egemonica è il conculca mento della qualità autonoma di chi è dominato, il tentativo di riduzione della sua realtà a rappresentazione del dominante. È stata questa intuizione del resto a guidare la riflessione del fondatore dei Subaltern Studies Ranajit Guha il quale, proprio sulla scia della riflessione gramsciana, si è sforzato di disseppellire dal silenzio – imposto dalle classi dirigenti, dagli storici di regime e dai nazionalismi ufficiali – la forza rivoltosa dei subalterni intesa come parte integrante della storia indiana. Quella inaugurata da Guha inoltre non si è configurata solo come l’inizio di una nuova corrente di studi, ma di una esperienza politica e intellettuale che ha cambiato radicalmente le relazioni fra intellettuali e popolo, in particolare la storia del Bengala sua terra d’origine, ma propagandosi anche all’India e agli studiosi dei Suboltern studies di seconda generazione come Chakrabarty, Chatterjee, Spivak. In questa esperienza, l’elaborazione d’una nuova egemonia ha saputo mettere a frutto la cultura delle classi subalterne attraverso anche un superamento della visione “occidentalista”delle rivolte contadine, la cui interpretazione forse più prestigiosa, negli anni d’incubazione dei Subaltern studies indiani, era quella di Eric Hobsbawm che ne contestava il valore politico (cfr. E. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino, 1965). Questa esperienza in particolare rivela una caratteristica generale dell’incontro di determinate culture nazionali con il pensiero di Gramsci. Come un recente volume, scaturito dal convegno internazionale svoltosi a Roma nel 2007 sul tema appunto Gramsci le culture e il mondo, ha messo in luce chiaramente, dall’India ai paesi dell’America Latina, l’influenza di Gramsci ha avuto un ruolo fondamentale nel rinnovare la storia politica dei gruppi intellettuali, favorendo il processo delle rivoluzioni democratiche in corso da più di un decennio. Così come non meno rilevante è stato l’incontro con Gramsci di quei gruppi intellettuali che, attraverso le sue categorie, hanno promosso una reinterpretazione storica delle rispettive culture nazionali e un ripensamento della propria tradizione (cfr. G. Vacca, Prefazione a Gramsci. Le culture e il mondo, a cura di G. Schirru, Viella, Roma, 2009, pp. 12-13). struttura libro maffi: dall’introduzione L’antologia curata da Bruno Maffi a cui si fa riferimento nel lavoro è composta di cinque sezioni, rispettivamente divise in articoli sull’India, sulla Cina e la Russia in un arco di tempo che va dal 1853 al 1894. Per quanto riguarda la Cina l’arco di tempo considerato comprende il periodo in cui gli inglesi sferrarono l’attacco più massiccio di penetrazione commerciale attraverso le tre guerre dell’oppio [in realtà come vedremo Marx scrive il primo articolo sulla Cina, qui riportato con il titolo redazionale Grande muraglia e cotonerie inglesi e già apparso sulla «Nuova Gazzetta renana. Rivista politico-economica» (NRZP), nel 1850, quando la prima fase della guerra dell’oppio, iniziata nel 1839, si era consumata e già erano stati stipulati, come vedremo, i primi accordi commerciali detti “Protocolli di Nanchino”nel 1842], l’arco di tempo preso in esame è dunque dal 1857 al 1860. Per quanto riguarda l’India gli articoli selezionati rientrano in due sezioni: nella prima, denominata India 1853, si prendono in considerazione gli articoli che Marx scrive durante quell’anno poiché oggetto di discussione, come vedremo, sarà il celebre Indian Bill, ovvero quella legge voluta dal parlamento inglese che di fatto determinerà il definitivo esautoramento della Compagnia delle indie orientali dal controllo dei traffici e commerci con la madrepatria, e il definitivo passaggio ad una forma di dominio diretto dell’India, con modalità più o meno formali e più o meno vessatorie. Tant’è che proprio nella terza sezione antologica riguardante sempre l’India, con il titolo qui redazionale Sangue e Riforme in India 1857-1858 ,Maffi prende ad esame quegli articoli in cui Marx sottolinea le atrocità con cui la penetrazione “territoriale”inglese in India stava