2010 - AIAF

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AIAF RIVISTA • 2010/2
RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
2010/2
LA TUTELA DEI DIRITTI
DI IMMIGRATI, RIFUGIATI
E RICHIEDENTI ASILO
www.aiaf-avvocati.it
Anno XV n° 2, maggio-agosto 2010
Quadrimestrale - reg. Tribunale Roma n. 496 del 9.10.1995
AIAF 2010/2
SOMMARIO
Editoriale
2
Dare tutela ai diritti dei rifugiati e degli immigrati
Milena Pini
Focus
4
Asilo e statuto di rifugiato
Bruno Nascimbene
31
Il diritto d’asilo in Italia: dalla disciplina costituzionale all’attuazione delle direttive comunitarie
Livio Neri
38
Il punto della giurisprudenza di merito sul diritto d’asilo, sul riconoscimento dello stato di rifugiato e su altre forme
di protezione umanitaria
Franca Mangano
45
Minori stranieri rifugiati: il quadro normativo di riferimento
Marco Grazioli, Valeria de Cesare
53
Il patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti di richiesta di protezione internazionale
Giuseppina Menicucci, Chiara Lisanti
Contributi e approfondimenti
58
Genere, stratificazione civica e diritto all’unità familiare: linee di tendenza in Europa, tra integrazione e controllo
Paola Bonizzoni
63
Il diritto all’unità familiare dei cittadini extracomunitari e la tutela dei minori (cenni) dopo l’entrata in vigore del
“pacchetto sicurezza”, con particolare riferimento alla l. 94/09, alle circolari ministeriali applicative e alla recente
giurisprudenza
Paolo Oddi
72
Diritti del minore straniero: la Cassazione sconfessa se stessa
Alberto Figone
74
Matrimoni “misti” e acquisto della cittadinanza
Luigi Mughini
79
Nuova legge sulla cittadinanza, ovvero il minimalismo del compromesso
Stefano Rossi
Europa
91
Il rapporto Gerin-Raoult sul velo islamico riaccende il dibattito
Angela Cossiri
AIAF
RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
Anno XV n° 2, maggio-agosto 2010 - nuova serie quadrimestrale
Direttore responsabile Milena Pini
Comitato di redazione Manuela Cecchi, Gabriella de Strobel, Luisella Fanni (coordinatrice Quaderni),
Alberto Figone, Giulia Sarnari, Antonina Scolaro
Redazione Galleria Buenos Aires 1, 20124 Milano - tel. e fax 02 29535945
[email protected] www.aiaf-avvocati.it
Stampa O.GRA.RO. srl - vicolo dei Tabacchi 1, 00153 Roma
AIAF RIVISTA 2010/2 • maggio-agosto 2010
DARE TUTELA AI DIRITTI DEI RIFUGIATI E DEGLI IMMIGRATI
Milena Pini
Presidente AIAF
Le persone costrette alla fuga da guerre e persecuzioni alla fine del 2009 erano oltre 43 milioni. Secondo il Rapporto statistico annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (ACNUR o UNHCR), che riporta questo
dato, l’80% dei rifugiati del mondo si trova nei
Paesi in via di sviluppo, e non nei Paesi industrializzati.
rimento, con una politica d’integrazione che
consenta la possibilità per il singolo rifugiato di
rifarsi una vita in dignità e sicurezza.
L’Italia, dove i rifugiati alla fine del 2009 erano
55mila, presenta cifre molto basse rispetto ad
altri Paesi dell’Unione europea, in termini sia
assoluti che relativi. A titolo di comparazione,
la Germania accoglie quasi 600mila rifugiati e
il Regno Unito circa 270mila, mentre la Francia e i Paesi Bassi ne ospitano rispettivamente
200mila e 80mila. In Danimarca, Paesi Bassi e
Svezia i rifugiati sono tra i 4 e i 9 ogni 1.000
abitanti, in Germania oltre 7, nel Regno Unito
quasi 5, mentre in Italia appena 1 ogni 1.000
abitanti.
Rispetto alla specificità, gravità e sensibilità di
tali questioni, i magistrati della sezione hanno
rilevato l’inadeguatezza dei mezzi di cui dispongono (ad esempio gli interpreti per le traduzioni, e le informazioni precise e aggiornate
sulla situazione generale esistente nel Paese di
origine dei richiedenti, che dovrebbero essere
elaborate da una Commissione nazionale sulla
base dei dati forniti dall’ACNUR e dal Ministero
degli Affari Esteri, ma che risulta poco efficiente) e hanno intrapreso un percorso volto all’elaborazione di un protocollo finalizzato all’individuazione di prassi e criteri di valutazione
condivisi, per garantire, nei limiti del possibile,
parametri uniformi di giudizio, per una migliore tutela dei diritti fondamentali che pervadono questa materia.
Nel 2009 sono state presentate in Italia circa
17mila domande d’asilo, poco più della metà
rispetto all’anno precedente, riduzione rilevante che può essere attribuita alle politiche restrittive attuate nel Canale di Sicilia da Italia e Libia, fra cui la prassi dei respingimenti in mare.
Secondo Laurens Jolles, delegato UNHCR per il
Sud Europa che ha presentato il Rapporto nell’ambito della “Giornata Mondiale per il Rifugiato” tenutasi a Roma il 20 giugno 2010, “il
netto calo delle domande di asilo dimostra come i respingimenti anziché contrastare l’immigrazione irregolare abbiano gravemente inciso
sulla fruibilità del diritto di asilo in Italia”.
Ottenere lo status di rifugiato può comunque essere un riconoscimento privo di valore se il Paese ospitante non assicura reali capacità di inse-
2
Il maggior numero di controversie in materia di
immigrazione e di diritti fondamentali degli
stranieri è trattato, nel nostro Paese, dalla prima
sezione del Tribunale civile di Roma, che è stata
così investita da un ingente carico di lavoro.
Le difficoltà comunque permangono, a causa
di una legislazione nazionale che disciplina
la materia, connotata spesso dall’emergenza e
dall’intersecarsi delle leggi nazionali con quelle di livello sovranazionale. Difficoltà acuite
anche dalle particolarità di un processo, in cui
vi sono due parti, l’una, pubblica, che spesso è
solo formalmente presente, l’altra, quella richiedente protezione internazionale, connotata da una condizione di debolezza sociale che
indubbiamente pesa sullo svolgimento del processo.
EDITORIALE
Alla trattazione delle domande di asilo e di rifugio a fini umanitari si aggiungono le questioni relative alla gestione dell’immigrazione regolare, al ricongiungimento familiare, ai matrimoni tra un cittadino italiano e uno extracomunitario, alla repressione dell’immigrazione
clandestina.
Nonostante le carenze della politica e del legislatore, gli avvocati e i giudici hanno dato concrete soluzioni alle richieste di tutela dei diritti
degli immigrati e dei rifugiati, dando tra l’altro
avvio a una specializzazione professionale in
tali materie.
In questo numero della Rivista vengono approfonditi, sotto il profilo teorico e pratico, le diverse questioni connesse al diritto di asilo e ai diritti degli immigrati, che sono accomunati dal filo
conduttore della speranza di queste persone di
poter avviare una nuova vita nel nostro Paese.
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AIAF RIVISTA 2010/2 • maggio-agosto 2010
ASILO E STATUTO DI RIFUGIATO *
Bruno Nascimbene
Ordinario di Diritto dell’Unione europea, Università degli Studi di Milano
SOMMARIO:
I. 1. Evoluzione storica e definizione di asilo - 2. Varietà delle forme di asilo: l’asilo territoriale - 3.
I lavori dell’Institut de droit international - 4. Le norme di diritto internazionale e di diritto umanitario - 5. Norme consuetudinarie e pattizie. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo - 6.
Le convenzioni internazionali di diritto umanitario - 7. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo - 8. La Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato - 9. Il divieto di refoulement e la prassi
dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati
II. 10. Il diritto comunitario in materia di asilo. Dalle “norme minime” alla “politica comune” - 11.
Le direttive e i regolamenti rilevanti. - 12. La protezione internazionale, in particolare a) la protezione sussidiaria; b) la procedura di riconoscimento (anche con riferimento al diritto interno); c)
la nozione di Paese terzo sicuro - 13. Le critiche al sistema vigente e le proposte di modifica: verso
un “sistema comune europeo” - 14. La definizione di uno status e di una procedura uniforme. Le
difficoltà di attuazione (anche alla luce del Trattato di Lisbona)
III. 15. L’art. 10, 3° comma Costituzione. Il diritto di asilo e lo status di rifugiato - 16. La definizione di un diritto soggettivo; le ragioni di diritto umanitario a favore di una protezione più ampia.
a) Il diritto di asilo come diritto fondamentale; b) l’orientamento della giurisprudenza - 17. L’incidenza del diritto comunitario e internazionale circa la definizione dello status di rifugiato e gli obblighi dello Stato. a) L’onere probatorio; b) il divieto di refoulement - 18. Gli standard di trattamento e lo statuto del rifugiato. a) La Convenzione di Ginevra; b) una valutazione complessiva: l’applicabilità degli standard del trattamento nazionale e del trattamento dello straniero
I.
1. Evoluzione storica e definizione di asilo
Si può risalire molto lontani nel tempo per cercare una definizione dell’istituto giuridico dell’asilo,
dei diversi modi di intendere l’asilo, le diverse tipologie, i limiti. L’evoluzione storica mostra come
due nozioni si siano sempre prospettate e mantenute fino a oggi, seppur con connotazioni diverse. A una concezione religioso-sociale del luogo che rendeva lo stesso inviolabile o immune, si
contrapponeva il riconoscimento di privilegi concessi alla persona: si distingueva, così, nel diritto
greco l’“asilo”, cioè il luogo (“sacro”) in cui veniva assicurata l’inviolabilità o immunità a chiunque
* Relazione tenuta al Convegno dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Lo statuto costituzionale del non cittadino, Cagliari, 16-17 ottobre 2009. Si ringrazia l’Autore per l’autorizzazione alla pubblicazione.
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FOCUS
vi si fosse rifugiato, dall’“asilía”, cioè i privilegi personali concessi alle persone, stranieri o cittadini di comunità alleate, che avessero particolari meriti o pubblica considerazione. I privilegi più rilevanti erano la libertà personale e la possibilità di agire in giudizio per difendere i propri diritti1.
Gli studiosi dell’evoluzione storica dell’istituto sottolineano come nel diritto greco prima, e in quello romano poi, asilo e asilía hanno subito limiti, sia nell’individuazione dei luoghi, sia nella definizione delle persone ovvero degli aventi diritto, escludendo le persone colpevoli di gravi reati o introducendo una connotazione politica: il diritto veniva riconosciuto soltanto a chi era stato costretto a fuggire per motivi politici2.
La sacralità dei luoghi e la condizione della persona sono elementi ben presenti anche nel cosiddetto asilo religioso (o ecclesiastico) affermatosi nel Medio Evo e rispettato fino a quando, in età
moderna, il potere di governo degli Stati sovrani e indipendenti si consolidò, ridimensionando l’istituto, oggetto di trattati ovvero di accordi ad hoc (concordati) frutto di compromesso fra potere civile e potere religioso. Quest’ultimo, invero, non era più in condizione di difendere le prerogative
della Chiesa, gli istituti e ordini religiosi, divenuti incompatibili con il potere sovrano dello Stato,
la sua indipendenza e laicità di governo. Anche se l’asilo religioso prevedeva limiti ed esclusioni
in considerazione della particolare gravità dei reati, è significativo ricordare che l’atteggiamento della Chiesa rispondeva alla necessità di far prevalere la misericordia di Dio sulla giustizia terrena, favorendo la possibilità di porre rimedio agli errori commessi, gli errori essendo connaturati alla condizione e debolezza umana.
La Chiesa, insomma, difendeva poteri e prerogative proprie, ma difendeva anche i diritti dell’uomo in quanto tale, nei confronti dell’esercizio del potere esercitato da altri soggetti3.
È proprio nei rapporti fra poteri degli Stati, sovrani e indipendenti e quindi nel quadro delle norme di diritto internazionale, che si afferma la disciplina, a livello internazionale, dell’istituto dell’asilo, distinto fra territoriale (o esterno) ed extraterritoriale (o interno o diplomatico)4.
1 Sulla distinzione indicata e per rilievi in proposito cfr. Paoli, Asilía, voce in Noviss. Dig. It., I, Torino, 1958, 1035 ss. e Asilo.
Diritto greco e romano, ibidem; Crifò, Asilo (diritto di) (diritti antichi), voce in Enc. dir., III, Milano, 1958, 191 ss. Per profili di
carattere generale e sull’evoluzione delle nozioni di asilo, territoriale ed extraterritoriale, nonché di rifugio, si vedano Giuliano,
Asilo (diritto di) (diritto internazionale), voce in Enc. dir., II, Milano, 1958, 204 ss.; A. Migliazza, Asilo (diritto internazionale),
voce in Noviss. Dig. It., Iª, Torino, 1958, 1039 ss.; Conetti, Rifugiati, voce in Noviss. Dig. It., Appendice, VI, Torino, 1986, 819 ss.;
Bernardi, Asilo politico, voce in Digesto Disc. Pub., I, Torino, 4ª, 1987, 421 ss.; i vari contributi in Rigaux (ed.), Droit d’asile, Bruxelles, 1988; in Droit d’asile et des réfugiés, Colloque de Caen de la Société Française pour le Droit International, Paris, 1997; Pisillo Mazzeschi, Il diritto di asilo 50 anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 1999, 694 ss.; Hathaway, The Rights of Refugees under International Law, Cambridge, 2005, 1 ss.; i vari contributi in Feller, Türk, Nicholson (eds.), Refugee Protection in International Law, Cambridge, 2005. In epoca più recente si vedano i
contributi di Pedrazzi, Il diritto di asilo nell’ordinamento internazionale agli albori del terzo millennio, in Zagato (a cura di), Verso una disciplina comune del diritto d’asilo, Padova, 2006, 13 ss.; Gioia, Asilo, voce in Dizionario di diritto pubblico, I, Milano,
2006, 449 ss.; i vari contributi in Bilotta, Cappelletti (a cura di), Il diritto d’asilo, Padova, 2006; Goodwin-Gill, Mc Adam, The Refugee in International Law, 3rd, Oxford, 2007, 1 ss.; Carlier, Droit d’asile et des réfugiés. De la protection aux droits, in Recueil des
cours de l’Académie de droit international de la Haye, t. 332(2007), tiré à part, Leiden-Boston, 2008, 40 ss.; Cordini, Il diritto d’asilo nelle costituzioni contemporanee e nell’ordinamento dell’Unione europea, in Castellano (a cura di), Il diritto di asilo in Europa: problemi e prospettive, Napoli, 2008, 51 ss.; i vari contributi in Benvenuti (a cura di), Flussi migratori e fruizione dei diritti
fondamentali, Ripa di Fagnano alto, 2008; Lenzerini, Asilo e diritti umani, Milano, 2009, spec. 8, 141 ss. sull’evoluzione storica
dell’istituto.
2 Si vedano i rilievi di Vismara, Asilo (diritto di) (diritto intermedio), voce in Enc. dir., III, Milano, 1958, 198 ss.; Cordini, Il diritto cit., 52 ss.
3 Sull’asilo religioso, e sua evoluzione, oltre agli autori citati alla nota 1, in particolare Cordini, Il diritto d’asilo cit., Lenzerini,
Asilo cit., cfr. Ciprotti, Asilo (diritto di) (diritto canonico ed ecclesiastico), voce in Enc. dir., III, Milano, 1958, 203. Viene spesso
ricordato, come esempio di asilo religioso, quello ottenuto dal personaggio manzoniano Fra’ Cristoforo (“Lodovico” resosi responsabile di un omicidio) che si era rifugiato in una chiesa dei cappuccini, luogo “impenetrabile allora a’ birri e a tutto quel complesso di cose e persone, che si chiamava giustizia” (la decisione di vestire “l’abito di cappuccino” rappresentava una soluzione per
gli ospiti che si trovavano in un “bell’intrigo” poiché “rimandarlo dal Convento” avrebbe significato “esporlo così alla giustizia”,
cioè sottrarsi alla giustizia e per i cappuccini “rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le
quali si consideravan come tutrici di questo diritto”, Manzoni, I promessi sposi, Milano, 1840, cap. IV.
4 Cfr. i rilievi di Ciprotti, Asilo (diritto di), loc. cit., 203 ss.; Gioia, Asilo cit., 450.
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AIAF RIVISTA 2010/2 • maggio-agosto 2010
2. Varietà delle forme di asilo: l’asilo territoriale
La prassi internazionale distingue l’asilo territoriale da quello extraterritoriale, il primo indica il rifugio e la protezione accordati dallo Stato sul proprio territorio a persona che intenda sfuggire o
sottrarsi alla giustizia o a situazioni esistenti nello Stato da cui proviene. Il secondo, invece, è concesso a persone che intendano sfuggire o sottrarsi alla giustizia o sovranità locale. Esso rappresenta una deroga alla sovranità territoriale dello Stato ed è concesso nei locali di una missione diplomatica (“asilo diplomatico”), in basi militari, a bordo di navi da guerra o aeromobili militari che si
trovino in territorio altrui5.
Premesso che il maggior interesse, nella stessa prassi internazionale, considerata l’evoluzione nel
tempo, è per il primo tipo di asilo, si deve tener presente che entrambi gli istituti si sono affermati
come situazioni di fatto, caratterizzate, da un lato, dall’inviolabilità del territorio (in generale) dello
Stato, dall’altro dall’inviolabilità del luogo (specifico) in cui opera l’agente dello Stato straniero ovvero (e con maggior frequenza nella prassi) dall’inviolabilità dei locali della missione diplomatica.
L’estensione della protezione accordata ha subíto significativi mutamenti, passando da un riconoscimento generalizzato a favore dei responsabili di reati comuni, a uno ristretto a favore dei responsabili di reati politici, lo Stato territoriale rivendicando il proprio imperium a causa di abusi da parte
degli agenti stranieri. Questo istituto, come quello dell’asilo territoriale di cui si dirà poco oltre, ha
subìto un’evoluzione, soprattutto per effetto della tutela internazionale dei diritti dell’uomo. Per
quanto sia da alcuni ritenuto addirittura caduto in desuetudine, a causa della reazione agli abusi, esso può assumere, invece, significativa rilevanza qualora i diritti fondamentali della persona vengano violati all’interno di uno Stato – a causa di moti, violenze, guerra civile, rivoluzione – e la persona non possa far altro che rifugiarsi nei luoghi (locali) in cui un altro Stato esercita la sovranità6.
Se questa è l’evoluzione più recente, sembra dubbia l’esistenza di obblighi giuridici internazionali
in proposito, salvo siano previsti in norme convenzionali, mancando norme generali o consuetudinarie che obblighino lo Stato territoriale a tollerare l’attività di un agente statale straniero, a protezione di una persona che si sia resa colpevole di un reato7.
3. I lavori dell’Institut de droit international
L’asilo territoriale è l’istituto che merita (per le ragioni di cui si darà conto nel prosieguo) una specifica considerazione, per i profili di diritto internazionale, europeo e nazionale che esso presenta.
Gli studi sul tema, la prassi e la giurisprudenza confermano, d’altra parte, tale rilievo e merito di
considerazione. L’Institut de droit international ne fece oggetto di esame e studio, e quindi di una
risoluzione intitolata L’asile en droit international public (sessione di Bath, 1950). Distinto l’asilo
extraterritoriale dal territoriale, l’Institut definisce (art. 1) quest’ultimo come la protezione concessa da uno Stato sul proprio territorio o in luoghi sottoposti alla sua sovranità, a un individuo che
vi sia recato per farne richiesta8.
5
Cfr. in particolare Giuliano, Asilo cit., 204, 209 ss.
6
Sull’evoluzione dell’istituto e le sue caratteristiche, cfr. gli autori citati alla nota 1 e i riferimenti alla nota 7, nonché sulla possibile giustificazione costituzionale, nel nostro ordinamento, di tale istituto in virtù della tutela di diritti fondamentali (ex art. 2
Cost.), Rescigno, Il diritto d’asilo tra previsione costituzionale, spinta europea e “vuoto” costituzionale, in Politica del diritto, 2004,
155 (rifer. ivi). Sul diritto d’asilo nel nostro ordinamento si veda oltre, parte III.
7 Sull’evoluzione dell’istituto (oltre agli autori citati alla nota 1), Gioia, Asilo cit., 450 s., sottolineando il declino dell’istituto nel-
la seconda metà del XVII secolo, la ritenuta desuetudine nel XX secolo e la più recente reviviscenza; quanto all’esistenza di una
consuetudine, ricorda i dubbi in proposito, specie da parte della dottrina che ammetterebbe l’esistenza, quanto meno, di una consuetudine regionale nell’America Latina, invece esclusa dalla C.I.G. (20 novembre 1950, in ICJ Reports, 1950, 266 ss.; la Corte nega l’esistenza della consuetudine regionale, se non provata, come vincolante, da chi l’invoca, circa il riconoscimento dell’asilo diplomatico a favore di chi si sia reso colpevole di un reato qualificato unilateralmente come politico dallo Stato che concede l’asilo). Su tale impostazione, ampiamente, Giuliano, Asilo cit., 209; Francioni, Asilo diplomatico: contributo allo studio delle consuetudini locali nel diritto internazionale, Milano, 1973, 81 ss.
8 La risoluzione, dell’11 settembre 1950, è in Résolutions de l’Institut de droit international 1873-1956, Bâle, 1957, 58; sui la-
6
FOCUS
Una definizione, questa, che, come emerge dalla lettura dei resoconti dell’Institut, ha ricevuto un
non facile consenso in un particolare momento storico: dopo la fine della seconda guerra mondiale, che aveva creato un gran numero di rifugiati e sfollati, era in corso di elaborazione la Convenzione, promossa dalle Nazioni Unite, relativa allo status dei rifugiati (adottata a Ginevra il 28 luglio
1951) ed era stata poco prima (10 dicembre 1948) proclamata dall’Assemblea generale delle N.U.
la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il dibattito che ha preceduto l’adozione della risoluzione conferma sia il problema di definizione dell’asilo (definizione non contenuta, peraltro, nella Convenzione) e del rifugio, sia la rilevanza assunta dal diritto umanitario in tale contesto.
La risoluzione dà atto di tale rilevanza, richiamando nel preambolo la Dichiarazione universale e
sottolineando come il riconoscimento internazionale dei diritti della persona umana imponga nuovi e più ampi sviluppi del diritto di asilo, ma soprattutto viene precisato (art. 2) che lo Stato non
incorre in alcuna forma di responsabilità internazionale quando, nell’adempiere a doveri umanitari, concede l’asilo sul proprio territorio. La risoluzione si preoccupa dunque di precisare i diritti e
gli obblighi di diritto internazionale degli Stati, non già i diritti degli individui che gli strumenti di
diritto umanitario avrebbero affermato negli anni successivi, pur assumendo come base quella Dichiarazione universale che (all’epoca) era già stata proclamata9.
Il rifugio, o condizione di rifugiato, appare definito nei lavori dell’Institut come una situazione di
fatto che rappresenta il presupposto dell’asilo: il rifugio diventa asilo quando lo Stato non si limita ad ammettere il soggiorno dell’individuo, penetrato nella sua sfera territoriale per sottrarsi alla
giustizia o all’autorità di un altro Stato, ma ne assuma anche la protezione, nel senso che non intende dare seguito alle richieste di consegna o di estradizione o espulsione da parte di altro Stato
(cui l’individuo appartiene o alla cui giurisdizione sia sfuggito). La concessione dell’asilo, nel diritto internazionale, è dunque una (tipica) manifestazione della piena libertà o sovranità dello Stato
che spetta a tutti i membri della comunità internazionale10. Dalla combinazione di due elementi,
l’inviolabilità del territorio dello Stato e il potere dello Stato di ammettere o allontanare dal territorio gli stranieri, emerge l’inesistenza di obblighi internazionali, salvo che siano previsti da convenzioni, di concedere l’asilo. Oltre a distinguere il rifugio dall’asilo, si distingue anche un diritto dello Stato, nei confronti degli altri Stati, di concedere l’asilo, quale esercizio della propria sovranità
territoriale, ovvero “diritto di asilo”, e un diritto dell’individuo a ottenere l’asilo, o “diritto all’asilo”,
che si colloca, più propriamente, nell’ambito delle norme di diritto umanitario. Si afferma infatti nel
diritto internazionale consuetudinario l’inesistenza di limiti (in linea di principio) alla sovranità dello Stato, che non ha l’obbligo di concedere l’asilo, così come l’individuo non ha il diritto di ottenerlo (salvo sia diversamente disposto, come si è detto, in convenzioni internazionali).
Un obbligo per lo Stato di cui l’individuo è cittadino, di rispettare l’asilo concesso dallo Stato di rifugio si afferma, invece, con l’istituzionalizzazione della cooperazione internazionale in materia penale e di repressione della criminalità: lo Stato di rifugio protegge l’individuo perseguito per motivi politici, e in mancanza di obblighi convenzionali di estradizione (mancando un trattato o non
verificandosi l’ipotesi estradizionale prevista dal trattato), lo Stato di rifugio può rifiutarsi di arrestare e consegnare l’individuo responsabile di reati comuni allo Stato che ne reclami la consegna11.
Rileva in proposito, in mancanza di previsioni contenute in norme internazionali, l’esistenza di norme interne, in particolare di norme di carattere costituzionale, quali nel caso italiano l’art. 10, 3°
comma Cost. sul diritto d’asilo e il 4° comma che vieta l’estradizione per reati politici.
vori preparatori e le discussioni cfr. Annuaire de l’Institut de droit international, 43° vol., Session de Bath, septembre 1950, Bâle, 1950, t. I, 133 ss. e t. II, 198 ss. Il Rapport supplémentaire et projet définitif de Résolutions è di Tomaso Perassi, 162 ss. Perassi, come si dirà oltre, parte III, era uno dei componenti della Commissione dei 75 (ne fu anche il segretario) incaricata di redigere il testo della Costituzione del nostro Paese. Per alcuni rilievi sulla risoluzione dell’Institut, nonché sulla configurazione del diritto dello Stato, Lenzerini, Asilo cit., 37 ss.
9 Si vedano i rilievi del relatore Perassi, Rapport supplémentaire cit., 164, sul nesso fra protezione dei diritti dell’uomo e asilo,
il preambolo della risoluzione richiamando espressamente la Dichiarazione universale, il cui art. 14 è dedicato al diritto d’asilo.
10 Sulla sovranità dello Stato si veda quanto si dirà oltre, con riferimento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che conferma questa impostazione.
11 Si vedano i rilievi di Bernardi, Asilo politico cit.; Gioia, Asilo cit.
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AIAF RIVISTA 2010/2 • maggio-agosto 2010
All’epoca dei lavori dell’Institut, come pure nella dottrina coeva e in quella degli anni immediatamente successivi, la tesi dell’inesistenza di norme consuetudinarie, anche in considerazione di un
diritto umanitario poco sviluppato, era assolutamente dominante12.
La rilevanza del diritto dello Stato, nei confronti degli altri Stati, non già del diritto dell’individuo,
e quindi del diritto dello Stato di concedere l’asilo, piuttosto che dell’individuo di ottenerlo, è posta a base della stessa risoluzione dell’Institut, riflettendo l’opinione della dottrina e la prassi corrente. La risoluzione tiene conto delle esigenze umanitarie richiamando la Dichiarazione universale: non però per riconoscere diritti all’individuo, ma per giustificare il comportamento dello Stato
che concede l’asilo13.
4. Le norme di diritto internazionale e di diritto umanitario
Il tema del diritto d’asilo presenta una varietà di profili interessanti, sia per la sua evoluzione storica, sia per la diversa rilevanza, nel corso del tempo, del diritto internazionale da un lato e del diritto umanitario dall’altro lato.
Profilo, in primo luogo, interessante è la possibile formazione di norme consuetudinarie in materia e l’incidenza di queste nel diritto interno; in secondo luogo lo sono la formazione e il recepimento negli ordinamenti nazionali di norme convenzionali, e più recentemente di norme comunitarie. Per quanto riguarda il nostro ordinamento, norme rilevanti sono non solo l’art. 10, 3° comma Cost., ma anche le norme di adattamento a convenzioni internazionali, sia a quella specifica
(Ginevra, 1951 e Protocollo di modifica di New York, 1967; l. ratifica ed esecuzione 24 luglio 1954,
n. 722 e 14 febbraio 1970, n. 79) sullo status dei rifugiati, sia a quelle di diritto umanitario, come
il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre 1977, n.
881), la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950, l. ratifica ed esecuzione 4 agosto 1955,
n. 848), la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (1984, l. ratifica ed esecuzione 3 novembre 1988, n. 498). In un contesto geografico e politico limitato, di carattere regionale quale l’europeo, ha assunto rilievo la disciplina comunitaria, l’asilo essendo divenuto (con il Trattato di Maastricht, prima, e di Amsterdam poi) parte integrante dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia che è obiettivo fondamentale dell’Unione europea (art. 2,
quarto trattino Trattato UE; art. 61 ss. Trattato CE).
Un’attenzione particolare merita la possibile formazione di norme consuetudinarie, anche per le
conclusioni che si trarranno in prosieguo sull’incidenza di tali norme (quella sul non refoulement
in particolare) nel nostro ordinamento. La dottrina che si è occupata del tema, con un risultato condivisibile, ritiene che, ancor oggi, non esista una norma di diritto internazionale consuetudinario
sul diritto d’asilo se non per alcuni aspetti o per alcuni princìpi in cui tale diritto si esprime. Si tratta di princìpi contenuti in atti internazionali ovvero nella prassi convenzionale: il principio del non
refoulement, cioè del divieto di respingere alla frontiera uno straniero (o apolide), di espellerlo o
estradarlo o allontanarlo verso un Paese dove è probabile che subisca persecuzione o tortura o (secondo un’interpretazione più ampia) ove può correre il rischio di essere espulso, estradato, allontanato verso un Paese che non rispetta i diritti fondamentali14. L’asilo così riconosciuto ha un con-
12 Cfr. Giuliano, Asilo cit., 206 ss., ma per l’evoluzione, soprattutto grazie agli strumenti di diritto internazionale umanitario e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché del Comitato dei diritti umani, per quanto riguarda l’interpretazione, rispettivamente, dell’art. 3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi CEDU) e dell’art. 7 Patto, relativi al divieto di tortura, pene e trattamenti inumani o degradanti, Pedrazzi, Il diritto cit., 13, 28 ss., in particolare sulla formazione di una
norma consuetudinaria che vieta il refoulement.
13 Afferma l’art. 2, 1° co., che “Tout Etat qui, dans l’accomplissement de ses devoirs d’humanité, accorde asile sur son territoire
n’encourt de ce fait aucune responsabilité internationale”. Come si vede, si prevede una causa di esclusione della responsabilità, non già un obbligo di diritto internazionale di concedere l’asilo.
14 Sul divieto di refoulement, fra i molti contributi, quelli di Pisillo Mazzeschi, M. Pedrazzi citt.; quanto all’interpretazione più
ampia proposta, Goodwin-Gill, Mc Adam, The Refugee cit., 345 ss.; cfr. pure Hailbronner, Non-Refoulement and “Humanitarian”
Refugees: Customary International Law or Wishful Legal Thinking?, in Virginia Journal of International Law, 1986, 866 ss.; Na-
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FOCUS
tenuto minimo, è provvisorio o temporaneo, perché la persona resta sul territorio dello Stato e non
viene refoulée verso lo Stato in cui la sua vita e libertà sono o possono essere minacciate.
Espressione dello stesso principio o suo corollario è quello del divieto di estradizione per reati politici, contenuto in molti trattati bilaterali e multilaterali: l’estradizione comporterebbe, invero, l’allontanamento e quindi la consegna della persona allo Stato ove subirebbe una persecuzione15.
5. Norme consuetudinarie e pattizie. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
La ricognizione delle fonti di diritto internazionale attraverso atti e prassi internazionali ha, come
risultato, l’affermazione di un diritto d’asilo che dipende ancora, in gran parte, dalla sovranità dello Stato, salvo per quel “nucleo irrinunciabile”, di natura “inderogabile e cogente” che discende dal
divieto di tortura e trattamenti disumani, che è norma di diritto internazionale generale e che si
esprime (come si è detto) nel divieto di refoulement16.
Il riconoscimento di un vero e proprio diritto d’asilo non è andato oltre la previsione contenuta
nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, dopo aver affermato il diritto di emigrare
ovvero “di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” (art. 13, 2°
comma), sancisce il diritto di ogni individuo “di cercare e godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”, seppur con il limite che tale diritto non possa essere invocato “qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politico per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite” (art. 14).
La Dichiarazione universale, forse la più nota delle Dichiarazioni di princìpi dell’Assemblea delle
Nazioni Unite, non ha, da un punto di vista formale, valore obbligatorio, pur avendo un importante rilievo al fine della rilevazione del diritto internazionale generale ovvero nella prospettiva della
sua evoluzione.
Non diversamente dagli accordi di codificazione è ben possibile che il contenuto di una Dichiarazione rifletta lo stato del diritto internazionale generale esistente oppure cristallizzi norme in via di
formazione, concludendone il processo, o rappresenti una fase di tale processo. La Dichiarazione
non è fonte “in sé e per sé”, tale essendo le norme consuetudinarie o quella particolare species di
consuetudine rappresentata dai princìpi generali di diritto17. Norme consuetudinarie di diritto umanitario sono espresse dai princìpi generali (dell’ordinamento internazionale) che vietano le violazioni gravi o gross violations dei diritti fondamentali delle persone quali il genocidio, la discriminazione razziale, la tortura, i trattamenti inumani o degradanti. Le disposizioni della Dichiarazione
universale che riflettano, nel contenuto, questi princìpi, assumono tale natura consuetudinaria. Di
per sé la norma sul diritto d’asilo non ha natura consuetudinaria, ma le conseguenze a essa riconducibili, in quanto il diniego di ingresso o refoulement provochi la violazione di diritti fondamentali della persona, fanno ritenere che il principio di non refoulement, avente quelle conseguenze
sotto il profilo del (mancato) rispetto dei diritti dell’uomo, abbia natura di norma consuetudinaria.
scimbene, Il diritto di asilo e lo status di rifugiato. Profili di diritto interno e comunitario, in Studi Panzera, vol. II, Bari, 1995, 519
ss. e Id., La condizione giuridica dello straniero, Padova, 1997, 886 ss. (rifer. ivi). Cfr. pure Lauterpacht, Bethlehem, The Scope
and Content of the Principle of Refoulement: Opinion, in Feller, Türk, Nicholson, Refugee cit., 140 ss. Per ampi rilievi sulla formazione di una norma consuetudinaria, e le ipotesi in cui divieto di refoulement e diritto di asilo possono configurarsi, considerata
l’incidenza di diritto umanitario, come norme di jus cogens, più recentemente Lenzerini, Asilo cit., 320, 335 ss.
15 Si vedano i riferimenti alla nota precedente e sul divieto di estradizione Del Tufo, Estradizione III) Diritto internazionale, in
Enc. giur., Roma, 1989, 5 ss.; cfr. anche i rilievi di Pisillo Mazzeschi, Il caso Oçalan: A) Profili di diritto internazionale, in Diritto penale e processo, 1999, 364 ss.; per ampi riferimenti alla prassi Lenzerini, Asilo cit., 176 ss.
16 In questi termini Pedrazzi, Il diritto cit., 35 ss.
17 Si vedano in proposito i rilievi di Luzzatto, Il diritto internazionale generale e le sue fonti, in Carbone, Luzzatto, Santa Maria,
Istituzioni di diritto internazionale, 3ª ed., Torino, 2006, 62 ss. sul valore delle dichiarazioni e dei princìpi generali, distinguendo i princìpi generali dell’ordinamento internazionale (come quello pacta sunt servanda o quelli, sette precisamente, enunciati
nella Dichiarazione dell’Assemblea generale delle N.U. sui princìpi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e
la cooperazione fra gli Stati, in conformità della Carta delle N.U., come il principio del divieto della minaccia o dell’uso della forza), dai princìpi generali degli ordinamenti giuridici interni ovvero “riconosciuti dalle Nazioni civili”, come recita l’art. 38, n. 1 lett.
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6. Le convenzioni internazionali di diritto umanitario
La prassi successiva alla Dichiarazione universale conferma l’inesistenza di un diritto di asilo a livello consuetudinario, se non nei termini e condizioni prima ricordati.
Gli atti convenzionali vincolanti fondati sulla Dichiarazione confermano, almeno dal punto di
vista formale, la natura programmatica della stessa: il Patto sui diritti civili e politici (del 16 dicembre 1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre 1977, n. 881) prevede soltanto il divieto di impedire, arbitrariamente, a una persona di entrare nel proprio Paese e il divieto di espellere (art.
12, par. 4 e art. 13) uno straniero regolarmente residente. Nel Patto sui diritti economici, sociali e culturali (del 16 dicembre 1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre 1977, n. 881), non si rinvengono norme rilevanti, salvo quelle sul diritto alla sopravvivenza fisica e alimentare e sul diritto alla salute (artt. 11, 12) che potrebbero essere gravemente compromessi in caso di refoulement18.
A livello universale la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (del 10 dicembre 1984, l. ratifica ed esecuzione 3 novembre 1988, n. 498) prevede
un divieto (peraltro assoluto, e quindi senza le eccezioni di cui si dirà, contenute nella Convenzione di Ginevra) di espellere, respingere, estradare una persona verso uno Stato in cui vi siano seri
motivi per ritenere che rischierebbe di essere sottoposto a tortura (art. 3). La tutela offerta, come
emerge anche dalla prassi del Comitato contro la tortura (organo istituito dalla Convenzione, art.
17) cui i singoli possono rivolgersi presentando comunicazioni nei confronti di uno Stato (la competenza del Comitato ad esaminarle deve essere, ex art. 22, accettata dallo Stato), è intesa in senso ampio, il divieto non prevedendo eccezioni o deroghe19.
A livello regionale gli strumenti di diritto umanitario di maggior rilievo sono la Convenzione americana sui diritti umani del 22 novembre 1969, la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli
del 27 giugno 1981 e, a livello europeo, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 4 novembre 1950 (l. ratifica ed esecuzione 4 agosto 1955, n. 848) con i suoi protocolli.
La Convenzione americana prevede il diritto di cercare e ricevere asilo, in caso di persecuzione per delitti politici o delitti comuni connessi a quelli politici, e comunque in conformità con
la legislazione di ogni Stato contraente e con gli accordi internazionali (art. 22, par. 7); prevede
c dello Statuto della Corte internazionale di giustizia indicando le fonti da utilizzare in materia di soluzione delle controversie.
Questi non sono ricavabili dalle norme di diritto internazionale, né sono dallo stesso sviluppati, e quindi non sono fonti di diritto internazionale generale, ma lo possono diventare (e quindi non limitarsi a esplicare funzione integrativa delle regole elaborate in ambito internazionale) in quanto esprimano effettivamente dei princìpi e caratteri essenziali in una determinata materia e
abbiano un effettivo carattere di generalità, siano cioè accolti da sistemi giuridici rappresentativi delle principali forme di civiltà
giuridica. Sul carattere non vincolante delle dichiarazioni, ma sul ruolo svolto quanto allo sviluppo del diritto internazionale, Conforti, Diritto internazionale, 6ª ed., Napoli, 2002, 60 ss., che ricorda anche due pronunce, Cass. S.U., 31 luglio 1967, n. 2035 in
Rivista di diritto internazionale, 1969, 590, Corte Cost., 23 novembre 1967, n. 120 ove la Dichiarazione universale è richiamata
(nel primo caso riconoscendole il valore di fonte di diritto consuetudinario, nel secondo caso limitandosi a precisare che il richiamo è fatto “prescindendosi da qualunque indagine [...] circa il valore giuridico” della stessa). Sul valore di norme consuetudinarie dei princìpi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili, a condizione che siano uniformemente applicati nella più gran
parte degli Stati e siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, non solo del diritto interno, i rilievi dello stesso autore, p. 45 ss., con riferimenti alla giurisprudenza circa l’interpretazione dell’art. 10, 1° comma
Cost., i princìpi appartenendo alle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (si ricordano, in particolare, pronunce della Corte Cost. sul principio ne bis in idem, escludendo, in riferimento all’art. 11 cod. pen., la natura di principio generale, sentenze 18 aprile 1967, n. 48, 8 aprile 1976, n. 69, ma ammettendo, in riferimento all’art. 705 cod. proc. pen. che accoglie
entro certi limiti il ne bis in idem internazionale, che se si non si è formata ancora una regola di diritto internazionale generale
“è tuttavia principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale, e risponde del resto ad evidenti ragioni di garanzia del singolo di fronte alle concorrenti potestà primitive degli Stati”: in questi termini Corte Cost., 3 marzo 1997, n. 58). Per alcuni rilievi sulla natura della Dichiarazione, peraltro escludendo la natura consuetudinaria, Vitta, Introduzione al capitolo primo,
in Vitta, Grementieri, Codice degli atti internazionali sui diritti dell’uomo, Milano, 1981, 22 ss.
18 Cfr. i rilievi in proposito di Pedrazzi, Il diritto cit., 33.
19 L’art. 3 prevede che “No State Party shall expel, return (“refouler”) or extradite a person to another State where there are substantial grounds for believing that he would be in danger of being subjected to torture”. Cfr. sul Comitato e la sua prassi Plender,
Mole, Beyond the Geneva Convention: Constructing a de facto Right of Asylum from International Human Rights Instruments, in
Nicholson, Twomey (eds.), Refugee Rights and Realities, Evolving International Concepts and Regimes, Cambridge, 1999, 86 ss.
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FOCUS
inoltre (art. 22, par. 8) un divieto di refoulement formulato in modo simile a quello della Convenzione di Ginevra (senza però eccezioni e, quindi, in termini più ampi e favorevoli alla persona)20.
La Carta africana (art. 12, par. 3) prevede il diritto dell’individuo, in caso di persecuzione, di cercare e ricevere asilo in altro Paese, secondo la legge di tale Paese e le convenzioni internazionali:
una convenzione promossa dall’Organizzazione dell’Unità africana (del 10 settembre 1969) “regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa”, assumendo come presupposto la Convenzione di Ginevra, ritenuta lo “strumento fondamentale e universale” in materia, fra l’altro vietando il refoulement e l’espulsione, se viene messa in pericolo la vita, l’integrità fisica21.
7. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo
A livello europeo, in particolare, la Convenzione dei diritti dell’uomo e i relativi protocolli non
contengono una norma sull’asilo né sul divieto di refoulement. L’art. 5, par. 1, lett. f, prevede,
dopo aver affermato il diritto alla libertà e alla sicurezza, fra i motivi che legittimano la privazione della libertà personale, l’arresto o detenzione “legali di una persona per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio o di una persona contro la quale è in corso un procedimento
d’espulsione o d’estradizione”. Il Protocollo n. 4 (del 16 settembre 1963 cui è stata data esecuzione con d.p.r. 14 aprile 1982, 217) vieta l’espulsione del cittadino e l’espulsione collettiva degli
stranieri (artt. 3, 4); il Protocollo n. 7 (del 22 novembre 1984, l. ratifica ed esecuzione 9 aprile
1990, n. 98) riconosce delle garanzie procedurali in caso di espulsione di straniero regolarmente residente (art. 1).
Alla mancanza di norme ad hoc ha supplito la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e in minor misura quella del Comitato dei diritti dell’uomo (istituito in virtù dell’art. 28 del
Patto sui diritti civili e politici, che ha competenza a ricevere, esaminare e pronunciarsi sulle comunicazioni presentate dagli individui contro lo Stato che ne ha accettato la competenza, secondo
quanto previsto dal Protocollo facoltativo del 16 dicembre 1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre 1977, n. 881)22. Tale giurisprudenza offre una protezione indiretta o par ricochet del diritto di
asilo, nonché del diritto di soggiorno, e quindi offre una protezione all’individuo destinatario di un
provvedimento di espulsione o di estradizione che rischi di sottoporre l’individuo a misure quali
la privazione arbitraria della vita (pena capitale), la tortura e le pene e i trattamenti inumani o de-
20 Cfr. i rilievi di Plender, Mole, Beyond the Geneva Convention cit., 85, nonché Pisillo Mazzeschi, Il diritto cit., 698 (sul carattere programmatico della norma); Pedrazzi, Il diritto cit., 26 (che ricorda, in senso diverso dall’attribuzione di un carattere programmatico e a conferma di una tutela più ampia rispetto a quella della Convenzione di Ginevra, la decisione della Commissione interamericana dei diritti umani, prevista dall’art. 33 della Convenzione, sulla violazione accertata dalla Commissione, tra l’altro, del
“diritto di cercare e ricevere asilo”, nel caso Haitian Interdiction v. United States, rapporto n. 51/96 del 13 marzo 1997). L’art. 22,
par. 6 Convenzione vieta l’espulsione dello straniero legalmente ammesso nel territorio di uno Stato contraente, salvo che in virtù di una disposizione adottata in conformità della legge; il par. 9 vieta le espulsioni collettive degli stranieri.
21 L’art. 12, par. 2, Carta africana prevede il diritto dell’individuo di lasciare qualsiasi Paese, compreso il proprio e di farvi ritorno; il par. 4 prevede il divieto di espulsione dello straniero salvo che in virtù di una decisione adottata secondo le disposizioni
di legge; il par. 5 prevede il divieto di espulsioni di massa di stranieri, tali essendo le espulsioni nei confronti di gruppi nazionali, razziali, etnici o religiosi; sul tema degli esodi di massa, in particolare, si vedano i rilievi di Carella, Esodi di massa e diritto internazionale, in Rivista di diritto internazionale, 1992, 903 ss. Sulle forme di protezione dei diritti dell’uomo a livello regionale
(Convenzione americana, Carta africana) e sugli organi previsti per la tutela di tali diritti si consenta rinviare, per alcuni rilievi, a
Nascimbene, L’individuo e la tutela internazionale dei diritti umani, in Carbone, Luzzatto, Santa Maria, Istituzioni cit., 392 ss.
22 Sulla rilevanza del Patto, che all’art. 7 vieta la tortura, le punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti e sulla giurisprudenza del Comitato, Kälin, Limits to expulsion under the International Covenant on Civil and Political Rights, in Salerno (a
cura di), Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione, Padova, 2003, 154 ss. Cfr. anche, sulla possibile violazione del diritto alla
vita, in caso di sottoposizione a pena di morte della persona estradata o espulsa, la prassi ricordata da Pedrazzi, Il diritto cit., 30
s. in relazione alla violazione dell’art. 6, par. 1 Patto e del Secondo protocollo facoltativo sull’abolizione della pena di morte (del
15 dicembre 1989, l. ratifica ed esecuzione 9 dicembre 1994, n. 734); sulla possibile violazione dell’art. 17 Patto, relativo al divieto di interferenze arbitrarie o illegittime nella vita privata e nella famiglia, Plender, Mole, Beyond the Geneva Convention cit., 99
ss.; Kälin, Limits to expulsion cit., 152 ss.
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gradanti (artt. 2, 3), la violazione del rispetto della vita privata e familiare, in particolare del principio dell’unità familiare (art. 8)23.
Le norme rilevanti sono, oltre agli artt. 2, 3, 8 della Convenzione europea, le norme che specificamente proteggono il diritto alla vita, quali il Protocollo n. 6 (del 28 aprile 1983, l. ratifica ed esecuzione 2 gennaio 1989, n.8) sull’abolizione della pena di morte e il Protocollo n. 13 (del 3 maggio 2002, l. ratifica ed esecuzione 15 ottobre 2008, 179) sull’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza. Il diritto alla vita e il divieto di tortura sono inderogabili, il diritto all’unità familiare, invece, può subire deroghe (per ragioni di sicurezza nazionale, ordine pubblico, benessere
economico del Paese, prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, protezione dei
diritti e delle libertà altrui, art. 8, par. 2). L’allontanamento, l’espulsione, la consegna, il refoulement,
in questo caso, sono sottoposti a un giudizio di proporzionalità fra (da un lato) il sacrificio che possono subire la vita privata, i legami familiari, il radicamento in un certo ambiente sociale e (dall’altro) i fini pubblici perseguiti dallo Stato.
8. La Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato
Il sistema di protezione internazionale dei rifugiati trova la sua espressione specifica nella Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (l. ratifica ed esecuzione 24 luglio 1954, n. 722), nel Protocollo di New York del 1° gennaio 1967 (l. ratifica ed esecuzione 14 febbraio 1970, n. 95) che ha eliminato l’applicazione temporale della Convenzione agli eventi verificatisi prima del 1° gennaio
1951 e l’applicazione geografica agli eventi verificatisi in Europa (su quest’ultima applicazione, tuttavia, gli Stati potevano continuare a mantenere, se già formulata, una riserva, che il nostro Paese
ha mantenuto fino all’approvazione della cosiddetta legge Martelli)24.
Il “sistema di Ginevra” ha finalità essenzialmente umanitarie, ampiamente richiamate nel preambolo della Convenzione che rinvia alla Carta delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione universale, e
che sottolinea la necessità di una cooperazione internazionale fra gli Stati membri delle N.U. Deve, infatti, essere sempre garantito l’esercizio dei diritti fondamentali, ma si deve anche tener conto, se si vuole realizzare una cooperazione effettiva, che “dalla concessione del diritto di asilo pos-
23 Sull’orientamento giurisprudenziale in proposito cfr., quanto alla possibile violazione dell’art. 2, la sentenza 12 aprile 2005,
Chamaïev e 12 altri c. Georgia e Russia, n. 36378/02, par. 371 s.; dell’art. 3, le sentenze 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, 26
novembre 1996, n. 70/1995/576/662, Chahal c. Regno Unito (Chahal era sospettato di essere coinvolto in attività terroristiche, ma
il divieto di tortura è, come detto poco oltre nel testo, espresso in termini inderogabili), 29 aprile 1997, H.L.R. c. Francia, n.
11/1996/630/813, parr. 39-41 (il rischio di maltrattamenti rileva anche se questi provengono da privati, nella specie trafficanti di
droga operanti in Colombia, lo Stato non essendo in grado di prevenirle); decisione del 7 marzo 2000, T.I. c. Regno Unito, n.
43884/98 (la protezione deve essere assicurata anche contro il rischio di un allontanamento successivo dal Paese di destinazione
verso un altro Paese dove subisce il rischio di violazione dei diritti fondamentali); 12 maggio 2005 [GC] Oçalan c. Turchia, par.
