ACTA
PHILOSOPHICA
RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA
ATENEO ROMANO DELLA SANTA CROCE
ARMANDO EDITORE
Semestrale, vol. 3 (1994), fasc. 2
Luglio/Dicembre
sommario
197
Editoriale: Un dovere di gratitudine
Studi
DIO NELLA FILOSOFIA MODERNA
201
Nicolas Grimaldi
Dieu dans la philosophie de Descartes
227
José Luis Fernández
Dios en la filosofía de Malebranche
247
Daniel Gamarra
J. G. Fichte: l’affermazione dell’Assoluto
271
Armando Rigobello
Dio nella modernità: Husserl
287
Luis Romera
Dio e la questione dell’essere in Heidegger
Note e commenti
315
Raúl Echauri
Sobre el origen del ser y la nada
327
Daniel Innerarity
Filosofía como arte y experiencia de la vida
339
Antonio Malo
Tre teorie sulle emozioni (seconda parte)
Cronache di filosofia
353
La verità scientifica (J.J. SANGUINETI)
354
Convegni
355
Riviste
358
Società filosofiche
359
Rassegne editoriali
Recensioni
361
363
366
369
371
374
AA. VV., Filosofia e democrazia in Augusto del Noce (M.A. Ferrari)
ARISTOTELE, Metafisica, a cura di G. Reale (M. Pérez de Laborda)
A. CRESCINI, L’enigma dell’essere (J.J. Sanguineti)
P. DONATI, La cittadinanza societaria (G. Chalmeta)
S. NANNINI, Cause e ragioni (J.J. Sanguineti)
L. POLO, Teoría del conocimiento (vol. IV) (J.A. García González)
Schede bibliografiche
377
378
379
AA.VV., The Past & the Present (S.L. Brock)
I. MANCINI, Come leggere Maritain (J. M. Burgos)
R. YEPES STORK, La doctrina del acto en Aristóteles (M. Pérez de Laborda)
381
Pubblicazioni ricevute
382
Indice del volume 3 (1994)
Un dovere di gratitudine
Mentre veniva stampato il precedente fascicolo di ACTA PHILOSOPHICA,
ci è giunta, inattesa e dolorosa, la notizia della morte santa di S. E. Mons.
Alvaro del Portillo, Vescovo Prelato dell’Opus Dei e primo Gran
Cancelliere dell’Ateneo Romano della Santa Croce, avvenuta il 23 marzo
scorso, al suo rientro a Roma da un pellegrinaggio in Terra Santa.
Ricordarlo, seppur brevemente, con affetto filiale in apertura di questo
numero della nostra rivista è per noi un dovere di gratitudine, il cui compimento è ben lontano dal corrispondere pienamente a quanto da lui
abbiamo ricevuto.
È stato il Beato Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, a desiderare e ad ispirare l’Ateneo Romano della Santa Croce, ma morì prima
di poterlo vedere realizzato. Mons. Alvaro del Portillo, succedutogli nel
1975 alla guida dell’Opus Dei, ne ha messo fedelmente in pratica il progetto, seguendone e sospingendone con premurosa sollecitudine la preparazione, gli inizi e gli sviluppi. In questi anni siamo stati testimoni di come
il Prelato dell’Opus Dei ci sia stato costantemente vicino con le sue indicazioni, i suoi suggerimenti, il suo amabile incoraggiamento e soprattutto
con la sua preghiera ed il suo sacrificio.
Anche ACTA PHILOSOPHICA è nata grazie al paterno e paziente impulso
di Mons. Alvaro del Portillo. Ricordiamo con quanta risolutezza e affabilità ci spronò già agli inizi di gennaio del 1990 ad avviare una rivista che
fosse espressione del lavoro di ricerca della Facoltà di Filosofia del
nostro Ateneo, e strumento di dialogo e di scambio con le altre istituzioni
universitarie. Da allora non ci è mai mancato il suo sostegno e oggi, nel
completare la terza annata della nostra pubblicazione, guardiamo con stupore e riconoscenza la strada percorsa.
197
editoriale
Se pensiamo ad ACTA PHILOSOPHICA nell’insieme della nascita e dello
sviluppo del nostro Ateneo, essa appare come naturale riflesso d’una concezione della vita universitaria derivata dallo spirito — eredità del Beato
Josemaría Escrivá — che contraddistingue l’Ateneo della Santa Croce,
giunto ormai al decimo anno di attività accademica. Fra i diversi aspetti di
questo motivo ispiratore, costantemente ricordatoci dal nostro primo Gran
Cancelliere, possiamo segnalarne due: l’amore per la libertà e l’unità di
vita.
È ben noto a tutti quanto l’attuale congerie storico-sociale abbia reso
difficile per molti uomini riconoscere l’armonia fra libertà e verità. Tale
percezione di un orizzonte impervio diventa più acuta allorché ad avvertirla è una comunità universitaria con il suo essenziale compito formativo.
Mons. del Portillo, nella consapevolezza che è la verità a rendere liberi
(cfr. Gv 8, 32), parlando di tale compito affermava che il nostro Ateneo
«l’assolve nel pieno rispetto della libertà personale, anzi promuovendo la
libertà e la personalità di ciascuno, in un servizio disinteressato e fecondo
alla Verità» (Discorso in apertura dell’anno accademico 1985-1986,
«Romana», 1 [1985], p. 80).
Questa libertà, che tanto più piena diventa quanto più responsabile e
rispettosa della libertà altrui, dà atto della ricchezza della verità non irrigidendola in una delle sue possibili formulazioni storiche. Perciò, «nel
grande quadro comune dell’insegnamento cattolico, questo Centro è aperto a tutte le correnti e a tutte le scuole di pensiero che cerchino sinceramente una comprensione più profonda della verità su Dio e della verità
sull’uomo» (ibidem).
Libertà personale e servizio alla Verità, vissuti compiutamente, non
possono non condurre all’unità di vita, secondo la quale lo specifico agire
dell’uomo universitario non è una realtà inconciliabile con il suo personale impegno nella vita quotidiana. Richiamandosi agli insegnamenti del
fondatore dell’Opus Dei, Mons. Alvaro del Portillo prospettava, come sintomo di salute accademica, che «nella vita di ciascuno di noi si accrescano le virtù cristiane, proprio durante e attraverso le svariate attività che
configurano la vita di questo Centro universitario» (Discorso in apertura
dell’anno accademico 1990-1991, «Romana», 11 [1990], p. 234).
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editoriale
Così, dunque, non a scapito del pluralismo ma proprio come conseguenza dell’unità di vita di ognuno, lo studio è per il credente un avvenimento vitale dove, come sottolineava l’allora Prelato dell’Opus Dei, «il
vero progresso non si può limitare a un mero sapere qualcosa di più, ma
consiste soprattutto nel saperne di più di Qualcuno: con un sapere che
non è soltanto teorico, limitato all’intelletto speculativo, ma che coinvolge
tutta la persona, in modo tale da promuovere la volontà a gustare, ad
assaporare (sapere), per mezzo della contemplazione, la Verità, la Bontà e
la Bellezza di Dio» (ibidem).
Siamo sicuri per la speranza della fede che Mons. Alvaro del Portillo,
definito da Giovanni Paolo II “servitore buono e fedele” per “la sua
fedeltà alla Sede di Pietro ed il generoso servizio ecclesiale”, sta continuando ad aiutare dal Cielo il lavoro che si svolge nell’Ateneo Romano
della Santa Croce; il suo grato ricordo ci spinge a proseguire nel nostro
impegno con lo spirito di servizio e di collaborazione che da lui, strettissimo collaboratore e primo successore del Beato Josemaría Escrivá, abbiamo imparato. In tal modo, restando nel solco della continuità, mettiamo in
pratica quanto ci ha raccomandato sin dalla sua elezione Mons. Javier
Echevarría, attuale Prelato dell’Opus Dei e Gran Cancelliere del nostro
Ateneo, il quale è stato per lunghi anni valido sostegno dei suoi due insigni predecessori.
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 201/226
studi
Dieu dans la philosophie de Descartes
NICOLAS GRIMALDI*
Sommario: 1. L’existence de Dieu prouvée par l’idée que nous en avons; 2. L’existence de Dieu
prouvée par l’expérience de notre finitude; 3. L’existence de Dieu prouvée par la continuation de
mon existence; 4. La démonstration de l’existence de Dieu: le dit argument ontologique; 5. La
véracité divine; 6. La connaissance de Dieu; 7. Dieu comme cause.
■
L’idée de Dieu soutient tout l’édifice de la philosophie cartésienne. Non seulement son idée est la première et la plus claire de toutes, mais elle précède même celle
que nous avons de nous. De même que si nous n’avions pas d’abord l’idée de la perfection, nous ne pourrions jamais avoir d’expérience de l’imperfection, de même estce donc l’idée de Dieu qui nous fait sentir notre imperfection, et nous prépare ainsi à
découvrir, au bout du doute, la certitude du Cogito.
S’il est vrai qu’il ne peut pas y avoir de «vraie et certaine science pour un
athée», c’est parce que nulle déduction ne peut être certaine tant que nous ne sommes
pas assurés de l’éternité des vérités et de ce que toutes les idées claires et distinctes
sont vraies. Or une telle certitude ne peut être tirée que de la véracité divine, et cette
véracité elle-même ne peut que se déduire de la nature de Dieu.
Les lois générales de création (c’est-à-dire les fondements de la physique), ne
peuvent être que déduites de l’idée que nous avons de l’éternité et de l’immutabilité
de son Créateur. Et tous les théorèmes particuliers seront déduits de ces lois générales.
Parce qu’on ne saurait d’aucune façon vouloir ce dont on n’aurait aucune idée,
nous n’éprouverions pas l’infinité de notre volonté si l’idée que nous avons de Dieu
ne faisait de l’infinité de ses perfections l’objet ultime de notre volonté. C’est parce
que l’idée de Dieu est l’idée la plus originaire de notre entendement qu’elle est l’originaire corrélat de notre volonté.
Parce que la doctrine cartésienne de la création continuée fait de chaque instant
l’instant même de la création, Dieu est non seulement la cause totale de ce qui existe,
mais encore la cause efficiente de chaque chose. Parce que c’est donc lui qui fait les
*
Université de Paris-Sorbonne, 1, rue Victor Cousin, 75230 Paris
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studi
grandes âmes, ou celles qui sont basses et vulgaires, c’est à lui que les généreux sont
redevables de l’usage qu’ils font de leur liberté. Il n’est donc rien qui ne dépende
toujours entièrement de Dieu, et pas même le plus libre des hommes dans le moment
où il fait de sa liberté un usage absolu.
Parce que tout dépend de lui, c’est donc lui qu’il faut d’abord connaître. Or la
première chose à connaître, c’est son existence. Une objection aussi vieille que le platonisme consisterait alors à nous opposer qu’il serait vain de s’interroger sur l’existence de ce qu’on ne connaît pas. La réponse, bien sur, est qu’il n’y aurait strictement rien
à en connaître s’il n’existait pas. Alors? Il nous faut remarquer que le mouvement
même de la pensée cartésienne résout cette apparente contradiction, en faisant de
l’idée de Dieu l’idée la plus originaire. Parce que l’idée de Dieu a toujours déjà été
donnée, nous en avons toujours eu une idée très claire; et c’est pourquoi nous pouvons
fort légitimement nous interroger sur son existence.
C’est ce mouvement spontané de la pensée que nous commencerons par analyser.
***
L’idée de Dieu apparaît, des la Première Méditation, pour radicaliser l’entreprise du doute, du moins en son premier moment. Est alors considéré comme douteux
tout ce dont on peut trouver la moindre raison de douter. S’agissant des vérités
mathématiques, si indépendantes de toute existence matérielle, outre le fait que certains s’y trompent, on ne pourrait guère trouver de raison d’en douter que de supposer un Dieu trompeur. En effet, observe Descartes, «il y a longtemps que j’ai dans
mon esprit une certaine opinion qu’il y a un Dieu qui peut tout, et par qui j’ai été créé
et produit tel que je suis»1. Une chose est l’idée que nous avons de Dieu, autre chose
l’opinion que nous avons de son existence. L’idée de Dieu nous fait concevoir «une
substance infinie, éternelle, immuable, indépendante, toute connaissante, toute puissante, et par laquelle moi-même et toutes les autres choses qui sont ont été créées et
produites»2. C’est donc une seule et même chose d’avoir l’idée de Dieu et d’avoir
l’idée d’un être infiniment puissant. Puisqu’il n’est rien qu’il ne puisse, il est donc
possible qu’il me trompe jusque dans les choses qui me semblent les plus évidentes.
L’idée innée de la toute-puissance de Dieu devient, en ce sens, une raison de douter.
Si l’on comprend bien que l’idée que nous avons de l’infini soit innée
puisqu’elle ne peut être acquise, il est plus surprenant que cette idée que nous avons
de l’infini soit en même temps celle d’un être qui nous a créés. Or c’est une idée constante chez Descartes que, si je m’étais créé, je me serais donné toutes les perfections
dont j’ai l’idée3. Puisque je me connais imparfait, j’ai donc été créé. Mais ce sont
toutes les créatures imparfaites qui, pour cette même raison, ont donc été créées. Il
s’ensuit d’une part que le seul être qui ait pu les créer n’est donc pas une créature, et
d’autre part qu’il doit être parfait.
Si la toute-puissance de Dieu pouvait fournir une raison de douter, sa perfection
justifiait toutefois une raison inverse: car la meilleure chance pour une créature de
1
2
3
Première Méditation, AT, IX-1, 16.
Méditation troisième, AT, IX-1, 36.
Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 34; Méditation troisième. AT, IX-1, 38; Principes I, 20.
202
Nicolas Grimaldi
n’être point trop imparfaite n’est-elle pas d’avoir été créée par la plus parfaite des
causes? Serait-il vraisemblable, dans ce cas, que le plus parfait et le plus puissant des
créateurs n’eut produit ses créatures que pour les abuser?
Voici le problème posé dès la Première Méditation. Lorsqu’elle s’achèvera,
deux choses seront manifestes. Assujetti à la capacité de notre entendement, le premier moment du doute aura manifesté que nous avons l’idée de Dieu. Développé par
l’exercice de notre volonté sous le travesti du Malin Génie, le second moment du
doute aura prouvé que notre volonté est capable d’une négativité infinie. Car combien de choses a-t-elle «révoqué en doute» au bout de cette méditation? Une infinité:
autant que Dieu, s’il existe, a pu en créer.
Une fois découverte la première évidence: Cogito, existo, une deuxième en est
aussitôt tirée. En effet, puisque l’évidence du conditionné prouve l’évidence du conditionnant, l’évidence de ma cogitatio en tant que mode de la pensée atteste l’évidence d’une res cogitans en tant que substance de ce mode. De la découverte du Cogito,
Descartes avait encore tiré un corollaire: puisque ce qui caractérisait l’évidence de
cette proposition (Cogito, existo) était sa très grande clarté et distinction, un théorème
avait fait de la clarté et de la distinction les propriétés et comme les critères de l’évidence. On aurait pu continuer, s’il n’y avait eu cette hypothèque d’un Dieu
trompeur4, qui obère toute déduction, et par conséquent toute progression de la connaissance. Car s’il est vrai qu’on ne peut pas douter de l’évidence dans le moment
même où l’attention en impose l’intuition à l’esprit, plus rien toutefois ne nous assure
encore de sa vérité lorsque nous avons cessé d’y être attentif, et que nous considérons
une autre idée. Et en effet, s’il y a un Dieu qui peut tout, ne peut-il pas avoir fait que
ce qui était vrai l’instant précédent ne fût plus vrai l’instant suivant? Comment alors
être jamais assuré de la pérennité de la vérité, nonobstant l’instantanéité de nos certitudes? Comment être assuré que la praesens evidentia peut être considérée comme
une evidentia aeterna? Nulle science ne sera donc possible tant que n’aura pas été
levée l’hypothèque de l’éventualité d’un Dieu trompeur. Le mouvement des
Méditations va donc consister à se demander: 1) s’il y a un Dieu; et 2) s’il peut être
trompeur.
Tout le cheminement de cette argumentation, on le voit, est gouverné par la
conception que se fait Descartes de la toute-puissance divine. Selon lui, étant toutpuissant, Dieu est absolument indépendant. Étant indépendant, il ne peut être assujetti à rien, et pas même à la vérité, ni au bien, ni à la justice. Puisqu’il peut tout et qu’il
ne dépend de rien, tout dépend inconditionnellement de lui, y compris les vérités,
qu’il a donc aussi créées comme il a tout créé. Or c’est cette idée d’un Dieu créateur
des vérités qui, lorsque nous ne percevons plus l’évidence d’une vérité, laisse planer
le doute que Dieu, qui l’a créé, ne l’ait depuis abrogée et n’en ait créé une autre. On
voit donc comment l’argumentation des Méditations, où n’apparaît pas la doctrine de
la création des vérités5 en est cependant implicitement tributaire.
4
Méditation troisième, AT, IX-1, 28: «Mais toutes les fois que cette opinion ci-devant conçue
de la souveraine puissance d’un Dieu se présente à ma pensée, je suis contraint d’avouer
qu’il lui est facile, s’il le veut, de faire en sorte que je m’abuse, même dans les choses que je
crois connaître avec une évidence très grande»; cfr. Principes I, 13.
5 À Mersenne, 15 avril 1630, AT, I, 145: «les vérités mathématiques, lesquelles vous nommez
éternelles, ont été établies de Dieu et en dépendent entièrement, aussi bien que tout le reste
des créatures. C’est en effet parler de Dieu comme d’un Jupiter ou Saturne et l’assujettir au
203
studi
La première question va donc être celle de savoir s’il existe réellement un être
qui corresponde à l’idée que nous avons de Dieu. Dieu existe-t-il? A l’oeuvre tout au
long de la Troisième Méditation, une première méthode va consister à prouver que
Dieu est l’unique cause possible d’un certain nombre de faits aussi indubitables
qu’immédiatement constatables: le fait est que j’ai l’idée de Dieu, le fait est que je ne
suis pas parfait, le fait est que je dure. S’interrogeant sur la condition de possibilité de
faits aussi patents, Descartes va en effet montrer qu’ils ne seraient pas possibles si
Dieu n’existait pas. Comme dans une méthode d’investigation policière, les faits étant
donnés, ils constituent autant de preuves de l’existence de leur cause. Car comment ne
tiendrait-on pas pour prouvée l’existence de l’unique cause possible dès lors qu’est
indubitablement constatée l’existence de son effet? Si tel effet ne peut avoir que telle
cause, il suffit d’avoir établi l’existence de l’effet pour avoir prouvé l’existence de sa
cause. Autant qu’il y en a donc d’effets remarquables, autant va-t-il donc y avoir de
preuves de l’existence de Dieu.
1. L’existence de Dieu prouvée par l’idée que nous en avons
Prenant appui sur l’idée de Dieu que nous trouvons en nous, la première argumentation va consister à se demander si nous pouvons l’avoir produite, et sinon quelle en peut être la cause. Prenant appui sur le principe de causalité, elle va donc
l’appliquer aux idées en général, puis à l’idée de Dieu en particulier.
Toute l’axiomatique et tout le rationalisme cartésiens sont requis par la mise en
oeuvre de cette preuve. Qu’il n’y ait rien dont on ne soit fondé à «demander la cause
pourquoi il existe», c’est en effet un axiome, et même le premier de tous6. S’il n’y a
pas de réalité dont on ne puisse rendre raison, il s’ensuit que tout ce qui est réel est
rationnel. Si la raison d’être de toute chose est la cause qui l’a produite (causa sive
ratio), il doit y avoir une première cause, qui est à elle-même sa propre raison, et que
pour cette raison même, posant sa propre existence par sa propre essence, on peut
nommer causa sui. Aussi est-ce ce que fera Descartes dans ses réponses à Caterus7 et
à Arnauld8.
Qu’«aucune chose ne puisse avoir le néant pour cause», c’est également un
axiome9. Pas plus qu’il ne peut donc y avoir d’absolue spontanéité ni de pur commencement, pas plus ne peut-il y avoir de création (aliquid ex nihilo) dans la
Styx et aux destinées, que de dire que ces vérités sont indépendantes de lui»; 6 mai 1630,
AT, I, 149: «Pour les vérités éternelles, je dis derechef que sunt tantum verae aut possibiles,
quia Deus illas veras aut possibiles cognoscit, non autem contra veras a Deo cognosci quia
independenter ab illo sint verae. Et si les hommes entendaient bien le sens de leurs paroles,
ils ne pourraient jamais dire sans blasphème que la vérité de quelque chose précède la connaissance que Dieu en a, car en Dieu ce n’est qu’un de vouloir et de connaître, de sorte que
ex hoc ipso quod aliquid velit, ideo cognoscit, et ideo tantum talis res est vera»; 17 mai
1630, AT, I, 151-153: «Vous me demandez in quo genere causae Deus disposuit aeternas
veritates. Je vous réponds que c’est in eodem genere causae qu’il a créé toutes choses,
c’est-à-dire ut efficiens et totalis causa». Cfr. aussi Sixièmes Réponses, AT, IX-1, 233.
6 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 127.
7 Cfr. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 87.
8 Cfr. Réponses aux 4èmes Objections, AT, IX-1, 187-188.
9 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, 3e axiome, AT, IX-1, 127.
204
Nicolas Grimaldi
création10. Du même coup, puisqu’il ne saurait rien y avoir dans l’effet qui n’y ait été
produit par sa cause, «c’est une chose manifeste pour la lumière naturelle qu’il doit y
avoir pour le moins autant de réalité dans la cause efficiente et totale que dans son
effet»11. Quoiqu’elle paraisse déduite du précédent axiome, Descartes dira que «c’est
une première notion, et si évidente qu’il n’y en a point de plus claire»12; et il la présentera donc à la fin des Secondes Réponses comme le troisième de ses axiomes13.
Dès lors qu’il ne pourrait rien y avoir de plus dans ce qui suit que dans ce qui
précède, un tel axiome réduirait donc tout changement à un déplacement, bornerait le
nouveau à n’être jamais qu’un réaménagement de l’ancien, et, résumant le tout à
n’être rien de plus que la somme de ses parties, ferait par conséquent du mécanisme
le principe fondamental de tout ce qui peut se produire dans la nature. Or, c’est
qu’objectent à Descartes aussi bien Mersenne et les théologiens de la Sorbonne14 que
Gassendi15. Se référant implicitement à des descriptions d’Aristote16, c’est l’observation même de la vie qui leur parait contester l’axiomatique cartésienne. Le propre de
la vie n’est-il pas, en effet, qu’il y ait plus dans ce qui suit que dans ce qui précède?
Le propre d’un organisme n’est-il pas que le tout soit autre chose et quelque chose de
plus que la somme de ses parties? Ne voit-on pas «tous les jours que les mouches et
plusieurs autres animaux, comme aussi les plantes, sont produits par le soleil, la pluie
et la terre, dans lesquelles il n’y a point de vie comme en ces animaux, laquelle vie
est plus noble qu’aucun autre degré purement corporel»?17. Comme aucune expérience ne saurait récuser une évidence, c’est sa logique a priori qui conduit Descartes à
écarter l’objection: s’il nous semble parfois qu’il y ait plus dans l’effet que dans les
causes qui ont concouru à sa production, c’est faute de connaître assez toutes les causes qui concourent au phénomène de la génération18. Formulée par Gassendi, l’autre
objection oppose à Descartes que son principe ne vaut que pour la cause matérielle,
mais est impertinent quant à la causalité efficiente: que reste-t-il de l’architecte dans
la maison achevée, et qu’eut-on jamais pu observer dans l’architecte de ce qui constitue proprement la maison?19. Nul embarras pour Descartes: quel philosophe eut
jamais cherché dans la matière la cause ou la raison de la forme qu’elle reçoit?20.
Ce principe de causalité posé comme originaire, Descartes va l’appliquer aux
idées. Une telle démarche ne s’explique toutefois que par le statut dérivé que
Descartes leur assigne. Toute idée, pense-t-il en effet, est une représentation; toute
représentation est comme une image; et toute image dérive de son modèle comme
tout reflet dérive de ce qu’il réfléchit. «Entre mes pensées, recense-t-il, quelques10
Cfr. Cogitationes privatae, AT, X, 218: «Tria mirabilia fecit Deus: res ex nihilo, liberum
arbitrium, et Hominem Deum». Si la Création est mirabilis, c’est parce qu’elle excède et
effare, en effet, toute compréhension.
11 Méditation troisième, AT, IX-1, 32.
12 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 106.
13 Cfr. ibidem, AT, IX-1, 128.
14 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 97.
15 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 288.
16 Cfr. ARISTOTE, Histoire des animaux, V, 15; V, 19; V, 31.
17 Secondes Objections, AT-IX-1, 97.
18 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 105-106.
19 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 288.
20 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, § V, AT, VII, 366.
205
studi
unes sont comme les images des choses, et c’est à celles-là que convient proprement
le nom d’idée: comme lorsque je me représente un homme, une chimère, ou le ciel,
ou un ange, ou Dieu même»21. C’est donc par nature, selon Descartes, que toute idée
renvoie à autre chose qu’elle-même, dont elle n’est, comme une effigie ou une trace,
qu’une représentation déléguée, dérivée22. La formulation de la lettre au P. Mesland
du 2 mai 1644 n’autorise là-dessus aucune équivoque. C’est très expressément, en
effet, que Descartes y déclare ne «mettre aucune différence entre l’âme et ses idées
que comme entre un morceau de cire et les diverses figures qu’il peut recevoir»23.
D’où cette constante assimilation de toute intellection à une passion24. Car «comme
ce n’est pas proprement une action, mais une passion en la cire, de recevoir diverses
figures, c’est aussi une passion en l’âme de recevoir telle ou telle idée»25.
Toute idée est donc constituée, et jamais constituante. Comme un reflet par rapport à son original, comme une empreinte par rapport à son sceau, comme un tableau
par rapport à son modèle26, l’idée ne produit pas son objet: elle le reproduit. Et
«encore qu’il puisse arriver qu’une idée donne naissance à une autre idée,... il faut à
la fin parvenir à une première idée, dont la cause soit comme un patron ou un original, dans lequel toute la réalité ou perfection soit contenue formellement»27. Et en
effet, comme nous n’eussions jamais eu l’idée ou l’image d’un satyre ou d’une sirène
si nous n’avions jamais vu d’homme, de femme, de bouc ni de poisson, toutes nos
idées sont «comme des tableaux ou des peintures qui ne peuvent être formés qu’à la
ressemblance de quelque chose de réel et de véritable»28. Par conséquent, de même
que toute vision, si déformée ou composée qu’elle puisse être, dépend de l’objet vu,
de même toute idée, si factice qu’elle soit, dépend de l’essence qu’elle ne nous fait
concevoir qu’autant qu’elle nous la représente. On comprend du même coup que, si
toute idée est «comme un tableau», elle peut «à la vérité facilement déchoir de la perfection des choses dont (elle a) été tirée», quoiqu’elle ne puisse «jamais rien contenir
de plus grand ou de plus parfait»29. Image, tableau, trace, empreinte, marque, effigie,
reflet, une idée n’est pas une cause: c’est toujours un résultat. Il n’y a pas d’idée en
soi. Renvoyant par nature à autre chose qu’elle-même, c’est par nature qu’elle est
une relation, un double.
Ainsi décrite, c’est nécessairement que la nature de l’idée conduit donc à distinguer sa réalité objective et sa réalité formelle30. Comme ce que nous voyons dans un
miroir pourrait être dit la réalité objective du reflet, la réalité objective d’une idée est ce
21 Méditation troisième, AT,
22 Ibidem, AT, IX-1, 34-35:
IX-1, 29.
«les idées étant comme des images, il n’y en peut avoir aucune
qui ne nous semble représenter quelque chose».
23 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 113.
24 Cfr. À Regius, mai 1641, AT, III, 372.
25 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 113.
26 Méditation troisième, AT, IX-1, 33: «la lumière naturelle me fait connaître évidemment que
les idées sont en moi comme des tableaux [...]».
27 Méditation troisième, AT, IX-1, 33.
28 Première Méditation, AT, IX-1, 15.
29 Méditation troisième, AT, IX-1, 33.
30 Ibidem: «tout ainsi que cette manière d’être objectivement appartient aux idées, de leur propre nature, de même aussi la manière ou la façon d’être formellement appartient aux causes
de ces idées (à tout le moins aux premières et principales) de leur propre nature».
206
Nicolas Grimaldi
que nous concevons en elle en tant qu’elle en est l’image ou la représentation. Et comme
on pourrait dire, corrélativement, que l’objet réfléchi par le miroir est la réalité formelle
de l’image ainsi produite, de même la réalité formelle d’une idée est ce qui correspond
ontologiquement dans son objet à ce qu’elle nous en fait logiquement concevoir31.
De même encore que ce qui fait la différence entre les diverses images d’un
miroir n’est pas le miroir qui les réfléchit, mais la diversité des objets qu’elles reflètent, de même n’y a-t-il pas d’autre différence entre les diverses idées que la diversité
des essences ou des objets qu’elles représentent. Leur réalité objective est donc déterminée et constituée par leur réalité formelle32.
Puisqu’il est de la nature d’une idée de renvoyer à autre chose comme à sa
cause33, Descartes devait s’estimer fondé à y appliquer le principe de causalité. Il en
tire donc un théorème qui, appliqué à l’idée que nous avons de Dieu, en prouvera
l’existence: toute idée doit avoir une cause, contenant formellement au moins autant
de réalité que cette idée en représente objectivement34. Il n’y a rien qu’une idée nous
fasse logiquement concevoir qui ne doive être ontologiquement dans sa cause.
Étant une substance, notre âme a donc formellement assez de réalité pour produire l’idée d’une substance étendue, et, à partir d’une telle idée, celle de tous les
modes de l’étendue35. Mais, parce que c’est notre imperfection même qui nous a fait
douter, et parce que c’est le doute qui nous a fait découvrir la substantialité de notre
âme, notre âme est une substance finie. Elle ne possède donc pas assez de réalité formelle pour être cause de l’idée d’infini qui est cependant en nous. Par conséquent,
l’idée de perfection36, ou l’idée d’infini37, c’est-à-dire l’idée de Dieu, ne peut être en
moi que parce qu’un être possédant réellement, formellement, ontologiquement cette
perfection et cette infinité l’a mise et produite en moi, «comme la marque de
l’ouvrier empreinte sur son ouvrage»38. «Il faut nécessairement conclure que, de cela
seul que l’idée d’un être souverainement parfait (c’est-à-dire de Dieu) est en moi,
l’existence de Dieu est très évidemment démontrée»39.
À cette preuve par la trace ou par la marque, les premiers lecteurs de Descartes
élevèrent quatre types d’objections, auxquelles il avait pourtant répondu par avance
dans le corps de ses Méditations. Elles portaient:
31 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, définitions III et IV, AT, IX-1, 124-125.
32 Méditation troisième, AT, IX-1, 31-32: «si ces idées sont prises en tant seulement
que ce
sont de certaines façons de penser, je ne reconnais entre elles aucune différence ou inégalité,
et toutes semblent procéder de moi d’une même sorte; mais, les considérant comme des
images, dont les unes représentent une chose et les autres une autre, il est évident qu’elles
sont fort différentes les unes des autres».
33 Ibidem, p. 33: «si nous supposons qu’il se trouve quelque chose dans l’idée qui ne se rencontre pas dans sa cause, il faut donc qu’elle tienne cela du néant [...]»; «tout ainsi que cette
manière d’être objectivement appartient aux idées, de même aussi la manière ou la façon
d’être formellement appartient aux causes de ces idées [...]»; «il faut à la fin parvenir à une
première idée, dont la cause soit comme un patron ou un original [...]».
34 Cfr. ibidem, p. 32-33; cfr. aussi Réponses aux 2ndes Objections, 5ème axiome, p. 128;
Principes I, 18.
35 Cfr. Méditation troisième, p. 36.
36 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 34; Principes I, 18.
37 Cfr. Méditation troisième, p. 36.
38 Ibidem, p. 41.
39 Ibidem, p. 40.
207
studi
– sur la validité de l’application du principe de causalité aux idées,
– sur le caractère inné ou adventice de l’idée de Dieu,
– sur son caractère inné ou factice,
– sur la possibilité même d’avoir véritablement une idée de l’infini.
Dans les Premières Objections Caterus fait en effet observer qu’une idée n’a
pas d’existence en acte. Une maison a peut-être besoin d’une cause idéale pour être
construite, mais de quelle cause l’idée de maison pourrait-elle avoir besoin? L’idée
de quelque existence que ce soit n’est-elle pas que l’existence d’une idée? Et le propre d’une idée n’est-il pas d’exister sur le mode de l’inexistence? «Pourquoi donc
recherche-je la cause d’une chose qui actuellement n’est point, qui n’est qu’une simple dénomination et un pur néant?»40. La réponse de Descartes est simple. Il est vrai
que la Joconde n’est pas Monna Lisa. Doit-on penser pour autant que la Joconde
n’existe pas et qu’elle n’est rien? Les idées ont le même genre de réalité qu’une
image ou un tableau: une réalité objective. N’être que dans l’entendement, ce n’est
pas ne pas être; de sorte que si une chose a besoin d’une cause pour exister hors de
l’entendement, elle doit aussi avoir besoin d’une cause pour exister dans l’entendement, c’est-à-dire pour être conçue41.
Également inspirées d’une ontologie implicitement réaliste, les Secondes
Objections font valoir un autre argument. Bien loin de penser, comme fera
Malebranche, que représenter c’est en quelque façon contenir, et à l’inverse de
Descartes pour qui concevoir une idée c’est la recevoir, Mersenne considère que concevoir c’est produire une idée, et qu’il n’est pas plus difficile de concevoir un chiliogone qu’un triangle, ou d’imaginer mille thalers que de n’en imaginer qu’un: au bout
du compte on n’est pas plus riche d’une manière que de l’autre. Parce que les idées
ne sont que des êtres de raison, et parce que l’idée de richesse ne nous rend pas plus
riches que l’idée de pauvreté ne nous rend pauvres, aucune idée ne peut «être plus
noble que l’esprit qui la conçoit»42. Descartes répond en dénonçant la pétition de
principe d’une telle objection. Si on commence par dire que les êtres de raison sont
produits pas la raison, et de surcroît que nous ne concevons que des êtres de raison,
on n’aura évidemment aucun mal à prouver que l’idée de Dieu n’est qu’un être de
raison. Mais, de fait, on n’aura rien prouvé du tout, puisqu’on a commencé par se
donner ce qui était précisément à prouver, à savoir que tout ce que nous concevons
est produit par notre esprit43. Or tel est précisément le cas unique de l’idée de Dieu,
qu’elle contient plus de réalité objective que notre esprit ne possède de réalité formelle, de sorte qu’il est aussi certain qu’elle est en nous, qu’il est certain qu’elle ne
vient pas de nous.
Une deuxième série d’objections met en question le caractère inné de l’idée de
Dieu. Nous ne l’avons pas produite: soit. Elle a été mise en nous: soit. Mais par qui?