avvenendo; di particolare interesse sarà, come vedremo, l’articolo che tratta della celebre sollevazione popolare contro l’invasore inglese, la cosiddetta “rivolta dei sepoys”avvenuta proprio nel 1857. Infine l’ultima sezione dell’antologia riguarda gli articoli 41 sulla Russia e la scelta cade su quei brani in cui sia Marx, ma anche Engels, i cui scritti molto interessanti sul tema sono stati inseriti da Maffi, cominciano a guardare a questa parte dell’Europa orientale non più come la retroguardia della “reazione”europea, ma come ad un paese in cui il veloce processo di industrializzazione stava mettendo in campo anche la possibilità che si potesse non solo giungere ad un organizzazione economico-produttiva superiormente organizzata, passando direttamente dalla forma comunitaria e agricola dell’ “obscina” e dell’ “artel”(ovvero le vecchie forme di uso e organizzazione comunitaria tipiche del latifondo orientale) ad una forma di socializzazione dei mezzi di produzione, senza passare “necessariamente”per il sistema capitalistico; ma anche dal punto di vista teorico l’interesse di Marx ed Engels come vedremo andrà a quelle teorie dei “narodniki” (i populisti), che seppur con molti limiti sostenevano la necessità dell’abbattimento immediato e violento della società zarista, senza aspettare “prima”il determinarsi delle condizioni della rivoluzione borghese. Come si può vedere saranno questi articoli importantissimi compresi in un lasso di tempo molto lungo, dal 1858 a 1894, e che ci aiuteranno a comprendere tutta la fecondità “euristica”messa in campo dal materialismo storico di Marx ed Engels: non solo questi articoli sfateranno il mito, sedimentatosi nella storia delle interpretazioni successive e proprie più del marxismo secondo internazionalista(1889-1917), ovvero di un marxismo inchiodato ad una visione teleologica di ascendenza hegeliana della storia, ma anche faranno evincere il valore anche prognostico dell’analisi marxiana della storia; in questi articoli, in sostanza, come sottolinea Bruno Maffi nella sua interessantissima prefazione, già si intuisce la possibilità che in Russia si determini una forma rivoluzionaria completamente nuova che sarà poi il “doppio salto”dell’ottobre 1917, quanto i bolscevichi, sconfessando il governo provvisorio del regime borghese di Kerenschi, instauratosi nel febbraio dello stesso anno, daranno vita alla Repubblica democratica dei Soviet (l’Urss), cfr. B. Maffi, Prefazione a K. Marx F. Engels, India Cina,cit., pp. 23-25. Sul tema vedi pure il celebre lavoro di E. Hobsbaum, Il secolo Breve, Rizzoli, Milano, 1989, pp. 45-60. Nota 1 in 6)Per la legge di compensazione storica… Prendendo come tempo cronologico di riferimento i primi sette decenni dell’Ottocento, lo storico dell’India Michelguglielmo Torri considera la rivolta del 1857 dei sepoys espressione «della prima grande crisi del regime coloniale» ; dopo di essa necessariamente - come abbiamo visto già acutamente osserva Marx quando parla della definitiva esautorazione del controllo delle rotte commerciali proprie della Compagnia delle Indie e il progressivo accentramento delle principali provincie indiane sotto un protettorato direttamente collegato alla corona britannica(sappiano che per Marx appunto l’Indian bill del 1853 ha proprio questa valenza) - «dopo di essa[la rivolta], non solo il governo di Sua Maestà pose [definitivamente] termine alla Compagnia, ma inaugurò una politica basata su un’organica collaborazione di lungo periodo con gli strati privilegiati della società indiana» (M. Torri, Storia dell’India, Laterza, Roma-Bari, 2010², p. 392). Ma tornando alla rivolta del 1857«questa incominciò come un ammutinamento delle truppe indiane della Compagnia ma, ben presto, coinvolse consistenti strati della popolazione civile, sia urbana sia rurale[infatti]durante la prima metà dell’Ottocento i rapporti fra le truppe indiane e il corpo ufficiale inglese si erano progressivamente deteriorati, soprattutto nell’esercito del Bengala, acquartierato nel Nord del subcontinente»(ivi, p. 426). Molte per Torri le ragioni di questa situazione, fra le quali le più