162 ss. Sulla possibile violazione dell’art. 8 e sulla derogabilità, come è detto poco oltre nel testo, cfr. le sentenze 11 luglio 2002,
Amrollahi c. Danimarca, n. 56811/00 (sul sacrificio della vita familiare, in particolare in presenza di figli minori), 7 agosto 1996,
C. c. Belgio, n. 35/1995/541/627, par. 25 (sul radicamento sociale dell’individuo, in assenza di legami familiari nel Paese di residenza). Sull’estensione dei princìpi affermati in tema di estradizione all’espulsione, cfr. la sentenza 20 marzo 1991, Cruz Varas c.
Svezia, spec. par. 69 s. Per una disamina della giurisprudenza Malinverni, I limiti all’espulsione secondo la Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, in Salerno (a cura di), Diritti dell’uomo cit., 165 ss.; ivi, 97 ss., Starace, Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed estradizione; Nascimbene, La Convenzione, la condizione dello straniero, la giurisprudenza, in Nascimbene (a cura di),
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili ed effetti nell’ordinamento italiano, Milano, 2002, 153 ss.; Costa, Expulsion
et réadmission: la protection des libertés fondamentales, in Leanza (a cura di), Le migrazioni. Una sfida per il diritto comunitario
e interno, Napoli, 2005, 143 ss.; Fioravanti, Diniego di riconoscimento dello status di rifugiato e concessione del permesso di soggiorno per la protezione degli individui dal rischio di tortura, in Zagato (a cura di), Verso una disciplina comune cit., 233 ss.; Mole, Asylum and European Convention on Human Rights, Strasbourg, 2007, 18 ss. Per alcuni rilievi sul tema cfr. Baratta, Spunti di
riflessione sulle condizioni del migrante irregolare nella giurisprudenza internazionale, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 13
ss.; per un esame, in generale, dei limiti posti all’espulsione, Kamto, Preliminary Report on the Expulsion of Alìens, A/CN.4/554.
24 La “legge Martelli” è il d.l. 30 dicembre 1989, n. 416 conv. in l. 28 febbraio 1990, n. 39, “Norme urgenti in materia di asilo
politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già
presenti nel territorio dello Stato”. Per alcuni rilievi sulle riserve italiane e il loro ritiro si permette rinviare al nostro Lo straniero
nel diritto italiano, Appendice di aggiornamento, Milano, 1990, 1 ss.
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FOCUS
sono derivare obblighi eccezionalmente gravosi per determinati paesi” (preambolo, 2° e 4° considerando)25.
La Convenzione rappresenta il modello di altre convenzioni internazionali a carattere regionale e
del sottosistema regionale comunitario, costituito dal Trattato UE e Trattato CE, prima, e, oggi, con
l’entrata in vigore, il 1 dicembre 2009, del Trattato di Lisbona (di cui si dirà in prosieguo), dal Trattato UE (modificato) e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), nonché dal diritto derivato (regolamenti, direttive, decisioni). È parte integrante del nostro ordinamento non solo, e in primo luogo, attraverso le leggi di ratifica ed esecuzione, ma anche in virtù dei rinvii operati da varie norme nazionali (in epoca più recente, i decreti legislativi di recepimento delle direttive comunitarie), pur in mancanza di una legge organica che avrebbe dovuto dare attuazione alla riserva assoluta di legge contenuta nell’art. 10, 3° comma Cost.: la norma, invero, riconosce il diritto di asilo “secondo le condizioni stabilite dalla legge”26.
La Convenzione, tuttavia, non riconosce il “diritto di asilo”, bensì disciplina il regime giuridico applicabile a chi ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato27. Nel definire il rifugiato (art.
1), la Convenzione si riferisce alle persecuzioni da cui la persona sfugge e che l’art. 14 della Dichiarazione universale, come già ricordato, assume quale presupposto del diritto di “cercare e godere” asilo in altri Paesi. Rifugiato è (art. 1) chi “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenendo ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo
timore, avvalersi della protezione di questo Paese”, o se apolide, non può o non vuole tornare nel
Paese in cui aveva la residenza abituale a causa di detto timore. A questa definizione, salve le integrazioni di cui si dirà, fanno rinvio le norme di diritto comunitario, e di diritto dell’Unione europea, e le norme nazionali di recepimento.
La Convenzione vieta qualunque sanzione penale per ingresso o soggiorno irregolari, cioè senza
autorizzazione, con obbligo di presentarsi “senza indugio” alle autorità per giustificare l’ingresso
o presenza irregolari (art. 31); vieta l’espulsione del rifugiato residente regolarmente se non per
cause eccezionali quali i motivi di ordine pubblico o sicurezza nazionale, e comunque nel rispetto di varie garanzie procedurali (art. 32). Vieta, in particolare, il refoulement, e quindi l’espulsione o respingimento “in nessun modo” verso Stati ove la vita o libertà sarebbero minacciate per
quelle cause che legittimano la persona a chiedere il rifugio (art. 33, par. 1), con due eccezioni,
rappresentate dalla sussistenza di gravi motivi che fanno ritenere il rifugiato un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova; dalla condanna con sentenza passata in giudicato per un reato
particolarmente grave, il rifugiato rappresentando una minaccia per la comunità di detto Stato (art.
33, par. 2).
9. Il divieto di refoulement e la prassi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati
I “pilastri” del sistema di Ginevra sono la definizione di rifugiato e il principio di non refoulement,
cui si aggiunge la definizione degli obblighi (art. 2, conformarsi a leggi e regolamenti dello Stato
di rifugio) e dei diritti civili, economici, sociali, culturali, cioè la definizione dello statuto del rifu-
25 Sul sistema della Convenzione di Ginevra cfr., fra gli altri, Strozzi, Introduzione al capitolo quinto, in Vitta, Grementieri, Codice degli atti cit., 351 ss.; Benvenuti, La Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, in Pineschi (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani, Milano, 2006, 151 ss.; cfr. pure Carlier, Et Genève sera... la définition du réfugié: bilan et perspectives,
in AA.VV., La Convention de Genève du 28 juillet 1951 relative au statut des réfugiés 50 ans après: bilan et perspectives, Bruxelles, 2001, 63 ss.; Artini, La Convenzione di Ginevra del 1951 ed il suo ruolo nella attuale realtà dei flussi migratori, in Benvenuti
(a causa di), Flussi cit., 49 ss.; ivi Marchesi, Diritto di asilo e procedure di riconoscimento del diritto all’asilo. Brevi considerazioni, 167 ss. Cfr. pure gli autori citati alla nota 1.
26 Sulle norme comunitarie, ovvero di diritto dell’Unione europea in materia e il recepimento delle stesse, si veda oltre, parte
II. Si veda pure oltre, parte III, sull’art. 10, 3° comma Cost. e la sua attuazione.
27 Sul mancato riconoscimento del diritto di asilo cfr. Pisillo Mazzeschi, Il diritto cit., 697; si vedano anche i rilievi svolti da Nascimbene, Favilli, Rifugiati, voce in Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. V, Milano, 2006, 5306 ss.
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giato (art. 3 ss., ma soprattutto artt. 12-30), restando comunque salvo il trattamento più favorevole
disposto da altre convenzioni (art. 5).
Rinviando al prosieguo l’esame dello “statuto”28, in particolare alla luce delle modifiche introdotte
nel nostro ordinamento dal diritto dell’Unione europea, rileva sottolineare l’ampiezza del divieto di
refoulement. Esso, invero, si estende al respingimento indiretto, cioè verso Paesi nei quali il rifugiato corre il rischio di essere respinto o espulso in altri Paesi dove subirebbe persecuzioni. Il divieto di refoulement è giustificato dal fatto che il riconoscimento dello status ha effetti dichiarativi
(non costitutivi) a decorrere dal momento in cui tale riconoscimento viene richiesto. Il procedimento interno non è disciplinato dalla Convenzione ma dalle legislazioni nazionali, che nel rispetto degli obblighi generali di cooperazione degli Stati contraenti con le N.U. (artt. 35-36), debbono assicurare che la cosiddetta eleggibilità al riconoscimento dello status (art. 1) sia effettiva e non vengano vanificati i diritti sanciti nella Convenzione. Le norme nazionali, insomma, non possono rendere eccessivamente difficile o complesso il riconoscimento.
Gli Stati hanno inoltre l’obbligo di fare tutto il possibile per prevenire le persecuzioni. Gli atti delle N.U. successivi alla Convenzione confermano questa impostazione. La Dichiarazione dell’Assemblea generale sull’asilo territoriale (New York, 14 dicembre 1967) riconosce il diritto di asilo richiamando quanto previsto dalla Dichiarazione universale, e conferma la natura non politica, ma umanitaria di tale riconoscimento, non potendo l’atto “essere considerato ostile da parte di qualsiasi altro Stato” (preambolo, quarta frase). La Dichiarazione conferma altresì l’impostazione tradizionale,
già ricordata, di un diritto “concesso da uno Stato nell’esercizio della sua sovranità” che “deve essere rispettato da tutti gli altri Stati” (art. 1, par. 1), non già di un diritto dell’uomo in quanto diritto
individuale29.
La prassi sviluppata dall’Alto Commissariato delle N.U. per i rifugiati (UNHCR), organo sussidiario
dell’Assembla generale30, colma almeno in parte le lacune, considerato che alla Dichiarazione sull’asilo territoriale non fece seguito una Convenzione con lo stesso oggetto. Una più ampia tutela
umanitaria e una protezione internazionale più estesa rispetto alla Convenzione di Ginevra sarebbero state realizzate con la Convenzione sull’asilo. L’Alto Commissariato (che si avvale di delegazioni con competenze territoriali) “assume funzioni di protezione internazionale, sotto gli auspici
delle Nazioni Unite”; coopera con i Governi nazionali, le organizzazioni intergovernative e private;
promuove “soluzioni permanenti del problema dei rifugiati”; facilita il rimpatrio volontario e l’integrazione dei rifugiati in “nuove comunità nazionali” (art. 1 Statuto), vigilando sull’applicazione
degli strumenti internazionali e riferendone annualmente all’Assemblea generale (artt. 8, 16 Statuto)31. Su richiesta del Segretario generale o dell’Assemblea generale delle N.U. esercita azioni umanitarie, di protezione e assistenza a favore di individui non riconosciuti come rifugiati ma sfollati32.
Proprio quest’ultima categoria di persone e, più in generale, quella dei rifugiati di fatto, rifugiati
economici, displaced persons, che non sono riconosciuti rifugiati secondo la Convenzione, ma meritano comunque protezione, ha posto, a livello internazionale e regionale, un problema di disciplina giuridica che assicuri allo straniero, in queste condizioni, uno standard di diritto umanitario33.
28 Vedi oltre, parte III. Per la disamina di alcuni profili relativi alla definizione di uno status giuridico del diritto d’asilo, alla luce della “universalizzazione” dei princìpi fondamentali della Convenzione di Ginevra, delle prassi interne e internazionali, della
possibile estensione dell’obbligo di concedere asilo anche nei casi di protezione temporanea necessitata da conflitti armati, ovvero da situazioni economiche (non generalizzate, ma che mettono in pericolo la vita di una persona), Lenzerini, Asilo cit., 547 ss.
29 Si veda, su questa impostazione, la Risoluzione dell’Institut de droit international, prima ricordata.
30 L’Alto Commissariato venne istituito con risoluzione dell’Assemblea A.G. Ris. 319 [IV] del 3 dicembre 1949; lo Statuto venne
approvato con A.G. Ris. 428 [V] del 14 dicembre 1950.
31 Si vedano i rilievi di Strozzi, Rifugiati cit., 357 sull’Alto Commissariato e sull’accordo stipulato dal Governo italiano con lo
stesso il 2 aprile 1952 (l. ratifica ed esecuzione 15 dicembre 1954, n. 1271). Sull’obbligo degli Stati di fornire cooperazione all’Alto Commissariato, cfr. l’art. 35 Convenzione e sulla nomina di “rappresentanti” dello stesso, l’art. 16 Statuto.
32 Sull’opera svolta dall’Alto Commissariato Benvenuti cfr. La Convenzione cit., 152. Per alcuni rilievi sulla protezione degli sfollati cfr. Zorzi Giustiniani, La tutela internazionale degli sfollati, in Benvenuti, Flussi cit., 387 ss.
33 Su questi profili, e la necessità di assicurare una protezione internazionale più ampia di quella prevista dalla Convenzione di
Ginevra, cfr. i riferimenti nelle due note precedenti e Nascimbene, Favilli, Rifugiati, loc. cit.; Lenzerini, Asilo cit., 555 ss. (anche
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FOCUS
Il diritto dell’Unione europea, di cui si dirà poco oltre, offre un esempio di come possano integrarsi la cooperazione e le norme internazionali, da un lato, e norme comunitarie dell’Unione europea, primarie e secondarie, dall’altro.
II.
10. Il diritto comunitario in materia di asilo. Dalle “norme minime” alla “politica comune”
Come cambia, dunque, se cambia, il quadro normativo sull’asilo e sullo statuto del rifugiato in virtù del diritto dell’Unione europea?
La domanda sembra retorica, perché un diritto in movimento e in divenire, quale è il diritto dell’Unione, influenza ogni settore del diritto con forza “invasiva” e, dunque, anche quello dei diritti
fondamentali della persona ai quali il diritto di asilo, come si è prima detto, appartiene34.
La domanda è, invece, del tutto giustificata se si considera che le norme comunitarie sull’asilo non
appartengono al diritto comunitario classico od originario dei Trattati istitutivi delle Comunità e, anche quando sono state introdotte con il Trattato di Maastricht che ha istituito l’Unione europea (in
vigore dal 1° novembre 1993), hanno appartenuto al cosiddetto terzo pilastro, caratterizzato dalla
cooperazione intergovernativa. La politica in materia di asilo non esisteva nel Trattato CEE (in vigore dal 1° gennaio 1958) ed era, comunque, un mero “settore di comune interesse” nel Trattato di
Maastricht (art. K.1 Trattato UE). È solo con il Trattato di Amsterdam (in vigore dal 1° maggio 1999)
che le norme sull’asilo, insieme a quelle sui visti, sull’immigrazione, sulla cooperazione giudiziaria
in materia civile (art. 62 ss., titolo IV Trattato CE) entrano a far parte del cosiddetto primo pilastro
su ipotesi de lege ferenda). Per alcuni rilievi di carattere generale sugli obblighi e sulla responsabilità degli Stati, Carella, Esodi cit.,
929 ss.; Pisillo Mazzeschi, Flussi di rifugiati e responsabilità dello Stato di origine, in Rivista di diritto internazionale, 1991, 621
ss.; Plender, Mole, Beyond the Geneva Convention cit., 99.
34 Sulla forza espansiva o invasiva del diritto comunitario è celebre, e ancora attuale, l’affermazione di Lord Denning, in causa
HP Bulmer Ltd v. Bollinger SA (1974), Ch. 401, 408, secondo cui “when we come to matters with a European element, the Treaty
is like an incoming tide. It flows into the estuaries and up the rivers. It cannot be held back”. Sul tema del diritto di asilo e della
politica europea in materia, si vedano più recentemente Nascimbene, Il futuro della politica europea di asilo, ISPI, Working paper n. 25, giugno 2008 (e con Favilli, Rifugiati cit.); Adinolfi, Riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria: verso un sistema comune europeo?, in Rivista di diritto internazionale, 2009, 669 ss. In precedenza Cannizzaro, L’armonizzazione del diritto d’asilo in sede comunitaria e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, in Rivista di diritto internazionale, 2001, 440 ss.; Boccardi, Europe and Refugees: Towards an EU Asylum Policy, The Hague, 2002; Manca, L’immigrazione nel
diritto dell’Unione europea, Milano, 2003, 55 ss.; i vari contributi in Dias Urbano De Sousa, De Bruycker (under the supervision
of), The Emergence of a European Asylum Policy, Bruxelles, 2004; Gilbert, Is Europe Living Up to Its Obligations to Refugees?, in
European Journal of International Law, 2004, 963 ss.; Adinolfi, La libertà di circolazione delle persone, in Strozzi (a cura di), Diritto dell’Unione europea, parte speciale, Torino, 2005, 70 ss.; i vari contributi in Carlier, De Bruycker (under the supervision of),
Immigration and Asylum Law: Current Debats, Bruxelles, 2005 e in Julien-La Ferrière, Labayle, Edstrom, The European immigration and asylum policy: critical assessment five years after the Amsterdam Treaty, Bruxelles, 2005; Juss, The Decline and Decay of
European Refugee Policy, in Oxford Journal of Legal Studies, 2005, 749 ss.; Marchisio, Rifugiati, profughi e altre esigenze di protezione nel diritto comunitario, in Leanza (a cura di), Le migrazioni cit., 327 ss.; Zwaan, UNHCR and European Asylum Law, Nijmegen, 2005; Cellamare, La disciplina dell’immigrazione nell’Unione europea, Torino, 2006, 22 ss; Quadri, Le migrazioni internazionali, 2006, 201 ss.; Feitgen-Colly, The European Union and Asylum: An illusion of protection, in Common Market Law Review, 2006, 1503 ss.; i vari contributi in Zagato (a cura di), Verso una disciplina comune cit.; Bascherini, Immigrazione e diritti
fondamentali, Napoli, 2007, spec. 186 ss.; Benvenuti, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione,
Padova, 2007, 233 ss.; Carlier, La condition des personnes dans l’Union européenne, Paris, 2007, 153 ss.; i contributi di Parisi, Ai
confini d’Europa Politiche migratorie e diritto d’asilo e di Spatti, Richiedenti asilo e “paesi sicuri”. La disciplina comunitaria a confronto con il diritto internazionale a tutela dei rifugiati e con i diritti fondamentali dell’individuo, in Rinoldi (a cura di), Questioni di diritto delle migrazioni, Milano, 2007, 45, 181 ss.; Caggiano, Le nuove politiche dei controlli alle frontiere dell’asilo e dell’immigrazione nello spazio unificato di libertà, sicurezza e giustizia, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 101 ss.; Galetta, The European Asylum Policy between myth and reality, in Birkinshaw (ed.), The End of the Post 1992 European Order?, Alphen aan den
Rijn, 2010, in corso di pubblicazione.
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o pilastro comunitario, caratterizzato dal ben diverso metodo comunitario ovvero metodo dell’integrazione comunitaria35.
La base giuridica rappresentata dagli artt. 61-63 (soprattutto dall’art. 63) ha consentito l’approvazione di una serie di atti, dal 2000 al 2005, che rappresentano la prima fase della politica comunitaria
o dell’Unione in materia di asilo. La prima fase è delineata in due programmi di durata, ciascuno,
quinquennale (Tampere 1999-2004; L’Aja 2004-2009), cui ne seguirà un terzo di pari durata (Stoccolma, 2010-2014).
Insieme i tre programmi tracciano la road map, e quindi anche le linee evolutive della seconda fase, alla luce degli orientamenti politici contenuti nel “Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo”
(adottato dal Consiglio europeo, 2008)36.
Il diritto comunitario in materia è dunque, in primo luogo, di formazione recente; in secondo luogo è tuttora in corso di approfondimento, alla ricerca di standard più elevati rispetto a quelli internazionali. L’obiettivo del miglioramento della condizione del rifugiato sarà realizzato una volta in
vigore il Trattato di Lisbona: esso, invero, non si riferisce più all’adozione di “norme minime” (art.
61 Trattato CE) ma alla garanzia, da parte dell’Unione, di realizzare una “politica comune in materia di asilo”, oltre che in materia di immigrazione e controllo delle frontiere esterne (art. 67 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea-TFUE)37.
11. Le direttive e i regolamenti rilevanti
Le norme rilevanti nella materia in esame sono quattro direttive specifiche (sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, sulla protezione temporanea, sul riconoscimento della qualifica di
rifugiato e sulle procedure per ottenere tale riconoscimento) e alcune disposizioni sul ricongiungimento familiare contenute in una direttiva di oggetto più ampio quale il ricongiungimento familiare (direttiva 2003/86), e quattro regolamenti. Questi, precisamente, sono due coppie di regolamenti, che compongono il cosiddetto sistema di Dublino: il regolamento “Dublino II” sui criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo
presentata in uno Stato membro (343/2003; ha la sua origine in una Convenzione sottoscritta dagli
Stati membri a Dublino il 15 giugno 1990, denominata “Dublino I”, avente il medesimo oggetto),
completato da un regolamento di applicazione (407/2002); il regolamento Eurodac per il confronto delle impronte digitali e l’efficace applicazione del predetto regolamento (e, nel passato, della
Convenzione; regolamento 2725/2000) completato da un regolamento di applicazione (1560/2003).
La direttiva accoglienza (2003/9) disciplina le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo. Essa
definisce quali sono i diritti minimi (sostanziali, procedurali, giurisdizionali) che si applicano a chi
chiede asilo secondo la Convenzione di Ginevra. Lo Stato può applicare tali norme anche a forme
di protezione diverse da quella prevista dalla Convenzione di Ginevra, come la protezione sussi-
35 Il metodo viene definito sulla base di quattro caratteristiche, non presenti nella cooperazione internazionale, anche a livello
europeo (come la cooperazione realizzata nell’ambito del Consiglio d’Europa): prevalenza degli organi di individui; prevalenza
del principio maggioritario; ampiezza del potere di adottare atti vincolanti; sottoposizione degli atti adottati a un sistema di controllo giurisdizionale di legittimità. Un riferimento al metodo o modello comunitario era contenuto nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (art. I-1, secondo cui l’Unione avrebbe esercitato “sulla base del modello comunitario le competenze” attribuite dagli Stati alla stessa), ma più non compare nel Trattato di Lisbona: si vedano in proposito i rilievi di Daniele, Diritto dell’Unione europea, 3ª ed., Milano, 2008, 6 ss.
36 Sui programmi ricordati (Tampere e L’Aja) si vedano gli autori citati alla nota 34; sul programma di Stoccolma cfr. le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 10-11 dicembre 2009, con cui il Consiglio ha adottato il programma, denominato “Un’Europa aperta e sicura al servizio dei cittadini” (doc. 17024/09 del 2 dicembre 2009); in precedenza, sull’evoluzione della protezione in materia di asilo, il piano strategico della Commissione “Un approccio integrato in materia di protezione nell’Unione europea”, COM (2008) 360 del 17 giugno 2008. Sul Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, adottato dal Consiglio europeo del 16 ottobre 2008, Bertozzi, European Pact on Migration and Asylum: A Stepping store toward Common European Migration Policy, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2009, 79 ss.
37 Per alcuni rilievi sulle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona si vedano i rilievi di Nascimbene, Il futuro della politica
cit. (e con Favilli, Rifugiati cit.) e di Adinolfi, Riconoscimento dello status di rifugiato cit.
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FOCUS
diaria prevista dalla direttiva qualifiche (di cui si dirà poco oltre) o quelle altre forme di protezione previste dalle norme nazionali.
La direttiva protezione temporanea (2001/55) assicura la protezione temporanea di un anno (prorogabile due volte, al massimo, per sei mesi ciascuna) di una categoria di persone, definite “sfollati”, più ampia dei rifugiati, ma che può rappresentare una prima forma di protezione in attesa del
riconoscimento dello status di rifugiato. La protezione è prevista quando vi sia un afflusso massiccio di sfollati e intende promuovere, considerata l’entità del fenomeno di afflusso, un “equilibrio
degli sforzi” fra gli Stati “che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli
stessi”.
Le direttive che sono più strettamente connesse al diritto della Convenzione di Ginevra, contenendo elementi evolutivi rispetto alla stessa, sono la direttiva qualifiche (2004/83) e la direttiva procedure (2005/85). La prima riguarda l’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti
bisognosa di protezione internazionale e il contenuto della protezione, per quanto riguarda sia il
rifugiato, sia la persona protetta in via sussidiaria. La protezione sussidiaria è l’aspetto maggiormente positivo, ma anche la novità, rispetto al diritto tradizionale, rappresentata dalla Convenzione di
Ginevra che viene definita nel preambolo della direttiva (punto 3) “la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa ai rifugiati”. Se, da un lato, si vogliono fissare criteri comuni per attribuire lo status, assicurando alle persone un livello comune (minimo) di prestazioni, e
dunque evitando il fenomeno dell’asylum shopping ovvero della ricerca dello Stato ove più facile
è ottenere il riconoscimento grazie a norme o prassi nazionali più favorevoli, dall’altro lato si riconosce che esistono situazioni meritevoli di protezione (sussidiaria o complementare alla protezione riconosciuta al rifugiato) non ricomprese nella definizione della Convenzione di Ginevra38.
La Convenzione non è stata modificata, ma l’azione e la prassi dell’UNHCR sono nel senso di “proteggere e assistere particolari gruppi di persone, le cui caratteristiche non corrispond[ono] necessariamente alla definizione presente” nello Statuto dell’Ufficio, conformemente al mandato ricevuto
dall’Assemblea generale e dal Comitato economico e sociale delle Nazioni Unite di estendere ratione personae la competenza originariamente prevista nello Statuto39.
12. La protezione internazionale, in particolare: a) la protezione sussidiaria; b) la procedura di riconoscimento (anche con riferimento al diritto interno); c) la nozione di Paese terzo sicuro
a) La protezione sussidiaria, che insieme alla protezione temporanea è codificata nel diritto dell’Unione, con sicuro vantaggio e progresso rispetto al diritto internazionale, è stata peraltro oggetto di interpretazione da parte della Corte di giustizia su rinvio del giudice amministrativo dei Paesi Bassi in un caso di richiedenti asilo afgani.
La Corte ha riconosciuto che questa forma di protezione a favore di chi non possiede i requisiti
per essere riconosciuto come rifugiato (perché non subisce la persecuzione che ne caratterizza lo
status), ma nei confronti del quale sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un danno grave, è non solo più estesa di
quella offerta dalla Convenzione di Ginevra, ma anche di quella offerta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare dall’art. 3. Le norme della direttiva (art. 2, lett. e; art. 15, lett.
a, b, c) si riferiscono a un danno grave che comprende espressamente (lett. b) la tortura e il trat-
38 Sul significato della protezione sussidiaria, si veda la Nota dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i rifugiati, La protezione sussidiaria secondo la “Direttiva Qualifiche” nel caso di persone minacciate da violenza indiscriminata, presentata alla Corte di giustizia delle Comunità europee nella causa C-465/07, Elgafaji, decisa con sentenza del 17 febbraio 2009, in Raccolta, p.-I in corso
di pubblicazione. Per rilievi sulla protezione temporanea e sussidiaria e l’interpretazione evolutiva della Convenzione di Ginevra,
cfr. parte I, parr. 8-9, riferimenti ivi. Su alcuni problemi posti dalla direttiva qualifiche cfr. le cause riunite pendenti avanti alla Corte di giustizia, Abdulla, Hasan, Adem e Rashi, Jamal, C-175/08, C-176/08, C-178/08, C-179/08, conclusioni dell’avvocato generale
Mazák, in http://curia.europa.eu
39 Su tale estensione cfr. la Nota La protezione cit., 2; cfr. anche quanto si è detto in precedenza, par. 9.
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tamento inumano e degradante, aggiungendo (lett. c) la minaccia grave, e individuale, alla vita o
alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o
internazionale. Per quanto si tratti di formulazione piuttosto dubbia, frutto di compromesso in sede di approvazione (la formulazione originaria faceva riferimento, genericamente, a persone in fuga da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o di violazioni sistematiche e generalizzate dei loro diritti umani, senza indicazioni circa il carattere “individuale” della violenza)40, la
Corte ha dato un’interpretazione estensiva della situazione meritevole di protezione. Fatto salvo
l’indiscutibile “rispetto dei diritti fondamentali come garantiti dalla CEDU”, in particolare dall’art.
3, l’interpretazione autonoma, e quindi additiva delle norme della direttiva, ha come risultato che
la minaccia individuale, ovvero il rischio soggettivo che corre il singolo, non deve essere provato
quando il grado di violenza indiscriminata che caratterizza un conflitto è così elevato da ritenere
che la persona, rientrando nel Paese, “correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio [...] un rischio effettivo di subire la detta minaccia”41.
Il singolo, insomma, non è sottoposto all’onere della prova in determinate situazioni, venendo così facilitato il riconoscimento della qualifica di protezione sussidiaria e favorita l’interpretazione
estensiva di una norma, come si è detto, di dubbia formulazione.
b) La direttiva procedure si propone di stabilire norme procedurali minime sul riconoscimento e
revoca dello status di rifugiato: un “quadro minimo” che dovrebbe (precisa la direttiva, considerando n. 6) “contribuire a limitare i movimenti secondari dei richiedenti asilo tra gli Stati membri,
nei casi in cui tali movimenti siano dovuti alla diversità delle normative”. La finalità di limitare o
eliminare il fenomeno di asylum shopping, comune alla direttiva qualifiche, è solo in parte realizzato, poiché la discrezionalità lasciata agli Stati nell’adottare misure di attuazione è assai ampia e il
frequente rinvio a norme e procedure nazionali pregiudica l’uniformità di soluzioni42.
Anche il coordinamento con la direttiva qualifiche è carente, perché è lasciata agli Stati la facoltà
di decidere se la procedura relativa al riconoscimento dello status di rifugiato è applicabile anche
per il riconoscimento della protezione sussidiaria (art. 3, par. 3). Il nostro Paese si è avvalso di tale facoltà e il d.lgs. 25/2008 prevede una procedura unica per tutte le forme di protezione internazionale (art. 26), consentendo anche l’impugnazione di una decisione che abbia riconosciuto la
protezione sussidiaria anziché lo status di rifugiato (art. 35). A conferma di questa impostazione
unitaria a livello nazionale, il d.lgs. usa le espressioni “domanda di asilo” e “domanda di protezione internazionale” in modo equivalente (si veda, per esempio, la rubrica dell’art. 26 e il 1° comma dello stesso articolo, e la diversa denominazione degli organi amministrativi competenti, le
commissioni territoriali essendo denominate di “protezione internazionale” e quella nazionale di
“diritto di asilo”, artt. 4, 5).
La direttiva, che consente di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli (art. 5)
lascia comunque liberi gli Stati di applicarla a qualsiasi altra forma di protezione internazionale (art.
3, par. 4).
Il d.lgs. ricordato prevede una forma autonoma di protezione a favore di chi non abbia ottenuto il
riconoscimento della protezione internazionale, qualora sussistano “gravi motivi di carattere umanitario” (art. 32; la commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del
permesso di soggiorno, appunto, per motivi di carattere umanitario)43.
40 Cfr. per rilievi critici la Nota La protezione cit., 3.
41 Cfr. il punto 43 della sentenza e sul rispetto, comunque, dei diritti fondamentali come garantiti dalla CEDU, il punto 28.
42 Sulla direttiva procedure e sulla recezione nel nostro ordinamento cfr. Marchesi, Diritto di asilo cit., 170 ss.; Bartolini, Osservazioni in margine alla “direttiva procedure” 2005/85, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 177 ss., ivi riferimenti.
43 Il rilascio del permesso è, salvo casi eccezionali, atto dovuto, una volta che sia stata accertata da parte della commissione
(non già del Questore) la sussistenza dei motivi: cfr. sul punto Cass. S.U. 19393/09, ricordata oltre, parte III (nota 63, anche per
altri riferimenti). Precisa il d.lgs. art. 34, par. 3 che “il permesso di soggiorno umanitario” rilasciato ai sensi del t.u. immigrazione
(art. 5, 6° comma) viene sostituito, al momento del rinnovo, dal permesso per protezione sussidiaria e comunque, ai titolari del
“vecchio” permesso sono riconosciuti gli stessi diritti dei titolari dello status di protezione sussidiaria (art. 34, apr. 4). Su questo
punto si veda oltre, par. 16.
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FOCUS
Non vi è dubbio che la direttiva abbia effetti positivi nel:
a) prevedere, per esempio, il diritto di rimanere nello Stato durante l’esame della domanda (art.
7);
b) ribadire, a più riprese, il divieto di refoulement (artt. 26, 27, 36, allegato II);
c) prevedere il diritto all’assistenza e rappresentanza legali (art. 15, seppur con molti limiti quanto alla gratuità delle stesse quando si tratti di impugnare una decisione negativa);
d) vietare l’arresto per il solo motivo che si tratti di persona che chieda l’asilo (art. 18), anche se
non viene escluso che ciò possa avvenire, salvo precisare che gli Stati devono assicurare “un
rapido sindacato giurisdizionale”.
Contro le decisioni negative deve essere assicurato “un mezzo di impugnazione efficace dinnanzi a un giudice” (art. 39), ma non è prevista una sospensione automatica della decisione a seguito dell’impugnazione, venendo formulato un generico impegno degli Stati a prevedere norme nazionali, conformi agli obblighi internazionali assunti dagli Stati stessi, che consentano ai richiedenti asilo di rimanere in attesa dell’esito del procedimento giudiziario (art. 39, par. 2 e par. 3)44.
c) Uno degli aspetti più problematici della direttiva, che ha causato anche un contenzioso fra Parlamento europeo e Consiglio, su cui si è pronunciata la Corte di giustizia, riguarda la definizione
di Paesi terzi sicuri45.
Il Parlamento aveva ritenute violate le proprie prerogative perché la direttiva prevede, anziché la codecisione, una decisione del Consiglio, a maggioranza qualificata, previa semplice consultazione del
Parlamento, nelle ipotesi di adozione di un elenco comune minimo di Paesi terzi, considerati Paesi di origine sicuri (art. 29) e di un elenco di Paesi terzi europei sicuri (art. 36). Criterio fondamentale per stabilire la fondatezza di una domanda di asilo è la sicurezza del richiedente nel Paese di
origine e la definizione comune di tali Paesi, in modo da presumerne la sicurezza, riconoscendo
al singolo, in ogni caso, il diritto di far venire meno tale presunzione in relazione al proprio caso.
Si tratta di un importante obiettivo della direttiva che vuole preservare i casi particolari di persecuzione (art. 31, par. 1 sui “gravi motivi” e le “circostanze specifiche” che il singolo può invocare). I
criteri di “sicurezza” (indicati nell’allegato II) consistono nella valutazione dell’inesistenza di persecuzioni, torture, pene o trattamenti disumani o degradanti, pericolo di violenza indiscriminata. Tale valutazione deve essere compiuta avendo riguardo
a) alle norme e prassi nazionali;
b) al rispetto dei diritti e libertà tutelati nella CEDU “e/o” nel Patto internazionale sui diritti civili e
politici “e/o” nella Convenzione contro la tortura;
c) al rispetto del principio di non refoulement conformemente alla Convenzione di Ginevra;
d) all’esistenza di un sistema di rimedi efficaci contro la violazione dei diritti e libertà fondamentali.
L’effettività del diritto e la tutela a livello internazionale, attraverso dunque gli strumenti di diritto
internazionale, assumono massimo rilievo.
Una domanda di cittadino (o apolide soggiornante abitualmente) di un Paese di origine (terzo) sicuro è dunque, in linea di principio, giudicata “infondata” (art. 31, par. 2); se il Paese terzo è europeo, non si procede all’esame del merito, anzi, precisa la norma, non ha luogo neppure l’esame
44 Nel d.lgs. 25/2008 si distinguono i casi di sospensione automatica (casi limitati, anche se sembrerebbe la regola, art. 35, 6°
comma) da quelli, ben più numerosi, in cui la sospensione deve, invece, essere espressamente richiesta (art. 35, 7°, 8°, 12° comma). La sospensione va dunque richiesta se si tratta di ricorsi contro le decisioni di inammissibilità (per esempio se il riconoscimento è già stato pronunciato in altro Stato o se si tratta di reiterazione della domanda); contro le decisioni prese quando il richiedente asilo si è allontanato dal centro di accoglienza senza giustificato motivo; contro le decisioni prese quando il richiedente si trova in un centro di accoglienza e ha presentato la domanda essendo già destinatario di un provvedimento di espulsione o
di respingimento, oppure quando è trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione (per tutti i motivi che richiedono il
trattenimento, per esempio perché condannato o espulso in casi diversi da quelli che consentono la presenza in un centro di accoglienza); ricorsi in appello contro le decisioni pronunciate dal Tribunale.
45 Corte di giustizia, 6 maggio 2008, causa C-133/06, Parlamento c. Consiglio, in Raccolta, I-3189.
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della domanda (o, afferma la direttiva, art. 36, con espressione di dubbia interpretazione, l’esame
non viene “condotto esaurientemente”).
La pronuncia della Corte di giustizia non ha riguardato il contenuto delle norme in proposito, ma il
procedimento. Viene infatti censurata la “riserva di legge” contenuta nella direttiva a favore del Consiglio, che ha previsto un fondamento normativo ad hoc anziché adeguarsi, e quindi ricorrere, alla
procedura generale di codecisione ai sensi dell’art. 67. L’annullamento ha avuto come conseguenza
la mancata adozione degli elenchi e, quindi, la non applicazione, sotto questo profilo, della direttiva.
13. Le critiche al sistema vigente e le proposte di modifica: verso un “sistema comune europeo”
Le critiche al sistema, composto (come si è detto) da regolamenti e direttive, hanno determinato la
Commissione ad avviare una fase di revisione normativa, ovvero una seconda fase nella realizzazione della politica di asilo, ritenendo conclusa la prima fase (avviata con il programma di Tampere e continuata con quello di Amsterdam). Fra le critiche si possono ricordare l’automatismo nell’applicazione dei criteri di responsabilità previsti da “Dublino II”, poiché lo Stato competente, cui
viene rinviata la persona, può non essere rispettoso dei diritti fondamentali e, in particolare, della
CEDU. In tal senso si è espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, censurando gli Stati che rinviano in Grecia e la Grecia stessa, perché vi è il rischio che sottoponga la persona a trattamenti disumani e degradanti oppure (qualificandosi in tal caso “Stato intermedio”) rinvii a sua volta verso
uno Stato dove la persona può subire tali trattamenti.
L’applicazione delle norme comunitarie in materia di asilo non può comportare la violazione delle norme sui diritti fondamentali: a maggior ragione in virtù della piena integrazione nel diritto dell’Unione della Carta dei diritti fondamentali, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona
(la Carta, infatti, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati UE e TFUE, come dispone l’art. 6 TUE vigente). L’art. 18 della Carta tutela il diritto d’asilo; l’art. 19 il divieto di allontanamento, espulsione,
estradizione se la persona corre il serio rischio di sottoposizione a pena di morte, tortura, altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Le due norme, dunque, possono essere invocate come parametro di legittimità degli atti dell’Unione e il giudice nazionale potrà farvi riferimento nel riconoscere al singolo diritti tutelati dalle norme dell’Unione46.
Le proposte di modifica verso “un sistema comune europeo” mirano a una procedura uniforme di
esame delle domande di asilo, da instaurare, secondo il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo,
entro il 2012. Le procedure in vigore negli Stati membri sono eccessivamente differenziate, la percentuale di riconoscimento variando in modo non giustificato neppure in presenza di regole minime, e il riconoscimento di protezione sussidiaria è di gran lunga superiore al riconoscimento dello status di rifugiato, con il pericolo, paventato dall’UNHCR, che la Convenzione venga svuotata
del suo significato47.
46 Sul significato della Carta, soprattutto sulla sua funzione interpretativa di un atto comunitario quando la Carta è richiamata
dall’atto, a essa conformandosi cfr. Corte di giustizia, 2 giugno 2006, causa C-540/03, Parlamento c. Consiglio, in Raccolta, I-5769,
sottolineando a proposito della direttiva sul ricongiungimento familiare, che “se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo ‘considerando’ della direttiva che quest’ultima rispetta i princìpi riconosciuti non solamente dall’art. 8 della CEDU, bensì parimenti
dalla Carta”. Sugli artt. 18 e 19 della Carta cfr. i commenti di Brunelli, Art. 18. Diritto di asilo, in Bifulco, Cartabia, Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Bologna, 2001, 154 ss. Per le “Spiegazioni” agli artt. 18 e 19, elaborate insieme alla Carta (“Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali”), cfr. Nascimbene,
Unione Europea. Trattati, Torino, 2010, 379 ss., 386.
47 Si veda la Comunicazione della Commissione Uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia al servizio dei cittadini,
COM(2009)262 del 10 giugno 2009, spec. p. 5, con indicazioni delle percentuali: se la media degli accoglimenti delle domande è
del 25%, vi sono Stati con il 50% e Stati con un numero minimo di accoglimenti. Per una constatazione sui risultati minimi conseguiti cfr. la Comunicazione sull’applicazione della direttiva, COM(2007)745 del 26 novembre 2007. Sull’aumento dei riconoscimenti di protezione sussidiaria cfr. il Piano strategico cit. e sulle preoccupazioni dell’UNHCR la Nota La protezione sussidiaria cit.,
ivi riferimenti. Quanto al nostro Paese (sull’attuazione delle norme comunitarie e dell’Unione europea cfr. oltre, parte III), si vedano i dati e le informazioni contenute nel Rapporto annuale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, Anno
2008/2009, Pomezia, 2009.
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FOCUS
In un sistema veramente integrato si dovrebbe pretendere, oltre a una procedura, uno status o condizione uniforme, ispirato al principio del mutuo riconoscimento effettivo. Si dovrebbe ricorrere a
regolamenti, piuttosto che a direttive, ma si potrebbe anche istituire un’autorità europea che compia un esame centralizzato delle domande. Per ora è prevista l’istituzione di un Ufficio di sostegno
agli Stati, che consenta una maggiore collaborazione e un sistema di solidarietà per la ricollocazione o redistribuzione dei beneficiari di protezione internazionale sia che si trovino all’interno dell’Unione europea, cioè sul territorio degli Stati membri, sia che provengano da uno Stato terzo ove
si trovano (cosiddetto Paese di primo asilo) e vengono, appunto, reinsediati in uno Stato membro
che dà la propria disponibilità in tal senso48.
Assume dunque rilievo anche la ripartizione degli oneri e, quindi, la necessità di risorse adeguate
la cui mancanza o non corretta distribuzione è stata lamentata, in particolare dal nostro Paese in
occasione degli afflussi di migranti e richiedenti asilo via mare, con particolare riguardo ai più recenti, che hanno suscitato significative reazioni (come si dirà in prosieguo) anche da parte della
Commissione europea, nel senso vuoi di chiedere ragione del comportamento tenuto dalle autorità italiane (respingimenti in larga misura), vuoi di proporre, in linea generale, nuove e concrete misure di redistribuzione interna49.
14. La definizione di uno status e di una procedura uniforme. Le difficoltà di attuazione (anche alla luce del
Trattato di Lisbona)
La definizione di una politica europea in materia di asilo rinnovata o rinforzata (piuttosto che nuova) è contenuta nel Trattato di Lisbona. Da un lato, viene accolta una nozione ampia di politica di
asilo, comprendente quella sussidiaria e quella temporanea, “volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire
il rispetto del principio di non respingimento” in conformità alla Convenzione di Ginevra (art. 78
TFUE), ma anche con gli artt. 18, 19 della Carta dei diritti fondamentali; dall’altro, il sistema comune europeo deve essere fondato sulla solidarietà fra gli Stati membri (“principio di solidarietà e di
equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario”, art. 80
TFUE) e sul partenariato e la cooperazione con i Paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo
o richiedenti protezione sussidiaria e temporanea (art. 78, par. 2 TFUE).
Questi obiettivi, contenuti anche nel programma di Stoccolma sulla politica dell’Unione in materia
di spazio di libertà, sicurezza e giustizia per i prossimi cinque anni50, richiedono la determinazione
di modalità attuative, poiché non riguardano soltanto una ripartizione di oneri economici. Si tratta
di verificare vari elementi:
a) se l’Unione europea ha la competenza e la volontà politica di sostituirsi a questo o quello Stato onerato da afflussi o domande di asilo;
48 Cfr. la proposta di regolamento che istituisce l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, COM(2009)66 del 18 febbraio 2009 e
la comunicazione della Commissione sull’istituzione di un programma comune di reinsediamento UE, COM(2009)447 del 2 settembre 2009, anche sulle diverse tipologie di reinsediamento. Si veda pure il Piano strategico cit., par. 5.1.; sullo stanziamento di
risorse cfr. la decisione 573/2007 del Parlamento e del Consiglio del 23 maggio 2007, che istituisce il Fondo europeo per i rifugiati per il periodo 2008-2013 e sui problemi di finanziamento la comunicazione prima citata.
49 Cfr. il par. 17; in particolare la lettera del Vicepresidente della Commissione europea Barrot al Governo italiano del 15 settembre 2009 e, quanto alle proposte della Commissione, la comunicazione citata alla nota procedente. Per alcuni rilievi in proposito si rinvia al nostro contributo Il respingimento degli immigrati e i rapporti tra Italia e Unione europea, consultabile in
http://www.iai.it/pdf/DocIAI/IAI0922.pdf; cfr. pure sugli sbarchi e respingimenti De Vittor, Soccorso in mare e rimpatri in Libia:
tra diritto del mare e tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto internazionale, 2009, 800 ss. Nelle conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 18-19 giugno 2009, si sottolinea la necessità di misure concrete, con
riferimento, in particolare, agli avvenimenti verificatisi a Cipro, Malta, in Grecia e in Italia, ma non si è andati oltre al sollecito di
un “coordinamento delle misure volontarie per la redistribuzione interna”. Sul procedimento pendente avanti alla Corte europea
dei diritti dell’uomo (e sulla sentenza della stessa Corte in tema di espulsioni) cfr. la nota 54.
50 Sul programma di Stoccolma cfr. la nota 36; cfr. anche la comunicazione della Commissione Giustizia, libertà e sicurezza in
Europa. Valutazione del programma d’azione dell’Aja, COM(2009)263 del 10 giugno 2009.
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b) se è possibile assumere atteggiamenti comuni verso quei Paesi terzi, di origine o di transito, che
sono “fornitori” di richiedenti asilo o migranti (i flussi, com’è noto, essendo spesso di carattere
misto);
c) se sono realizzabili forme di “esternalizzazione” delle domande di asilo51 e quali controlli e garanzie, anche di carattere giurisdizionale, dovrebbero essere offerti affinché gli standard umanitari (ed europei) siano rispettati.
A queste difficoltà di concreta realizzazione si aggiungono le esigenze di contemperare le finalità
umanitarie con quelle di sicurezza degli Stati, specie quelle relative al contrasto del terrorismo e
dell’immigrazione clandestina52, che pur in presenza di obblighi internazionali, appunto, umanitari, lasciano spazio alla sovranità dello Stato nell’assumere decisioni a tutela del proprio ordinamento. Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo (seppur a maggioranza)53, esaminando il possibile contrasto di norme nazionali, come quelle del Regno Unito, che consentono la detenzione dei richiedenti asilo (si tratta di norme legittime, seppur eccezionali, perché la regola generale è il diritto alla libertà sancito dall’art. 5, par. 1 CEDU), lo Stato ha un diritto sovrano sul controllo dell’ingresso e soggiorno degli stranieri, senza dover distinguere i migranti dai richiedenti asilo. La facoltà di disporre misure detentive è un “corollario” di questo diritto, teso essenzialmente
a impedire l’immigrazione clandestina: il limite che l’autorità nazionale incontra nel disporre tali
misure è nell’arbitrarietà della decisione di restringere la libertà individuale, non già nella misura
in sé.
La presa di posizione della Corte suscita perplessità, perché riproduce una posizione tradizionale
del “diritto di conservazione” degli Stati a tutela delle frontiere (già ricordata nell’esaminare, in precedenza, par. 3, i lavori dell’Institut de droit international) senza affrontare il tema, a nostro avviso centrale, della “coerenza” fra obblighi internazionali previsti dalla Convenzione di Ginevra, obblighi comunitari e obblighi previsti dalla CEDU stessa. Il tema è aperto a nuove riflessioni e approfondimenti e non vi è dubbio che i casi dei respingimenti in mare operati dal nostro Paese, già
portati all’esame della Corte, ne offriranno l’occasione54.
51 Si tratta di forme, peraltro, già realizzate in Tanzania, Ucraina, Bielorussia, in virtù di progetti-pilota, che potrebbero essere
estesi, cfr. la comunicazione della Commissione relativa ai programmi di protezione regionale COM(2005)388 del 1 settembre
2005; sul tema, in generale, Cortese, L’esternalizzazione delle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato: l’approccio
dell’Unione europea, tra prassi degli Stati membri e competenze comunitarie, in Zagato (a cura di), Verso una disciplina comune
cit., 211 ss.
52 Per alcuni rilievi in proposito Adinolfi¸ Politica dell’immigrazione dell’Unione europea e lotta al terrorismo internazionale, in
Diritti umani e diritto internazionale, 2008, 483 ss. (ivi ampi riferimenti); Concolino, L’incidenza delle misure antiterrorismo sulla tutela dei flussi migratori, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 375 ss; i vari contributi in Gargiulo, Vitucci, La tutela dei diritti
umani nella lotta e nella guerra al terrorismo, Napoli, 2008, spec. 339 ss. Per rilievi di carattere generale Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, Bologna, 2006, 86 ss. e dello stesso, in precedenza, Terrorismo e stranieri nel diritto italiano.
Disciplina legislativa e profili costituzionali. I parte. L’applicazione agli stranieri delle norme sul terrorismo, in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 3, 2005, 13 ss.; II parte. Il terrorismo nelle norme speciali e comuni in materia di stranieri, immigrazione ed asilo, in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 4, 2005, 13 ss.
53 Grande Camera, 29 gennaio 2008, Saadi c. Regno Unito, che conferma la sentenza della Camera, 11 luglio 2006, in
http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?item=1&portal=hbkm&action=html&highlight=saadi&sessionid=30432490&skin=hudoc-fr; cfr. anche l’opinione dissidente di sei giudici (su diciassette componenti la Grande Camera). Per alcuni rilievi critici Ocello, La detenzione dei richiedenti asilo nel diritto comunitario alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo: il caso Saadi c. Regno Unito, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2009, 87 ss.
54 Si veda il ricorso pendente avanti alla Corte europea Hirsi et autres c. Italie, n. 27765/09, comunicato al Governo italiano (i
ricorrenti, cittadini eritrei e somali intercettati in acque internazionali al largo di Lampedusa e condotti in Libia dalle autorità italiane lamentano la violazione degli artt. 3 e 13 CEDU, dell’art. 4 Protocollo n. 4 alla CEDU); per riferimenti cfr. www.asgi.it; cfr.
inoltre, sul caso delle espulsioni di stranieri sbarcati a Lampedusa, la sentenza di detta Corte, 19 gennaio 2010, Hussun et autres
c. Italie, n. 10171/05, 10601/05/11593/05, 17165/05 (sono stati cancellati dal ruolo tutti i ricorsi, tranne uno per il quale è stata ritenuta sussistente la violazione dell’art. 34 CEDU sul diritto a un ricorso individuale). Per alcune critiche a tale sentenza Favilli,
Prime riflessioni sulla sentenza della Corte europea dei diritti umani sui respingimenti da Lampedusa del 2005, in www.asgi.it
22
FOCUS
III.