Y a-t-il rien dans l’idée que nous concevons de Dieu dont nous ne soyons redevables
à ce qui nous a été enseigné?44. N’est-il pas singulier que l’idée qu’en a Descartes
soit si exactement conforme à ce qu’en enseigne l’Église depuis qu’elle en a reçu la
40 Premières Objections, AT, IX-1, 74.
41 Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 82-83.
42 Secondes Objections, AT, IX-1, 48.
43 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 106.
44 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 98.
208
Nicolas Grimaldi
Révélation?45. Comme par une sorte de réciproque, n’est-il pas tout aussi remarquable que ceux qui n’en ont reçu ni la Révélation, ni la tradition, ni l’enseignement,
«n’ont point en eux une telle idée»?46. Bref, cette idée de Dieu, l’eussions-nous
jamais eue si nous ne l’avions jamais reçue? La première objection n’embarrasse pas
Descartes: à supposer que cette idée ait été mise en moi par ceux qui me l’enseignèrent, tant et tant qu’on remonte, il faut bien finir par convenir qu’il dut y avoir quelqu’un à qui on ne l’avait pas enseignée et en qui cependant elle avait été mise47.
Quant à la seconde objection, il la récuse purement et simplement, parce qu’il nie le
fait que précisément elle tient pour observable. Parce qu’il n’y a pas d’homme qui
n’ait l’idée d’infini, il n’y a pas d’homme qui n’ait l’idée de Dieu; et les Canadiens et
les Hurons ne pensent pas là-dessus autrement que tout le monde. Ce qui prouve le
caractère inné de l’idée de Dieu, c’est son caractère universel. En effet, si l’idée de
Dieu avait pu être inventée, composée, colportée, transmise par ci ou par là, «elle ne
serait pas conçue si exactement de la même façon par tout le monde; car c’est une
chose très remarquable que tous les métaphysiciens s’accordent unanimement dans la
description qu’ils font des attributs de Dieu»48.
Si l’idée que nous avons de Dieu n’a été ni acquise ni transmise, ne pourrait-elle
alors avoir été construite à partir de divers éléments de notre expérience? Faute
qu’elle soit une idée adventice, ne serait-elle pas une idée factice? Ne se peut-il,
demande Mersenne, qu’elle «ne représente rien que ce monde corporel, qui embrasse
toute les perfections» imaginables, de sorte que sous le nom de Dieu nous ne nous
représentions en fait qu’«un être corporel très parfait»?49. Il suffit, répond Descartes,
d’évoquer une telle notion pour en dénoncer l’absurdité. Un corps parfait est comme
un cercle carré. Comment serait-il, en effet, de la nature d’un corps d’être infiniment
divisible sans qu’il soit aussi de sa nature d’être infiniment corruptible, c’est-à-dire
imparfait? Parce que la matière n’existe que partes extra partes, un corps n’est
qu’une somme d’exclusions, un ramassis d’ingrédients séparés, morcelés. Comment
une unité aussi occasionnelle et précaire aurait-elle aucune perfection?50.
Mais, demande alors Gassendi, si l’idée de Dieu ne peut être tirée de la considération des choses extérieures et matérielles, ne pourrait-elle être formée «par amplification» ou «par agrandissement» des facultés que nous reconnaissons simplement en
nous-mêmes? Ne suffit-il pas de durer, de connaître, de pouvoir, et même de notre
expérience de la bonté et du bonheur51, pour que nous puissions en dériver, par mul45 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 286.
46 Secondes Objections, AT, IX-1, 98.
47 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 107.
48 Ibidem, p. 108; et aussi Réponses aux 1ères Objections,
AT, IX-1, 84: «parce que (l’idée de
Dieu) est empreinte d’une même façon dans l’esprit de tout le monde, et que nous ne
voyons pas qu’elle nous vienne jamais d’ailleurs que de nous-mêmes, nous supposons
qu’elle appartient à la nature de notre esprit».
49 Secondes Objections, AT, IX-1, 98.
50 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 109; et p. 107: que l’idée de Dieu «peut être
formée de la considération des choses corporelles, cela ne me semble pas plus vraisemblable
que si vous disiez que nous n’avons aucune faculté pour ouïr, mais que, par la seule vue des
couleurs, nous parvenons à la connaissance des sons. Car on peut dire qu’il y a plus d’analogie ou de rapport entre les couleurs et les sons qu’entre les choses corporelles et Dieu».
51 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 287.
209
studi
tiplication, l’idée de l’éternité, de l’omniscience, de la toute-puissance, etc.?
Observons n’importe quel homme; affectons ses caractères d’une puissance exponentielle: n’aurons-nous pas produit de la sorte une idée toute semblable à celle que nous
avons de Dieu? Nullement, répond Descartes. Imaginer que Dieu puisse être quelque
méganthrope, ce serait en effet comme croire qu’un éléphant est un énorme ciron52,
ou que l’éternité est une dilatation de la temporalité. Quoi qu’on prétende imaginer
de la sorte, on ne conçoit rien du tout. Car tant et tant qu’on ajoute du fini à du fini,
on n’en finira jamais de produire l’infini53. L’infini peut être un tout; mais il n’est
certainement pas une somme. L’idée que nous en avons ne pouvant donc être obtenue
par aucune médiation, elle ne peut être donnée que tout entière et tout d’un coup54.
Donnée immédiate de la conscience, intuition originaire, c’est une idée innée.
D’ailleurs, quand on imagine que l’idée de Dieu pourrait être produite par la
faculté que nous avons «d’amplifier toutes les perfections créées», c’est cette faculté
dont on omet toutefois d’expliquer comment elle peut être en nous. Excédant toute
représentation possible, que manifeste une telle faculté, sinon une originaire affiliation avec l’idée de ce qui excède tout excès et dépasse tout dépassement?55. Si,
comme le dira Malebranche, «nous avons toujours du mouvement pour aller plus
loin», n’est-ce pas parce que nous avons originairement l’idée du lointain absolu, de
l’absolument indépassable, c’est-à-dire de l’infini? Or notre esprit aurait-il la capacité de dépasser indéfiniment la représentation de toute chose finie s’il n’avait une
volonté infinie, et notre volonté pourrait-elle être infinie sans vouloir l’infini?
Pourrait-elle être infinie si nous n’avions originairement en nous l’idée de perfections
infinies, c’est-à-dire de Dieu même?56.
Mais, va objecter Gassendi, puisque notre entendement est fini, en évoquant «ce
dont on ne peut rien concevoir de plus grand», ce qu’il conçoit de la sorte n’est-il pas
toujours fini? Puisqu’il ne peut donc pas le concevoir, cet infini dont il prétend avoir
l’idée n’est-il pas alors qu’un mot?57. D’ailleurs, comme le mot même l’indique,
l’infini n’est-il pas qu’une notion négative, exprimant seulement la négation de ce
qui est fini? Tout au contraire, répond Descartes, c’est ce qui est fini qui ne peut
jamais être conçu que comme une limitation de ce qui n’a pas de limite 58 .
Malebranche sera donc strictement fidèle à la pensée de Descartes lorsqu’il dira que
l’idée d’infini précède et fonde celle de toute chose finie59. D’une part, en effet, on
52 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, Sur la 3e Méd., § IV, AT, VII, 365.
53 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 137.
54 Réponses aux 5èmes Objections, Sur la 3ème Méd., § X, AT, VII, 371: «ne
pensez pas que
”l’idée que nous avons de Dieu se forme successivement de l’augmentation des perfections
des créatures”; elle se forme tout entière et tout à la fois, de ce que nous concevons par
notre esprit l’être infini, incapable de toute sorte d’augmentation».
55 Ibidem, § IV, p. 365: «d’où nous peut venir cette faculté d’amplifier toutes les perfections créées,
c’est-à-dire de concevoir quelque chose de plus parfait qu’elles ne sont, sinon de cela seul que
nous avons en nous l’idée d’une chose plus grande, à savoir, de Dieu même?»; et § IX, p. 371
:«je soutiens que cette vertu-là d’augmenter et d’accroître les perfections humaines jusqu’à tel
point qu’elles ne soient plus humaines, mais infiniment relevées au-dessus de l’état et condition
des hommes, ne pourrait être en nous si nous n’avions un Dieu pour auteur de notre être».
56 Cfr. À Mersenne, 25 décembre 1639, AT, II, 628.
57 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 296.
58 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, Sur la 3ème Méd., § IV, AT, VII, 365.
59 Cfr. N. MALEBRANCHE, Recherche de la vérité, livre III, 2ème partie, chap.VI (OC, I, 441).
210
Nicolas Grimaldi
ne conçoit pas l’être par son manque. D’autre part, comment aurions-nous jamais
l’idée du manque ou de la limitation si on n’avait préalablement l’idée de l’être sans
limitation ni restriction?60. Bien loin, par conséquent, que l’idée d’infini puisse être
obtenue par totalisation ou par négation de l’idée que nous avons de ce qui est fini,
c’est au contraire la conscience même de notre finitude qui ne serait pas même possible si nous n’avions originairement l’idée de l’infini; de sorte, comme l’avaient
manifesté les Méditations, que «nous avons premièrement en nous l’idée de Dieu que
de nous-mêmes»61.
2. L’existence de Dieu prouvée par l’expérience de notre finitude
Tous les exposés de la métaphysique cartésienne en développent l’argument62.
Je désire. J’ai donc l’idée de perfections que je ne puis me donner. C’est la preuve
que je ne suis pas mon créateur. En effet, il est plus difficile de faire être ce qui n’est
pas que de perfectionner (c’est-à-dire de modifier) ce qui est. Parce que je ne suis pas
la cause de mon être, je ne suis pas la cause des idées dont je ne possède pas formellement la réalité, et qui ont donc dû être mises en moi par l’être qui m’a créé. Or il
n’aurait pas pu en produire en moi la réalité objective s’il n’en avait formellement ou
éminemment possédé la réalité.
Comme toute trace est à la fois l’empreinte et l’absence de ce qui l’a produite,
notre désir est donc la trace de Dieu en nous. Anticipant une pensée de Pascal63
l’argument cartésien caractérise donc Dieu comme la présence dont notre désir est
l’absence. Puisque la conscience même de notre imperfection atteste la finitude de
notre statut de créature, la réciproque de ce théorème est qu’étant donc incréé un être
parfait est nécessairement éternel.
3. L’existence de Dieu prouvée par la continuation de mon existence
Cet argument est un simple corollaire de la doctrine cartésienne du temps,
laquelle est immédiatement déduite de son axiomatique. Qu’«aucune chose actuellement existante ne puisse avoir quelque chose non existante pour cause de son existence» il n’y a pas à en débattre ni à en discuter: c’est un axiome64. On en pourrait
déduire que, n’existant plus, le passé ne peut pas être cause du présent. Mais il n’y a
pas même à le déduire, c’est encore un axiome: «le temps présent ne dépend pas de
celui qui l’a immédiatement précédé»65. Pour la même raison, l’avenir, qui n’existe
pas encore, ne peut pas être la cause finale du présent. Le présent ne peut donc pas
60 Cfr.
À l’Hyperapistes, août 1641, § 6, AT, III, 427; cfr. aussi À Clerselier, 23 avril 1649, §
5, AT, V, 356.
61 Méditation troisième, AT, IX-1, 36.
62 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 34-35; Méditation troisième, AT, IX-1, 38; Principes I, 20.
63 B. PASCAL, Pensées (éd. Brunschvicg), fr. 425: «Que nous crie cette avidité et cette impuissance, sinon qu’il y a eu autrefois dans l’homme un véritable bonheur dont il ne lui reste
maintenant que la marque et la trace toute vide [...]?».
64 Réponses aux 2ndes Objections, 3ème axiome, AT, IX-1, 127.
65 Ibidem, 2ème axiome.
211
studi
tendre vers l’avenir. Nous voici donc introduits a priori dans une ontologie où il n’y
a ni tendance, ni dynamisme. Tout s’y achèverait donc à l’instant même qu’il commence, si la cause qui l’a créé ne continuait de créer le monde encore à chaque
instant. Telle est cette doctrine de la création continuée66, qui fait de chaque instant
l’instant même de la création, et de Dieu, comme nous le verrons, la cause efficiente
de toutes choses67.
Pourtant, objecte Gassendi, n’observe-t-on pas souvent que l’effet continue
d’exister alors même que sa cause a disparu? N’est-il pas ordinaire que les enfants
survivent à leurs pères? La maison ne dure-t-elle pas bien longtemps encore après
que son architecte et les maçons aient disparu?68. Mais ce n’est pas de cette façon,
répond Descartes, que Dieu nous crée. Car autre chose est la causalité de type artisanal qui fait de l’avenir une transformation du présent, et autre chose celle qui crée
l’existence même et la perpétue d’instant en instant69. Or c’est ainsi, comme la
lumière ne dure qu’autant que le soleil la crée, que nous aussi ne durons qu’autant
que Celui qui nous a créés continue de le faire.
4. La démonstration de l’existence de Dieu: le dit argument ontologique
La Cinquième Méditation ne prouve plus: elle démontre. Elle ne cherche plus,
par une analyse des effets, à attester les caractères ou l’identité de leur cause. Elle ne
procède donc plus a posteriori mais uniquement a priori, par le pur examen d’une
notion. Descartes ne va donc pas procéder ici autrement que n’avait fait Saint
Anselme dans les deuxième et troisième chapitre de son Proslogion. Comme celui-ci
avait évoqué l’idée de «ce dont on ne peut rien concevoir de plus grand», Descartes
évoque l’idée de perfection, c’est-à-dire l’idée de ce à quoi on ne peut rien ajouter, ce
qui est une autre manière de caractériser l’infini. Certes, avait prévenu Saint
Anselme, il ne suffit pas qu’une chose soit comprise dans notre intelligence pour que
nous comprenions qu’elle est — sauf précisément lorsqu’il s’agit de «ce dont on ne
peut rien concevoir de plus grand». Car le comprendre, c’est comprendre qu’il est.
De cela seul — à savoir l’infini — il suffit d’avoir l’idée pour savoir que ce n’est pas
seulement une idée. Sa pure réalité logique le désigne comme la suprême réalité
ontologique. Son existence est incluse dans son essence. Descartes ne dira pas autre
chose70.
Toutes les difficultés soulevées par cet argument viennent peut-être du seul fait
66
Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 45; Méditation troisième, AT, IX-1, 39; Réponses aux
1ères Objections, AT, IX-1, 86; Principes I, 21.
67 Cfr. p.ex. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 86: «parce que je vois que les parties du
temps peuvent être séparées les unes d’avec les autres, et qu’ainsi, de ce que je suis maintenant, il ne s’ensuit pas que je doive être encore après, si, pour ainsi parler, je ne suis créé de
nouveau à chaque moment par quelque cause, je ne ferais point de difficulté d’appeler efficiente la cause qui me crée continuellement en cette façon, c’est-à-dire qui me conserve».
68 Cfr. 5èmes Objections, sur la 3ème Méd., § 9, AT, VII, 301.
69 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, AT, VII, 369.
70 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 36; Méditation cinquième, AT, IX-1, 52; Réponses aux
1ères Objections, AT, IX-1, 91; Principes I, 14 et 15.
212
Nicolas Grimaldi
de l’avoir présenté comme un argument ou comme une démonstration71, c’est-à-dire
comme un raisonnement, avec ses prémices et sa conclusion. Ou bien, en effet, parce
qu’on ne peut pas concevoir l’infini s’il lui manque l’existence, c’est une seule et
même chose de concevoir l’infini et de le concevoir existant72. Il s’agit alors d’une
intuition immédiate. Se demander si l’infini peut ne pas exister, c’est comme se
demander s’il peut y avoir un cercle carré. Dans ce cas, il va de soi que l’existence et
l’infini sont réciprocables: parce qu’elle ne peut être limitée par ce qui n’existe pas,
l’existence est sans limite et par conséquent infinie; de même, parce qu’il n’y a rien
qu’on puisse lui ajouter, l’infini existe nécessairement. Toutefois, au lieu d’en conclure, par un coup de pouce logique, qu’il est l’être nécessaire, on devrait seulement
dire, en toute rigueur, qu’il y a nécessairement de l’être, à l’infini. Ou bien, comme
l’exposé cartésien peut parfois le laisser supposer, nous avons l’idée de Dieu comme
nous avons celle du triangle73 et, de même que nous déduisons de la nature de celuici que la somme de ses angles est égale à deux droits, de même nous «concluons»74
de la nature de celui-là qu’il doit nécessairement exister. On aurait alors affaire,
comme en géométrie, à un jugement hypothético-déductif: «à supposer qu’il y ait un
être parfait... il serait de sa nature que...».
C’est ce qui constitue l’objection de Caterus à Descartes, comme il avait inspiré
celle de Saint Thomas75 à Saint Anselme. Si claire que puisse être l’idée que nous
avons d’un être parfait ou de l’infini, «il ne s’ensuit pas pour cela qu’on entende que
cette chose soit dans la nature, mais seulement dans l’entendement»76. Or Descartes
lui-même avait déjà évoqué cette éventuelle objection77, et avait dénoncé le «sophisme caché sous l’apparence de cette objection»78. Car la considération de toutes les
autres idées nous a accoutumés à distinguer les caractères intrinsèques de leur essence de la possibilité extrinsèque de leur existence79. Et c’est cette habitude qui nous
fait croire sophistiquement que nous aurions d’abord l’idée d’un être infini ou d’un
être parfait, et qu’ensuite nous en déduirions l’existence comme une de ses propriétés. Comme d’abord nous avions l’idée de triangle sans savoir ce que pouvait
valoir la somme de ses angles, ainsi a-t-on pu croire que nous avions d’abord l’idée
d’infini sans savoir si l’existence pouvait être ou non contenue dans sa notion. En
cette assimilation, en cette abusive généralisation, en cette coutumière analogie consiste précisément «le sophisme». Car l’idée d’un être parfait n’est autre chose que
71
Méditation cinquième, AT, IX-1, 52, l. 14-15: «ne puis-je pas tirer de ceci un argument et
une preuve démonstrative de l’existence de Dieu?»; cfr. AT, VII, 65, l. 19-20.
72 Ibidem, l. 41-42: «encore qu’en effet je ne puisse pas concevoir un Dieu sans existence non
plus qu’une montagne sans vallée [...]»; et p. 53, l. 13-15: «de cela seul que je ne puisse
concevoir Dieu sans existence, il s’ensuit que l’existence est inséparable de lui, et partant
qu’il existe véritablement».
73 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 36; Méditation cinquième, AT, IX-1, 51, l. 14-27 et p.
52, l. 3.
74 Cfr. les expressions par lesquelles Descartes suggère peut-être imprudemment un raisonnement, une déduction, une discursivité: «il s’ensuit» (AT, lX-1, 53, l. 14 et AT, VII, 6, l. 3),
«cette nécessité est suffisante pour me faire conclure»(AT, lX-1, 53, l. 39).
75 Cfr. THOMAS D’AQUIN, Summa theologiae, 1a pars, quaestio 2, art. 1.
76 Premières Objections, AT, IX-1, 79.
77 Cfr. Méditation cinquième, AT, IX-1, 53, l. 1-7.
78 Ibidem, l. 8-9.
79 Ibidem, p. 52, l. 28-32.
213
studi
l’idée d’un être existant; au point que c’est même n’en pas concevoir l’idée que de se
demander s’il existe.
Plus subtile est une des objections de Gassendi qui anticipe la critique kantienne. L’existence, dit-il, n’est pas une perfection. À l’inverse, nulle chose n’est parfaite
ou imparfaite qu’à la condition préalable d’exister. Ce n’est donc pas parce qu’une
chose est parfaite qu’elle existe, mais il faut qu’elle existe pour qu’elle puisse avoir
quelque perfection que ce soit80. Or cette argumentation repose sur deux glissements
de sens. Lorsque Gassendi évoque les diverses perfections possibles d’une chose,
c’est au même sens où il évoquerait ses diverses déterminations possibles: pour être
verte ou jaune, grande ou petite, belle ou laide, encore faut-il d’abord qu’une chose
soit. Son existence n’est pas une détermination ou un prédicat parmi d’autres, mais la
condition même de toute prédication et de toute détermination objective. Par ailleurs,
la «perfection» qu’évoque Descartes à propos de Dieu, n’est pas seulement une suréminente qualité ou l’excellence d’une quelconque détermination: la perfection selon
Descartes est un autre nom de l’infini. Faute de lever ces équivoques, Descartes ne
peut donc que répondre en répétant qu’on peut concevoir toutes choses indépendamment de leur existence, hors l’être parfait, ou l’infini, ou Dieu, car «Dieu est son être,
et non pas le triangle»81.
Si on se rappelle la fortune historique de l’argument ontologique, et comment
toute l’ontologie spinoziste en sera en quelque sorte déduite (à partir des notions de
causa sui et de substance), une objection de Mersenne prend un poids considérable.
S’il y a «un être infini en tout genre de perfection», son existence n’exclut-elle pas
toute autre existence?82. Puisqu’il ne peut rien y avoir hors de lui, ne faut-il pas en
effet qu’il soit l’unique substance et la cause immanente de toutes choses? Sans doute
est-ce l’histoire qui nous a fait rétrospectivement mesurer l’enjeu de l’objection.
Descartes répond; mais est-il convaincant? L’existence de l’infini, dit-il, n’exclut pas
celles des choses finies. Soit; mais quel est alors leur statut? Ne seront-elles pas que
des modes de l’infini? À cause de sa conception de la liberté, rien et pas même ce qui
nous semble absurde ou contradictoire, ne peut limiter la liberté infinie de Dieu. Du
même coup, il n’est plus rien qui doive embarrasser: «à quoi servirait l’infinie puissance de cet infini imaginaire, s’il ne pouvait rien créer?... Il en est de même de tous
les autres attributs de Dieu, même de la puissance de produire quelques effets hors de
soi»83. Hors de Dieu: sera-ce hors de l’infini?
Il y a toutefois une autre objection à l’argument ontologique, et qui nous semble plus radicale que toutes les autres, bien qu’elle n’ait été articulée par aucun des
correspondants de Descartes. Elle consiste à observer que cet argument n’atteste
autre chose que l’existence de l’infini, au sens où l’existence ou l’être en général
doivent être dits infinis. L’infini est: il y a partout et toujours infiniment de l’être.
Quel être? Est-il un? Est-il une personne? Est-il créateur? Or, ce «il y a» infini,
peut-on le nommer Dieu autrement que par un abus de langage? Autrement dit, cet
argument est-il véritablement une démonstration de l’existence de Dieu?
Il est vrai, toutefois, que Descartes n’avait pas attendu cette démonstration pour
80 Cfr. Cinquièmes Objections, sur la 5ème Méd., § 2, AT, VII, 323.
81 Réponses aux 5èmes Objections, sur la 5ème Méd., § 2, AT, VII, 383.
82 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 99, l. 8-16.
83 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 111.
214
Nicolas Grimaldi
tenir l’existence de Dieu comme prouvée. Aussi est-ce dès la fin de la Troisième
Méditation et au tout début de la quatrième qu’il lève l’hypothèque qui grevait le
projet de toute science possible: celle du Dieu trompeur. L’existence de Dieu désormais certaine, le problème se pose en effet maintenant de savoir s’il peut être trompeur.
5. La véracité divine
Parce que Dieu est infini, il n’est rien qu’il ne puisse. Il peut donc nous tromper
jusque dans ce qui nous paraît le plus évident. En effet, s’il y avait une seule chose
qu’il ne puisse, sa liberté aurait une limite: il ne serait donc pas absolument infini. De
ce pouvoir infini qui est en Dieu, et qui inclut donc celui qu’il a de nous abuser de
toutes les façons, ne va-t-il pas s’ensuivre un insurmontable, un invincible doute qui
réduira toute science à n’être qu’une suspecte vrai-semblance?
À l’exception de la morale provisoire, c’est tout le système, toute l’entreprise
toute la doctrine cartésienne qui se trouvent maintenant dépendre de cette unique
question84. Sur la réponse que Descartes va faire, c’est tout son édifice qui est fondé.
Or, autant de fois que l’argument en est exposé, cette réponse tient en deux lignes:
«quoique pouvoir tromper soit une marque de subtilité ou de puissance, toutefois
vouloir tromper témoigne sans doute de la faiblesse ou de la malice; et partant cela
ne peut se rencontrer en Dieu»85. Plus brièvement encore, dans son Épître à Voetius,
Descartes dira même qu’«un Dieu trompeur est inconcevable [...] parce que cela
implique contradiction dans le concept»86. Il n’y avait donc pas besoin d’explication:
il suffisait de poser la question pour y avoir répondu.
Ses Réponses aux Sixièmes Objections fourniront toutefois à Descartes l’occasion de produire deux arguments. Le premier est que l’erreur est un défaut, un manque, une privation, et que ce qui la fait telle est un néant. Or le souverain être ne peut
pas plus vouloir le néant qu’il n’en peut être la cause87, car c’est ne rien créer que de
créer le rien. Parce qu’il fait implicitement référence à la Révélation, un autre argument est moins cartésien: comment la religion pourrait-elle nous faire un devoir de
notre foi si on pensait que Dieu pût jamais nous tromper?88.
Conséquence immédiate de la véracité divine: le fameux projet d’une mathesis
universalis que Descartes avait formé dès 1628 s’en trouve désormais ontologiquement bien fondé. Comme Descartes avait annoncé à Mersenne en 1630 que Dieu a
placé dans nos esprits les idées innées des lois qu’il a instituées dans la nature89,
84 Méditation
cinquième, AT, IX-1, 55, l. 9: «la certitude de toutes les autres choses en dépend
si absolument, que sans cette connaissance il est impossible de jamais rien savoir parfaitement»; et p. 56, l. 23-26: «Et ainsi je reconnais très clairement que la certitude et la vérité de
toute science dépend de la seule connaissance du vrai Dieu: en sorte qu’avant que je le connusse, je ne pouvais savoir parfaitement aucune autre chose».
85 Méditation quatrième, AT, IX-1, 43, l. 1-5; cfr. aussi Méditation troisième, p. 41, l. 30-33;
Réponses aux 6èmes Objections, § 4, AT, IX-1, 230; et Principes I, 29.
86 Epistola ad Voetium, AT, VIII-2, 60.
87 Cfr. Réponses aux 6èmes Objections, § 5, AT, IX-1, 230.
88 Ibidem.
89 Cfr. À Mersenne, 15 avril 1630, AT, I, 145.
215
studi
voici que la véracité divine vient de lui fournir «le moyen d’acquérir une science parfaite touchant une infinité de choses, non seulement de celles qui sont en (Dieu),
mais encore de celles qui appartiennent à la nature corporelle, en tant qu’elle peut
servir d’objet aux démonstrations des géomètres, lesquels n’ont point d’égard à son
existence»90. Non seulement c’est donc la carrière d’une science infinie qui s’ouvre à
la méthode cartésienne, mais c’est même l’assurance bien fondée d’une science qui
pourra désormais se développer, à la manière de la géométrie, entièrement a priori.
Car le premier effet de la véracité divine est bien que l’ordre des choses est originairement conforme à celui de nos idées claires et distinctes, de sorte qu’il suffit de bien
juger pour bien faire.
La véracité divine est-elle le fondement de toute certitude? Regius le fait remarquer à Descartes: la vérité des axiomes n’est-elle pas manifeste par elle-même, indépendamment d’aucune autre garantie que leur évidence même?91. Mersenne renchérira: n’avons-nous pas découvert avec une absolue certitude que nous existons ou que
nous sommes un esprit, avant même de connaître l’existence de Dieu, et moins encore sa véracité?92. N’avons-nous pas découvert la clarté et la distinction comme
d’indubitables critères de la vérité93 avant même de nous interroger sur l’existence de
Dieu? Par conséquent, va demander Arnauld94, l’argumentation cartésienne n’est-elle
pas tombée à son insu dans un cercle, fondant l’existence de Dieu sur sa clarté et sa
distinction, puis garantissant la certitude de la clarté et de la distinction par l’existence de Dieu?
Cette objection a pour origine le double statut de la certitude, qu’on l’obtienne
dans l’immédiateté d’une intuition, ou par la discursivité d’une déduction. Pendant
que notre attention nous procure l’intuition d’une idée claire et distincte, nous ne
pouvons aucunement en douter. Quand il y aurait un Dieu trompeur, «il ne saurait
jamais faire que je ne sois rien tant que (quamdiu) je penserai être quelque chose»95.
Car la clarté et la distinction sont les propriétés de l’évidence, et le propre de l’évidence est qu’on n’en puisse pas douter96. Toutefois, cette évidence ne dure qu’aussi
longtemps que nous en avons l’intuition; et cette intuition ne dure qu’aussi longtemps
que l’attention qui nous la procure. D’où ces notations temporelles dont Descartes
précise et accompagne tous les exemples qu’il donne de cette praesens evidentia:
«tant que»97, «toutes les fois que»98, «pendant que»99, «tandis que»100, «quam90 Méditation cinquième, AT, IX-1, 56.
91 Cfr. À Regius, 24 mai 1640, AT, III, 64.
92 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 98-99.
93 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 27, l.
27-31: «il me semble que déjà je puis établir
pour règle générale, que toutes les choses que nous concevons fort clairement et fort distinctement sont toutes vraies».
94 Cfr. Quatrièmes Objections, AT, IX-1, 166.
95 Méditation seconde, AT, IX-1, 19, l. 33-34; la même idée est reprise dans la Troisième
Méditation, p. 28, l. 28-34.
96 Cfr. la définition de l’intuition dans la 3ème des Regulae, AT, X, 368, l. 16-17 (ut [...] nulla
prorsus dubitatio relinquatur); cfr. aussi Méditation cinquième, AT, IX-1, 52, l. 1-4.
97 Cfr. Méditation seconde, AT, IX-1, 19, l. 34.
98 Cfr. Méditation seconde, AT, IX-1, 19, l. 37; Méditation cinquième, p. 53, l. 33.
99 Cfr. Méditation cinquième, AT, lX-1, 52, l. 3; et p. 55, l. 27.
100 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 28, l. 29.
216
Nicolas Grimaldi
diu»101, «quoties»102. Car l’évidence s’impose à notre intuition aussi longtemps mais
pas plus de temps que nous y sommes attentifs. Dès que, pour progresser dans la
science, nous suivons l’ordre et l’enchaînement des idées, voici cependant que
l’attention que nous donnons à l’une nous distrait de celle que nous avions donnée à
l’autre. Du même coup, cessant d’en avoir l’intuition, nous cessons d’en éprouver
l’évidence, sa vérité ne s’impose plus à notre esprit que par le souvenir103 que nous
en gardons. Rien ne nous assure plus, alors, qu’un Dieu trompeur n’a pas abrogé les
vérités qu’il avait créées. À moins de savoir que Dieu n’est pas trompeur et qu’il a
donc fait éternelles les vérités qu’il a créées, nulle déduction ne sera jamais certaine,
et nul progrès de la connaissance ne sera jamais possible.
C’est cette certitude-là que la véracité divine garantit: non celle de la praesens
evidentia mais celle de l’evidentia aeterna. Aussi Descartes a-t-il parfaitement raison
de se défendre d’être «tombé dans la faute qu’on appelle cercle»104. Car lorsqu’il
avait dit «que nous ne pouvons rien savoir certainement si nous ne connaissons premièrement que Dieu existe», il ne s’agissait pas des évidences présentes à l’intuition,
mais de l’éternité des vérités ainsi découvertes, et par conséquent uniquement «de la
science des conclusions»105. Voilà donc en quel sens il ne peut pas y avoir de «vraie
et certaine science pour un athée»: «parce que toute connaissance qui peut être rendue douteuse ne doit pas être appelée science»106.
Lorsque Descartes avait établi, au début de la Troisième Méditation107, que les
idées vraies sont claires et distinctes, c’était une description phénoménologique, et la
vérité dont il s’agissait était celle de l’évidence s’imposant à l’intuition. Lorsque la
véracité divine lui permet d’assurer, dans la Cinquième Méditation, que «ce que je
conçois clairement et distinctement ne peut manquer d’être vrai»108, les caractères de
la certitude sont élevés cette fois à la dignité de critères logiques, et la vérité dont il
s’agit est une réalité éternelle.
On peut donc dire que, si la première conséquence de la véracité divine est
l’éternité des vérités créées, la seconde est que toutes les idées claires et distinctes
sont vraies, c’est-à-dire conformes à la réalité. S’ensuivant de celle-ci, la troisième
est la substantialité de l’âme et son indépendance ontologique par rapport au corps.
Et en effet, dès la Seconde Méditation, la découverte du Cogito a rendu manifeste
que nous avons une idée claire et distincte de notre existence comme esprit, alors
même que nous n’avons aucune idée d’aucun corps. D’une indépendance absolue de
101 Cfr.
Meditatio secunda, AT, VII, 25, l. 9; Meditatio tertia, p. 36, l. 16; Meditatio quinta, p.
65, l. 9.
102 Cfr. Meditatio secunda, AT, IX-1, 25, l. 12; Meditatio quinta, p. 67, l. 21.
103 Cfr. Méditation cinquième, AT, IX-1, 55, l. 16; p. 56, l. 1 et 5; cfr. aussi À Regius, 23 mai
1640, AT, III, 64, l. 25-29.
104 Réponses aux 4èmes Objections, AT, IX-1, 189, l. 36-37.
105 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 110; aussi Réponses aux 4èmes Objections, AT,
IX-1, 190: «nous sommes assurés que Dieu existe parce que nous prêtons attention aux raisons qui nous prouvent son existence; mais après cela, il suffit que nous nous ressouvenions
d’avoir conçu une chose clairement, pour être assurés qu’elle est vraie: ce qui ne suffirait
pas, si nous ne savions que Dieu existe et qu’il ne peut être trompeur».
106 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 111.
107 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 27, l. 28-31.
108 Méditation cinquième, AT, IX-1, 55, l. 39-41.
217
studi
leurs idées, la véracité divine nous autorise à conclure que la réalité de l’un est absolument indépendante de la réalité de l’autre, et par conséquent qu’il s’agit de deux
substances distinctes109.
L’âme étant «d’une nature entièrement distincte du corps», il s’ensuit «qu’elle
n’est point naturellement sujette à mourir avec lui»110. C’est la quatrième conséquence de la véracité divine. En effet l’idée claire et distincte que nous avons de la pensée
la manifeste comme simple – et par conséquent comme indivisible111 –; tandis que
l’idée que nous avons du corps nous manifeste l’étendue comme son attribut principal, et la divisibilité infinie comme une propriété de l’étendue. Or, de même que ce
qui est infiniment divisible est originairement et naturellement corruptible, de même
ce qui est indivisible par nature est naturellement incorruptible112, quoique Dieu
puisse annihiler ce qu’il a créé113. Aussi seule la Révélation peut-elle énoncer de
façon affirmative ce que la raison ne manifeste que de façon négative. Ce que dit la
raison: parce qu’elle n’est pas soumise au corps, l’âme n’est pas soumise naturellement à la mort114. Ce qu’enseigne la Révélation: que nos âmes sont immortelles115 et
surnaturellement destinées à «des félicités beaucoup plus grandes que celles dont
nous jouissons en ce monde»116.