decisive«una declinante qualità del corpo ufficiali[…], la crescente arroganza con cui gli ufficiali inglesi trattavano i loro subordinati indiani, un’arroganza che spesso trovava espressione nella mancanza di riguardo per le suscettibilità religiose dei sepoys[di qui si innescò] il risentimento da parte dei sepoys sia per la scarsità della loro paga in rapporto a quella dei soldati britannici, sia per la difficoltà con cui, nell’esercito del Bengala, i militari indiani ottenevano il permesso di andare in pensione» (ibid). Dunque in questa situazione di tensione «il 10 maggio 1857 i sepoys di stanza a Meerut (Mirat), una guarnigione militare a circa settanta chilometri a nord di Delhi, si ammutinarono e, favoriti dalla maldestra reazione dei loro ufficiali, marciarono sull’antica capitale del Moghul. Qui giunti, non solo convinsero i sepoys là acquartierati a sollevarsi e a massacrare gli europei(e gli indiani cristiani), impadronendosi così della città, ma costrinsero l’ultimo imperatore moghul a porsi a capo della rivolta» (ivi, p. 427). Da questo fatto derivò pure il trasformarsi della rivolta da fenomeno locale e circoscritto in qualcosa di molto più vasto. A seguito di successivi e sempre più frequenti eventi di ammutinamento fra le truppe indigene, «con una rapidità fulminea e in una sorta di perverso effetto domino l’insurrezione si estese così a tutto il territorio fra il neo conquistato Punjab e il Bengala vero e proprio»(ivi, p. 427). L’effetto di questa ondata insurrezionale fu quello che si produce «levando all’improvviso il coperchio da una pentola il cui contenuto è sotto pressione:il risentimento e l’ostilità di tutti coloro che avevano sofferto sotto il dominio 42 britannico esplose. Questo spiega perché accanto ai sepoys e insieme ai loro spesso riluttanti capi d’elezione, si schierassero numerosi proprietari terrieri grandi e piccoli, con i loro seguaci personali, le confraternite contadine jat delle zone comprese fra Delhi e l’Awadh e, infine, popolazioni tribali quali i gujar, recentemente costrette al processo di sedentarizzazione. Tutti questi gruppi nonostante la differenza delle loro vicende, condividevano l’esperienza di essere stati sottoposti a una pressione fiscale intollerabile che li aveva spinti pericolosamente vicini alla rovina e che, in molti casi, li aveva costretti a indebitarsi pesantemente nei confronti di finanzieri indigeni» (ibid). Si trattò comunque sottolinea ancora Torri di una rivolta dai tratti incendiari e dettata appunto da un sentimento di ribellione nei confronti di una dominazione avvertita come sempre più intollerabile e vessatoria, ma che nella sostanza non seppe dotarsi di contenuti e obiettivi politici. «Più grave per le possibilità di successo dell’insurrezione del 1857 fu che essa non riuscì a espandersi al di fuori di territori vasti ma circoscritti , oggi inclusi nell’Uttar Pradesh, nel Bihar e nel Madhya Pradesh. Non solo i sepoys delle presidenze di Bombay e di Madras rimasero fedeli, ma tutti i prìncipi vassalli ancora al potere finirono per schierarsi dalla parte dei britannici» (ivi, p. 428). Proprio in questa situazione gli inglesi, riavutisi dallo shock iniziale, ripresero l’iniziativa: «il punto di svolta nella controffensiva britannica fu, appunto, la riconquista di Delhi fra il 14 e il 21 settembre 1857. Entro la fine dello stesso anno, vi fu poi la presa delle altre maggiori basi dell’insurrezione a nord dei fiumi Chambal e Yamuna»(ibid). Inoltre sottolinea ancora Torri che l’intera rivolta si caratterizzò per l’estrema violenza e le atrocità commesse anche ai danni dei civili, donne e bambini compresi. «Certamente l’avvio delle violenze contro i non combattenti fu opera di una parte dei sepoys ammutinati e di quegli elementi criminali che divengono attivi con il venir meno dell’ordine pubblico . ben presto però le truppe regolari britanniche e gli irregolari europei che le fiancheggiarono si distinsero per la ferocia e l’indiscriminatezza delle rapprese saglie da loro condotte. Ciò diede l’avvio a una spirale di violenze reciproche sempre più nefande e fu solo nel