15. L’art. 10, 3° comma Costituzione. Il diritto di asilo e lo status di rifugiato
La mancanza di una legge organica sul diritto d’asilo che dia attuazione all’art. 10, 3° comma Cost.
ha creato non poche difficoltà interpretative nella giurisprudenza e nella dottrina che si è occupata del tema. La norma prevede, com’è noto, una riserva assoluta di legge e ha uno stretto collegamento non solo con il 2° comma, che prevede una riserva di legge rinforzata sulla condizione dello straniero (per così dire “ordinario” rispetto alla “speciale” condizione del rifugiato), ma anche
con il 4° comma sul divieto di estradizione. Il diritto d’asilo è garantito “secondo le condizioni stabilite dalla legge” qualora allo straniero “sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana” ed è garantito anche nel caso in cui lo straniero sia perseguito per reati di natura politica, impedendone l’estradizione.
Il 4° comma (come emerge anche dai lavori preparatori della Costituzione) rappresenta un complemento del 3° comma, pur non proteggendo, in modo esclusivo, i beneficiari del diritto d’asilo,
considerata l’ampia formulazione della norma. Il 4° comma è anche connesso con l’art. 26, 2° comma che vieta l’estradizione del cittadino (“non può in alcun caso essere ammessa per reati politici”)55.
Un confronto del 3° comma con la Convenzione di Ginevra conferma quanto sia ampia la norma
costituzionale: diversamente dalla norma cardine rappresentata dall’art. 1A della Convenzione di
Ginevra: il diritto d’asilo è infatti riconosciuto a chi proviene da un Paese che nega le libertà fondamentali, indipendentemente dal fatto (e quindi dalla prova) che lo straniero abbia subìto o tema
di subire, in caso di ritorno, delle persecuzioni.
La norma riconosce un diritto soggettivo, invocabile avanti al giudice ordinario in quanto si tratta
di diritto del singolo a ottenere una sentenza dichiarativa circa tale status: non è soltanto un diritto di chiedere, ma di ottenere l’asilo qualora sussistano i presupposti indicati dalla norma, anche
in mancanza di una legge che disciplini l’esercizio di tale diritto.
Le iniziative di legge sono state molte nel corso del tempo, determinando anche una certa “confusione” fra diritto di chiedere e ottenere l’asilo e diritto di chiedere e ottenere lo status di rifugiato
o, più semplicemente, fra asilo e status di rifugiato56.
Ne è un esempio la legge Martelli (n. 39/90) il cui titolo si riferisce all’“asilo politico”, ma la rubrica dell’art. 1 e il suo contenuto si riferiscono ai “rifugiati” (precisamente a quelli disciplinati dalla Convenzione di Ginevra), mentre il regolamento di attuazione (d.p.r. 15 maggio 1990, n. 136,
55 Sui lavori preparatori, sul collegamento fra 3° e 4° comma (le garanzie concesse all’esule politico vengono rafforzate, vietandone espressamente l’estradizione) e la proposta di Perassi a favore di un comma aggiuntivo sul diritto di asilo (dal contenuto
“Non è ammessa l’estradizione per reati politici”) cfr. Cassese, Commento art. 10, in Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, 1975, 544 ss., anche sul significato (spec. p. 558) dell’espressione “in nessun caso” di cui all’art. 26, poiché si
distingue il divieto assoluto di estradizione per reati politici da quello relativo per reati comuni, l’estradizione essendo consentita
“ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali”. Cfr. inoltre Chieffi, La tutela costituzionale del diritto di asilo e
di rifugio a fini umanitari, in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 2, 2004, 29 ss. e dello stesso La tutela costituzionale del
diritto di asilo e di rifugio a fini umanitari, in Revenga Sánchez (a cura di), I problemi costituzionali dell’immigrazione in Italia
e Spagna, Valencia, 2005, 173 ss.; Benvenuti, Il diritto cit., 21; Caligiuri, Art. 10, 3° co., in Bifulco, Celotto, Olivetti, La Costituzione Italiana, Torino, 2007, 253 ss. e, per un commento al 4° comma, Id., Art. 10, 4° co., loc. cit., 258 ss. (ivi riferimenti). Per rilievi di carattere generale (oltre agli autori citati alle note 1 e 56), D’Orazio, Asilo (diritto di) - II) Diritto costituzionale, in Enciclopedia giuridica, Roma, 1991, vol. III, 1 ss. e dello stesso, Condizione dello straniero e “società democratica”, Padova, 1994, 94 ss.;
Luciani, Cittadini e stranieri come titolari di diritti fondamentali, in Rivista critica di diritto privato, 1992, 229 ss. Per i profili relativi all’estradizione cfr. anche i riferimenti alla nota 15.
56 Sulle proposte di riforma cfr. il nostro La condizione cit., 6 s., 67, 87 ss., rifer. ivi (il testo del d.d.l. n. 2425, comunicato al Senato il 13 maggio 1997, “Norme in materia di protezione umanitaria e di diritto di asilo”, è a p. 527; per i testi di proposte di legge, nel passato, cfr. il nostro Lo straniero cit., 323, 332; Bonetti, Profili generali e costituzionali del diritto d’asilo nell’ordinamento italiano, in Nascimbene (a cura di), Diritto degli stranieri, Padova, 2004, 1134 ss., spec. p. 1157 ss.; ivi anche i rilievi di Neri,
Profili sostanziali: lo status di rifugiato, spec. p. 1206 ss.; Cfr. pure Ziotti, Il diritto d’asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, Padova, 1988, 198 ss.
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art. 2) istituiva una Commissione centrale competente, appunto, a determinare il riconoscimento
dello status di rifugiato. Anche le modifiche legislative successivamente intervenute confermano
questo orientamento. La cosiddetta legge Bossi-Fini (l. 30 luglio 2002, n. 189) ha inserito nella legge Martelli gli articoli da 1 bis a 1 septies; un nuovo regolamento di attuazione (d.p.r. 16 settembre 2004, n. 303) ha sostituito il precedente (n. 136/90). La Commissione centrale è divenuta Commissione nazionale “per il diritto di asilo” e sono state istituite commissioni territoriali “per il riconoscimento dello status di rifugiato”. Le norme in proposito si riferiscono indifferentemente all’asilo e al rifugiato, il regolamento addirittura definendo (art. 1 lett. c e d) “richiedente asilo” lo straniero che chiede il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra
e “domanda di asilo” la domanda di riconoscimento di tale status. Il d.lgs. procedure (25/2008),
già ricordato, mantiene la denominazione e le competenze della Commissione nazionale “per il
diritto di asilo” (in particolare sulla revoca e cessazione dello status e protezione, art. 5), ma rinomina le commissioni territoriali, ora competenti (art. 4) “per il riconoscimento della protezione
internazionale”.
Nessuna di queste norme faceva e fa riferimento all’art. 10, 3° comma. Un solo riferimento dovrebbe rinvenirsi nella legislazione vigente, precisamente nella l. 30 settembre 1993, n. 388 di ratifica
ed esecuzione degli Accordi di Schengen. L’art. 17, 2° comma prevede che le disposizioni della
Convenzione (del 19 giugno 1990) di applicazione dell’accordo di Schengen (del 14 giugno 1985)
“relative alle domande ed ai richiedenti asilo non escludono l’obbligo delle competenti autorità nazionali di esaminare direttamente una domanda di asilo presentata ai sensi dell’articolo 10 della
Costituzione della Repubblica come attuato dalla legislazione vigente”. Il nostro Paese si è voluto,
così, avvalere della possibilità riconosciuta dall’art. 29, par. 4 della Convenzione (“ogni parte contraente conserva il diritto”) di esaminare una domanda di asilo pur non avendone la competenza,
in presenza di “ragioni particolari attinenti soprattutto alla legislazione nazionale”. La disposizione conferma l’ampia tutela offerta dall’art. 10 rispetto ad altre norme del nostro ordinamento57.
16. La definizione di un diritto soggettivo; le ragioni di diritto umanitario a favore di una protezione più ampia. a) Il diritto di asilo come diritto fondamentale; b) l’orientamento della giurisprudenza
La tesi, sostenuta in passato, che il diritto d’asilo ex art. 10, 3° comma è un genus che trova varie
specificazioni o species, sembra oggi del tutto fondata, ricevendo conferma in giurisprudenza58. La
Convenzione di Ginevra rappresenta dunque una di queste specificazioni o species. Si tratta, più
precisamente, della legge di ratifica ed esecuzione 722/1954 e della legge 39/90, che ha modificato tali norme di adattamento facendo cessare sia gli effetti della dichiarazione di limitazione geografica di applicabilità ai cittadini europei (l’applicabilità temporale agli avvenimenti verificatisi prima del 1° gennaio 1951 era venuta meno con la legge di ratifica ed esecuzione 95/1970 del Protocollo di New York del 31 gennaio 1967), sia le riserve in materia di attività salariate e lavoro autonomo (artt. 17, 18 della Convenzione, accettati come semplici raccomandazioni). Nella prassi, in-
57 Tale possibilità è, più recentemente, riconosciuta dal regolamento n. 343/2003 (“Dublino”, già ricordato, che in modo più sintetico prevede che in deroga ai criteri di competenza previsti nel capo III del regolamento “ciascuno Stato membro può esaminare una domanda d’asilo presentata da un cittadino di un paese terzo, anche se tale esame non gli compete in base” a detti criteri. L’acquis di Schengen, in virtù del Protocollo (n. 2) allegato al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea, relativo all’integrazione di Schengen nell’ambito dell’Unione europea “si applica immediatamente” ai Paesi membri
(art. 2 Protocollo, a decorrere dal 1 maggio 1999, data di entrata in vigore del Trattato di Amsterdam; il Protocollo, come la Dichiarazione poco oltre, sono contenuti nell’Atto finale di detto Trattato). Il Protocollo (n. 29) sull’asilo per i cittadini degli Stati
membri prevede ipotesi eccezionali in cui uno Stato membro è legittimato a esaminare le domande di asilo di cittadini di altri Stati membri, essendo, questi, “paesi d’origine sicuri”: il potere di esame e decisione di uno Stato, insomma, non è pregiudicato. Il
Belgio ha dichiarato (Dichiarazione n. 6) che procederà comunque all’esame della domanda di cittadini comunitari: anche il Governo italiano avrebbe potuto, invero, fare la stessa dichiarazione, coerentemente all’art. 17, 2° comma cit.
58 Cfr. i nostri rilievi in La condizione cit., 86 e, negli stessi termini, Cons. Stato, IV, 11 luglio 2002, n. 3874 nonché i rilievi di
Taglienti, Diritto d’asilo e status di rifugiato nell’ordinamento italiano, in http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/
studi_contributi/diritto_asilo.htm
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FOCUS
vero, il nostro Paese aveva più volte derogato alle riserve, dando piena applicazione alla Convenzione59.
Le norme comunitarie e quelle nazionali di recepimento contribuiscono a colmare la lacuna legislativa. La nozione di asilo contenuta nell’art. 10 e la sfera dei potenziali beneficiari (stranieri ai
quali sia impedito l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione) restano assai ampie, anche se gli strumenti internazionali e le norme dell’Unione europea forniscono
una protezione internazionale di livello o standard, come si dirà, sufficientemente elevato.
a) Sembra opportuno ricordare, a proposito della tutela di diritti fondamentali quale il diritto di asilo, che ben può venire in rilievo l’art. 10, 1° comma e, quindi, la tutela attraverso le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, su cui si è espressa la Corte Costituzionale con riferimento al diritto alla salute e al divieto di operare discriminazioni nei confronti degli stranieri60.
Questa affermazione circa il divieto di discriminazioni dovrebbe valere, a maggior ragione, per chi
è rifugiato o chiede asilo. La stessa Corte, comparando lo straniero cosiddetto ordinario con chi
chiede asilo ai sensi dell’art. 10, 3° comma, ammette la condizione di reciprocità (“è ragionevole”)
per uno straniero che intenda esercitare la professione giornalistica, ma non per lo straniero “che
sia cittadino di uno Stato che non garantisca l’effettivo esercizio delle libertà democratiche e, quindi, della più eminente manifestazione di queste”, quale la libertà garantita dall’art. 21 Cost.
Il presupposto della reciprocità rischierebbe infatti “di tradursi in una grave menomazione della
libertà di quei soggetti ai quali la Costituzione – art. 10, terzo comma – ha voluto offrire asilo politico e che devono poter godere almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che
non siano strettamente inerenti allo status civitatis”61.
b) La giurisprudenza a favore sia del carattere precettivo, non già programmatico, dell’art. 10, 3°
comma, sia della giurisdizione del giudice ordinario anziché amministrativo trattandosi di diritto
soggettivo, ha la sua prima, importante affermazione in una pronuncia della Corte di Cassazione
(S.U., 26 maggio 1997, n. 4674) che dà atto del diverso, ma datato orientamento della giurisprudenza amministrativa e dell’opinione della dottrina “pressoché pacifica” circa la natura di diritto perfetto. Non condivisibile, tuttavia, per la mancata considerazione di altre fonti, è l’affermazione della Corte secondo cui il contenuto del diritto soggettivo sarebbe limitato al solo diritto di ingresso
nel territorio dello Stato, mentre al rifugiato sarebbe garantito lo status di particolare favore previsto dalla Convenzione di Ginevra. Si tratta di affermazione non corretta, perché al diritto di ingresso, corrispondente in negativo al divieto di refoulement, si accompagnano sicuramente quei diritti
che derivano da strumenti di diritto umanitario e che riguardano la vita, la dignità, il trattamento
della persona, essendo vietato qualunque trattamento disumano o degradante ovvero la tortura.
Dovrà, dunque, essere garantito allo straniero un soggiorno almeno temporaneo, affinché possa far
valere quei diritti essenziali che le norme internazionali e interne gli riconoscono62.
L’orientamento a favore del diritto soggettivo è stato successivamente ribadito dalla Corte di Cassazione adita in sede di regolamento di giurisdizione, venendo in rilievo, appunto, la questione
59 Si vedano i nostri rilievi in Lo straniero cit., 115 ss.; fra i casi di deroga più noti si ricordano l’asilo accordato ai circa mille cileni rifugiatisi nell’ambasciata italiana di Santiago e di circa tremilacinquecento cittadini del Sud-Est asiatico (cambogiani, laotiani, sudvietnamiti). Sui provvedimenti adottati, in situazioni di emergenza, a seguito dell’afflusso di cittadini albanesi, cittadini dell’ex Jugoslavia, cittadini somali cfr. il nostro La condizione cit., 6 s. e i contributi di Pedrazzi e Trucco ivi, 95 ss.
60 Sentenza 30 luglio 2008, n. 306; sull’orientamento della Corte in materia di trattamento dello straniero e immigrazione, cfr.
Onida, Randazzo (a cura di), Viva Vox Constitutionis 2008, Milano, 2009, 439, 448 ss.
61 Corte Cost., 23 marzo 1968, n. 11.
62 Cfr. in particolare i rilievi di Gaja, Diritto dei rifugiati e giurisdizione ordinaria, in Rivista di diritto internazionale, 1997, 791
s. anche sul d.d.l. in materia di asilo, n. 2425 cit., auspicando che soltanto il giudice ordinario abbia competenza a giudicare sia
sul diritto d’asilo, sia sullo status di rifugiato (la competenza era, all’epoca, di un organo amministrativo, la Commissione centrale istituita dal d.p.r. n. 136/1990). Sul contenuto necessario del diritto di asilo (cioè sul bene giuridico fondamentale tutelato dalla norma ovvero sul contenuto essenziale e minimo tutelato dalla stessa), e sulla giurisprudenza rilevante, Benvenuti, Il diritto cit.,
173, 181 ss.; in precedenza Ziotti, Il diritto cit., 95 ss.; Chieffi, La tutela cit., 29 ss.; Caligiuri, Art. 10, 3° co. cit., 253 ss.
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della giurisdizione del giudice ordinario o di quello amministrativo a seconda della qualificazione
dell’asilo o rifugio come diritto soggettivo o interesse legittimo e valorizzando sia le modifiche apportate alla l. 39/90 dal t.u. immigrazione, sia quelle derivanti dalle norme di recepimento delle
norme di diritto dell’Unione, che tutelano diritti soggettivi63.
Nel lungo “percorso” giurisprudenziale che ha accompagnato la definizione del diritto di asilo, vale la pena ricordare quanto fosse anticipatore dell’attuale orientamento, e assai liberale, quel giudice di merito64 che dava massimo rilievo alle finalità di carattere umanitario nel riconoscere lo status anche a coloro che all’epoca, non essendo stata ritirata la riserva geografica da parte del nostro Paese, non godevano della protezione della Convenzione (cosiddetti rifugiati de jure), ma soltanto di quella dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (cosiddetti rifugiati de facto) ai quali veniva rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo in attesa di emigrazione in altro Paese. Si riteneva insoddisfacente, e anzi contraria all’art. 10, 3° comma, la prassi di negare lo status di rifugiato a chi potesse essere ricondotto alla categoria dei beneficiari di tale norma, piuttosto che della Convenzione di Ginevra; si sottolineava come il diritto d’asilo dovesse essere riconosciuto ogniqualvolta emergesse da una qualunque “situazione” o “circostanza di fatto che l’effettivo esercizio
delle libertà democratiche garantito dalla nostra Costituzione [fosse] impedito”.
L’impostazione umanitaria prevale in epoca più recente, insieme a una corretta valutazione di atti
internazionali rilevanti, della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, delle opinioni della dottrina. Nel noto caso Oçalan, leader del PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan), il Tribunale di Roma riconosceva il diritto di asilo, accertando la violazione effettiva, in Turchia, di varie libertà democratiche riconosciute dalla Costituzione italiana65.
L’abrogazione, disposta dal t.u. immigrazione della norma della l. 39/90 (art. 5) che attribuiva al
giudice amministrativo la competenza a decidere sul diniego dello status di rifugiato, ma anche l’attribuzione (in virtù dello stesso t.u.), allo stesso giudice ordinario, a decidere sui provvedimenti di
espulsione (salvo nel caso di espulsione disposta dal Ministro dell’Interno), “consolidavano” la giurisdizione del giudice ordinario nel dichiarare il riconoscimento del diritto d’asilo. Si afferma, dunque, che “tutte le controversie concernenti lo status delle persone rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario” e che i provvedimenti in materia “hanno natura meramente dichiarativa e non
costitutiva”66. Il giudice ordinario ha competenza sul diritto di asilo, sulla protezione internazionale definita dalle norme comunitarie e da quelle di recepimento, sulla protezione umanitaria che le
commissioni territoriali possono riconoscere in mancanza dei requisiti che consentono la protezione internazionale67.
63 Le pronunce più recenti delle Sezioni Unite sono la n. 27310 del 17 novembre 2008, in Diritto immigrazione e cittadinanza,
n. 1, 2009, 127, con commento ivi, 79 ss. di Acierno, Il riconoscimento dello status di rifugiato politico: il procedimento e l’onere
della prova al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione; la n. 11535 del 19 maggio 2009 in www.cortedicassazione.it/notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniUnite; la n. 19393 del 9 settembre 2009, in Guida al diritto, n. 41, 2009, 86; ivi, 93 s. il commento di Piselli, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari non si può rimettere al potere discrezionale della Pa; per rilievi sull’orientamento della giurisprudenza e della prassi, D’Ascia, Diritto degli stranieri e immigrazione, Milano, 2009, 233 ss. Le sentenze citate delle Sezioni Uniti sono ricordate da Cass. I, 15 dicembre 2009, n. 26253, che riconosce al richiedente asilo, “per definizione
soggetto debole”, il diritto di presentare istanza per il riconoscimento dello status e di rimanere nel territorio nazionale fino alla
definizione della procedura; cfr. la sentenza in www.asgi.it.
64 Corte d’Appello di Milano, 27 novembre 1964, in Foro it., 1965, II, 122; il riconoscimento dello status di rifugiato era oggetto di accertamento incidentale in un giudizio penale ai fini della sussistenza, o non, dello stato di necessità ex art. 54 cod. pen.
65 Trib. Roma, 1 ottobre 1999, in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 3, 1999, 101 ss. (con scheda a cura della redazione);
per un commento Pisillo Mazzeschi, Il caso Oçalan cit., 364 ss.
66 Cfr. Cass. S.U. 17 dicembre 1999, n. 907 che conferma Cass. S.U. 4674/1997 (ma quest’ultima era precedente al t.u. immigrazione, approvato con d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). L’art. 47 t.u. abroga l’art. 5; l’art. 13 t.u. prevede la competenza, in materia di
espulsione, del giudice ordinario (pretore, all’epoca del d.lgs. 286/98, poi tribunale e infine giudice di pace), l’art. 47 avendo abrogato gli artt. 2 ss. della legge Martelli (che prevedeva la competenza del giudice amministrativo).
67 Cfr. sui requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da parte del Questore (art. 32, d.lgs. 25/2008,
art. 5 d.lgs. 286/98), Cass. 11535/2009; Cons. Stato, VI, 18 settembre 2009, n. 5619. La giurisprudenza più recente ha voluto giustificare il diverso, precedente orientamento a favore della giurisdizione del giudice amministrativo, alle commissioni territoriali non
essendo riconosciuta la competenza introdotta con la legge Bossi-Fini a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento
di attuazione, d.p.r. 303/2004, in vigore dal 20 aprile 2005, competenza confermata dal d.lgs. 25/08. Al Questore non spetta più,
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FOCUS
17. L’incidenza del diritto comunitario e internazionale circa la definizione dello status di rifugiato e gli obblighi dello Stato. a) L’onere probatorio; b) il divieto di refoulement
Le norme comunitarie e quelle nazionali di recepimento hanno contribuito in modo significativo a
ridisegnare lo status del rifugiato e gli obblighi dello Stato.
a) Sotto il primo profilo si ricorda il recente orientamento della giurisprudenza sull’onere probatorio relativo alle condizioni presupposte al riconoscimento formale. Si osserva, in proposito, che i criteri previsti dalla direttiva qualifiche (2004/83) e dal relativo d.lgs. (251/2007) si fondano sulla credibilità di chi chiede la protezione internazionale, sulla concreta possibilità di fornire i riscontri probatori necessari, sul dovere del giudice (e della commissione territoriale prima) di cooperare al fine
dell’accertamento delle condizioni e sulla valorizzazione dei poteri istruttori officiosi. All’autorità che
esamina la domanda è affidato “un ruolo attivo ed integrativo” nell’attività istruttoria, “disancorato
dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti
processuali”68. Il giudice dispone di ampi poteri, la “diligenza” e “buona fede” del richiedente asilo
sostanziandosi “in elementi di integrazione dell’insufficiente quadro probatorio con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere probatorio” contenute nell’art. 2697 c.c. Il principio affermato valorizza le norme comunitarie e il principio dell’interpretazione conforme del diritto nazionale poiché la direttiva qualifiche (qui rilevante), e i relativi criteri, avrebbero dovuto trovare applicazione anche prima della scadenza del termine di adeguamento della direttiva, considerato il carattere incondizionato e la precisione del contenuto delle disposizioni sul regime della prova. Principio che (secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia ricordata dallo stesso giudice nazionale)
avrebbe dovuto condurre a una valutazione diversa, applicando il diritto interno “in modo da non
addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva” e (quindi) il diritto comunitario,
ovvero dell’Unione, che finiscono per incidere anche sul diritto processuale nazionale69.
b) Gli episodi e prese di posizione sui respingimenti in mare verso la Libia da parte delle autorità
italiane sollevano nuovi profili di interesse circa gli obblighi dello Stato.
La Commissione europea ha chiesto spiegazioni al Governo italiano sul comportamento tenuto in
occasione dei respingimenti, ricordando il valore, in generale, del principio di non refoulement,
l’obbligo di garantire i diritti fondamentali, di rispettare gli impegni internazionali, previsti dalla
Convenzione di Ginevra e dalla CEDU, oltre che gli obblighi che derivano dal diritto comunitario.
Pur non ricordandolo espressamente, una violazione di tali obblighi (indipendentemente dal signi-
come nel passato, la discrezionalità valutativa che era stata riconosciuta da Cass. S.U., ordinanza 7933/2008, nonché da Cass. S.U.,
5089/2008, ricordata da Cass. S.U. 11535/2009 (che ricorda pure il diverso orientamento del Cons. Stato, 3835/2005 e 2868/2006).
Ritiene Cass. 11535/2009 che il permesso sia un istituto “ad esaurimento” poiché i permessi umanitari già rilasciati in passato vengono sostituiti con i permessi per protezione sussidiaria e che ai titolari di tali permessi è comunque garantita “una entità di diritti pari a quella garantita dalla nuova protezione”, cioè quella sussidiaria (in tal senso l’art. 34, 4° e 5° comma d.lgs. 251/2007).
Cfr. sul punto Bonetti, Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1, 2008, 13 ss.; dello stesso si vedano i rilievi in La
proroga del trattenimento e i reati di ingresso e permanenza irregolare nel sistema del diritto degli stranieri: profili costituzionali e
rapporti con la Direttiva comunitaria sui rimpatri, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4, 2009, 100 ss., in particolare quanto ai problemi più recentemente posti dalle modifiche alle norme sulla condizione dello straniero introdotte dalla legge 15 luglio
2009, n. 94 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”; il 6° comma dell’art. 10 bis t.u. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero prevede la sospensione del procedimento penale per ingresso e permanenza illegali se lo straniero presenta domanda di protezione internazionale e, se la protezione è riconosciuta ovvero
viene rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere).
68 In questi termini Cass. 27310/2008.
69 Cass. 27310/2008. Nella fattispecie veniva cassata la pronuncia di merito perché non era stata ritenuta ammissibile la prova
testimoniale richiesta in secondo grado, in quanto non articolata per capitoli separati, ed era stata rigettata la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ritenendo insufficienti le dichiarazioni del richiedente (cittadino iracheno di etnia curda e religione musulmana sciita) in ordine alla professione religiosa, sciita, e all’appartenenza alla minoranza, curda, nonostante l’attestata conoscenza della lingua curda. Era stato rigettato anche il riconoscimento dell’asilo ex art. 10, 3° comma e la domanda di rilascio di permesso umanitario.
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ficato politico della contestazione) potrebbe condurre all’avvio da parte della Commissione di una
procedura di infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE (già 226 Trattato CE)70.
Il diritto di asilo, ma anche la sola possibilità di chiederlo va garantito, nel rispetto di quelle norme
di diritto internazionale che sono richiamate negli accordi conclusi fra Italia e Libia, in particolare
nel Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, del 30 agosto 2008, artt. 1, 6, ove, appunto,
sono espressamente richiamati i princìpi e le norme del diritto internazionale generalmente riconosciuti e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Agli impegni internazionali si aggiungerebbero quelli di diritto interno, il t.u. immigrazione ribadendo la vincolatività della garanzia dei diritti
fondamentali (art. 2, 1° comma) e vietando il respingimento. Non solo in caso di asilo politico, riconoscimento dello status di rifugiato, adozione di misure di protezione temporanea per motivi
umanitari (t.u., art. 10, 4° comma), e quindi in tutti i casi in cui sia necessaria quella protezione internazionale, in senso ampio, di cui si è detto, ma anche quando l’espulsione o il respingimento
possano, comunque, esporre lo straniero al rischio di persecuzione, sia nello Stato verso cui viene
respinto o allontanato, sia in un altro Stato verso cui quest’ultimo lo respinga o allontani.
Il complesso degli obblighi da osservare da parte dello Stato, soprattutto di derivazione internazionale e dell’Unione, conferisce al diritto di asilo una significativa tutela.
18. Gli standard di trattamento e lo statuto del rifugiato. a) La Convenzione di Ginevra; b) una valutazione
complessiva: l’applicabilità degli standard del trattamento nazionale e del trattamento dello straniero
La diversa combinazione o concorso delle norme e, quindi, degli obblighi a carico dello Stato e
dei diritti a favore del singolo consente alcune riflessioni sullo statuto del rifugiato, precisamente
sugli standard di trattamento previsti dalle norme internazionali e dell’Unione.
a) In linea di principio (considerata la particolare condizione) al rifugiato è riservato un trattamento più favorevole di quello previsto per lo straniero cosiddetto ordinario. La Convenzione di Ginevra prevede standard di trattamento diversi a seconda dei diritti in questione, restando inteso che
tali standard sono sempre derogabili in senso più favorevole al rifugiato. Si tratta degli standard:
a) del trattamento nazionale;
b) del trattamento della nazione più favorita;
c) del trattamento non meno favorevole di quello riservato agli stranieri in generale, nelle stesse
condizioni.
Il primo è il trattamento riservato ai cittadini. I diritti così garantiti, a parità con il cittadino, dalla
Convenzione sono in materia di libertà di culto, protezione della proprietà industriale e intellettuale, accesso ai Tribunali, razionamento di prodotti di cui vi sia penuria, istruzione primaria, assistenza e sicurezza sociale (salve alcune eccezioni), imposizione fiscale (artt. 4, 14, 16, 20, 22, par. 1,
23, 24, 29 par. 1). Il secondo è il trattamento della nazione più favorita: esso assume come riferimento quello più favorevole accordato, nelle stesse circostanze, ai cittadini di un Paese straniero.
I diritti così garantiti sono il diritto di associazione, l’esercizio di attività salariata (art. 15, art. 17,
par. 1). Il terzo è il trattamento previsto per gli stranieri in generale. È il meno favorevole dei tre,
anche se non è consentito un trattamento deteriore. I diritti così garantiti sono il diritto di proprietà, l’esercizio di attività autonoma e di libera professione, l’accesso all’alloggio, l’istruzione secondaria, la libertà di circolazione (art. 13, 18, 19, 21, 22 par. 2, 26).
Non sono previsti standard di trattamento per lo status personale, la Convenzione contenendo una
norma uniforme di conflitto che dispone l’applicabilità non già della legge del Paese di appartenenza, ma di quella del domicilio o, in mancanza, di quella del Paese di residenza (art. 12). Non
70 Cfr. le contestazioni del Vicepresidente della Commissione europea Barrot, del 15 luglio 2009 cit. e il nostro Il respingimento cit., ivi i riferimenti alle norme comunitarie oggetto di possibile violazione, quale la direttiva accoglienza e il Codice frontiere
Schengen (adottato con regolamento 562/2006 del 15 marzo 2006); cfr. pure De Vittor, Soccorso cit., loc. cit.; sul ricorso pendente avanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo cfr. la nota 54.
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FOCUS
sono previsti standard, ma in genere facilitazioni, in materia di assistenza amministrativa, rilascio di
documenti di identità e di viaggio, trasferimento dei beni, naturalizzazione (artt. 25, 27, 28, 34).
b) La Convenzione di Ginevra resta il punto di riferimento, come si è ricordato, per la disciplina di
diritto dell’Unione. Quest’ultima, tuttavia, è di più ampia applicazione, sia perché assicura la protezione sussidiaria, sia perché si applica a materie, come il ricongiungimento familiare, non contemplate nella Convenzione71.
Per quanto riguarda il primo profilo si osserva che la direttiva (artt. 20-34) garantisce ai beneficiari della protezione sussidiaria lo stesso trattamento dei rifugiati, salvo sia diversamente previsto. Un
esempio di disciplina diversa è la durata del permesso di soggiorno (più breve, ma non inferiore
a un anno) e il rilascio di documenti di viaggio (che non sono di carattere internazionale, ma nazionale, rilasciabili quando la persona non possa ottenere un passaporto dal proprio Paese). Tale
diversità è riscontrabile nelle norme nazionali di recepimento, la durata del permesso essendo di
cinque anni per il rifugiato e di tre per il beneficiario della protezione sussidiaria (art. 23 d.lgs. qualifiche, art. 24 direttiva qualifiche). Per quanto riguarda il ricongiungimento familiare o “mantenimento del nucleo familiare” (art. 22 d.lgs. qualifiche, artt. 2 e 23 direttiva qualifiche) sembra adottata dal legislatore nazionale una definizione restrittiva di familiari, consentendo ai beneficiari della protezione sussidiaria il ricongiungimento con il coniuge e i figli minori, anziché anche con i figli maggiorenni e i genitori (a carico), come invece è previsto per i rifugiati e gli stranieri in generale (artt. 29 e 29 bis t.u. immigrazione). Si tratta di un probabile difetto di coordinamento normativo, non essendovi una ragione giustificatrice per trattare i beneficiari della protezione sussidiaria
in modo deteriore, non solo rispetto ai rifugiati, ma anche agli stranieri72. Le categorie di persone
protette come familiari dovrebbero dunque essere quattro, senza operare distinzioni73. Nessuna distinzione, inoltre, dovrebbe essere fatta in tema di condizione di minori non accompagnati, dovendo sempre essere assicurato il prevalente interesse del minore74.
71 Sulla direttiva qualifiche e il suo recepimento cfr. Bonetti, Il diritto d’asilo cit., 48 ss.
72 L’art. 29 sul ricongiungimento familiare definisce i familiari e l’art. 29 bis dispone in materia di “ricongiungimento familiare
dei rifugiati” rinviando all’art. 29. L’art. 29, più recentemente modificato dal d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160 (che a sua volta ha modificato il d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5 recante attuazione della direttiva 2003/86 sul ricongiungimento familiare) prevede due categorie di familiari non contemplate dal d.lgs. qualifiche che, all’art. 2, definisce i beneficiari: i figli maggiorenni a carico “qualora
per ragioni oggettive non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti invalidità totale”; i genitori a carico “qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza” oppure si tratti
di “genitori ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli sino impossibilitati al loro sostentamento per documentati, gravi motivi
di salute”. Peraltro l’art. 2 si riferisce genericamente al coniuge, mentre l’art. 29 (così come modificato dal d.lgs. 160/08) si riferisce al coniuge “non legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni” e, quanto ai minori, l’art. 2 si riferisce ai “minori
non sposati e a carico del beneficiario della protezione internazionale”, equiparando ai figli legittimi quelli naturali, adottati o affidati o sottoposti a tutela, mentre l’art. 29 prevede che si possa trattare anche dei figli “del coniuge o nati fuori dal matrimonio,
non coniugati, a condizione che l’altro genitore qualora esistente, abbia dato il suo consenso”. L’art. 22 d.lgs. qualifiche, per gli
stranieri ammessi alla protezione sussidiaria, rinvia agli artt. 29 e 29 bis; l’art. 2 non contiene alcun rinvio circa la definizione di
familiari dei beneficiari, sia della protezione sussidiaria, sia dello status di rifugiato. La direttiva qualifiche, peraltro, consente
l’estensione della sfera dei familiari, lasciando agli Stati membri decidere se comprendere beneficiari diversi dal coniuge e dai figli minori (artt. 2, 23). Il d.lgs. 160/08 è successivo ai decreti legislativi 251/07 (qualifiche) e 5/07 (ricongiungimento familiare) e
ben avrebbe potuto formalmente prevedere l’estensione contenuta nel t.u. e nel d.lgs. 5/07.
73 Si può dunque ritenere (come si è detto nella nota precedente) che, anche se nel recepimento della direttiva qualifiche il nostro Paese non ha previsto espressamente l’estensione consentita dalla direttiva, tale estensione si applichi nei termini di cui al
t.u. immigrazione (il d.lgs. qualifiche, peraltro, rinvia agli artt. 29, 29 bis e 30 t.u. immigrazione, e quindi alla disciplina prevista
in materia di rifugiati: facilitazione in materia probatoria e rilascio di permesso di soggiorno a familiare irregolare rispettivamente previsti dall’art. 29 bis, 2° comma e art. 30, 1° comma lett. c). Si ricorda, ancora, che mentre per il riconoscimento del rifugiato si prescinde, perché così espressamente prevede l’art. 29 bis, 2° comma, nonché l’art. 29, 3° comma, dalla disponibilità di un
alloggio e di un reddito annuo, nulla è detto per i beneficiari di protezione sussidiaria, ai quali è riconosciuto il diritto “ai sensi
e alle condizioni previste dall’art. 29” (così l’art. 22, 4° comma d.lgs. qualifiche). Una tale diversità di trattamento sarebbe incongrua, anche se la direttiva consente (art. 23, par. 2) una diversità di benefici: un adeguato tenore di vita della famiglia, senza distinzioni fra categorie di soggetti, dovrebbe comunque essere garantito.
74 La direttiva qualifiche (art. 30) e il d.lgs. qualifiche (art. 28) non operano alcuna distinzione, ma nel t.u. immigrazione si prevede la sola ipotesi di minore rifugiato che ha diritto a farsi ricongiungere con gli ascendenti diretti di primo grado (art. 29 bis,
3° comma): il trattamento deve ritenersi comune ai minori beneficiari della protezione sussidiaria (il d.lgs. 160/08, peraltro, ben
avrebbe potuto precisare tale estensione).
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AIAF RIVISTA 2010/2 • maggio-agosto 2010
c) Convenzione di Ginevra e diritto dell’Unione (e norme di recepimento) si integrano, dunque, nella definizione degli standard, con un risultato che può coincidere o variare a seconda delle materie.
La parità di trattamento in virtù del diritto dell’Unione (dunque un trattamento più favorevole rispetto alla fonte internazionale) è prevista per l’esercizio di lavoro subordinato e autonomo, iscrizione agli albi professionali, formazione professionale e tirocinio sul luogo di lavoro (art. 25 d.lgs.);
un’eccezione è l’accesso al pubblico impiego, perché lo standard è quello dei cittadini dell’Unione europea e ne sono esclusi i beneficiari di protezione sussidiaria (parificati agli stranieri “ordinari”: una distinzione, rispetto ai rifugiati, che appare priva di ragionevole giustificazione).
Lo standard previsto dalla Convenzione di Ginevra è adottato dal diritto dell’Unione (e norme di
recepimento) in materia di:
a) accesso all’istruzione (art. 26 d.lgs.), distinguendo la primaria (per i minori) da quella di carattere generale e di aggiornamento (per i maggiorenni), per la prima valendo il trattamento nazionale, per la seconda quello riservato agli stranieri;
b) assistenza sanitaria e sociale (art. 27 d.lgs., in cui è previsto il trattamento nazionale);
c) libera circolazione, integrazione e alloggio (art. 29 d.lgs.) in cui è previsto, considerato il rinvio
alle norme del t.u. immigrazione, il trattamento riservato agli stranieri.
d) Una valutazione complessiva degli standard di trattamento, alla luce dell’adeguamento al diritto
dell’Unione, è positiva, essenzialmente per due ragioni.
La prima riguarda l’estensione dei beneficiari. La protezione internazionale, infatti, garantisce diritti non solo ai beneficiari dello status di rifugiato, ma anche ai beneficiari della protezione sussidiaria. Il contenuto di tali diritti e la misura degli stessi è la medesima, salvo che sia diversamente previsto dalla direttiva, lasciando agli Stati la discrezionalità di applicare, comunque, ai beneficiari della protezione sussidiaria un trattamento più favorevole, e quindi lo stesso trattamento dei rifugiati
(artt. 3, 20 direttiva)75.
La seconda riguarda lo standard di trattamento. Il trattamento nazionale, come si è prima ricordato (per effetto della Convenzione di Ginevra e del diritto comunitario) è infatti la regola in materia di lavoro, subordinato (salvo il pubblico impiego) e autonomo, di condizioni di lavoro, di sicurezza sociale e assistenza sanitaria; di accesso all’istruzione primaria, riconoscimento di diplomi,
certificati e altri titoli stranieri. Per effetto della (sola) Convenzione di Ginevra, il trattamento nazionale è pure la regola in materia di libertà di culto o religione, di protezione di proprietà intellettuale e industriale, di accesso ai tribunali, di imposizione o carichi fiscali76.
Il trattamento dello straniero è invece la regola in materia di istruzione generale e aggiornamento,
di libera circolazione nello Stato, di accesso all’alloggio, di accesso agli strumenti di integrazione.
Per effetto della (sola) Convenzione di Ginevra, in materia di diritto di proprietà (precisamente acquisto, locazione e diritti connessi, di bene mobili e immobili)77.
Quale che sia la materia, considerato lo status del rifugiato, che merita particolare o speciale protezione, può ritenersi sempre giustificato un trattamento più favorevole nel diritto interno (nel nostro in particolare), rispetto a quello previsto dalle norme internazionali e dell’Unione ricordate. Un favor, insomma, sempre giustificato se si considerano le valutazioni di diritto umanitario che rappresentano il fondamento e “quadro” giuridico del diritto d’asilo, a livello internazionale ed europeo, oltre che interno.
75 Il trattamento diverso per i beneficiari della protezione sussidiaria è previsto dalla direttiva, come già si è ricordato, in materia di
permesso di soggiorno (art. 24) e di documenti di viaggio (art. 25). Può essere diverso in materia di “condizioni applicabili ai benefici relativi ai familiari”, ma gli Stati devono assicurare “che i benefici offerti garantiscano un adeguato tenore di vita” (art. 23). Per l’“accesso all’occupazione”, ovvero per l’attività dipendente e autonoma, la formazione occupazionale per adulti, la formazione professionale e il tirocinio sul luogo di lavoro è lasciata una certa discrezionalità agli Stati, diversamente che per i rifugiati, per i quali è previsto il trattamento nazionale (art. 26). In materia di “assistenza sanitaria”, diversamente dai rifugiati, esso può essere limitata alle prestazioni essenziali (art. 29); in materia di “accesso agli strumenti di integrazione” è lasciata agli Stati la facoltà di consentire anche ai beneficiari di protezione sussidiaria l’accesso “ai programmi d’integrazione” (art. 33). Nelle tre ipotesi da ultimo ricordate (artt. 26, 29, 33
direttiva) il nostro ordinamento, come si è detto nel testo, assicura la più favorevole parità di trattamento (artt. 25, 26, 27, 29 d.lgs.).
76 Si vedano, rispettivamente, gli artt. 4, 14, 16, 29 Convenzione.
77 Cfr. art. 13 Convenzione; la clausola della nazione più favorita è prevista in materia di “diritti di associazione” (art. 15, che si
riferisce alle associazioni apolitiche e non lucrative e ai sindacati).
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FOCUS
IL DIRITTO D’ASILO IN ITALIA: DALLA DISCIPLINA COSTITUZIONALE ALL’ATTUAZIONE
DELLE DIRETTIVE COMUNITARIE
Livio Neri
Avvocato del Foro di Milano, referente della sezione Lombardia dell’ASGI, Associazione per gli
Studi Giuridici sull’Immigrazione
1. Premessa
Se l’immigrazione è un fenomeno spesso “sotto i riflettori” dei media e dell’opinione pubblica, ciò
può essere facilmente compreso considerando l’aumento esponenziale che ha avuto, negli ultimi
vent’anni, il numero di cittadini stranieri immigrati nel nostro Paese e l’impatto che tale fenomeno
ha, e avrà sempre più, sulla nostra società.
Assai più difficile è comprendere come possa essere “spendibile” politicamente la paura dell’abuso
del diritto di asilo. Per intere settimane, alcuni mesi orsono, ci si è infatti occupati, sulle pagine dei
giornali e nei telegiornali nazionali, dei respingimenti in mare, delle procedure per concedere o meno l’asilo, della mancata ratifica da parte della Libia della Convenzione di Ginevra e delle polemiche tra l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e il Governo.
Tale attenzione non si comprende per almeno due ragioni. La prima è semplicemente l’esigua consistenza del fenomeno: l’Alto Commissariato stima che in Italia risiedano circa 47.000 rifugiati (compresi in tale numero i titolari di protezione sussidiaria e di permesso di soggiorno per motivi umanitari), pari quindi a circa allo 0,07% della popolazione...
Il secondo motivo, come meglio si vedrà più avanti, è la stretta connessione dell’istituto del diritto
di asilo con il diritto delle persone non solo alle libertà fondamentali o alla sicurezza personale, ma
spesso anche alla vita stessa; un istituto giuridico che sin dall’antichità ha inteso proteggere – senza eccezioni – il diritto delle persone alla salvezza dai propri persecutori meriterebbe quindi, a parere di chi scrive, di essere sottratto alla quotidiana polemica politica.
Di seguito si cercherà di esaminare, in sintesi e limitandosi a pochi punti fondamentali, la disciplina che il nostro Paese, nel corso degli anni, ha elaborato per regolare tale istituto giuridico.
All’interno del diritto degli stranieri, la disciplina del diritto di asilo presenta caratteri del tutto speciali, che consentono di ritenerla materia a sé stante e che impongono una trattazione separata rispetto alla più generale disciplina dell’ingresso e del soggiorno sul territorio nazionale.
Ciò per più di una ragione.
Anzitutto perché il destinatario di tale disciplina, sussistendo i requisiti di legge, è ritenuto titolare
di un diritto soggettivo al diritto di asilo1 e non di un mero interesse legittimo al rispetto della normativa sull’ingresso e il soggiorno, come invece lo straniero migrante. Tale diversa condizione giuridica, rispetto allo straniero immigrato, trova certamente origine nel fondamento stesso del diritto
di asilo: negli Stati democratici moderni, infatti, la disciplina del diritto d’asilo è ispirata al più ampio riconoscimento dei diritti fondamentali della persona e in questi termini va letta la norma costituzionale di riferimento, l’art.10, co. 32: il Costituente infatti (come si vedrà meglio più avanti) con
1
Cfr. Cass. civ., SS.UU. 4674/1997 e Cass. civ., SS.UU. 907/1999.
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“lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
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tale norma ha evidentemente voluto manifestare la precisa intenzione di non limitare il riconoscimento delle libertà fondamentali sancite nella Carta ai soli cittadini; il “disegno” implicito nell’elencazione di tali diritti fondamentali è quello di estenderli universalmente: se quindi si è voluto sancire solennemente il diritto alla pari dignità sociale, ad esempio, si è anche stabilito che tale diritto
dovrà essere anche riconosciuto, proprio tramite il diritto di asilo, a chi nel proprio – anche remoto – Paese non possa goderne.
Altro aspetto, che differenzia l’asilante dall’immigrato e che giustifica una distinta disciplina dei due
fenomeni (asilo e immigrazione), è quello relativo al “processo decisionale”: se infatti il secondo (di
regola) ha deciso di lasciare il Paese di origine per migliorare le proprie condizioni di vita e generalmente, per fare ciò, ha programmato gli aspetti più importanti della propria emigrazione (costi,
destinazione, modalità di ingresso, possibilità di “regolarizzazione” eccetera), il primo vi è stato costretto dalle circostanze e quindi, nella generalità dei casi, non ha avuto il tempo e il modo di definire un preciso e proficuo percorso migratorio. Da tale differenza discende il diverso approcio che
il legislatore ha nel regolare l’ingresso sul territorio degli appartenenti alle due categorie (visto di ingresso, termini per la richiesta del permesso di soggiorno, eccetera per l’immigrato; sostanziale libertà di “tempi e forme” per colui che richieda e ottenga il riconoscimento del diritto all’asilo).
Fatte tali premesse, occorre esaminare quali siano nel nostro ordinamento le fonti normative del diritto d’asilo.
2. Fonti costituzionali e internazionali
Il diritto di asilo nel nostro ordinamento, prima che dalla disciplina attuativa delle direttive comunitarie di cui si dirà, è regolato da due norme fondamentali: una contenuta nella Costituzione, l’altra
nella Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951.
Il rapporto tra tali due norme è oggetto di discordanti opinioni in dottrina e nella giurisprudenza;
tuttavia, prima di dar conto di tali contrasti, occorre soffermarsi sul contenuto delle due disposizioni.
La Costituzione – come detto – prevede, all’art. 10, comma 3, il diritto soggettivo perfetto all’asilo
nel territorio della Repubblica allo straniero al quale, nel suo Paese, sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.
Perché si realizzi la fattispecie è quindi necessario, anzitutto, che vi sia un impedimento all’esercizio delle libertà democratiche nel Paese di origine del richiedente l’asilo. Con tale termine vanno intesi fatti o atti dalla natura assai diversa che incidano sulla sfera personale ed esistenziale del richiedente asilo, anche in assenza di provvedimenti individualmente e concretamente persecutori, il che
si verifica, ad esempio, in situazioni di disordine generalizzato, di conflitto, di guerra civile o in situazioni di violenza grave e persistente di uno o più diritti fondamentali.
Il riferimento all’effettivo esercizio comporta poi che, ai fini del riconoscimento del diritto di asilo,
rilevi non la disciplina normativa del Paese di origine, bensì il concreto atteggiarsi delle sue autorità nei confronti del richiedente asilo.
In ordine alle libertà democratiche, il cui effettivo esercizio deve essere impedito al richiedente asilo, si consideri come con esse si alluda a tutte le libertà fondamentali garantite dalla Costituzione e
quindi sicuramente, tra le principali: la libertà personale (art. 13 Cost.); la libertà di associazione (art.
18); la libertà di religione (art. 19); la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa
(art. 20); il diritto di non essere privato per ragioni politiche dalla capacità giuridica, della cittadinanza e del nome (art. 22); il diritto di agire in giudizio per tutelare i propri diritti e interessi e a difendersi in ogni stato e grado di giudizio (art. 24); il diritto a un giudice naturale precostituito e a essere punito soltanto in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 25); il diritto al voto personale, uguale, libero e segreto (art. 48); il diritto ad associarsi in partiti politici (art.
49); il diritto ad accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza con
gli altri (art. 51); il diritto al “giusto processo” (art. 111); il divieto di essere sottoposto a pene che
consistano in trattamenti inumani o alla pena di morte (art. 27); il diritto a ricevere cure gratuite in
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caso di indigenza e a non essere sottoposto a trattamenti sanitari illegali o contrari al senso di umanità (art. 32); la libertà di organizzazione sindacale (art. 39); il diritto di sciopero (art. 40). Non sono
invece configurabili quali impedimenti che legittimino l’asilo quelli che derivino dal semplice stato
di disoccupazione nel Paese di provenienza, non comportando il diritto al lavoro sancito dall’art. 4
Cost. il diritto al conseguimento di un’occupazione, o dal mancato godimento di quei diritti costituzionali di prestazione in materia sociale, la cui realizzazione è lasciata alla discrezionalità del legislatore che può determinarne le condizioni anche sulla base delle disponibilità organizzative e finanziarie.
Il contenuto del diritto di asilo, come previsto dalla Costituzione, consiste in una serie di diritti che
così possono essere individuati, in sintesi: nel diritto a essere ammesso sul territorio italiano; a soggiornarvi esercitandovi quelle libertà democratiche fondamentali garantite dalla Costituzione italiana; a essere protetto dal rischio di subire eventuali atti ostili provenienti da soggetti pubblici o privati del Paese di origine; a non essere allontanato dal territorio italiano.
La definizione di rifugiato, la determinazione delle condizioni per l’attribuzione del relativo status e
dei diritti e obblighi scaturenti da tale condizione giuridica sono oggetto della Convenzione relativa
allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 (ratificata con legge 24 luglio 1954 n. 722).