Cinquième conséquence de la véracité divine: il y a des corps extérieurs, la
nature matérielle existe. Première observation: il y a en nous une faculté d’imaginer.
Or l’imagination est la faculté par laquelle nous nous représentons dans un corps tout
109
Cfr. Méditation sixième, AT, IX-1, 62; Réponses aux 2ndes Objections, exposé géométrique, 4ème prop. AT, IX-1, 131-132; Au P. Gibieuf, 19 janvier 1642, AT, III, 475-478.
110 À Mersenne, 24 décembre 1640, AT, III, 266; Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1,
120: «La connaissance naturelle nous apprend que l’esprit est différent du corps, et qu’il est
une substance; et aussi que le corps humain, en tant qu’il diffère des autres corps, est seulement composé d’une certaine configuration de membres, et autres semblables accidents; et
enfin que la mort du corps dépend seulement de quelque division ou changement de figure.
Or nous n’avons aucun argument ni aucun exemple, qui nous persuade que la mort, ou
l’anéantissement d’une substance telle qu’est l’esprit, doive suivre d’une cause si légère
comme est un changement de figure, qui n’est autre chose qu’un mode, et encore un mode,
non de l’esprit, mais du corps, qui est réellement distinct de l’esprit. Et même nous n’avons
aucun argument ou exemple, qui nous puisse persuader qu’il y a des substances qui sont
sujettes à être anéanties. Ce qui suffit pour conclure que l’esprit, ou l’âme de l’homme,
autant que cela peut être connu par la philosophie naturelle, est immortelle».
111 Cfr. Abrégé des Six Méditations, AT, IX-1, 10.
112 Ibidem: «l’esprit ou l’âme de l’homme ne se peut concevoir que comme indivisible [...]
l’âme humaine n’est point composée d’aucuns accidents, mais est une pure substance [...]
l’âme humaine est immortelle de sa nature».
113 Cfr. À Mersenne, 24 décembre 1640, AT, III, 266.
114 Cfr. À Huygens, 10 octobre 1642, AT, III, 798; et À Elisabeth, 3 novembre 1645, AT, IV,
333: «laissant à part ce que la foi nous enseigne, je confesse que, par la seule raison naturelle, nous pouvons faire beaucoup de conjectures à notre avantage et avoir de belles espérances, mais non point aucune assurance».
115 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 120: «si on demande si Dieu, par son absolue
puissance, n’a point peut-être déterminé que les âmes humaines cessent d’être, en même
temps que les corps auxquels elles sont unies sont détruits, c’est à Dieu seul d’en répondre.
Et puisqu’il nous a maintenant révélé que cela n’arrivera pas, il ne doit plus rester touchant
cela aucun doute».
116 À Huygens, 10 octobre 1642, AT, III, 798.
218
Nicolas Grimaldi
ce que nous nous représentons117. S’il n’y avait aucun corps, elle serait donc en nous
une faculté d’aberration ou une faculté hallucinogène, et Dieu qui l’a mise en nous
serait un Dieu trompeur. L’existence en nous de l’imagination fait donc présumer de
l’existence vraisemblable de corps extérieurs. Deuxième observation: nous avons des
sensations, et nos sensations sont des idées. Comme telles, elles sont des images. En
tant qu’images, elles ont une réalité objective. Cette réalité a nécessairement une
cause, dont nous savons déjà qu’elle doit posséder ou éminemment ou formellement
au moins autant de réalité que l’idée en représente. Si cette cause était Dieu, il produirait en nous comme un leurre ou comme une illusion ces images à quoi rien de
réel ne correspondrait: ce serait un Dieu trompeur. Il ne reste par conséquent qu’une
cause possible à nos sensations: une réalité possédant formellement ce qu’elles nous
représentent objectivement: c’est-à-dire l’existence matérielle de choses extérieures118.
La véracité divine autorise la déduction d’une théorème supplémentaire. Puisque
toutes les choses matérielles ne peuvent être conçues que comme étendues, tout ce qui
est vrai de l’étendue est nécessairement vrai de la matière. Or, nous avons un système
d’idées claires et distinctes touchant l’étendue: c’est la géométrie. Tout doit donc pouvoir s’expliquer en physique comme en géométrie par de simples modifications de
grandeur, de figure, ou de mouvement. Voici le mécanisme a priori fondé.
6. La connaissance de Dieu
Si on excepte la certitude que je suis, et que je suis un esprit, il n’y a donc pas
une connaissance qui ne s’ensuive de celle que nous avons de Dieu119. Non seulement, comme nous l’avons vu, l’idée d’infini est la première de toutes et la plus originaire, puisque l’idée d’aucune chose finie ne peut être formée que par limitation ou
négation de l’idée d’infini; mais l’idée de Dieu est même la plus claire et la plus
distincte de toutes. Comme il avait écrit à Mersenne que «Deus est maxime cognoscibilis et effabilis»120, Descartes répondra à Caterus qu’il y a en Dieu «incomparablement plus de choses qui peuvent être clairement et distinctement connues, et avec
plus de facilité, qu’il ne s’en trouve en aucune des choses créées»121. Parce qu’il n’y
a rien de semblable à l’infini, ni rien qui en approche122, on ne peut en effet jamais le
confondre: aussi est-ce la plus distincte de toutes les idées. Mais s’il est aussi vrai, et
en quelque sorte par nature, qu’on ne peut pas le dé-finir, cela est sans importance,
117 Cfr.
Méditation sixième, AT, IX-1, 57 et 58; À Morus, 5 février 1649, AT, V, 270, l. 23-25:
«rien ne tombe sous l’imagination qui ne soit étendu».
118 Cfr. ibidem, p. 63, et Principes II, 1.
119 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 150, l. 2-4: «l’existence de Dieu est la première et la plus
éternelle de toutes les vérités qui peuvent être, et la seule d’où procèdent toutes les autres».
120 À Mersenne, 21 janvier 1641, AT, III, 284, l. 11.
121 Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 90; et Principes I, 19: «nous concevons (les perfections infinies de Dieu) plus clairement et plus distinctement que les choses matérielles, à
cause qu’étant plus simples et n’étant point limitées, ce que nous en concevons est beaucoup moins confus».
122 À Morus, 5 février 1649, § 4, AT, V, 274: «Solus Deus est quem positive intelligo esse
infinitum».
219
studi
puisqu’il est la seule réalité qui n’ait pas besoin d’être dé-finie pour être clairement
conçue et parfaitement distinguée.
Il convient toutefois de distinguer entre ce que c’est que «comprendre», et ce
que c’est que «savoir», «entendre», ou «concevoir». Parce que «comprendre c’est
embrasser par la pensée»123, «le mot de comprendre signifie quelque limitation, (de
sorte qu’) un esprit fini ne saurait comprendre Dieu, qui est infini; mais cela n’empêche pas qu’il ne l’aperçoive, ainsi qu’on peut bien toucher une montagne, encore
qu’on ne puisse l’embrasser»124. Aussi Descartes ne cessera-t-il de dire que «l’infini,
en tant qu’infini, n’est point à la vérité compris, mais que néanmoins il est entendu»125, ou que «l’incompréhensibilité même est contenue dans la raison formelle de
l’infini»126. Il est donc bien clair qu’incompréhensible ne signifie pas inconnaissable,
puisque c’est une seule et même chose de connaître l’infinité de Dieu et de le connaître comme incompréhensible127.
Ainsi, de même que l’idée que nous avons de la perfection a dû précéder en
droit celle que nous avons de notre imperfection, de même la connaissance que nous
avons de Dieu nous découvre que nous pouvons le contempler128 mais non pas le
comprendre, que tout dépend de lui sans qu’il dépende de rien129, et par conséquent
qu’il est cause de tout.
123
À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152: «on peut savoir que Dieu est infini [...] encore que
notre âme étant finie ne le puisse comprendre, [...] de même que nous pouvons bien toucher
avec les mains une montagne, mais non pas l’embrasser comme nous ferions un arbre, ou
quelque autre chose que ce soit qui n’excédât pas la grandeur de nos bras: car comprendre
c’est embrasser par la pensée, mais pour savoir une chose, il suffit de la toucher de la pensée».
124 À Clerselier (en réponse à Gassendi), AT, IX-1, 210, où Descartes reprend donc la même
comparaison dont il avait usé dans la lettre à Mersenne du 27 mai 1630.
125 Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 89, l. 31-32; Entretien avec Burman, sur la 3ème
Méd., AT, V, 154: «Dei perfectiones non imaginamur, nec concipimus, sed intelligimus [...]».
126 Réponses aux 5èmes Objections, sur la 3ème Méd., § VII, AT, VII, 368, l. 4; Méditation
troisième, AT, IX-1, 37, l. 4-5: «il est de la nature de l’infini que ma nature, qui est finie et
bornée, ne le puisse comprendre; et il suffit que je conçoive bien cela [...]».
127 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152: «on peut savoir que Dieu est infini et tout-puissant,
encore que notre âme étant finie ne le puisse comprendre ni concevoir»; Méditation quatrième, AT, IX-1, 44: «sachant déjà que ma nature est extrêmement faible et limitée, et au contraire que celle de Dieu est immense, incompréhensible et infinie, je n’ai plus de peine à reconnaître qu’il y a une infinité de choses en sa puissance, desquelles les causes surpassent la portée
de mon esprit»; et À l’Hyperaspistes, août 1641, § 7, AT, III, 430, l. 4-7: «quand il est question des choses qui regardent Dieu, ou l’infini, il ne faut pas considérer ce que nous en pouvons comprendre (puisque nous savons qu’elles ne doivent pas être comprises par nous), mais
seulement ce que nous en pouvons concevoir, ou atteindre par quelque raison certaine».
128 Méditation troisième, AT, IX-1, 41: «il me semble très à propos de m’arrêter quelque
temps à la contemplation de ce Dieu tout parfait, de peser tout à loisir ses merveilleux attributs, de considérer, d’admirer et d’adorer l’incomparable beauté de cette immense lumière,
au moins autant que la force de mon esprit, qui en demeure en quelque sorte ébloui, me le
pourra permettre».
129 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 150: «il est le seul auteur duquel toutes choses dépendent»; 27 mai 1630, AT, I, 152: «il est certain qu’il est aussi bien auteur de l’essence
comme de l’existence des créatures: or cette essence n’est autre chose que ces vérités éternelles [...] je sais que Dieu est auteur de toutes choses [...]»; Réponses aux 6èmes
Objections, § 8, AT, IX-1, 235: «quand on considère attentivement l’immensité de Dieu, on
voit manifestement qu’il est impossible qu’il y ait rien qui ne dépende de lui [...]».
220
Nicolas Grimaldi
Avant d’examiner ce qui s’ensuit de la dépendance de toutes choses par rapport
à Dieu, voyons ce que nous pouvons connaître de son incompréhensible nature.
Volontiers nous dirions, avec Malebranche, que l’infinité est le principal caractère
des attributs divins, dont les autres dérivent. Pourtant, on doit observer que l’ordre
dans lequel Descartes les évoque n’est pas constant. Tantôt c’est la souveraineté de
Dieu et son éternité qu’il cite en premier130. Tantôt c’est son omniscience et son
omnipotence131. Tantôt c’est sa perfection132. Tantôt c’est son infinité133. Sans doute
pourrait-on interpréter cette diversité des noms divins, et l’apparente réversibilité de
leur ordre, par le fait que chacune des perfections de Dieu englobe et exprime toutes
les autres. En ce sens, leur diversité ne ferait que diffracter l’absolue simplicité de
Dieu134. Au sens où le propre de l’infini est qu’on ne lui peut rien ajouter, n’est-ce
pas pourtant son infinité qui fait sa suprême perfection? Pour la même raison, n’estce pas aussi son infinité qui fait son éternité? Quant à son omniscience et son omnipotence, ne s’ensuivent-elles pas de son infinité absolue, au sens où nulle perfection
(connaître, pouvoir) n’existe qu’en participant à la sienne?
Poussant cette logique à sa limite, Descartes n’eut-il pas dû affirmer alors que,
puisque l’être et l’infini sont réciprocables, il n’est rien que Dieu ne soit? N’eut-il pas
alors été conduit à affirmer, comme fera Spinoza, que l’étendue est un attribut divin?
Et en effet, l’étendue n’est-elle pas l’attribut principal d’une substance? Ne pouvant
être conçue que par elle-même, n’est-elle pas aussi conçue comme infinie – ou du
moins comme indéfinie?135. Ce que l’étendue a d’analogue à l’infinité, cette positivité ontologique qui fait de l’étendue une manière d’être, d’où lui viendraient-ils s’il
n’y a rien d’étendu en Dieu dont elle participe? Par ailleurs, étant posé que l’étendue
n’est pas une limitation, ni une privation, ni une illusion, ni un néant, mais une véritable réalité, comment Dieu serait-il infini s’il y avait quelque chose qu’il ne fût pas?
Morus avait pressenti ce développement de la logique cartésienne, en signalant que si
«Dieu est positivement infini», il doit «exister partout». N’allait-on pas alors tomber
dans quelque nouveau panthéisme? Descartes s’y refuse absolument. «Je n’admets
pas ce partout, répond-il à Morus. Car il paraît ici que vous ne faîtes consister l’infinité de Dieu qu’en ce qu’il existe partout, ce que je ne vous passe point; croyant au
contraire que Dieu est partout à raison de sa puissance, et qu’à raison de son essence
il n’a absolument aucune relation au lieu»136.
130
Méditation troisième, AT, IX-1, 32, l. 5-7: «je conçois un Dieu souverain, éternel, infini,
immuable, tout connaissant, tout puissant, et Créateur universel de toutes les choses qui sont
hors de lui».
131 Cfr. Principes I, 14.
132 Cfr. Principes I, 15; I, 18; I, 19; I, 20.
133 Méditation troisième, AT, IX-1, 35, l. 41; p. 36, l. 3: «par le nom de Dieu j’entends une substance infinie, éternelle, immuable, indépendante, toute connaissante, toute puissante, et par laquelle
moi-même et toutes les autres choses qui sont ont été créées et produites»; p. 37, l. 38-40: «je
conçois Dieu actuellement infini en un si haut degré, qu’il ne se peut rien ajouter à la souveraine
perfection qu’il possède»; cfr. aussi Principes I, 27, où Descartes va distinguer ce qui est proprement infini de ce qui n’est qu’indéfini afin «de réserver à Dieu seul le nom d’infini».
134 Méditation troisième, AT, IX-1, 40, l. 15-17: «l’unité, la simplicité, ou l’inséparabilité de
toutes les choses qui sont en Dieu, est une des principales perfections que je conçois en lui»;
Réponses aux 2èmes Objections, AT, IX-1, 108, l. 17-20.
135 Cfr. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 89-90; Principes I, 27.
136 À Morus, 15 avril 1649, AT, V, 343, l. 13-18.
221
studi
Ce problème a son origine dans la conception différente que Descartes et
Spinoza se font de l’étendue. Alors que Spinoza expliquera que l’étendue, en tant
qu’attribut, doit être conçue comme absolument simple, et par conséquent comme
absolument indivisible137, Descartes ne la conçoit que comme divisible à l’infini, et
composée de parties qui toutes réciproquement s’excluent (partes extra partes). À
l’inverse de ce que pensera Spinoza, c’est donc une seule et même chose pour
Descartes d’être corporel et d’être étendu. Aussi usera-t-il de la même argumentation
pour montrer que Dieu n’est pas étendu que pour montrer qu’il n’est pas corporel.
«Parce que l’extension constitue la nature du corps, dit-il, et que ce qui est étendu
peut être divisé en plusieurs parties, et que cela marque du défaut, nous concluons
que Dieu n’est point un corps»138. Si Dieu n’est pas étendu, c’est donc parce que
l’étendue ne peut pas être divine, et cela pour trois raisons: 1) parce qu’elle n’a pas
de simplicité; 2) parce qu’étant divisible elle est exposée à la corruption, et par conséquent à la temporalité; 3) parce que n’étant constituée que d’une infinité d’exclusions et de limitations, son infinité n’est qu’une infinité de privations et de négations.
Son infinité n’est qu’un mauvais infini.
7. Dieu comme cause
Parce que Dieu est infini, rien d’extérieur à lui n’a jamais pu le produire: il n’est
causé par rien; il est causa sui139. Ayant donc une indépendance absolue, il n’est
déterminé par rien: sa liberté est infinie. Étant cause de tout, mais n’étant pas étendu,
il est absolument transcendant à l’univers qu’il a créé. Toutefois, puisque Dieu n’est
déterminé par rien, peut-il avoir aucune cause finale? ni même aucune cause formelle? ni non plus aucune cause matérielle, puisque la matière est un effet de sa
Création? En quoi alors consiste cette causalité? Comment s’exerce-t-elle?
S’agissant de Dieu, dont la Création est une causalité entièrement surnaturelle,
Descartes rappelle le caractère inadéquat de tous les types connus d’explication causale, qui n’ont de sens qu’à l’intérieur de la nature, où s’exerce une causalité strictement naturelle140. Toutefois, parmi les différents types de causalité inventoriés et
caractérisés par l’École, il en est un qu’on peut analogiquement attribuer à la
Création: c’est la causalité efficiente141. Aussi Descartes ne cesse-t-il de dire que
137
Cfr. B. SPINOZA, Éthique 1, 13 et corollaire; 1, 15, scolie; et lettre XII à Louis Meyer (in
Oeuvres complètes de Spinoza, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1954, p. 1098).
138 Principes I, 23; et aussi Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 109, l. 10-20: «la nature du corps enferme plusieurs imperfections, par exemple, que le corps soit divisible en parties, que chacune des parties ne soit pas l’autre, et autres semblables; car c’est une chose de
soi manifeste, que c’est une plus grande perfection de ne pouvoir être divisé que de pouvoir
l’être, etc.».
139 Cfr. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 87-88; et Réponses aux 4èmes Objections
AT, IX-1, 187-189.
140 Réponses aux 6èmes Objections, § 8, AT, lX-1, 235, l. 39; p. 236, l. 5: «il n’est pas besoin de
se demander en quel genre de cause cette bonté, ni toutes les autres vérités [...] dépendent de
Dieu; car, les genres de causes ayant été établis par ceux qui peut-être ne pensaient point à cette
raison de causalité, il n’y aurait pas lieu de s’étonner quand ils ne lui auraient point donné de
nom; mais néanmoins ils lui en ont donné un, car elle peut être appelée efficiente [...]».
141 Cfr. ibidem, p. 236 , l. 4-5.
222
Nicolas Grimaldi
«Dieu est cause efficiente et totale»142. Il le redira en 1647 dans l’édition française
des Principes143 comme il le disait dans ses lettres de 1630 à Mersenne: «Dieu est le
seul auteur duquel toutes les choses dépendent»144. Comme rien n’existe donc que
par lui145, «il est aussi bien auteur de l’essence que de l’existence des créatures»146;
de sorte que les vérités éternelles aussi sont ses créatures et ne dépendent que de sa
volonté147.
Cette doctrine pose les plus grands problèmes. Elle sera critiquée aussi bien par
Spinoza que par Malebranche ou par Leibniz. Elle est aussi ce qui fait la principale
originalité de la pensée de Descartes. Tout s’ensuit de la stricte identification de Dieu
à l’infini, de l’infini à la toute puissance, de la toute puissance à l’indépendance absolue, de l’indépendance absolue à l’indétermination absolue, de cette indétermination
absolue à l’indifférence absolue, et de l’indifférence absolue à la contingence absolue. Toutes ces notions (puissance, indépendance, indétermination, indifférence, contingence) vont conspirer et s’unifier dans la notion de liberté, et dans la conception
que Descartes va donc développer de la liberté de Dieu.
Tout commence par l’idée que «la puissance de Dieu ne peut avoir aucunes bornes»148. Parce que rien ne peut donc agir sur la volonté de Dieu, c’est pour elle une
seule et même chose d’être absolument libre et d’être absolument indéterminée. C’est
pourquoi «Dieu ne peut avoir été déterminé à faire qu’il fût vrai que les contradictoires ne peuvent être ensemble»149. Pas plus qu’il n’a donc été détermine par aucune
considération ni raison à créer ces vérités plutôt que d’autres, s’il a donc «voulu que
quelques vérités fussent nécessaires, ce n’est pas à dire qu’il les ait nécessairement
voulues»150. Il aurait donc tout aussi bien pu faire que les contradictoires fussent
simultanément compatibles, que les angles d’un triangle ne fussent pas égaux à deux
droits151, que les rayons d’un cercle ne fussent pas égaux152, qu’il y eut des montagnes sans vallées153, ou même rien du tout154.
142 À
Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 2; et À Elisabeth, 6 octobre 1645, AT, IV, 314, l.
22-25: «Dieu est tellement la cause universelle de tout, qu’il en est en même façon la cause
totale; et ainsi rien ne peut arriver sans sa volonté».
143 Cfr. Principes I, 24.
144 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 150, l. 7-8; 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 7.
145 Réponses aux 6èmes Objections, § 8, AT, IX-1, 236, l. 12-13: «rien ne peut exister, en
quelque genre que ce soit, qui ne dépende de Dieu».
146 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 2-4.
147 À Mersenne, 15 avril 1630, AT, I, 145, l. 7-10: «les vérités mathématiques, lesquelles vous
nommez éternelles, ont été établies de Dieu et en dépendent entièrement, aussi bien que tout
le reste des créatures»; 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 2-4: «il est aussi bien l’auteur de l’essence que de l’existence des créatures; or cette essence n’est autre chose que ces vérités éternelles [...]»; 6èmes Réponses, § 8, AT, IX-1, 236, l. 19-22: «il ne faut pas penser que les
vérités éternelles dépendent de l’entendement humain, ou de l’existence des choses, mais
seulement de la volonté de Dieu, qui, comme un souverain législateur, les a ordonnées et
établies de toute éternité».
148 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 118, l. 11-12.
149 Ibidem, l. 19-21.
150 Ibidem, l. 25-27.
151 Cfr. ibidem, l. 6-10.
152 Cfr. À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 20-23.
153 Cfr. À Arnauld, 29 juillet 1648, § 6, AT, V, 224.
154 Cfr. À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 23.
223
studi
La toute-puissance, la parfaite indépendance et la suprême liberté de Dieu sont
donc tout un avec son indétermination et son indifférence absolues. Car «une entière
indifférence en Dieu est une preuve très grande de sa toute-puissance»155, de sorte
que sa «volonté a été de toute éternité indifférente à toutes les choses qui ont été faites ou qui se feront jamais»156.
Contrairement à un schéma anthropologique qui nous fait imaginer Dieu à notre
image en lui prêtant un entendement et une volonté semblables aux nôtres, Dieu n’a
donc pas été déterminé à créer ce monde parce qu’il serait le meilleur, ou à faire ces
choses parce qu’elles sont très bonnes: tout à l’inverse c’est parce qu’il l’a voulu que
ce monde est le meilleur, et c’est parce qu’il les a produites que ces choses sont très
bonnes157. Car tout ce qui est médiat, discursif, successif et séparé dans l’homme à
cause de son imperfection, est immédiat, simple et simultané en Dieu à cause de sa
perfection. Ainsi, alors que c’est par des opérations successives que l’homme
conçoit, délibère, puis décide, la simplicité de Dieu fait au contraire que c’est en lui
«une seule et même chose de vouloir, d’entendre, et de créer, sans que l’un précède
l’autre, ne quidem ratione»158. Aussi n’y a-t-il «aucune préférence ou priorité entre
son entendement et sa volonté»159. C’est dans le monde créé que les vérités précèdent la connaissance qu’on en acquiert, et que cette connaissance précède la décision
de notre volonté. Pour Dieu, à l’inverse, rien ne serait à connaître s’il ne l’avait créé,
et rien ne serait à vouloir s’il ne le connaissait. Voilà pourquoi la volonté de Dieu
devait être absolument indifférente et sa création absolument contingente, «n’y ayant
en effet aucune idée qui représente le bien ou le vrai, ce qu’il faut croire, ce qu’il faut
faire, ou ce qu’il faut omettre, qu’on puisse feindre avoir été l’objet de l’entendement
divin, avant que sa nature ait été constituée telle par la détermination de sa volonté.
Et je ne parle pas ici d’une simple priorité de temps, mais bien davantage je dis qu’il
a été impossible qu’une telle idée ait précédé la détermination de la volonté de Dieu
par une priorité d’ordre, ou de nature, ou de raison raisonnée»160.
On aura remarqué qu’en évoquant la simplicité de Dieu, c’est toujours sa
volonté que Descartes commence cependant toujours par citer. «Par cela seul qu’il
veut quelque chose, il la connaît, etc.»161. «C’est une seule et même chose de vouloir,
d’entendre et de créer»162. Et quoiqu’il ne s’agisse d’aucune priorité chronologique,
Dieu n’a conçu aucune vérité «avant que sa nature (de cette vérité) ait été constituée
155 6èmes Réponses, § 6. AT, lX-1, 233, l. 24-25; cfr. aussi § 8, p. 235, l.
156 Ibidem, § 6, p. 232, l. 40; p. 233, l. 1.
157 Ibidem, § 8, p. 235, l. 34-39: «si quelque raison ou apparence de
32-34.
bonté eut précédé sa
préordination, elle l’eut sans doute déterminé à faire ce qui aurait été de meilleur. Mais, tout
au contraire, parce qu’il s’est déterminé à faire les choses qui sont au monde, pour cette raison, comme il est dit en la Genèse, elles sont très bonnes, c’est-à-dire que la raison de leur
bonté dépend de ce qu’il les a ainsi voulu faire».
158 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 153, l. 1-3; v. aussi 6 mai 1630, AT, I, 149, l. 28-30: «en
Dieu ce n’est qu’un de vouloir et de connaître; de sorte que ex hoc ipso quod aliquid velit,
ideo cognoscit, et ideo tantum talis res est vera».
159 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 119, l. 9-14: «l’idée que nous avons de Dieu nous apprend
qu’il n’y a en lui qu’une seule action toute pure: et que ces mots de St Augustin expriment
fort bien: Quia vides ea, sunt, parce qu’en Dieu videre et velle ne sont qu’une même chose».
160 6èmes Réponses, § 6, AT, IX-1, 233, l. 1-8.
161 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 149, l. 28.
162 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 153, l. 2.
224
Nicolas Grimaldi
telle par la détermination de sa volonté»163. Et, parce que c’est en effet la volonté qui
affirme ou qui nie, qui crée ou ne crée pas, «les vérités éternelles dépendent [...] seulement de la volonté de Dieu»164. Sans doute le Dieu qui prononce le «Fiat» inaugural est-il un Dieu volontaire. Néanmoins, tout cela ne manifeste-t-il pas quelque
subreptice primat de la volonté?
Solidaire de cette observation, on aura noté que toute l’argumentation cartésienne s’ensuit ici du privilège accordé à la puissance de Dieu par rapport à ses autres
attributs. Malebranche dénoncera dans ce privilège qui soumet la charité, la justice et
la sagesse de Dieu à sa puissance, une conséquence de l’anthropomorphisme par
lequel nous prêtons à Dieu les perfections que nous désirons le plus, à cause de notre
imperfection même, et en conséquence du péché. Par ailleurs, et quelque souci que
Descartes ait eu de tenir sa philosophie séparée de sa religion, le Dieu de la ToutePuissance n’est-il pas plutôt celui de l’Ancien Testament que celui du christianisme?
Enfin, si l’indifférence est en Dieu l’expression de sa suprême liberté, n’est-ce
pas aussi au sens où le Dieu de Descartes est si ab-solu que, comme chez Aristote,
tout ait rapport à lui sans qu’il ait rapport à rien? Tout lui est relié; mais il n’est lié à
rien. Mais alors, comment pourrait-il jamais aimer sa création puisqu’elle lui est
indifférente? Pourquoi, comme le demandera Leibniz, l’aimerait-on de ce qu’il a fait
sans choix, ni inclination, ni dilection, ni préférence? Comme nous le fait pressentir
une lettre de 1647 à Chanut, lorsqu’on dit qu’on aime Dieu, faut-il alors s’étonner si
cet amour exprime plus souvent le désir d’être Dieu que celui de le servir?165. D’ailleurs, quand on prendrait garde «à l’infinité de sa puissance, par laquelle il a créé tant
de choses, dont nous ne sommes que la moindre partie; à l’étendue de sa providence,
qui fait qu’il voit d’une seule pensée tout ce qui a été, qui est, qui sera, et qui saurait
être; à l’infaillibilité de ses décrets, [...] et enfin, d’un autre côté, à notre petitesse
[...]»166, tant de raisons que nous en puissions tirer de l’admirer ou de le craindre,
comment en tirerions-nous une seule de l’aimer? Descartes a certes évoqué «quelques philosophes» persuadés que c’est l’Incarnation qui nous fait aimer par-delà toutes nos forces un Dieu qui nous a aimés par-delà toute raison167.
Mais y aurait-il un seul mot à changer à la philosophie cartésienne, si le Dieu,
qui en est le fondement, était un Dieu qui ne se fût pas incarné dans son Verbe, pour
nous sauver, dont le Fils ne fût pas mort sur la Croix, et n’eût pas ressuscité?
***
Abstract: L’idea di Dio è un concetto centrale di tutta la filosofia cartesiana, anzi si
tratta di una questione che ne costituisce il fondamento. La ricerca di Dio secondo
Cartesio non è comunque un movimento dimostrativo che faccia a meno del primo
principio della sua filosofia: Cartesio non abbandona la dimensione definita dal
163 6èmes Réponses, § 6, AT, IX-1, 233.
164 Ibidem, § 8, AT, IX-1, 236.
165 Cfr. À Chanut, 1er février 1647, AT, IV,
166 Ibidem, p. 608, l. 23; p. 609, l. 1.
167 Cfr. ibidem, p. 607, l. 19-24.
608.
225
studi
cogito per proporre delle prove dell’esistenza di Dio. L’articolo esamina non solo le
prove proposte da Cartesio per dimostrare l’esistenza di Dio, ma anche si sofferma a
considerare il bisogno interno alla filosofia cartesiana, e perciò al cogito stesso,
costituito appunto dall’esistenza di Dio come questione basilare sul piano dell’evidenza; infatti l’evidenza del primo principio cartesiano non è sufficiente per fondare
tutte le istanze filosofiche che lo stesso cogito solleva.
226
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 227/245
Dios en la filosofía de Malebranche
JOSÉ LUIS FERNÁNDEZ RODRÍGUEZ*
Sommario: 1. La idea de Dios; 2. Las pruebas a posteriori; 3. La prueba ontológica; 4. La
infinitud, atributo esencial de la divinidad; 5. La libertad divina; 6. El motivo de la creación;
7. Creación continuada; 8. Dios, causa única.
■
1. La idea de Dios
Según Descartes la idea de Dios sirve de fundamento para todas las otras ideas,
incluso para la idea del yo, pues si no tuviésemos la idea de lo infinito no podríamos
saber que somos finitos. Pero, aunque es la primera en el orden del fundamento, no es
la primera en el orden del descubrimiento, pues en ese orden la primera es la del yo,
ya que sólo a partir de la idea del yo se prueba la existencia de Dios. Si se elimina esa
primacía cronológica del yo, no queda más que la primacía de Dios. Pues bien, ése es
el parecer de Malebranche, porque para él la idea de Dios es la primera en todos los
sentidos, pues «uno puede estar algún tiempo sin pensar en sí mismo, pero me parece
que no podría subsistir un momento sin pensar en el ser»1, es decir, en Dios.
Esta inmediatez puede expresarse diciendo que el conocimiento de Dios es un
conocimiento sin idea. Sans idée, porque Malebranche está pensando en la acepción
* Departamento
1
de Historia de la Filosofía, Universidad de Navarra, 31080 Pamplona, Spagna
I, 456. XII-XIII, 174. Todas las referencias a Malebranche están tomadas de sus Oeuvres
complètes, publicadas bajo la dirección de A. ROBINET, Vrin, Paris 1960 ss, indicando el
tomo en caracteres romanos y la página en caracteres arábigos. Para que el lector pueda
saber en cada momento a qué obra pertenece cada referencia, señalo a continuación la tabla
de correspondencias entre los tomos de esta edición y las obras de Malebranche: I, II, III.
De la recherche de la verité. IV. Conversations chrétiens. V. Traité de la nature et de la
grâce. VI, VII, VIII, IX. Recueil de toutes les réponses a Monsieur Arnauld. X. Méditations
chrétiennes. XI. Le traité de la morale. XII. Entretiens sur la métaphysique et sur la religion. XIII. Entretiens sur la morte. XIV. Traité de l´amour de Dieu. Trois lettres au R.P.
Lamy. Réponse génerale aux lettres du R.P. Lamy. XV. Entretiens d´un philosophe chrétien
et d´un philosophe chinois. XVI. Réflexions sur la prémotion physique. XVII/1. Pièces et
écrites divers. XVII/2. Mathematica. XVIII. Correspondence et actes. XIX.
Correspondence et actes. XX. Documents biographiques et bibliographiques. XXI. Index
des citations. XXII. Index Général.
227
studi
estricta de la idea, acepción según la cual la idea es arquetipo: el arquetipo que Dios
tiene de todas las cosas creadas. Y en ese sentido es obvio que no se puede hablar de
idea de Dios, porque, al ser increado, «no hay un modelo a cuyo tenor Dios haya sido
formado»2. Cuando se expresa así, Malebranche no hace más que sintonizar con el
modo que Dios tiene de conocerse a sí mismo. La teología cristiana nos enseña que
Dios no se conoce por medio de una idea, sino engendrando al Hijo, que es una
semejanza perfecta de su Padre, porque «nada puede representar a Dios, salvo su
Verbo, que es consustancial con El»3. Por eso, si Dios no tiene idea de sí mismo,
¿cómo vamos a conocer a Dios por medio de una idea? Con razón se ha dicho que,
antes de preguntarse por el conocimiento que el hombre tiene de Dios, el filósofo
debe interrogarse por el conocimiento que Dios tiene de sí mismo. A diferencia de
Descartes, Malebranche cree que el conocimiento humano debe asimilarse al conocimiento divino4.
Ahora bien, también sintonizaría con la teología cristiana, si expresase la inmediatez de nuestro conocimiento de Dios diciendo que tenemos idea de Dios, pues la
teología cristiana también asegura que el Verbo, por ser la representación del Padre, es
la idea del Padre, aunque una idea especial, pues, al ser una semejanza perfecta, una
semejanza que encierra toda su sustancia, la idea de Dios viene a ser Dios mismo:
l´infini est à lui même son idée5. No debe extrañarnos, por tanto, que Malebranche
afirme sin cesar que conocemos a Dios mediante su idea, aconsejándonos que, si queremos hablar de Dios, debemos «consultar con mucha atención y respeto la idea vasta
e inmensa del ser infinitamente perfecto»6; protestando incluso contra «los hombres
que a veces dicen que no tienen idea de Dios»7, sin caer en la cuenta de que, si fuera
como ellos creen, no podrían decir que Dios es sabio, justo, poderoso, etc., pues esas
cualidades no pueden serle atribuidas «si falta la idea de ese sujeto»8.