corso del 1858, quando ormai la rivolta era stata di fatto soffocata, che il governatore generale , Lord Canning, uno dei pochi inglesi che avesse saputo mantenere equilibrio di giudizio, fu in grado di tirare le redini sul collo dei propri compatrioti. Fu in larga parte per merito suo che venne posta fine alle distruzioni e ai massacri indiscriminati » (ivi, p. 430). Come acutamente aveva intravisto Marx nel più volte ricordato articolo del 1853 gli esiti di questa rivolta determinarono la definitiva eliminazione della Compagnia delle Indie in quanto istituzione. «il 2 agosto 1858 il governo dell’India venne assunto direttamente dalla Corona britannica;il governatore generale aggiunse al suo titolo quello di viceré; la Commissione di Controllo divenne l’India Office, cioè, in pratica, il ministero per l’India; infine le azioni e i debiti della Compagnia vennero riscattati dalla Corona e trasformati nel nucleo iniziale di quel debito pubblico dell’India nei confronti dell’Inghilterra che doveva rimanere una costante dei rapporti economici fra i due paesi fino alla vigilia delle seconda guerra mondiale». Nota 2 in 6) Per la legge di compensazione storica Come ha sottolineato ancora una volta Michelguglielmo Torri l’apporto economico dato al benessere delle Gran Bretagna dallo sfruttamento del subcontinente «fu estremamente oneroso per l’India, tanto che, nella prima metà dell’Ottocento, esso comportò la devastazione dell’economia indiana. Tuttavia, una volta sottolineato questo punto, è necessario puntualizzare che i guadagni economici derivanti alla Gran Bretagna dalla subordinazione coloniale dell’India furono nel complesso limitati» (M. Torri, op. cit., p. 386). Da un esame comparativo appare evidente «che i guadagni del capitalismo inglese nei paesi dell’America Latina fossero assai più consistenti di quelli ascrivibili al legame con l’India(e questo nonostante il fatto che, a parte le isole e alcune enclaves nell’area caraibica, i paesi dell’America Latina non fossero sotto il diretto dominio politico della Gran Bretagna). La verità è, quindi, che l’apporto economico dell’India all’Inghilterra fu sempre sottodimensionato rispetto all’estensione territoriale e alla densità demografica dei domini britannici nel subcontinente» (ibid). Torri riconduce la ragione di questo fatto principalmente al ristagno che venne a caratterizzare l’economia indiana nel corso dell’Ottocento. Detto questo l’India ebbe un’importanza chiave per la Gran Bretagna da un altro punto di vista:«l’esercito indiano, infatti, giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel mantenimento dell’imperialismo inglese in Asia e in Africa. L’esercito indiano – in maggioranza formato da indiani e, soprattutto, completamente finanziato da contribuenti indiani(privi del diritto di voto) – era una macchina militare di tutto rispetto[…]esso divenne a partire dall’inizio dell’Ottocento, il braccio armato dell’imperialismo britannico, che operava a livello mondiale aprendo i mercati ai prodotti della rivoluzione industriale» per questa 43 ragione «il contributo militare dato dall’India all’egemonia inglese nel mondo fu quindi cruciale e, sintomaticamente, il funzionamento dell’intero sistema coloniale britannico in India fu piegato al mantenimento dell’esercito indiano e al suo utilizzo a fini imperiali »inoltre «accanto al ruolo cruciale svolto dall’esercito indiano nel rendere possibile un fluido ed economico funzionamento dell’impero britannico nel mondo, l’India dava, allo stesso fine, altri due importanti contributi, anche se sussidiari rispetto a quello militare. Il primo era l’utilizzo di indiani come quadri intermedi nelle burocrazie delle colonie afro-asiatiche dell’Inghilterra. Il secondo era il reclutamento in India di forza lavoro a contratto che venne utilizzata – dal 1834 fino al periodo della prima guerra mondiale – per gestire piantagioni o miniere a Ceylon, nelle isole Mauritius, in Africa, nei Caraibi, nel sud-est asiatico e nel Pacifico. Un sistema questo basato su contratti di lunga durata(dieci anni o più), reso possibile dall’abbondanza della popolazione