La definizione di rifugiato prevista dalla Convenzione, all’art. 1, sezione A, n. 2, è la seguente: “colui che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951, temendo a ragione
di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato
gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non
può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che,
non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito
di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra (...)”. Alla sezione B del
medesimo articolo si aggiunge poi che “ai fini della presente Convenzione, le parole ‘avvenimenti
verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951’ potranno essere interpretate nel senso di: a) ‘avvenimenti verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951 in Europa’ oppure nel senso di: b) ‘avvenimenti
verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951 in Europa o altrove’; ed ogni Stato contraente – al momento della firma, della ratifica o della adesione – preciserà con una dichiarazione la portata che
intende riconoscere a questa espressione dal punto di vista degli obblighi da esso assunti in virtù della presente Convenzione”.
Due pertanto sono le limitazioni che la Convenzione prevedeva nell’applicazione da parte degli Stati contraenti dello status di rifugiato: l’una è di carattere “temporale” (gli avvenimenti a seguito dei
quali il soggetto chiede di essere riconosciuto rifugiato dovevano essersi verificati prima del 1° gennaio 1951) e l’altra di ordine geografico (tali avvenimenti – se questa opzione veniva scelta dallo
Stato contraente – dovevano essersi verificati in Europa).
Solo con la sottoscrizione del Protocollo di New York del 1967 la “riserva” temporale fu eliminata e
la Convenzione di Ginevra acquistò pertanto una funzione di tutela realmente generalizzata del rifugiato, impegnando gli Stati contraenti a riconoscere tale status anche a soggetti che abbiano lasciato il Paese di origine successivi alla data del 1° gennaio 1951.
La limitazione geografica contenuta nella sezione B dell’art. 1, per quanto riguarda il nostro ordinamento interno è invece venuta meno solamente con l’approvazione della legge n. 39/1990 la quale
all’art. 1 – tuttora vigente – ha sancito l’opzione più ampia prevista dalla Convenzione: i fatti che inducono il rifugiato ad abbandonare il proprio Paese possono quindi ora essere avvenuti “in Europa o altrove”.
Le due norme primarie che si sono commentate descrivono quindi, evidentemente, due differenti
fattispecie: quella costituzionale intende proteggere la persona che non goda nel Paese di origine
dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche, quella convenzionale attribuisce invece lo status
di rifugiato a colui che tema di essere perseguitato per uno dei motivi elencati nell’art. 1 della Convenzione stessa.
La dottrina maggioritaria ha e ha sempre considerato l’insieme dei titolari dello status come un sottoinsieme dalla più ampia cerchia degli aventi diritto all’asilo costituzionale; l’art. 10, co. 3, Cost. non
richiede infatti certo che, per ottenere il riconoscimento del diritto di asilo, si debba essere perse-
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guitati, ma la persecuzione (come intesa nella giurisprudenza e nella dottrina interna e internazionale) è sicuramente negazione di libertà democratiche.
Tale ultima interpretazione del rapporto tra le due norme commentate, inizialmente condivisa dalla
giurisprudenza di legittimità3, è stata tuttavia successivamente messa in discussione dalla Suprema
Corte. Un indirizzo della recente giurisprudenza della Corte di Cassazione4 ha infatti impostato il coordinamento tra le due fonti secondo una differente (e non del tutto convincente) prospettiva: il diritto all’asilo come previsto dalla Costituzione non costituirebbe, secondo tale indirizzo, nulla più del
diritto all’ingresso sul territorio nazionale ai fini di proporre domanda di asilo (consistente, sempre
secondo tale indirizzo, nella domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. Non esisterebbero pertanto due diverse fattispecie (l’una più ampia dell’altra, come visto, secondo la dottrina), bensì un diritto “provvisorio” e strumentale (quello all’ingresso e alla proposizione della domanda, sancito dall’art. 10, co. 3, Cost.) e uno “definitivo” (allo status di rifugiato come previsto dalla Convenzione di Ginevra).
Non si può tuttavia concludere sul punto senza rilevare come la ricostruzione sistematica da ultimo
suggerita dalla Corte di Cassazione (oltre che incompatibile con l’intenzione del legislatore: il Costituente non poteva infatti certo voler sancire un diritto strumentale ad altro che nemmeno era stato
ancora sancito a livello internazionale...) confligge evidentemente con il dato letterale: la norma costituzionale prevede infatti in modo chiaro che venga riconosciuto il diritto di asilo, come più volte
ricordato, a colui che non goda dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche; assai diversa è la
situazione di chi tema di essere perseguitato. Non si vede pertanto come la prima disciplina possa
essere ridotta a un mero strumento per l’accesso alla seconda, che peraltro non necessita affatto di
tale diritto strumentale (la Convenzione di Ginevra già prevede infatti, all’art. 33, il cosiddetto divieto di respingimento del rifugiato che, quindi, deve avere libero e facile accesso alle procedure di riconoscimento).
3. L’attuazione delle direttive comunitarie
Il nostro ordinamento interno per quasi quarant’anni non ha sostanzialmente previsto altro, in materia di diritto di asilo, delle due norme fondamentali sopra indicate. Solamente con la l. 39/1990
(cosiddetta “legge Martelli”) il nostro legislatore ha ritenuto di stabilire, per quanto in modo assai lacunoso (e dichiaratamente provvisorio), procedure e condizioni per il riconoscimento dello status
di rifugiato.
Nel 2002 poi, con l’approvazione della l. 189 (cosiddetta “legge Bossi-Fini”), la norma del 1990 è
stata integrata da disposizioni che hanno sostituito alla Commissione centrale con sede in Roma (sino ad allora competente per tutte le domande presentate sul territorio) Commissioni territoriali decentrate, hanno disciplinato una procedura “semplificata” e previsto, in taluni casi, il trattenimento
dei richiedenti asilo.
Tale ultima normativa (entrata in vigore solamente con l’approvazione nel 2004 del relativo regolamento attuativo, contenuto nel d.p.r. 303/2004), ha disciplinato la materia (perseguendo essenzialmente lo scopo di combattere l’abuso del diritto, più che di regolarne l’esercizio) solamente sino a
quando il nostro ordinamento ha dovuto adeguarsi a quello comunitario.
Scadendo di anno in anno i termini per il recepimento delle relative direttive, infatti, il legislatore
delegato ha approvato i seguenti decreti che ora finalmente (a cinquant’anni dall’approvazione della Costituzione) costituiscono un corpo normativo completo e attuativo dell’art. 10, co. 3, Cost.; si
tratta dei seguenti provvedimenti: d.lgs. 140/2005 (attuazione della direttiva 2003/9/CE sull’accoglienza dei richiedenti asilo), d.lgs. 85/2003 (attuativo della direttiva 2001/55/CE relativa alla protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati) ma, soprattutto, del d.lgs. 251/2007 (attuativo della direttiva 2004/83/CE, che stabilisce le qualifiche e, quindi, le categorie di soggetti me3
Cfr. pronunce a SS.UU. della Corte di Cassazione già indicate nella nota 1.
4
Cfr. Cass. civ., sez. I, 25028/2005, e Cass. civ., sez. I, 18549/2006.
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FOCUS
ritevoli di protezione) e del d.lgs. 25/2008 (attuativo del d.lgs. 2005/85/CE, che regola le procedure
per il riconoscimento delle diverse forme di protezione.
In estrema sintesi, pare utile accennare ad alcuni tra gli aspetti più rilevanti degli ultimi due decreti citati (il 251, relativo alle qualifiche, e il 25, sulle procedure).
Innanzitutto, il d.lgs. 251/2007 introduce nell’ordinamento, a fianco dello status di rifugiato, della
protezione temporanea e di quella umanitaria (di natura residuale e consistente in sostanza nel rilascio di un permesso di soggiorno di durata annuale nei casi in cui non si possa o si ritenga inopportuno procedere all’espulsione o al respingimento dell’interessato), una nuova forma di protezione, quella “sussidiaria”5.
Se la condizione per ottenere il riconoscimento dello status è il timore di essere perseguitato per i
motivi elencati nella Convenzione di Ginevra (politici, religiosi, etnici eccetera), quella per accedere alla protezione sussidiaria è invece il timore di subire un “danno grave” che, secondo il decreto
251, può consistere alternativamente: nella sottoposizione alla pena capitale, alla tortura o ad altra
forma di pena o trattamento inumano o degradante (con definizione mutuata da quella contenuta
nell’art. 3 CEDU) o alla “minaccia grave e individuale alla vota o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”6.
Ebbene, dalla lettura delle norme di riferimento emerge come, a distinguere chiaramente le due figure (titolare di diritto allo status di rifugiato e del diritto alla protezione sussidiaria) sia soprattutto
la necessità che le conseguenze temute in caso di rimpatrio forzato (qualificate come persecuzione
in un caso, “danno grave” nell’altro) siano o meno motivate dalle ragioni elencate nell’art. 1A della
Convenzione di Ginevra e meglio esplicate nell’art. 8 d.lgs. 251/07: se l’interessato teme quindi di
subire gravi conseguenze per motivi politici, religiosi, di appartenenza nazionale o etnica o per il
proprio orientamento sessuale avrà diritto al riconoscimento dello status di rifugiato, se invece teme di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o addirittura alla pena capitale, ma per motivi estranei a quelli elencati, avrà diritto alla protezione sussidiaria.
Altra norma di particolare rilevanza contenuta nel d.lgs. 251 è quella relativa all’“esame dei fatti e delle circostanze”. L’art. 3 del decreto infatti, dopo aver elencato gli elementi che devono essere presi
in considerazione nell’esame della domanda (fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine, dichiarazioni dell’istante e documentazione da questi allegata, sue condizioni personali e sociali), prevede che “qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita
una idonea motivazione della eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni
del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni
generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.
Tale ultima norma consolida e rafforza7 l’affermazione nella presente materia di un “alleggerimento” in capo al richiedente asilo dell’onere della prova, tanto nella fase amministrativa volta al rico-
5
Nel decreto legislativo per protezione internazionale si intende l’insieme delle due qualifiche dello status di rifugiato e della
protezione sussidiaria.
6 Con sentenza 17 febbraio 2009, causa C-465/07, la Corte di giustizia, Grande Sezione, ha precisato come, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, non si possa pretendere dal richiedente la prova di essere stato interessato in modo specifico,
a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, dal conflitto in atto nel Paese di provenienza.
7 Un “alleggerimento” dell’onere probatorio, anche prima dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo, era infatti già stato
sancito, in considerazione della peculiarità di un diritto fondato su uno stato soggettivo (il timore di essere perseguitato), del tenore letterale della previgente l. 39/1990 (che prevedeva la presentazione di una domanda motivata e “in quanto possibile” documentata) e infine dall’approvazione della direttiva 2004/83/CE anche prima della sua attuazione, dalla giurisprudenza di merito; cfr. TAR
FVG, 22 ottobre 1998, est. Savoia; Corte d’Appello di Catania, 1/22 marzo 2002, est. Morgia; Tribunale di Lucca, 16 dicembre 2003,
est. Terrosi; Tribunale di Milano, 16/28 dicembre 2006, est. Marangoni; Tribunale di Milano, 19 gennaio-7 febbraio 2006, est. Gandolfi.
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noscimento della protezione, quanto (introducendo così una deroga al principio civilistico di cui all’art. 2697 c.c.) nell’eventuale fase giudiziale di impugnazione del diniego. Sul punto sono intervenute, da ultimo, anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali, con sentenza 27310 del
17 novembre 2008, interpretano il dettato dell’art. 3 sopra trascritto nel senso di ritenere che, in materia di protezione internazionale, si configuri una vera e propria inversione dell’onere della prova
(si legge infatti in tale pronuncia: “la diligenza e la buona fede si sostanziano in elementi di integrazione dell’insufficiente quadro probatorio, con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere probatorio dettate dalla normativa codicistica vigente in Italia”).
Il d.lgs. 25/2008 stabilisce invece, anzitutto, quali siano le autorità amministrative competenti per le
varie fasi del procedimento (la Questura per la ricezione della domanda e la sua trasmissione alla
Commissione territoriale competente per l’esame nel merito8, la Commissione nazionale per il diritto di asilo9, con sede a Roma, per il coordinamento delle commissioni territoriali, la formazione dei
membri delle stesse e per l’adozione dei provvedimenti di revoca o cessazione della protezione,
l’Unità Dublino presso il Ministero dell’Interno per l’applicazione del Regolamento comunitario
343/2003, relativo alla determinazione dello Stato competente per l’esame di ogni domanda di asilo presentata sul territorio dell’Unione). Il medesimo decreto descrive poi la procedura per l’esame
delle istanze (in estrema sintesi: presentazione presso le autorità di frontiera o direttamente presso
la Questura del luogo ove lo straniero dimori, rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo, o suo trattenimento/accoglienza in appositi centri nei casi previsti, audizione da parte della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione
internazionale e notifica da parte del Questore del provvedimento che definisce la procedura).
Il provvedimento della Commissione, come anticipato, potrà essere di quattro tipi: riconoscimento
dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria, diniego della protezione internazionale ma trasmissione degli atti al Questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, diniego.
Salvo che nel caso di riconoscimento dello status, naturalmente, l’interessato potrà quindi proporre
ricorso giurisdizionale per vedersi accertato il diritto del quale si ritiene meritevole. La fase giurisdizionale è regolata dall’art. 35 del d.lgs. 25 e, tra gli aspetti più significativi di tale procedura giudiziale, si segnalano il termine decadenziale di trenta giorni per l’azione10, la competenza del Tribunale che ha sede nel capoluogo di distretto in cui ha sede la Commissione territoriale che ha emesso il provvedimento impugnato, l’applicazione del procedimento camerale non contenzioso (per
quanto con riforma contenuta nel d.lgs. 159/2008 si sia attribuita al Ministero dell’Interno, oltre che
al p.m., la facoltà di proporre reclamo avverso la decisione di primo grado), l’effetto sospensivo automatico del provvedimento impugnato a seguito della proposizione del ricorso11 (il ricorrente ha
pertanto diritto di conservare il titolo di soggiorno per tutta la durata del giudizio), la reclamabilità
del provvedimento entro dieci giorni dalla sua comunicazione e la ricorribilità per cassazione della
decisione del reclamo nel termine di trenta giorni.
8
Le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale sono dieci (con sedi in Bari, Crotone, Caserta, Foggia, Gorizia, Milano, Roma, Siracusa, Torino e Trapani) e sono costituite da un funzionario della carriera prefettizia con funzioni di presidente, da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato-città e autonomie locali e da un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
9 La Commissione nazionale è presieduta da un Prefetto ed è costituita da un dirigente presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, da un funzionario della carriera prefettizia e da un dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno; alle riunioni della Commissione partecipa, senza diritto di voto, un membro dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite
per i rifugiati.
10 Il termine è ridotto a quindici giorni in caso di richiedente trattenuto in centro di identificazione ed espulsione o accolto in
una casa di accoglienza per richiedenti asilo di cui all’art. 20 d.lgs. 25/2008.
11 La sospensione è tuttavia disposta dal Tribunale, su istanza di parte, qualora si impugni un provvedimento che dichiari la domanda inammissibile o manifestamente infondata, nel caso di richiedente che sia stato trattenuto in centro di identificazione ed
espulsione o accolto in una casa di accoglienza per richiedenti asilo, che sia stato precedentemente espulso o che abbia presentato domanda di protezione dopo essere stato fermato dalle autorità di p.s. per avere eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera o per la propria condizione di irregolarità.
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FOCUS
4. I diritti dei rifugiati e dei titolari di altre forme di protezione. In particolare: il diritto all’unità familiare
Il d.lgs. 251/2007 di cui si è detto, oltre che distinguere le diverse forme di protezione, si occupa di
“dare contenuto” a tali qualifiche, determinando per esse differenti standard di trattamento: stabilisce cioè di quali diritti debbano godere i titolari dello status di rifugiato e i destinatari della protezione sussidiaria.
Diversa è in primo luogo la durata del titolo di soggiorno (tre anni per la protezione sussidiaria, cinque per i rifugiati12); il documento di viaggio13 è rilasciato automaticamente ai rifugiati, solo nel caso in cui sussistano fondate ragioni che non consentano al titolare della protezione di rivolgersi all’autorità del proprio Paese per i destinatari di protezione sussidiaria14; tanto per gli uni quanto per
gli altri vige il principio di parità di trattamento con il cittadino italiano con riferimento all’accesso
all’istruzione15 e all’attività lavorativa16 (come peraltro per gli immigrati regolarmente soggiornanti17)
e lo stesso in materia di assistenza sanitaria e sociale18.
Pare tuttavia opportuno, nella presente sede, soffermarsi più diffusamente sulla tutela riservata dalla normativa in vigore al diritto dei titolari della protezione internazionale all’unità familiare.
È evidente nel decreto 251 (come nel Testo unico sull’immigrazione) il favore con il quale il legislatore tratta tale diritto: anzitutto (ma questo solo per il rifugiato, non anche per il titolare della protezione sussidiaria), per esercitare il diritto al ricongiungimento o alla coesione familiare non è necessario che l’interessato disponga di un particolare reddito o di un alloggio che sia ritenuto idoneo
a ospitare il familiare ricongiunto. Così, mentre il cittadino straniero immigrato per ottenere il ricongiungimento deve disporre, per ogni familiare da ricongiungere, di un reddito minimo annuo pari
ad una volta e mezza l’importo annuo dell’assegno sociale e di un alloggio conforme ai requisiti
igienico-sanitari e di idoneità abitativa accertati dai competenti uffici comunali, il rifugiato deve limitarsi a dimostrare il proprio legame familiare con il soggetto con il quale intende ricongiungersi.
È proprio in ordine alla dimostrazione del legame familiare che è prevista la norma di maggior favore per rifugiati e titolari di protezione sussidiaria con riferimento al diritto all’unità familiare: ai
sensi dell’art. 29 bis d.lgs. 286/1998, infatti, nel caso in cui l’interessato non disponga di “documenti ufficiali” che provino i suoi vincoli con il familiare (in ragione della sua condizione di perseguitato dalle autorità del Paese di origine o per l’assenza di autorità che possano rilasciare tali documenti), questi potranno essere sostituiti da certificazioni rilasciate dalle nostre autorità consolari sulla base delle verifiche che possano effettuare in loco. In ogni caso, conclude la disposizione, “il rigetto
della domanda non può essere motivato unicamente dall’assenza di documenti probatori”.
Ebbene, dai diritti che l’ordinamento riconosce loro emerge quale sia, nella normativa vigente, l’“immagine” del rifugiato e le prospettive che si ritiene gli debbano essere garantite: contrariamente all’immigrato per motivi economici, generalmente non segue una “catena migratoria”, non arriva quindi nel nostro Paese per raggiungere un amico o un parente che l’ha preceduto, ma arriva spesso all’improvviso senza aver potuto programmare il proprio espatrio (e anche in tale ottica va visto il favore per il suo ricongiungimento familiare); inoltre, salvo radicali cambiamenti nel Paese di origine,
è un soggetto che rimarrà stabilmente nel nostro Paese e che prima o poi ne diverrà cittadino (i termini per la richiesta della cittadinanza sono peraltro dimezzati per il rifugiato): ciò spiega la sua sostanziale parificazione al cittadino italiano sotto quasi tutti i profili.
12 Cfr. art. 23 d.lgs. 251/2007.
13 La Convenzione di Ginevra prevede che ai rifugiati sia rilasciato, in sostituzione del passaporto del Paese di origine, un “documento di viaggio” con il quale questi possano circolare liberamente (salvo eventuale obbligo di visto), in tutti i Paesi con l’eccezione di quello di provenienza.
14 Cfr. art. 24 d.lgs. 251/2007.
15 Cfr. art. 26 d.lgs. 251/2007.
16 Cfr. art. 25 d.lgs. 251/2007.
17 Ciò per quanto disposto dalla Convenzione OIL 143/1975 e dall’art. 2, co. 3, d.lgs. 286/1998.
18 Cfr. art. 27 d.lgs. 251/2007.
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IL PUNTO DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO SUL DIRITTO D’ASILO,
SUL RICONOSCIMENTO DELLO STATO DI RIFUGIATO E SU ALTRE FORME
DI PROTEZIONE UMANITARIA
Report dell’intervento della d.ssa Franca Mangano, giudice del Tribunale Ordinario di Roma, tenuto al
Seminario della Formazione decentrata del Consiglio Superiore della Magistratura, Immigrazione e diritti fondamentali, il rifugio a fini umanitari, il diritto d’asilo e il congiungimento familiare: prospettiva italiana e sovranazionale, Roma 15 aprile 2010, a cura del dott. Alessandro Pesce, M.O.T. presso il Tribunale
di Roma.
Franca Mangano
Giudice del Tribunale Ordinario di Roma
È necessario premettere che si tratta di un ambito nel quale le pronunce dei giudici sono caratterizzate da un grado di indeterminatezza e di varietà piuttosto elevato. Ciò è dovuto anzitutto, all’origine della legislazione che disciplina la materia, spesso di emergenza e contingente, nonché all’intersecarsi di vari livelli di normazione, sovranazionale e nazionale, primaria e regolamentare.
Difficoltà acuite anche dalle particolarità di un processo in cui vi sono due parti, l’una, pubblica,
che spesso è solo formalmente presente; l’altra, quella richiedente protezione internazionale, connotata da una condizione di debolezza sociale che indubbiamente pesa sullo svolgimento del processo.
Tale assetto ostacola una ricostruzione sistematica e sintetica della giurisprudenza di merito in materia. Questa relazione, pertanto, si propone essenzialmente di offrire un contributo di conoscenza delle principali e più urgenti questioni critiche, che si presentano ai giudici che si occupano di
controversie in materia di protezione internazionale.
A tale scopo, il Tribunale di Roma rappresenta un osservatorio molto significativo, poiché è l’ufficio giudiziario nel quale si concentrano il maggior numero di controversie in materia di immigrazione e di diritti fondamentali degli stranieri. A fronte di tale ingente carico di lavoro, tuttavia, le
disponibilità di mezzi e di competenze specializzate è inadeguata, al punto che appare concreto il
rischio di una risposta giudiziaria insufficiente rispetto alla gravità e sensibilità del tema.
I giudici della prima sezione del Tribunale civile di Roma, per questo motivo, hanno intrapreso un
percorso volto all’elaborazione di un protocollo, finalizzato all’individuazione di prassi e criteri di
valutazione condivisi; ciò per garantire, nei limiti del possibile, parametri uniformi di giudizio per
una migliore tutela dei diritti fondamentali che pervadono la materia in argomento.
Allo stato, il confronto sui principali nodi problematici che caratterizzano la quotidianità del lavoro nelle aule giudiziarie ha portato all’individuazione di numerose criticità, riferibili essenzialmente a tre diverse aree di interesse:
1. la gestione del processo;
2. la tipologia delle decisioni e la connessa questione dei possibili criteri di valutazione condivisi;
3. la giurisdizione e i poteri del giudice, con riferimento a competenze particolari.
Per ciò che riguarda le questioni di ordine processuale, anzitutto, si deve rilevare come la Cassazione, ben prima delle Sezioni Unite del 2008, ha ritenuto che il quadro normativo di riferimento
consente di ravvisare, pur in difetto di una specifica regolamentazione del rito, l’opzione del legislatore per il modello camerale1.
1
Cass. n. 18353/2006.
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FOCUS
Il rito camerale è ritenuto connaturale alla trattazione dei diritti fondamentali, attese le caratteristiche, proprie del modello processuale, di celerità e semplicità2. L’affermazione va verificata alla luce della prassi attuale.
Quanto alla celerità, si ricorda che effettivamente l’art. 35 del d.lgs. 25/08 prevede tempi di impugnazione e di decisione piuttosto rapidi: 30 giorni, a pena di inammissibilità, per l’impugnazione
del provvedimento di rigetto della Commissione; 5 giorni dal deposito del ricorso, per la fissazione dell’udienza di comparizione; 3 mesi dalla presentazione del ricorso, per l’adozione della sentenza conclusiva del procedimento.
È quasi superfluo sottolineare che tale scansione temporale difficilmente può essere rispettata, attesi i carichi di lavoro. Attualmente i ricorsi ex art. 35 pendenti presso il Tribunale di Roma sono
circa 1.800, nel 2009 sono stati circa 1.400 e, considerando le pendenze registrate alla fine del 2008,
risulta che solo il 60% circa di tali ricorsi è stato smaltito, con facile prognosi di incremento per
l’anno in corso, atteso che le sopravvenienze del primo trimestre 2010 sono quasi 500.
Quanto alla semplicità, il modello camerale è un rito deformalizzato, adeguato al disposto del comma 10 dell’art. 35, che prefigura un iter istruttorio piuttosto snello. L’assenza di preclusioni e decadenze nello svolgimento del processo rende maggiormente compatibile il modello camerale anche
con il principio dell’onere della prova attenuato, precisato nella richiamata sentenza delle Sezioni
Unite della Cassazione del 2008 e che, dal punto di vista del giudice, equivale all’esercizio di ampi poteri officiosi.
Tuttavia, alla prassi si richiede di configurare gli atti processuali attraverso i quali si dà attuazione
al principio cristallizzato dall’art. 3 del d.lgs. 251/07, vale a dire il principio di cooperazione nell’esame e nella valutazione di tutti gli elementi e della documentazione necessaria a motivare la
domanda di protezione internazionale, dettato per le Commissioni territoriali ma che è anche regola imprescindibile della valutazione del giudice circa la fondatezza dei motivi di ricorso.
Atto fondamentale nell’esercizio della richiamata cooperazione del giudicante nell’onere di allegazione e di prova preteso nei confronti del richiedente la protezione internazionale è l’audizione del
ricorrente, funzionale alla verifica dei requisiti e delle condizioni necessarie per aver accesso al sistema di tutela previsto dalla normativa in oggetto. Ossia, in via del tutto preliminare, l’accertamento dell’identità personale e nazionale, ovvero della provenienza del ricorrente, della sua religione
ed etnia, quindi, l’accertamento delle condizioni concrete nelle quali è fuggito dal suo Paese e delle vicende di cui è stato protagonista, allo scopo di accertare il permanere attuale di situazioni di
rischio e pericolo per la sua incolumità. Inoltre, l’audizione del ricorrente appare atto funzionale
alla necessaria individualità dell’esame della domanda di protezione internazionale (art. 3 comma
3 del d.lgs. n. 251/2007).
Quasi sempre i soggetti richiedenti non parlano la lingua italiana e ciò comporta, di conseguenza,
la necessaria assistenza di un interprete, condizione non soltanto di validità dell’atto processuale,
ma, anche, di effettività dell’acquisizione degli elementi di valutazione necessari al giudice. Gli interpreti, però, in molti casi omettono di comparire, rendendo vana l’udienza fissata per l’esame,
con gli effetti di disservizio facilmente immaginabili.
Tre sono le ipotesi di soluzione proposte a questo problema, corrispondenti ad altrettanti diversi
livelli di approccio alla questione.
La prima possibilità è quella di consentire l’audizione alla presenza degli interpreti presentati dalle parti richiedenti protezione. In genere, persone della medesima nazionalità allegata dal ricorrente, alle quali si richiede la titolarità di un permesso di soggiorno valido. L’attribuzione a tali persone del ruolo di interpreti, potrebbe intendersi conforme al disposto dell’art. 122 c.p.c. che, a differenza di quanto previsto per i consulenti tecnici dall’art. 61 c.p.c., non richiede che normalmente
la scelta debba avvenire tra gli iscritti all’apposito albo speciale.
La seconda soluzione non è alternativa a quella sopra esposta, bensì con essa concorrente, in modo da considerare il ricorso all’interprete “di parte” come scelta sussidiaria, alla mancata compari-
2
Cass. S.U. n. 27310/2008.
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zione dell’interprete nominato dall’ufficio. Va previsto, nell’agenda del giudice, che alcune udienze siano destinate all’audizione dei richiedenti la protezione, in modo da:
1) nominare uno o due interpreti per udienza in relazione a più procedimenti riguardanti persone provenienti dallo stesso Paese o con lo stesso idioma;
2) incentivare la comparizione dell’interprete con la previsione di un incarico più remunerativo, in
quanto plurimo;
3) scongiurare il rischio di udienze “a vuoto”;
4) favorire la valutazione complessiva di situazioni simili. Tale soluzione comporta: a) che l’audizione del ricorrente non avviene alla prima udienza, come vorrebbe la regola del modello camerale, ma all’udienza fissata ad hoc dal giudice; b) che il giudice valuta la rilevanza dell’audizione in relazione alla decisione della causa, prima di fissare l’udienza.
Quest’ultimo effetto introduce la terza (ed estrema) soluzione, allo stato, oggetto di valutazione: ossia l’eventuale omissione dell’audizione personale dello straniero richiedente e, soprattutto, l’indicazione di criteri condivisibili per l’individuazione dei casi nei quali si ritenga superflua l’audizione stessa.
Un primo criterio prescinde dalla valutazione della rilevanza funzionale dell’audizione rispetto alla decisione di merito: l’audizione è superflua quando i fatti allegati nel ricorso ex art. 35 sono perfettamente sovrapponibili a quelli già esposti dall’interessato nel corso dell’audizione davanti alla
Commissione territoriale. Il secondo criterio, viceversa, è funzionale alla decisione di merito: l’audizione è superflua e, quindi, può essere omessa, in conseguenza della manifesta infondatezza o
inammissibilità del ricorso, secondo la disciplina dettata dagli artt. 29, 30, 32 del d.lgs. 25/08. Si
tratta, in quest’ultimo caso, di una soluzione, in linea di principio, contraria al disposto dell’art. 12
del d.lgs. 25/08, a norma del quale, al contrario, la Commissione territoriale può omettere l’audizione del richiedente solo quando ritiene di avere sufficienti motivi per accogliere la domanda di
protezione internazionale, non per rigettarla. Tuttavia, questo secondo criterio può recuperare un
valore di conformità al sistema, laddove si acceda a una interpretazione sistematica secondo cui il
principio di cooperazione sancito dall’art. 3 del d.lgs. 251/07, che, per quanto detto vincola l’operato del giudice, deve essere bilanciato con il principio dell’onere di allegazione e di completezza
dei fatti che grava in capo al richiedente protezione (art. 3 cit., comma 1, prima proposizione).
Il secondo nodo critico, nell’ambito dell’area relativa alla gestione del processo e alle questioni processuali, riguarda la valutazione della documentazione prodotta a sostegno dei ricorsi.
Nelle controversie relative ai provvedimenti in materia di ricongiungimento familiare, si è posto il
problema dell’individuazione dei criteri di valutazione della documentazione anagrafica proveniente da Paesi esteri, con riguardo alla particolare efficacia probatoria di tali certificazioni. Nelle controversie in esame, trattandosi di soggetti che, nella grande maggioranza dei casi, sono sprovvisti
di documenti di identità, il problema riguarda la valutazione di documenti diversi, formati nei Paesi di origine, ai quali si riconnette un valore, quantomeno indiziario, dell’identità del richiedente.
A tale proposito, l’orientamento emerso è quello di far riferimento alla disciplina dettata dal d.p.r.
445/2000 in materia di documenti ritenuti sufficienti per l’iscrizione anagrafica dello straniero. L’art.
3, comma 1 del d.p.r. 445/2000 allude a una definizione di documento di riconoscimento, che è
nozione più ampia rispetto a quella di documento di identità, dovendosi intendere come idoneo
al riconoscimento dell’interessato e quindi sufficiente per la sua iscrizione anagrafica, il documento provvisto di fotografia rilasciato da autorità o enti del Paese di provenienza del richiedente. È
così legittimo valutare, ai fini dell’accertamento dell’identità del richiedente tessere di partito, tessere di associazioni sportive e anche, pur essendo documenti privi di fotografia, certificati di battesimo; tutti documenti suscettibili di formare oggetto di valutazione da parte del giudice quando,
in concorso con altri dati, atti o fatti deducibili dal procedimento e dai provvedimenti impugnati,
possono fornire riscontri in ordine all’identità del soggetto richiedente. Per ciò che riguarda la prova testimoniale, atto saliente nell’istruttoria dei procedimenti in oggetto, si ripropongono gli stessi
problemi, già evidenziati in relazione all’audizione del richiedente, circa la reperibilità degli interpreti, perché nella grande maggioranza dei casi i testi sono persone straniere, che hanno la stessa
nazionalità del richiedente e che non parlano la lingua italiana. L’organizzazione dell’agenda del
40
FOCUS
giudice, al fine di economizzare la convocazione dell’interprete nominato dal giudice e il ricorso,
quantomeno sussidiario, all’interprete portato dal ricorrente, sono, anche in questo caso, rimedi
praticabili per i segnalati problemi organizzativi.
Quanto all’articolazione in capitoli della prova stessa, è la stessa Cassazione3 che autorizza una certa elasticità, nella valutazione di ammissibilità della prova. Non si esige una capitolazione rigorosamente dettagliata, dando ingresso nel procedimento a prove testimoniali che, nell’ambito di un
giudizio civile ordinario, sarebbero certamente colpite dalla sanzione dell’inammissibilità, per la genericità della capitolazione. L’ammissione di prove testimoniali formulate in modo generico, comporta che, nel corso dell’espletamento della prova, il giudice svolga una funzione integrativa della
prova stessa. In realtà più che di testimoni, si è in presenza di informatori, le cui dichiarazioni sono valutate in bilanciamento con altri elementi emersi dal giudizio, al fine della valutazione della
fondatezza del ricorso.
Un fondamento importantissimo nell’elaborazione della decisione, è rappresentato dalle informazioni precise e aggiornate sulla situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti,
che devono essere poste a disposizione del giudice chiamato a pronunciarsi sulle impugnazioni
dei provvedimenti di rigetto delle domande di protezione internazionale.
A tale proposito, l’art. 8 co. 3 del d.lgs. 25/08 istituisce un canale privilegiato, prevedendo che tali informazioni siano elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’ACNUR
e dal Ministero degli Affari Esteri; la Commissione nazionale cura, poi, che le informazioni così elaborate siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali e altresì fornite agli organi giurisdizionali. Si tratta però di un canale poco efficiente, poiché le richieste non vengono evase tempestivamente, quando non restano addirittura prive di risposta. Ci si avvale allora di fonti di informazioni alternative. Il giudice, infatti, molto spesso reperisce le informazioni utili ai fini della decisione dei ricorsi, utilizzando lo strumento telematico, vale a dire adoperando le informazioni reperibili su vari siti internet, dandone, poi, atto nella motivazione.
La conclusione, all’esito dell’esame dei principali nodi critici connessi alla celebrazione dei giudizi
relativi al riconoscimento della protezione internazionale è che si tratta di giudizi certamente deformalizzati, coerentemente con il modello processuale camerale, ma sicuramente non semplici,
quanto all’attività istruttoria richiesta e che, inoltre, per l’assenza di mezzi e competenze specifiche
a disposizione del giudice, raramente possono esaurirsi in un’unica udienza, con conseguente negazione del requisito di celerità nella definizione, richiesto dalla legge.
Ultimo argomento di rilievo processuale è quello afferente al patrocinio a spese dello Stato, normativa di grande rilevo in queste controversie, nelle quali le parti ricorrenti sono normalmente impossidenti e prive di reddito. In passato, infatti, tale materia aveva creato difficoltà legate alla valutazione delle norme applicabili, non essendovi alcuno specifico rinvio alla relativa disciplina. In particolare, era l’art. 119 del d.p.r. 30 maggio 2002 n. 115, a porre problemi di applicabilità della normativa alle controversie in oggetto, nella parte in cui equipara al cittadino, ai fini dell’estensione
del trattamento previsto dalle norme in esame, soltanto “lo straniero regolarmente soggiornante sul
territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare...”.
A oggi, la problematica risulta superata, poiché l’art. 16, co. 2, del d.lgs. 25/08, fa espresso rinvio
al d.p.r. 115/02 in materia di gratuito patrocinio, peraltro, confermando implicitamente, per le controversie instaurate prima del 2008, i dubbi di applicabilità esposti. In ogni caso, consegue che, almeno a oggi, anche per le controversie in materia di diritto di asilo, si applica la norma del t.u. sul
patrocinio a spese dello Stato nella sua interezza.
Ciò comporta, quindi, che anche l’art. 74 comma 2, possa trovare applicazione, con la conseguente ipotizzabilità che la pronuncia di rigetto del ricorso, ai sensi dell’art. 29 (casi di inammissibilità
e manifesta infondatezza), determini la revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio.
Passando a considerare le questioni comprese nella seconda area di interesse, volta a selezionare e
3
Cass. S.U. n. 27310/2008.
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possibilmente rintracciare criteri condivisi di giudizio nella diversa tipologia di decisioni, si osserva,
preliminarmente, che le norme del 2007 e 2008 offrono regole di giudizio molto dettagliate, in ordine alle nozioni fondamentali (atti di persecuzione, motivi di persecuzioni...), che certamente agevolano la selezione dei casi concreti. Tuttavia permangono difficoltà e criticità, in relazione alla valutazione delle situazioni di confine, sia tra le due diverse forme di protezione internazionale, sia
per le ipotesi nelle quali, respinta la domanda di protezione internazionale, si ritenga che possano
sussistere gravi e seri motivi di carattere umanitario, legittimanti la richiesta al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286, sia, infine, per quei casi concreti insuscettibili di alcuna forma di protezione internazionale.
Da questo punto di vista, le questioni più problematiche portate all’esame del Tribunale sono quelle di rilievo meramente locale o di costume, ma prospettate dal ricorrente come la causa determinante di una conflittualità caratterizzata dall’uso della violenza, nell’ambito del territorio, della tribù, del villaggio o della stessa famiglia, che porta, conseguentemente, il soggetto a fuggire dal Paese di origine.
Laddove le situazioni familiari prospettate dal richiedente attengano alla condizione della donna
ovvero del minore, ad esempio facendo riferimento ad usanze tribali che possano mettere in pericolo l’incolumità della persona o che comunque possano portare a una grave violazione della libertà matrimoniale e sessuale, soccorre, come norma generale, il disposto dell’art. 19 del d.lgs.
251/07 a norma del quale si deve tener conto della specifica situazione delle persone vulnerabili
– quali, fra le altre, minori, donne in stato di gravidanza, persone che hanno subito torture, stupri
o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale –, per ritenere integrati i presupposti
della protezione internazionale.
Disposizioni più specifiche, per tali ipotesi, si rinvengono nell’art. 7 lett. b) e f) d.lgs. n. 251/2007.
In tali casi diverso è il trattamento dell’ipotesi (più rara) in cui il ricorrente, anche attraverso elementi indiziari univoci, giunge a provare che, per motivi di costume o culturali contrari ai diritti
fondamentali di libertà sessuale o matrimoniale, egli sia concretamente oggetto di persecuzione nel
suo Paese, rispetto al caso nel quale il rischio di persecuzione ai suoi danni, ancorché concreto,
derivi esclusivamente dalla sua appartenenza a un genere o a una categoria. In tali ultime ipotesi
ci si interroga se ciò configuri un danno grave ai sensi dell’art. 14 per accordare la protezione sussidiaria ovvero se sia comunque una fattispecie tutelabile con lo status di rifugiato. Analoghe considerazioni valgono anche per il caso dei conflitti locali, la cui considerazione come motivo per il
riconoscimento della protezione internazionale deve essere accompagnata dalla prova che il richiedente non può sottrarvisi, trasferendosi in un’altra zona del Paese (arg. ex art. 8, comma 1 Dir. n.
2004/83/CE).
Quando però, anche attraverso le informazioni diffuse dalla stampa, risulta conclamata la violenza
e la frequenza degli scontri tra tribù e gruppi etnici (come, ad esempio nel Delta del Niger), la giurisprudenza di merito è incline a configurare tali situazioni, come quelle di violenza indiscriminata richiamate dall’art. 14, lett. C) del d.lgs. 251/07, quale presupposto necessario, quanto meno, ai
fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.
Altra questione è se, nelle ipotesi rientranti nel disposto di cui all’art. 7, lett. b) del d.lgs. 251/07,
quando lo straniero istante allega situazioni di detenzione che configurano una grave violazione
dei diritti umani fondamentali, ovvero che è stato sottoposto a processo senza l’assistenza di un
difensore, l’indagine debba spingersi al motivo della detenzione o del processo, al fine di accertare le eventuali fattispecie di esclusione della protezione internazionale (artt. 10 e 16 d.lgs. n.
251/2007).
È sufficientemente condivisa la posizione secondo cui, nel caso in cui lo straniero richiedente alleghi situazioni di natura familiare, attinenti ad esempio a controversie legate a questioni di natura ereditaria o a controversie per la definizione di confini con famiglie vicine, ci si trova al cospetto di un disagio non meritevole di protezione internazionale, nemmeno nella forma della protezione umanitaria di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/1998.
Allo stesso modo la fattispecie del cosiddetto rifugio economico, perseguito allo scopo di sottrarsi
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FOCUS
a una condizione di povertà e indigenza generalizzata, è esclusa dalla protezione internazionale e
umanitaria.
Resta, tuttavia, il problema dell’incerta delimitazione dell’area sussumibile nei “gravi motivi di carattere umanitario”. In primo luogo (e tanto più a seguito della Cass. S.U. n. 11535/09 che ha attribuito la competenza al giudice ordinario), ci si chiede se l’art. 32, comma 3 del d.lgs. n. 25/2008
(“Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario...”) attribuisca al giudice dell’impugnazione un analogo
potere officioso di valutazione residuale dei presupposti per il permesso di soggiorno per motivi
umanitari, anche in difetto di domanda. Quanto all’aspetto fondamentale, della selezione delle fattispecie meritevoli del permesso di soggiorno per motivi umanitari, si ritiene che si tratti di situazioni accomunate da condizioni di particolarità, legate alla persona del richiedente o al Paese di
provenienza.
Tra le pronunce più recenti della sezione si rileva una sentenza del Tribunale di Roma che ha riconosciuto la protezione umanitaria alla prostituta albanese che ha denunciato lo sfruttatore, testimoniando anche contro di lui, il quale, guardia del corpo di un potente uomo politico locale, presumibilmente potrà dare seguito alle minacce di ritorsione già espresse.
Anche i motivi di persecuzione sopravvenuti, che nell’art. 4 del d.lgs. n. 251/2007 sono valutati come suscettibili di protezione internazionale, allorché difettano del requisito di consequenzialità ivi
richiesto (“... quando sia accertato che le attività addotte costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni ed orientamenti già manifestati nel Paese di origine...”), potrebbero rilevare ai fini della protezione umanitaria: i casi di uomini di spettacolo o personaggi dello sport che si rifiutano di fare ritorno nel Paese di origine, nel quale erano pienamente integrati, successivamente a
trasferte all’estero della squadra o della rappresentazione.
Ulteriore questione critica attiene ai criteri di valutazione in ordine alla concessione della sospensione giudiziale del provvedimento impugnato, normalmente sospeso per effetto della proposizione del ricorso ai sensi dell’art. 35, comma 6.
Nei casi previsti dal comma 7 dell’art. 35 del d.lgs. 25/08, l’effetto sospensivo non si produce ex lege, ma solo a seguito di un provvedimento giurisdizionale, se ricorrono gravi e fondati motivi. In
ordine all’individuazione dei gravi e fondati motivi, si ritiene che questi debbano essere fatti coincidere, ancorché meramente delibati, con quegli stessi motivi che legittimerebbero la protezione
internazionale e umanitaria.
Tra i casi in cui non si produce automaticamente l’effetto sospensivo vi sono quelli in cui lo straniero richiedente è ospitato nei CARA (Centri accoglienza richiedenti asilo), a norma dell’art. 20,
co. 2, lett. B) e C), del d.lgs. 25/08, salvo che l’accoglienza in tali strutture sia determinata dal solo fine di accertare l’identità del soggetto, secondo quanto previsto dalla lett. A) dello stesso articolo, nel qual caso, invece, l’effetto sospensivo è automatico. Ora occorre rilevare una prassi delle Questure che indicano, quale motivazione della permanenza dei richiedenti protezione presso i
CARA, anche alternativamente, quella di cui alle lettere B) e C) sopra richiamate, mediante moduli privi di motivazioni concrete riferite al singolo richiedente. In questi casi, provvedendo sulla richiesta di sospensione, in assenza di prove concrete circa la sussistenza di condotte configuranti
le fattispecie genericamente e alternativamente invocate, la giurisprudenza tende a riconoscere la
configurabilità anche della ipotesi di cui alla lett. A), poiché si tratta sempre di persone sicuramente sprovviste di documenti di identità. In ogni caso, nel concorso delle lett. A), B) e C) si dà prevalenza alla prima ipotesi, dichiarando l’efficacia sospensiva del ricorso ex lege.
L’ultimo gruppo di questioni si riconduce ai limiti della giurisdizione del giudice ordinario e ai conseguenti poteri di intervento.
La più importante questione, riguarda il diniego da parte della Questura del rilascio del permesso
di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/98, nell’ipotesi in cui gli atti siano stati a questa trasmessi dalla Commissione territoriale in conformità al disposto dell’art. 32, co. 3, del d.lgs. n. 25/08.
L’interrogativo che si pone in questi casi è duplice: se sussista la giurisdizione del giudice ordinario in relazione all’impugnazione del diniego da parte del richiedente e quale sia la tipologia di de-
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cisione da adottare, ossia annullamento del diniego oppure ordine di rilasciare il permesso di soggiorno. Il dilemma, dopo la risoluzione affermativa data dalla Cassazione sulla scorta del d.lgs. n.
25/2008, riguarda le fattispecie di rifiuto precedenti al 2008 e alle motivazioni che riconoscono la
giurisdizione del giudice ordinario anche in questi casi.
Infine, l’ultima questione, posta sulla scorta di una prassi recentissima della Questura di Roma, riguarda la competenza in ordine all’impugnazione del decreto di espulsione, emesso in pendenza
del procedimento relativo alla domanda di emersione. Lo straniero richiedente la cosiddetta emersione ai sensi della l. n. 78/2009, revoca, all’atto della presentazione della domanda, la domanda
di protezione internazionale al fine di avere accesso alla procedura di emersione. Contestualmente, però, gli viene notificato il decreto di espulsione, in violazione della disciplina afferente la domanda di emersione, in base alla quale in pendenza di tale domanda non può farsi luogo a espulsione (art. 1 ter commi 8 e 13).
Si pone quindi il problema se sull’impugnazione di tale atto, la giurisdizione sia da attribuire al giudice amministrativo, trattandosi di atto illegittimo, oppure al giudice ordinario, per l’abnormità del
provvedimento attinente lo status dello straniero, adottato in carenza di potere.
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FOCUS
MINORI STRANIERI RIFUGIATI: IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO
Marco Grazioli
Avvocato del Foro di Roma
Valeria de Cesare
Avvocato del Foro di Roma
1. Premessa
Nel linguaggio comune si è soliti parlare indistintamente di minori stranieri, minori non accompagnati, minori rifugiati e, riguardo a tale ultima accezione, si fa normalmente riferimento sia ai minori che si sono visti riconoscere dalla Commissione lo status di rifugiato, sia quanti hanno semplicemente fatto richiesta in tal senso.
La commistione di tanti diversi termini se può servire nel linguaggio parlato a indicare genericamente i minori non italiani e, spesse volte, non comunitari presenti sul territorio nazionale, non
rende certamente giustizia al significato umano, prima ancora che giuridico, celato dietro ciascuna
storia di vita.
Le differenze non sono di poco conto e non posso essere ignorate.
Del resto, se è vero che per minori stranieri si intendono le persone minori d’età presenti sul territorio nazionale, senza cittadinanza italiana e neppure di un Paese comunitario, è vero pure che
non tutti i minori stranieri possono dirsi anche non accompagnati.
Per minori non accompagnati, infatti, devono intendersi tutti quei ragazzi, in qualsiasi modo giunti nel nostro Paese e di età inferiore ai diciotto anni, i quali siano sprovvisti dei genitori o di figure comunque titolari della potestà genitoriale nei loro confronti e che, pertanto, necessitano della
nomina di un tutore che ne curi i diritti e gli interessi sul territorio italiano.
Ancora diverso è il caso dei minori richiedenti asilo (e/o rifugio) e, ancora, di coloro che hanno ottenuto per provvedimento amministrativo o giudiziario lo status di rifugiato, che è la categoria di
cui trattiamo in questo contributo.
Il riconoscimento dello status di rifugiato in capo a un minore straniero è soggetto alla medesima
disciplina del riconoscimento di tale status in capo a un soggetto maggiore d’età e, tuttavia, inevitabilmente si arricchisce dei princìpi e delle norme volti alla tutela dei minori di cui sono costellati sia le leggi nazionali che il diritto comunitario e internazionale pattizio.
2. I requisiti per lo status
Le categorie giuridiche dello status di rifugiato e del diritto di asilo sono, seppure in qualche modo compenetrate, profondamente diverse e, ciononostante, anche nel linguaggio giuridico spesso
diviene difficile distinguere i contorni dell’una e dell’altra.
Rifugiato è colui che fugge dal proprio Paese a causa del fondato timore di subire persecuzioni o,
avendone già subite, di poter essere vittima di persecuzioni ulteriori per motivi attinenti alla sua
razza, religione, appartenenza a una determinata classe o gruppo sociale e, pertanto, non può farvi più ritorno, salvo radicali cambiamenti storico-sociali1.
1
La puntuale definizione di rifugiato è contenuta all’art. 1, Convenzione di Ginevra del 1951, a norma del quale il rifugiato è
“colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato
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L’immediata conseguenza su di un piano giuridico-procedurale è l’attivarsi nei suoi confronti del
principio internazionale del non refoulement (non respingimento), in base al quale vige il divieto
di respingere alla frontiera uno straniero che chieda di essere accolto, avanzando questa specifica
richiesta.
Da un punto di vista squisitamente concettuale, il rapporto status di rifugiato/diritto di asilo può essere definito un rapporto da species a genus2, volendosi intendere che il primo può certamente essere ricondotto al secondo, ma non assorbe per intero lo spettro delle ipotesi riconducibili all’asilo.
Lo status di rifugiato, infatti, ha una portata più limitata del diritto di asilo, potendosi riconoscere
solo in presenza di determinate condizioni soggettive in capo al richiedente, mentre il diritto di asilo richiama anche situazioni – potremmo dire – più vaste e generalizzate3.
La normativa in materia di status di rifugiato affonda le proprie radici nel diritto internazionale e
nel diritto comunitario, ai quali si deve il merito di aver sollecitato e provocato, con l’ausilio dell’intervento della giurisprudenza anche italiana, la produzione delle norme nazionali vigenti nel nostro Paese.