Naturalmente, sólo puede afirmar que tenemos idea de Dios, después de haber
negado que la haya, si ahora no entiende la idea en el sentido estricto de arquetipo. Y
es evidente que no la toma en esa acepción, porque, al ser Dios increado, no hay
arquetipo que preceda a su creación. Si hubiera arquetipo de Dios, sería conocido en
otra cosa, como sucede con los cuerpos, pues tener la idea de un cuerpo es ver una
cosa distinta del cuerpo, es ver su modelo. Pero si no hay arquetipo de Dios, tener
idea de Dios no es ver a Dios en otra cosa, sino en sí mismo o de modo inmediato. A
eso viene a parar en definitiva Malebranche, cuando, en su respuesta a Arnauld, que
lo acusaba de mantener cosas contradictorias9, afirma que, referida a Dios, la idea no
se toma en el sentido propio de arquetipo, sino en el sentido general de ce que est
l´objet inmediat de l´esprit quand on pense10. Con lo que la contradicción señalada
2 VI, 165. Cfr. XII, 53.
3 VI, 165-166.
4 Cfr. H. GOUHIER, La
philosophie de Malebranche et son expérience religieuse, Vrin, Paris
1948, pp. 332-334.
5 XII, 53.
6 V, 26. Cfr. V, 75; XI, 67.
7 II, 54.
8 Ibidem; cfr. III, 94.
9 Cfr. Des vrais et fausses idées, c. XXVI. Œuvres. Edic. N. Schouten, Cologne 1.683, XXXVIII, p. 333.
10 VI, 166.
228
José Luis Fernández
por Arnauld no es más que una mala inteligencia de Arnauld, pues tanto da decir que
Dios es conocido sin idea como afirmar que tenemos idea de Dios, ya que en los dos
casos estamos ante un conocimiento inmediato de Dios. La contradicción se da magis
in verbis quam in re11.
Para subrayar la inmediatez de nuestro conocimiento de Dios, Malebranche
llega incluso a asegurar que a Dios, igual que al alma, lo conocemos por sentiment
interieur, pues, de la misma manera que «llego a la conclusión de que existo, porque
me siento... llego a la conclusión de que Dios existe... porque lo percibo»12. Pero
comparar el conocimiento que tenemos de Dios con el conocimiento que tenemos de
nosotros mismos no es confundirlos, porque, aunque los dos son directos, lo son de
distinta manera, ya que el arquetipo de nuestra alma existe en Dios, aunque de hecho
estamos privados de él, cosa que no ocurre con el arquetipo de Dios, que no existe en
ninguna parte.
Exprésese como se quiera, el conocimiento de Dios es inmediato. La razón de
esa inmediatez es siempre la misma y casi siempre expresada con las mismas palabras: «Nada finito puede representar lo infinito»13. Como representar es contener,
también se puede decir: lo finito no puede contener lo infinito. Si no atendemos a esa
razón, quebrantamos lo que él llama el primer principio de nuestros conocimientos,
que dice que «la nada no es visible». Esto significa que sólo podemos percibir una
cosa en otra, si la primera está de alguna manera contenida en la segunda, porque, si
no lo estuviera, al percibirla en ella, percibiríamos algo que no está allí, con lo cual
tendríamos una percepción sin objeto, una percepción de nada, incurriendo así en una
contradicción, pues quien dijese que percibe la nada «vería y no vería al mismo tiempo»14: vería, porque dice ver; no vería, porque ver nada es no ver. En esa contradicción incurriría quien dijese que percibe tres realidades donde sólo hay dos o diez mil
donde sólo hay nueve mil novecientos noventa y nueve, pues percibiría una que no
existe. Pero también, y «con más razón»15, quien afirmase que percibe una realidad
infinita en esa realidad finita que es nuestra alma, porque «vería un infinito que no
existe»16.
Ahora bien, si nada finito puede contener lo infinito, entonces lo infinito sólo
puede ser percibido inmediatamente. Como le gusta decir a Malebranche, «si estás de
acuerdo en que nada finito puede representar lo infinito, es evidente que, si ves lo
infinito, sólo lo ves en sí mismo»17.
2. Las pruebas a posteriori
Esa inmediatez no se respeta, por supuesto, en las pruebas a posteriori, pues
esas pruebas, por ser discursivas, excluyen precisamente el contacto directo del pensamiento con Dios. Desde luego, esas pruebas pueden ser muchas. Ya en la
11 Cfr. F. ALQUIÉ, Le cartésianisme de Malebranche, Vrin, Paris
12 II, 103.
13 II, 96. Cfr. II, 99; V, 74; VIII, 974; XII, 135; XII, 174, etc.
14 II, 99.
15 VIII, 947.
16 II, 100.
17 XII, 52.
1974, pp. 120-122.
229
studi
Recherche de la verité decía: «¿Qué dificultad hay para reconocer que existe un
Dios? Todo lo que Dios ha hecho lo prueba; todo lo que los hombres y las bestias
son, lo prueba; todo lo que nosotros vemos, todo lo que nosotros sentimos, lo prueba.
En una palabra, no hay nada que no pruebe la existencia de Dios, o que no pueda
probarla a espíritus atentos y que se dediquen con seriedad a buscar al autor de todas
las cosas»18. En las Conversations chrétiennes repite: «Mira los objetos que nos
rodean. ¿De cuál quieres que me sirva para probarte que hay un Dios? ¿Del fuego
que nos conforta? ¿De esta luz que nos ilumina? ¿De la naturaleza de las palabras por
medio de las cuales estamos conversando? Porque, como acabo de decirte, no hay
ninguna creatura que no pueda servir para dar a conocer al Creador, con tal de que
uno la considere con toda la atención posible y no forme juicios precipitados sobre
ella»19. Y en Entretien d’un philosophe chrétien et d’un philosophe chinois afirma
también: «No hay nada visible en el mundo que Dios ha creado a partir de lo cual no
se pueda ascender al conocimiento del Creador, con tal de que se razone acertadamente»20.
Esto no significa, sin embargo, una reivindicación de las pruebas escolásticas
que parten de las realidades exteriores. Para Malebranche esas pruebas no tienen
ningún valor, puesto que suponen la existencia de los cuerpos, y esa existencia sólo
puede ser establecida por la fe. Partir de lo sensible quiere decir tomar como punto de
partida esas modalidades de la sustancia pensante que se llaman sensaciones. Se
trata, pues, de unas pruebas a posteriori peculiares: a posteriori, porque arrancan de
las criaturas; peculiares, porque, cuando uno ve una criatura, no la ve en sí misma,
sino en ciertas perfecciones que están en Dios y que la representan, o sea, en sus
ideas. Por eso, tampoco se puede decir que este tipo de pruebas sean de inspiración
cartesiana, pues si es verdad que Descartes se vio obligado, debido a la existencia
problemática del mundo externo, a abandonar las pruebas tradicionales, también lo es
que, mientras Descartes parte de la idea de Dios, Malebranche arranca de las sensaciones.
Pues bien, la prueba a posteriori más elaborada21 es la que se encuentra en
Entretien d´un philosophe chrétien et d´un philosophe chinois, donde le piden a
Malebranche una prueba más concreta que la prueba ontológica, que, por ser tan
abstracta, no acaba de ser del todo convincente: «¿No habría una más sensible?»22.
18 II, 19. Cfr. II, 104.
19 IV, 14. Cfr. IV, 13.
20 XV, 11.
21 Una de ésas es la que
tiene como punto de partida la sensación del dolor provocado por una
espina que nos pincha. ¿De dónde surge ese dolor? «Lo que causa el dolor no es el alma que
siente, ni la espina que nos pincha; es una potencia superior. Esta potencia debe saber al
menos el momento en que la espina nos pincha. No puede saberlo por medio de la espina,
porque los cuerpos no pueden iluminar los espíritus, porque no son ni visibles ni inteligibles
por sí mismos y porque no hay ninguna relación entre un cuerpo y un espíritu, ninguna eficacia de los cuerpos sobre los espíritus. No puede saberlo, pues, más que por sí misma, es
decir, por el conocimiento de su propia voluntad que crea y mueve la espina y cuya potencia
es infinita, porque es capaz de crear. Existe, pues, un Dios» (IV, 28). «Si no hubiese Dios,
yo no sería pinchado, no sentiría nada, no conocería nada» (IV, 28-29).
22 XV, 11. En otra ocasión, refiriéndose a las pruebas personales o metafísicas, que así llama
él en ocasiones a las pruebas a priori, dice: «Es inútil proponerle esas demostraciones al
común de los hombres. Son demostraciones que cabe llamar personales, porque no conven-
230
José Luis Fernández
Malebranche satisface esa petición probando que ni los supuestos cuerpos exteriores,
ni nuestro cuerpo, ni nuestra alma pueden explicar las sensaciones tan variadas que
experimentamos en nosotros. «Cuando abres los ojos en medio del campo, en el
momento mismo en que los abres, descubres un número de objetos muy grande, cada
uno según su magnitud, su figura, su movimiento o reposo, su proximidad o su
lejanía, y descubres todos esos objetos por medio de percepciones de colores muy
diferentes. ¿Cuál es la causa de esas percepciones tan instantáneas que tenemos de
tantos objetos? No puede ser más que o los objetos mismos o los órganos de nuestro
cuerpo que reciben su impresión o nuestra alma o... el Dios al que nosotros adoramos
y que creemos que obra en nosotros sin cesar con ocasión de las impresiones de los
objetos sobre nuestro cuerpo»23.
¿Los objetos? Lo que hacen los objetos es reflejar la luz hacia nuestros ojos.
Ahora bien, esa reflexión es una operación puramente material, que no puede constituir por sí misma la verdadera causa de esas percepciones de los objetos, puesto que
la percepción, que es pensamiento, no puede ser el resultado de la materia, que es
extensión, pues pensamiento y extensión son absolutamente heterogéneos.
¿Nuestros ojos? Los ojos reunen los rayos reflejados por los objetos. Así reunidos, provocan una alteración del nervio óptico y, por medio de esos pequeños cuerpos que se llaman espíritus animales, una alteración del cerebro. Ahora bien, esas
alteraciones de nuestro cerebro no pueden ser la verdadera causa de nuestra percepción de los cuerpos, porque son alteraciones puramente materiales que no tienen nada
que ver con nuestras percepciones, como tampoco lo tienen los objetos.
¿Nuestra alma? ¿No puede nuestra alma sacar de las alteraciones orgánicas esas
percepciones que tenemos de los objetos? Tampoco, porque para ello necesitaría
conocer los procesos orgánicos de la percepción, cosa que no conoce. Además, aunque los conociese, para poder conocer cómo pasan los rayos a través del ojo, necesitaría conocer a la perfección la óptica y la geometría. Suponiendo que las conociese
perfectamente, no podría descubrir al instante las relaciones infinitas del campo perceptivo, necesarias para poder calcular su figura, su magnitud, su distancia, su sorprendente variedad de colores. Ahora bien, en vez de eso, «tenemos el sentimiento
interior de que todas nuestras percepciones de objetos se producen en nosotros sin
nosotros e incluso a nuestro pesar»24. Si nuestras percepciones dependieran de nosotros, serían percepciones producidas de acuerdo con nuestros conocimientos, reguladas por ellos. Puesto que sabemos, por ejemplo, que el sol nunca cambia de tamaño,
nuestra percepción debía presentárnoslo con la misma magnitud en el horizonte que
en el zenit. Y, sin embargo, pese a nuestros conocimientos, lo vemos mayor en el
horizonte. Es, pues, evidente que no es nuestra alma la que causa las percepciones
que ella tiene en el momento en que abre los ojos en medio de un campo.
¿Dios? Para poder regular los movimientos de nuestro cuerpo con los movimientos de los cuerpos exteriores el ser que cause nuestras percepciones debe conocer perfectamente la geometría y la óptica. Esos conocimientos son tan exactos que
cen generalmente a todos los hombres. La mayor parte, a veces incluso los más sabios o que
más leen, no quieren o no pueden prestar atención a las pruebas metafísicas, por las que
ordinariamente sienten un absoluto desprecio. Por eso, si uno pretende convencerlos, es preciso proponer unas más sensibles» (II, 103-104).
23 XV, 11.
24 XV, 15.
231
studi
es necesario que ese ser sea infinitamente inteligente. Pero, además, los aplica con
tanta rapidez, tan instantáneamente que esa inteligencia infinita debe ir acompañada
de una potencia infinita. La producción de esas sensaciones supone un conocimiento
tan perfecto que sólo es asequible a una causa infinitamente inteligente e infinitamente poderosa. Pues bien, ese ser es el ser infinitamente perfecto.
Estamos, pues, ante una prueba que establece que la menor modificación sensible no encuentra su causa verdadera ni en las cosas exteriores, ni en nosotros, sino en
una potencia suprema que obra según una suprema sabiduría.
Ahora bien, las pruebas sensibles, por ser discursivas, carecen de la imprescindible inmediatez que requiere nuestro conocimiento de Dios. Como él dice, todas las
pruebas sacadas de las criaturas «tienen el defecto de no convencer al espíritu par
simple vue. Todas esas pruebas son razonamientos convincentes en sí mismos, pero,
al ser razonamientos, no son convincentes si se supone un genio maligno que nos
engaña. Nos convencen suficientemente de que hay un poder superior a nosotros,
porque incluso esa suposición extravagante lo prueba, pero no nos convencen plenamente de que existe un Dios o un ser infinitamente perfecto. Con lo cual, en esos
razonamientos la conclusión es más evidente que el principio»25.
3. La prueba ontológica
De la prueba ontológica, que Malebranche suele calificar como la prueba «de
Descartes»26, dice que es la «más bella, más relevante, más sólida y la primera, o sea,
la que menos cosas supone»27; y también que es la «más simple, más clara y más
sólida de todas las que la metafísica puede ofrecer»28.
La formulación más breve y más repetida es ésta: «Si pienso en El, y ciertamente pienso en El, necesariamente existe»29. Que pensamos en lo infinito, no resulta
difícil de comprender, porque todos los hombres «piensan en Dios, cuando preguntan
si existe»30. Lo que resulta difícil poner de manifiesto es que basta pensar en Dios
para saber que existe. ¿Cómo se llega a eso?
En las Respuestas a las segundas objeciones Descartes recoge su formulación
del argumento ontológico en el siguiente silogismo: «Se debe atribuir a una cosa lo
que se concibe como contenido en la idea de esa cosa; ahora bien, la existencia necesaria está contenida en la idea de Dios; luego Dios existe»31. Pero Malebranche no
cree que sea una formulación del todo convincente, porque tiene carácter discursivo.
Por eso, se decide a añadirle una aclaración, que titula: Eclaircissement de la preuve
de Descartes de l’existence de Dieu. Con ella pretende «comprender todavía con más
distinción esta prueba de la existencia de Dios y responder con más claridad a ciertas
objeciones que se le podrían hacer» 32 . Al recordar en otra ocasión ese
25 II, 371.
26 II, 93, 94, 96.
27 I, 441.
28 VIII, 947.
29 XII, 135. Cfr. II,
30 XII, 56.
31 Op. cit., AT, IX,
32 II, 93.
232
101, 372; III, 143; XII, 174, etc.
129.
José Luis Fernández
Eclaircissement dice que lo había añadido «para hacer la demostración más completa
y convincente. Me parecía que la suya, sin ese complemento, podría dar lugar a que
surgiese en el espíritu cierta desconfianza justificada, que yo no había querido descubrir por respeto a su autor y por otras razones más importantes»33. ¿En qué consiste
ese complemento?
Para evitar el carácter discursivo de la prueba, hay que empezar por corregir el
principio sobre el que la prueba se apoya. Malebranche cae enseguida en la cuenta de
que ese principio es el que afirma que todo lo que está clara y distintamente encerrado en la idea de una cosa se puede afirmar con verdad de la cosa misma. Así, si se
concibe que la idea del todo es mayor que la idea de la parte, se debe concluir que el
todo es mayor que la parte; si se concibe claramente que la existencia posible está
contenida en la idea de una montaña de mármol, se debe inferir que una montaña de
mármol puede existir; si se concibe claramente que la existencia no puede estar
incluida en la idea de una montaña sin valle, hay que deducir que una montaña sin
valle no puede existir; otro tanto hay que decir de la existencia de Dios, pues, si se
concibe claramente que la existencia está contenida en la idea de ser omniperfecto, se
debe concluir que Dios existe necesariamente, puesto que la evidencia es igual en
todas esas proposiciones34.
Malebranche no está, sin embargo, dispuesto a aceptar que ése sea el primer
principio de nuestros conocimientos. Ciertamente es un principio, pero no el primero,
pues el primero es el que afirma que «la nada no es visible»35, pues el de los cartesianos depende de él, ya que «si se puede afirmar de una cosa lo que está encerrado en
su idea» es «porque la nada no es visible»36. Ahora bien, si la nada no es visible, se
puede establecer ya esta primera verdad: lo finito no puede representar lo infinito. De
ésta se sigue la siguiente: si nada finito puede contener lo infinito, entonces si percibimos lo infinito, lo percibimos en sí mismo o de modo inmediato. Y de aquí se saca
sin más su existencia, porque «todo lo que el espíritu percibe inmediatamente, existe
realmente... pues, si no existiera, al percibirlo, no percibiría nada... lo cual es una
contradicción manifiesta»37. «Es contradictorio que se pueda ver inmediatamente lo
que no existe, ya que al mismo tiempo se vería y no se vería, porque ver nada es no
ver»38. «Ese es el principio primero e incontestable: todo lo que el espíritu percibe
inmediatamente existe necesariamente, puesto que, si no existiese, si no fuese nada,
al percibirlo, el espíritu no percibiría nada, lo cual es una contradicción» 39 .
Malebranche hace observar que dice siempre «inmediata y directamente»40.
Muchos no acaban de entender esto, pues, como pueden pensar en muchas
cosas que no existen, se imaginan que también podemos pensar en lo infinito sin que
exista. Pero no es lo mismo, porque, si podemos pensar en muchas cosas que no existen, es porque esas cosas no son vistas en sí mismas o directamente, sino en las ideas
que las representan. Ahora bien, Dios no se encuentra en ese caso, ya que Dios es
33 VIII, 947.
34 Cfr. II, 93.
35 II, 96.
36 VIII, 953.
37 XV, 5.
38 II, 99.
39 XIX, 910.
40 XV, 5.
233
studi
percibido en sí mismo. Malebranche lo reitera una y otra vez: «Es necesario recordar
que, cuando uno ve una criatura, no la ve en sí misma ni por sí misma, porque no la
ve... más que por la visión de ciertas perfecciones que están en Dios, que la representan. Así, se puede ver la esencia de esa criatura sin ver la existencia, su idea sin ella;
se puede ver en Dios lo que la representa sin que ella exista. Esa es la única razón de
que la existencia no necesaria no esté contenida en la idea que la representa, con lo
que, para ser vista, no es necesario que exista actualmente... Pero no sucede lo mismo
con el ser infinitamene perfecto; no puede ser visto más que en sí mismo, porque
nada finito puede representar lo infinito. Por tanto, no se puede ver a Dios sin que
exista; no se puede ver la esencia de un ser infinitamente perfecto sin ver su existencia; no se puede ver simplemente como un ser posible; nada lo contiene, nada puede
representarlo. Por tanto, si se piensa en El, es necesario que exista»41.
Todo lo dicho puede recogerse en el siguiente silogismo: «Todo lo que el espíritu percibe inmediatamente existe realmente; ahora bien, pienso en el infinito, percibo
directa e inmediatamente el infinito; por tanto, existe»42. Este silogismo no debe, sin
embargo, confundirnos, porque, si nos valemos de razonamientos discursivos para
probar la existencia de Dios, es sólo «para exponerlos a los demás»43, pues, si Dios
es percibido en sí mismo, la prueba deja de ser discursiva y se convierte en intuitiva
o, como le gusta decir a Malebranche, en prueba de simple vue44, lo cual significa:
tan pronto como vemos lo infinito, comprendemos que lo infinito existe.
A esto viene a parar el complemento que Malebranche introdujo en la prueba de
Descartes. Cosa distinta es si es o no una modificación muy profunda. Quizás sea
menos de lo que parece, puesto que esto había sido vislumbrado ya por el propio
Descartes. En efecto, es cierto que Descartes expone la prueba ontológica mediante
un silogismo, como ya vimos. Sin embargo, Descartes prosigue diciendo que, aunque
haya presentado la prueba en forma de silogismo, «su conclusión puede ser conocida
sin prueba por los que están libres de todos los prejuicios», remitiéndonos a otro
texto en el que desea a sus lectores que «gasten mucho tiempo en considerar la naturaleza del ser sumamente perfecto... porque, sólo con eso, y sin ningún razonamiento,
sabrán que Dios existe»45. En otra ocasión dice también que es «casi la misma cosa
concebir a Dios y concebir que existe»46. Pero, sin solución de continuidad, sigue
diciendo: «Mas eso no impide que la idea que tenemos de Dios, o de un ser sumamente perfecto, sea muy diferente de esta proposición, Dios existe, y que una no
pueda servir de modelo o antecedente para probar la otra»47. Con Malebranche ese
carácter discursivo desaparece totalmente. Por eso, después de afirmar que el infinito
existe, «porque en la idea de infinito está encerrada la existencia necesaria», se corrige inmediatamente, «para hablar con más claridad, porque el infinito no puede ser
visto más que en sí mismo»48. Se trata, pues, de una prueba que no encierra ya razonamiento alguno; cuando lo incluye, es para exponer la prueba a los demás.
41 II, 96. Cfr. XII, 53-54.
42 XV, 5.
43 II, 372.
44 II, 371.
45 Réponses aux secondes objectiones, AT,
46 A Mersenne, juillet 1641, AT, III, 396.
47 Ibidem.
48 II, 371.
234
IX/1, 126.
José Luis Fernández
Si estamos ante una prueba de simple vue, se comprende que diga Malebranche
que «es tan evidente que hay un Dios como lo es para mí que yo existo»49; que la
«proposición, existe Dios, es la más clara de todas las proposiciones que afirman la
existencia de algo, y que incluso es tan cierta como ésta, pienso, luego existo»50; que
es «una demostración muy simple... la más simple de las que yo podría dar»51.
4. La infinitud, atributo esencial de la divinidad
La palabra Dios no es más que «la expresión abreviada del ser infinitamente
perfecto»52. Y en esa expresión cuenta tanto la perfección como la infinitud, pero
sobre todo la infinitud, pues ella es la que hace que las perfecciones que le atribuimos
a Dios puedan ser atribuidas a Dios.
De ella, en efecto, se sigue un primer grupo de atributos que le convienen al ser
infinitamente perfecto considerado en sí mismo o de modo absoluto. En primer lugar,
la independencia, que deriva directamente de la perfección infinita: «Dios es el ser
infinitamente perfecto; por lo tanto, es independiente»53. Puesto que la independencia alude a la falta de causa, de la independencia se deriva la inmutabilidad: «Dios es
independiente; por lo tanto es inmutable»54. De la independencia se sigue también la
eternidad: «La existencia eterna es la manera de existir de lo que es
independiente»55. Además de independiente, inmutable y eterno, la perfección infinita es inmensa. Inmensidad significa omnipresencia, es decir, que «la sustancia divina
está en todas partes, no sólo en el universo, sino infinitamente más allá, porque Dios
no está encerrado en su obra, sino que su obra está en El y subsiste en su
sustancia»56. Y conviene poner buen cuidado en no confundir la inmensidad divina
con la extensión inteligible. Malebranche protesta airadamente contra esa asimilación.
De la infinita perfección, considerada no en sí misma, sino en su relación con
las criaturas se sigue otro grupo de atributos que tiene que ver o con el entendimiento, como la sabiduría, o con la voluntad, como la justicia. Ahora bien, aunque Dios
conoce y quiere, porque conocer y querer son indudablemente perfecciones, no conoce y quiere como nosotros, pues, por ser infinitamente perfecto, el conocimiento y el
querer de Dios son también infinitamente perfectos. Así, es infinitamente perfecta su
sabiduría, pues, a diferencia de nosotros, que no conocemos todo y no conocemos
nada en nosotros, Dios conoce todo y lo conoce todo en El. «Por eso, Dios no sólo es
sabio, sino la sabiduría»57. Lo mismo pasa con la justicia, pues Dios no sólo es justo,
sino la justicia. Las perfecciones que están en Dios y que representan los seres que ha
creado y puede crear no son todas iguales, sino que hay entre ellas un orden. Las per49 II, 103.
50 XII, 54.
51 XV, 5.
52 Ibidem.
53 XII, 175.
54 Ibidem.
55 VI, 19.
56 XII, 178.
57 XII, 188.
235
studi
fecciones que representan los cuerpos, por ejemplo, no son tan nobles como las que
representan los espíritus. Y ese orden es inmutable, puesto que en Dios todo es inmutable, con lo cual no puede hacer que un espíritu dependa de un cuerpo. Ahora bien,
como Dios se ama, ama también el orden inmutable entre esas perfecciones. Por eso,
Dios es esencialmente justo, «porque todas sus voluntades están esencialmente
conformes con el orden inmutable»58. En eso estriba precisamente la justicia, a saber,
en «el orden inmutable de las perfecciones que El encierra en su esencia»59.
Como todos los atributos se siguen de la infinita perfección de Dios, todos son
infinitos, aunque usando una terminología de Spinoza, sería mejor decir que cada uno
de ellos es infinito en un género, es decir, una expresión determinada de la infinitud.
Ahora bien, Dios no es una simple suma de atributos infinitos en un género, sino infinito en todos los géneros, en todos los sentidos, en una palabra, «lo infinito infinitamente infinito»60. Y de esta infinitud hace Malebranche «el atributo esencial de la
divinidad»61. Con eso quiere decir, por supuesto, que la infinitud ocupa el primer
lugar en la definición de la esencia de Dios, de suerte que por relación a ella cualquier otro atributo debe ser considerado como menos esencial. Sin embargo, la infinitud no sólo es un atributo privilegiado o fuera de serie, pero uno más entre los demás,
sino el atributo que «encierra todos los demás atributos»62, es decir, el que constituye
la raíz de todas las demás perfecciones, puesto que, si las demás perfecciones tienen
en común el ser perfecciones infinitas, esto es debido precisamente a esa infinitud
radical. Gracias a ella, «Dios es necesaria y esencialmente infinito en toda suerte de
perfecciones»63.
Esa infinitud explica la forma suprema de unidad llamada simplicidad, pues, si
cada una de las perfecciones que forman la esencia divina es infinita, cada una de
ellas es realmente idéntica a las otras. Como dice nuestro autor, «cada perfección que
El posee incluye todas las demás sin ninguna distinción real, porque, al ser cada perfección divina infinita, constituye el ser divino»64.
Ahora bien, que la esencia divina sea simple no quiere decir que nosotros
conozcamos perfectamente cómo lo es: «No descubres esa propiedad, que es esencial
para el infinito, de ser a la vez uno y todo, compuesto, por así decirlo, de una infinidad de perfecciones diferentes, de tal manera simple que en El cada perfección
encierra todas las demás sin ninguna distinción real»65.
Lo mismo hay que decir de las demás perfecciones. Sabemos que todas las
demás perfecciones están incluidas en la infinitud divina, pero no sabemos cómo. Y
esto es así, tanto si se trata de la inmensidad: «¿Cómo existe Dios en todas partes y
entero en todas partes?»66; de la eternidad: «¿Cómo ve El en su eternidad, en una
duración sin sucesión, la sucesión de todos los tiempos?»67; de la omnipotencia:
58 XII, 191.
59 XVI, 51.
60 XII, 52.
61 XII, 387.
62 XVI, 138.
63 XVI, 137.
64 III, 148. Cfr.
65 XII, 54.
66 XVI, 132.
67 Ibidem.
236
XII, 54.
José Luis Fernández
«¿Cómo es Dios omnipotente? Quiere un mundo y ese mundo existe en el mismo
instante en que El quiere que exista. ¿Qué relación hay entre un acto eterno de la
voluntad divina y la creación del universo en el tiempo?»68; y «lo mismo sucede con
su sabiduría, su justicia, su bondad»69. Sabemos, pues, que Dios tiene todas las perfecciones, pero no sabemos cómo. «Es ese cómo el que no podemos explicar claramente»70. Por eso, se puede decir que de las perfecciones divinas tenemos un conocimiento, pero no una comprehensión, es decir, no un conocimiento perfecto, pues eso
es lo que significa comprendre por oposición a entendre.
Ahora bien, si las perfecciones son incomprehensibles es porque también es
incomprehensible la infinitud que está detrás de ellas confiriéndole la infinitud que
cada una de ellas tiene. De lo infinito, dice Malebranche, no tenemos «una comprehensión o una percepción que lo abrace y lo abarque, pero tenemos cierta percepción, es decir, una percepción infinitamente pequeña comparada con una comprehensión perfecta»71. «Sólo veis muy confusamente y como de lejos lo que Dios es. No lo
veis tal como es, porque, aunque veis lo infinito o el ser sin restricción, sólo lo veis
de una manera muy imperfecta»72. Esto se debe a nuestra propia limitación: «Como
mi espíritu es finito, el conocimiento que yo tengo de lo infinito es finito. Yo no lo
comprehendo, no lo abarco; estoy incluso cierto de que jamás podré abarcarlo. En
una palabra, la percepción que tengo de lo infinito es limitada, pero la realidad objetiva en la que mi espíritu se pierde, por así decirlo, no tiene límites»73.
Con esto Malebranche no hace más que repetir una doctrina cartesiana, pues
Descartes no se cansa de repetir que Dios es conçu, pero non compris74, llegando
incluso a afirmar que «la incomprehensibilidad misma pertenece a la razón formal de
lo infinito»75.
Por imperfecto que sea, el conocimiento de lo infinito es anterior al de lo finito.
En una carta a Clerselier escribe Descartes: «La noción que tengo de lo infinito existe
en mí antes que la de lo finito, porque, por el hecho de concebir el ser o lo que es, sin
pensar si es finito o infinito, concibo el ser infinito; pero, para poder concebir un ser
finito, es necesario que sustraiga alguna cosa de esa noción general del ser, que consiguientemente debe ser anterior»76. Malebranche, tomando pie de este texto, repite:
«El espíritu no sólo tiene la idea de lo infinito, la tiene incluso antes que la de lo finito. Porque concebimos el ser infinito, con sólo concebir el ser, sin pensar si es finito
o infinito. Pero, para concebir un ser finito, se necesita sustraer alguna cosa de esa
noción general de ser, que consiguientemente debe ser anterior. De esta suerte, el
espíritu sólo percibe una cosa en la idea que tiene de lo infinito»77. La idea de Dios
es, de esta suerte, la condición de cualquier otra idea, pues cualquier otra se forma
68 Ibidem.
69 XVI, 25.
70 Ibidem. Cfr.
A. ROBINET, Système et existence dans l’œuvre de Malebranche, Vrin, Paris
1965, p. 184.
71 II, 101. Cfr. XII, 51.
72 XII, 54.
73 XII, 174. Cfr. XII, 183.
74 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152. Réponses aux premières objections, AT, IX/1, 89, etc.
75 Réponses aux cinquièmes objections, AT, VII, 368.
76 À Clerselier, 23 avril 1649, AT, V, 356.
77 I, 441.
237
studi
descendiendo de lo infinito a lo finito por sucesivas restricciones, determinaciones,
limitaciones.
Esto ocurre con nuestras ideas particulares, que «no son más que participaciones de la idea general de lo infinito, de la misma manera que Dios no toma su ser de
las criaturas, sino que todas las criaturas no son más que participaciones imperfectas
del ser divino»78. «Todas las ideas particulares que tenemos de las criaturas no son
más que limitaciones de la idea del Creador, igual que los movimintos de la voluntad
hacia las criaturas no son más que determinaciones del movimiento hacia el
Creador»79.
Esto sucede también con las ideas generales. Mientras Tomás de Aquino piensa
que la ideas generales se obtienen prescindiendo de la concreción, Malebranche cree
que se forman añadiendo la generalidad a la concreción. Cuando le objetan que las
ideas generales no son más que una reunión confusa de algunas ideas particulares,
Malebranche responde que la suma de particulares sólo da como resultado un particular. Para obtener una idea general hay que añadir la idea de generalidad a las ideas
particulares. Es lo que ocurre, por ejemplo, con la idea general de círculo. «Sólo puedes formar ideas generales, porque descubres en la idea de infinito suficiente realidad
para dar generalidad a tus ideas... Jamás podrías pensar en esas formas abstractas de
géneros y especies, si la idea de infinito, que es inseparable de tu espíritu, no se uniese naturalmente a las ideas particulares que percibes. Podrías pensar en tal círculo,
pero jamás en el círculo... El espíritu sin reflexionar añade a sus ideas finitas la idea
de generalidad que encuentra en el infinito»80. Y lo mismo se puede decir del dolor.
«Si piensas en el dolor en general, es que puedes unir la generalidad a todas las
cosas. Pero insisto en que no podrías sacar esa idea de la generalidad de tu fondo.
Tiene demasiada realidad; es preciso que el infinito te la suministre de su abundancia»81.
El infinito está, pues, en el origen de toda idea: de toda idea particular y de toda
idea general. Por eso, no queda más remedio que decir que Dios es más conocido que
cualquier otra cosa.
5. La libertad divina
Dios crea el mundo, pero lo crea no necesariamente, sino libremente. Afirmar
que Dios es libre quiere decir que «es indiferente para obrar o no obrar»82. En esto
Malebranche se opone decididamente a Spinoza. Spinoza mantiene que, aunque Dios
no está sujeto a un ser distinto del suyo, ésta ligado a su propio ser, a «las leyes de su
naturaleza»83, con lo que «todas las cosas están determinadas a existir»84. Esto es
justamente lo contrario de lo que piensa Malebranche, pues, según él, Dios no crea
78 I, 441-442.
79 I, 443.
80 XII, 58.
81 XII, 60.
82 VIII, 490.
83 Ethica, I, 17, G. II, 61.
84 Op. cit., I, 29, G. II, 71.
238
José Luis Fernández
necesariamente el mundo, sino que lo crea «con una libertad perfecta y una completa
indiferencia»85. La razón está en que Dios, como ser infinitamente perfecto, «se basta
plenamente a sí mismo»86, y en consecuencia no se ve forzado a producir ningún otro
ser. Malebranche insite en esta idea de múltiples maneras, pero concibiendo siempre
la libertad divina como una consecuencia de la autosuficiencia de Dios: como Dios
se basta plenamente a sí mismo, «se determina a crear el mundo con una entera libertad»87.
Esa libertad es el fundamento de la distinción entre verdades necesarias y verdades contingentes, pues mientras las segundas dependen de la libre iniciativa divina,
las primeras dependen de la razón de Dios88. De ahí la oposición de Malebranche a
Descartes en el tema de las verdades necesarias.