indiana e dal ristagno dell’economia durante il periodo coloniale» (ivi, pp. 387-88). Nota 5 in 6) Per la legge di compensazione storica…. M. Torri, op. cit., p. 384. Come ricorda ancora lo storico un libro in particolare fece da spartiacque nel veicolare questi nuovi contenuti razzisti: the History of British India di James Mill, pubblicato a Londra nel 1817. In esso il popolo indiano veniva catalogato genericamente come un popolo codardo e senza capacità di iniziativa. Mentre però nel libro di Mill questi caratteri “antropologici”vengono associati al fenomeno storico della dominazione coloniale, infatti essi erano stati la parte più schiavizzata della razza umana, nel corso dell’Ottocento, sottolinea ancora Torri, questi caratteri antropologici associati al popolo indiano in particolare si andarono sclerotizzando a favore di cause di natura permanente. «Del resto la convinzione della superiorità razziale degli occidentali era un’idea che permeava profondamente la cultura europea dell’Ottocento e che trovava espressione a livello popolare in una profusione di romanzi e di novelle a opera di autori inglesi(ed europei), volti a giustificare e glorificare la missione civilizzatrice dell’Europa»(ivi, p. 385). Purtroppo questa eredità storica, dell’immagine di una presunta superiorità della cultura occidentale e in particolare europea si sarebbe protratta lungo anche il Novecento, nonostante, come abbiamo visto, la ricca area dei Post-colonial studies e dei Subaltern studies abbia avuto il merito di provare a riscrivere la storia del dominio europeo mettendone in luce gli aspetti assimilatori e violenti. Come ha ricordato infatti Donatello Santarone ancora negli anni Sessanta del Novecento uno scrittore di chiara fama mondiale come Alberto Moravia nel corso del suo viaggio in India non esita a ricorre ad immagini estetizzanti associate ad un presunto tratto esotico proprio del popolo indiano in cui vuole racchiudere quello che gli sembra essere il carattere dominante, ovvero una certa dose di irrazionalismo e misticismo diffusi. Si tratta di alcune immagini sintetizzate appunto da Santarone a proposito del viaggio che nel 1961 Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia compiono in India. Entrambi questi autori faranno confluire quest’esperienza in un libro. Mentre però Pasolini per certi versi rimarrà immune dal pregiudizio “occidentalista” e nel suo L’odore dell’India sarà capace di abbandonarsi, grazie al suo impressionismo poetico, ad un bisogno quasi compassionevole di entrare in comunicazione con l’altro, volendone capire, attraverso un percorso esperienziale ed esistenziale, l’universo concettuale e morale di quel popolo così ricco, ai suoi occhi, di spiritualità pur gravato da condizioni di estrema miseria e povertà. Per il poeta è come se esprimessero una forma di stoica resistenza di fronte ad una condizione che di umano ha ben poco; al contrario in Moravia, nel suo Un’idea dell’India, che pure si era premunito di preziosi studi prima di intraprendere il viaggio, permane uno sguardo eurocentrico, che vede l’India permeata dalla religione. Lo scrittore si dimostra pertanto incapace di valutare attentamente, ricorda Santarone, citando un contemporaneo filosofo indiano Amarya Sen, il ruolo svolto da una lunga tradizione atea, materialistica e scettica in quel paese; inoltre considera l’India immobilizzata politicamente a causa di una condizione contadina incapace di sollevarsi e organizzarsi (solo vent’anni più tardi, come abbiamo visto, gli studi subalterni avrebbero messo in luce il ruolo centrale giocato dalle rivolte contadine nel processo di affrancamento dal dominio coloniale) (cfr. D. Santarone, Mediazione letteraria e immagine europea dell’Oriente:l’India di Moravia e Pasolini, in Studi Emigrazione, rivista trimestrale del Centro Studi Emigrazione Roma, anno XLIV, marzo 2007, pp. 73-76). Bibliografia 44 S. Amin, Lo sviluppo ineguale. Saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Einaudi, Torino, 1977. G. Arrighi, B. J. Silver, Caos e governo del mondo. 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