Invero, sino a qualche anno fa, in mancanza di puntuali interventi legislativi nazionali volti a dare
attuazione al riconoscimento di questo specifico “status”, le situazioni soggettive a esso riconducibili facevano ingresso nel nostro ordinamento esclusivamente attraverso la norma contenuta all’art.
10, 3° comma della nostra Costituzione4.
Se anche tale norma non fa riferimento esplicito allo status di rifugiato e al fondato timore, si riteneva che l’eccezionalità della situazione del richiedente rifugio rientrasse nell’alveo delle ipotesi richiamate dalla Costituzione e fosse, pertanto, meritevole di tutela nel nostro ordinamento5.
Ciò che assume rilevanza ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, come detto, è che il
soggetto avverta il fondato timore di subire persecuzioni o, avendone già subite, che queste si ripetano.
Per comprendere appieno il termine “persecuzioni” occorre partire dal combinato disposto degli
artt. 1 e 33, 1° comma6, della Convenzione di Ginevra: esse devono consistere in un “attentato grave alla libertà o all’integrità fisica del richiedente”.
Anche la Direttiva CE 2004/83, la quale trova fondamento nello stesso Trattato di Ginevra del 1951,
fornisce preziose indicazioni su cosa debba essere considerato come “persecuzione”: le azioni temute o subite devono essere intenzionali, continue o sistematiche e devono essere sufficientemente gravi; anche azioni discriminatorie, che singolarmente non sarebbero idonee a costituire persecuzione, se ripetute possono dar luogo ad una valida domanda per il riconoscimento dello status
di rifugiato per motivi cumulativi.
Inoltre, allo scopo di fornire una definizione, la più possibile puntuale, del termine “rifugiato”, la
gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo
timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui
aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. Invero, nel
corso degli anni, tale definizione si è arricchita in ragione di ulteriori situazioni soggettive esplicitamente ricondotte alle possibili ragioni di fondato timore di persecuzioni. In tal senso, la Direttiva 2003/9/CE, che aggiunge la violenza sessuale e altre forme
di violenza derivanti dall’appartenenza a uno dei due sessi; nonché la Direttiva 2004/83/CE, cosiddetta Direttiva qualifiche, che
all’art. 9 (Atti di persecuzione) e all’art. 10 (Motivi di persecuzione) amplia dettagliatamente il significato dei termini contenuti all’art. 1 della Convenzione di Ginevra.
2 In tal senso, Cons. di Stato, sez. IV, 11 luglio 2002, n. 3874.
3
A tal proposito basti pensare alla definizione generica che del diritto d’asilo offre la nostra Carta Costituzionale, a norma della quale ha il diritto di chiedere asilo in Italia lo straniero “al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (art. 10, 3° comma).
4 La norma costituzionale in questione recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
5 In tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 8048.
6
L’art. 33, rubricato “Divieto di espulsione e di rinvio al confine”, al suo 1° comma recita: “1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue
opinioni politiche”.
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stessa Direttiva CE, dopo aver ribadito il primato dell’art. 1 della Convenzione internazionale del
1951, ne traccia un profilo oggettivo e uno soggettivo, inscindibili l’uno dall’altro nella valutazione
della singola richiesta di riconoscimento.
Dal punto di vista soggettivo, in base a quanto riportato dalla Direttiva, occorre valutare il timore
di essere perseguitato del soggetto richiedente in considerazione della situazione individuale e delle circostanze personali del soggetto stesso.
Dal punto di vista oggettivo, invece, a venire in rilievo è la fondatezza di quel timore di persecuzioni, da desumersi attraverso un’indagine accurata, la quale potrà e dovrà tener conto di tutti gli
elementi forniti a supporto della richiesta.
Il timore, infatti, indica che la persona crede o prevede di essere soggetta a persecuzioni; la fondatezza, invece, richiede vi siano quantomeno “buone ragioni” alla base di quel timore7.
È, pertanto, evidente la rilevanza della “componente psicologica” afferente la condizione del richiedente rifugio; proprio a tal proposito sono intervenuti i principali organismi internazionali e nazionali competenti in materia, i quali hanno a più riprese ricostruito i presupposti e il contenuto di tale singolare e delicata condizione personale, fornendo importanti elementi necessari a poter effettuare una valutazione delle richieste, il più possibile congruente ed equa, da parte dei diversi organi giudicanti di volta in volta chiamati a decidere8.
Sulla scorta di tali interventi, nel 2005 la Commissione nazionale per il Diritto di Asilo, di concerto con il Ministero degli Interni, ha emanato le “Linee Guida per la valutazione delle richieste di
riconoscimento dello status di rifugiato”, volte a puntualizzare i criteri in base ai quali si debbano
considerare la fondatezza del timore di persecuzioni, le circostanze soggettive del richiedente, nonché i parametri cui fare riferimento in relazione al Paese d’origine9.
In caso di rigetto da parte della Commissione territoriale competente della richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, il richiedente può peraltro ricorrere in sede giudiziale al fine di far
modificare il provvedimento.
In passato, la materia dello status di rifugiato veniva considerata materia amministrativa e, dunque, di competenza esclusiva dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato10.
7
A tal proposito può essere significativo sottolineare che la Direttiva CE in esame stabilisce addirittura che “è irrilevante che il
richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni” (art. 10, 2° comma).
8 A tal proposito rileva senza dubbio quanto evidenziato dall’UNHCR, nel paragrafo 43 del manuale sulle “Procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato”, in base al quale il timore di persecuzioni in capo al richiedente ben può derivare dalla circostanza che lo stesso abbia visto perseguitare, e magari uccidere, parenti, amici o persone del proprio gruppo sociale e/o razziale. Ancora, circa la condizione psicologica del richiedente rifugio, la “Posizione dell’UNHCR sulla richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951, relativa allo status dei rifugiati motivato da un timore di persecuzioni per ragioni legate all’appartenenza di un individuo in questione ad una famiglia o ad un clan coinvolti in una faida”, stilata il 17 marzo 2006, specifica ulteriormente quanto già stabilito nel manuale sopra richiamato attraverso la puntualizzazione di altre possibili e concrete situazioni di fatto, nelle quali il timore di subire persecuzioni può e deve riconoscersi come fondato. Vi si
legge, innanzitutto, che nel contesto specifico delle faide “... è anche necessario tenere presente il contesto culturale della faida, nel
quale le minacce sono interminabili” (paragrafo 5) e si sottolinea che “... il nesso causale... può venire stabilito o attraverso la motivazione dei perpetratori del danno oppure dalla mancanza discriminatoria di protezione statale...” e che “... è sufficiente che una
delle ragioni indicate dalla Convenzione rappresenti un fattore rilevante ai fini della persecuzione perpetrata. Non è necessario che
costituisca l’unica causa o la principale” (paragrafo 13). Dopo tali premesse, l’UNHCR dichiara che “In caso di faide, un individuo
non viene attaccato indiscriminatamente, ma diviene bersaglio in quanto membro di una determinata famiglia e sulla base di un
codice consolidato nel tempo... gli individui che temono di essere perseguitati nell’ambito di una faida non diventano bersaglio a
causa delle loro azioni, ma a causa di responsabilità attribuite ai loro familiari (vivi o morti che siano)” (paragrafo 14).
9 In base a quanto ivi stabilito, occorre che la valutazione della fondatezza del timore di persecuzioni venga compiuta attraverso la considerazione delle “circostanze personali del richiedente, come anche di tutti gli elementi riguardanti il Paese d’origine” (p. 55). La Commissione, inoltre, specifica dapprima in cosa constano le circostanze personali del richiedente, includendovi
“il suo passato, le esperienze, la personalità ed ogni altro fattore personale che potrebbe esporlo a persecuzione” (p. 55). Successivamente, elenca cosa, invece, debba essere tenuto in considerazione rispetto agli elementi di fatto riguardanti il suo Paese d’origine. Questi ultimi, si legge nel documento, includono “anche la situazione sociale generale, nonché le condizioni economiche,
la situazioni dei diritti umani la legislazione del Paese, le politiche e le pratiche degli agenti di persecuzione, in particolare verso
le persone nelle stesse condizioni del richiedente” (p. 55).
10 L’art. 5 del decreto legge n. 416/89 prevedeva infatti espressamente la giurisdizione del giudice amministrativo avverso i provvedimenti di diniego di riconoscimento. Tale norma veniva dapprima abrogata dall’art. 46 della legge n. 40 del 1998 e, successivamente, l’abrogazione veniva confermata dall’art. 47 del testo unico sull’immigrazione.
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Oggi, invece, i ricorsi avverso le decisioni della Commissione per il riconoscimento dello status di
rifugiato sono divenuti materia di competenza esclusiva del giudice civile, a seguito dell’intervenuta abrogazione della norma che ne stabiliva la competenza al giudice amministrativo, dell’autorevole giurisprudenza espressasi sul punto, nonché del risolutivo intervento del legislatore nel 200211.
Va da sé che ogni qual volta il richiedente rifugio sia un minore (accompagnato o non accompagnato) la valutazione dovrà, a maggior ragione, tener conto della particolare condizione psico-fisica, anche attraverso l’esame di parametri legati all’età, alla percezione della realtà e alla maturità
del minore richiedente.
3. I richiedenti in età minorile
Come detto, accanto alla normativa generale in materia di rifugiati, laddove il richiedente non abbia ancora raggiunto la maggiore età, viene in rilevo il copioso impianto giuridico nazionale e sovranazionale costruito intorno alla tutela dei minori.
La prima norma in tal senso rilevante è l’art. 22 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, in base alla quale gli Stati aderenti al Trattato si impegnano a garantire ai minori
che richiedano lo stato di rifugiato la protezione necessaria a far sì che possano godere di tutti i diritti riconosciuti ai minori dalla Convenzione, nonché a collaborare con le organizzazioni internazionali competenti nella ricerca dei familiari dei minori rifugiati per consentirne il ricongiungimento con essi. In mancanza di tale ultima possibilità, dovrà essere comunque garantita la protezione
offerta a qualunque altro fanciullo12.
È naturale che l’attenzione rivolta ai minori richiedenti rifugio o dichiarati rifugiati diventi ancor più
stringente – e la necessità di tutela si manifesti con maggior forza – nel caso in cui i minori stranieri siano anche non accompagnati, dunque privi di figure di riferimento responsabili, investite
della loro cura e protezione.
Ciò può ricavarsi, in primis, dall’analisi comparata di altre norme della Convenzione di New York,
le quali possono tutte ricondursi a quella garanzia di protezione richiamata dal citato art. 22: garantire nella più ampia misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo (art. 6, 2° comma); assicurare che il fanciullo possa godere del diritto di esprimersi liberamente, dando alle opinioni dello stesso il giusto peso in relazione alla sua età e al suo grado di maturità (art. 12, 1° comma); rispettare il diritto del fanciullo alla sua libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 14, 1°
comma); adottare ogni misura appropriata di natura legislativa, amministrativa, sociale ed educati-
11 All’alba dell’entrata in vigore del t.u. imm. nel 1998 e della citata conferma di abrogazione della norma sulla competenza amministrativa in materia di provvedimenti della Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato, sorgeva infatti contrasto tra la Suprema Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato. La Cassazione (SS. UU. del 17 dicembre 1999, n. 907) si era pronunciata nel senso di dover considerare quale diritto soggettivo lo status di rifugiato, facendone discendere in tal modo la competenza in capo al Tribunale Ordinario. Il Consiglio di Stato (Cons. di Stato, sez. IV, 29 agosto 2002, n. 4336), invece, richiamando la natura discrezionale del potere da parte dell’amministrazione nell’apprezzamento dei fatti e della loro rilevanza per il riconoscimento dello status di rifugiato, sosteneva la perdurante competenza del giudice amministrativo in materia. Il contrasto veniva definitivamente risolto dal legislatore con l’art. 32 della legge n. 189/2002, a norma del quale i ricorsi avverso gli atti della Commissione territoriale competente per il riconoscimento dello status di rifugiato, sono presentati al Tribunale in composizione monocratica territorialmente competente.
12 Testualmente, l’art. 22 della Convenzione di New York del 1989 recita: “Gli Stati Parti adottano misure adeguate affinché un
fanciullo, il quale cerca di ottenere lo statuto di rifugiato [...] solo o accompagnato dal padre e dalla madre o da ogni altra persona, possa beneficiare della protezione e della assistenza umanitaria necessarie per consentirgli di usufruire dei diritti che gli sono
riconosciuti dalla presente Convenzione e dagli altri strumenti internazionali relativi ai diritti dell'uomo o di natura umanitaria
di cui detti stati sono parti. A tal fine, gli Stati Parti collaborano, a seconda di come lo giudichino necessario, a tutti gli sforzi compiuti dall'organizzazione delle Nazioni Unite e le altre organizzazioni intergovernative o non governative competenti che collaborano con l'organizzazione delle Nazioni Unite, per proteggere ed aiutare i fanciulli che si trovano in tale situazione e per ricercare i genitori o altri familiari di ogni fanciullo rifugiato al fine di ottenere le informazioni necessarie per ricongiungerlo alla sua
famiglia. Se il padre, la madre o ogni altro familiare sono irreperibili, al fanciullo sarà concessa, secondo i principi enunciati nella presente Convenzione, la stessa protezione di quella di ogni altro fanciullo definitivamente oppure temporaneamente privato del
suo ambiente familiare per qualunque motivo”.
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va per proteggere il fanciullo contro qualsiasi forma di violenza, danno o brutalità fisica o mentale, abbandono o negligenza (art. 19, 1° comma, prima parte) e, ancor più, riconoscere il diritto di
ogni fanciullo a un livello di vita atto a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale
e sociale (art. 27, 1° comma).
Non ultimo, poi, l’art. 30, il quale puntualizza che “Negli Stati parti in cui esistano minoranze etniche religiose o linguistiche o persone di origine autoctona, il fanciullo che appartenga ad una di queste minoranze o che sia autoctono, non deve essere privato del diritto di avere la propria vita culturale, di professare o praticare la religione o di avvalersi della propria lingua in comune con gli altri
membri del suo gruppo”.
Anche la Convenzione europea su “L’esercizio dei diritti del fanciullo” di Strasburgo del 1996, come
noto, riconosce il diritto del minore, almeno dai dodici anni in poi, di ricevere ogni informazione
pertinente, di essere consultato ed esprimere la propria opinione, di essere informato delle eventuali conseguenze di tale opinione, come anche di essere informato circa ogni decisione che lo riguardi, sia nei provvedimenti dinanzi all’autorità giudiziaria che in quelli dinanzi ad altri organi13.
L’UNHCR nelle “Linee guida sulle policy e le procedure in materia di minori richiedenti asilo”, stilate nel febbraio del 1997, ha voluto operare uno specifico riferimento ai minori richiedenti rifugio
non accompagnati, dando indicazioni che nelle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato venga applicato il criterio dell’esistenza di un “fondato timore” e si presuma che una persona di
sedici o più anni abbia una maturità sufficiente per provare un fondato timore di persecuzione.
Immediatamente dopo tali assunti, il documento specifica ulteriormente che la maturità di un minore deve normalmente essere valutata tenendo conto dei fattori personali, familiari e culturali inerenti il caso.
Nel caso di minori stranieri migranti e non accompagnati, spesso sono proprio i familiari ad adoperarsi affinché i ragazzi lascino il proprio Paese, nella speranza di dar loro una reale possibilità di
salvezza.
Specie in tali circostanze, pertanto, il minore non può non percepire e fare proprio anche il timore manifestato dai propri genitori e familiari circa le condizioni di pericolo in cui vivrebbe se rimanesse o fosse rimpatriato nel suo Paese d’origine, come peraltro ribadito anche al Paragrafo 21814
del manuale sulle “Procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato” dell’UNHCR.
4. Il quadro normativo interno
In Italia, l’attenzione per la protezione dei minori stranieri richiedenti rifugio – e tra questi in particolare quelli non accompagnati – può ravvisarsi nella legislazione di attuazione delle direttive comunitarie, nella produzione di direttive e circolari ministeriali, nonché nelle pronunce giurisprudenziali attraverso le quali si sono negli anni disegnati – e tuttora si stanno disegnando – i contorni giuridici di tale tutela.
Sono stati istituiti specifici Centri di accoglienza alle frontiere per i richiedenti asilo, con speciali
misure di intervento e tutela in presenza di richieste presentate da minorenni.
Nel testo unico sull’immigrazione – d.lgs. 286/98 e successive modifiche – l’art. 10 dà piena efficacia al principio di non refoulement escludendo dalle ipotesi di respingimento i soggetti richiedenti asilo politico [e rifugio, ndr], mentre l’art. 11, comma 5°, prevede l’istituzione di servizi di accoglienza “ad hoc”. Tale ultima norma, peraltro, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 140 del
2005, attuativo della Direttiva CE 2003/9, è stata affiancata dall’art. 8, commi 3 e 4 di tale decreto,
13 Cfr. artt. 3 e 11, Convenzione europea su “L’esercizio dei diritti del fanciullo” di Strasburgo del 1996.
14 Nel paragrafo 218 del manuale sulle “Procedure e sui Criteri per la Determinazione dello status di rifugiato” dell’UNHCR si
legge: “Se vi è motivo di ritenere che i genitori desiderano che il loro bambino viva fuori del Paese di origine, perché temono a ragione che possa essere perseguitato, si può presumere che il bambino stesso condivida questa paura”.
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in base al quale sono stati attivati interventi mirati di accoglienza per i richiedenti asilo con particolari esigenze, nonché speciali programmi di protezione per i minori stranieri non accompagnati
richiedenti rifugio.
Significativa, poi, è la procedura istituzionale prevista dall’art. 2, comma 5, del d.p.r. n. 303/200415,
per il caso di richiesta di asilo e rifugio da parte di minore non accompagnato: in tali casi, infatti,
è prevista la sospensione della domanda ai fini dell’attivazione del procedimento volto alla nomina di un tutore pubblico per il minore, vietando al contempo il trattenimento dei soggetti non ancora maggiorenni presso i centri di identificazione o di permanenza temporanea previsti per gli
adulti, in favore di un percorso di protezione e assistenza presso centri di prima accoglienza e comunità ad hoc.
In attuazione della Direttiva CE 2004/86/CE recante “Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di
paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”, il d.lgs. 251/2007
prevede, agli artt. 26 e 28, il diritto all’istruzione per i minori rifugiati alla pari dei minori di cittadinanza italiana, nonché al ricongiungimento, se possibile, presso propri familiari o, se non accompagnati, all’inserimento presso comunità per minori accreditate, richiamando al contempo quanto
previsto circa la cooperazione tra i diversi organismi competenti per la ricerca dei familiari dei minori stranieri non accompagnati e riconosciuti rifugiati.
In data 3 marzo 2007, inoltre, il Ministero dell’Interno d’intesa con il Ministero della Giustizia ha
emanato la Direttiva su “I minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo”, volta a favorire l’inserimento dei minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo e rifugio, subito dopo la presa in
carico da parte del Giudice Tutelare, nel Sistema Nazionale di Protezione per Richiedenti Asilo
(PNA)16 e non, come invece accaduto sino a quel momento, presso una qualsiasi struttura disponibile sul territorio sino al successivo (tardivo) inserimento nel PNA.
Peraltro, nella stessa Direttiva è posto l’accento anche sulla necessità che il minore straniero venga informato della possibilità di chiedere asilo e rifugio17.
Inoltre, in attuazione della Direttiva 2005/85/CE recante “Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”, il d.lgs. n.
25 del 28 gennaio 2008 e successive modifiche ha previsto una serie di norme specifiche per i minori stranieri richiedenti, al fine di regolarne l’accesso alla presentazione delle domande e al colloquio dinanzi alla Commissione territoriale competente.
Al riguardo, particolare attenzione va prestata al possibile accertamento dell’età in capo al (sedicente) minore richiedente asilo.
Il decreto legislativo del 2008, come noto, rappresenta la summa non soltanto delle normative comunitarie e internazionali, ma anche delle varie direttive e circolari ministeriali che negli ultimi anni erano state emanate a diversi livelli e con un ritmo a volte incalzante.
15 Il d.p.r. n. 303/2004, “Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato”, infatti, all’art. 2,
comma 5, prevede: “5. Qualora la richiesta di asilo sia presentata da un minore non accompagnato, l’autorità che la riceve sospende il procedimento, dà immediata comunicazione della richiesta al Tribunale per i minorenni territorialmente competente ai
fini dell’adozione dei provvedimenti di cui agli articoli 346 e seguenti del codice civile, nonché di quelli relativi all’accoglienza del
minore e informa il Comitato per i minori stranieri presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il tutore, così nominato,
conferma la domanda di asilo e prende immediato contatto con la competente questura per la riattivazione del procedimento. In
attesa della nomina del tutore, l’assistenza e accoglienza del minore sono assicurate dalla pubblica autorità del Comune ove si
trova. I minori non accompagnati non possono in alcun caso essere trattenuti presso i centri di identificazione o di permanenza
temporanea”.
16 Il Programma Nazionale Asilo (PNA) – istituito nel luglio 2001 dal Ministero dell’Interno, dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e dall’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI) – ha lo scopo precipuo di fornire un’adeguata risposta di assistenza e protezione ai richiedenti asilo e ai rifugiati giunti nel nostro Paese. Può essere considerata la base
del sistema pubblico di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, grazie anche a una rete di progetti territoriali di accoglienza
gestiti da enti locali e del terzo settore coordinati da una Segreteria centrale.
17 L’art. 1 della Direttiva citata, infatti, prevede che al suo arrivo il minore straniero sia messo a conoscenza della possibilità “...
di richiedere asilo...” e invitato “... ad esprimere la propria opinione al riguardo” e a tal fine, prosegue la norma, occorre sia garantita “... l’assistenza di un mediatore culturale o di un interprete che parli la sua lingua d’origine o quella da lui conosciuta”.
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FOCUS
L’art. 19 del decreto in esame prevede disposizioni particolari per i minori non accompagnati, ribadendo la necessità della nomina di un tutore pubblico che affianchi il minore anche per tutta la
durata della procedura dinanzi alla Commissione, prevedendo, se del caso, il rispetto del diritto alla difesa anche nell’eventuale fase giudiziale18. Inoltre, circa la possibilità di sottoporre il minore a
esami non invasivi per il rilevamento dell’età anagrafica, viene stabilita la necessità che lo stesso
ne venga tempestivamente informato, anche al fine di raccogliere il suo consenso, puntualizzando
che un eventuale rifiuto di sottoporsi all’esame non potrà essere ostativo al rigetto della domanda.
Il successivo art. 26, inoltre, conferma la volontà del legislatore di riunire in un unicum le disposizioni promulgate in passato in materia, riprendendo quasi pedissequamente quanto previsto dall’art. 2, comma 5, del d.p.r. 303/2004, circa l’attivazione della tutela pubblica e del divieto di trattenimento presso i centri di trattenimento per adulti.
In materia, poi, di ricerca dei propri parenti ed eventuale ricongiungimento del minore rifugiato
con i familiari, il d.lgs. n. 5 del 2007, in attuazione della Direttiva CE 2003/86, ha previsto l’inserimento nel t.u. sull’immigrazione di una disposizione aggiuntiva: l’art 29 bis, il quale, posto immediatamente dopo la pur novellata norma sul ricongiungimento familiare tout court, detta lo speciale regime per il ricongiungimento familiare dei rifugiati.
La norma precisa che la procedura per ricongiungere un proprio familiare da parte di soggetto riconosciuto rifugiato segue lo stesso iter amministrativo di ogni altro straniero regolarmente soggiornante. Tuttavia il rifugiato, ai fini dell’ottenimento del nulla osta al ricongiungimento, non dovrà provare né i requisiti di reddito, né quelli di carattere igienico-sanitario e di idoneità alloggiativa. È poi previsto un regime probatorio “agevolato” rispetto all’accertamento della parentela con
il familiare che si chiede di ricongiungere. Inoltre, laddove il richiedente sia un minore di diciotto
anni, è consentito l’ingresso e il soggiorno anche degli ascendenti diretti di primo grado, senza le
limitazioni previste dall’art. 29 nel caso di ricongiungimento con i genitori.
5. Riflessioni
Questo breve excursus normativo consente di affermare che nel nostro ordinamento si sta cercando, almeno su un piano formale, di rendere la tutela dei minori stranieri richiedenti asilo e rifugio
il più possibile rispondente ai princìpi internazionali e comunitari.
L’assunto appare ancor più importante laddove si rifletta sulla circostanza che negli ultimi anni il
fenomeno migratorio minorile è andato aumentando in misura esponenziale e che, pertanto, sono
sempre di più i minori stranieri non accompagnati che giungono nel nostro Paese e chiedono asilo e rifugio.
Basti pensare, a tal proposito, che nel triennio 2006-2008 le variazioni annuali di richieste di asilo
e rifugio da parte di minori non accompagnati sono state del 250%19, con un forte aumento d’incidenza percentuale sul totale dei minori stranieri presi in carico20 e notevole aggravio di lavoro delle Commissioni territoriali di tutto il Paese.
Il dato, in ogni caso, non può – o non dovrebbe – stupire alla luce dei cruenti conflitti mondiali
in corso, specie in Africa e Asia Minore, che costringono centinaia di bambini e ragazzi a fuggire
a causa dei gravi pericoli di torture e abusi, spesse volte aiutati proprio dai loro genitori angosciati e spaventati.
18 Il minore straniero, accompagnato o meno, cui venga rigettata dalla competente Commissione la richiesta di status di rifugiato, ha infatti il diritto di ricorrere all’Autorità giudiziaria competente per il territorio. Naturalmente, se il minore è accompagnato
dovrà farlo per il tramite dei propri genitori o del parente che ne ha la tutela; se, invece, è non accompagnato sarà onere del tutore pubblico nominato dal Giudice Tutelare ad adoperarsi al fine di ottenere le necessarie autorizzazioni a ricorrere.
19 Così, in Dipartimento Immigrazione ANCI, Minori stranieri non accompagnati. Terzo Rapporto ANCI 2009, 105-106, pubblicato a marzo 2010. Il documento è scaricabile all’indirizzo http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/rapporto_anci_2009
20 Cfr. ibidem, nota 14.
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AIAF RIVISTA 2010/2 • maggio-agosto 2010
Non è un caso, del resto, che i maggiori Paesi di provenienza siano la Nigeria, la Somalia, l’Eritrea,
l’Afghanistan e la Costa d’Avorio.
Tuttavia, a fronte del significativo aumento registrato circa le richieste di asilo e rifugio da parte di
minori stranieri non accompagnati, non può non rilevarsi che l’impegno del legislatore non sempre riesce a tradursi in una concreta attuazione dell’impianto normativo di riferimento, dovendosi
piuttosto riscontrare, nelle prassi di ogni giorno, non poche incongruenze a vari livelli nell’operato degli addetti ai lavori.
I dati che si registrano in proposito possono apparire preoccupanti nell’ottica delle garanzie di tutela e protezione tanto declamate a livello sovranazionale. Nei confronti dei minori “più soli” presenti sul nostro territorio.
Nel 2° Rapporto Supplementare del Gruppo CRC21, vengono riportati diversi casi di minori richiedenti asilo respinti alla frontiera22, oltre a grandi difficoltà sul territorio italiano a far accedere i minori alla procedura d’asilo.
Si tratta di segnalazioni molto gravi operate da diverse organizzazioni di settore le quali hanno fornito informazioni, anche di recente, al Ministero dell’Interno sia rispetto alla carenza di personale
preparato all’accoglienze di minori stranieri che rispetto alla mancata garanzia del beneficio del dubbio e alla sommarietà delle visite mediche per gli accertamenti anagrafici; nonché rispetto al rischio
di mancata garanzia di attivazione della procedura, a fronte di richieste verbali di protezione presentate alle nostre frontiere da ragazzi pur giunti in condizioni ai limiti dell’umana sopravvivenza.
In alcuni casi, le aberranti conseguenze sono state anche quelle di espellere presunti minorenni,
in seguito accertati come tali23.
Le criticità sono ancora molte, anche perché princìpi ormai universalmente riconosciuti almeno sulla carta non riescono spesso a trovare la debita applicazione nelle singole situazioni a causa di evidenti limiti strutturali e, a volte, culturali riscontrati ai diversi livelli istituzionali.
21 Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in
Italia. 2° Rapporto Supplementare alle Nazioni Unite sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’ infanzia e dell’adolescenza in Italia, Roma, settembre 2009.
22 È il caso di minori afgani richiedenti asilo che, all’inizio del 2009, come riportato dai mezzi di informazione, sono stati respinti alle frontiere dei porti italiani per essere rimandati in Grecia, dove peraltro avvengono conclamate e notorie violazioni dei
più elementari diritti umani anche nei confronti dei minori.
23 Cfr. Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, I diritti dell’infanzia cit., cap VIII “Misure speciali per la tutela dei minori”, 149-150.
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FOCUS
IL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO NEI PROCEDIMENTI DI RICHIESTA
DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Giuseppina Menicucci
Avvocato del Foro di Roma
Chiara Lisanti
Avvocato del Foro di Roma
Il nostro ordinamento giuridico riconosce il diritto di difesa, alla stregua delle numerose convenzioni sui diritti dell’uomo, meritevole di essere tutelato a prescindere dalla nazionalità del soggetto che
intende esercitarlo. La nostra Costituzione dedica a questo tema l’art. 24 che con chiarezza stabilisce: “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è un
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.
Proprio a garanzia di tale fondamentale diritto la legge italiana ha istituito il patrocinio a spese dello Stato che consente alle persone che non hanno adeguate risorse economiche di usufruire dell’assistenza legale, ponendo a carico dello Stato il pagamento delle relative spese legali e processuali,
così come liquidate dal giudice al termine del processo. L’istituto del gratuito patrocinio è attualmente disciplinato dal d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, ovvero dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia1.
L’ambito di applicazione dell’istituto si estende alle cause civili, penali, amministrative, contabili, tributarie; agli affari di volontaria giurisdizione, quali la separazione personale, l’affidamento dei figli,
i provvedimenti in materia di regolamentazione della potestà genitoriale, le cause relative alla fase
dell’esecuzione; ai processi relativi all’applicazione di misure di sicurezza, di prevenzione e nei procedimenti di competenza del Tribunale di sorveglianza.
Per quanto attiene, invece, al limite reddituale previsto al momento per l’ammissione al gratuito
patrocinio, la legge stabilisce che, per beneficiarne, l’interessato non debba disporre di un reddito
superiore a Euro 10.628,16 (considerato il reddito imponibile Irpef risultante dall’ultima dichiarazione)2.
Relativamente alle categorie di soggetti che possono accedere al trattamento, la legge assicura tale
diritto non soltanto ai cittadini italiani, ma anche ai cittadini comunitari e alle persone provenienti
da Paesi extra UE, nonché agli apolidi3.
È importante, per il tema che ci interessa, riportare quanto stabilisce l’art. 119 del sopra citato d.p.r.
115/2002 che dispone “Il trattamento previsto per il cittadino italiano è assicurato, altresì, allo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del
1
Lazzaro, Di Marzio, Le spese nel processo civile, Milano, 2010; Spinzo, Palombari, Manuale pratico a spese dello Stato, Santarcangelo di Romagna, 2009.
2 Decreto del Ministero della Giustizia del 20 gennaio 2009, in Gazzetta Ufficiale, 27 marzo 2009, n. 72.
3
Algostino, Il diritto di difesa dello straniero non abbiente: una legislazione incerta ed inadeguata rispetto ai nuovi flussi migratori, in Giurisprudenza italiana, I, 1996; Potetti, L. n. 134 del 2001: patrocinio a spese dello Stato a favore dello straniero, in
Cass. pen. 2002, n. 154; Potetti, Lo straniero e l’apolide nella L. n. 217 del 1990, in Cass. pen. 2000, n. 11; Pizzicati, Alpa, Gazzola, Vademecum in materia di patrocinio a spese dello Stato a cura della Commissione per il patrocinio a spese dello Stato, Forlì,
2009.
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fatto oggetto del processo da instaurare e all’apolide, nonché ad enti o associazioni che non perseguono scopi di lucro e non esercitano attività economica”4.
Di recente la normativa introdotta in attuazione della Direttiva comunitaria 2005/85 sulle procedure
di asilo, ovvero il d.lgs. n. 25 del 28 gennaio 2008, ha regolamentato espressamente le ipotesi di applicazione dell’istituto in questione. All’art. 16, infatti, il decreto recita: “Il cittadino straniero può farsi assistere, a proprie spese, da un avvocato. Nel caso di impugnazione delle decisioni in sede giurisdizionale, il cittadino straniero è assistito da un avvocato ed è ammesso al gratuito patrocinio ove
ricorrano le condizioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.
Tale previsione va senza dubbio interpretata alla luce di quanto già stabilito da carte e convenzioni di carattere internazionale in materia di diritto alla difesa e alla difesa gratuita.
In particolare si richiama la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con legge n. 848 del 4 agosto 1955) che all’art. 6, comma 3, lettera c) dispone che “ogni accusato ha diritto di difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un
difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia”.
Anche l’art. 14, comma 3, lettera d) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (reso
esecutivo in Italia con legge n. 881 del 25 ottobre 1977) stabilisce ugualmente il diritto dell’imputato ad avere assegnato per legge un difensore d’ufficio gratuitamente, qualora non disponga di mezzi sufficienti per remunerarlo personalmente.
Dall’esame della normativa comunitaria e italiana appare, pertanto, pacifico il tenore costituzionale
del diritto alla difesa e di conseguenza prioritaria la previsione di strumenti utili al suo reale ed effettivo esercizio. Va da sé che l’effettività del riconoscimento allo straniero del diritto alla tutela giurisdizionale dipende in buona parte dalla disciplina sul gratuito patrocinio.
Tale principio, se già ampiamente riconosciuto su un piano teorico, in realtà necessiterebbe di una
maggiore tutela proprio in quei casi in cui risultano gravemente compromessi i diritti fondamentali
delle persone straniere, quale il diritto alla salvaguardia della propria vita e incolumità fisica, ovvero ricorrano situazioni di grave pericolo e minaccia alla persona umana.
Tali condizioni di rischio interessano, per lo più, gli stranieri richiedenti asilo e protezione umanitaria, una categoria particolare di individui per i quali il nostro ordinamento prevede un espresso divieto di espulsione in quanto persone “che possono essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche di condizioni personali e sociali” (art. 19
d.lgs. n. 286 del 1998) e, per tali ragioni, soggetti particolarmente a rischio se non specificamente
tutelati5.
L’attuale quadro normativo italiano contempla diverse misure di protezione internazionale, anche su
espressa previsione comunitaria, nei riguardi di tale tipologia di persone.
I richiedenti protezione internazionale, infatti, anche se in precedenza destinatari di un provvedimento di espulsione o di respingimento, costituiscono una categoria protetta di immigrati, anche ai
fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato6.
Ciò si evince chiaramente dal testo dell’art. 16 del d.lgs. n. 25 del 2008, che oggi riconosce al richiedente protezione internazionale uno status legale di soggiorno e attribuisce espressamente allo stesso, qualora abbia ricevuto un diniego, l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che lo straniero deve richiedere secondo modalità specifiche, anche in deroga alle disposizioni generali contenute nel d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115.
L’art. 26, comma 4, del d.lgs. n. 25 del 28 gennaio 2008 prevede innanzitutto che “Il Questore, nei
4
Così anche il d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 e l’art. 16, co. 1, l. 91/1992 che dispone “l’apolide che risiede legalmente nel territorio della Repubblica è soggetto alla legge italiana per quanto si riferisce all’esercizio dei diritti civili ed agli obblighi del servizio militare”.
5 Zanrosso, Diritto dell’immigrazione, Napoli, 2008
6
D’Ascia, Diritto degli stranieri e immigrazione, Milano, 2009.
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FOCUS
casi di trattenimento o di accoglienza rilascia l’attestato nominativo che certifica la qualità di richiedente protezione internazionale, ovvero negli altri casi un permesso di soggiorno valido per tre mesi rinnovabile”.
Detta normativa consente ai richiedenti asilo di non sottostare ai medesimi requisiti formali previsti
per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per i cittadini e per gli stranieri regolarmente residenti con un diverso titolo di soggiorno, in particolare possono derogare alle disposizioni sulla
produzione della documentazione necessaria ad accertare la veridicità di quanto indicato dal richiedente ai fini dell’ammissione all’istituto, almeno fino a quando non si è definita la procedura e la
successiva fase dei ricorsi giurisdizionali.
Tale deroga muove dalla constatazione che il rigore procedurale nel pretendere l’esibizione di una
certificazione dettagliata da parte del rifugiato costringerebbe lo stesso a rivolgersi alle autorità diplomatiche o consolari del Paese di origine da cui è fuggito per cause gravi, ostacolando di fatto il
suo diritto di difesa.
Il richiedente di regola motiva la stessa istanza di protezione internazionale sulla base di una grave
e comprovata sfiducia, e il più delle volte un vero e proprio timore, verso le autorità del proprio
Paese di origine, a causa del quale lo straniero avrebbe grandi e giustificate difficoltà a contattarle
ai fini della produzione documentale. Spesso, infatti, sono proprio le istituzioni di provenienza a impedire allo straniero l’esercizio delle libertà democratiche per le quali il richiedente invoca la tutela
e la protezione del Paese di accoglienza.
Proprio in tale prospettiva va interpretata la recente circolare emessa il 22 marzo 2010 dal Ministero della Giustizia, con la quale si è escluso l’obbligo a carico dell’autorità giudiziaria e dell’autorità
di pubblica sicurezza di informare la rappresentanza diplomatica o consolare più vicina della pendenza di un provvedimento in materia di libertà personale ove si tratti di persone che abbiano presentato una domanda di asilo, di stranieri ai quali sia stato riconosciuto lo status di rifugiato o nei
cui confronti sono state adottate misure di protezione temporanea per motivi umanitari7.
La stessa Corte Costituzionale ha sottolineato la specificità della tutela dei richiedenti asilo stabilendo per gli stessi, con l’ordinanza n. 144 del 2004, l’esclusione dell’onere di allegare alla domanda di
ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato il documento di identità, attraverso documenti rilasciati dai Paesi di provenienza, ritenendo invece sufficiente l’indicazione delle generalità anagrafiche e la dimostrazione delle condizioni di reddito tramite semplici autodichiarazioni sostitutive8.
I princìpi espressi dalla Corte Costituzionale costituiscono una novità importante rispetto a quanto
in precedenza previsto dal d.p.r. 115/2002 di cui la Corte ha decretato l’illegittimità costituzionale
laddove, all’art. 76, stabiliva quale causa di inammissibilità della domanda di gratuito patrocinio la
mancanza dell’indicazione del codice fiscale dello straniero o di quello dei suoi familiari.
La Corte, argomentando ampiamente la sua decisione con chiari riferimenti a princìpi sia di rango
costituzionale che a norme internazionali largamente condivise, ha sottolineato che “la disposizione
censurata, inoltre, si porrebbe in contrasto con due carte fondamentali dei diritti umani, così violando indirettamente l’art. 10 della Costituzione, giacché, nel subordinare all’indicazione del codice fiscale la fruizione del beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato anche per i soggetti introdottisi irregolarmente nel territorio della Repubblica (non in grado di adempiere a tale onere), essa violerebbe il diritto previsto in favore di ‘ogni accusato’ – dall’art. 6, terzo comma, lettera c),
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – a ‘poter essere assistito
gratuitamente da un avvocato di ufficio’, pregiudicando altresì il diritto dell’imputato ‘a vedersi assegnato un difensore d’ufficio gratuitamente, qualora non abbia i mezzi per pagarlo’, contemplato
dall’art. 14, terzo comma, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, reso
esecutivo dalla legge 25 ottobre 1977, n. 881” (...).
7
Circolare del Ministero della Giustizia del 22 marzo 2010, Dipartimento per gli affari di giustizia-Direzione generale della giustizia penale Prot. m_dg.DAG.22/03/2010.0042893.U.
8 Corte Cost., ordinanza n. 144/2004.
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Inoltre secondo il Tribunale di Roma9, che ha rimesso al vaglio della Corte la questione, ricorrerebbe “anche una duplice violazione dell’art. 3 della Costituzione, giacché sotto un primo profilo – individuandosi quale tertium comparationis la disciplina prevista dall’art. 142 del medesimo d.p.r. n.
115 del 2002 per ‘l’ammissione al gratuito patrocinio’ dello straniero nel procedimento amministrativo di espulsione – sussisterebbe una ‘palese disparità di trattamento’ rispetto all’ipotesi in cui questi sia sottoposto a procedimento penale, in quanto, mentre ‘allo straniero irregolare è assicurata
una difesa tecnica a spese dello Stato per difendersi da un provvedimento che, se confermato, ne
provocherebbe, al massimo, la definitiva espulsione dallo Stato’, nel processo penale, in cui ‘gli interessi in gioco sono molto più consistenti’ (venendo in rilievo una sanzione che potrebbe portare
l’interessato ad essere privato anche della libertà personale), al medesimo ‘non è assicurato analogo trattamento’”.
La Corte Costituzionale, in ragione di tali presupposti, ha ritenuto opportuno che la domanda di ammissione al gratuito patrocinio per il cittadino straniero sia da considerarsi vincolata soltanto all’indicazione degli elementi di cui all’art. 4 d.p.r. n. 605/1973, ovvero del cognome, nome, luogo e data di nascita, sesso, domicilio fiscale estero.
L’indirizzo della Corte ha trovato spazio e conferma in diverse successive pronunce di merito. Anche di recente il Tribunale di Catania, con un decreto di gennaio 201010, intervenendo su un provvedimento di rigetto del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di una domanda di ammissione al gratuito patrocinio presentata da un richiedente asilo sulla base di una asserita mancanza di documentazione di riconoscimento dello stesso, ha sottolineato che “i cittadini extracomunitari richiedenti
asilo o protezione umanitaria si trovano sovente in condizioni tali da dover fuggire dai paesi di provenienza senza trovar seco documenti di sorta, trovandosi in stato di necessità o addirittura possono non avere nessuna possibilità di possedere documenti provenenti da una qualsivoglia organizzazione statale”.
Con la stessa pronuncia il Tribunale di Catania ha rammentato che “le previsioni contenute negli artt.
3, 20 21 e 26 del d.lgs. n. 25/2008 contemplano espressamente il diverso trattamento degli stranieri
richiedenti asilo privi di documenti o sin anche in possesso di documenti falsi prevedendone il trattenimento nei centri per il tempo necessario, appunto, all’identificazione e che regolamentano proprio la situazione di mancanza di documenti attestanti le generalità allo scopo di consentire allo
straniero extracomunitario di accedere dapprima alle procedure amministrative e poi a quelle giurisdizionali previste dal decreto legislativo più volte richiamato, in vista della tutela dei loro diritti
umani fondamentali riconosciuti alla persona umana in quanto tale (Corte Cost. 306/2008) nell’ambito dei quali va ricompreso lo status (...) sicché si impone un’interpretazione di tali norme costituzionalmente orientata che tenga conto della peculiare situazione in cui versano gli extracomunitari richiedenti lo status o quelli di protezione sussidiaria ed umanitaria al momento dell’arrivo
nel territorio della Repubblica italiana”.
Anche la giurisprudenza amministrativa più recente, seppure con riferimento a casi decisi sulla base della normativa relativa alle procedure di asilo e protezione sussidiaria precedenti al 3 marzo
2008, e dunque prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 25 del 2008, ha riconosciuto l’ammissione
al patrocinio a spese dello Stato disposta dai Consigli dell’Ordine in favore di richiedenti asilo dopo il diniego11.
Nonostante tali enunciati siano ampiamente riconosciuti sulla carta, non sempre trovano una piena
ed effettiva realizzazione in quelle situazioni ove i diritti di difesa della persona umana in quanto
tale richiederebbero la massima estensione.
Spesso, infatti, proprio la rapidità delle procedure di espulsione e di riesame dei dinieghi delle istanze, le difficoltà di reperire un’adeguata rappresentanza legale, l’assenza di mediatori culturali nei luo-
9
Tribunale di Roma, ordinanza del 15 luglio 2003 nel procedimento penale a carico di Rimbu Juliano, iscritta al n. 897 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2003.
10 Tribunale di Catania, I sez. civ., decreto del 28 gennaio 2010, relativamente alla causa iscritta al n. 6176/09 R.G.
11 TAR Puglia, sez. Lecce, 19 maggio 2008.
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FOCUS
ghi di ricezione e trattazione delle domande di asilo, nonché l’immediatezza dell’esecuzione delle
decisioni di rimpatrio forzato, impediscono di fatto un esercizio tempestivo da parte dei richiedenti lo status dei loro diritti di difesa e un rapido accesso al patrocinio a spese dello Stato.
Va peraltro precisato che l’ammissione al gratuito patrocinio con riferimento ai richiedenti asilo rimane tutt’oggi limitato alla fase di impugnazione dinanzi alle autorità giurisdizionali, intendendosi
escluso in quella precedente di prima istanza alla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato ove lo straniero è per lo più solo e sprovvisto di fatto di assistenza legale12.
Alla luce di ciò si comprende bene come, sebbene nello specifico la disciplina in materia di gratuito patrocinio abbia subìto negli ultimi anni sostanziali correttivi sia grazie all’intervento della Corte
Costituzionale, sia attraverso le modifiche normative in attuazione delle direttive comunitarie, rimangano tuttora numerose le problematiche legate più in generale all’accesso e all’effettività della difesa tecnica in relazione alla procedura della richiesta di asilo.
12 Relativamente alle nuove disposizioni introdotte in materia vedi Morozzo della Rocca, Immigrazione e cittadinanza. Profili
normativi e orientamenti giurisprudenziali, Torino, 2008.
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GENERE, STRATIFICAZIONE CIVICA E DIRITTO ALL’UNITÀ FAMILIARE: LINEE
DI TENDENZA IN EUROPA, TRA INTEGRAZIONE E CONTROLLO 1
Paola Bonizzoni
Ricercatrice presso il Dipartimento di Studi sociali e politici dell’Università degli Studi di Milano
La migrazione familiare sta ricevendo un’attenzione crescente in ambito comunitario e rivela un
aspetto strategico sia nelle politiche d’integrazione che nella disciplina dei flussi in ingresso, così
come nel fervente dibattito sul multiculturalismo.
In molte discussioni correnti (in ambito accademico, politico e nel discorso pubblico) la famiglia
immigrata tende sempre più a essere vista come un ostacolo – più che come una risorsa – per l’integrazione: sede di tradizioni patriarcali e relazioni di genere o problematiche intergenerazionali
(specie nelle migrazioni iniziate da uomini), incapace di fornire adeguata cura e supporto ai propri membri deboli (specie nelle migrazioni iniziate da donne).
Le famiglie migranti diventano così attori, almeno in parte responsabili del fallimento educativo e
scolastico dei propri figli, e delle traiettorie criminali o devianti2 a cui tendono spesso a essere associati i giovani di origine straniera.
A questo genere di visioni se ne contrappone una opposta, che tende invece a celebrare la supposta maggiore coesione sociale espressa dalle famiglie straniere (e che si riflette nei loro contenuti tassi di separazione e divorzio, nella loro vivace fertilità...), che fa da contraltare e argine al
“declino” della famiglia “tradizionale” a cui si assiste in Occidente3.
Per la sua rilevanza numerica la migrazione familiare è sempre più spesso percepita come migrazione “non richiesta” e accettata a malincuore, in quanto – si suppone – composta da migranti non
qualificati, e dunque sempre più in contraddizione con politiche migratorie selettive in termini di
specifiche esigenze di particolari settori del mercato del lavoro.
Non è dunque una coincidenza se molte delle “nuove” politiche di integrazione sperimentate in
Europa (quali corsi o test di integrazione obbligatori) tendano sempre più a focalizzarsi sui familiari ricongiunti: più che fornire un supporto di tipo pratico o di orientamento, questo genere di
misure è più che altro volto alla promozione di una certa idea di “buon cittadino”4.
Questo trend (non equamente diffuso in tutti i Paesi dell’Unione) trova uno dei suoi pionieri nell’Olanda che, con l’introduzione di test d’integrazione “preventivi”, ha espresso la necessità di “preparare” i familiari al Paese ricevente, legittimando tali misure come strumenti di lotta contro i ma-
1
L’articolo, la cui pubblicazione è autorizzata dall’Autrice, è tratto da Bonizzoni, Kraler, Gender, civic stratification and the right
to family life: problematising immigrants’ integration in the EU, in International Review of Sociology, vol. 20, 1/2010.
2 Qualcuno forse ricorderà le affermazioni del presidente Sarkozy che, commentando le violente rivolte nelle banlieu parigine,
ne rintracciò le origini sociali nella poligamia e in simili usanze tribali proprie delle famiglie immigrate in Francia (Nava, I violenti di
Parigi? Figli della poligamia, in “Corriere della Sera”, 17 novembre 2005; è consultabile all’indirizzo http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/11_Novembre/17/poligami.shtml).
3 Fukuyama, Immigrants and family values. Crossing borders: an international reader, 1998, 450.
4 Schmidt, Good Citizens, Good Subjects and Good Lives: Transnational Marriages and Marriage Migration Policy in Denmark.
Relazione tenuta alla IMISCOE Cluster B3 conference “Domestic Politics beyond Borders: Political Transnationalism in Contexts of
Migration”, Varsavia, 23-25 April 2007.
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CONTRIBUTI
trimoni forzati. Queste si rivolgono proprio a quei futuri sposi identificati come “a rischio”, cioè
quelli meno dotati di capitale culturale ed economico: i test d’integrazione si rivelano così un efficace strumento di selezione dei flussi in ingresso, dietro il malcelato scopo di limitare gli aspetti
negativi della migrazione familiare.
La migrazione familiare deriva gran parte della sua rilevanza dal suo essere diventata uno dei principali (in alcuni casi, l’unico) canale di ingresso legale in molti Paesi europei: nei Paesi del Nord
Europa (a eccezione del Regno Unito, che ancora applica il reclutamento di un ingente numero di
lavoratori dall’estero) è ormai di fatto l’unica modalità di ingresso legale accessibile, ma anche nei
Paesi dell’Europa meridionale (che più frequentemente risentono dell’andamento altalenante delle
regolarizzazioni di ingenti quantità di manodopera irregolare) gli ingressi per ricongiungimento
hanno mostrato una crescita esponenziale.
La migrazione familiare è però un fenomeno assai diversificato. Nei Paesi di più antica immigrazione, la migrazione matrimoniale (cioè la formazione di nuove famiglie con un partner giunto dall’estero) ha ormai superato la forma più “classica” del ricongiungimento di famiglie già formate e
separate dalla partenza del “primo migrante”. Al contrario, in Europa meridionale la migrazione matrimoniale, spesso praticata da seconde (o terze) generazioni è (ancora?) molto meno significativa
e il ricongiungimento riveste una maggiore rilevanza. L’aumento della migrazione matrimoniale è
poi frutto sia della crescita dei matrimoni transnazionali (tra immigrati e partner provenienti dal
Paese d’origine) che di quella dei matrimoni misti (quindi tra persone prive di un background migratorio e partner provenienti dall’estero).