Descartes cree que esas verdades dependen «solamente de la voluntad de
Dios»89. Ahora bien, esta doctrina, piensa Malebranche, nace de la aspiración del
hombre de humanizar a Dios, concretamente de su deseo de imaginar a Dios como
algo que a él mismo le gustaría ser. Al hombre, en efecto, le gustaría ser creador de
verdades, abandonando de esta manera el orden impuesto por la razón, ante el que
siente «una especie de servidumbre», «una especie de impotencia»90. Al no poder
hacerlo, en vez de renunciar a su deseo, imagina a Dios como a él mismo le gustaría
ser, a saber, «poder absoluto para obrar contra todo orden»91. El voluntarismo respecto de las verdades necesarias nace, pues, del deseo del hombre de cortar a Dios por el
patrón de «sus propias inclinaciones»92, de «sus pasiones»93, de «sí mismo»94.
Spinoza no comparte esta crítica. Según él, acusar a Descartes de haber humanizado a Dios es no haber entendido a Descartes. Según Spinoza, Descartes no tiene,
desde luego, razón, pues pensar que las verdades necesarias dependen de la voluntad
de Dios es pensar como posible otra voluntad de Dios, siendo así que Dios no puede
tener otra voluntad distinta de la que tiene95. Pero tampoco tiene razón Malebranche
para acusar a Descartes de humanizar a Dios: «La opinión que somete todo a una
cierta voluntad divina indiferente y que sostiene que todo depende de su beneplácito, se aleja menos de la verdad que la opinión de los que sostienen que Dios hace
todo con la mira puesta en el bien»96. Hacer depender a Dios de algo a lo que él se
somete en su obrar como a un modelo «es lo más absurdo que puede afirmarse de
Dios»97.
85 XII, 176.
86 XII, 208.
87 Ibidem. Cfr. VIII, 754; IX, 1109; XV, 30, etc.
88 Cfr. G. DREYFUS, La volonté selon Malebranche,
89 AT, IX/1, 336.
90 XII, 220
91 II, 87.
92 III, 86.
93 III, 190.
94 XII, 220.
95 Cfr. op. cit., I, 33, G. II, 75.
96 Op. cit., I, 33, G. II, 76.
97 Ibidem.
Vrin, Paris 1958, p. 54.
239
studi
6. El motivo de la creación
La decisión libre de producir el mundo no es una decisión sin motivo. Al contrario, la motivación es condición para la libertad, con tal de que el motivo no sea
invencible. Y es obvio que no lo es, puesto que, al ser autosuficiente, nada hay que
empuje invenciblemente a Dios a producir algo distinto de El. ¿Cuál es ese motivo
no invencible?
La tradición filosófica venía afirmando que el motivo de la creación era el
amor, pero Malebranche cree que eso no es así: Dios no ha creado el mundo «por
pura bondad, por pura caridad para con nosotros»98. Si pensamos así, es porque nos
dejamos llevar por «nuestro amor propio... contrario a la ley divina, a ese orden
inmutable que encierra todas las buenas razones que Dios puede tener»99. Según ese
orden, el movimiento del amor de Dios «no puede, como en nosotros, proceder de
fuera, ni por consiguiente arrastrarlo hacia afuera»100. En Dios «todo amor que no
sea el amor propio sería desordenado o contrario al orden inmutable que El encierra y
que es la ley inviolable de la voluntad divina»101
Si el motivo del acto creador no puede ser el amor o generosidad divina, ¿cuál
puede ser? Solamente su gloria: Dios «hace todo para su gloria»102. Ahora bien,
¿cómo puede Dios sacar gloria de su creación, siendo así que es una obra finita, sin
ninguna proporción con lo infinito? Esta dificultad parece cerrar el paso a toda esperanza de dar razón del acto creador, pues, si el mundo es indigno de Dios, ¿cuál
puede ser el motivo para que Dios lo cree? Ninguno, salvo que hagamos al mundo
digno de Dios. Y sólo resulta digno de Dios, «si una persona divina ... se une a su
obra para hacerla divina y, de esta suerte, digna de su contemplación y proporcionada
a la acción de su voluntad»103. Esa persona es el Verbo, la Razón Universal, que,
para dignificar la totalidad de la naturaleza, «se une a las dos sustancias, espíritu y
cuerpo, de las que está compuesto» el mundo104. Por esa unión, la obra de la creación
queda infinitamente engrandecida, haciéndose capaz de darle la gloria que El le
comunica por su divinidad. Con lo cual, el mundo honra a Dios sin que Dios saque su
gloria de algo ajeno a El.
La Encarnación es, pues, la razón de ser de la creación. De suerte que, por lo
tanto, la Encarnación no está subordinada a la Redención, pues no ha sido decidida
por Dios para rescatarnos del pecado, sino para justificar la creación. «Aunque el
hombre no hubiese pecado», el Verbo se encarnaría para darle al mundo «una dignidad infinita, con el fin de que Dios, que sólo puede obrar para su gloria, reciba de él
una gloria que corresponda perfectamente a su acción»105 creadora. He ahí la expresión metafísica del cristocentrismo.
98 XII, 200.
99 XII, 201.
100 Ibidem.
101 Ibidem.
102 XVI, 183.
103 V, 11-12.
104 XII, 205.
105 XII, 204.
240
José Luis Fernández
7. Creación continuada
Descartes afirma, como un axioma, la discontinuidad del tiempo: el tiempo presente no depende del que le ha precedido inmediatamente. Y de la discontinuidad del
tiempo deduce Descartes la doctrina de la creación continuada, pues, si el tiempo es
discontinuo, de que una cosa exista ahora no se sigue que deba existir un momento
después, salvo que el que la ha producido en el primer momento siga produciéndola,
es decir, conservándola106. También Malebranche piensa que el instante de la creación «no pasa»107 jamás, de suerte que, si las criaturas existen, es «porque Dios quiere que existan» y, si siguen existiendo, es «porque Dios continúa queriendo que existan»108. Esto es así respecto de las criaturas corporales: «Un cuerpo existe, porque
Dios quiere que exista; continúa existiendo, «porque Dios continúa queriendo que
exista»109. Pero también lo es respecto de las criaturas espirituales: «Dios crea nuestra alma durante todos los momentos de su existencia, ya que sólo existe, porque
Dios quiere que exista y sólo continúa existiendo, porque Dios continúa queriendo
que exista»110. La razón hay que buscarla, fundamentalmente, en la necesidad de
garantizar la dependencia de la criatura respecto de su creador. Esa dependencia no
se da, desde luego, en las obras humanas, pues una casa sigue en pie, aunque se haya
muerto el arquitecto que la ha construido. Pero no debemos juzgar las obras divinas
por el patrón de las obras humanas, pues, si las obras de los hombres no dependen de
los hombres es porque estos no le han dado el ser a la materia con la que trabajan,
sino que la suponen ya producida, cosa que no ocurre con las obras divinas, pues
Dios no supone nada producido, sino que lo produce todo111.
Serían tan independientes que Dios ni siquiera podría aniquilarlas, esto es, hacer
que dejaran de ser. Naturalmente, si quisiera podría aniquilarlas, porque es todopoderoso, pero es que no puede querer, porque su voluntad tendría entonces como término
la nada. Y esto se aviene mal con los atributos divinos tales como la sabiduría y la
omnipotencia: con la sabiduría, porque un Dios infinitamente sabio no puede querer
nada que no merezca ser querido, como le ocurre a la nada, que no encierra «nada de
bueno ni de amable»112; con la omnipotencia, porque, no se entiende bien qué omnipotencia sería ésa que se desplegase para no hacer nada113. Por eso, la aniquilación
de las criaturas no puede ser consecuencia de una voluntad positiva; sólo puede ser
consecuencia de que Dios deje de querer que existan.
8. Dios, causa única
De la doctrina de la creación continuada saca Malebranche la consecuencia de
106
Cfr. Discours de la méthode, V, AT, VI, 45; Meditationes, medit. III, AT, IX/1, 39, 127;
Principes de la philosophie, AT, IX/2, 34.
107 XII, 156.
108 VII, 514. Esa voluntad por la que crea y conserva es la misma (cfr. III, 26; VII, 514; X, 50).
109 X, 49.
110 XVI, 36.
111 Cfr. X, 49; XII, 157-158.
112 X, 49. Cfr. XII, 158.
113 Cfr. XII, 159.
241
studi
que sólo Dios puede ser causa. Efectivamente, cuando Dios crea, no produce seres
abstractos, sino existentes114. Esto, aplicado a los cuerpos, quiere decir que Dios crea
cuerpos en estado de reposo o de movimiento. Y, como la creación es continuada, es
Dios quien los conserva en reposo o en movimiento, por lo que la fuerza que mueve
los cuerpos no pertenece a los cuerpos, sino a Dios: «Es la acción omnipotente del
creador que los crea o conserva sucesivamente en diferentes lugares»115.
Lo que se dice de los cuerpos debe decirse también de los espíritus, pues Dios
es «el creador, el conservador, el único verdadero motor de los espíritus igual que de
los cuerpos»116. Por estar continuamente creando los espíritus, es la causa de todo lo
que hay en nuestros espíritus: de nuestros conocimientos, pues los espíritus «no pueden conocer nada si Dios no los ilumina»117; de nuestras sensaciones, porque los
espíritus «no pueden sentir nada si Dios no los modifica»118; de nuestras voliciones,
ya que los espíritus «son incapaces de querer nada si Dios no los mueve hacia el bien
en general, es decir, hacia Él... los hombres sólo pueden amar, porque Dios quiere
que amen y su querer es eficaz... sólo pueden amar, porque Dios los empuja sin cesar
hacia el bien en general, es decir, hacia Él»119.
Todo se debe, pues, al querer de Dios, con lo que todos los efectos están en
conexión con su voluntad, pero no en una conexión cualquiera, sino en una conexión
necesaria, porque la voluntad de Dios es omnipotente y en consecuencia siempre eficaz, pues «es evidente que Dios no sería todopoderoso, si su voluntad absoluta fuese
ineficaz»120, es decir, si quisiera algo y ese algo no sucediera. Y en eso consiste precisamente la causalidad, pues, cuando se habla de la relación de causalidad, se habla
de una conexión necesaria, ya que una cosa es propiamente causa de otra, cuando «el
espíritu percibe una conexión necesaria entre ella y su efecto»121. Por eso, Dios es
causa. Más aún, la única verdadera causa, porque «el espíritu no percibe una
conexión necesaria más que entre la voluntad del ser infinitamente perfecto y los
efectos. Por eso, sólo Dios es la causa verdadera»122. He ahí el principio «más fecundo»123 y el «más santo»124 de todos los principios: el más fecundo, porque una sola
causa produce una infinidad de efectos125; el más santo, porque, al ser Dios la única
causa verdadera, todo el honor y la gloria son sólo para El, soli Deo omnis honor et
gloria126.
Tenemos así fundada desde fuera, es decir, desde la voluntad omnipotente de
Dios, la conexión necesaria. Pero esto no significa que tengamos una idea clara y
distinta de la causalidad. Hay quienes piensan que la esencia de la causalidad es
114 Cfr. XII, 156.
115 VII, 515.
116 III, 145.
117 II, 314.
118 Ibidem.
119 Ibidem.
120 X, 96.
121 II, 316.
122 Ibidem. Cfr. III, 53, 203, 209, 213, 216; IV,
123 X, 121.
124 XI, 162.
125 Cfr. X, 118-119; XI, 118; XII, 97, 286-287.
126 II, 311.
242
29; V, 48; XI, 160-163; XII, 166, etc.
José Luis Fernández
oscura en el nivel del ser finito, pero se hace clara en el nivel del ser infinito. Pero no
es así, al menos para Malebranche. Según él, tenemos una idea clara de que la voluntad de Dios es omnipotente y en consecuencia que entre ella y sus efectos debe haber
una conexión necesaria. Pero eso no significa que tengamos una idea clara de la naturaleza de esa conexión necesaria, puesto que pertenece al orden de la voluntad divina
y sólo Dios conoce su voluntad. Al filósofo que le pregunta sobre la creación, el
Verbo le contesta: «Te gustaría comprender cómo la voluntad de mi Padre tiene una
eficacia tan grande que da y conserva el ser a todas las cosas, pero te atormentas en
vano por averiguarlo. Ya te he dicho que sólo debías consultarme sobre lo que yo
encierro en tanto que sabiduría eterna y razón universal de los espíritus... Pero tú
quieres saber por qué una cosa existe por el mero hecho de que Dios lo quiera. Me
pides una idea clara y distinta de esa eficacia infinita que da y conserva el ser a todas
las cosas. No tengo ahora una respuesta que darte que sea capaz de satisfacerte. Tu
pregunta es indiscreta. Me consultas sobre el poder de Dios, consúltame sobre su
sabiduría, si quieres que te satisfaga ahora. No otorgo a los hombres una idea distinta
que responda a la palabra potencia o eficacia... aunque creas que Dios hace todo lo
que quiere, eso no significa que veas claramente que hay un enlace necesario entre la
voluntad de Dios y los efectos, porque tampoco sabes lo que es la voluntad de Dios.
Pero lo que es evidente es que Dios no sería omnipotente si sus voluntades absolutas
resultasen ineficaces»127. El conocimiento de la causalidad está reservado para la
otra vida128.
Malebranche no dice sólo que Dios es la única causa verdadera. Explica,
además, que Dios ejerce esa causalidad de una manera universal. Malebranche no
deja de repetir que Dios produce todas las cosas por medio de la eficacia de su voluntad, pero de una voluntad que no es particular, sino general. Y con ello quiere decir
que Dios «obra siguiendo las leyes generales establecidas por El»129. Estaríamos, por
ejemplo, ante una intervención particular de la voluntad de Dios, si Dios moviese una
bola sin la intervención de ninguna colisión, es decir, si se tratase de un movimiento
sin choque; o si Dios nos hiciese sentir el dolor de un pinchazo sin la intervención de
una espina que nos pinche, es decir, si se tratase de un dolor sin excitación. Por el
contrario, estamos ante una intervención general de la voluntad de Dios, cuando una
bola se mueve por la colisión de otra que choca con ella, porque entonces Dios la
mueve siguiendo la ley general del movimiento; cuando sentimos dolor por una espina que nos pincha, puesto que en ese momento Dios actúa de acuerdo con la ley
general de la unión del alma y el cuerpo. Y las razones de que Dios opera siguiendo
leyes generales son, aparte de motivos a posteriori, motivos a priori, fundados en la
naturaleza de la causa, concretamente, en la sabiduría, inmutabilidad y bondad de
Dios: en su sabiduría, porque las intervenciones generales son propias de una inteligencia infinita, capaz de prever todas las consecuencias130; en su inmutabilidad, porque las actuaciones generales implican conducirse siempre de la misma manera131;
en su bondad, porque, al valerse de leyes generales, asocia a las criaturas a su poder,
127 X, 96.
128 Cfr. XV, 33.
129 V, 147. Cfr. VII, 651.
130 Cfr. V, 165-166; VI, 37-38; VIII,
131 Cfr. V, 21; VI, 38; VIII, 665.
717; XV, 28.
243
studi
haciéndolas partícipes de la bondad de su obra, en la medida en que tienen capacidad
para ello132.
Esas leyes generales, por lo demás, precisamente por ser generales, son muy
pocas. Y en esto brilla otra vez la infinita sabiduría de Dios en forma de simplicidad,
pues con muy pocas leyes produce una infinidad de obras admirables133. De este
principio de la simplicidad hacían entonces los filósofos un uso muy amplio sobre
todo en la ciencia. Ya Descartes decía que «la naturaleza obra siempre por los medios
más fáciles de todos y más simples»134. Y Leibniz afirmaba también que Dios debe
construir su obra con el menor gasto, minimo... sumptu135. Pero Malebranche va más
allá, porque le da a ese principio una extensión que no tenía, valiéndose de él para la
explicación metafísica del tema de los defectos del mundo. ¿De dónde proceden los
defectos que deforman el mundo? El optimismo clásico, de ascendencia agustiniana,
piensa que los defectos del mundo no son verdaderos defectos, sino defectos aparentes, debidos a una de estas dos cosas: o bien a nuestra ignorancia de los planes de
Dios en su conjunto, pues, si conociésemos el conjunto de los planes de Dios, lo que
nos aparece como un defecto, nos aparecería como formando parte de un todo y en
consecuencia no como un defecto; o bien a la necesidad de poner de manifiesto las
perfecciones del universo, porque con los defectos sucede como con las sombras de
un cuadro, que son necesarias para realzar la belleza del color, o con las disonancias
musicales, que resultan imprescindibles para poner de relieve la belleza de la
armonía. Ninguna de estas razones satisface, sin embargo, a Malebranche136, pues la
perfección de una obra debe medirse en función de lo que se hace, pero también en
función de la manera de hacerlo, ya que Dios, que «quiere que su obra le honre..., no
quiere que sus vías le deshonren»137. Sobre todo, quiere que su conducta no le
deshonre, porque, al ser infinita, debe ser preferida por Dios a la obra que de ella
resulte, que es finita. Eso es lo que explica que el mundo esté lleno de defectos, pues
una conducta general y simple deja escapar el detalle de los acontecimientos, generando de esa suerte la aparición de desórdenes en el universo. Pero es preferible un
mundo lleno irregularidades a una conducta que se guíe por leyes particulares y complejas.
Pero no basta con decir que Dios es la única causa y que ejerce su causalidad
por medio de intervenciones generales de su voluntad. Se necesita añadir que Dios
asocia a las criaturas a su causalidad, haciendo de ellas causas ocasionales. Esto
significa que Dios se sirve de ellas «para determinar la eficacia de sus voluntades
generales»138. Así, la colisión de los cuerpos es la causa ocasional para que Dios
mueva los cuerpos, dado que esa colisión determina la eficacia de la ley general del
movimiento, pues hay una ley que dice que Dios mueve los cuerpos, pero resulta que
los cuerpos sólo se mueven cuando entran en colisión, con lo cual la colisión determina la eficacia de esa ley, haciendo de causa ocasional; el pinchazo es la causa oca132 Cfr. VIII, 665.
133 Cfr. III, 81, 88-89; V, 53; IX, 1081; X, 78-79; XVII/1,
134 AT, IX, 201.
135 De rerum originatione radicali, G. VII, 303.
136 Cfr. V, 36, 41; VIII, 765-766, 769-770; XV, 53-54.
137 XII, 213-214.
138 V, 154. Cfr. X, 75; X, 142; VI, 36.
244
581.
José Luis Fernández
sional para que Dios produzca en nosotros un dolor, pues hay una ley que dice que
sólo sentimos dolor, cuando nuestro cuerpo experimenta una alteración, con lo que
esa alteración determina la eficacia de esa ley, sirviendo de causa ocasional139. Las
causas ocasionales forman, pues, parte de las leyes generales como determinaciones
suyas.
***
Abstract: Secondo Malebranche la nostra conoscenza di Dio è immediata e ciò ci
obbliga a rivedere sia le prove a priori che a posteriori per il fatto che tutte e due
sono discorsive. Ma immediatezza non vuol dire che la nostra conoscenza della
Natura Divina sia perfetta. La stessa nozione di infinito, che si trova aldilà delle
nostre capacità, ce lo impedisce. Ciò è valido per tutti gli attributi, compreso quello
della Potenza Divina. Per questa ragione, anche se l’unica causa che esiste è la
Causalità Divina, noi non la possiamo comprendere perfettamente, cioè dal punto di
vista di Dio.
139
Cfr. XII, 318-319. Esas determinaciones son susceptibles a su vez de cumplirse de mil
maneras diferentes, originándose así la enorme variedad de efectos (cfr. X, 54).
245
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 247/269
J. G. Fichte: l’affermazione dell’Assoluto
DANIEL GAMARRA*
Sommario: 1. L’Assoluto dal punto di vista del finito; 1.1. Alcune questioni storiografiche; 1.2. Dal
principio incondizionato all’Assoluto; 1.3. Teoria e realtà del primo principio; 1.4. Presenza e
immagine; 2. Assoluto, immagine e apparizione; 2.1. La considerazione metafisica dell’immagine;
2.2. Considerazioni sull’Assoluto; 2.3. Apparizione e Assoluto.
■
1. L’Assoluto dal punto di vista del finito
1.1. Alcune questioni storiografiche
La situazione storica della filosofia di J.G. Fichte viene di solito delimitata fra
la filosofia di Kant e quella di Hegel. E all’interno della filosofia romantica tedesca
Fichte occupa di solito un posto relativo agli altri due grandi idealisti, cioè fra
Schelling e Hegel. L’inserimento di Fichte in questa situazione storica implica di
solito un giudizio sulla sua filosofia, cioè non si tratta meramente di un puro riferimento temporale o cronologico. Quando se ne cercano invece più da vicino le motivazioni, non è difficile riscontrare alla base di tale schema l’interpretazione hegeliana
della storia della filosofia e, più specificamente, la sua interpretazione riguardo al
periodo da lui stesso vissuto. Se si va oltre nella linea dell’interpretazione di Hegel
— e, in questo caso, anche di Schelling —, la filosofia di Fichte viene suddivisa in
due grandi periodi ben diversi fra di loro: quello di Jena, che occuperebbe gli anni
che vanno dal 1793-94 fino al 1800; e quello di Berlino, tranne il breve soggiorno a
Erlangen, comprendente il periodo fra il 1800 e l’anno della morte di Fichte, il 1814.
Questa periodizzazione abbastanza rigida della filosofia di Fichte e lo schema
dei suoi rapporti sia con la filosofia di Kant, sia specialmente il suo posto fra i tre
grandi romantici, non ha tuttavia un riscontro completamente soddisfacente nei fatti.
Anzi, il vero riscontro di questo schema si troverebbe piuttosto nell’esegesi hegeliana. Nella Dottrina della scienza del 1794, Fichte afferma ripetutamente che la sua
filosofia futura non sarà altro se non lo sviluppo della riflessione sul primo principio
assolutamente incondizionato del sapere, cioè viene detto in pratica che ormai ha in
*
Ateneo Romano della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma
247
studi
possesso un certo primo principio, un’intuizione fondamentale se si vuole, che svilupperà successivamente e che ciò appunto segnerà l’indirizzo della sua filosofia,
cioè non un altro principio, non un’altra intuizione. Come ha affermato R. Lauth,
«nel periodo jenese Fichte ha chiamato questo primo principio ‘io’ per esprimerne
verbalmente il carattere spirituale. Il grossolano fraintendimento di questa parola lo
ha spinto a cercare altre espressioni: soggetto-oggetto, ecc. Dal 1801 al 1804 Fichte,
entrando in discussione con il realismo superiore di Jacobi-Reinhold e l’idealismo
superiore di Schelling-Hegel, lottò senza tregua per completare la filosofia trascendentale nei suoi principi supremi»1. La questione come si vede da queste parole sembra più complessa ma allo stesso tempo più chiara.
Che in Fichte esista una maturazione intellettuale delle sue tesi è fuori dubbio,
come lo è il fatto che l’accusa di ateismo del 1799 segni nella sua vita, e anche nella
sua filosofia, una esigenza riguardo comunque allo stesso progetto filosofico anteriore a quella data. Infatti, come mette in rilievo Lauth, le prime formulazioni della filosofia di Fichte non furono accolte con la comprensione dovuta: sia il linguaggio che
la novità proposta non furono immediatamente capiti; anzi, dopo il 1799 continuò la
stessa situazione. Il problema riguardava fra l’altro la questione dell’ Io,
dell’Assoluto e del sapere. Le prime formulazioni della Dottrina della scienza2 degli
anni 1793 e 17943 furono difficili da capire sia per il metodo che per la proposta teoretica, e di questo fatto si accorse Fichte stesso. Così nel 1797 pubblica la Versuch
einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre e nel 1798, con l’aggiunta di nova
methodo, un’altra nuova versione della WL. Ma il lavoro sulla WL ebbe quindi un
periodo di inattività quando venne fuori la questione sull’ateismo. Infatti
l’Atheismusstreit occupa l’attenzione di Fichte durante il 1799 e il 1800 non soltanto
da un punto di vista teoretico ma anche pratico, giacché a causa dello sviluppo della
questione deve abbandonare Jena e trasferirsi a Berlino dove, dopo un breve periodo,
consegue la cattedra di filosofia. A questo punto riprende vigorosamente il lavoro
della WL e, meno di un anno dopo, compare la WL 1801; sono gli anni delle discussioni col realismo superiore di Reinhold e di Jacobi, e soprattutto con l’idealismo di
Schelling e di Hegel.
Così troviamo in un periodo di meno di dieci anni tre formulazioni della WL,
avendo presente che la prima (degli anni 1793-94) non è che una introduzione o,
meglio, una fondazione4; l’Atheismusstreit rappresenta certamente un momento non
dedicato alla WL propriamente detta5; il lavoro viene ripreso nel 1801, dopo il mancato successo delle WL precedenti e stimolato dal bisogno di approfondire le nuove
1
2
R. LAUTH, La filosofia trascendentale di J.G. Fichte, Guida Editori, Napoli 1986, p. 45.
D’ora in poi per riferirci a questo titolo: Wissenschaftslehre, più volte ripetuto da Fichte in
diverse rielaborazioni e edizioni, adopereremo: WL.
3 Quest’ultima col titolo completo, assai significativo di: Grundlage der gesamten
Wissenchaftslehre.
4 Cfr. R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., pp. 43; 52-53. Fichte si esprime così
nell’ottobre di 1794 nella Allgemeine Literatur-Zeitung, quando presenta la Grundlage:
«alla presente fondazione dell’intera Dottrina della scienza farà seguito, la prossima Pasqua,
un sistema sviluppato della Dottrina della scienza teoretica e pratica».
5 Comunque le questioni dibattute fanno parte della tematica della WL; il rapporto fra i grandi
temi dell’Atheismusstreit e quelli della WL si vede con più chiarezza a partire dai successivi
sviluppi della Dottrina della scienza.
248
Daniel Gamarra
prospettive aperte con le riflessioni condotte dal 1793 fino a quel momento 6.
Secondo l’interpretazione di Schelling7 e di Hegel, questo sarebbe il principale
momento in cui avviene la distinzione dei due periodi della filosofia di Fichte; e,
secondo l’interpretazione del solo Hegel, praticamente qui finisce la vera e propria
filosofia di Fichte, poiché Hegel non conoscerà le posteriori edizioni della WL e avrà
conoscenza soltanto della “filosofia popolare” di Fichte, sviluppata in vari momenti,
con lezioni rivolte a un pubblico piuttosto vario: 1800, 1803, 1806 e 1807 sono le
date dei corsi più importanti; e sulla loro validità filosofica il giudizio di Hegel è
alquanto duro8.
In questa cornice storica si inserisce il problema dell’Assoluto: esso non nasce
nella seconda filosofia di Fichte in quanto secondo periodo, poiché una separazione
da un presunto primo periodo non è mai esistita; ma è presente fin dalle prime formulazioni della WL, anche se è a partire dal 1801 che Fichte sviluppa in un modo particolarmente acuto il problema, in chiara polemica con la filosofia idealista9.
Resta quindi da chiarire brevemente il rapporto di Fichte con Kant. Al riguardo
abbiamo un testo importante dello stesso Fichte: «Ho sempre detto, e lo ripeto ora,
che il mio sistema non è altro che quello kantiano. Ciò vuol dire che contiene lo stesso punto di vista, ma che nel modo di portare avanti la ricerca è completamente indipendente dall’esposizione kantiana. Ho detto questo non per avvalermi di una grande
autorità, né per creare un punto di appoggio per la mia teoria al di fuori di essa, ma
6
A. PHILONENKO, L’oeuvre de Fichte, Vrin, Paris 1984, p. 211: «À chaque pas Fichte s’est
enrichi, répétons-le; mais sa richesse est toujours accumulée dans le même sens. Il n’y a
guère de raison qui permette de distinguer un premier Fichte d’un second, si ce n’est pas
qu’après 1798 il ne publie pas tout comme il le faisait auparavant».
7 Cfr. F.W. SCHELLING, Philosophie und Religion (1804), Ausgewählte Werke III, 629 [C.H.
Beck’sche Verlagbuchhandlung, München 1977]; e Zur Geschichte der neueren
Philosophie. Münchener Vorlesungen (1827), Ausgewählte Werke, V, 375 e ss [C.H.
Beck’sche Verlagbuchhandlung, München 1979]. Le discussioni fra Fichte e Schelling
sono state accuratamente studiate da R. LAUTH, Die Entstehung von Schellings Identitätphilosophie in der Auseinandersetzung mit Fichtes Wissenschaftslehre (1795-1801), Karl
Alber Verlag, München 1975; id., Die erste Auseindersetzung zwischen Fichte und
Schelling 1795-1797, «Zeitschrift für philosophische Forschung», 21/3 (1967), pp. 341367; id., Die zweite philosophische Auseinandersetzung zwischen Fichte und Schelling
über die Naturphilosophie und die Transzendentalphilosophie und ihr Verhältnis zueinander (Herbst 1800-Frühjahr 1801), Kant-Studien, 45 (1974), pp. 397-435.
8 G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, Jubiläumsausgabe, XV,
640 [Frommann, Stuttgart 1965]: «In seinen späteren, popularen Schriften hat Fichte
Glaube, Liebe, Hoffnung, Religion aufgestellt, ohne philosophisches Interesse, für ein allgemeines Publikum, eine Philosophie für aufgeklärte Juden, Jüdinnen, Staatsräthe». Nelle
pagine che dedica all’analisi della filosofia di Fichte, Hegel cita come fonte la Grundlage
der gesamten Wissenschaftslehre, di 1794, Grundlage des Naturrechts nach Principien der
Wissenschaftslehre di 1796, Über den Begriff der Wissenschaftslehre di 1798, e alcuni scritti dell’epoca dell’Atheismusstreit . Per un confronto più ampio fra le filosofie di Fichte e
quella di Hegel, cfr. R. LAUTH, Hegel vor der Wissenschaftslehre, F. Steiner Verlag,
Stuttgart 1987.
9 R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., p. 53: «Tutta la preoccupazione di Fichte negli
anni 1799-1804 fu respingere sia il realismo superiore (Jacobi-Bardili-Reinhold) sia l’idealismo superiore (Schelling-Hegel) e di completare la filosofia trascendentale sviluppando una
dottrina dell’assoluto».
249
studi
per dire la verità ed essere giusto»10. In questo senso, in sostanza, il pensiero di
Fichte oltre ad essere chiaro è anche molto vicino alla verità. La questione sollevata
pure da Hegel di vedere Fichte come il passaggio obbligato fra la filosofia di Kant e
la sua, appartiene soprattutto allo schema interpretativo triadico proposto da Hegel.
Infatti Hegel vede in Fichte il compimento (Vollendung)11 della filosofia di Kant, e
non un pensatore originale che aggiunge alla filosofia kantiana una novità che Kant
non aveva raggiunto. Se Fichte, come si vede dal testo della WL 1797, pensava che la
sua fosse una filosofia entro il kantismo, ciò non significa che non si accorgesse
anche della sua novità. La filosofia trascendentale in Fichte continua ad essere vera
filosofia trascendentale, ma al tempo stesso prende le distanze rispetto a Kant e sviluppa argomenti originali.
L’unità Kant-Fichte proposta da Hegel ha un fondamento, ma forse è un’unità
troppo fortemente affermata. L’idealismo soggettivo è una categoria che a Hegel
risulta chiara dal punto di vista del suo superamento nell’idealismo assoluto e con la
mediazione di quello oggettivo. La domanda si pone quindi nella e sulla validità
dell’interpretazione triadica. Si deve aggiungere però che Kant considerò la WL come
una “pura logica”12, cioè senza vederla né in continuità né come compimento della
sua filosofia; e con ciò sembra che i tre giudizi siano in parte discordanti fra loro:
Fichte si dichiara in buona misura kantiano, Kant non considera la filosofia di Fichte
un superamento della sua e Hegel, infine, stabilisce una connessione stretta fra le
due, in disaccordo con i giudizi di entrambi. Non è questo il luogo per chiarire in
modo preciso la questione, ma soltanto sembra interessante notare che i momenti
hegeliani propongono uno schema storiografico che in questo caso — oppure anche
in questo caso — non sembra verificarsi completamente. La questione, come avremo
occasione di vedere a proposito del problema di Dio in Fichte, è più complessa, in
quanto la proposta filosofica di Fichte non è pura conseguenza della filosofia kantiana né pura opposizione ad essa.
Allo stesso tempo i temi scanditi intorno al problema di Dio o dell’Assoluto
nella filosofia fichtiana scoprono una dimensione che le prime edizioni della WL avevano annunciato, ma non avevano sviluppato in maniera rigorosa ed esauriente.
Anche se Hegel da parte sua aveva valutato criticamente le prime WL13 intorno al
1800, non aveva certo previsto l’ulteriore sviluppo della filosofia di Fichte in questi
temi. Anzi, la scissione fra finito ed infinito che preoccupa sia l’Hegel giovane sia
quello più maturo, ha anche una risposta nella filosofia di Fichte, che si presenta in
modo diverso dall’interpretazione hegeliana riportata sia nella Differenz che nelle più
tardive Vorlesungen.
10
Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre (=WL 1797), F. Meiner Verlag,
Hamburg 1984, p. 2 (SW, I, 420-421).
11 Cfr. G.W.F. HEGEL, Vorlesungen..., cit., 640.
12 I. KANT, Erklärung in Beziehung auf Fichtes Wissenschaftslehre, AK, XII, 370: «Denn
reine Wissenschaftslehre ist nichts mehr oder weniger als bloße Logik, welche mit ihrem
Principien sich nicht zum Materialem des Erkenntnis versteigt, sondern von Inhalte derselben als reine Logik abstrahirt [...]».
13 Cfr. G.W.F. H EGEL , Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der
Philosophie, in Beziehung auf Reinhold’s Beyträge zur leichtern Übersicht des Zustandes
der Philosophie zu Anfang der neunzehnten Jahrhunderts (1801), Jubiläumsausgabe, I; trad.
it. a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1990.
250
Daniel Gamarra
1.2. Dal principio incondizionato all’Assoluto
La filosofia di Fichte si presenta con una fondamentale dimensione riflessiva,
costituente e originante della filosofia come tale. La non accettazione della cosa in
sé, così come veniva proposta da Kant, rimuove l’ultimo ostacolo per fare del soggetto l’ambito dell’inizio della filosofia14. Infatti, davanti alla cosa in sé, il soggetto
doveva ricevere un qualcosa che non dipende da lui, davanti al quale il soggetto stesso è passivo. Se la cosa in sé viene tolta, si apre di conseguenza lo spazio per un inizio assoluto a partire da un solo principio: non cioè dalla cosa in sé e dal soggetto,
ma soltanto dal soggetto. Ma questo inizio deve rivestire appunto un carattere assoluto e allo stesso tempo deve essere trovato nell’interiorità soggettiva15.