Il diritto all’unità familiare: un diritto contestato
Il diritto all’unità familiare è stato spesso considerato uno strumento volto alla promozione del benessere e dell’integrazione dei migranti nelle società ospiti, anche in virtù di considerazioni di carattere umanitario5. In quanto diritto, il ricongiungimento incarna una concezione di famiglia come
bene superiore che gli Stati sono tenuti in qualche modo a tutelare. Pertanto, l’obbligo da parte di
questi di garantire e promuovere la vita e l’unità familiare di cittadini e migranti è ampiamente sancito nella legislazione internazionale, ad esempio nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo (1950), nel Trattato internazionale sui
diritti civili e politici (1966), e così via. L’affermazione del diritto al ricongiungimento nell’ambito
della legislazione comunitaria limita la capacità degli Stati di contrastare questo tipo di ingressi: come nel caso dei rifugiati, i princìpi liberali interferiscono così con l’autorità degli Stati nel controllare i propri confini e la composizione della propria popolazione.
Eppure, solo in ambito comunitario il diritto al ricongiungimento è riconosciuto come un vero e
proprio diritto, sottoposto a minime condizionalità. Nel caso dei cittadini di Paesi terzi, gli Stati dispongono ancora di un notevole margine di controllo, esercitato attraverso l’imposizione di una serie di condizioni espresse in termini di requisiti di integrazione, in primis reddito e alloggio. Al contrario di quanto molti si aspettavano, la legislazione europea ha fallito nel promuovere una crescente armonizzazione delle politiche degli Stati membri e tanto meno li ha spinti ad applicare standard meno rigidi.
La Direttiva europea sui ricongiungimenti familiari (2003/86/EC), con le sue 27 clausole di deroga,
fonda standard comuni estremamente deboli e, ironicamente, ha addirittura portato molti Paesi a
irrigidire ulteriormente i propri requisiti per conformarsi alla direttiva stessa.
5 ILO, International Labour Conference, 87th Session, Migrant Workers, Report III (1B), Ginevra, giugno 1999, para 472; è
consultabile all’indirizzo http://www.ilo.org/public/english/standards/relm/ilc/ilc87/r3-1b6.htm#Section%20II.%20Migration%20and%20the%20family; Lahav, National, Regional and International Constraints to Family Reunification: A European Response, relazione presentata al Meeting of Experts “Family Reunification in European Union and the USA”, tenutosi presso la
University of Konstanz Center for International and European Law on Immigration and Asylum, giugno 1999. È consultabile all’indirizzo http://migration.uni-konstanz.de/content/index.php?lang=en
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AIAF RIVISTA 2010/2 • maggio-agosto 2010
Il diritto al ricongiungimento che ne emerge è ancora molto lontano dagli standard applicati ai cittadini comunitari (consolidati nella direttiva 2004/38/EC), diritto che si fonda peraltro su una definizione di famiglia assai più ampia. I cittadini comunitari che non stanno vivendo (o non hanno
recentemente vissuto) in uno Stato membro, non sono però tutelati da questa direttiva, né da quella che tutela i cittadini di Paesi terzi.
Di conseguenza vi è uno scarto tra differenti categorie di cittadini che godono di un set di diritti
differenziato, una frammentazione delle appartenenze e dei diritti che Morris6 chiama “stratificazione civica”. Contrariamente da quanto auspicato da coloro i quali intravedevano una configurazione postnazionale della cittadinanza7, espressa in quel set di diritti sociali e politici che viene concesso a prescindere dello status di cittadino, la cittadinanza a pieno titolo ancora conta. Il caso del
diritto all’unità familiare mostra proprio come diritti fondamentali della persona continuino a essere mediati dalla cittadinanza nazionale, più che garantiti a prescindere da questa.
Cosa fanno gli Stati per regolare la migrazione familiare?
Nel regolare la migrazione familiare, gli Stati non si limitano a esercitare un controllo di tipo quantitativo sui flussi in ingresso. Al contrario, contribuiscono attivamente a definire e a disciplinare la
stessa vita familiare dei migranti, distinguendo chi è considerato un membro legittimo da chi non
lo è, oltre che fissando una pluralità di standard che i richiedenti (e i destinatari delle domande di
ricongiungimento) devono rispettare. I familiari ricongiungibili si limitano, in genere, ai soli membri della famiglia nucleare (coniuge legalmente sposato e figli minori) anche se, su questo aspetto, le regole variano significativamente da Paese a Paese, oltre che in ragione dello status legale
del richiedente8.
Le condizioni poste ai richiedenti sono molteplici, e vanno dalla necessità di disporre di un reddito e di un alloggio adeguato (che varia al variare del numero di persone che si vogliono introdurre nel Paese), alla dimostrazione dell’effettiva coabitazione futura così come del fatto che i legami
sociali siano “attivi” (ad esempio, in alcuni Paesi può risultare problematico effettuare un ricongiungimento dopo separazioni eccessivamente prolungate).
Il concetto di dipendenza è cruciale nelle politiche migratorie familiari e viene definita prevalentemente in tre modi: una dipendenza di natura legale, che si esercita rendendo il migrante ricongiunto “legato” allo status del suo sponsor; una dipendenza di natura finanziaria, che si esprime nella
necessità, da parte del richiedente (più che della famiglie stessa), di disporre di un reddito minimo o addirittura (anche se questo tende a diventare sempre meno comune), proibendo l’accesso
al mercato del lavoro da parte del familiare ricongiunto; infine, la dipendenza formulata in termini di dipendenza sociale (esigenze di cura), nella misura in cui definisce i bambini ricongiungibili
sotto una certa soglia d’età, o limitando l’ingresso dei genitori anziani a quei casi in cui questi non
abbiano altri mezzi di supporto o parenti in grado di sostenerli.
Queste politiche si fondano sulla previa classificazione dei richiedenti in categorie (migranti di breve o lungo periodo, cittadini nazionali, comunitari o di Paesi terzi, rifugiato o titolari di protezione
temporanea...) attiva nel Paese ricevente, che porta a una stratificazione del diritto al ricongiungimento. La stratificazione dei diritti che discende dalla pluralità di status descritta bene da Morris9,
6
Morris, Managing migration: Civic stratification and migrants’ rights, Londra, 2002.
7
Soysal, Limits of citizenship: Migrants and postnational membership in Europe, Chicago, 1994.
8
Anche se un numero crescente di Stati membri ha offerto al possibilità di ricongiungere anche partner non sposati coinvolti
in un’unione stabile, così come coppie dello stesso sesso, la relazione matrimoniale rimane la definizione più comunemente accettata di relazione legittima. Per figli si intendono in genere i figli biologici, quelli adottati e i figli del partner, ma in alcuni Paesi questi non possono essere ricongiunti se hanno più di 15 anni (Danimarca) o 16 (Germania). Se però lo sponsor è un cittadino europeo che gode dei diritti di mobilità, la famiglia legittima si allarga, includendo, ad esempio, anche gli ascendenti e i figli
sino ai 21 anni.
9 Morris, Managing migration, cit., parla di stratificazione civica come di quella gerarchia di diritti stratificati che derivano da
processi di inclusione ed esclusione frutto delle politiche migratorie.
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CONTRIBUTI
genera dunque più diritti al ricongiungimento: non c’è un unico diritto al ricongiungimento a cui
tutti i migranti hanno accesso, al contrario, i familiari ricongiungibili, così come i requisiti imposti,
variano – a livello formale – al variare della nazionalità e dello status del richiedente ma anche –
a livello informale – al variare di altri vettori di stratificazione sociale, come il genere o la classe.
Condizioni e restrizioni in termini di politiche migratorie vincolano le scelte dei migranti e hanno
concrete ricadute sulle loro strategie migratorie e relazioni familiari, ricadute che non si limitano
alle loro più ovvie e scontate conseguenze (poter vivere o meno con alcuni membri della propria
famiglia). Questi condizionamenti, al contrario, operano spesso in modo molto più sottile e indiretto. Ad esempio, la necessità di disporre di un reddito minimo può scoraggiare i migranti nel tentare traiettorie di mobilità professionale o geografica (arrischiandosi a cambiare lavoro, città o a lavorare part-time). Inoltre, il prolungamento della separazione (che deriva dalla difficoltà a maturare i requisiti richiesti) può comportare conseguenze sgradevoli sulla qualità della vita familiare stessa, specie quando a sperimentare la separazione sono familiari bisognosi di cure come gli anziani
e i bambini, come mostrano molte recenti ricerche sociali sulle esperienze di vita familiare transnazionale e di cura a distanza10. Di fatto, la vita familiare transnazionale si presenta ormai come un
assetto diffuso e stabile in molti Paesi europei, specie in quelli dell’area mediterranea: in questo
senso, il tema del ricongiungimento dei figli in età avanzata e dopo prolungate separazioni solleva importanti questioni in termini di integrazione.
Le politiche migratorie hanno, dunque, importanti ricadute sulla vita familiare: da un lato in quanto impattano sul modo in cui la vita familiare è concretamente vissuta, dall’altro perchè offrono importanti indicazioni circa il modo in cui questa invece “debba” essere vissuta11. Queste ricadute devono poi essere lette alla luce delle relazioni, dei ruoli e degli stereotipi di genere, un aspetto che,
però, sinora ha ricevuto molta poca attenzione. Il concetto di dipendenza espresso da queste politiche presume spesso un partner femminile, secondo un modello di ricongiungimento “tradizionale” che non trova però più corrispondenza con la realtà migratorie di Paesi che hanno visto aumentare in questi anni le donne migranti per ragioni di lavoro12. Anche se numericamente parlando sono ancora più le donne a essere titolari di permessi di soggiorno di tipo familiare, sono molti gli uomini che ormai migrano a seguito delle mogli, anche se non necessariamente secondo procedure di ricongiungimento formale. Nonostante l’attenzione che la riflessione femminista ha da
sempre dedicato all’arbitraria distinzione tra sfera produttiva e riproduttiva, questa continua a informare le politiche migratorie e di ricongiungimento, anche se in maniera meno diretta ed esplicita che in passato13: le migrazioni familiari sono etichettate come “improduttive” e un potenziale
peso per le finanze dello Stato, mal si conciliandosi poi con le crescenti esigenze di selezione professionale (mirate a ben specifiche esigenze di certi segmenti del mercato del lavoro) a cui molti
Paesi stanno iniziando a orientare le proprie politiche di migrazione lavorativa.
Mutamenti e tendenze nella migrazione familiare contemporanea
Una delle più rilevanti e recenti tendenze nella migrazione familiare dei nostri giorni è l’aumento
dei matrimoni misti e transnazionali.
Questo aumento riflette chiaramente la transizione di gran parte degli Stati riceventi da una fase di
reclutamento a una di insediamento, che si accompagna alla crescita delle seconde (e talvolta terze) generazioni. L’aspettativa tacita (in parte informata da una prospettiva di tipo assimilazionista)
era che il tasso di matrimoni misti sarebbe aumentato nel tempo e che, al contrario, quella di ma-
10 Vedi, ad esempio, Bonizzoni, Famiglie Globali. Le frontiere della maternità, Torino, 2009.
11 Strasser et al., Doing Family. Responses to the constructions of ‘the migrant family’ across Europe, in The History of the Family 14, 2, 2009, 165-176.
12 Bhabha, Shutter, Women’s movement: women under immigration, nationality and refugee law, Stoke-on-Trent, 1994.
13 van Walsum, Spijkerboer, Women and immigration law: new variations on classical feminist themes, Londra, 2007.
61
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trimoni endogami e transnazionali sarebbe andata verso un progressivo esaurimento. Anche se un
certo aumento dei matrimoni interetnici può di certo essere osservata tra le seconde generazioni,
questo è molto meno significativo del previsto. In particolare, la continua preferenza, da parte di
alcuni gruppi etnico-nazionali, nel praticare unioni matrimoniali con partner conosciuti all’estero
(invece che coetnici conosciuti sul territorio) è una fonte di controversia politica.
Il matrimonio transnazionale è un fenomeno contestato perché si innesta su catene migratorie non
ancora spente in grado di mobilitare un numero significativo di ingressi (vi è dunque una preoccupazione di tipo quantitativo), ma anche perché contraddittorio sul piano dell’integrazione: sintomo di mancata integrazione relazionale e associato a pratiche pericolose ed esotiche – quali il matrimonio combinato o forzato – incompatibili con gli orientamenti culturali vigenti. Il fatto che i matrimoni combinati o forzati siano spesso confusi (rispetto alla definizione del grado di coercizione
che di volta in volta li caratterizza) nel discorso (e nell’azione) pubblica, ha fatto sì che il tema dei
“matrimoni etnici” diventasse un tema di crescente controllo in diversi Paesi dell’Unione: così le
politiche migratorie diventano il principale strumento di lotta contro i matrimoni forzati o combinati14. Di nuovo, emerge il genere come istanza intorno a cui si gioca il dilemma multiculturale: la
lotta contro i matrimoni forzati si legittima, infatti, in termini di protezione ed emancipazione di
giovani donne vittime del controllo patriarcale visto come tipico di certe culture.
I matrimoni binazionali, che coinvolgono coniugi provenienti dall’estero e cittadini dei Paesi membri, sono a loro volta significativamente aumentati nel tempo, come effetto di processi di globalizzazione che coinvolgono in misura crescente carriere scolastiche e professionali, del turismo e dello sviluppo di agenzie di intermediazione che contribuiscono a creare un vero e proprio mercato
matrimoniale globale.
Di nuovo il genere caratterizza questi matrimoni che coinvolgono donne “ordinate per posta”, spesso inquadrate in una prospettiva di trafficking. Al contempo i matrimoni binazionali sono spesso
sospettati di frode, tanto più nel caso in cui i migranti sono uomini, le cui relazioni con donne native tendono a essere più frequentemente interpretate come migrazioni da lavoro mascherate.
Conclusioni
I risultati del progetto comparato europeo da cui abbiamo tratto queste riflessioni15 mostrano come
la capacità da parte dei migranti di ricostituire le proprie famiglie all’estero e di riprodursi a livello transnazionale sia sempre più stratificata: in questo senso, le politiche di ricongiungimento debbono essere viste in relazione alla proliferazione, frammentazione e polarizzazione degli status che
vengono attribuiti ai migranti e a quel coacervo di diritti loro garantiti (in termini di ammissione,
lavoro, continuità della residenza, diritti sociali, protezione dall’espulsione e così via).
Le condizioni di natura economica imposte ai fini del ricongiungimento, la definizione restrittiva
dei legami familiari considerati ammissibili e la concretezza delle pratiche burocratiche necessarie
all’attivazione della procedura rendono il godimento di questo diritto estremamente ineguale. Nell’elaborare le condizioni che permettono ai migranti di ricongiungersi ai propri familiari andrebbe
posta una maggiore attenzione alla diversa posizione sociale di coloro i quali ne fanno richiesta:
in particolare, il requisito delle risorse ha diverse ricadute per donne e uomini, in modo particolare quando queste hanno bimbi piccoli al Paese.
14 Ad esempio l’età al matrimonio per sponsor e coniuge è stata elevata in Danimarca, Germania, Olanda e Regno Unito dietro
il fine dichiarato di proteggere le ragazze da matrimoni forzati. Di fatto, questo ha permesso di ridurre significativamente la quota di ingressi per ragioni familiari.
15 I risultati del progetto comparato “Civic Stratification, Gender, and Family Migration Policies in Europe” possono essere consultati sul sito http://research.icmpd.org/
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CONTRIBUTI
IL DIRITTO ALL’UNITÀ FAMILIARE DEI CITTADINI EXTRACOMUNITARI E LA TUTELA DEI
MINORI (CENNI) DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL “PACCHETTO SICUREZZA”,
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA L. 94/09, ALLE CIRCOLARI MINISTERIALI
APPLICATIVE E ALLA RECENTE GIURISPRUDENZA
Paolo Oddi
Avvocato del Foro di Milano e membro dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (A.S.G.I.)
1. Premessa
Il diritto all’unità familiare relativo ai cittadini extracomunitari ha trovato completa regolamentazione nel testo unico sull’immigrazione (in seguito t.u. imm.) – d.lgs. 286/98 e successive modifiche –
sin dalla l. 40/98 (poi confluita nel citato t.u.), che si era posta l’obiettivo di dar vita a una normativa organica in materia di immigrazione.
Il testo unico, infatti, dedica l’intero suo titolo IV al “Diritto all’unità familiare e tutela dei minori”
(artt. 28-33), oltre ad altre importanti norme, sparse nell’intero articolato, poste a presidio delle famiglie e dei minori immigrati.
Naturalmente le menzionate disposizioni sono state dettate nel solco dei princìpi costituzionali, comunitari e internazionali in materia (peraltro in continua evoluzione).
Tuttavia hanno sofferto – come del resto tutta la disciplina sull’immigrazione – di significative deroghe a opera delle numerosissime circolari ministeriali che, a fisarmonica, hanno (ampliato ma) più
spesso ristretto, per contingenze anche più strettamente “politiche”, la portata del diritto in violazione dell’art. 10 c. 2 Costituzione, che riserva alla legge la condizione giuridica dello straniero, in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Nell’ultimo decennio le direttive comunitarie e la giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno plasmato significativamente la materia, mettendone in luce
l’insieme dei diritti fondamentali dell’uomo che la caratterizza. Contemporaneamente il legislatore
nazionale, riformando a più riprese il t.u. imm. (in particolare con la l. 189/02), ha messo mano anche alle norme in esame, e non solo per uniformarle alla legislazione europea, realizzando una successione di leggi di non facile applicazione e interpretazione, come conferma anche l’oscillante giurisprudenza sia di legittimità che di merito.
Il risultato è un quadro frammentario che, da ultimo, sembra far prevalere le istanze di sicurezza e
di ordine pubblico e di controllo delle frontiere anche sul delicatissimo terreno della famiglia e dei
minori.
2. Le fonti del diritto all’unità familiare e il superiore interesse del minore
Oltre ai fondamentali princìpi sanciti dalla Costituzione italiana (artt. 29-31), dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 8) – ratificata e resa
esecutiva con l. 848/55 –, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 7 e 9), dalla Convenzione sui diritti del fanciullo – ratificata e resa esecutiva con l. 176/91 –, rilevano le menzionate disposizioni contenute nel t.u. imm., in particolare quelle del titolo IV (artt. 28-33), nonché
l’art. 4, c. 4, ultimo periodo (limiti all’ingresso per lo straniero per il quale è stato chiesto il ricongiungimento); l’art. 5, c. 5 e c. 5 bis (limiti in materia di revoca e rinnovo del permesso di soggiorno per famiglia); l’art. 13, c. 2 bis (obbligo di bilanciamento in caso di adozione di decreto di espul-
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sione nei confronti rumenodi straniero che ha esercitato il diritto all’unità familiare) e c. 13 (non necessità dell’autorizzazione al reingresso per lo straniero espulso ex art. 13, c. 2, lettere a e b, poi beneficiario del ricongiungimento familiare).
Con riferimento a queste ultime disposizioni va sottolineato che le stesse hanno subìto significative
modifiche a seguito del recepimento della Direttiva 2003/86/CE – recepita con d.lgs. 5/2007 – in tema di ricongiungimento familiare; normativa comunitaria questa che costituisce un primo tentativo
di armonizzare le norme dei singoli ordinamenti dei Paesi membri nel senso di garantire maggiormente la stabilizzazione delle famiglie di immigrati in territorio europeo.
Altre due disposizioni meritano di essere qui segnalate per la loro valenza generale e di principio.
L’art. 19, c. 2, lettere a), c) e d), stabilisce un espresso divieto di espulsione nei confronti dei minori
di anni 18, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi (lett. a); nei confronti degli stranieri convinti con parenti entro il secondo grado (vedi infra, modifiche ex l. 94/09) o con il coniuge
di nazionalità italiana (lett. c); delle donne in stato di gravidanza (e dei loro mariti conviventi dopo
la sent. 376/00 Corte Cost.) o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono (lett. d).
Di grande importanza – a dimostrazione di come il legislatore del 1998 ritenesse assolutamente prioritaria la tutela dei minori – riveste l’art. 28 c. 3 t.u. imm., secondo cui “in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del minore, conformemente a quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del
fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della l. 27 maggio 1991, n. 176”.
Infine vanno considerati in particolar modo gli artt. 143, 144, 116 codice civile – con riferimento a
quest’ultimo ha pesantemente inciso la riforma ex l. 94/09, introducendo l’obbligo di essere in possesso del permesso di soggiorno per contrarre matrimonio in Italia (vedi infra) –; l’art. 33 della l.
218/95; il d.p.r. 399/99 (regolamento di attuazione del t.u. imm.), come modificato dal d.p.r. 334/04
(in particolare art. 6 -Visti per ricongiungimento familiare e familiare al seguito).
Si precisa che oggetto del presente articolo è la disciplina dell’unità familiare dei cittadini extracomunitari, poiché ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro della UE si applicano le disposizioni del d.lgs. 6 febbraio 2007 n. 30 (attuazione della Direttiva 2004/38/CE relativa al
diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari – a prescindere dalla loro nazionalità – di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), successivamente modificato in
senso restrittivo (dopo il grave fatto di cronaca dell’autunno 2007 a Roma che vide protagonista un
cittadino romeno1) con d.lgs. n. 32/08. Brevemente si aggiunga che in ogni caso il principio comunitario della libera circolazione dei cittadini dei Paesi membri della UE si riflette positivamente anche sui loro familiari, qualunque sia la loro provenienza, e che, essenzialmente, anche questi ultimi
godono di maggiori garanzie rispetto ai familiari dei cittadini extracomunitari.
3. Titolari e beneficiari del diritto all’unità familiare. Il procedimento, le garanzie e le azioni esperibili
in caso di “impedimenti” all’unità familiare
a) Il diritto all’unità familiare e i suoi titolari
Per l’art. 28 c. 1 t.u. imm. “il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti
dei familiari stranieri è riconosciuto, alle condizioni previste dal presente testo unico, agli stranieri titolari di carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo,
cfr art. 9) o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno rilasciato per motivi di
lavoro subordinato o autonomo, ovvero per asilo, per studio, per motivi religiosi o per motivi familiari”.
Gli ingressi per motivi di famiglia non sono “contingentati” come quelli per lavoro subordinato, au-
1
Il 30 ottobre 2007 il caso di Giovanna Reggiani, violentata e uccisa da un romeno nei pressi della stazione ferroviaria di Tor
di Quinto, sconvolse l’opinione pubblica e sollevò polemiche sulla sicurezza in città.
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CONTRIBUTI
tonomo o studio, nell’ambito delle politiche d’ingresso attraverso i decreti flussi, di emanazione governativa, a loro volta strutturati nelle cosiddette quote d’ingresso.
Titolari sono anche i genitori naturali residenti all’estero con i figli minori già regolarmente soggiornanti in Italia (art. 28 c. 5 t.u. imm., cosiddetto ricongiungimento a rovescio). Se nella formulazione
originaria di detta norma si consentiva al genitore di dimostrare di essere in possesso dei requisiti
(oggettivi) di alloggio e reddito (di cui al c. 3 dell’art. citato) entro un anno dall’ingresso in Italia (disposizione quest’ultima in linea con la sent. 203/97 Corte Cost. che rimarcava il diritto al soggiorno
del genitore straniero extracomunitario per ricongiungersi al figlio, considerato minore secondo la
legislazione italiana, legalmente residente e convivente in Italia con l’altro genitore, ancorché non
unito al primo in matrimonio), l’ultimo atto del “pacchetto sicurezza” – e cioè la l. 94/09 – modifica detta disposizione, prevedendo che detto ingresso sia subordinato alla preventiva dimostrazione
del possesso dei requisiti di cui all’art. 29 c. 3, con la precisazione che a tal fine “si tiene conto del
possesso di tali requisiti da parte dell’altro genitore”.
Il ricongiungimento familiare dei rifugiati è disciplinato opportunamente da apposita disposizione
(art. 29 bis t.u. imm), introdotta nel t.u. imm. dal d.lgs. 5/07 (di recepimento della direttiva europea
sul ricongiungimento) che, se per quanto riguarda i beneficiari rinvia alla norma generale (vedi infra), per ciò che concerne i requisiti oggettivi stabilisce che non si debba applicare l’art. 29 c. 3 cit.,
e cioè non è richiesta la dimostrazione del possesso dell’alloggio e del reddito. Tale norma di favore tiene conto delle maggiori difficoltà in cui versano i rifugiati e dell’oggettivo pericolo che corrono i loro familiari rimasti nei Paesi di origine, motivo per cui si cerca di agevolare il procedimento
di ricongiungimento che li riguarda.
Anche l’eventualità che il rifugiato non possa fornire documenti ufficiali attestanti i vincoli familiari,
in ragione del suo status, ovvero della mancanza di un’autorità riconosciuta o della presunta inaffidabilità dei documenti rilasciati dall’autorità locale, è considerata dalla norma (art. 29 bis c. 2), che
in tali casi consente alle nostre rappresentanze consolari di rilasciare “certificazioni ai sensi dell’art.
49 d.p.r. 5 gennaio 1967, n. 200, sulla base di verifiche ritenute necessarie, effettuate a spese degli
interessati. Può essere fatto ricorso, altresì, ad altri mezzi atti a provare l’esistenza del vincolo familiare, tra cui elementi tratti da documenti rilasciati da organismi internazionali ritenuti idonei dal
Ministero degli esteri”. Viene altresì precisato che il rigetto della domanda “non può essere motivato
unicamente dall’assenza di documenti probatori”.
Infine, se il rifugiato è un minore non accompagnato, è consentito l’ingresso e il soggiorno, ai fini
del ricongiungimento, degli ascendenti diretti di primo grado (art. 29 bis c. 3).
b) I beneficiari del diritto all’unità familiare
È proprio il novero dei cosiddetti “ricongiungibili” che ha subìto più modifiche dall’entrata in vigore del t.u. imm. a oggi, nel senso di una progressiva riduzione dei familiari per i quali si può avviare la pratica del ricongiungimento.
In particolare il d.lgs 160/08 (parte del “pacchetto sicurezza”) è intervenuto – restringendone la portata – sul d.lgs 5/07 che aveva parzialmente ri-allargato le maglie dei familiari beneficiari, a seguito
del recepimento della direttiva europea sui ricongiungimenti familiari (la 2003/86/CE).
Il d.lgs 160/08 ha modificato l’art. 29, comma 1, t.u.imm. stabilendo che possono essere ricongiunti:
a. il coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai 18 anni;
b. i figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso;
c. figli maggiorenni, qualora per ragioni oggettive non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti invalidità totale;
d. genitori a carico qualora non abbiano altri figli nel Paese d’origine o di provenienza, ovvero genitori ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute.
Il c. 2 precisa che si considerano minori ai fini del ricongiungimento i figli di età inferiore ai 18 an-
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ni al momento della presentazione dell’istanza. I minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono
equiparati ai figli.
Chiaramente non ricongiungibili sono i partner non sposati, uniti nelle varie forme di convivenza riconosciute da molti Paesi della UE o da altri Paesi, siano essi di sesso diverso o dello stesso sesso;
ma qui rileva la totale assenza di una legislazione in materia nel nostro Paese, malgrado i timidi tentativi (falliti) di riforme in tal senso2.
La micro-riforma operata dal d.lgs. 160/08 introduce, all’art. 29, il comma 1 bis, di notevole portata,
per il quale qualora gli stati familiari, di cui al c. 1, lett. b), c) e d), non possano essere documentati mediante certificati o attestazioni rilasciati da competenti autorità straniere, in ragione della mancanza di un’autorità riconosciuta o comunque quando sussistono fondati dubbi sull’autenticità della predetta documentazione, le rappresentanze diplomatico-consolari devono procedere al rilascio
delle certificazioni sulla base del Dna, effettuato a spese degli interessati.
Detta norma lascia alquanto perplessi, sollevando dubbi di costituzionalità in ordine alla concezione “riduttivistica” – e cioè meramente biologica – della famiglia, subordinando il ricorso obbligatorio al test del Dna in presenza anche solo di “dubbi” circa la validità della documentazione estera
prodotta (con profili di contrarietà anche alla disciplina di cui alla l. 218/95) e attribuendo un largo
margine di discrezionalità alla PA in materia di diritti soggettivi.
Infine va segnalata un’ipotesi di rilascio di visto di ingresso per familiare al seguito – art. 29 c. 4 –,
di scarsissima applicazione pratica a causa delle “resistenze” frapposte dalle nostre rappresentanze
(sic!), secondo cui è consentito l’ingresso al seguito dello straniero titolare di carta di soggiorno o
di un visto d’ingresso per lavoro subordinato relativo a contratto di durata non inferiore a un anno,
o per lavoro autonomo non occasionale, o per studio o per motivi religiosi, dei familiari con i quali è possibile attuare il ricongiungimento, a condizione che ricorrano i requisiti di disponibilità di alloggio e di reddito di cui al comma 3.
c) Le condizioni e il procedimento di ricongiungimento
Le condizioni oggettive per poter accedere all’istituto del ricongiungimento sono disciplinate dall’art.
29 c. 3, e consistono essenzialmente nell’essere il richiedente in possesso di idoneo alloggio e di
reddito sufficiente al mantenimento del familiare.
Circa il primo requisito (art. 29, c. 3, lett. a), la l. 94/09 interviene riformulando la norma in oggetto, prevedendo che lo straniero che chiede il ricongiungimento debba dimostrare la disponibilità di
un alloggio “conforme ai requisiti igenico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati dai competenti uffici comunali”. Rispetto al passato si abroga il riferimento ai “parametri previsti dalle leggi
regionali di edilizia residenziale pubblica”, attribuendo ai soli uffici comunali (non più anche alle
Asl) il compito di accertare sia “l’idoneità igenico-sanitaria” sia quella “abitativa”. Tuttavia, circa
quest’ultima, l’assenza di riferimenti a criteri oggettivi e verificabili (i parametri minimi previsti dalle leggi regionali) comporta una totale discrezionalità in capo agli enti locali in ordine alla sua definizione.
Circa il requisito del reddito, il comma 2, lettera b), del citato articolo è stato novellato dal d.lgs
160/08 e attualmente prevede che sia “non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale per ogni
familiare da ricongiungere. Per il ricongiungimento di due o più figli di età inferiore agli anni 14 o
per il ricongiungimento di due o più familiari dei titolari dello status di protezione sussidiaria è richiesto, in ogni caso, un reddito non inferiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale. Ai
fini della determinazione del reddito si tiene conto anche del reddito annuo complessivo dei familiari conviventi con il richiedente”.
E sempre con il citato d.lgs. 160/08 viene aggiunta una norma (comma 3 bis) per il solo ricongiungimento del genitore ultrasessantacinquenne, ovvero l’essere quest’ultimo titolare di un’assicurazione sanitaria o di altro titolo idoneo a garantire la copertura di tutti i rischi nel territorio nazionale,
2
Cfr. Bonini-Baraldi, Convivente di fatto e permesso di soggiorno per motivi familiari: fenomenologia di una discriminazione,
in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2/2009, 79 ss.
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CONTRIBUTI
ovvero la sua iscrizione al S.S.N. previo pagamento di un contributo il cui importo è da determinarsi da parte dei Ministeri competenti e da aggiornarsi con cadenza biennale.
Il procedimento amministrativo di ricongiungimento familiare – art. 29 c. 7 t.u. imm. – si definisce
“a formazione complessa”, poiché caratterizzato dall’insieme di diversi sub-procedimenti: la prima
fase ha inizio con l’inoltro – oggi per via telematica (i moduli sono disponibili sul sito del Ministero dell’Interno, www.interno.it) – della domanda di nulla osta al ricongiungimento familiare allo
Sportello unico per l’immigrazione presso la Prefettura del luogo di dimora del richiedente.
Compito di detto Sportello è, da un lato, acquisire dalla Questura il parere sull’insussistenza dei motivi ostativi all’ingresso dello straniero nel territorio nazionale, dall’altro, di verificare la sussistenza
dei requisiti di cui al citato comma 3 (alloggio, reddito, assicurazione/iscrizione al S.S.N. per il genitore con più di 65 anni).
In ordine ai “motivi ostativi” all’ingresso per lo straniero per il quale è richiesto il ricongiungimento, l’art. 4, comma 3, ultimo periodo – come modificato dal d.lgs. 5/07 – stabilisce che non è ammesso in Italia “quando rappresenta una minaccia concreta e attuale per l’ordine e la sicurezza
dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”.
L’aggiunta di questo periodo se, da una parte, ha attenuato l’estrema severità dei motivi che ostano
all’ingresso da parte degli extracomunitari in generale (basta, ad esempio, l’avere riportato in Italia
una sola condanna anche “patteggiata” per uno dei reati di cui all’art. 380, commi 1 e 2, c.p.p. per
vedersi negare il visto d’ingresso) – circoscrivendo all’attualità e alla concretezza della minaccia che i
potenziali ricongiunti determinano per l’Italia o un Paese dell’area Schengen –, dall’altra, ha attribuito un enorme potere discrezionale alla PA nello stabilire quando si è in presenza di detta fattispecie.
La prima fase si conclude con il rilascio (o il diniego) del nulla osta al ricongiungimento.
La seconda fase compete alla nostra rappresentanza consolare nel Paese di residenza del familiare da
ricongiungere che, a fronte dell’esibizione del nulla-osta da parte di quest’ultimo, rilascia il visto d’ingresso per ricongiungimento familiare, subordinandolo “all’effettivo accertamento dell’autenticità (...)
della documentazione comprovante i frapporti di parentela, coniugio, minore età o stato di salute”.
All’autorità consolare – come chiarito anche dall’art. 6 del d.p.r. 394/99, dopo le modifiche introdotte dal d.p.r. 334/04 – compete dunque la mera verifica dell’autenticità dei documenti attestanti i rapporti di parentela.
Sul punto, oltre alle complesse problematiche che il sopra citato art. 29, comma 1 bis, t.u. imm. (ricorso obbligatorio a spese degli interessati, in certi casi, al test del Dna) introduce, va evidenziata
la spinosa questione di diritto inter-temporale circa le istanze pendenti al momento dell’entrata in
vigore delle menzionate modifiche.
Sul punto alcune interessanti e recenti pronunce evidenziano come “la fase consolare sia del tutto
estranea all’accertamento dei requisiti sostanziali per poter accedere al ricongiungimento, ponendosi questo come diritto soggettivo perfetto esercitato nel momento di presentazione dell’istanza”3.
Lo stesso Ministero dell’Interno, d’intesa con il Ministero degli Affari Esteri, con circolare esplicativa
n. 4660 del 28 ottobre 2008 ha stabilito, con riferimento all’entrata in vigore del d.lgs. 160/08, che
in assenza di norme transitorie le domande già istruite prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo ricadono del decreto nella disciplina previgente.
d) Le garanzie procedimentali e le azioni esperibili in caso di “impedimenti” all’unità familiare. Il divieto di espulsione ex art. 19 c. 2 t.u. imm.
L’originario comma 8 dell’art. 29 prevedeva che, trascorsi 90 giorni dalla richiesta di nulla osta, l’interessato – in caso di silenzio dello Sportello unico – potesse ottenere il visto d’ingresso direttamente dalle rappresentanze consolari, dietro esibizione della copia degli atti contrassegnata dal medesimo ufficio, da cui risultasse la data di presentazione della domanda e della relativa documentazione.
3
Vedi Corte d’Appello di Firenze, sentenza 12 giugno 2009 (proc. 283/09 V.G.); Corte d’Appello di Milano, decreto 8 gennaio
2010 (proc. n. 753/09).
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L’importanza di quest’unica ipotesi di silenzio-assenso prevista dal t.u. imm., non casualmente associata al fondamentale diritto all’unità familiare, aveva trovato significative “resistenze” nell’amministrazione; tuttavia con i provvedimenti del “pacchetto sicurezza” esplicitamente si interviene per
“svuotarla”, prima raddoppiando da 90 a 180 i giorni previsti per il rilascio del nulla osta, poi con
la l. 94/09 abrogando definitivamente detta fondamentale garanzia a presidio dei tempi certi del procedimento.
A complicare quest’ultimo – e proprio in ordine alla sua durata – si aggiunga l’introduzione della
procedura telematica di inoltro delle domande, che anziché accelerarlo ha finito per renderlo ancor
più lento e “macchinoso” (infatti una volta inoltrata via internet la domanda è necessario attendere
la prenotazione di un appuntamento davanti allo Sportello unico al solo fine di depositare la richiesta documentazione).
Invariata, fortunatamente, la previsione di cui all’art. 30, c. 6, t.u. imm. in base alla quale, in caso di
impedimenti in materia di unità familiare (diniego di nulla osta, di permesso di soggiorno per motivi familiari, di visto per ricongiungimento, “nonché contro gli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto all’unità familiare”), l’interessato può presentare ricorso al Tribunale in composizione monocratica del luogo in cui risiede, il quale provvede, sentito l’interessato,
nei modi di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. Decisiva la previsione secondo cui il decreto che accoglie
il ricorso può disporre il rilascio di visto anche in assenza del nulla osta. Va ricordato che gli atti del
procedimento sono esenti da imposta di bollo e di registro e da ogni altra tassa. In quanto azione
volta all’accertamento di diritto soggettivo, il contestato provvedimento non è sottoposto a termine
di impugnazione4.
Infine, la previsione di cui all’art. 19 (Divieti di espulsione e di respingimento), secondo cui sono
inespellibili, oltre ai minori e alle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita
del figlio (cfr. supra sub 1), “gli stranieri conviventi con i parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana”. Nella formulazione procedente alla modifica apportata a questa norma dalla l. 94/09 erano tutelati dal rischio espulsione i parenti “entro il quarto grado”, poiché si riconosceva l’indiscutibile dato sociologico delle cosiddette catene micro-migratorie e per questo si
riteneva dovesse essere prevalente la stabilizzazione delle famiglie “allargate”, anche a garanzia dell’integrazione dei singoli cittadini extracomunitari.
e) Il permesso di soggiorno per motivi familiari
Questa tipologia di permesso è disciplinata dall’art. 30, c. 1, t.u. imm. È rilasciato dalla Questura:
a. allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto d’ingresso per ricongiungimento familiare o
con visto d’ingresso al seguito del proprio familiare, nei casi previsti dall’art. 29, o con visto d’ingresso per ricongiungimento con figlio minore;
b. agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto
matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o comunitari, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti;
c. al familiare straniero regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento con cittadino italiano, comunitario, o straniero regolarmente soggiornante. In tal caso il permesso di soggiorno del familiare è convertito in permesso di soggiorno per motivi familiari. La
conversione può essere richiesta entro un anno dalla data di scadenza del titolo di soggiorno originariamente posseduto dal familiare.
Quest’ultima ipotesi, che si definisce “coesione familiare”, rappresenta un’importante garanzia a tutela del familiare che potrebbe aver perso la regolarità del soggiorno e al quale tuttavia è consentito il mantenimento.
Qualora detto cittadino sia un rifugiato, si prescinde dal possesso di un valido permesso di soggiorno da parte del familiare.
4
Per maggiori approfondimenti si permetta di rinviare a Oddi, Diritto all’unità familiare dal Testo unico immigrazione fino al
“pacchetto sicurezza”, in Ventiquattrore avvocato, Monografia Immigrazione, dic. 2009, 25.
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CONTRIBUTI
Il permesso di soggiorno per famiglia è rilasciato altresì al genitore straniero, anche naturale, di minore italiano residente in Italia (art. 30, c. 1, lett. d), a condizione che non sia stato privato della potestà genitoriale secondo la legge italiana.
La questione del matrimonio tra cittadino straniero e cittadino italiano è affrontata dall’art. 30, c. 1
bis, e, dall’agosto scorso, anche dalla l. 94/09 (art. 1, c. 15, vedi infra).
Ai sensi del citato comma – introdotto nel t.u. dalla l. 189/02 – il permesso di soggiorno rilasciato
ex art. 30, c. 1, lett. b) “è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è
seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole”. Anche il d.lgs. 5/07 è intervenuto in proposito, aggiungendo che “la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno di cui al comma 1, lettera a), è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che
il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato”.
Le preoccupazioni del legislatore (italiano ed europeo) di contrastare i cosiddetti matrimoni di comodo o le strumentalizzazioni degli ingressi per motivi familiari si sono tuttavia tradotte in norme
di discutibile fattura, poiché generiche e prive di disposizioni attuative; norme la cui interpretazione sta dando luogo a un non indifferente contenzioso davanti ai Tribunali (attraverso il menzionato ricorso ex art. 30, c. 6, vedi supra)5.
4. Altre novità introdotte dalla l. 94/09
a) La regolarità del soggiorno per potersi sposare
Una significativa modifica a opera dell’art. 1, c. 15, l. 94/09 incide sull’art. 116 c.c., imponendo allo
straniero che voglia contrarre matrimonio in Italia, oltre al nulla osta al matrimonio, “un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”.
Tale previsione subordina l’esercizio di un fondamentale diritto civile al possesso di un’autorizzazione amministrativa (il permesso di soggiorno), sollevando legittimi dubbi sulla sua costituzionalità.
La circolare del Ministero dell’Interno n. 19/09, chiarisce alcuni aspetti della riforma di cui alla l. 94/09
dando “indicazioni in materia di anagrafe e stato civile”. Sul punto si specifica espressamente che,
dall’entrata in vigore della legge, il matrimonio dello straniero (extracomunitario) “è subordinato alla condizione che lo stesso sia regolarmente soggiornante sul territorio nazionale” e che “tale condizione deve sussistere all’atto della pubblicazione e al momento della celebrazione del matrimonio. In
assenza della suddetta condizione l’ufficiale dello stato civile non può compiere gli atti richiesti”.
La circolare in esame elenca analiticamente i documenti che attestano la regolarità del soggiorno, ricomprendendo anche la “ricevuta rilasciata dall’ufficio postale attestante l’avvenuta presentazione
della richiesta del permesso di soggiorno” – stante la notoria durata del procedimento di rilascio –
nonché “la ricevuta della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno”, per le identiche menzionate ragioni.
b) L’espresso divieto di ricongiungimento per coppie poligamiche
La l. 94/09 interviene anche con un espresso divieto di ricongiungimento per le coppie poligamiche, peraltro sin qui escluso per contrarietà all’ordine pubblico, con l’aggiunta all’art. 29 di un nuovo comma, il comma 1 ter, per il quale “non è consentito il ricongiungimento dei familiari di cui alle lettere a) – coniuge – e d) – genitori – comma 1, quando il familiare di cui si chiede il ricongiungimento è coniugato con un cittadino straniero regolarmente soggiornante con altro coniuge nel territorio nazionale”; parallelamente il nuovo comma 5 ter dell’art. 5 chiude il cerchio stabilendo “che
il permesso di soggiorno è rifiutato o revocato quando si accerti la violazione del divieto dei cui all’art. 29, comma 1 ter”.
5 Tra le tante si veda Corte d’Appello di Venezia, decreto 23 marzo 2009, est. Zacco, che affronta il tema del rilascio di carta di
soggiorno a un cittadino coniuge di una extracomunitaria che ha fatto ingresso in Italia senza visto; Tribunale di Reggio Emilia, decreto 27 dicembre 2008, est. Baraldi, sul difetto di convivenza e sui riflessi sul permesso di soggiorno del coniuge extracomunitario.
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c) Esibizione del permesso di soggiorno e dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione: la circolare che lo vieta
L’entrata in vigore della l. 94/09 ha mutato il complessivo scenario in materia di immigrazione a causa dell’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale – art. 10 bis t.u. imm. –, scelta normativa i cui riflessi e implicazioni non sono ancora appieno valutabili.
Senza dubbio grande incertezza detta disposizione l’ha creata in rapporto alla norma di cui all’art.
6 t.u. imm., rubricato “Facoltà e obblighi inerenti al soggiorno”, anch’essa novellata dalla l. 94/09, con
riferimento al comma 2 che ora recita “fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo, per quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui
all’art. 35 e per quelli attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie, i documenti inerenti il soggiorno di cui all’art. 5, comma 8, devono essere esibiti gli uffici della pubblica amministrazione ai
fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati”.
Sgombrato il campo dall’ipotesi di obbligare i medici e i sanitari a segnalare lo straniero irregolare
– per il quale, dunque, continua a essere vigente il divieto di segnalazione ex art. 35 t.u. imm. (norma stralciata grazie al successo dell’ampia mobilitazione della società civile denominata “No ai medici spia!”) – e mantenuto fermo il divieto per ciò che concerne l’ambito scolastico, sussistevano ancora dubbi sull’obbligo di segnalazione in capo ai pubblici dipendenti relativamente alle dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione. Si era cioè inizialmente temuto il diffondersi della
paura tra gli immigrati irregolari a effettuare dichiarazioni in tal senso, con il conseguente rischio di
avere “neonati fantasma”.
Fortunatamente la circolare in oggetto ha espressamente e inequivocabilmente chiarito che “per lo
svolgimento delle attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione
(registro di nascita dello stato civile) non devono essere esibiti documenti inerenti al soggiorno
trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza
delle situazioni di fatto”.
5. Cenni alla tutela del minore, in particolare con riferimento all’art. 31, c. 3. Le ultime preoccupanti
oscillazioni della giurisprudenza di merito e di legittimità in materia
La tutela del minore e la disciplina in suo favore, contenuta nel medesimo Titolo IV del t.u. imm.,
viene qui solo accennata con particolare riferimento all’art. 31, c. 3, del citato t.u., per i suoi riflessi diretti in materia di diritto all’unità familiare.
Secondo detta disposizione “a favore dei minori” – mai modificata dall’entrata in vigore della l. 40/98
– il Tribunale per i Minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto
dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova in territorio italiano, può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle
altre disposizioni del presente testo unico. Detta autorizzazione è revocata quando vengono a cessare i gravi motivi che ne giustificano il rilascio o per attività del familiare incompatibili con le esigenze del minore o con la permanenza in Italia.
Il ruolo attribuito dal legislatore ai giudici minorili è di sicura rilevanza, stante il loro chiaro ruolo di
incidere nella rigida disciplina sull’immigrazione, sulla base della sola valutazione su quale sia il migliore interesse del bambino (funzione cui sono precipuamente chiamati a svolgere).
Tuttavia, l’oscillante interpretazione della norma – soprattutto da parte della Suprema Corte di Cassazione – e la “resistenza” dell’amministrazione degli interni ad accettare una “diminutio” del proprio potere in materia (è “solo” la PA di sicurezza, a eccezione di detta deroga, a rilasciare i titoli
che autorizzano il soggiorno degli immigrati) hanno fortemente contrassegnato questi primi quasi
dodici anni di applicazione della stessa.
Un’interpretazione che ha sempre messo al centro il superiore interesse del minore – alla luce di
tutte le convenzioni internazionali, della Costituzione e dei princìpi che informano il nostro ordinamento –, espressa con convinzione da molti Tribunali per i Minorenni (tra cui Milano), si è scontra-
70
CONTRIBUTI
ta negli ultimi anni con un approccio più propenso a ritenerla “norma eccezionalissima” da parte di
alcune Corti d’Appello (tra cui Milano, da qui l’aspra divergenza interpretativa con i giudici minorili di primo grado) e della Corte di Cassazione.
Con riferimento alla Suprema Corte si era pensato che la sentenza a Sezioni Unite n. 22216 del 16
ottobre 2006 avesse definitivamente fatto chiarezza, distinguendo tra autorizzazione all’ingresso e
quella alla permanenza, e in particolare con riferimento a quest’ultima, evidenziando il dovere per
il giudice minorile di accertare in concreto anche il grave pregiudizio che deriverebbe al minore dalla perdita improvvisa del familiare per effetto della sua espulsione. Si tratta di casi frequenti in cui
uno dei due genitori è regolare e l’altro no; ed è nell’interesse del figlio che il genitore sprovvisto
di soggiorno fa istanza al Tribunale per i Minorenni, affinché garantisca il diritto alla bigenitorialità,
stante il rischio che la sua espulsione possa arrecare un irreparabile danno allo sviluppo psicofisico
del minore.
Malgrado le S.U., la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha continuato pericolosamente
a oscillare, mantenendo un quadro di totale incertezza a discapito proprio dei minori.
Da ultimo, due assai discutibili sentenze della Corte di Cassazione, I Sezione civile, nn. 5856/2010
e 5857/2010, con identica motivazione, hanno riaperto il dibattito (anche sulla stampa), ritenendo
“bilanciabile” l’interesse superiore del minore con “il più generale interesse della tutela delle frontiere” (sic!), in una ricostruzione della norma totalmente non condivisibile, vista come “disposizione
che rischia di strumentalizzare l’infanzia”.
L’orientamento restrittivo espresso da queste pronunce, lungi dall’interpretare correttamente il tenore di detta delicata disposizione – come invece assai analiticamente effettuato, spesso, dalla giurisprudenza di merito6 –, tradisce una lettura “politica”, sull’onda del momento, introducendo parametri non contenuti né nella stessa norma, né in Costituzione, né nelle molteplici Convenzioni internazionali, e nemmeno nelle precedenti pronunce della stessa Suprema Corte.
Basti qui, infine, augurarsi un ulteriore e più meditato “ripensamento” da parte della Cassazione dell’intera disposizione, che rimetta realmente al centro il superiore interesse dei minori – da tenere
strettamente connesso al loro diritto di vivere in famiglia – e che ribadisca l’esclusivo compito della magistratura minorile nel valutare, caso per caso, quale sia detto migliore interesse.
Corte di Cassazione 16 ottobre 2009, n. 22808 - Pres. Carnevale, Est. Dogliotti
L’articolo 31 del d.lgs 286/1998 non tratta di situazioni eccezionali o eccezionalissime necessariamente collegate alla salute del minore, bensì di “gravi motivi” connessi con lo sviluppo psicofisico che vanno valutati tenendo conto della situazione di salute dell’età del minore e del
suo diritto alla bigenitorialità; in presenza di tali “gravi motivi”, il Tribunale minorile è tenuto
a rilasciare al familiare che ne faccia richiesta l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza
in Italia per il periodo ritenuto necessario.
Corte di Cassazione 10 marzo 2010, n. 5857
Le esigenze di tutela del minore che si trovi nel territorio dello Stato italiano legittimanti, ex
art. 31 d.lgs. n. 286 del 1998, la permanenza del suo nucleo familiare per un periodo di tempo determinato, possono ritenersi sussistenti nella sola ipotesi in cui i gravi motivi connessi
con lo sviluppo psicofisico del minore concretino una situazione di emergenza, rappresentata
come conseguenza della mancanza o dell’allontanamento improvviso, di carattere eccezionale
e temporaneo, la quale ponga in grave pericolo lo sviluppo normale della personalità del minore, sia fisico che psichico, tanto da richiedere la presenza del genitore nel territorio dello
Stato.
6
Cfr. tra le tante Tribunale per i Minorenni di Milano, decreto 9 luglio 2008, est. Domanico, in cui si argomenta anche con riferimento al contrario orientamento della locale Corte d’Appello.
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DIRITTI DEL MINORE STRANIERO: LA CASSAZIONE SCONFESSA SE STESSA
Alberto Figone
Avvocato del Foro di Genova, Docente di Diritto costituzionale e diritto pubblico presso la Facoltà
di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Genova
È assai frequente (e, in sostanza, fisiologico alla giurisprudenza) il contrasto e l’interpretazione discorde di una norma positiva, tra i giudici di merito, ma pure nell’ambito della Suprema Corte (e,
del resto, l’intervento delle Sezioni Unite è previsto proprio, tra l’altro, per risolvere contrasti giurisprudenziali).
Assai più raro è di contro che una pronuncia della Suprema Corte, invece di tendere a dimostrare
il suo assunto, giustificando così il suo decisum, si limiti (almeno per gran parte) a criticare, quasi
al limite dell’attacco personale, altra pronuncia di tenore opposto, quasi a voler cancellare una macchia, a esorcizzare un timore... Non è certo questo il compito di una sentenza ma semmai quello
di un eventuale commentatore, che peraltro sarebbe probabilmente ben più moderato. Ci si riferisce all’interpretazione dell’art. 31 d.lgs. n. 286/1998 in base al quale il Tribunale per i Minorenni
può autorizzare l’ingresso o la permanenza in Italia, per un periodo di tempo determinato, del familiare di un minore, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico di quest’ultimo.
Dunque la seconda pronuncia che si commenta (n. 5857/2010), in relazione alla pronuncia anteriore (n. 22080/2009) parla di contrasto inconsapevole (sic!) con un consolidato indirizzo di isolato arresto, di lettura “riduttiva” (sic!) in quanto orientata “alla sola salvaguardia delle esigenze del minore”. E aggiunge la pronuncia del corrente anno, connotata da una valenza più ideologica che
giuridico-formale, che il diritto del minore straniero all’unità familiare deve cedere di fronte “al più
generale interesse della tutela delle frontiere” e “alla superiore esigenza di legalità”.
Con un semplice tratto di penna, i giudici della Suprema Corte cancellano (si spera temporaneamente) decenni di cultura giuridica minorile, ignorando, nella sostanza, documenti internazionali
rilevantissimi, cui pure fanno formale riferimento, come la Convenzione di New York che, all’art.
3, attribuisce efficacia preminente all’interesse del fanciullo. Dunque – secondo la pronuncia – i
gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore devono concretare una situazione di
“emergenza” eccezionale e temporanea, tale da richiedere la presenza del genitore nel territorio
dello Stato.
Assai più condivisibile la sentenza anteriore più rispettosa della lettera e della ratio dell’art. 31 d.lgs.
n. 286/98; ci si deve riferire non tanto a “situazioni eccezionali o eccezionalissime”, quanto piuttosto a “gravi motivi” connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, che vanno valutati tenendo
conto delle condizioni di salute, dell’età del minore e del suo diritto alla bigenitorialità.
Quale ampiezza di respiro presenta la prima pronuncia rispetto alle ristrettezze della seconda! Si
richiamano i princìpi costituzionali e i diritti del minore che emergono con chiarezza da un percorso interpretativo che va dagli artt. 2 e 3 agli artt. 30 e 31 Cost., nonché vari e rilevantissimi documenti internazionali (ivi compreso il recente Trattato di Lisbona), e si offre un’acuta e approfondita disamina della Convenzione di New York, tutti profili che la seconda pronuncia sostanzialmente ignora.
Ma la sentenza anteriore non si ferma certo a essi. E qui – duole rilevarlo – la seconda pronuncia
pare mostrare una scarsa onestà intellettuale: non è vero che il precedente sia del tutto isolato e,
men che meno, che sia in “inconsapevole contrasto con l’indirizzo consolidato”. La prima pronun-
72
CONTRIBUTI
cia richiamando, tra l’altro, una sentenza della Sezioni Unite (Cass. n. 22216/2006), cui l’altra pronuncia in commento al riguardo non fa alcun riferimento, correttamente distingue due ipotesi, del
resto già individuate dal citato art. 31: l’autorizzazione all’ingresso del genitore in Italia ovvero la
preminenza di questo che già si trovi nello Stato, da cui potrebbe derivare una diversa valutazione dei “gravi motivi”. La presenza di questi dovrebbe essere puntualmente dedotta e accertata, solo nella prima ipotesi; ciò non varrebbe sempre nella seconda, in quanto i “gravi motivi” potrebbero essere dedotti, quale possibile conseguenza dell’improvviso allontanamento del genitore, soprattutto nel caso, come nella specie, di un minore in tenerissima età.
Ma il “generale interesse alla tutela delle frontiere” come affermato nella seconda pronuncia, non
è del tutto trascurato dalla sentenza anteriore (pur attribuendo netta preminenza all’interesse del
minore) che diventa quindi assai più equilibrata: si precisa infatti che l’art. 31 citato riconosce allo
straniero adulto la possibilità di ottenere un permesso necessariamente temporaneo che non può
convertirsi in permesso per motivi di lavoro.
Due sentenze: una rigida, angusta e non del tutto onesta intellettualmente, l’altra di amplissimo respiro e di notevolissimi orizzonti culturali, ma pure estremamente sensibile (è una qualità che in
materia familiare e minorile va richiesta in forza a tutti i giudici, anche quelli della Cassazione). A
questo punto sembra d’obbligo l’intervento delle Sezioni Unite, e speriamo che la decisione sia
quella giusta.
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MATRIMONI “MISTI” E ACQUISTO DELLA CITTADINANZA
Luigi Mughini
Avvocato del Foro di Firenze e vice presidente dell’Associazione “Progetto Arcobaleno Onlus”,
Firenze
1. Il fenomeno dei “matrimoni misti”
“Il comportamento matrimoniale costituisce un indicatore chiave per studiare l’integrazione socio
culturale dei diversi gruppi di immigrati presenti in un determinato Paese. Attraverso lo studio dei
cosiddetti ‘matrimoni misti’, ovvero delle coppie in cui almeno uno dei coniugi è straniero, è possibile ricavare un indicatore significativo del grado di integrazione delle comunità immigrate. I comportamenti matrimoniali (endogamici o esogamici) dei distinti gruppi nazionali presenti nel nostro
Paese costituiscono, infatti, una sorta di laboratorio culturale per le analisi di cross-cultural shock
o adaptation, segnatamente nello studio delle relazioni etniche, culturali e religiose fra comunità
ospitanti ed ospitate”1.
Lo scritto di Gatti coglieva l’essenza del fenomeno proprio ai suoi primi albori, considerato che, in
Italia, non è dato rinvenire studi sul fenomeno precedenti al 1984.
Del resto è proprio alla metà degli anni Ottanta che in Italia si verifica, per la prima volta, un saldo positivo di immigrati rispetto agli emigrati dall’Italia ed è solo dalla metà degli anni Ottanta che
l’Italia, da Paese di emigranti diventa Paese di immigrazione: ricordiamo, in proposito, che la prima, flebile normativa in materia di immigrazione è la legge 30 dicembre 1986, n. 943.
Ma dagli anni Ottanta il fenomeno dei “matrimoni misti”, con tutto il bagaglio di implicazioni etniche, culturali e religiose, è andato sviluppandosi costantemente, negli ultimissimi anni addirittura
in modo quasi esponenziale.
Mentre in Italia l’istituto del matrimonio sta attraversando una fortissima crisi, nel 1972 erano stati
celebrati 419.000 matrimoni, mentre nel 2008 ne sono stati celebrati 246.6132, le nozze delle coppie, in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera, sono passate dal 4,8% del totale
nel 1995 al 15% del 2008, cioè 36.918 matrimoni.
I matrimoni misti (in cui uno sposo è italiano e l’altro straniero) rappresentano la parte più consistente dei matrimoni con almeno uno sposo straniero, con una quota del 66,5% di questa tipologia di nozze, per oltre 24.000 celebrazioni nel 2008.
La frequenza dei matrimoni con almeno uno sposo straniero è più elevata nelle aree in cui è più
stabile e radicato l’insediamento delle comunità straniere, pertanto sono più diffusi al Nord e al
Centro, dove superano il 20% delle unioni complessive. Al Sud e nelle Isole, al contrario, i matrimoni con almeno uno sposo straniero sono l’8,1% e il 6,2% del totale delle unioni3.
1
Gatti, Prime riflessioni dei matrimoni misti tra italiani e stranieri in Sardegna 1984 -1989, in Studi Emigrazione, 102, Roma,
1991, 146.
2 Istat, Il matrimonio in Italia, anno 2008, Statistiche in breve, 2010 (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20100408_00/).
3 Istat, La popolazione straniera residente in Italia, Statistiche in breve, 2009 (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20091008_00/).
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CONTRIBUTI
Se incrociamo i dati dei matrimoni misti con quelli delle richieste di cittadinanza elaborati dal Ministero dell’Interno4 si evidenzia un aumento delle richieste di cittadinanza a seguito di matrimonio con cittadino italiano, passate da 19.756 nel 2004 a 25.373 nel 2009, dunque con un aumento
del 28%, dato comunque ben inferiore all’aumento delle richieste di cittadinanza per naturalizzazione passate da 10.841 nel 2004 a 35.963 nel 2009, con un incremento di ben il 231%.
Questo ultimo dato, pur mettendo ben in evidenza la portata del fenomeno dei matrimoni misti,
anche per gli effetti sull’acquisto della cittadinanza, dimostra come il principale percorso, in assoluto, per l’acquisto della cittadinanza sia attraverso la naturalizzazione, ossia la legale residenza in
Italia da almeno dieci anni.
2. L’acquisto della cittadinanza per matrimonio
La normativa sull’acquisto della cittadinanza per matrimonio, contenuta essenzialmente nella legge
3 febbraio 1992, n. 91, “Nuove norme sulla cittadinanza”, è stata novellata dalla recente legge 15
luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, il cosiddetto “pacchetto sicurezza”5.
Il legislatore, preoccupato dei possibili intenti speculativi dei “matrimoni misti”, particolarmente
quelli dove uno dei coniugi è straniero e l’altro italiano, finalizzati a ottenere sia la regolarità della presenza del cittadino straniero sul territorio dello Stato, sia la cittadinanza italiana, è intervenuto in vario modo sulla materia, modificando anche l’art. 116 del c.c. riguardante il matrimonio dello straniero nella Repubblica.
Prima di procedere all’esame della specifica normativa in materia di acquisto della cittadinanza per
matrimonio riteniamo dunque doveroso iniziare proprio dalla novella dell’art. 116 c.c.
Il testo codicistico previgente stabiliva che lo straniero intenzionato a contrarre matrimonio in Italia, oltre ad essere soggetto, come l’italiano, alle disposizioni di cui agli artt. 85 e ss. del c.c., doveva dimostrare, tramite dichiarazione della propria autorità consolare che, secondo le leggi del
proprio Paese, nulla ostava al matrimonio.
Ferme restando dette previsioni, con l’art. 1, comma 15, della legge 94/20096, è stato stabilito che
lo straniero deve dimostrare la regolarità del soggiorno in Italia.
Dunque, con effetto dall’8 agosto 2009, data di entrata in vigore della legge 94/2009, lo straniero
può contrarre matrimonio in Italia con altro straniero, o con il cittadino italiano, dimostrando la
propria condizione di stato libero e la regolarità della presenza sul territorio.
Si ricorda che l’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286/98, testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, stabilisce il divieto di espulsione del cittadino straniero coniuge di cittadino italiano: la norma, collegata all’art. 28
del d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394, “Regolamento recante norme di attuazione testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”,
consente al coniuge straniero il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari.
Fino all’entrata in vigore della legge 94/2009, essendo consentita la possibilità di contrarre matrimonio anche al cittadino straniero presente irregolarmente in Italia, il combinato disposto degli artt.
19 d.lgs. n. 286/98 e 28 d.p.r. 394/99 si poteva, in effetti, prestare a un escamotage per l’ottenimen-
4
Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione-Direzione Centrale per i diritti civili, la cittadinanza e le minoranze, Cittadinanza italiana, statistiche 2004-2009 (sito Ministero dell’Interno http://212.14.136.135/dipim/site/it/documentazione/statistiche/diritti_civili/I_dati_definitivi_del_2009.html).
5 Per un ulteriore esame della nuova normativa e dell’iter amministrativo per l’acquisto della cittadinanza per matrimonio si segnala: Olivetti, Bonetti (scheda pratica a cura di), Acquisto della cittadinanza italiana a seguito di matrimonio con cittadino italiano, aggiornata al 30 gennaio 2010 (consultabile all’indirizzo http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=documenti&id=1777&l=it); Furlan, La normativa sulla cittadinanza italiana e le modifiche apportate dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, in Diritto immigrazione
e cittadinanza, 4/2009, 210.
6 Art. 1, comma 15, della l. 94/2009: “All’art. 116, primo comma, del Codice civile, sono aggiunte, infine le seguenti parole: ‘nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano’”.
75
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to, nell’immediato, di un permesso di soggiorno e, come meglio vedremo, per ottenere in seguito
la cittadinanza.
L’integrazione all’art. 116 c.c. suscita però dubbi di legittimità costituzionale in quanto tendente a
limitare un diritto costituzionalmente garantito, quale quello della famiglia fondata sul matrimonio,
art. 29 Cost., ponendo un limite basato sulla condizione personale, regolarità del soggiorno, in violazione del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione.
Vediamo ora come è cambiata la normativa in materia di acquisizione della cittadinanza per matrimonio e quali sono le attuali condizioni e l’iter per detto ottenimento.
L’acquisto della cittadinanza italiana da parte di uno straniero, a seguito di matrimonio con un cittadino italiano, avviene con la presentazione di specifica istanza da parte del coniuge straniero:
l’istanza è presentata al Prefetto della provincia in cui il richiedente risiede7, oppure al Console italiano competente per lo Stato estero di residenza8.
L’art. 5 della legge 91/92, come modificato dalla legge n. 94/20099, stabilisce due requisiti per la
presentazione della domanda:
1) matrimonio con un cittadino italiano;
2) due anni di residenza legale ininterrotta nel territorio della Repubblica (un anno se vi sono figli
nati o adottati dai coniugi), dopo il matrimonio, oppure dopo tre anni dal matrimonio (18 mesi se vi sono figli nati o adottati dai coniugi) se non residenti in Italia.
L’art. 5, legge n. 91/92, stabilisce altresì che, fino al momento dell’adozione del decreto di conferimento della cittadinanza, non deve essere intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, né la separazione personale dei coniugi.
Due le novità rispetto al testo previgente: l’ampliamento da sei mesi a due anni del termine per la
presentazione della domanda per i residenti in Italia e che, alla data di adozione del provvedimento di conferimento della cittadinanza, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi, condizioni che, precedentemente, erano limitate al momento della presentazione della domanda.
Sono modifiche che, da un punto di vista temporale, hanno non poca rilevanza se si considera che,
ai sensi dell’art. 8, comma 2, legge n. 91/92, il Ministero dell’Interno dalla presentazione della domanda ha un termine di due anni per l’emanazione del provvedimento e che, per prassi amministrativa, i tempi di risposta del Ministero dell’Interno sono mediamente di circa tre anni: dunque
l’iter per l’acquisto della cittadinanza, stanti le nuove disposizioni, non si conclude prima di circa
cinque anni dalla celebrazione del matrimonio.
Proprio in ragione dei tempi di evasione delle domande, il Ministero dell’Interno ha stabilito10 che
per i decreti di conferimento della cittadinanza italiana per matrimonio, adottati dopo l’8 agosto
2009, occorre procedere all’integrazione della documentazione e perciò ha disposto che, con l’atto di convocazione per la notifica del decreto di conferimento della cittadinanza, le Prefetture devono invitare gli interessati a produrre la seguente documentazione aggiornata alla data di adozione del provvedimento:
1) atto integrale di matrimonio;
2) certificato di esistenza in vita del coniuge italiano: il decesso del coniuge, ai sensi dell’art. 149
c.c. determina infatti lo scioglimento del matrimonio e la cessazione dei suoi effetti civili.
In tal senso il Ministero dell’Interno ha altresì precisato che, qualora gli Ufficiali di stato civile o le
7
Art. 1, comma 1, d.p.r. 18 aprile 1994, n. 362.
8
Art. 45, comma 2, d.p.r. 5 gennaio 1967, n. 18.
9
Art. 5, legge n. 91/92: 1. Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di cui all’articolo 7, comma 1, non sia intervenuto
lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. 2. I termini di cui al comma 1 sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi.
10 Ministero dell’Interno, circolare K.60.1 del 7 ottobre 2009.
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CONTRIBUTI
Autorità diplomatico-consolari venissero successivamente a conoscenza di una separazione o divorzio intervenuti tra i coniugi prima della data di adozione del decreto, ma non ancora annotati
e trascritti a quel momento, essi devono comunicarlo alla Direzione centrale per i diritti civili, la
cittadinanza e le minoranze del Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione del Ministero
dell’Interno per la revoca del provvedimento.
Per quanto riguarda le domande pendenti all’8 agosto 2009, e ancora in istruttoria, il Ministero dell’Interno ha stabilito11, con qualche perplessità in ordine al principio generale “tempus regit actum”,
che:
1) alle istanze già presentate e ancora in istruttoria per le quali, alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni normative introdotte dalla legge n. 94/2009, risulti decorso il termine biennale per la conclusione del procedimento, deve essere applicata la normativa vigente al momento della presentazione della domanda, essendo già maturata la posizione di diritto soggettivo dell’istante. Per conseguenza, la domanda non deve essere integrata con documentazione
aggiuntiva, rispetto a quella già prodotta.
2) Le istanze per le quali, alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni normative introdotte dalla legge n. 94/2009, non sia ancora decorso il termine biennale previsto per la conclusione del procedimento, ricadranno nell’applicazione delle nuove disposizioni, atteso che il richiedente, in tali casi, non risulta essere in possesso di un diritto soggettivo pieno.
Per dette fattispecie dovrà dunque essere verificato se, alla data di entrata in vigore della nuova
legge, l’interessato era in possesso dei due anni di residenza legale dopo il matrimonio (o altri termini stabiliti dalla norma) nonché accertare se il vincolo matrimoniale non sia cessato al momento dell’adozione del provvedimento, acquisendo la relativa documentazione.
La sussistenza del matrimonio e l’inesistenza di separazione personale dei coniugi, annullamento
o scioglimento del matrimonio sono dunque requisiti essenziali ai fini dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio e, come abbiamo visto, devono perdurare fino al decreto di concessione.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato il requisito del matrimonio per l’acquisto della
cittadinanza italiana consiste non soltanto nel dato formale della celebrazione, ma anche nella conseguente instaurazione di un effettivo rapporto coniugale, con il rispetto dei conseguenti doveri
civili di fedeltà, assistenza, collaborazione e coabitazione, previsti dall’art. 143 c.c., perdurante per
il tempo prescritto e tale da dimostrare l’integrazione dello straniero nel tessuto sociale e civile nazionale12.
Deve essere ricordato che il legislatore, già prima dell’intervento del luglio 2009, aveva stabilito che
la cessazione della convivenza, in assenza di prole, costituisce presupposto di revoca del permesso di soggiorno per motivi familiari rilasciato allo straniero non comunitario coniugatosi col cittadino italiano13, il che farebbe venir meno il presupposto del regolare soggiorno, necessario ai fini
dell’ottenimento della cittadinanza per matrimonio dopo i due anni di celebrazione, allorché lo straniero si trovi sul territorio italiano.
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, legge n. 91/1992, ulteriore presupposto per richiedere la cittadinanza per effetto del matrimonio contratto con cittadino italiano è la trascrizione dell’atto di matrimonio negli appositi registri di stato civile del Comune italiano competente.
Ulteriore conseguenza dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio è che i figli minori, se conviventi con il genitore14, acquisiscono in modo automatico la cittadinanza.
Infine deve essere precisato che, ai sensi dell’art. 6, legge n. 91/92 precludono l’acquisto della cittadinanza per matrimonio:
a) la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice pe-
11 Circolare Ministero dell’Interno, 6 agosto 2009.
12 Consiglio di Stato, sez. VI, 18 dicembre 2007, n. 6526.
13 Art. 30, comma 1 bis, d.lgs. n. 286/98, introdotto con l’art. 29 della legge 20 luglio 2002, n. 189, la cosiddetta Bossi-Fini.
14 Art. 14 della legge n. 91/1992.
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nale: delitti contro la personalità internazionale dello Stato (artt. 241-275 c.p.), contro la personalità interna dello Stato (artt. 276-293 c.p.) e contro i diritti politici del cittadino (art. 294 c.p.);
b) la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico a
una pena detentiva superiore a un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando
la sentenza sia stata riconosciuta in Italia;
c) la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.
Il procedimento amministrativo si conclude, in caso positivo, con il decreto del Ministero dell’Interno che conferisce la cittadinanza al coniuge di cittadino italiano. Il decreto è trasmesso all’autorità che ha ricevuto l’atto, che deve provvedere alla notifica all’interessato15.
Pur non trattandosi di un conferimento della cittadinanza per concessione, può essere richiesta la
prestazione di un giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le
leggi dello Stato16.
3. Conclusioni
Nonostante la diffidenza dimostrata dal legislatore, in particolare con gli ultimi interventi, verso le
coppie e i matrimoni misti, possiamo ritenere che questo fenomeno sia una fedele anticipazione
della società che ci attende. Si tratta, a parte marginali speculazioni, di un fisiologico cambiamento della nostra società. Segna il mutamento di una società inevitabilmente e ineluttabilmente multietnica, con tutte le conseguenze negli incontri, negli amori e, perché no, negli interessi speculativi sul matrimonio (tale concetto è ben precedente al fenomeno dell’immigrazione in Italia), e contro il quale nessun atteggiamento politico/legislativo restrittivo potrà opporsi.
“La vita fa il suo corso. La vita con i suoi ritmi e i suoi riti, s’impone. La vita, e nient’altro”17.
15 Art. 7 legge n. 91/1992, art. 4 d.p.r. n. 362/1994.
16 Art. 10 legge n. 91/1992.
17 Guolo, Il marito musulmano, in “La Repubblica”, 15 gennaio 2007, 1.
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CONTRIBUTI
NUOVA LEGGE SULLA CITTADINANZA, OVVERO IL MINIMALISMO DEL COMPROMESSO
Stefano Rossi
Avvocato del Foro di Bergamo, cultore di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di
Bergamo
1. Premessa
Scriveva Gian Enrico Rusconi che “una nazione può cessare d’esserlo. La nazione infatti non è una
struttura statuale fissa ed indistruttibile. Non è neppure un dato etnico disancorato dalle sue forme
politiche storiche. La nazione democratica, in particolare, è una costruzione sociale delicata e complicata, fatta di culture e storie condivise, di consenso manifesto e corrisposto, basato sulla reciprocità tra i cittadini. È un vincolo di cittadinanza, motivato da lealtà e da memorie comuni”1.
Analizzare tale vincolo, valutarne le condizioni, definirne le forme significa incidere nella carne viva dei rapporti sociali, in quanto, stabilire “chi è dentro e chi è fuori” dal cerchio della cittadinanza2, ha come conseguenza l’attribuzione o la negazione di determinati diritti civili e sociali3.
Tuttavia queste brevi riflessioni rinunciano programmaticamente a sviluppare un “discorso sulla cittadinanza”4, sia sotto il profilo dell’indagine di teoria generale del diritto, che in termini politologici o, ancor più, filosofici e antropologici, consapevoli di quanto il percorso diverrebbe complesso se si sconfinasse dall’alveo ove lo si vuol condurre5.
1
Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Bologna, 1996, 7.
2
Grosso, Una nuova disciplina della cittadinanza italiana, in GI, 1992, 7 per cui “Il diritto della cittadinanza è, per definizione, un diritto di esclusione, poiché ripartisce le persone fisiche in due categorie, i cittadini e gli stranieri, i cui diritti sono ineguali. Tale ripartizione verrà poi condotta, dai singoli ordinamenti, su basi differenti, a seconda delle diverse concezioni dello status
di cittadino cui i legislatori dei singoli Stati intenderanno fare riferimento. Negli ordinamenti giuridici moderni si confrontano
due concezioni opposte: una etnica e una elettiva. Secondo la prima concezione la nazione preesiste agli individui, che ne sono il
prodotto: il cittadino non può essere tale che per effetto della sua genealogia. Secondo tale modello il diritto della cittadinanza, al
fine di preservare l’identità etnica e culturale della nazione, deve assumere come criterio principale, se non esclusivo, di attribuzione della cittadinanza quello che con un’espressione assai carica di significato simbolico si è soliti definire jus sanguinis, il diritto del sangue: per essere cittadini occorre essere figli di cittadini, in modo che la nazione possa perpetuare attraverso le generazioni il legame iniziale e preservare in tal modo la propria identità originale. Secondo la concezione elettiva della cittadinanza,
invece, la nazione non esiste che grazie all’adesione di coloro che la compongono. Essa è una comunità aperta, pronta ad accogliere tutti coloro che, a condizione che presentino con essa qualche legame oggettivo, manifestino la volontà di entrare a farne
parte. La traduzione giuridica di tale concezione consiste nel subordinare l’attribuzione della cittadinanza ad un atto di volontà
del soggetto che presenti con lo Stato un minimo di legame oggettivo, quale la nascita o la residenza”.
3 Pezzini, Lo statuto costituzionale del non cittadino: i diritti sociali, relazione tenuta al convegno dell’Associazione italiana dei
costituzionalisti, Cagliari, 16-17 ottobre 2009, in www.astrid-online.it, 5 ss.
4 Costa, Storia della cittadinanza in Europa. L’età dei totalitarismi e della democrazia, IV, Roma-Bari 2001, 485 ss.; Grosso, Le
vie della cittadinanza, Padova, 1997, 12 ss.; Cerrone, La cittadinanza e i diritti, in Nania, Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, I, Torino, 2006, 277 ss.
5 In questo senso Caravita di Toritto, I diritti politici dei non cittadini. Ripensare la cittadinanza: comunità e diritti politici, relazione tenuta al convegno dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Cagliari 16-17 ottobre 2009, in www.astrid-online.it, 11
per cui “Il concetto di cittadinanza, che costituisce il riferimento tradizionale per il riconoscimento dei diritti politici, non è più
fondato sul concetto identitario di nazione ed è oggetto di profondi mutamenti in ragione delle molteplici modalità con le quali le
persone circolano tra gli ordinamenti giuridici e fanno parte di ciascun ordinamento. Per usare le parole di Seyla Benhabib, siamo di fronte alla ‘disaggregazione della cittadinanza’: ‘siamo giunti al punto dell’evoluzione politica delle comunità umane nel
quale il modello unitario di cittadinanza che accomunava la residenza in un solo territorio con l’assoggettamento ad una amministrazione burocratica comune, in grado di rappresentare una popolazione che era percepita come un’entità più o meno coesa,
è ormai alla fine’; gli ‘sviluppi istituzionali scorporano le tre dimensioni costitutive della cittadinanza, cioè l’identità collettiva, i
privilegi dell’appartenenza politica e il titolo a fruire dei diritti sociali e dei relativi vantaggi’”.
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Si deve comunque sottolineare come, da un punto di vista concettuale, la nozione di cittadinanza,
a cui si ricollegano determinati diritti, abbia assunto un significato che va oltre la sua tradizionale
accezione giuridica. Storicamente, infatti, la cittadinanza si profilava come uno status soggettivo
volto a indicare l’appartenenza a una comunità etnico-culturale, il che garantiva l’acquisizione della titolarità di una serie di diritti, riconosciuti e garantiti dalla comunità stessa6.
A questa accezione della cittadinanza, basata sull’appartenenza, si è progressivamente affiancata una
visione che tende a porre in rilievo l’importanza della dimensione della partecipazione, in tal modo
mutando la portata del concetto stesso di cittadinanza in linea con un’evoluzione dei diritti di cittadinanza corrispondente alle nuove esigenze manifestate dalla società civile. Il concetto di cittadinanza
si riempie quindi di un contenuto relazionale che consiste nella partecipazione, ancorché di fatto, alla vita della comunità e sempre in misura minore da caratteri culturali-identitari di stampo nazionale.
La cittadinanza implica, dunque, in questa rinnovata accezione, l’appartenenza a una comunità politica e ha come conseguenza la titolarità di una serie di diritti. In tal senso, la dottrina ha attribuito alla cittadinanza due significati opposti ma tra loro complementari, considerandone, da un lato,
la dimensione statica o verticale, intesa come qualità personale del soggetto che designa un rapporto tra quest’ultimo e lo Stato e che viene assunta dall’ordinamento per individuare i destinatari
di determinate prescrizioni; dall’altro, la dimensione dinamica od orizzontale, per cui la cittadinanza viene a coincidere con l’esercizio pieno ed effettivo dei diritti e delle libertà democratiche consacrate nella costituzione ed esercitate nell’ambito di una comunità politica7.
Segnali di questa ormai acquisita consapevolezza della complessità e polisemia del concetto si desumono anche da alcuni passaggi della giurisprudenza costituzionale più avanzata, come nel caso
di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 172 del 1999 nella quale si definisce la comunità statale come “comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella
fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto, che accoglie e accomuna tutti coloro che,
quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo
l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame
stretto di cittadinanza”8.
Non si può tuttavia affermare – con superficialità – che la Corte Costituzionale abbia fatto propria una
compiuta elaborazione in merito a una nuova idea di comunità, in quanto permane attuale (e consolidata anche nella prassi amministrativa) quella ricostruzione secondo cui la cittadinanza si caratterizza essenzialmente per la condizione di appartenenza tra Stato e cittadino. “In tal guisa appare corretto assumere che la relazione [tra lo Stato e il singolo uomo, volta ai fini della sua inclusione nella comunità ordinamentale come cittadino] si struttura sulla base di una condizione di appartenenza fissata e determinata, come mera situazione giuridica, in via esclusiva dall’ordinamento statale”9.
6
Lepore, Le nuove frontiere della cittadinanza: il ruolo delle città e delle amministrazioni locali, Cittalia-Fondazione Anci Ricerche, maggio 2009, 19, per cui “in una società multietnica, quale la nostra, la cittadinanza tradizionalmente intesa da strumento di garanzia dei diritti per gli individui diventa uno strumento di discriminazione nei confronti di coloro che, pur essendo
parte attiva da un punto di vista economico-sociale della comunità di riferimento, si vedono esclusa la possibilità di partecipare
all’adozione delle decisioni pubbliche. Le forti ondate migratorie degli ultimi decenni hanno fatto registrare una tendenza contraddittoria: il contenuto della cittadinanza ha continuato a farsi più denso e articolato per i cittadini, mentre è diventata più ampia la parte di soggetti esclusi dal godimento di alcuni di questi diritti, in quanto stranieri”.
7 Ivi, 10 ss.; Cuniberti, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella costituzione italiana, Padova, 1997, 153;
Cerrone, La cittadinanza e i diritti cit., 280; Pizzolato, Sul senso della cittadinanza, in AA.VV., Democrazia competitiva e cittadinanza comune, Roma, 150 ss.;. Helzel, Il diritto ad avere diritti. Per una teoria normativa della cittadinanza, Padova, 2005, 8894; Grosso, Le vie della cittadinanza cit., 37 che sottolinea come si possano distinguere “quattro diverse definizioni di cittadinanza: cittadinanza come ‘insieme di diritti’, come ‘somma di doveri’, come ‘vincolo’ orizzontale tra consimili politicamente organizzati e su un piano di parità tra di loro, infine come rapporto verticale, ancorché bilaterale, tra l’individuo e il Sovrano”; Belvisi,
Cittadinanza, in Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, 1998, 117; Castorina, Introduzione allo
studio della cittadinanza. Profili ricostruttivi di un diritto, Milano, 1997 e anche Rossi, La porta stretta: prospettive della cittadinanza post-nazionale, in www.forumcostituzionale.it, 23 aprile 2008.
8 Corte Cost., 18 maggio 1999, n. 172, in MFI, 1999; Corte Cost., 15 aprile 2001, n. 131, in Gcost., 2001, 2.
9 Stancati, Lo statuto costituzionale del non cittadino: le libertà civili, relazione tenuta al convegno dell’Associazione italiana dei
costituzionalisti, Cagliari, 16-17 ottobre 2009, in www.astrid-online.it, 13.
80
CONTRIBUTI
Limitarsi a ribadire la persistenza del tratto statico della cittadinanza, sarebbe però come disconoscere che quella “comunità allargata”, prospettata nella sentenza del 1999, sia ormai una realtà sociale, prima che giuridica, inevitabilmente destinata a crescere a seguito dei flussi migratori. Se poi
a ciò si aggiunge il progressivo rafforzarsi dell’integrazione europea, la trasformazione delle comunità economiche in Unione, e la conseguente libertà di circolazione e stabilimento, la previsione
esplicita di una cittadinanza europea sussidiaria rispetto a quelle nazionali, e infine la riforma del
Titolo V della Costituzione in ordine ai livelli delle prestazioni pubbliche, si giunge a comprendere come mai cominci a imporsi l’idea di “cittadinanza costituzionale”, integrata dai contenuti delle
libertà e dei diritti direttamente dovuti per Costituzione, indifferentemente ai cittadini e non10.
Tale situazione impone di recuperare quella dimensione di complessità che caratterizza la cittadinanza, nella quale ogni soggetto è titolare di un patrimonio minimo di diritti (civili, sociali e politici) che può svilupparsi e arricchirsi a partire dal progressivo riconoscimento, sulla base della regolare residenza, di diverse costellazioni di diritti e doveri: in questo senso il contesto nazionale
diviene solo uno (anche se primario) degli ambiti in cui la cittadinanza si incarna e si sviluppa, in
quanto a ciascun individuo potranno essere riconosciuti livelli diversi di cittadinanza, a seconda del
tipo di comunità cui fanno capo i singoli diritti di cui è riconosciuto titolare o i singoli doveri il cui
adempimento è richiesto11.
In conclusione, integrando il dato ordinamentale con le indicazioni provenienti dal sostrato politico-sociale, è possibile identificare le motivazioni che sono alla base della cittadinanza, ovvero rispondere alla domanda “chi è cittadino?”, più che a quella “cos’è un cittadino?”, quesito il primo
che appare preliminare all’analisi e al commento della disciplina legislativa positiva, ossia delle regole per l’acquisto e la conservazione dello status multiforme di cittadino.
2. La legge 5 febbraio 1992, n. 91
L’interazione tra diritto della cittadinanza e politica migratoria è stata particolarmente intensa nel
caso dell’Italia, nel corso del XX secolo12. L’imponente emigrazione italiana – quella transoceanica
in particolare – iniziata nella seconda metà del XIX secolo e durata fino agli anni Settanta di quello successivo, ha agito come una determinante fondamentale delle scelte legislative in materia di
cittadinanza, in occasione di entrambe le riforme di portata generale effettuate nel secolo scorso (a
distanza di ottant’anni l’una dall’altra: nel 1912 e nel 1992). Quanto all’immigrazione da Paesi stranieri, fenomeno sociale statisticamente rilevante in Italia solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, i suoi riflessi sulla disciplina del diritto di cittadinanza sono stati, sino ad oggi, limitati,
ma estremamente significativi.
Se tra i problemi cui la nuova legge avrebbe dovuto dare soluzione si elencavano la piena realizzazione dell’uguaglianza tra uomo e donna, l’attuazione delle istanze provenienti dalle comunità
italiane all’estero e, soprattutto, l’esigenza di dare risposta alle nuove prospettive aperte dal feno-
10 Forte, Appunti per una base costituzionale della cittadinanza, consultabile all’indirizzo http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/site/it-it/Rubriche/Amministrazioni_Pubbliche/Note_e_Commenti/Documento/forte_cittadinanza.html
11 Bascherini, L’immigrazione e i diritti, in Nania, Ridola (a cura di), I diritti costituzionali cit., 474.
12 Pastore, Nationality Law and International Migration: The Italian Case, in Hansen, Weil (a cura di), Towards a European Nationality. Citizenship, Immigration and Nationality Law in the EU, Basingstoke, 2001, 4. Sottolineare l’importanza dei fenomeni migratori come fattore evolutivo del diritto italiano della cittadinanza non deve portarci a dimenticare il peso di altre determinanti sociali, culturali e politiche delle trasformazioni di questa branca del diritto. In particolare, va messo in evidenza il profondo impatto che ha avuto in questo campo il valore dell’uguaglianza tra uomo e donna all’interno della famiglia, affermatosi progressivamente all’interno della società italiana nel secondo dopoguerra ed elevato a principio normativo di rango costituzionale dalla Costituzione repubblicana (1948). Con un certo ritardo rispetto ai principali Paesi europei, e grazie al fondamentale ruolo di impulso svolto dalla Corte Costituzionale (vedi, in particolare, le sentenze 16 aprile 1975, n. 87 e 9 febbraio 1983, n. 30), il principio di parità
ha, infatti, determinato profonde modificazioni nella disciplina legislativa della cittadinanza (vedi, soprattutto, la l. 19 maggio 1975,
n. 151, e la l. 21 aprile 1983, n. 123). Si è così pervenuti al pieno superamento del dogma ottocentesco dell’unità politica della famiglia (unicità della cittadinanza al suo interno) e alla piena equiparazione della donna all’uomo, sia con riferimento all’incidenza
del matrimonio sulla cittadinanza dei coniugi, sia con riferimento alla capacità di trasmettere la cittadinanza stessa ai figli.
81
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meno dell’immigrazione, non si può che constatare come la l. n. 91/1992 abbia ricalcato in gran
parte l’impianto della legislazione previgente, riducendosi le innovazioni introdotte in una semplice ricezione degli strumenti normativi elaborati dal legislatore nel ventennio precedente sulla scorta delle indicazioni giurisprudenziali13, in alcune facilitazioni dell’acquisto della cittadinanza da parte dei cittadini comunitari e infine in una maggior tutela della conservazione della cittadinanza italiana da parte degli italiani all’estero14.
Proprio alla luce dell’approvazione, nel 1990, della “legge Martelli”, la legge di riforma dell’acquisizione della cittadinanza poteva essere (e in molti si aspettavano che fosse) un completamento necessario della legge sull’immigrazione, nell’ambito di una riforma complessiva in grado di dare una
prospettiva nuova e positiva, in particolare alle persone immigrate regolarmente soggiornanti. In
altre parole poteva essere un’occasione per dare un messaggio di inclusione, ma così non è stato:
al contrario si sono peggiorati alcuni aspetti della legge precedente, a partire dai dieci anni anziché cinque di residenza per l’acquisto della cittadinanza il che ha contribuito a rendere più difficile l’integrazione delle persone immigrate15.
Quindi, mentre nel 1992 si consolidava l’immigrazione da Paesi non appartenenti all’Unione europea verso l’Italia, il legislatore dell’epoca scriveva un testo immaginando che gli italiani emigrassero ancora in grandi numeri: al punto che, durante l’iter della stessa, il relatore della legge n. 91/1992
definì l’immigrazione extracomunitaria in Italia un’“ipotesi residuale”.
Evidentemente il legislatore del 1992, premesso che i disegni di legge in materia (del Governo e
del Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige) risalivano al dicembre 1988-luglio 1989 e perciò a
poco prima dell’approvazione della cosiddetta legge Martelli (d.l. 30 dicembre 1989, n. 416 conv.
in l. 28 febbraio 1990, n. 39), non aveva ancora una visione corretta e obiettiva del fenomeno immigratorio, tanto meno una previsione lungimirante16.
Allora dominante era la considerazione dell’emigrato italiano ovvero la preoccupazione della tutela o rivitalizzazione delle “radici italiane” che, per il fatto dell’emigrazione, si erano troncate a seguito della perdita dello status civitatis; prevalente era anche la necessità di consacrare in norme
compiute quei princìpi che avevano ispirato la riforma del diritto di famiglia, la parità fra i coniugi e fra i sessi, fra discendenza paterna e materna17.
Tale adeguamento della normativa ha comportato, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale circa la salvaguardia della volontà del singolo in tema di diritti personali, l’eliminazione di qualunque automatismo nell’acquisto o perdita dello status civitatis, ovvero la subordinazione di tali
effetti a condizioni rigide, connesse a un comportamento del singolo da cui si deducesse, direttamente o indirettamente, comunque in modo inequivocabile, la sua volontà.
13 In particolare quelle legate alla riforma del diritto di famiglia, in seguito alla quale si è eliminato il principio della perdita della cittadinanza italiana per la donna che sposasse un cittadino straniero acquistandone la cittadinanza (l. 19 maggio 1975, n. 151
che recepisce il contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 87/1975) e quelle introdotte dalla l. 123/1983 volta all’eliminazione di ogni automatismo e delle disparità di trattamento tra uomo e donna connesse all’acquisto della cittadinanza per iuris
communicatio.
14 Bariatti, La disciplina giuridica della cittadinanza italiana, vol. II, Milano, 1996; Clerici, La cittadinanza nell’ordinamento
giuridico italiano cit.; Cuniberti, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella costituzione italiana cit.; Grosso,
Una nuova disciplina della cittadinanza italiana, in GI, IV, 1992; Menghetti, L’acquisto della cittadinanza per matrimonio: il fenomeno dei matrimoni fittizi, in Gli Stranieri. Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione in materia di stranieri, n. 1/1998;
Nascimbene, La condizione giuridica dello straniero. Diritto vigente e prospettive di riforma, Padova, 1997.
15 Nascimbene, Promemoria sulla cittadinanza, Atti del convegno “Riformare la legge sulla cittadinanza”, Roma, 22 febbraio
1999.
16 Farfan, Naturalizzazione italiana: la via della cittadinanza per gli stranieri, in Tutela, 2/3, 1995.
17 Bonetti, Ammissione all’elettorato e acquisto della cittadinanza: due vie dell’integrazione politica degli stranieri. Profili costituzionali e prospettive legislative, in www.federalismi.it. Ciò nonostante la relazione presentata all’Assemblea dalla Commissione
Affari Costituzionali recitasse: “Il problema della normativa in fatto di cittadinanza è tra i più importanti e delicati dell’ordinamento di un Paese; soprattutto di un Paese come l’Italia, che ha visto nei decenni trascorsi momenti di massiccia emigrazione e vive oggi, e probabilmente vivrà ancor più domani, momenti di immigrazione. Di fronte a tali fenomeni, l’esigenza di una risposta
legislativa che, a poco meno di ottanta anni dalla l. 13 giugno 1912, n. 555, ridisegnasse, in modo organico, la normativa sulla
cittadinanza, era, ed è, ampiamente avvertita... Essa si pone nella linea della migliore tradizione legislativa dalla quale, purtroppo, Governo e Parlamento si discostano troppo spesso, proponendo riforme parziali ed aggiustamenti contingenti che non hanno
il pregio della chiarezza e determinano difficoltà e complicazioni per gli utenti, ivi compresi gli stessi operatori del diritto”.
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All’epoca, quindi, nel tentativo di adattare la legislazione allo spirito democratico ed egualitario
contenuto nel preambolo dell’Atto unico europeo, il legislatore, pur provvedendo ad adeguare la
normativa sulla cittadinanza al dettato costituzionale e ai mutamenti di costume sotto il profilo della parità di sesso, ha finito per accentuare il divario tra cittadini “comunitari” e “non comunitari”,
aumentando per questi ultimi, da cinque a dieci anni il periodo di residenza necessario per l’acquisizione del nostro status civitatis18.
Conseguenza di tale impostazione è che, nella legge del ‘92, il principio dello jus sanguinis è ancora dominante, mentre lo jus soli ha rilievo assai modesto e trova applicazione in casi limitati19,
in particolare:
A) persona nata in Italia qualora a) entrambi i genitori siano ignoti oppure b) siano apolidi; c) il
figlio non segua la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale essi appartengono (cfr. art. 1, 1° co., lett. b; un accertamento in tal senso è richiesto dall’art. 2 del d.p.r. n.
572/93, ponendo peraltro limiti discutibili, che dipendono dalla legge straniera dei genitori: l’acquisto jure soli è impedito se tale legge richiede una dichiarazione espressa del genitore o
l’adempimento di formalità amministrative da parte dello stesso).
B) Persona nata in Italia (straniero, quindi, alla nascita perché figlio di straniero) che abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno da tale data. In tal caso l’acquisto della cittadinanza italiana non è automatico, ma è richiesta una specifica manifestazione di volontà (cfr.
art. 4, 1° co., lett. c).
C) Persona nata in Italia ma che, diversamente dall’ipotesi precedente, non abbia maturato il periodo di residenza richiesta, bensì soltanto un periodo di residenza legale di almeno tre anni. In tal
caso l’acquisto della cittadinanza si verifica a seguito di decreto di concessione del Presidente
della Repubblica, e perciò in virtù del procedimento di naturalizzazione (cfr. art. 9, lett. a).
D) Persona “trovata” in Italia (e pertanto nata nel territorio nazionale ovvero all’estero), che sia figlia di ignoti e non venga provato il possesso di altra cittadinanza (cfr. art. 1, 2° co.).
In termini generali, si può affermare che la legge vigente ha introdotto norme più severe e restrittive rispetto a quelle contenute nella l. 13 giugno 1912, n. 555, per quanto concerne l’applicazione dello jus soli, consentendo l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli stranieri solo
in presenza del requisito della residenza continuativa nel Paese dal momento della nascita fino alla maggiore età (art. 4, 2° co.).
Infatti il requisito della residenza legale e ininterrotta, se interpretato rigidamente, tende a escludere dal beneficio un numero considerevole di giovani, nati in Italia e privi di legami diretti con il
Paese d’origine dei genitori, i quali però, per esempio, abbiano ottenuto un regolare titolo di soggiorno (o siano stati registrati sul titolo di soggiorno di uno dei genitori) solo in epoca successiva
alla nascita, per effetto di un provvedimento di regolarizzazione20.
18 Relazione accompagnatoria al disegno di legge governativo comportante Modifiche alla l. 5 febbraio 1992, n. 91 recante nuove norme sulla cittadinanza, A.C. n. 1607.
19 Come detto, mentre il criterio dello jus sanguinis, tipico dell’Europa continentale, fa perno sull’idea che la cittadinanza derivi
da una comunità di razza, nella visione secondo cui gli individui non sono che il prodotto della nazione (Lippolis, Aderire ai valori della nazione è il principio fondante dell’essere cittadini, in Amministrazione civile, 2008, 6, 18), il diverso criterio dello jus
soli si incentra sul rapporto tra cittadino e territorio, indipendentemente dalla discendenza dei propri avi, valorizzando la tensione
volontaristica, ossia l’adesione da parte del singolo al contratto sociale che è connesso allo status di cittadino. Raramente si riscontra nei diversi ordinamenti la presenza di uno solo dei criteri citati, essendo invece costante l’azione in combinato disposto tra i
due, con la prevalenza a volte dell’uno, a volte dell’altro, il che definisce il tratto etnico-culturale ovvero politico-volontaristico che
caratterizza la cittadinanza in un determinato ordinamento.
20 A tal proposito si rammenta come, secondo quanto dichiarato dall’allora ministro Boniver (in “La Repubblica”, 16 gennaio
1992), le nuove norme sulla naturalizzazione avrebbero fatto sí che “nel giro di una generazione anche l’Italia sarebbe divenuta
una società multietnica, multirazziale, multiculturale”. Non si riesce a comprendere come tale effetto possa essere connesso alla nuova disciplina, dal momento che ottenere la naturalizzazione sarà d’ora in poi ben più difficile di un tempo e che pertanto se
di novità si tratta, essa va proprio nel senso, opposto a quello pubblicizzato dal ministro, di evitare, o quantomeno di posticipare
nel tempo, il formarsi di una società multirazziale. Infatti, se con la legge del 1912 era sufficiente una stabile e legale residenza sul
territorio italiano di cinque anni, con la nuova legge ne saranno necessari dieci, mentre vengono conservate tutte le garanzie che
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Soffermandosi poi, in particolare, sulla disciplina della naturalizzazione (art. 9), introdotta con la
legge del 1992, non si può non rilevare come il legislatore, adottando un approccio dotato di una
certa originalità nel panorama europeo, ha istituito una sorta di dettagliata gerarchia tra diverse categorie di stranieri, fissando per ciascuna di esse un periodo di residenza legale diverso, come condizione necessaria per poter presentare istanza di naturalizzazione. Così, il periodo di “anticamera” necessario per poter aspirare alla cittadinanza è stabilito equivalente a tre anni per lo “straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati
cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica”; è invece di quattro anni per il
“cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee”; sale a cinque anni per lo “straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano”, per lo “straniero che ha prestato servizio [...] alle dipendenze dello Stato” e per l’apolide; diventa, infine, di ben dieci anni, nel caso del semplice “straniero” (nel senso di cittadino di Stato non membro delle Comunità europee). Per quest’ultima categoria di non-cittadini – che comprende, ovviamente, la quasi totalità degli immigrati – il tempo di residenza necessario per poter chiedere la naturalizzazione risulta raddoppiato rispetto alla legislazione previgente21.
Una delle più importanti innovazioni introdotte dalla legge del 1992 riguarda la disciplina dei casi di doppia cittadinanza: a norma dell’art. 11 “il cittadino che possiede, acquista o riacquista una
cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca la residenza all’estero”. Secondo la disciplina previgente, il cittadino che acquistava una cittadinanza straniera perdeva la cittadinanza italiana, e in particolare per i casi di doppia cittadinanza di un minore era prevista l’opzione obbligatoria entro un anno dal raggiungimento della maggiore età. In tali disposizioni era chiaramente riscontrabile un atteggiamento di sfavore verso la
possibilità di mantenere più di una cittadinanza. Tale impostazione è stata completamente rovesciata dalla legge di riforma, che ha stabilito un principio fortemente innovatore, abrogando l’istituto dell’opzione e introducendo la possibilità di mantenere in ogni caso la doppia o la plurima
cittadinanza. L’abolizione dell’opzione ha risolto molte incertezze interpretative cui la normativa
precedente lasciava spazio, che andavano dall’infelice impiego del termine, alla presentazione di
tale scelta come un obbligo, al dubbio se la mancata opzione conducesse alla perdita della cittadinanza italiana22.