Da questa premessa muove già buona parte dello sviluppo della filosofia di
Fichte; inizio della filosofia, punto di vista della filosofia, esito della filosofia sono
tre momenti intimamente vincolati che dipendono dall’unità della scelta filosofica di
Fichte. Infatti egli vuole fondamentare l’inizio assoluto ed incondizionato del sapere
in modo tale da poter ricavare così un primo principio del sapere in generale16. Il
punto consiste nel fatto che Fichte distingue l’inizio della filosofia dall’inizio del
sapere come tale. La filosofia infatti è un sapere e come tale ha un principio o dei
principi che reggono lo sviluppo e le sequenze logiche. Ma la questione che Fichte
propone quando parla dell’inizio del sapere non è tanto quella dell’inizio della filosofia, ma di un sapere che coinvolga la filosofia stessa in un grado più alto di sinteticità. Questo è l’ambito della dottrina della scienza: il sapere del sapere, la scienza
suprema il cui oggetto, per parlare in modo improprio, è il sapere stesso17.
Da questo punto di vista la proposta fichtiana non è una proposta metafisica nel
senso tradizionale del termine, giacché la preoccupazione del filosofo non è quella di
indagare l’oggetto, la cosa che si presenta davanti al soggetto; si tratta piuttosto di
una ricerca riflessiva e allo stesso tempo originante del sapere18. In questo senso, la
dimensione filosofica in cui si muove Fichte è assoluta, ma in modo diverso a quello
appunto della metafisica che trova l’Assoluto come termine dell’indagine filosofica e
come sviluppo dei principi primi della filosofia avendo come orizzonte la natura,
oppure la molteplicità del reale nel suo essere in sé. Fichte pone la questione dell’inizio del sapere in modo inverso, cioè in quanto non si tratta di sapere qualcosa ma
soltanto di un sapersi, senza che però questo sapersi venga costituito attraverso la
distinzione di soggetto e oggetto19. La riflessione filosofica verso il primo principio è
quindi una ricerca dell’incondizionatezza del primo principio stesso, oppure una
ricerca condotta sulla possibilità di tale incondizionatezza. Se qualcosa è saputo,
14
Cfr. Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (=GgWL), F. Meiner Verlag, Hamburg
1988, pp. 40 e 98 (SW, I, 120 e 172-173).
15 Cfr. Cfr. Wissenschaftslehre nova methodo (=WL 1798), F. Meiner Verlag, Hamburg 1982,
p. 7 (SW, X, 7).
16 GgWL, p. 171 (SW, I, 252-253): «Außer dem Setzen des Ich durch sich selbst soll es noch
ein Setzen geben. [...] Un so ist denn die WL a priori möglich, ob sie gleich und objektive
gehen soll».
17 Cfr. WL 1798, p. 101 (SW, X ,127-128).
18 Cfr. WL 1798, p. 28 (SW, X, 33).
19 Cfr. WL 1798, p. 11 (SW, X, 12).
251
studi
conosciuto, la domanda si pone esattamente sulla possibilità fondante del sapere
come tale.
Il posto del primo principio del sapere è definito, nella filosofia di Fichte, dalla
riflessione verso l’interiorità soggettiva in modo trascendentale. Con ciò Fichte si
pone in un punto di vista che ammette soltanto il sapere se intimamente giustificato
dal primo principio: ogni sapere dev’essere contenuto nella condizione trascendentale posta dal primo principio, non in quanto al suo contenuto oggettivo o empirico, ma
in quanto alla dipendenza e al collegamento con esso. Cioè il primo principio del
sapere è il solo sapere autogiustificato, perché autoevidente20. Se è così, il primo
principio non è relativo, ma assoluto.
Il movimento filosofico della riflessione ha una direzione verso l’alto e
all’indietro, perché la WL si costituisce nella sua autofondazione: la realtà del sapere
non si potrebbe paragonare tanto ad una acquisizione, quanto ad una riduzione ad
unum21. Il punto di partenza empirico di Fichte è la pluralità del sapere umano, la
diversità delle scienze, il sapere volgare. Tutte le forme di sapere hanno in comune
una richiesta più o meno modesta di verità e certezza. Ma al tempo stesso la certezza
di qualsiasi sapere dipende a sua volta dai principi ricevuti da un sapere superiore. Se
la questione della verità e della certezza è posta in modo assoluto, cioè come siano
possibili la verità e la certezza in se stesse, la giustificazione della risposta non può
venire dalla cosa ma dal principio che costituisce il sapere. Sapere infatti è un atto del
soggetto che ha colto un qualcosa che di solito può essere rappresentato come un
davanti a sé. Se si fa questione non di questo davanti ma di ciò che rende possibile il
davanti stesso, troviamo la soggettività in una dimensione non empirica in quanto
non determinata da nessun contenuto che appartenga all’esperienza22. La via di
Fichte verso il primo principio del sapere è una proposta trascendentale della soggettività in cui trova la giustificazione di ogni certezza non per via oggettiva oppure
empirica, ma nel cogliere il nucleo attivo della costituzione di qualsiasi oggettività.
In questo modo il primo principio del sapere è un sapersi a cui si arriva non
oggettivando, ma nell’annullamento dell’oggettività; dietro questo annullamento si
trova soltanto l’atto costituente del sapere23. La WL è questa scienza che ha come
compito lo svelare la struttura soggettiva trascendentale che autofondamenta se stessa
come istanza di sapere o di pensiero, al margine di qualsiasi oggettività e come pura
attività autoevidente.
Ma è da sottolineare che l’assolutezza del primo principio costituente del sapere, che è attivo, autoevidente e non-oggettivo, è un’assolutezza rinchiusa nell’ambito
del finito. Infatti Fichte non afferma la realtà di una istanza assoluta di ordine o natura ontologica, ma un assoluto che è di carattere gnoseologico. La distinzione fra
ontologico e gnoseologico ha un valore limitato. Dire che l’ontologico è, a questo
punto, abbandonato per affermare il carattere gnoseologico del principio, sarebbe
un’affermazione in un certo senso vera, ma non sufficientemente vera. Nelle prime
redazioni della WL Fichte aveva identificato il primo principio con l’Io. Questo Io
20
21
Cfr. WL 1797, p.104 (SW, 524).
Die Wissenschaftslehre. Zweiter Vortrag im Jahre 1804 (=WL 1804), F. Meiner Verlag,
Hamburg 1986, p. 7 (SW, X, 93).
22 Cfr. WL 1797, p. 72 (SW, I, 492).
23 Cfr. WL 1797, p. 112 (SW, I, 533).
252
Daniel Gamarra
non ha nessun carattere sostanziale ma ha, in senso stretto, il carattere di principio
attivo autoevidente. Ciò che Fichte cercava era appunto il superamento della distinzione soggetto-oggetto in ordine alla fondazione di un sapere assoluto in quanto non
dipendente da quella stessa relazione. Il posteriore sviluppo della WL aggiunge a
questa determinazione del principio il carattere di unicità, in quanto l’istanza ultima è
anteriorità rispetto alla scissione soggetto-oggetto, oppure di pensiero-essere. In
fondo la caratterizzazione del primo principio nel suo carattere incondizionato è una
descrizione ontologica dell’Io: cioè non si tratta di una questione di mera identificazione gnoseologica di un incondizionato, bensì di un raggiungimento di una realtà
spirituale che si determina in un atto finito non condizionato, cioè ultimo24. Perciò
l’assolutezza dell’incondizionato rivela in realtà un atto finito che è autoevidente: la
sua evidenza non dipende dall’oggetto pensato, la sua ultimità non riguarda il carattere di causa del reale, ma comunque si presenta come reale e non-oggettivo, riflessivo
e non-relativo: assoluto e finito25.
Costringere il primo principio nei limiti della finitezza è dargli carattere reale di
pensiero o di atto ultimo che fondamenta ogni sapere; la sua assolutezza non è tuttavia l’infinitezza di un essere al di là del finito o del mondo. Ma questo assoluto, che è
allo stesso tempo atto finito e incondizionato, pone la questione dell’Assoluto come
la propria negazione. Il primo principio del sapere, l’Io, non ha natura di fondamento
ontologico del reale, ma soltanto di fondamento del sapere, in quanto il sapere viene
geneticamente sviluppato da esso. Ma in un successivo approfondimento della WL
Fichte, soprattutto dopo l’Atheismusstreit, comincia a sentire e a manifestare tematicamente la nostalgia dell’Assoluto che si colloca al di là della finitezza. Se la riflessione aveva portato Fichte fino alla radice del sapere, alla determinazione del principio della WL, essa adesso lo induce, dopo il momento di fondamentazione sistematica del sapere e della deduzione genetica della coscienza, all’indagine trascendentale
dell’Assoluto come altro dalla soggettività26. Il punto di vista continua ad essere però
lo stesso: in certo modo la domanda si porrà come la possibilità di affermazione
dell’Assoluto, sulla condizione di tale affermazione dal punto di vista del finito. E
certamente se la genesi trascendentale aveva dato ragione della totalità degli atti del
soggetto, i concetti devono in questo momento cambiare in modo abbastanza radicale, giacché non si tratta per l’appunto di una deduzione né di una genesi, ma di pensare il rapporto di origine del pensiero stesso riguardo ad una certa alterità. Trovare Dio
o affermare l’Assoluto senza abbandonare il punto di vista finito è il compito di cui
Fichte si fa carico a partire dal 1799-1800. Il principio incondizionato del sapere gli
ha permesso di trovare la WL; occorre ancora vedere se la WL gli permette di andare
oltre senza abbandonare se stessa.
Ma a questo punto abbiamo diversi concetti non ancora strutturati in modo
adeguato. Il punto di vista di Fichte è quello del sapere, e per trovare il principio
primo e inconfutabile del sapere stesso ha percorso il cammino della riflessione tra24
L’ultimità del principio incondizionato è la conclusione di un interno vedersi del soggetto;
questo non definisce che in sé ogni sapere implichi ogni esclusione dell’oggetto oppure ogni
riferimento oggettivo e anche all’esperienza. Ciò che afferma Fichte è che l’istanza oggettiva
oppure quella esperienziale non è ultima e con ciò non offre un carattere autogiustificantesi.
25 Cfr. Darstellung der Wissenschaftslehre. Aus den Jahren 1801/02 (=WL 1801), F. Meiner
Verlag, Hamburg 1977, p. 34 (SW, II, 27-28).
26 WL 1801, pp. 188-189 (SW, II, 132); p. 190 (SW, II, 134-135).
253
studi
scendentale fino all’identificazione di un principio teoretico incondizionato del
sapere che è il sapere che sa se stesso; il che a sua volta è possibile in quanto c’è un
atto di pensiero che si pone come primo e autoevidente: l’Io, la coscienza nel suo
momento trascendentale, costituiscono il momento primo del sapere. In questo
modo il principio incondizionato si rivela in possesso di una certa assolutezza, e
perciò definisce un ambito di sapere assoluto. L’introduzione invece di un Assoluto
che può essere affermato come un al di là della coscienza, non significa un’espansione della coscienza e del suo atto fino all’Assoluto, ma un’affermazione a partire
dall’unità del concetto di sapere. Il sapere è sempre sapere-di: ma se c’è un Assoluto
come tale, il sapere, se rimane nel suo punto di vista finito, non può costituirsi come
assoluto per il fatto che si trova in possesso dell’Assoluto — anche se il sapere può
essere un sapere assoluto27. L’assolutezza del sapere non è sapere dell’Assoluto,
anche se si costituisce come sapere assoluto. Unità e incondizionatezza del principio, sapere assoluto e Assoluto sono categorie che non si possono scambiare fra loro
come se ci fosse ancora una categoria superiore che rendesse ragione di una unità di
prospettiva. Ma il cammino del sapere non costituisce comunque un’affermazione
assoluta della autosufficienza del sapere, nel senso che è inevitabile dall’interno del
sapere stesso la presenza di una alterità che si mostra soltanto nel sapere28. In questo modo l’Assoluto secondo Fichte è l’Assoluto del sapere-in-sé29. L’io o soggetto
si relaziona all’Assoluto come una immagine: c’è fra l’Assoluto e l’Io un rapporto
manifestativo30.
Ma prima di continuare con questo tema qui appena introdotto, ci soffermeremo
a chiarire uno dei problemi contenuti in questa serie di tesi: quello dell’unità teoretico-pratica del principio incondizionato del sapere in quanto dimensione unica (o unitaria) della soggettività. È dall’unione di queste due dimensioni che il concetto di
immagine, oppure quello di manifestazione (Erscheinung) — sviluppato da Fichte
con la finalità di chiarire il rapporto dell’Io con l’Assoluto —, giunge, attraverso la
Dottrina della scienza, a determinare più esattamente la portata dell’affermazione
fichtiana di Dio.
1.3. Teoria e realtà del primo principio
Se una ricerca filosofica o scientifica che sia si propone di cercare il primo prin27
WL 1801, p. 29 (SW, II, 22): «Das Wissen ist nicht das Absolute, aber es ist selbst als
Wissen absolut».
28 G. RAMETTA (a cura di), J.G. FICHTE: Privatissimum 1803. Dodici lezioni sulla dottrina
della scienza, Edizioni ETS, Pisa 1993, Introduzione, p. 37: «dall’interno della prospettiva
trascendentale emerge dunque la necessità di porre, per spiegare il sapere e per non “saltare” irreflessivamente oltre di esso, un “uno veramente essente”, un “vero originario”, che
necessariamente assume la determinazione della “verità” solo all’interno del sapere e come
sapere, ma che appunto proprio per questo si manifesta, attraverso il sapere, come l’indeducibile implicato, principio e presupposto di quest’ultimo».
29 WL 1804, p. 237 (SW, X, 277).
30 R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., p. 45: «La Wissenschaftslehre 1804 mostra che il
supremo punto di unità della Dottrina della scienza è l’autocoscienza non nella sua immanenza, ma come manifestazione (Erscheinung) dell’assoluto; la Dottrina della scienza si situa nel
punto di unità e di congiunzione del sapere e della verità assoluta rivelantesi in esso».
254
Daniel Gamarra
cipio come punto di partenza, la cui conoscenza è necessaria per andare avanti nel
conoscere, si pensa immediatamente ad un principio che deve soddisfare una esigenza appunto conoscitiva. Nella Dottrina della scienza di Fichte questa dimensione
viene profondamente potenziata. La WL infatti ha una sola possibilità di giustificarsi:
la sua dev’essere una autogiustificazione; il suo principio non si trova al di fuori di
essa; anzi, la giustificazione è specificamente uno sviluppo del suo proprio concetto.
Questo è una necessità del primo principio e della Dottrina della scienza come sapere primo, oppure come sapere del sapere; se la WL si trova in grado di poter sviluppare la nozione propria di WL verrà dunque (auto)giustificata, altrimenti essa stessa non
sarà sapere primo.
Accanto a ciò, oppure implicitamente in questa posizione fondamentale, la WL
si dà, di conseguenza, il suo proprio oggetto. Nel riflettere in modo radicale, sembra
che Fichte non lasci spazio a nessuna immagine, a nessun oggetto che non sia il sapere autogiustificantesi: non appare in quella riflessione se non la riflessione appena
distanziata da qualsiasi oggettività. Perché infatti non si tratta di una riflessione autocoincidente oppure che nel suo esercizio si sovrapponga a se stessa annullando assolutamente ogni doppia dimensione di oggetto e riflessione. Ma invece si assiste ad
una donazione oggettuale che si costituisce nel riflettere stesso. Come Fichte propone
nella prima WL, cioè nella Grundlage, la “esperienza” attraverso la quale appare il
primo principio è la proposizione A=A, non attraverso il suo contenuto bensì attraverso l’identità. Che A è A non significa altro, in ordine alla fondazione del principio, che A è posto, e l’atto del porre si rivela fondamentale in quanto è il giudizio
stesso, l’attività del giudicare non in senso psicologico ma come radicale attività soggettiva fondante31: è l’Io che giudica e nel giudicare coglie il fatto fondamentale (trascendentale) dell’affermare stesso, oppure coglie se stesso in quanto autore dell’atto
fondamentale che si rivela nel giudizio32.
In questo modo l’andare indietro verso il primo principio che possa fondamentare il sapere in modo assoluto, non soltanto permette di trovare a Fichte un principio
incondizionato del sapere che sa se stesso, ma anche l’atto fondamentale del porre: il
principio teoretico della WL è inseparabile dal fatto fondamentale dell’attività dell’Io.
Anzi, l’Io è tale nell’agire attraverso cui pone il primo principio: «la filosofia si procura scientificamente non solo il proprio oggetto, ma anche il pensiero dell’oggetto»33.
Questa bi-dimensione del primo principio è una costante nel pensiero di Fichte. Con la
tematizzazione di entrambi i problemi cambierà la terminologia e in un certo senso
alcuni suoi interessi speculativi, entro l’unità sostanziale del suo pensiero; ma ciò che
non cambierà affatto sarà la tesi che il fondamento del sapere è attivo, e che in ciò
combacino sia la teoricità del principio sia la sua praticità34. Il pensare è pensiero-di, o
31
Cfr. GgW, Erster Teil, 1 (SW, I, 91-101); ivi, p. 16 (SW, I, 96): «Also das Setzen des Ich
durch sich selbst ist die reine Tätigkeit desselben. – Das Ich setzt sich selbst, und es ist,
vermöge diese bloßen Setzens durch sich selbst [...]».
32 WL 1797, p. 41 (SW, I, 461): « [...] in diesem Akte (di pensare) [...] sieht der Philosoph sich
selbst zu, er schaut sein Handeln unmittelbar an, was er tut, weil er – es tut».
33 R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., p. 43.
34 A. PHILONENKO, L’oeuvre de Fichte, cit., pp. 34-35: «Le Moi sera donc effort infini, parce
que qu’on n’en a jamais fini avec le monde, mais parce que tout effort suppose une limitation qu’il doit franchir. [...] Le Moi doit être absolument pour soi, donc libre»; e anche p.
37: «[...] le Soi est défini par Fichte comme effort infini (unendliches Streben). La liberté
255
studi
anche nella sua prima istanza principiale, pensiero che si pensa oppure pensiero che
riflette; il pensare è inseparabile dalla sua dimensione di opposizione a ciò che pensa e
nell’opporsi si vede la dimensione e il motivo fondamentale della sua realtà come atto.
Sia che questa attività venga prima concettualizzata come sforzo sia come libertà, ha
sempre la dimensione originaria della realtà soggettiva come realtà in atto: cioè,
secondo Fichte, non esiste un atto del soggetto che non implichi allo stesso tempo la
realtà e l’esercizio dell’atto primo35.
Se la WL si propone di dedurre la totalità delle forme di pensiero in modo tale
da unire ogni manifestazione di pensiero al primo principio incondizionato, tale compito spetta anche alla libertà o all’attività pratica dell’Io non in modo però secondario
o conseguente, ma in modo originario e a livello più alto di quello del pensiero riflettente; in questo modo Fichte ha unificato sia la prospettiva del sapere in quanto al
fondamento, attraverso il superamento della distinzione soggetto-oggetto; ma è andato anche oltre la distinzione sapere-atto pratico della libertà, in quanto approdato alla
dimensione comune attiva non per astrazione ma in quanto raggiungimento dell’origine comune dell’attività dell’Io. La storia pragmatica dello spirito umano36, come
Fichte ha definito la WL, è la deduzione viva del sapere attraverso la necessità delle
forme di pensiero37.
E questa unità originaria dello spirito ha, nella questione dell’Assoluto,
un’importanza fondamentale. Come avremo occasione di vedere, la posizione
dell’Assoluto è senz’altro l’al di là del sapere, in quanto la Dottrina della scienza è
per l’appunto una teoria del sapere: l’Assoluto è in un certo senso ciò che non è saputo giacché infinito e in quanto non-sapere; ma la posizione dell’Assoluto spetta
anche, e principalmente, all’attività dell’Io come attività unica e originaria, in modo
tale che l’Assoluto non si rapporti — anche se in modo negativo — soltanto al sapere
ma anche alla libertà: questa vive nell’ancora della storia e nella soggettività finita, e
ha anche il carattere di sforzo infinito, di tendenza non (mai) compiuta. La presenza
dell’Assoluto, l’immagine, nella soggettività non è altro che la presenza del divino
nell’attività originaria del soggetto. Il che comunque non significa per Fichte che
l’Assoluto si presenta nel soggetto in modo tale da condizionare necessariamente o
determinare sia il sapere che la vita pratica o morale donando un contenuto o una
rappresentazione determinata. Qui si dovrebbe ritornare in un certo senso ad una
distinzione precedentemente riferita fra dimensione ontologica e gnoseologica
dell’Io: ma si dovrebbe aggiungere una dimensione ulteriore cioè quella morale. Così
però come il principio gnoseologico rivela la natura dell’Io e in un certo senso il
pensare è Io, così in questo momento la natura dell’Io viene piuttosto costituita sia
dal pensare che dalla libertà, o, se si vuole andare all’ultima piega dello spirito,
est l’invitation permanente à l’existence et à ce titre la liberté est un devoir qui comprend en
lui-même sa propre récompense: elle est pretium sui et Fichte doit ici se séparer de Kant
[...]».
35 Die Principien des Gottes- Sitten- und Rechtslehre, F. Meiner Verlag 1986, p. 96: «Setzen
Sie dieses Princip der Genesis als einen Vernunftschluß: ich frage, welches ist seine absolut
vorauszusetzende Prämisse: Offenbar: Das Denken kommt gar nicht durch sich selber zum
immanentem Seyn [...] sondern nur durch ein fremder Princip, das Soll [...]».
36 Cfr. GgWL, p. 141 (SW, I, 222).
37 Cfr. M. GUEROULT, L’évolution et la méthode de la doctrine de la science chez Fichte,
Olms, Hidesheim 1982 [reprint], I, p. 160 e ss.
256
Daniel Gamarra
dall’attività originaria comprendente sia l’attività intellettuale che quella morale38,
come immagine dell’Assoluto.
Siccome la presenza dell’Assoluto non è diretta ma, attraverso la mediazione
dell’immagine, l’Assoluto stesso condiziona la vita soggettiva nella misura in cui il
soggetto raggiunge attraverso la WL la consapevolezza delle potenzialità dell’attività
originaria. La questione è che a questo punto la WL è cambiata rispetto alla prima
impostazione data da Fichte, nel senso che ha subito un ampliamento nello scoprire
una dimensione della soggettività che nel primo percorso della WL si era mostrata
solo parzialmente. L’interesse di Fichte era sempre stato la libertà39, ma anche la
libertà e la fondazione dell’agire morale è stata una scoperta sul filo della WL. Se
l’impostazione delle prime WL concentrano l’interesse e l’argomentazione da un
punto di vista più teoretico rispetto alla Dottrina della scienza, dopo gli anni 17991800 Fichte si rende conto che con i principi della WL ha in mano i principi
dell’agire libero e che la dimensione corrispondente all’affermazione dell’Assoluto di
cui ha bisogno il sapere, si presenta anche davanti alla soggettività come tale a partire
dal suo carattere di principio attivo. Comunque la natura attiva della soggettività,
dell’Io, non si configura soltanto come un guardare ciò che si mostra davanti alle sue
potenzialità. In primo luogo perché l’Assoluto non si mostra in se stesso, d’altra parte
perché questo guardare non è adatto a penetrare la natura dell’Assoluto; così
l’Assoluto si presenta mediato, ma la mediazione come tale concentra il suo esserci
nel nucleo dell’attività originaria del soggetto. Se questa attività non viene appunto
attivata, la presenza dell’Assoluto non sarà possibile. In questo modo, l’Io raggiungerà quel tanto di Assoluto (mediato) a seconda di quanto la sua attività in quella
direzione sia stata un compito liberamente esercitato sia riguardo al sapere che alla
vita morale. Il soggetto che invece non cerca di mettere in atto la WL non raggiungerà né una vita veramente dotta, né una vita pienamente morale. Perciò l’unità teoretico-pratica della WL che si presenta nelle sue prime formulazioni in modo piuttosto oscuro riguardo alla dimensione antropologica complessiva dell’Io, si estende
comunque lungo tutto il percorso della WL e della “filosofia popolare” di Fichte. Il
fatto che dopo alcuni anni in cui non aveva lavorato in modo diretto alla WL, cioè gli
anni della filosofia della religione e della filosofia della storia, Fichte ritorni alla WL,
permette di vedere che verso il 1810 la ripresa della WL ha un fondamentale carattere
sintetico e riflessivo su un’opera che si era già molto avvicinata alla sua completezza.
1.4. Presenza e immagine
La filosofia di Fichte nel periodo di Jena non tratta in maniera decisa il problema dell’Assoluto, anche se non si può negare che in un certo senso la via intrapresa
38
39
Cfr. WL 1801, pp. 194 e ss. (SW, II, 136).
In questo senso le motivazioni profonde del pensiero di Fichte si devono cercare in collegamento con il superamento del necessitarismo spinoziano e nella scoperta della ragione
pratica in Kant: la sua filosofia ha un’intenzione pratica fin dall’inizio anche se nelle prime
WL questa intenzione rimane in certo senso oscurata; di questa difficoltà sono testimoni i
primi interpreti della sua filosofia ed è stata soltanto la critica storica sviluppata negli ultimi anni a far luce definitivamente su questo aspetto. Cfr. L. PAREYSON, Fichte. Il sistema
della libertà, Mursia, Milano 1976, pp. 73 e ss.
257
studi
aveva come fine, o almeno come uno dei suoi fini, il raggiungimento di una dimensione assoluta al di là della soggettività40. La prima WL pone l’accento e l’interesse
speculativo nella determinazione dei principi del sapere e nella determinazione delle
sue leggi strutturanti; per ottenere ciò Fichte procede nella deduzione dei modi necessari del pensiero e delle sue azioni necessarie. La questione comunque dell’origine,
della radice del sapere e dell’intelletto viene presentata quasi in modo negativo, cioè
velatamente mostrata, mentre si accusa soprattutto una assenza: la mancata apparizione del problema dell’Assoluto diventa così la necessità della sua apparizione.
Invece la riflessione del più lungo periodo di Berlino viene configurata e decisamente dominata da questo problema: l’Assoluto, la sua manifestazione nel sapere,
la sua presenza vitale41. Le WL del 1801 e del 180442 offrono due prospettive sulla
questione. Più che trattarsi comunque di due punti vista che partono da posizioni
separate o distanziate fra loro per avvicinarsi ad una stessa questione, esiste fra i due
testi un rapporto di continuità: nel 1804 Fichte riprende la tematica sull’Assoluto a
partire dai risultati della WL 1801. Si tratta di un momento di fondamentale importanza per capire la totalità del pensiero fichtiano43: c’è qualche autore che ha definito
questo momento come un periodo mediano44 della filosofia fichtiana; la questione
sostanziale è comunque che in questo momento Fichte matura quella posizione che
sembrava di una immanenza assoluta della coscienza45 per assumere un punto di
vista che non si identifica neanche in un punto di vista dell’Assoluto, ma nel punto di
unione della coscienza con la sua giustificazione ultima, cioè col suo fondamento.
La tematica dell’Assoluto si pone quindi attraverso la necessità di riunire la pluralità del sapere, che la coscienza finita diversifica, in un solo sapere e che non può
non avere se non un solo principio. E così come entro il limite della finitezza il prin40
Cfr. J. CRUZ CRUZ, J.G. Fichte: Doctrina de la ciencia, traduzione e introduzione, Aguilar,
Buenos Aires 1975; qui, Introducción, p. XXXIII.
41 Id., p. XIII: «El saber finito pulveriza la realidad en sí de las cosas y, al hacerlo, necesita de
una realidad, un esse in mero actu (SW, X, 206), que le dé consistencia».
42 Cfr. J. WIDMANN, Die Grundstruktur des transzendentalen Wissens nach J.G. Fichtes
Wissenschaftslehre 1804, Meiner, Hamburg, 1977.
43 R. LAUTH, Le problème de l’interpersonalité chez J.G. Fichte, «Archives de Philosophie»,
25 (1962), p. 325: «Malgré l’importance de quelques travaux sur la dernière philosophie de
Fichte [Loewe, Gurtwitsch, Guéroult], il règne encore aujourd’hui un préjugé tant du point
de vue de l’histoire de la philosophie systématique, qui identifie purement et simplement la
philosophie de Fichte avec la forme que la WL a trouvée dans la Grundlage de 1794;
l’approfondissement et la nouvelle forme qu’elle a trouvée ensuite viennent, pense-t-on, de
motifs extra-philosophiques, religieux que l’on croit pouvoir ignorer. Cette fausse intérpretation ne rend pas justice à l’intense travail purement scientifique auquel se livra Fichte à
Berlin de 1801 à 1804 pour achever le système de la WL».
44 Cfr., p.e., G. RAMETTA, J.G. Fichte: Privatissimum..., cit., Introduzione, pp. 39 e 69.
45 È l’impressione che causa la lettura della prima WL, in cui è difficile vedere le possibili successive aperture che vengono mostrate da Fichte più tardi negli sviluppi della WL e in alcuni altri
scritti come, ad e., quelli di «filosofia popolare». Perciò come criterio ermeneutico non serve
badare tanto alla distinzione fra periodi e momenti diversi delle opere di Fichte, ma soprattutto
alla sua unità la cui analisi ammette nonostante l’adoperare un criterio genetico, di collegamento
interno delle diverse tesi esposte da Fichte; ma anche il punto di vista della genesi implica l’idea
di unità. D’altra parte le critiche che si possono muovere al sistema della WL nascono anche da
questa prospettiva, giacché prese separatamente alcune sue tesi godono del favore dell’incompletezza riguardo ad una valutazione che potrebbe chiedere il diritto di vera interpretazione.
258
Daniel Gamarra
cipio della WL si erano mostrati allo stesso tempo con validità teoretica e con una
dimensione pratica, anche nell’apparizione della questione dell’Assoluto questi due
motivi si trovano uniti. Se il sapere — nella dimensione finita — è diversificato, lo è
anche la vita, cioè l’attività originaria della soggettività, fondamento del sapere e
della libertà. La prospettiva che spinge Fichte a cercare una spiegazione al di là della
finitezza, ma entro la finitezza, abbraccia pure questi due aspetti; o per meglio dire,
abbraccia l’unico aspetto reale dell’Io: la sintesi di prassi e teoresi, la precedenza
dell’origine prima della divisione dell’attività originaria del soggetto, giacché se il
sapere e la vita si considerano nella loro dimensione finita, la domanda sull’origine
deve mostrare l’istanza di unità di sapere e di vita. Ma la dimensione assoluta della
vita non può che mostrarsi, cioè non può presentarsi apertamente nella sua infinitezza così come essa è, in quanto che il mezzo della sua presenza è la coscienza e la vita
finita. In questo senso si stabilisce in Fichte una dialettica di origine assoluta-apparizione in cui infatti l’apparizione è l’apparire dell’origine ma in quanto apparire; più
esattamente, l’Assoluto si manifesta (Erscheinung, Sicherscheinung). La manifestazione è manifestazione dell’Assoluto come vita e sapere, cioè manifestazione finita:
se la manifestazione fosse infinita, non sarebbe in senso stretto manifestazione ma si
identificherebbe con l’Assoluto stesso nella sua forma originaria di principio; ma
questo implicherebbe che il finito fosse infinito46. La manifestazione è perciò anche
negatività: l’apparire è allo stesso tempo l’essere occulto, ciò che non appare e si
nasconde nell’apparire stesso. Ma come si può vedere anche da queste considerazioni, l’Assoluto, o meglio, la possibilità della sua affermazione, viene data e proposta
in chiave negativa al di là o prima della dialettica manifestazione-nascondimento.
Infatti l’Assoluto viene negativamente trovato, o negativamente affermato, giacché
l’affermazione come tale riguarda il contenuto del concetto oppure l’attività dell’Io.
Questo non può, in prospettiva trascendentale, giungere all’Assoluto in modo affermativo; la ricerca invece dell’unità che lo stesso Io non è capace di dare47, in senso
vero e proprio, alla totalità del reale e del sapere, viene condotta da Fichte attraverso
una via negationis perché l’Assoluto non ammette altra affermazione che la negazione della finitezza. Da qui nasce anche la forza che ha nel pensiero fichtiano la riflessione sull’immagine, e le riflessioni sulla luce e la vita che si manifesta nel finito48.
46
O almeno che il finito si mettesse nella prospettiva dell’infinito e tentasse di capire se stesso
e l’Assoluto da un punto di vista che appartiene soltanto all’Assoluto. Questo potrebbe essere il punto di vista di Hegel; Fichte invece, pur ammettendo un punto di vista unico, cioè
quello trascendentale, non adopera un punto di vista al di fuori del finito e in questo modo si
delinea la possibilità dell’affermazione di una determinata unità di finito e infinito senza
compromettere l’indipendenza della finitezza.
47 Su questo dare possibile (o impossibile) per il soggetto, si gioca buona parte dell’interpretazione del pensiero di Fichte; non posso adesso entrare nella questione, ma in modo molto
generico si potrebbe dire che differisce dal porre e che non ha un senso ontologico ma trascendentale; il dare trascendentale appartiene al soggetto, è a sua completa disposizione, e il
soggetto stesso deve dare essenzialmente, il che sarebbe un darsi, che lo costituisce trascendentalmente.
48 WL 1804, p. 236 (SW, X, 276): «Gewißheit oder Licht ist unmittelbar lebendiges Princip,
also reine absolute Einheit, eben des Lichtes, welche durchaus nicht weiter beschrieben,
sondern nur vollzogen werden kann [...]». Anche, p. 231 (SW, X, 272): «Jetzt erst sind wir
auf einen Charakter des Lichtes gekommen, durch welchen es sich ummitelbar zeigt, als
Eins mit dem oben eingesehenen Sein: die Gewißheit rein und für sich, und als solche».
259
studi
In altri termini, abbondare sull’Assoluto non è che una ermeneutica della differenza
del finito.
La prospettiva del sapere è quindi quella della possibilità della manifestazione:
la realtà in sé, ciò che uno è in sé, appare nell’Io come Io. «Perciò Fichte non ha
adesso inconvenienti nel parlare di Essere puro o di Essere assoluto: essere non come
categoria dell’esistenza percettibile; non come qualcosa di oggettivo, ma come origine del sapere: non un oggetto del sapere, qualcosa che può diventare cosciente, ma la
vita condizionante la totalità del sapere effettivo»49. Perciò, così come aveva dedotto
tutte le azioni necessarie dell’Io a partire dal primo principio della WL, Fichte adesso
si trova davanti al compito di giustificare la totalità del sapere a partire dalla sua origine, utilizzando non il punto di vista dell’origine stessa e in quanto tale, ma quello
della sua manifestazione: si tratta di una nuova genesi del sapere in cui questo appare
come manifestazione dell’origine. E così come la sua manifestazione è tale in quanto
sapere, lo è altrettanto in quanto vita, cosicché il sapere altro non è se non la vita
manifestata come luce. In questo senso le categorie di Vita e di Luce compaiono
all’interno della dialettica della manifestazione, cioè come esplicazioni del rapportodi-immagine dell’essere finito con l’Assoluto. L’Essere come origine è Assoluto; c’è
anche un sapere assoluto che non è l’Essere ma l’Essere implicito nel sapere come
origine e manifestazione; così Fichte ha posto il rapporto con l’Essere non come
qualcosa che corrisponde al mondo empirico, ma come qualcosa che ha a che vedere
con l’Io e con la sua riflessività. L’ascesa alla WL, ai suoi principi, continua ad essere
un compito proprio ed esclusivo del finito, come ascendere riflessivo e libero;
l’Essere originante che è in sé e per sé, non appare come tale nel sapere, ma
quest’ultimo è l’unica dimensione possibile della sua apparizione. In un certo senso è
vero che la visione dell’Essere è limitata alla condizione soggettiva, ma è anche vero
che il contenuto del sapere non è altro che l’Essere: la coscienza è sua immagine,
oppure la presenza dell’Assoluto è immagine, in modo tale che la coscienza è la presenza dell’Assoluto giacché unita ad esso come alla sua fonte ed origine50.