Ma vi sono anche molti altri punti critici nella legislazione vigente, che necessitano di un ripensamento e che possono essere sintetizzati attraverso il riferimento agli snodi fondamentali della normativa:
a) la permanenza di discriminazioni fra uomo e donna (marito o padre, e moglie o madre) nell’acquisto e riacquisto della cittadinanza (i figli nati da madre che abbia riacquistato la cittadinanza
italiana ai sensi dell’art. 219 della l. n. 151/75 di riforma del diritto di famiglia, o i figli nati prima del 1948 da madre italiana sono tuttora ritenuti stranieri);
b) il mancato rispetto della volontà del singolo e la presenza di effetti automatici estranei alla volontà, peraltro censurati dalla Corte Costituzionale (sentenze del 16 aprile 1975, n. 87 e del 9 febbraio 1983, n. 30; si ricorda, per esempio, l’automatico riacquisto della cittadinanza italiana da
parte di chi l’abbia perduta e abbia risieduto in Italia per un anno, ex art. 13, 1° co., lett. d);
già la precedente normativa prevedeva circa il margine di discrezionalità che lo Stato mantiene su ogni singola concessione. Evidente, pertanto, l’intento protettivo al quale è ispirata la nuova normativa, ostile a una rapida assimilazione di tutta quella popolazione che, dopo aver beneficiato della “corsia preferenziale” rappresentata dalla cosiddetta “sanatoria Martelli”, risiede oggi legalmente sul territorio italiano e che dovrà attendere dieci anni prima di poter aspirare alla naturalizzazione. Cfr. Grosso, Una nuova
disciplina della cittadinanza italiana cit.
21 Pastore, Nationality Law and International Migration: The Italian Case, in Hansen-Weil (a cura di), Towards a European Nationality cit., 22. Senza tener conto del fatto che, per giurisprudenza consolidate (da ultimo Cons. Stato 25 marzo 2009, n. 1788),
al fine di ottenere la cittadinanza ai sensi dell’art. 9. 1° co., lett. f) l. 91/1992 non sia sufficiente la residenza da almeno dieci anni,
ma subentri anche un giudizio di meritevolezza basato sulla ligia condotta dello straniero e sulla sua integrazione nel tessuto sociale italiano.
22 Grosso, Una nuova disciplina della cittadinanza italiana cit.
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c) l’eccessiva durata del procedimento di concessione della cittadinanza per naturalizzazione ovvero di acquisto a seguito di matrimonio con cittadino italiano;
d) la condizione di residenza in Italia per un periodo eccessivamente lungo, ai fini della naturalizzazione, considerata sia la condizione privilegiata dei cittadini comunitari e la previsione nel
Trattato sull’Unione europea dello specifico istituto della “cittadinanza dell’Unione” (artt. 8 ss.);
sia l’introduzione del “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” ex art. 9
t.u. in materia di immigrazione, che è segno distintivo della sostanziale parità di diritti fra stranieri e cittadini (pur con alcuni, discutibili limiti) e che si ottiene dopo cinque anni di residenza in Italia (la naturalizzazione ex lege n. 91/92, art. 9, 1° co., lett. d, f si ottiene dopo quattro
anni per i comunitari e dieci per gli extracomunitari);
e) l’incertezza di previsioni circa la disponibilità di redditi richiesta ai fini della naturalizzazione;
f) la previsione dello “svincolo” dalla cittadinanza originaria (posto come condizione della naturalizzazione) da parte dello Stato di appartenenza dello straniero;
g) la necessità di semplificare la produzione di documenti (in particolare da parte dei rifugiati)23.
L’analisi critica proposta mette in rilievo come la materia della cittadinanza non possa più essere
disciplinata se non a partire dall’esigenza centrale di assicurare, anche attraverso le norme sull’acquisto e la perdita della cittadinanza, la tutela della libertà e dei diritti individuali e come, nell’elaborazione della legge vigente, si sia persa un’importante occasione per tentare una riflessione approfondita sul ruolo della cittadinanza nell’attuale contesto costituzionale.
Infatti se “la determinazione delle condizioni alle quali sussiste, si instaura e si estingue il rapporto fondamentale tra uno Stato e le persone, oggetto di una legge sulla cittadinanza, comporta invero una scelta di valori rispondente alle concezioni che sono alla base della stessa comunità nazionale e del suo diritto, si tratta, da un lato, di stabilire i presupposti giuridici per la stessa individuazione di tale comunità: da essi verrà poi a dipendere la regolamentazione di un complesso di situazioni, nel senso che l’ordinamento vigente potrà riferirle ai soli cittadini ovvero disciplinarle in modo diverso nei confronti di questi e degli stranieri”24. La legislazione italiana purtroppo, a differenza di quella di molti altri Paesi europei, risultava ancora totalmente priva di un solido impianto teorico-sistematico idoneo a chiarire a quale “concezione” di comunità si è inteso aderire, il che lascia
l’interprete privo di un orizzonte verso il quale indirizzarsi.
3. Il testo unificato Bertolini di riforma della legge sulla cittadinanza
I progetti di legge in materia di riforma della legge sulla cittadinanza durante la XVI legislatura sono numerosi, tuttavia è possibile schematizzarne i contenuti generali attraverso i due paradigmi
classici che contraddistinguono la materia in esame:
a) alcuni progetti tendono a rafforzare il requisito dello jus soli ai fini dell’acquisizione della cittadinanza: in particolare ddl. AC n. 457/2008 (Bressa)25, n. 2670/2009 (Sarubbi, Granata)26 e n.
2684/2009 (Mantini, Tassone);
23 Nascimbene, Promemoria sulla cittadinanza cit., 8.
24 Kojanec, Su di un nuovo ordinamento della cittadinanza italiana, in Scritti in onore di E. Tosato, Milano, 1982, 3.
25 Tre sono le principali innovazioni iscritte in tale proposta: a) agevolazioni per l’acquisto della cittadinanza da parte di stranieri nati sul territorio della Repubblica; b) un nuovo regime per l’acquisizione della cittadinanza da parte dei minori stranieri; c) un
nuovo percorso per l’acquisizione della cittadinanza denominato “attribuzione”, che configura un iter nel quale esiste un vero e
proprio diritto soggettivo all’acquisizione della cittadinanza da parte dello straniero, anche se condizionato alla residenza legale nel
territorio italiano per almeno cinque anni, alla verifica dell’integrazione linguistica e sociale dello straniero. Si deve sottolineare che
preclusiva all’accesso a tale percorso è la condanna definitiva per reati di particolare disvalore. Tali soluzioni normative erano tutte già parte del Testo unificato Bressa, approvato nella XV legislatura.
26 La proposta di legge poggia su due capisaldi: da un lato mira a fare sì che il minore nato in Italia da un nucleo familiare stabile acquisisca i pari diritti dei coetanei con i quali affronta il percorso di crescita e il ciclo scolastico; in tal modo si evita il crearsi di una “terra di mezzo”, dove i bambini nati da genitori non italiani crescano con un senso di estraniazione dal loro contesto,
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b) altri progetti, in senso contrario, realizzano un irrigidimento dello jus sanguinis, proponendo in
alcuni casi un ritorno a una versione chiusa ed etnica del concetto di cittadinanza: in particolare nn. 103 e 104 (Angeli), 718 (Fedi), 995 (Merlo), 2006 (Paroli) e 1592 (Cota)27.
Il testo unificato, approvato dalla Commissione Affari Costituzionali in sede referente in data 17 dicembre 2009, risulta dal coordinamento delle diverse proposte di legge, unificate dall’idea comune per cui la cittadinanza non deve essere un acquisto automatico a seguito della permanenza sul
territorio italiano per un determinato numero di anni, ma deve costituire il riconoscimento di un’effettiva integrazione: una cittadinanza basata dunque non su un fatto quantitativo, bensì su un fatto qualitativo.
Il provvedimento è costituito da 5 articoli: l’art. 1, modificando l’art. 4, 2° co., l. n. 91/1992, aggiunge ai requisiti già previsti dalla legislazione vigente per lo straniero che sia nato in Italia e voglia
divenire cittadino italiano (residenza legale ininterrotta fino al raggiungimento della maggiore età),
quello ulteriore di aver frequentato con profitto scuole riconosciute dallo Stato italiano e di aver
assolto il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Come attualmente previsto, la dichiarazione di volontà deve essere espressa entro un anno dal raggiungimento della maggiore età. Il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età è stato previsto dall’art. 2, 1° co., lett. c),
l. n. 53/2003 e successivamente disciplinato dal d.lgs. n. 76/2005, emanato in attuazione di quest’ultima.
L’art. 2 – sostituendo all’art. 9, 1° co., lett. f) – subordina la concessione della cittadinanza allo straniero, che risieda stabilmente e legalmente da almeno dieci anni nel territorio italiano, allo svolgimento del percorso di cittadinanza come definito nel successivo articolo 3.
Tale percorso si sostanzia in una serie di condizioni alla cui sussistenza è subordinata l’acquisizione della cittadinanza dello straniero legalmente soggiornante in Italia da almeno dieci anni.
Tali condizioni sono (novellato art. 9 ter, 1° co.):
a) possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo28;
b) frequentazione di un corso di formazione di un anno volto ad approfondire la conoscenza della storia e della cultura italiana ed europea, dell’educazione civica e dei princìpi della Costituzione italiana29;
c) effettivo grado di integrazione sociale e rispetto, anche in ambito familiare, delle leggi statali e
dei princìpi della Costituzione;
d) rispetto degli obblighi fiscali;
pericoloso per il futuro processo di integrazione e di inserimento sociali del minore. Questo si ottiene passando dall’attuale principio dello jus sanguinis, sul quale è basata la legislazione vigente, al principio dello jus soli, temperato e condizionato dalla stabilità del nucleo familiare in Italia o dalla partecipazione del minore a un ciclo scolastico-formativo. L’altro caposaldo della proposta di legge prevede una svolta paradigmatica nella concezione del meccanismo di attribuzione della cittadinanza in Italia, passando da un’ottica “concessoria e quantitativa” a un’ottica “attiva e qualitativa”. La cittadinanza deve diventare per lo straniero adulto
un processo certo, ricercato e formativo; il punto di arrivo di un percorso di integrazione sociale, civile e culturale e il punto di
partenza per il suo continuo approfondimento. L’idea fondamentale è, da un lato, quella di fornire tutti gli strumenti idonei a favorire il processo che porta al pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza a chi dimostri di volersi integrare nel tessuto sociale
e civile della nazione che lo ospita; dall’altro, quella di non far scattare automatismi laddove questa volontà non sia espressa esplicitamente.
27 Bolognino, Le nuove frontiere della cittadinanza nel confronto tra “cittadinanza legale” e “cittadinanza sociale”: verso una riforma della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/site/it-it/Rubriche/Amministrazioni_Pubbliche/Note_e_Commenti/Documento/cittadinanza_bolognino.html, 44.
28 Il “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo”, prima del 2007 denominato “carta di soggiorno”, è il titolo
di soggiorno riservato agli stranieri non comunitari presenti stabilmente nel nostro Paese. È rilasciato a richiesta dell’interessato ed
è condizionato al possesso del permesso di soggiorno, da almeno cinque anni. A differenza del permesso di soggiorno che dura
al massimo due anni, è a tempo indeterminato.
29 Tra i contenuti del corso di formazione non è incluso l’approfondimento della conoscenza della lingua italiana, nella misura
in cui il cosiddetto “pacchetto sicurezza” ha già introdotto un test di conoscenza della lingua italiana, il cui superamento è condizione essenziale per l’ottenimento del permesso di soggiorno CE (art. 1, 22° co., lett. i), l. n. 94/2009 che ha modificato l’art. 9 d.lgs.
n. 286/1998), che a sua volta è condizione per l’accesso alla cittadinanza.
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e) requisiti di reddito, alloggio e assenza di carichi pendenti, necessari per ottenere il permesso di
soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, di cui all’art. 9 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 28630.
Tale aggravio di condizioni per l’accesso alla cittadinanza, dopo una residenza decennale e regolare nel territorio italiano ai fini dell’acquisto della cittadinanza, viene giustificata con la necessità
di verificare che tale permanenza sia stabile. Questo, al fine di evitare che possa accedere alla cittadinanza lo straniero che, pur avendone la possibilità, non abbia chiesto il permesso di soggiorno comunitario per soggiornanti di lungo periodo, ma si sia avvalso, invece, di permessi di soggiorno temporanei. Si ritiene, infatti, che la richiesta di un permesso di soggiorno di lunga durata
sia un segno evidente e tangibile della volontà di far parte stabilmente della comunità italiana.
L’art. 4, modificando l’art. 10 della legge sulla cittadinanza, prevede che il decreto di attribuzione
o di concessione della cittadinanza acquisti efficacia con il giuramento che deve essere prestato dinanzi al prefetto della provincia di residenza. La disposizione indica la formula del giuramento
(“Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi,
riconoscendo la pari dignità sociale di tutte le persone”) e prevede che in occasione del giuramento venga consegnata all’interessato una copia della Costituzione italiana31.
Si deve sottolineare, nel proporre una rapida analisi del progetto di riforma, come l’impostazione
di fondo che se ne ricava, possa essere ben sintetizzata dalle seguenti affermazioni del relatore: “la
cittadinanza non rappresenta un mezzo per una migliore integrazione, ma rappresenta la conclusione di un percorso di integrazione già avvenuta”32.
Si tratta di un approccio minimalista che non tiene conto della funzione “di sistema” che la disciplina della cittadinanza viene a svolgere nell’ambito degli ordinamenti statali33.
Se infatti la cittadinanza viene intesa come un atto di volontà del singolo, che impegna lo Stato a
verificarne la solidità e accompagnarne lo sviluppo fino all’attribuzione di un diritto soggettivo, se
pure affievolito, l’interrogativo sul carattere iniziale o conclusivo dell’attribuzione della cittadinanza nell’ambito del processo di integrazione risulta completamente infondato.
La cittadinanza è l’attribuzione di un diritto da parte dello Stato a una persona che vuole essere
partecipe a pieno titolo della comunità nazionale, per cui la legge che ne propone la disciplina
non deve pertanto essere confusa con altri provvedimenti relativi all’immigrazione o con le politiche necessarie a garantire un’integrazione compiuta. La cittadinanza rappresenta, infatti, un tassello rispetto a un più ampio panorama, che prevede il diritto di voto alle elezioni amministrative e
la definizione di politiche d’integrazione concernenti la casa, il lavoro, il welfare e soprattutto la
scuola, provvedimenti che devono affiancare la legge, evitando di considerare la cittadinanza strumento regolatore dei flussi migratori.
30 Ai sensi del 2° co. del nuovo articolo 9 ter, l’accesso al corso annuale, funzionale alla verifica del percorso di cittadinanza, può
avvenire dopo otto anni di permanenza in Italia. A seguito della richiesta dello straniero di accedere al corso, l’amministrazione
competente deve verificare, entro 120 giorni, la sussistenza del permesso di soggiorno CE, l’adempimento degli obblighi fiscali, la
permanenza dei requisiti di reddito, alloggio e assenza carichi pendenti. Il procedimento amministrativo relativo al percorso di cittadinanza deve concludersi entro due anni dalla presentazione della richiesta di iscrizione al corso annuale stesso, fermo restando
il requisito dei dieci anni di permanenza in Italia per l’ottenimento della cittadinanza (comma 3). È previsto inoltre (comma 4) che
il Governo ponga in essere, con il concorso delle Regioni, iniziative e attività finalizzate a sostenere il percorso di integrazione linguistica, culturale e sociale dello straniero.
31 Attualmente si prevede che il decreto di concessione della cittadinanza non abbia effetto se la persona a cui si riferisce non
presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di essere fedele alla Costituzione e alle leggi dello Stato. Le modalità di prestazione del giuramento sono poi previste dall’art. 7 del decreto del Ministero
dell’Interno del 27 febbraio 2001 (in materia di tenuta dei registri dello stato civile nella fase antecedente all’entrata in funzione degli archivi informatici).
32 Relazione della I Commissione permanente (Affari Costituzionali) della Camera dei deputati, presentata in data 17 dicembre
2009, relative alle proposte di legge in tema di riforma della cittadinanza AC 103-A e abbinate, 9.
33 Appare emblematico il caso della Francia. La fonte principale del diritto francese della nazionalità è un vero e proprio “Codice
della cittadinanza”, composto di oltre 150 articoli (Code de la nationalité del 19 ottobre 1945, profondamente modificato e integrato dalla l. 9 gennaio 1973 e ss. mm.). Esso presenta una struttura sistematica assai raffinata, che permette un facile approccio e notevoli semplificazioni nell’attività interpretativa. Inoltre sembra particolarmente attento a collegare ogni singola opzione giuridica a
un impianto teorico generale coerente con alcune precise premesse definitorie: dopo aver chiarito che può ambire alla dignità di
cittadino francese soltanto chi è in possesso di determinate caratteristiche indispensabili per potersi riconoscere in quella comunità, la legge delinea una serie di ipotesi diverse, a seconda del grado di avvicinamento delle singole situazioni al modello tipico.
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In questo senso la mens legis, che impronta il testo unificato, è orientata a rendere più difficile l’ottenimento della cittadinanza, in palese controtendenza rispetto alla riforma della legislazione in materia nei principali Paesi europei che, pur nel quadro di opzioni specifiche che restano piuttosto
differenziate, sono tutte orientate ad attenuare impostazioni basate sullo jus sanguinis accogliendo, in via tendenziale, lo jus soli e abbreviando i tempi per richiedere la cittadinanza a seguito di
un periodo di prolungata residenza dello straniero sul territorio nazionale.
Gli aggravi imposti dal testo rispetto all’acquisizione della cittadinanza possono essere rapidamente sintetizzati:
a) nel tratto marcatamente concessorio della disciplina34, che rimane fondato su un meccanismo di
stampo quantitativo. Sostanzialmente la proposta tende a incrementare la discrezionalità della
pubblica amministrazione per la concessione della cittadinanza, che viene ancorata a requisiti
indeterminati, a fenomeni largamente opinabili, la cui concretizzazione è affidata al regolamento di attuazione della legge35;
b) la previsione del carattere condizionante del possesso del permesso per soggiornanti di lungo
periodo (e del suo mantenimento anche successivamente alla presentazione della domanda per
la cittadinanza) reintroduce surrettiziamente il requisito reddituale, già oggetto di stringenti critiche in dottrina36;
c) l’obbligo di frequenza di un corso annuale di educazione civica e linguistica, previsione condivisibile, se non si risolvesse in un’ulteriore onere, anziché in un incentivo per il richiedente, come invece avviene in altri Paesi (penso ad esempio alla Germania) dove la partecipazione consente di accorciare i tempi per la naturalizzazione.
Vi è poi il problema delle cosiddette “seconde generazioni”, oggetto di scontri ideologici tra le due
fazioni dell’attuale maggioranza, che tuttavia non viene né affrontato, né risolto. Anzi sembra che
il legislatore voglia ex iure deletur factum: non si regola il fenomeno sociale, culturale e antropologico dei nuovi italiani (forse perché troppo complesso), ma si tenta di annullarlo, dichiararlo inesistente con la forza del diritto.
In questo senso l’art. 1 del testo unificato appare come un potente incubatore di estraniazione per
chi, nato su suolo italiano, è costretto a vivere formalmente da straniero sino al raggiungimento
della maggiore età, senza che gli sia concessa per tempo – nell’età della costruzione della propria
identità personale, che è anche identificazione con modelli valoriali, culturali e sociali – la possibilità di amare il Paese dove vive e vivrà37.
È indubbio che favorire l’acquisizione della cittadinanza italiana per i bambini e i ragazzi che nascono in Italia significa prevenire conflitti e consentire l’integrazione e la coesione sociale.
Per eterogenesi rispetto alle finalità proclamate, l’art. 1 del testo analizzato conferma i vincoli insiti nella normativa vigente, che si appalesa tra le più severe in Europa con i figli di stranieri nati nel
territorio dello Stato, in quanto – rispetto alla precedente legge del 1912 – prevede il requisito, dif-
34 L’introduzione – da parte dell’art. 3 del testo unificato – del percorso descritto nel nuovo art. 9 ter, al cui svolgimento è subordinata l’acquisizione della cittadinanza, sembra inserire nella legge vigente un meccanismo di tipo automatico, che tuttavia contrasta con l’art. 9 della l. 91/1992 (che permane sostanzialmente immutato) il quale configura l’atto di conferimento come provvedimento discrezionale di natura concessoria.
35 Si richiede così l’accertamento di un effettivo grado di integrazione sociale, oppure il rispetto, anche in ambito familiare, delle leggi e della Costituzione e ancora, aver pagato le tasse. Criteri già di per sé passibili di diverse e ampiamente discrezionali interpretazioni: e allora sarà integrato chi va allo stadio la domenica o chi va a messa o ancora chi va a fare una scampagnata con i
compagni di lavoro o di condominio?
36 Si vedano le opinioni espresse da Bonetti, Rossano e Morozzo della Rocca nel corso dell’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati in data 17 marzo 2007.
37 La cittadinanza (nel suo aspetto romantico) è, in primo luogo, esercizio di un atto di volontà profonda, solenne e consapevole, tuttavia è anche una parte della coscienza di ciascuno, in formazione progressiva, determinata dalle relazioni esistenziali e dai
tratti culturali. Così, ad esempio, nel caso di un bambino arrivato in Italia all’età di due anni e che a dieci o dodici tifa per l’Inter,
mangia la pizza o gli spaghetti, frequenta tutte le settimane amici di origine italiana, vive e si forma una cultura nell’ambito delle
nostre scuole, è irrealistico dire che non rappresenti, nella sua esperienza esistenziale, un cittadino.
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CONTRIBUTI
ficile da provare e da rispettare, della residenza continuativa38. Ciò in controtendenza rispetto ad
altre legislazioni: ad esempio quella inglese o portoghese che consente l’acquisizione su richiesta
addirittura alla nascita ai nati sul territorio da genitori che abbiano un permesso di soggiorno permanente o dopo dieci anni di residenza. Dall’altra aggiunge un’altra condizione data dalla frequenza con profitto di scuole riconosciute dallo Stato italiano almeno sino all’assolvimento del dirittodovere all’istruzione e alla formazione.
La relatrice ha ritenuto di giustificare tale previsione con argomentazioni discutibili, secondo cui:
“con riferimento alla previsione dell’obbligo di frequentare con profitto le scuole riconosciute dallo
Stato italiano, l’intenzione è quella di porre i minori stranieri in una posizione di sempre maggiore
parità rispetto ai minori che sono già cittadini italiani. Non si vede, infatti, per quali ragioni a questi ultimi si impone l’obbligo di frequentare le scuole, mentre la stessa previsione non si vuole applicare ai minori che non sono ancora cittadini italiani”. Tuttavia, da un lato, il d.lgs n. 76/2005 stabilisce che la fruizione dell’offerta di istruzione e di formazione costituisce per tutti, ivi compresi i
minori stranieri presenti nel territorio dello Stato, oltre che un diritto soggettivo, un dovere sociale
ai sensi dell’art. 4 Cost., il cui inadempimento comporta sanzioni per i genitori (artt. 1, comma 6, e
5), dall’altro, appare decisamente improprio l’uso della locuzione “frequenza con profitto”, che è utilizzata solitamente con riferimento a corsi di aggiornamento o qualificazione professionale.
Un’ultima questione è però centrale, ossia la semplificazione dei procedimenti amministrativi che
rappresenta buona parte della legge sulla cittadinanza. A termini di law in books per l’ottenimento
della cittadinanza sono necessari tre, cinque o dieci anni, ma se si analizza il procedimento amministrativo (quale esempio di law in action), queste stime divengono irrealistiche in quanto, di norma, bisogna aggiungervi almeno due o tre anni. Né il testo unico apporta alcuna innovazione concreta, nella misura in cui i termini in esso previsti per il procedimento mantengono natura ordinatoria. Allora sarebbe stato razionale, a fronte della dura realtà della nostra burocrazia, stabilire che,
in tema di acquisto della cittadinanza, la sussistenza delle condizioni prescritte debba essere valutata con riferimento al momento della domanda e non al momento dell’emissione del provvedimento concessorio o costitutivo del diritto.
4. Conclusioni provvisorie
Il testo unificato – se le condizioni politiche lo permetteranno – dovrà ancora affrontare l’esame e
la discussione parlamentare, per cui vi sarà tempo e occasione per ritornare a discutere di questa
tematica (anche alla luce di eventuali modifiche che verranno apportate al testo commentato). Tuttavia mi pare di poter dire che l’esigenza di una riforma della legge sulla cittadinanza sia strettamente legata al problema emergente dell’integrazione delle seconde generazioni, che rappresenta
non solo un nodo cruciale dei fenomeni migratori, ma anche una sfida per la coesione sociale e
un fattore di trasformazione delle società riceventi39.
38 Costituendo elemento significativo del progetto, non si può evitare di sottolineare come la dizione di “legalmente residente”
sia intrinsecamente ambigua e pregna di rischi interpretativi, in quanto è una formula che non ha precisione in sé e può essere letta in vari modi, tra cui, più frequentemente, come “residenza anagrafica”. La residenza anagrafica, però, ubbidisce a regole e discipline che oggi, e non solo da oggi, vivono una seria sofferenza applicativa, soprattutto nelle grandi metropoli, dove le strutture
degli uffici anagrafici non permettono il controllo puntuale sul territorio. Da alcuni decenni, infatti, nelle metropoli tutte le funzioni anagrafiche di fatto, in luogo dell’accertamento della residenza utilizzano, in via di soccorso, l’esibizione di certificazione impropria, dimostrativa e sintomatica, della presenza. Quest’ultima, però, contiene delle rigidità e rende più difficile l’acquisto della residenza anagrafica da parte di una persona che, di fatto, è già da tempo legalmente soggiornante in Italia.
39 In questo senso “Bastenier e Dassetto (Bastenier, Dassetto, Italia, Europa e nuove immigrazioni, Torino, 1990, 17) hanno fatto notare che ricongiungimenti familiari, nascita dei figli, scolarizzazione, incrementano i rapporti tra gli immigrati e le istituzioni della società ricevente, producendo un processo di progressiva ‘cittadinizzazione’ dell’immigrato, ossia ‘un processo che lo porta ad essere membro e soggetto della città intesa nella più larga accezione del termine’. Dunque, nel bene e nel male, la nascita e
la socializzazione delle seconde generazioni, anche indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, producono uno sviluppo delle interazioni, degli scambi, a volte dei conflitti tra popolazioni immigrate e società ospitante; sicché rappresentano un punto di svolta dei rapporti interetnici, obbligando a prendere coscienza di una trasformazione irreversibile nella geografia umana e
sociale dei paesi in cui avvengono”. Cfr. Ambrosini, Caneva, Le seconde generazioni: nodi critici e nuove forme di integrazione, in
Sociologia e Politiche sociali, 1/2009.
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I cittadini stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2009 sono quasi quattro milioni, pari al 6,5% del
totale dei residenti. Si tratta di un aumento del 13% rispetto all’anno precedente, ma siamo ancora
lontani dal 13% complessivo degli Stati Uniti, dal 20% del Canada e dal 13,5% della Germania, anche perché il nostro è un fenomeno di immigrazione più recente.
Se si considera poi che sul totale dei residenti di cittadinanza straniera, quasi 520mila sono nati in
Italia, 72mila nel solo anno 2009, appare evidente come il fenomeno delle cosiddette seconde generazioni rappresenti un segmento di popolazione in costante crescita40.
Appare sempre più evidente – alla luce dell’affermazione, anche nello spazio pubblico, della cosiddetta “generazione Balotelli” – il pregiudizio che potrebbe essere determinato alla complessiva
coesione sociale dalla divaricazione tra “cittadinanza formale” e “cittadinanza sostanziale”, l’impossibilità, cioè, di definire l’appartenenza alla comunità nazionale sulla base dei soli elementi individuati dalla l. n. 91/1992, con il rischio di mortificare l’essenza stessa dello Stato democratico.
L’esclusione degli stranieri che vivono regolarmente da tempo nel nostro Paese dall’attiva partecipazione alla vita sociale anche attraverso l’inclusione nei processi decisionali (con l’attribuzione dei
diritti politici) contrasta visibilmente “con il discorso di fondo e i valori di integrazione” consacrati
dal nostro ordinamento costituzionale e finisce per alimentare ulteriori tensioni nel già delicatissimo campo della convivenza propria di una società multietnica41.
40 Caritas Italiana-Fondazione Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2009, XIX Rapporto, Roma, 2009.
41 Bettinelli, Cittadini Extracomunitari, voto amministrativo e Costituzione inclusiva, in Quaderno, 15, in Caretti (a cura di), Seminario 2004 dell’Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Torino, 2004, 36. L’articolo è scaricabile all’indirizzo
http//:www.astrid-online.it/Immigrazio/Studi--ric/BETTINELLI--Voto-extracomunitari.pdf
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EUROPA
IL RAPPORTO GERIN-RAOULT SUL VELO ISLAMICO RIACCENDE IL DIBATTITO
Angela Cossiri
Ricercatrice di Istituzioni di diritto pubblico presso il Dipartimento di diritto pubblico e teoria
del governo, professore aggregato di Diritti sociali e di cittadinanza presso la Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Macerata
1. Il rapporto Gerin-Raoult sul velo islamico integrale: non solo repressione
Il Parlamento francese sta discutendo una proposta di legge che prevede il divieto di indossare il
velo islamico integrale nei luoghi pubblici1. La normativa riguarderebbe esclusivamente il niqab, il
velo che lascia spazio agli occhi, e il burqa, in cui il viso è interamente coperto. Il 26 gennaio è stato depositato il Rapporto elaborato dalla Commissione parlamentare di studio, che conclude sei mesi di lavori e di audizioni2.
La relazione, dai toni molto prudenti, si esprime a favore dell’introduzione di una disposizione legislativa, il più possibile condivisa dalle forze politiche, che vieti di dissimulare il viso negli esercizi e servizi pubblici (per esempio nel settore dei trasporti), escludendo peraltro di estendere il bando a tutti gli spazi pubblici, data l’assenza di una veduta unanime sul punto.
Il rapporto raccomanda di optare per uno strumento legislativo che possa essere declinato per via
amministrativa: la violazione di questa regola non dovrebbe quindi costituire un crimine o un reato e potrebbe, al più, prevedere un’ammenda di importo contenuto e potrebbe implicare un rifiuto
di corrispondere il servizio richiesto.
La misura descritta, per quanto del tutto omessa nel dibattito italiano scaturito dalla presentazione
del documento, si inserisce in un quadro assai più ampio che riconosce come prioritaria un’incisiva politica di dialogo interculturale e di integrazione, considerata lo strumento principale, da un lato, per contrastare apartheid sessuale e derive settarie liberticide e, dall’altro, per garantire una giu-
1
Il presente contributo è stato chiuso in data 5 febbraio 2010.
In aggiornamento si segnala che il 25 marzo 2010, il Consiglio di Stato francese ha pronunciato un parere in merito al divieto per
legge dell’uso di velo integrale negli spazi pubblici, rilevando gli ostacoli giuridici di una simile generalizzata interdizione, “di ordine costituzionale e rispetto alla Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Secondo il Consiglio di Stato francese spetta all’autorità amministrativa competente prescrivere eventualmente il divieto solo per ragioni di sicurezza e identificazione, limitandosi ad alcuni luoghi pubblici: “tribunali, seggi elettorali, comuni, scuole, ospedali e università o qualsiasi luogo in cui si viene sottoposti ad un esame”. Il documento è disponibile nel sito www.olir.it.
Successivamente, in data 13 luglio 2010, l’Assemblea Nazionale francese ha approvato il progetto di legge per la messa al bando
del velo integrale islamico (niqab e burqa) nei luoghi pubblici, con 335 voti a favore e uno contrario. La gran parte dei membri
del Partito socialista, principale forza di opposizione, si è rifiutata di partecipare al voto.
Il Senato esaminerà a sua volta il progetto di legge il prossimo settembre, e non dovrebbero esserci ostacoli per la sua approvazione finale. Il testo votato oggi, presentato dal ministro della Giustizia Michele Alliot-Marie, prevede il divieto di indossare il velo
integrale in tutti i luoghi pubblici. Mariti o conviventi che obbligano le loro compagne a indossare il velo saranno suscettibili di arresto fino a un massimo di un anno e potrebbero essere condannati a pagare un’ammenda di 15.000 euro.
Invece, in Belgio, il 31 marzo 2010, la Commissione parlamentare Affari interni ha approvato, con il favore di tutti i gruppi politici, una modifica al locale codice penale, imponendo un’ammenda o sette giorni di carcere “a chi si presenterà in uno spazio pubblico con il volto coperto, del tutto o in parte, che ne impedisca l’identificazione”, salvo eccezioni autorizzate, come nel caso del
Carnevale. Se la modifica sarà confermata in aula, il Belgio sarebbe il primo Paese europeo a dire “no” al velo islamico integrale.
2 Assemblée Nationale-Treizième Législature, Rapport d’information fait en application de l’article 145 du règlement, au nom
de la mission d’information sur la pratique du port du voile intégral sur le territoire national, 26 janvier 2010. Il documento è disponibile all’indirizzo www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i2262.asp
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sta rappresentazione delle diversità identitarie e religiose. Nel rapporto francese, prima che di divieti, si parla quindi di: potenziamento della mediazione culturale; mobilitazione degli operatori di settore e degli enti locali in prima linea; sostegno alle associazioni di difesa dei diritti delle donne; formazione degli operatori dei servizi pubblici; educazione civica all’ingresso per gli immigrati; scuole
come luogo di prevenzione alla violenza sessista e insegnamento della lingua araba e dei fondamenti della civiltà musulmana; aiuti pubblici per la costruzione di luoghi di culto. La Francia pensa
anche al rafforzamento della protezione giuridica delle donne contro la violenza, in special modo
nella coppia e con riguardo alle minori costrette a subire l’imposizione del velo integrale. Si prospetta altresì di prendere in considerazione il velo come indice di contesto persecutorio ai fini del
riconoscimento del diritto d’asilo.
Per completezza del quadro di riferimento, va ricordato che in Francia esiste già dal 2004 una legge che vieta a studenti e insegnanti di indossare simboli religiosi “ostensivi” nelle scuole pubbliche
(siano essi veli islamici, crocefissi cristiani, zuccotti ebraici o turbanti sikh). L’impianto costituzionale francese, diverso da quello italiano sotto questo profilo, accoglie un principio di laicità cosiddetta “negativa” che impone allo Stato l’assoluta neutralità rispetto ai fenomeni religiosi, neutralità che
si spinge fino a legittimare la compressione del diritto individuale di esibire sul proprio corpo simboli di culto, almeno nelle sedi destinate all’educazione.
A fronte di alcuni Paesi europei che stanno aprendo la discussione sulla possibilità di un intervento normativo in materia di velo, esistono ordinamenti, come quello britannico, in cui non si intende adottare alcuna legge che vieti il burqa, il niqab o altri abbigliamenti religiosi (il Governo ha riaffermato anche di recente tale linea), limitandosi a puntuali interventi regolatori di fattispecie che investono rilevanti interessi antagonisti: gli esempi sono l’autorizzazione concessa dal Ministero dell’Educazione ai direttori delle scuole pubbliche a vietare l’uso del niqab in luogo delle tradizionali
divise e la determinazione governativa che ha stabilito la liceità dell’uso del velo anche nelle aule
di Tribunale purché non interferisca con la giustizia e dunque consenta il riconoscimento.
In tutti i casi, comunque, il tema dell’abbigliamento religioso è stato affrontato in termini estremamente prudenziali da legislatori e Corti nazionali e internazionali che se ne sono occupati in ambito europeo ed extraeuropeo e, anche ove si è assunta la prospettiva del divieto, esso ha investito
esclusivamente le donne che svolgono impieghi pubblici o scolare e studentesse di scuole o università pubbliche3.
2. Il dibattito in Italia in prospettiva de iure condendo
2.1. La proposta francese è immediatamente rimbalzata in Italia nel dibattito politico interno, che ne
ha colto unicamente il profilo repressivo: il divieto, semplicisticamente tradotto nei termini di un
“no” al velo islamico nei luoghi pubblici, ha incassato subito il favore della Lega che ha plaudito all’iniziativa come forma di contrasto all’immigrazione clandestina. L’idea del bando del velo islamico
integrale, peraltro, trova sostegno trasversale anche in virtù di argomenti più pregevoli.
Anzitutto il velo integrale non sarebbe un vero e proprio simbolo religioso, poiché esso non ha riscontro nell’ufficialità della religione musulmana, sia perché mancano fondamenti testuali espliciti
nella letteratura sacra, sia perché tale pratica è unanimemente rigettata dai rappresentanti del culto
e dagli esperti di Islamismo4. Pertanto esso si porrebbe solo come strumento di oppressione sessista, negatorio della dignità della donna ovvero, secondo una lettura più politica, simbolo di un fondamentalismo islamico che esprime estraneità ai valori della società occidentale.
Lo studio francese rileva tuttavia, giustamente, che indossare il velo è una pratica cosciente e volontaria riguardante una ristretta minoranza di donne (1.900 in Francia), che affonda le sue radici nel-
3
Vedi Zagato, Il volto conteso: il velo islamico e il diritto internazionale dei diritti umani, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 9, 2/2007, 64 ss.
4 Così anche Rapport d’information cit., 36 ss.
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l’esigenza di affermare un’identità culturale ovvero esteriorizza un segno di appartenenza a movimenti integralisti. È sorprendente il profilo delle donne che scelgono il velo integrale: hanno mediamente un’età inferiore ai 40 anni, i 2/3 di esse hanno cittadinanza francese e sono figlie o nipoti di
immigrati di prima generazione, mentre 1/4 sono donne di tradizione o religione non musulmana,
successivamente convertite all’Islam5.
In una nota sentenza del 2003, riguardante la vicenda di un’insegnante cui veniva impedito l’uso del
velo a scuola, la Corte Costituzionale tedesca aveva affrontato il profilo della valenza complessa del
simbolo, riferendosi alla molteplicità di ragioni, difficilmente indagabili, che spingono una donna
musulmana a indossarlo: in particolare, il desiderio di conservare “in una situazione di diaspora”
la propria identità, di portare rispetto alla tradizione dei genitori, di integrarsi secondo la propria autodeterminazione, di segnalare una non-disponibilità sessuale6. Senza voler sconfinare in considerazioni di semiotica, è indubitabile che il velo rappresenti una molteplicità di significati; tuttavia, è classicamente inquadrato nella dimensione della libertà religiosa individuale, espressione di una più ampia libertà di coscienza, come altri tipi di abbigliamento religioso-tradizionale. Secondo l’impostazione maggiormente condivisa, deve considerarsi “religiosa” (o a essa assimilabile), qualsiasi convinzione che venga sentita come tale dal fedele, senza poter prescindere dal suo punto di vista e dal
suo modo di sentire, secondo un canone di autodefinizione della religiosità7. Nel caso specifico, inoltre, l’uso del velo come simbolo religioso sarebbe assistito anche dall’ulteriore indice, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale italiana, della “comune considerazione”. Del resto, nella stragrande
maggior parte dei casi, le Corti nazionali e internazionali che si sono espresse sul velo islamico e gli
stessi ricorrenti hanno ricondotto la fattispecie alla tutela della libertà religiosa.
L’effetto conseguente a questo inquadramento dovrebbe quindi essere la necessità di assicurare la
libertà di usare il velo, anche integrale, nei termini in cui la libertà religiosa trova garanzia nella Costituzione e nelle Convenzioni internazionali sui diritti. Assumendo questa prospettiva, un “no” incondizionato e non modulato all’uso del velo islamico integrale in tutti i luoghi pubblici dovrebbe
superare in Italia alcuni profili problematici di compatibilità costituzionale. L’art. 19 Cost., infatti, stabilisce il diritto individuale di ciascuno di professare liberamente la propria fede e di esercitarne anche in pubblico il culto, salvo il limite del buon costume.
È vero peraltro che tale limite espresso non è esaustivo, poiché, come per tutte le libertà costituzionali, il legislatore e l’interprete sono tenuti al bilanciamento con altri valori di rilievo costituzionale
che dovessero in concreto risultare antagonisti. Ne consegue che sarebbe costituzionalmente legittimo limitare l’uso del velo, espressione di libertà religiosa, quando questo risulti in concreto conflitto con altri interessi costituzionalmente protetti, ma tale limitazione dovrebbe avvenire nel rispetto della logica del giudizio di bilanciamento tra valori costituzionali concorrenti, con l’applicazione
degli ordinari canoni della congruità del mezzo rispetto al fine e della proporzionalità della misura
di compressione.
Una visione liberale sull’uso del velo non può prescindere, comunque, dal tenere alta la guardia sulla consapevolezza e sulla volontarietà dell’uso, che segnano la linea di distinzione tra pratiche oppressive ed esercizio di libere scelte individuali. Seppure la categoria dell’imposizione vessatoria, per
quanto possa immaginarsi diffusa, non esaurisca l’intero orizzonte (come emerge con chiarezza ove
la scelta venga difesa con consapevole determinazione da studentesse, insegnanti o donne professionalizzate che giungono a rivendicare il loro diritto di fronte ai Tribunali dei Paesi ospitanti), certamente ogni forma di repressione dell’autodeterminazione delle donne dovrebbe essere colta con
la dovuta attenzione dai servizi pubblici preposti alla vigilanza e perseguita penalmente, in applicazione delle fattispecie di reato esistenti che coprono ampiamente ogni eventuale casistica.
5
Ivi, 41 ss.
6
Di Martino, La “decisione sul velo” del Bundesverfassungsgericht, 2004, consultabile all’indirizzo http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/archivio/velo/index.html
7 Guazzarotti, Commento all’art. 19 Cost., in Bartole e Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, 150
ss.
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2.2. Altrettanto complesso sembra il profilo del necessario bilanciamento tra il diritto a esprimere la
propria convinzione religiosa, anche indossando il velo integrale, e la sicurezza pubblica.
L’art. 5 della legge n. 152 del 22 maggio 1975 in materia di identificabilità delle persone, varata in
pieni “anni di piombo”, vieta l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico, o aperto al pubblico, senza giustificato
motivo.
Si tratta della normativa balzata agli onori della cronaca quando alcuni sindaci leghisti si sono appellati ad essa – fornendone un’interpretazione creativa – per bandire, con ordinanze locali, sia il
velo integrale che il burkini, il costume da bagno usato dalle donne musulmane (vedi ad esempio
l’ordinanza del Comune di Azzano Decimo8, poi annullata con decreto prefettizio confermato dal
TAR Friuli-Venezia Giulia e dal Consiglio di Stato).
La ratio della disposizione, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi abbia il fine di evitare il riconoscimento. Pertanto, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico (tranne
quelle di carattere sportivo che comportino tale uso). Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene “senza giustificato
motivo”.
In dottrina è stato acutamente osservato che la disposizione di cui alla legge 152 del 1975 non dovrebbe essere applicabile al velo islamico, poiché l’espressione dell’identità culturale-religiosa dell’individuo, costituzionalmente protetta dall’art. 19 Cost., costituirebbe proprio quel “giustificato motivo” che autorizza la deroga9.
Anche secondo il Consiglio di Stato, interessato della menzionata vicenda di Azzano Decimo, il riferimento alla legge 152 non è pertinente al velo islamico: indipendentemente dalla lettura di esso
come simbolo culturale, religioso, o di altra natura, il velo non è “un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento. Il citato art. 5 consente nel nostro ordinamento che
una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono
soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di
sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con
il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze”10.
Dopo l’adozione di questa pronuncia, ben cinque proposte di legge, aventi a oggetto la modifica
dell’articolo 5 della legge 152 del 1975, sono state depositate alla Camera dei deputati su iniziativa
parlamentare di varia provenienza politica e sono attualmente in discussione presso la Commissione affari costituzionali (C-627, C-2422, C-2769, C-3018 e C-3020). Tutte le proposte si limitano a porre all’interno di una legge di tutela dell’ordine pubblico un divieto di velo penalmente sanzionato
(sia pure con modulazioni ampiamente differenziate), senza inserire la misura repressiva nel contesto di una più ampia politica d’integrazione e dialogo interculturale.
Secondo la più estrema di esse, presentata a fine 2009 da alcuni deputati leghisti, diventerebbe vietato “ogni mezzo che non renda visibile l’intero volto, in luogo pubblico o aperto al pubblico, inclusi gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa”. Scomparirebbero quindi i
giustificati motivi, per cui chi indossasse i vari tipi di velo che coprono almeno parte del volto, esattamente come chi indossa un casco, un passamontagna o un fazzoletto in contesti pubblici non idenei, rischierà l’arresto in flagranza (e secondo questa proposta fino a due anni di carcere e fino a
2.000 euro di ammenda).
8
Comune di Azzano Decimo, Ordinanza 05 febbraio 2009, n. 3, in materia di uso di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona. Il documento è consultabile all’indirizzo http://www.olir.it/documenti/index.php?argomento=26&documento=5157
9 Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose: un percorso costituzionale, Bologna, 2006, 166 ss.
10 CdS, sez. VI, sent. n. 3076/2008 in www.federalismi.it
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Misure repressive di questo tipo, che certo non costituiscono una protezione per le donne, non sembrano compatibili con il disegno costituzionale e la necessità di un corretto giudizio di bilanciamento: un diritto di rilievo costituzionale sarebbe completamente eliminato, senza individuare soluzioni
alternative di compromesso meno sacrificanti, che ne preservino il nucleo essenziale.
Tirando le fila di quanto sin qui esposto, calato nel contesto socio-culturale italiano, il divieto di indossare il velo islamico integrale nei luoghi pubblici imposto per legge non sembra essere un presidio di laicità ma piuttosto “una politica della scorciatoia”, una scelta impositiva e sanzionatoria nei
confronti di una minoranza, dietro alla quale rischiano di annidarsi strumentalizzazioni e intolleranze xenofobe o religiose. Questa opzione rischierebbe di aggravare la condizione delle donne che
sarebbero semplicemente relegate negli spazi privati, ove volessero continuare la pratica di indossare il velo o, peggio, non potessero sottrarsi all’imposizione.
Il punto di vista che nega l’opportunità di interventi normativi repressivi sulle donne non nega tuttavia l’esigenza di attivare anche in Italia più difficili politiche di integrazione e di dialogo interculturale che impegnino l’apparato pubblico in tutte le sue articolazioni, a partire dai luoghi educativi,
a fornire un efficace supporto alle donne che vogliono emanciparsi, vigilando con attenzione sulle
situazioni critiche e reprimendo con fermezza eventuali comportamenti penalmente rilevanti. Tutto
ciò si potrebbe fare a legislazione invariata, applicando seriamente le leggi già esistenti e utilizzando l’ampio strumentario che esse forniscono, come ad esempio la quasi dimenticata mediazione culturale11.
11 Si segnala infine il contributo dottrinale di Brunelli, La disciplina dell’uso del burqa e delle mutilazioni genitali femminili, in
Quaderni europei, 3/2010, La diversità culturale nel processo di integrazione europea, 13 ss., scaricabile all’indirizzo
http://www.lex.unict.it/cde/quadernieuropei/serie_speciale/3_2010.pdf
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AIAF - Organi statutari
Presidente: Milena Pini
Vicepresidente: Luisella Fanni
Giunta Esecutiva: Milena Pini (Presidente), Luisella Fanni (Vicepresidente), Marina Marino (AIAF Lazio),
Daniela Abram (AIAF Emilia Romagna), Manuela Cecchi (AIAF Toscana), Remigia D’Agata (AIAF Sicilia),
Gabriella de Strobel (AIAF Veneto), Liana Maggiano (AIAF Liguria), Antonina Scolaro (AIAF Piemonte)
Direttore Alta Scuola di specializzazione dell’AIAF: Marina Marino
Comitato Direttivo Nazionale
composto “di diritto dai Presidenti delle Associazioni Regionali/Distrettuali e da un rappresentante
per ciascuna regione, nonché da un rappresentante per Regione ogni quaranta iscritti, compresi i soci
del Distretto, e un ulteriore rappresentante per ogni successiva frazione superiore a venti”.
Abruzzo
Puglia
Maria Carla Serafini (presidente)
Federica Di Benedetto
Ada Marseglia (presidente)
Calabria
Stefania Mendicino (presidente)
Luisella Fanni (presidente)
Vittorio Campus, Anna Marinucci, Francesco Pisano
Campania
Sicilia
Rosanna Dama (presidente)
Erminia Del Cogliano
Remigia D’Agata (presidente)
Cinzia Fresina, Antonio Leonardi, Caterina Mirto
Emilia Romagna
Toscana
Ada Valeria Fabj (presidente)
Daniela Abram, Lorenza Bond, Isabella Trebbi
Giordani
Manuela Cecchi (presidente)
Sandra Albertini, Gigliola Montano, Bruna Repetto,
Sandra Tagliasacchi, Valeria Vezzosi
Friuli Venezia Giulia
Umbria
Maria Antonia Pili (presidente)
Graziella Cantiello
Anna Maria Pacciarini (presidente)
Stefania Cherubini, Maria Rita Tiburzi
Lazio
Veneto
Marina Marino (presidente)
Nicoletta Morandi, Costanza Pomarici, Giulia Sarnari
Alessandro Sartori (presidente)
Roberta Bettiolo, Gaudenzia Brunello, Paola Cacco,
Giuliana Castelletti, Francesca Collet, Lorenza
Cracco, Guido Dalla Palma, Gabriella de Strobel,
Caterina Evangelisti Franzaroli, Anna Kusstascher,
Rita Mondolo, Giovanna Olivieri, Umberto Roma,
Anna Sartor, Giulia Schiaffino, Lara Sereno,
Damiana Stocco, Assunta Todini, Daniela Turci
Liguria
Liana Maggiano (presidente)
Ilaria Felicetti, Alberto Figone
Lombardia
Franca Alessio (presidente)
Maurizio Bandera, Marisa Bedotti, Marina Bologni,
Cinzia Calabrese, Cinzia Colombo, Giuseppina
Debiasi, Antonella De Peri, Cesare Fiore, Stefania
Lingua, Carla Loda, Francesca Mazzoleni, Gerardo
Milani, Laura Pietrasanta, Milena Pini, Nicoletta
Stefania Pisano, Mirella Quattrone, Antonella Ratti
Marche
Anna Pelamatti Cagnoni (presidente)
Marina Guzzini
Piemonte
Antonina Scolaro (presidente)
Maria Cristina Bruno Voena, Cristina Giovando,
Maria Cristina Ottavis, Marina Torresini
Sardegna
AIAF RIVISTA • 2010/2
RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
2010/2
LA TUTELA DEI DIRITTI
DI IMMIGRATI, RIFUGIATI
E RICHIEDENTI ASILO
www.aiaf-avvocati.it
Anno XV n° 2, maggio-agosto 2010
Quadrimestrale - reg. Tribunale Roma n. 496 del 9.10.1995
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