La molteplicità ricondotta all’unità nell’ambito del sapere segna la conquista di
una dimensione ulteriore della soggettività nella sua propria interiorità. E questa
nuova dimensione implica il carattere di autodistinzione reciproca: l’Assoluto non è
l’Io, l’Io non è l’Assoluto. Mentre la presenza dell’Assoluto come sapere assoluto è
la presenza-di-immagine, o l’essere-di-immagine.
2. Assoluto, immagine e apparizione
2.1. La considerazione metafisica dell’immagine
Il problema di Dio in Fichte può essere esaminato nella prospettiva, già prima
49
50
J. CRUZ CRUZ, J.G. Fichte: Doctrina de la ciencia, cit., Introducción, p. XXXIII.
M. IVALDO, L’Assoluto e l’immagine, Studium, Roma 1983, p. 33-34: «[...] siffatta affermazione [dell’Assoluto] non potrà avvenire alla maniera di una presa diretta e immediata
dell’Assoluto stesso, ma alla maniera di una riflessione e radicalizzazione del sapere in
quanto forma, immagine, vivente compenetrazione di pensiero e di vita».
260
Daniel Gamarra
accennata, della dialettica uno-molteplice51, e si tratta di una prospettiva che nella
filosofia fichtiana risulta necessaria. Al tempo stesso, e premettendo la questione
unità-molteplicità, si può giungere al problema di Dio attraverso la considerazione
metafisica dell’immagine52. Ma questo raggiungere il problema di Dio, o porsi in
modo giustificato il problema di Dio, non significa per Fichte dimostrarne l’esistenza
e neanche penetrarne l’essenza. Sia l’uno che l’altro compito non appartengono alla
filosofia trascendentale così come Fichte la concepisce. La questione è invece diversa, ma non meno decisiva.
La questione dell’Assoluto nasce da una istanza di unità e di unificazione radicale del molteplice finito. Il sapere nel finito si rispecchia in modi diversi ma sempre
limitati. L’ascesa verso il primo principio della WL è invece un tentativo di giustificazione dell’unità del molteplice dal punto di vista del sapere, cioè il raggiungimento
dell’unità ha un carattere chiaramente riflessivo. L’Io che si trova «in fondo» al percorso della Dottrina della scienza è allo stesso tempo il principio che la rende possibile. La riflessività è in generale la possibilità di ricondurre, nell’ambito della filosofia
trascendentale, il relativo al suo fondamento, e con ciò viene determinato anche il
modo di procedere metafisico. Questo non può prescindere dalla riflessività dell’Io in
quanto questa è costitutiva della filosofia stessa, o meglio della Dottrina della scienza.
Il problema dell’Assoluto viene anche assunto in questo modo di procedere; il
concetto di immagine come un qualcosa di dipendente da un’altra realtà, per così
dire, principale o superiore, porta con sé l’idea di una discesa: l’immagine è ciò che
riflette ciò che non è immagine ma che semplicemente è. L’immagine esiste se da
una parte c’è qualcosa che rifletta, e se c’è qualcosa che si possa riflettere.
L’Assoluto nella sua manifestazione è immagine, ma l’immagine dell’Assoluto non
viene costituita da una discesa dell’Assoluto verso e fino al finito. Fichte ripete in
molti modi che l’apparizione è apparizione dell’Assoluto, cioè che la manifestazione
è sempre manifestazione dell’Assoluto nella vita dell’Io. Ma ciò che non sempre
spiega è il rapporto esistente fra l’Assoluto e la sua manifestazione53. Dal punto di
vista dei principi della WL e cioè dal punto di vista trascendentale, l’elemento teoretico che viene fuori nel problema dell’Assoluto è quello della discontinuità fra
l’Assoluto e il finito, cioè fra il mondo dell’Io e la dimensione fuori da ogni possibile
oggettivazione. Con ciò ci troviamo nella situazione in cui l’Assoluto si manifesta
come immagine, ma al tempo stesso sembra incomunicabile con ciò in cui si manifesta. D’altra parte, la riflessività dell’Io arriva al limite della molteplicità al di là della
quale dovrebbe esserci il fondamento, ma non c’è esperienza del fondamento e il
primo principio della WL si manifesta come attività finita. L’Io cioè non raggiunge
riflessivamente l’essere dell’Assoluto in quanto tale. Invece ciò che viene da lui raggiunta è l’immagine come condizione dell’apparizione dell’Assoluto; la filosofia
51
Cfr. A. MASULLO, L’uno e i molti nella fichtiana filosofia del soggetto: Individualità, pluralità, comunità, in V. MELCHIORRE (a cura di), L’Uno e i molti, Vita e Pensiero, Milano 1990,
pp. 337-369; e anche, F. MOISO, Unità e identità nel tardo Fichte, ibid., pp. 371-404.
52 Così lo propone anche M. VETÖ, Idéalisme et théisme dans la dernière philosophie de Fichte.
La «Doctrine de la science» de 1813, «Archives de Philosophie», 55 (1992), pp. 263-285; qui,
p. 264. Il suo è comunque un punto di vista che mira soprattutto a slegare la prospettiva metafisica da una meramente storiografica, senza riferimento alla questione uno-molteplice.
53 Cfr. W. JANKE, Fichte. Sein und Reflexion. Grundlagen der kritischen Vernunft, Walter de
Gruyter, Berlin 1970.
261
studi
fichtiana dell’Assoluto è una filosofia della presenza non attraverso la prova diretta
del Dio che crea o agisce nel mondo, ma attraverso la sua affermazione indiretta di
cui l’immagine è il nesso.
Se quindi, da una parte, troviamo in Fichte la necessità dell’affermazione
dell’unità come superamento della molteplicità e del relativo, dall’altra parte, il punto
di vista dell’Io riflessivo si rivela come il costitutivo della WL e perciò come il suo
limite invalicabile: l’Assoluto può entrare in scena dall’Io per il quale non è possibile
trascendersi o annullarsi, cioè arrivare realmente a Dio oppure far scomparire l’atto
proprio dell’Io perché avvenga un atto rivelatore dell’Assoluto stesso.
La considerazione dell’immagine ha quindi una portata metafisica in questo
senso: si tratta di ricavare dall’immagine ciò che a partire dall’immagine è altro e che si
manifesta in essa, ma che allo stesso tempo si trova fuori della portata dell’Io. Da qui
che la questione dell’immagine può invitare alla considerazione dell’immagine in
quanto immagine, del rapporto immagine-essere, e quello di immagine come immagine
di Dio. Ciò che R. Lauth ha denominato höhere Wissenschaftslehre54 indica in un certo
senso il punto di vista sintetico dell’immagine, anche se in senso stretto la dottrina
della scienza superiore non s’identifica con l’immagine, ma consiste soprattutto nel
punto di vista trascendentale in cui si uniscono il momento ascendente verso l’Assoluto
e il punto di vista deduttivo che a partire dal momento supremo dell’ascensione giustifica la totalità del reale55. Comunque il momento più alto della WL, cioè il momento
sintetico, è evidente per se stesso; si tratta appunto di un intuitus che in un certo senso
supera anche il momento riflessivo dell’Io in un atto unico. Ma questo momento, che è
il risultato della riflessione, mostra appunto l’immagine come essenzialmente determinata dalla manifestazione dell’Assoluto e come condizione di possibilità di tale manifestazione. A partire da questo punto superiore in cui l’immagine viene costituita come
evidenza, si può iniziare il movimento di discesa dell’Assoluto verso il finito56.
2.2. Considerazioni sull’Assoluto
L’immagine ha quindi questo ruolo in un certo senso mediale: il che significa,
54
55
Cfr. R. LAUTH, Le problème de l’interpersonalité chez J.G. Fichte, p. 327.
J.M. MANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son «apparition» absolue d’après la «Doctrine du
savoir» de 1812 de Johann Gottlieb Fichte, «Archives de Philosophie», 28 (1965), p. 391:
«Par la Doctrine supérieure du savoir la philosophie transcendentale se convertit en philosophie de la transcendance (selon Fichte, en l’unique philosophie possible de la transcendance), en tant qu’en elle la totalité du réel apparaît possible seulement “en se transcendante”: “à partir de” l’Absolu et “vers” l’Absolu existant».
56 J.M. MANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son «apparition» absolue..., cit. p. 392: «Ce mouvement régressif pourrait être appelé “contemplatio creaturarum sub specie aeternitatis vel
Dei” en opposition au mouvement ascendant: “demonstratio Dei ex creaturis”». Anche se
queste espressioni sono suggerenti e invitano a riflettere su dimensioni metafisiche, sembra
che abbiano in Fichte un carattere quasi metaforico, o che comunque non possono essere
considerate in senso metafisico stretto. In qualche modo la proposta di Fichte rimane sempre nella prospettiva del finito anche se in esso si colga qualcosa dell’Assoluto. Più appropriata sembra invece, se si vuole parlare di elemento metafisico o di punto di vista metafisico, la considerazione metafisica dell’immagine non come elemento puramente funzionale,
ma manifestativo e costitutivo dell’atto dell’Io.
262
Daniel Gamarra
da un lato, presenza dell’Assoluto come manifestazione, e d’altra parte, anche limitazione dell’Assoluto nel finito, considerando che l’immagine non è in senso stretto
una partecipazione ontologica, cioè non è di natura assoluta ma riflette l’Assoluto, ne
costituisce la condizione.
Questa distanza fra l’Assoluto e l’Io era stata messa in rilievo da Fichte prima
ancora che sviluppasse in modo completo la dottrina dell’immagine. Infatti questa
appare, sulla base delle riflessioni del 1801, soprattutto nella WL 1804 e, in modo
assai chiaro e manifesto, più tardi nelle elaborazioni della WL di 1812 e 181357. Ma
la teoria dell’immagine viene sviluppata su un concetto di Assoluto, di sapere assoluto, di luce e di vita che appartiene appunto alla WL 1801. L’analisi di alcuni testi di
Fichte riguardanti questi temi potrà chiarire ulteriormente la posizione dell’immagine
come manifestazione dell’Assoluto.
1. In primo luogo si deve considerare che l’idea che ha Fichte dell’Assoluto è di
una estrema linearità, nel senso che il punto di vista negativo attraverso cui viene
pensato l’Assoluto non lascia spazio ad altra affermazione che non sia la sola assolutezza. Infatti Fichte non caratterizza l’Assoluto se non per il suo essere assoluto,
indicando che ogni qualificazione sarebbe allo stesso tempo una determinazione che
non farebbe altro che togliere il suo carattere indipendente e libero da ogni momento
di relatività; perciò «l’Assoluto non è né un sapere, né un essere, così come neanche
è identità o indifferenza, ma è soltanto ed esclusivamente l’Assoluto»58.
2. La Dottrina della scienza non viene configurata come una scienza
dell’Assoluto, perciò neanche come un sapere assoluto; la WL non può assumere il
punto di vista dell’Assoluto nel suo farsi come scienza prima, in quanto il suo oggetto è se stessa e la sua definizione combacia con la sua realizzazione: il processo di
autogiustificazione della WL è la WL come tale, e non si ha — come accade in Hegel
— un sapere che sia realizzazione (realtà) dell’Assoluto come tale. Ma l’Assoluto
secondo Fichte è forma del sapere, cioè la sua configurazione come sapere è tale solo
in quanto manifestazione dell’Assoluto59.
57
Cfr. J.M. M ANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son «apparition» absolue..., cit.; id., El
Absoluto y la «apariencia» absoluta según la «Doctrina del saber» de J.G. Fichte del año
1812, «Scriptorium Victoriense», 11 (1964), pp. 241-280; id., El ascenso y la determinación
del Absoluto-Dios según J.G. Fichte en la «Teoría de la ciencia» de 1804, «Scriptorium
Victoriense», 9 (1962), pp. 7-63, 245-275; M. VETÖ, Idéalisme et théisme..., cit.; id., Les
trois images de l’Absolu. Contribution à l’étude de la dernière philosophie de Fichte,
«Revue Philosophique de la France et de l’Étranger», 117 (1992), pp. 31-64; G. SCHULTE,
Die Wissenschaftlehre des späten Fichte, Klostermann, Frankfurt 1971.
58 WL 1801, p. 19 (SW, II, 12-13): «Zufördest, welches lediglich darum gesagt wird, um unsre
Untersuchung zu leiten, ist durch den bloßen Begriff eines absoluten Wissens soviel klar,
daß dasselbe nicht das Absolute ist. Jedes zum dem Ausdrucke: das absolute gesezte zweite
Wort hebt die Absolutheit, schlechthin als solche, auf, und läßt sie nur noch in der durch das
hinzugesezte Wort bezeichneten Rüksicht, und Relation stehen. Das absolute ist weder ein
Wissen, noch ist ein Seyn, noch ist es Identität, noch ist es Indifferenz beider, sondern es ist
durchaus bloß und lediglich das Absolute».
59 WL 1801, p. 19 (SW, II, 13): «Da wir aber in der Wissenschaftslehre, und vielleicht auch
ausser derselben in allem möglichen Wissen, nie weiter kommen, denn bis auf das Wissen,
so kann die W.L. nicht vom Absoluten, sondern sie muß vom absoluten Wissen ausgehen.
[...] Vielleicht, daß das absolute eben nur in der Verbindung, in der es aufgestellet ist, als
Form des Wissens, keinesweges aber rein und für sich, in unser Bewußtseyn eintritt».
263
studi
3. La forma del sapere — della WL — è la penetrazione della luce assoluta nella
coscienza finita, cioè il vedere stesso del sapere costituisce nel sapere la luce che
viene dall’Assoluto; ma il punto di vista trascendentale considera questo punto di
luminosità come una istanza superiore o anteriore ad ogni possibile separazione reale
della luce come tale. Il sapere (das Wissen) è l’essere-per-sé (Fürsichseyn) perché è
l’unità superiore in cui non c’è né una istanza puramente interiore o soggettiva e
neanche una istanza esteriore o oggettiva, ma l’intima unità superiore di essere e
sapere, o di libertà e sapere. Questa unità è l’interiore vedere della luce60.
4. Comunque si può parlare di una assolutezza del sapere in quanto s’innalza al
punto di vista superiore, cioè in quanto è ciò che è e perché è: la giustificazione del
sapere a partire da se stesso costituisce un in sé-per sé (in sich-für sich), il darsi di se
stesso che non può essere altro che luce e visione pura61.
Queste dimensioni dell’assolutezza implicano diversi livelli o ambiti. Infatti
l’Assoluto di cui non si può affermare predicativamente nient’altro che non sia la sua
assolutezza, è al tempo stesso l’origine della luce. Ma la luce non viene vista dalla
WL nell’Assoluto, ma è vista nella stessa WL come supremo sforzo di autoriflessione
e autogiustificazione: coll’arrivare della WL al punto primo che giustifica se stessa e
la totalità del sapere, si raggiunge la luce costitutiva della WL, che a sua volta viene
concepita come un certo assoluto, cioè come il vedere assoluto, incondizionato e condizione di possibilità di qualsiasi sapere e forma di coscienza. Ma il vedere assoluto
della WL non è il vedere dell’Assoluto né vedere l’Assoluto come tale. L’Io non raggiunge altro che un punto di vista superiore, trascendentale e unico come origine e
giustificazione del sapere; ma questo punto è assoluto solamente in quanto non giustificato se non da se stesso, in quanto non relativo a nessuna ulteriorità nell’ambito
del sapere. L’Assoluto invece è l’irraggiungibile fonte della luce che viene affermato
come tale dalla luce del principio supremo della WL: si tratta infatti di una affermazione indiretta e per via di condizione. L’Assoluto come condizione della luce finita è
immagine; e quest’ultima come condizione dell’Assoluto mostra che questo solamente è affermabile a partire dal raggiungimento del punto di vista trascendentale.
Il raggiungimento dell’Assoluto quindi non è possesso oggettivo della cosa,
che significherebbe, nella prospettiva di Fichte, una doppia riduzione: da una parte,
l’Assoluto sarebbe considerato nel limite dell’oggettività e perciò gli sarebbe attri60
WL 1801, p. 25 (SW, II, 19): «Nicht das ruhende Seyn ist das Wissen, und eben sowenig ist
es die Freiheit, sagten wir, sondern das absolute sich Durchdringen, und Verschmelzen beider ist das Wissen. Sonach ist eben das sich Durchdringen, ganz davon abgesehen, was sich
durchdringe, die absolute Form des Wissens. Das Wissen ist ein für sich seyn, und in sich
seyn, und in sich wohnen, und walten, und schalten. Dieses Fürsichseyn eben ist der lebendige Lichtzustand, und die Quelle aller Erscheinungen im Lichte, das absolute substantielle
innere Sehen, schlechthin als solches». Un ulteriore chiarimento dell’essenza del sapere
viene dato in WL 1801, p. 26 (SW, II, 20): «Besteht, wie aus dem eben gesagten einleuchtet,
in diesem für sich seyn das eigentliche innere Wesen des Wissens, als eines solchen (als
eines Lichzustandes, und Sehens): so besteht das Wesen des Wissens eben in einer Form
(einer Form des Seyns, und der Freiheit, nemlich, ihrem absoluten sich Durchdringen), und
alles Wissen ist seinem Wesen nach formal».
61 WL 1801, p. 27 (SW, II, 20): «Das Wissen ist in sich, und für sich als Wissen; und durchaus
nur als Wissen. Es ist als Wissen absolut, was es ist, und weil es ist. [...] Es ist daher für sich
absolut und engreift sich selbst und hebt an, als eigentlich formales Wissen, [...] als
Lichzustand und Sehen, nur, inwiefern es absolut ist».
264
Daniel Gamarra
buibile qualsiasi predicato — in grado assoluto — a partire dalla capacità configurativa della ragione; ma il sapere che non sia il sapere supremo della WL è sempre
conoscenza del reale finito e quindi la ragione predicativa non farebbe altro nei confronti dell’Assoluto che “conoscerlo” come qualsiasi altro oggetto di sapere. Questa
equiparazione di oggettività varrebbe di fatto la riduzione dell’Assoluto a qualcosa
di finito: cioè l’oggettività nasce nell’ambito della ragione finita e soltanto in essa
ma, allo stesso tempo, appartiene soltanto alla ragione finita in quanto riferita alla
cosa finita. Da ciò quindi la seconda riduzione e cioè che la considerazione oggettiva dell’Assoluto non sarebbe altro che predicare di esso che è cosa. Se la via invece
intrapresa dalla WL è quella del sapere e della ascesa, attraverso il sapere stesso,
fino al primo principio autoevidente62, ciò che intende fare Fichte è proporre un
punto di vista in cui l’oggettività venga messa al bando: attraverso l’oggettività non
si giustifica, secondo il nostro, il sapere; attraverso essa solo si conoscono “cose”,
cioè il suo ambito è quello delle scienze.
Il sapere del sapere non è quindi oggettivo in questo senso: la WL non ha per
oggetto se non l’assolutezza del sapere, non in quanto riferito ad un oggetto assoluto
ma in quanto non riferito ad altro che non sia l’evidenza del primo principio; se il
principio del sapere è trovato dal sapere dev’essere necessariamente autoevidente
nell’ambito stesso del sapere; e questo ambito di sapere sarà quindi non oggettivo. Se
oltre a ciò è possibile un’affermazione dell’Assoluto come qualcosa di reale, non lo
sarà nella linea dell’oggettività ma in quella della WL, ossia del sapere autofondante.
Con ciò la ricerca dell’Assoluto viene delimitata dalla questione del limite del pensiero, colto nello stesso cogliersi come sapersi, o come sapere di se stesso. Come
abbiamo letto prima, Fichte fa di questo cogliersi del sapere un certo assoluto perché
il primo principio si pone oltre la distinzione di sapere e libertà, cioè come puro
nucleo attivo del soggetto. Sapere e libertà costituiscono in confronto con la attività
fondante una scissione di questa, cioè una determinazione: il sapere si determina
verso l’oggetto e la libertà verso l’agire morale. L’unità dell’atto prima della scissione costituisce il limite ultimo della soggettività e perciò il limite a partire del quale si
pone la questione dell’Assoluto reale. L’Assoluto come infinito non può presentarsi
finitamente e in un certo senso appare come la controforma del limite della WL.
Controforma significa l’esteriorità dell’Assoluto riguardo al sapere e, allo stesso
tempo, la sua implicazione a partire del sapere. L’immagine quindi è la mediatrice
che appartenendo al limite finito evoca l’infinitezza dell’Assoluto come la luce presente nella vita dell’Io63.
62
M. GUEROULT, L’évolution et la méthode..., cit., p. 163: «Par là, nous presentons que si le
Moi comme sujet philosophant est incontestablement représentatif, le Moi comme objet de
la philosophie pourrait bien être quelque chose de plus: l’action première de l’esprit humain
serait le fondement de la répresentation; une science bâtie seulement sur le concept de
représentation ne saurait donc être qu’une propédeutique».
63 J. CRUZ CRUZ, J.G. Fichte: Doctrina de la ciencia, cit., Introducción, p. XXXVI: «El saber
absoluto encerrado en sí mismo, tiene una relación-de-imagen con el Absoluto, y en explicarla estriba la marcha de la Doctrina de la ciencia. El saber absoluto señala al Absoluto
como fundamento originario por encima de sí mismo. El Absoluto sólo es en el saber (Yo
absoluto), pero en tanto que está sobre todo saber».
265
studi
2.3. Apparizione e Assoluto
«Al di fuori di Dio non esiste, realmente e nel vero senso del termine, niente
altro che il sapere: e questo sapere è la stessa esistenza divina, puramente e semplicemente, e nella misura in cui siamo il sapere, noi stessi, nella nostra radice più profonda, siamo l’esistenza divina»64. Queste parole pronunciate da Fichte davanti a un
pubblico non specializzato costituiscono comunque una sintesi di notevole forza
riguardante la questione dell’immagine. Come previamente esaminato, l’accesso a
Dio non ha in Fichte il carattere di una prova della realtà dell’esistenza di Dio in
senso classico65, ma non si tratta neanche, come potrebbe far pensare di primo acchito il testo sopra citato, di un caso di panteismo. L’esistenza divina, di cui parla il
nostro, non ha appunto un carattere metafisico nel senso che si possa pensare che ci
sia identità di essere fra l’uomo e Dio; «siamo l’esistenza divina» significa più precisamente: l’Assoluto si manifesta in noi attraverso il sapere66.
Le parole della quarta lezione dell’AsL hanno un contenuto che Fichte aveva
discusso nella lezione precedente in cui si era proposto — e lo aveva proposto ai suoi
uditori — il compito di «pensare con rigore l’essere»67. In questo ambito Fichte faceva una distinzione di non poca importanza per la questione: fino a quel momento e a
partire dai vari ragionamenti fatti, Fichte aveva pensato l’essere come Uno e non
come molteplice, cioè come «un essere chiuso, nascosto e assorbito in se stesso»68. E
continuava: «ma non giungono (Loro) ancora affatto a un’esistenza, dico a un’esistenza, a una manifestazione e rivelazione di questo essere»69. Lontano da una contraddizione, Fichte propone in questo caso una distinzione che svolgerà un ruolo
chiave nello sviluppo dell’AsL, e cioè quella fra essere ed esistenza. L’essere ha qui
un carattere metafisico chiaro in quanto Fichte lo caratterizza come immutabile ed
eterno70: ciò che prima abbiamo riferito col termine di Assoluto diventa, nelle lezioni
sulla vita beata, l’essere che si trova al di là di ogni singolo mutevole e temporale;
l’Uno concepito quasi in senso neoplatonico, rappresenta nell’ambito di queste lezioni la fonte della vita e della felicità, ma al contempo lo si vede come profondamente
distaccato dal mondo in cui tutto scorre, si muove e scompare. La preoccupazione di
Fichte è quindi riportare questo essere, l’Assoluto, al mondo della vita e alla vita
degli uomini. Ma come affermava nel primo testo citato: al di fuori di Dio non esiste
che il sapere. Con questo indica, da un altro punto di vista, la stessa tesi prima accennata e cioè che il punto di vista trascendentale offre una possibilità di accesso
64
Die Anweisung zum seligen Leben (=AsL), SW, V, 448 (286). Per le traduzioni in italiano,
cfr. J.G. FICHTE, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Guida Editori, Napoli
1989; le pagine di questa edizione fra parentesi.
65 In questa linea casomai si potrebbe pensare ad un’argomentazione da elencare fra i diversi
argomenti ontologici, anche se la distanza riguardo a quest’ultimi delle argomentazioni di
Fichte per quanto si riferisce alla dialettica Assoluto-immagine, Assoluto-manifestazione, è
piuttosto grande.
66 Per un’analisi del concetto di manifestazione (Erscheinung) nell’ultimo Fichte, cfr. i già
citati articoli: M. VETÖ, Idéalisme et théisme..., e J.M. MANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son
«apparition» absolue..., specialmente pp. 402 e ss.
67 AsL, SW, V, 438 (276): «das Seyn scharf zu denken».
68 AsL, SW, V, 439 (277).
69 Ibidem.
70 Cfr. ibidem.
266
Daniel Gamarra
all’Assoluto soltanto attraverso la WL in modo tale che, se ora nella AsL l’Assoluto si
presenta come il Dio, origine della vita e fine della felicità eterna, la questione continua ad essere sostanzialmente la stessa: la questione della felicità, la realizzazione
etica e la pienezza della vita morale dell’uomo hanno a che vedere con Dio in modo
radicale, ma anche e soltanto attraverso la WL.
Ciò che prima era rimasto nascosto era appunto ciò che Fichte stesso dice a suoi
ascoltatori: si è pensato all’essere come ciò che è Uno, eterno e non mutevole; occorre quindi stabilire il nesso fra questo essere e la vita mondana. La risposta viene proposta in chiave metafisica e allo stesso tempo senza abbandonare la chiave trascendentale: l’essere si distingue dall’esistenza. L’esistenza è ciò che ci appare; ciò che
giudichiamo come essere. Fichte fa appello al modo comune di giudicare: giudichiamo che ciò che vediamo è. E proprio questo è l’esistenza: «l’esistenza dell’essere è la
coscienza, o la rappresentazione dell’essere»71. L’apparire esige la fonte che si manifesta, la manifestazione stessa e il qualcuno cui la manifestazione si manifesta. L’esistenza è quindi la manifestazione dell’essere nella coscienza72. La fonte continua ad
essere Dio o l’Assoluto, e la manifestazione è l’immagine. Ma con questo l’essere,
cioè l’Assoluto, diventa esistente73, cioè si manifesta nell’esistenza non come è in sé,
nella sua eternità ed unità, ma nella molteplicità della rappresentazione in modo tale
che ogni giudizio sul mondo non è altro che un giudizio sul Dio manifestato74. Il
limite trascendentale, il percorso giudicativo lungo il limite del pensiero, continua ad
esigere che l’affermazione non abbia come oggetto l’Assoluto ma la sua manifestazione come manifestazione. La totalità di ciò che si manifesta, o meglio, la totalità
manifestata è la totalità dell’esistenza che «deve concepirsi, conoscersi e formarsi
come semplice esistenza, e deve porre e formare di fronte a sé un essere assoluto, di
cui essa stessa è appunto la semplice esistenza: mediante il suo essere essa deve
annientarsi di fronte a un’altra esistenza assoluta; il che presenta appunto il carattere
di semplice immagine, di rappresentazione o di coscienza dell’essere»75.
La manifestazione dell’Assoluto nella coscienza implica la natura riflessiva
dell’Io, oppure detto altrimenti, la riflessività della coscienza continua ad essere attiva davanti all’essere manifestato. La domanda che si pone a questo punto è che se
l’esistenza è l’essere manifestato in modo cosciente, la coscienza stessa deve poter
comprendere in se stessa come possa nascere la manifestazione «e come dall’essere
interno in sé nascosto possa derivare un’esistenza, una manifestazione e rivelazione»
dell’essere76. Ma questa risposta non è possibile. Fichte comunque non si ferma
71
72
AsL, SW, V, 440 (278).
AsL, SW, V, 441 (278-279): «Das Bewusstseyn des Seyns, das Ist zu dem Seyn – ist unmittelbar das Daseyn».
73 AsL, SW, V, 441 (279): «Wir haben sonach, [...] im Denken dazuthun, dass das
Bewusstseyn des Seyns, die einzigmögliche Form und Weise des Daseyns des Seyns, somit
selber ganz unmittelbar, schlechthin und absolut dieses Daseyn des Seyn sey».
74 Wissenschaftslehre 1805 (=WL 1805), F. Meiner Verlag, Hamburg 1984: «Das Licht ist die göttliche Existenz selbst, – wie wir vom Lichte aufsteigend erkennen; vielmehr aber, wie wir nun
einsehen: die göttliche Existenz ist das Licht: und dies zwar also: das Licht ist nicht an sich, die
göttl. Existenz selber, insofern wir eine solche Existenz noch späterhin zugeben werden; sondern
es ist nur die Form, der absolut nothwendige modus existendi der göttl. Existenz [...]».
75 AsL, SW, V, 441-442 (279). Cfr. WL 1805, pp. 54 e ss.
76 AsL, SW, V, 442 (280-281).
267
studi
davanti ad una risposta negativa. Il motivo del perché l’esistenza non possa comprendersi nel suo originarsi nella coscienza sta nel fatto che essa è donazione immediata
ed assoluta, che si trova nel suo esserci come già data in modo tale che non c’è spazio per una ulteriore riflessione cosciente e viva, cioè nell’ambito della pura evidenza: a questo punto la autoevidenza significherebbe che l’Assoluto diventa evidente
nel suo manifestarsi, nel suo darsi, in modo tale da far scomparire la distinzione fra
finito ed infinito, fra coscienza ed essere, fondendosi in una unica esistenza o identità
di unità e molteplicità. La riflessione non può mettere più luce di quanta ne abbia
ricevuta; l’Io non può andare al di là dell’evidenza del sapersi o dell’autocomprendersi come origine della propria attività. La donazione è quindi differenza profonda e
abissale fra l’Assoluto e la coscienza, cioè, la sua immagine77.
Ma la manifestazione dell’Assoluto nel sapere, «questo modo di esistere del
sapere, determinato in maniera immutabile e attingibile soltanto con la comprensione
e la percezione immediata, è la vita interna e veramente reale in esso»78. Cioè, se
attraverso la dimensione riflessiva della coscienza non si può raggiungere l’evidenza
dell’Assoluto, la vita di questo si vive veramente nell’esistenza e al tempo stesso si
può tentar di capire che cosa è questa vita, non dal punto di vista dell’autoevidenza,
ma dal punto di vista essenziale. L’essere reale, cioè non l’esistenza né alcuna immagine dell’essere, non può essere immediatamente conosciuto, e ciò «è stato da noi
chiamato vita»79. Se la manifestazione è l’esistenza dell’Assoluto, niente esiste al di
fuori dell’Assoluto stesso, cioè non c’è più possibilità né di vita né di comprensione
ulteriore o superiore a questo rapporto. La realtà si esaurisce nel limite della manifestazione. La coscienza però non è in grado di cogliere la totalità dell’esistenza e
dell’essere perché non é essa stessa l’Assoluto, ma l’immagine in cui esso si manifesta. Ma il sapere che la coscienza possiede è la sua propria vita che è anche la vita
manifestata; in questo modo «la vita reale del sapere è, nella sua radice, l’essere
interno e l’essenza dell’assoluto stesso, e nient’altro; e tra l’assoluto o Dio e il sapere
nella sua radice vitale più profonda non c’è separazione, ma i due si confondono
completamente»80.
L’itinerario che comincia con l’identificazione del primo principio del sapere
implica, nella filosofia di Fichte, il raggiungimento della comprensione della vita
profonda dell’anima e attraverso essa il raggiungimento della verità radicale del suo
essere, cioè l’immagine che la coscienza trova in sé è una manifestazione
dell’Assoluto, anzi, la manifestazione costituisce la vita della coscienza. La domanda, in un certo senso, eterna della filosofia è quella che si pone anche nel limite della
sua propria comprensione, il che, come unico limite reale, non può essere valicato.
Fichte ha tentato una via che lo ha portato a questa constatazione: l’autoevidenza
della coscienza ha un limite costitutivo; l’alterità assoluta che non entra nella autoevidenza si manifesta come vita profonda e come vita donata.
***
77
78
79
80
Cfr. WL 1805, p. 116.
Ibidem.
AsL, SW, V, 443 (280).
AsL, SW, V, 443 (281).
268
Daniel Gamarra
Abstract: The problem of God, or of the Absolut, in the transcendental philosophy
has not a classical metaphysical character; the position of the problem has an
subjective origin, and in Fichte’s philosophy God appears as a certain last point in
the way of the Wissenschaftslehre. The «doctrine of the science» is the theory of
foundation of the philosophy and of the totality of sciences: Fichte finds its first principle in a subjective and last act of the mind. But in a latter period of his thougth, but
in continuity with its former philosophy, Fichte maintains that the Absolut appears as
an imagine in the conscience: this thesis constitues the possibility of an affirmation
of God from an indirect point of view, perhaps the only possible point of view in transcendental philosophy.
269
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 271/286
Dio nella modernità: Husserl
ARMANDO RIGOBELLO *
Sommario: 1. L’articolazione del discorso; 2. Dio identificato e posto tra parentesi; 3. Il “Logos di
ogni essere possibile”; 4. Costituzione e creatività; 5. Garanzia intersoggettiva e veridicità divina;
6. Il messianesimo della ragione; 7. Considerazioni conclusive.
■
1. L’articolazione del discorso
Il metodo fenomenologico husserliano e il vasto contesto speculativo che ne
consegue costituiscono un punto di vista privilegiato per cogliere e valutare il nucleo
teoretico del pensiero contemporaneo ed in particolare la condizione in cui viene a
trovarsi la Trascendenza divina in tale contesto. La fenomenologia da un lato si pone
come metodo radicale rivolto a trasformare la filosofia in scienza rigorosa, dall’altro
apre il discorso sul darsi immediato che dalle prime evidenze logiche si estende alle
emergenze esistenziali del mondo della vita. In questa duplice e solidale direzione di
ricerca, la fenomenologia esprime efficacemente le due anime che percorrono tanta
speculazione contemporanea: il rigore razionale analitico e la dimensione esistenziale, anime che convergono ed insieme si differenziano di fronte a un tema altrettanto
radicale: il tema del senso. La fenomenologia, in un tempo di incombente nichilismo,
sembra essere l’ultima spiaggia su cui si combatte la lotta del senso ed in cui si mettono alla prova le estreme possibilità della ragione e dell’esistenza di convergere in
un orizzonte che si ponga al di là di ogni cedimento psicologico e morale e che sia
percorso da un’insuperabile istanza di assolutezza. Il tema di Dio, l’interrogativo sul
divino a che livello si situano in tale concezione filosofica? Questo è l’argomento che
ci proponiamo di svolgere nelle pagine che seguono limitandoci alla posizione husserliana che della fenomenologia è la più emblematica espressione. Il discorso si articolerà attorno ai seguenti punti: l’idea di Dio nel contesto dell’attività costitutiva
dell’ego trascendentale fenomenologico; la garanzia intersoggettiva e la garanzia
divina; l’istanza di infinito nel compito teleologico della ragione.
Alla trattazione dei tre aspetti del tema va premessa una considerazione generale che riguarda la compresenza nel discorso husserliano di descrizione eidetica e di
*
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Dipartimento di ricerche filosofiche, via
Cavaglieri, 00173 Roma
271
studi
costituzione egologica, quasi una oscillazione tra la funzione maieutica del vedere,
del cogliere attraverso la radicalità della riduzione, il volto più elementare e più proprio del fenomeno (su cui poi si articolano le “ontologie regionali”) e la funzione
fondante del costituire. Il costituire non si limita infatti a descrivere le intuizioni eidetiche ma ne analizza il costituirsi nell’io. La costituzione è donazione di senso che si
svolge a-priori nel contesto trascendentale dell’io che dona senso riconoscendo e che
lo riconosce donandolo. Le analisi fenomenologiche si fondano appunto nelle evidenze apodittiche dell’ego la cui descrizione non è descrizione di dati emersi
dall’esperienza, ma di contenuti a-priori. Tale a-priori non è, come in Kant, condizione di conoscenze, ma è già conoscenza di articolazioni di senso che costituiscono
le evidenze apodittiche dell’ego. Dalla fenomenologia eidetica si passa così alla fenomenologia trascendentale che ne costituisce la radicalizzazione e in cui si attua la
rivoluzione copernicana di Husserl, il raggiungimento della terra promessa di una
scienza fenomenologica. In tale scienza, cui sono dedicate, tra le altre, le ultime pagine della Quinta meditazione cartesiana, trovano il loro fondamento le operazioni
delle scienze ingenuamente positive: il loro livello non è radicalmente critico e rinviano alle operazioni originarie dell’ego costituente in cui si chiarisce anche l’orizzonte intenzionale.
Ci siamo soffermati su queste considerazioni come premessa al successivo
discorso poiché il passaggio da una fenomenologia eidetica ad una fenomenologia
trascendentale, passaggio che causò il disagio ed indi il distacco dal maestro di alcuni
tra i più noti discepoli di Husserl, da Heidegger ad Edith Stein, condiziona notevolmente il discorso intorno a Dio. Le articolazioni di senso quali evidenze apodittiche
dell’io finiscono infatti per presentarsi come operazioni della vita di un Assoluto
immanente entro il cui orizzonte trascendentale si risolve tutto il senso della realtà.
Siamo di fronte alla versione fenomenologica dell’idealismo trascendentale.
2. Dio identificato e posto tra parentesi
Un noto passo di Ideen ci porta decisamente, pur nella sua brevità, nel cuore
stesso della questione di Dio nella prospettiva fenomenologica-trascendentale. Si
tratta del paragrafo 58, intitolato “La trascendenza di Dio neutralizzata”, del Libro 1º,
sezione seconda, capitolo quarto1. L’argomento si svolge nel contesto della considerazione fenomenologica fondamentale, ossia della “neutralizzazione dell’atteggiamento naturale”. Tentiamo di dare ora una parafrasi e un qualche commento del paragrafo in questione. Husserl inizia il discorso osservando come, operata la messa tra
parentesi del mondo e quindi posta fuori gioco la trascendenza del mondo nei confronti della coscienza ridotta, ci si faccia innanzi il tema di un’altra diversa trascendenza. Questo farsi innanzi non è il presentarsi di un dato immediato di tale coscienza, come invece avviene per l’io puro (dato immediato della coscienza ridotta), ma
giunge alla nostra consapevolezza in un modo che richiede un chiarimento. Va detto
comunque subito che questa diversa trascendenza si situa nel polo opposto alla tra1
E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di
E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, pp. 127-128. Le citazioni che seguono si riferiscono a
questa edizione e traduzione.
272
Armando Rigobello
scendenza del mondo nei confronti dell’io, ossia è la trascendenza di Dio, trascendente nei riguardi dell’io ed insieme del mondo. Husserl, quando scrive queste pagine, ha già operato la “riduzione del mondo naturale all’assoluto della coscienza” e
osserva come tale riduzione abbia messo in luce delle connessioni di fatto (ossia
colte già costituite nella “sfera della visione empirica”), tra percezioni immanenti al
vissuto (Erlebnisse) e i sistemi di regole. Questo insieme di convergenze dà luogo ad
un mondo morfologicamente ordinato, empiricamente rilevabile e che costituisce il
correlato intenzionale della coscienza ridotta e rende possibile le scienze “classificatrici e descrittive”. Questo mondo — continua Husserl — appare come “una natura
fisica sottoposta a leggi esatte”, ciò alla luce della teoresi fisico-matematica e limitatamente agli “stadi inferiori materiali”.
È questo il punto in cui Husserl introduce la considerazione che si riferisce
direttamente al tema dell’esistenza di Dio. Il livello degli accennati stadi inferiori,
materiali, empirici non giustificano la razionalità operante in quel mondo “morfologicamente ordinato”, rimane quindi il problema di dove venga la “mirabile teleologia” che ne guida le manifestazioni. Nel mondo empirico, inoltre, agiscono diverse
forme di teleologia da quelle biologiche che presiedono allo sviluppo dagli elementari organismi fino all’uomo, a quelle che investono la cultura e i valori. Tutto ciò non
può venir spiegato sul terreno naturalistico, ossia con dati di fatto e leggi naturali. La
stessa riduzione fenomenologica porta, al di là del dato e delle dinamiche naturalistiche, alla questione del fondamento nella coscienza costitutiva di quanto appare sul
piano fattuale. Husserl ribadisce in proposito la necessità di un fondamento metanaturalistico e precisa che esso è richiesto non tanto di fronte al fatto in quanto mero
fatto, ma al «fatto come sorgente di possibili e reali valori, crescenti all’infinito». Ciò
«impone la questione del suo (suo del fatto come sorgente di valore) fondamento che
non può avere naturalmente il senso di una causa fisica». La conclusione del passo
investe direttamente ed esplicitamente il nostro tema. Husserl non intende soffermarsi «sul modo in cui la coscienza religiosa può condurre al medesimo principio», né
affrontare la questione sul fondamento razionale di tale modalità. Ciò che invece
interessa, nell’ambito della sua ricerca, è che l’Essere divino extramondano, così
come risulta dalle considerazioni razionali prima accennate, verrebbe ad essere trascendente non solo rispetto al mondo, ma pure nei riguardi della coscienza: «sarebbe
dunque un assoluto in senso totalmente diverso dall’assoluto della coscienza, come
d’altra parte sarebbe un trascendente in senso totalmente diverso dalla trascendenza
nel senso del mondo»2. Questo assoluto totalmente diverso che trascende in forma
totalmente diversa non è oggetto di ricerca fenomenologica: «A questo assoluto —
continua Husserl e con tali parole conclude il paragrafo — trascendente noi estendiamo naturalmente la riduzione fenomenologica. Esso deve rimanere fuori del nostro
campo di ricerca, se questo ha da essere il campo della coscienza pura»3.
Vi è un commento di Lévinas su queste pagine che ne pone in luce le difficoltà
teoretiche: «È difficile prendere sul serio le brevi indicazioni su Dio che Husserl dà
nelle Idee cercando nel meraviglioso gioco delle intenzioni costituenti il mondo in
modo coerente, una prova finalistica dell’esistenza di Dio. La monade invita Dio
2
3
E. HUSSERL, o.c., p. 128.
Ibidem.
273
studi
stesso a costituirsi come senso per un pensiero responsabile davanti a se stessa»4. La
monade è naturalmente l’ego, la coscienza pura fenomenologicamente ridotta, l’ego
costituente. Il giudizio di Lévinas è forse eccessivo, leggendo le parole di Husserl si
avverte comunque che la questione appare per lui marginale, per lo meno sul piano
della ricerca filosofica fenomenologicamente intesa. Al di là delle impressioni sta
comunque il fatto che Husserl ritiene validi gli argomenti finalistici addotti per riconoscere la esistenza di Dio risalendo da una intrinseca teleologia del cosmo e del
mondo della vita umana; certamente è un riconoscimento che si collega inequivocabilmente al di fuori della ricerca fenomenologica. Quest’ultima anzi per procedere
deve mettere tra parentesi Dio. Ateismo metodico, quindi? Più precisamente si
potrebbe parlare di una identificazione della realtà divina e contemporaneamente di
una sua messa tra parentesi.
Per una compiuta intellezione del testo commentato rimane da chiarire il significato dell’espressione “in senso totalmente diverso” che Husserl usa sia per indicare la
differenza tra l’Assoluto e l’assoluto della coscienza, sia la differenza tra il trascendere
di Dio nei confronti del mondo e della coscienza e il trascendere della coscienza nei
confronti del mondo. Quell’assoluta diversità corrispondente all’assoluta separazione
del discorso ontologico-metafisico (in senso tradizionale e realistico) dal discorso
fenomenologico-trascendentale. Da un lato vi è una trascendenza irriducibile
all’immanenza, dall’altro una trascendenza compresa nell’orizzonte intrascendibile
dell’immanenza, ossia quella trascendenza “genuina e vera” dell’intersoggettività
immanente nell’ego trascendentale e che costituisce lo sbocco finale delle Meditazioni
cartesiane. La distinzione può essere formulata in modo concettualmente chiaro,
rimane tuttavia difficile mantenere l’assolutezza della coscienza al di fuori di una considerazione metafisica; è questo l’arduo terreno in cui si situa la ricerca fenomenologica, il livello speculativo in cui consiste la sublime ambiguità della coscienza è ricco di
suggestioni, una ricchezza pagata con una neutralizzazione senza ritorni.
Il paragrafo 58, su cui ci siamo soffermati, ha dato luogo ad un’ampia discussione tra gli interpreti. Come punto di riferimento in tale discussione potremmo citare
due Autori emblematici di due posizioni tra loro divergenti: Landgrebe e Strasser. Per
Ludwig Landgrebe la soggettività trascendentale ponendosi come assoluta toglie
validità speculativa all’idea di Dio che tuttalpiù può essere considerata un correlato
dell’attività costituente propria dell’ego trascendentale, un ego che finisce per colorirsi di panteismo5. Secondo Stephan Strasser invece l’esplicita dichiarazione di
Husserl sulla eterogeneità tra l’assoluto della coscienza e l’assolutezza di Dio, tra la
trascendenza del mondo e la trascendenza di Dio non lascia dubbi sul fatto che Dio
sia concepito da Husserl come radicalmente diverso dalla coscienza trascendentale e
che il suo modo di essere trascendente sia inteso in forma radicalmente diversa dagli
altri modi di considerare la trascendenza6. La diversità della tesi di Strasser da quella
di Landgrebe è tuttavia ridotta se si tiene conto che anche per Strasser l’affermazione
husserliana dell’esistenza di Dio è fatta al di fuori del discorso fenomenologico. La
differenza è più di tono che di ordine speculativo. Per Strasser le poche parole sulla
4
5
6
E. LÉVINAS, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, p. 48.
Cfr. L. LANDGREBE, Phänomenologie und Metaphysik, Hamburg 1949.
Cfr. S. STRASSER, History, Teleology and Gott in Husserl, «Analecta Husserliana», vol. IX,
p. 326.
274
Armando Rigobello
necessità di riconoscere l’esistenza di Dio, sia pure in un quadro speculativo non
fenomenologico, sono di notevole peso ai fini di intendere l’orientamento personale
di Husserl, per Landgrebe esse appaiono marginali. Strasser arricchisce le considerazioni fatte ricordando come altrove Husserl parli di Gott als Idee, un’espressione che
richiama l’ideale kantiano dell’idea di Dio, un ideale ad uso regolativo. In Husserl,
osserva Strasser, non si tratta tuttavia di un ideale regolativo della conoscenza.
Ragione di più per riconoscere come tale idea, nel contesto del discorso husserliano,
non sia tanto una “finzione euristica” quanto una “realtà ultima ed assoluta”, sia pure
inattingibile attraverso un referto fenomenologico7.
Il discorso su Dio nel pensiero di Husserl non si esaurisce nella discussione sul
senso da attribuire alle argomentazioni svolte nel paragrafo 58 di Ideen, ma si estende alla natura dell’Assoluto husserliano e investe quindi il piano fenomenologico
vero e proprio, sia nel senso della attività costitutiva dell’io trascendentale che in
quello della garanzia intersoggettiva che tale attività costituente porta con sé. Ed è su
questi aspetti, già indicati all’inizio di queste pagine, che vorremmo ora soffermarci.
3. Il “Logos di ogni essere possibile”
Si è visto come Husserl nel già ampiamente citato paragrafo 58 abbia sottolineato il “senso totalmente diverso” che si pone tra l’assolutezza di Dio trascendente
secondo la tradizione finalistica e quella che caratterizza l’attività costituente
dell’ego trascendentale. Ma si tratta proprio di un “senso totalmente diverso” oppure
ciò è più una dichiarazione di principio che una nota emergente dalle “cose stesse”?
La chiara distinzione tra livello fenomenologico e livello ontologico rimane valida
anche quando i due livelli sono considerati in termini di assolutezza? Oppure l’assolutezza in quanto tale ontologizza stati di coscienza e operazioni della soggettività? Il
piano fenomenologico, investito da alcunché di assoluto, trova il suo compimento in
una articolazione di strutture conoscitive che finisce per configurarsi come il logos di
ogni essere possibile, come uno schema di ontologia concreta. Cercheremo di chiarire questi aspetti del discorso a partire da alcune pagine della Quinta delle
Cartesianische Meditationen.
Husserl enuncia, delucida, chiarisce le proprie posizioni spesso ritornando su di
esse, tentando di esprimerle con parole diverse, focalizzandone alcuni aspetti, arricchendole di ulteriori sfumature. Tutto ciò indica certamente lo sforzo di chiarire a se
stesso la profondità della propria posizione e, allo stesso tempo, permette di incontrare frequentemente nei suoi scritti dei periodi, degli incisi all’interno dei periodi, che
condensano in poche righe il nucleo centrale del discorso. Spesso vi è solo l’imbarazzo della scelta. Prendiamo l’avvio nella nostra indagine da uno di questi brani emblematici, una pagina del paragrafo 64 della Quinta meditazione cartesiana. «Possiamo
dire — scrive Husserl — che nella fenomenologia a priori trascendentale trovano la
loro origine ed il loro fondamento ultimo (per la ricerca delle loro correlazioni) tutte
le scienze a priori in generale; prese in questa loro origine fanno addirittura parte
7
Cfr. S. S TRASSER , Das Gottesproblem in der Spätphilosophie Edmund Husserl,
«Philosophisches Jahrbuch», 67 (1958).
275
studi
della universale fenomenologia a priori come sue ramificazioni sistematiche»8.
Questa fenomenologia trascendentale a priori presuppone un “a priori universale” e
tale a-priori è indicato subito dopo come il “logos” in cui risiede la condizione di
possibilità nell’intero universo: «Il sistema dell’a-priori si può anche designare come
sviluppo sistematico a priori universale, connaturato all’essenza della soggettività
universale e quindi anche dell’intersoggettività; quest’a-priori è l’universale logos di
ogni essere possibile»9.
Si noti come lo sviluppo sistematico dell’a-priori venga considerato come
costitutivo dell’essenza stessa della soggettività trascendentale; ne discende che tale
soggettività si pone come giustificazione a-priori di tutta la possibilità del reale e
quindi della sua intelligibilità. Ciò porta Husserl a configurare una “ontologia universale” e subito precisa che questa ontologia non va intesa come vuota ontologia formale poiché le sue strutture formali sono condizione di ogni possibile articolazione
della realtà (“tutte le possibilità regionali dell’essere”). «In altri termini — continua
infatti Husserl — la fenomenologia trascendentale pienamente sviluppata sarebbe per
ciò stesso una vera e propria ontologia universale; non però una mera e vuota ontologia formale ma anche tale da comprendere in sé tutte le possibilità regionali
dell’essere secondo tutte le correlazioni che a queste appartengono»10.
Il discorso di Husserl vuole rendere ragione del formarsi di una ontologia concreta attraverso il metodo fenomenologico e perciò sottolinea come il quadro ontologico delineato sia quello che risulterebbe da una fenomenologia trascendentale pienamente sviluppata, connessa direttamente con lo “sviluppo sistematico dell’a-priori
universale” sopra ricordato. Nella considerazione fenomenologica trascendentale
risiede “l’origine e il fondamento ultimo” di ogni conoscenza e ne sono implicite le
linee di sviluppo in ogni sua possibile specificazione (le “regioni” del sapere) secondo la dinamica interna di quel logos che si è visto essere “logos di ogni essere possibile”. Due ulteriori specificazioni arricchiscono l’analisi del contesto che stiamo esaminando. La prima considerazione riguarda il carattere di “universo in sé primo della
scienza con fondazione assoluta” che connota l’ontologia concreta, indicata anche
come “teoria concreta ed universale della scienza” ed inoltre “logica concreta
dell’essere”11. La seconda considerazione, che è conseguenza della prima, sottolinea
come sia possibile in questa “scienza totale dell’a-priori” raggiungere «il fondamento
di una scienza autentica dei fatti e di una filosofia universale in senso cartesiano,
ossia una scienza universale dell’essere di fatto basata su fondazione assoluta. Ogni
razionalità del fatto sta invero nell’a-priori»12. L’affermazione di una scienza dei
fatti resa possibile dal riportare il fatto ad una fondazione assoluta a-priori sembra
delineare processi interni alla vita dell’Assoluto, al di là del progetto cartesiano, un
Assoluto autofondantesi: «La scienza a-priori — continua Husserl — è scienza di ciò
che vale come principio cui deve far ricorso la scienza dei fatti per potere infine ricevere una fondazione di principio. Solo che la scienza a-priori non deve essere ingenua ma derivare dalle ultime fonti fenomenologiche-trascendentali; in tal modo
8 E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane,
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 E. HUSSERL, o.c., pp. 173-174.
276
a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1970, p. 173.
Armando Rigobello
dev’essere conformata in un a-priori integrale fondato su se stesso e giustificantesi in
base a se stesso»13.
A questo punto possiamo fare un primo bilancio sulla concezione di Dio in
Husserl a partire da un esame di considerazioni interne al discorso fenomenologicotrascendentale e non più in sede meta-fenomenologica come nel caso del paragrafo
58 delle Ideen. Gli elementi che possiamo raccogliere dall’analisi fatta possono essere indicati nell’ordine seguente: l’a-priori universale, fondato e giustificato in base a
se stesso, è connaturato all’essere della soggettività trascendentale, origine e fondamento di ogni conoscenza; l’ontologia concreta che discende da tale a-priori contiene a-priori tutte le possibili articolazioni dell’essere, è logos di ogni essere possibile;
la scienza che si sviluppa dall’a-priori universale, proprio della soggettività trascendentale, è logica del concreto che raggiunge il fatto, è scienza dei fatti. Questi elementi investono la nozione di soggettività trascendentale, quella di scienza e i caratteri dell’ontologia. Sulla soggettività trascendentale avremo modo di intrattenerci più
innanzi ponendola in rapporto con l’intersoggettività, ma già fin d’ora possiamo
cogliere in essa la nota dell’assolutezza divina determinata dal suo essere coessenziale all’a-priori trascendentale universale, un a-priori autofondantesi ed autogiustificantesi, che si configura come logos di ogni possibile realtà. Da tale soggettività e da
tale a-priori discende una scienza che richiama direttamente la scienza divina poiché
da un lato la sua validità è completamente garantita a-priori, dall’altro attinge al concreto, fino alla conoscenza rigorosa del fatto individuale. Si pensi a Spinoza per cui
la conoscenza dell’individuale è possibile solo a Dio, oppure alla determinazione
completa dell’individuale che per Kant è possibile solo nel contesto di tutti i giudizi
possibili che si trova soltanto nell’idea di Dio14. L’ontologia, cui perviene la ricerca
fenomenologica nel suo più compiuto sviluppo, ha la concretezza dell’Assoluto, le
sue articolazioni sono quelle di ogni reale possibile, la sua logica è la logica del concreto.
Sarebbe troppo affrettato concludere che la soggettività trascendentale, connaturata all’a-priori universale, è l’equivalente di Dio o dell’idea di Dio. Rimane infatti
aperta la questione della differenza tra il livello fenomenologico e quello ontologicometafisico del discorso, questione che investe pure l’accennata “ontologia concreta”
poiché è da stabilire se tale concretezza fenomenologicamente rilevante lo sia anche
a livello extra-fenomenologico cioè nel contesto di una considerazione realistica.
Una via per addentrarci nell’ardua questione è certamente quella che investe le
13
14
E. HUSSERL, o.c., p. 174.
Spinoza nell’Ethica, propositio XXXI, scholium, afferma che la relazione delle cose con
Dio, la loro dipendenza “secundum essentiam et existentiam”, si può sicuramente dimostrare con argomenti propri della conoscenza per universali (il secondo genere della conoscenza
spinoziana). Tale dimostrazione tuttavia “non ita tamen Mentem nostram afficit, quam
quando id ipsum ex ipsa essentia rei cujuscumque singularis, quam a Deo pendere dicimus,
concluditur”. È interessante notare una certa convergenza tra questa intuizione spinoziana
della cosa singola nella sua dipendenza da Dio e la teoria di Kant a proposito della determinazione completa: la conoscenza adeguata di un singolo oggetto è possibile soltanto se
potessimo investirlo con tutto l’universo dei giudizi possibili, ma la somma di tutti i giudizi
possibili è l’idea di Dio. Solo se potessimo rendere costitutiva e non semplicemente regolativa tale idea potremmo attingere la conoscenza esaustiva del concreto (Kritik der reinen
Vernunft, A 571-584; B 599-612. Sono le pagine sull’ideale trascendentale, libro II, cap. III,
sez. II).
277
studi
modalità con cui la soggettività trascendentale opera, ossia occorre chiarire la natura
della attività costituente. Quale è il vero valore di questa enigmatica parola sospesa,
come la stessa fenomenologia, tra l’apertura sul senso della realtà e il conferimentto
di senso? Poiché lo sviluppo della ricerca fenomenologica comporta lo “sviluppo
sistematico dell’a priori universale”, secondo la dichiarazione di Husserl fatta nel
contesto della pagina appena esaminata, sarà bene situare il discorso entro l’itinerario
tracciato da Husserl stesso: «Nell’ordine, la prima delle discipline filosofiche sarebbe
l’egologia delimitata solipsisticamente, la scienza dell’ego ridotto in maniera primordinale; come seconda verrebbe poi la fenomenologia intersoggettiva fondata
sull’egologia; quest’ultima tratta dapprima le questioni universali per ramificarsi
dopo in varie scienze a priori speciali»15. La nostra attenzione sarà rivolta soprattutto
alla seconda e terza fase dell’itinerario; la prima parte dello sviluppo della ricerca
fenomenologica corrisponde a quella “fenomenologia eidetica” che precede la “fenomenologia trascendentale”. Al passaggio da questa prima fase alla successiva si è
accennato all’inizio di queste pagine a commento dell’articolazione del discorso che
ci proponevamo di svolgere.
4. Costituzione e creatività
«La vita pratica quotidiana è ingenua» afferma Husserl nelle prime considerazioni del paragrafo 64 della Cartesianische Meditationen, ingenua perché nel suo
ambito si sperimenta, si pensa, si valuta, si agisce all’interno di “un mondo già dato”
e gli atti intenzionali vengono compiuti in modo anonimo16. Se dalla vita quotidiana
si passa alla conoscenza del mondo mediante le “scienze positive”, cioè le singole
scienze della nostra enciclopedia del sapere, si perviene soltanto ad una “ingenuità di
ordine superiore”: «La scienza ha la pretesa di giustificare i suoi passi teorici e riposa
sempre sulla critica», però di fatto la sua critica non è radicale e ritiene originarie
operazioni che riposano invece su atti intenzionali a lei sconosciuti. La critica ultima
della conoscenza è invece «studio ed esame delle operazioni originarie, scoperta di
tutti i loro orizzonti intenzionali mediante i quali soltanto può alla fine cogliersi la
portata delle evidenze e valutarsi correlativamente il senso ontico degli oggetti, delle
formazioni teoriche, dei valori e degli scopi»17.
Le operazioni originarie cui si allude sono operazioni costitutive che rilevano in
radice gli orizzonti intenzionali di senso attraverso l’autoesplicazione dell’ego trascendentale. Questa autoesplicazione consiste nella costituzione universale e necessaria delle «forme di un mondo possibile... nell’ambito di ogni possibile forma
d’essere in generale e del suo sistema di gradualità»18. Anche tenendo nel massimo
conto le considerazioni fatte, sarebbe difficile ed affrettato concludere che la soggettività trascendentale connaturata all’a-priori universale equivalga alla nozione di
Dio. Rimane infatti aperta la questione più volte ricordata della differenza tra livello
fenomenologico e livello ontologico-metafisico del discorso, questione che investe
pure l’accennata “ontologia concreta” poiché quella concretezza è sempre relativa al
15
16
17
18
E. HUSSERL, o.c., p. 173.
E. HUSSERL, o.c., pp. 170-171.
E. HUSSERL, o.c., p. 171.
E. HUSSERL, o.c., p. 172.
278
Armando Rigobello
contesto fenomenologico. Si aggiunga anche la altrettanto rilevante questione del
modo in cui il mondo appare alla soggettività trascendentale, un mondo “già dato”.
Questa datità limita la sfera di assolutezza dell’ego trascendentale. «La fenomenologia è idealismo — osserva Husserl nel paragrafo 41 della Quarta meditazione — solo
nel senso di una autoesplicitazione del mio ego come soggetto di ogni possibile
conoscere, condotta nella forma di una scienza egologica sistematica, avendo cioè di
mira ogni senso dell’oggetto essente che deve appunto aver senso per me come
ego»19. Siamo quindi di fronte ad una nuova forma di idealismo trascendentale che
tuttavia si differenzia da quello dialettico della filosofia classica tedesca poiché al
posto della attività creativa vi è quella costitutiva compiuta esplicitazione di senso
(durchgeführte Sinnesauslegung), «condotta su ogni tipo pensabile di essere per me,
come ego, e specialmente sulla trascendenza (che mi si presenta realmente data
dall’esperienza) della natura, della cultura, del mondo in generale. Ma ciò vale quanto dire: rivelazione sistematica dell’intenzionalità costitutiva stessa»20. «La prova di
questo idealismo è la fenomenologia stessa»21.
Tentiamo di riesporre il nucleo centrale del discorso ed avanzare una ipotesi. Il
mondo, per la fenomenologia husserliana è già dato, ma la presa di coscienza del
senso del mondo porta a scoprirne la fonte nell’attività costitutiva dell’ego trascendentale a-priori. Si tratta di un’indagine che dal dato risale alla genesi svelandone il
senso. L’indagine, come si è visto, porta all’attività costituente dell’ego trascendentale assoluto, una intenzionale esplicitazione che investe d’ogni lato ogni aspetto della
realtà. Tutto ciò si svolge entro l’orizzonte coscienziale dell’ego costituente, la sua
realtà è quella della coscienza trascendentale stessa, non ha bisogno di prova alcuna,
si dà con evidenza apodittica. L’ipotesi che avanziamo è che l’ego, la soggettività trascendentale a-priori si presentino impegnati in un’attività costituente perché così
effettivamente appare alla nostra conoscenza soggettiva che risale dalla ovvietà del
mondo quotidiano alle operazioni dell’ego trascendentale. La costitutività ci apparirebbe come creatività e ravviseremmo nell’Assoluto egologico un Dio immanente se
fosse possibile porci immediatamente alla sorgente a-priori invece di avvicinarci ad
essa attraverso un lungo itinerario di riduzione su riduzione, se fosse possibile violare
la neutralità fenomenologica e compiere quell’ “avventura metafisica”, quell’ “eccesso speculativo” contro i quali Husserl mette in guardia all’inizio del paragrafo 60
della Quinta meditazione. All’interno di questa ipotesi anche l’enigma della donazione di senso, che è contemporaneamente esplicitazione e scoperta di senso, verrebbe
chiarito. L’indagine fenomenologica trascendentale di Husserl verrebbe quindi ad
essere una esplicitazione della vita ab intra dell’Assoluto compiuta dal suo interno
stesso da una mente finita, esplicitazione che si rivela compito infinito se considerata
dal punto di vista della soggettività singola, non trascendentale. Questa posizione
potrebbe confluire, sotto alcuni aspetti, nella proposta di Ludwig Landgrebe che ritiene possibile interpretare la posizione husserliana in senso panteistico.
La questione del senso è connessa intimamente a quella sulla costituzione. La
costituzione (Konstitution) è donazione di senso (Sinngebung) ed allo stesso tempo
completa esplicitazione di senso (durchgeführte Sinnesauslegung), raggiunge la
19
20
21
E. HUSSERL, o.c., p. 95.
Ibidem.
Questa frase manca nella traduzione italiana citata.
279
studi
genesi del senso (Sinngenesis). Anche quando Husserl accentua il fatto della donazione non ci troviamo mai di fronte ad una costruzione del senso, ma quasi ad un suo
riconoscimento attivo, intenzionale che approda alla fonte genetica. L’intenzionalità
infatti è movimento verso, ma non vuota direzione, la sua stessa attività è condizionata dalla meta cui tende, il senso che dona ha la sua premessa nella fonte originaria
che è sottesa, oggetto di esplicitazione costitutiva. Nell’Husserl più maturo la costituzione va assumendo l’aspetto di una funzione, una relazione in cui il conferimento e
l’esplicitazione appaiono come due volti dello stesso rapporto. Nonostante ciò non si
può negare che l’operazione costitutiva husserliana rimanga, nel suo fondo, enigmatica. Le alterne accentuazioni sul dono o sulla scoperta, le esitazioni in proposito, l’originalità stessa della nozione non mai completamente portata alla luce fanno della
costituzione il sintomo di una ambivalenza della fenomenologia trascendentale husserliana che discende da quella singolare forma di ontologia senza realtà oggettiva, di
concretezza senza natura che abbiamo già incontrato nelle citazioni dal testo. L’ambivalenza è tra un discorso ipotetico di realtà virtuale (verrebbe quasi da dire) e un
discorso che, in direzione opposta, scaturirebbe dall’“eccesso speculativo” cui si è
accennato sopra. L’ipotesi di un immanentismo a sfondo panteistico decanta l’ambivalenza, conduce in realtà la prospettiva husserliana oltre se stessa, ma può esercitare
una funzione euristica nei confronti del tema che ci siamo proposto, ossia quale possa
essere il ruolo del discorso su Dio nel contesto della speculazione di Husserl. Non
intendiamo dire che Husserl si riveli, in fondo, un panteista, ma che il panteismo
potrebbe costituire una motivata eresia in seno al movimento fenomenologico giunto
al suo maturo livello trascendentale.
5. Garanzia intersoggettiva e veridicità divina
Un ulteriore elemento per individuare e chiarire il ruolo che la concezione di
Dio gioca nella fenomenologia trascendentale husserliana ci viene dalla problematica
iniziale della Quinta Meditazione, ossia dal problema di come superare il solipsismo.
È nota la strada seguita da Husserl per rompere l’isolamento provocato dalla messa
tra parentesi del mondo naturale: la radicalizzazione della riduzione fino al raggiungimento della sfera appartentiva e la conseguente presa di coscienza della sfera
dell’estraneo nella quale si annuncia una presenza singolare e irriducibile alle altre,
quella dell’“alter ego” e successivamente della comunità intersoggettiva. Ci riferiamo
soprattutto ai noti paragrafi 42, 43 e 44. L’itinerario compiuto da Husserl interessa il
nostro tema poiché nel descrivere i modi della “verificazione concordante” con cui il
rapporto intersoggettivo garantisce l’oggettività del mondo, sia pure del mondo come
fenomeno della soggettività, Husserl assume una posizione che in qualche modo può
ricordare le argomentazioni con cui Cartesio toglie l’ipoteca sul mondo oggettivo
facendo ricorso alla veridicità divina. L’osservazione è di Paul Ricoeur nel suo lucido
commento alla Quinta Meditazione22. In realtà l’analogia appare motivata dall’analisi dei testi.
«Io ho esperienza degli altri, come altri che sono, in molteplicità d’esperienze
22
Cfr. P. RICOEUR, E. Husserl. La Cinquième Méditation Cartesienne, in À l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986, p. 198.
280
Armando Rigobello
concordanti e variabili», e più oltre: «in ogni caso io esperisco in me, entro il mio
vivere coscienziale trascendentalmente ridotto, il mondo assieme agli altri; il senso di
questa esperienza implica che altri non siano quasi mie formazioni sintetiche private,
ma che costituiscano un mondo in quanto a me estraneo, come intersoggettivo, un
mondo che c’è per tutti ed i cui oggetti sono disponibili a tutti»23. L’esito speculativo
del discorso è riassunto qualche riga più sotto: «Questo problema si presenta dunque
a tutta prima come un problema speciale, quello dell’esserci-per-me degli altri e
quindi il tema della teoria trascendentale dell’esperienza dell’estraneità, ossia la
cosidetta Einfühlung. Ma subito si vede che l’importanza di una tale teoria è molto
maggiore di quel che sembra a prima vista, in quanto parimenti fonda una teoria trascendentale del mondo oggettivo»24. Dall’estraneità intersoggettiva prende senso
anche un mondo di “oggetti con predicati spirituali”, ossia il mondo della cultura e
dei valori propri della spiritualità. L’avvertire l’alter ego, anzi gli altri dà luogo ad un
rapporto che allarga la sfera della soggettività stessa e rende consapevoli che la soggettività è inclusa in un’intersoggettività, che l’attività costituente dell’ego trascendentale non è isolata intenzionalità di un soggetto e supera anche il calore dell’empatia che, in fondo, è un sentire privato. Il senso del mondo che ci circonda e dei valori
spirituali che in esso fioriscono è garantito dalla consapevolezza di essere inscritti in
un orizzonte trascendentale intersoggettivo. L’intersoggettività è il garante del valore
oggettivo di tutta l’attività intenzionale costituente.
Anche per Cartesio la garanzia dell’esistenza della realtà valida per ognuno è
raggiunta a partire dalle potenzialità speculative implicite nel cogito, ossia mediante
l’idea di Dio che fonda l’esistenza del mondo e che non può ingannarci per la veridicità intrinseca alla propria natura. Si rileggano in proposito le pagine della Quarta
delle Meditazioni Metafisiche di Cartesio: «dal fatto solo che questa idea (l’idea di
Dio) si trova in me, ovvero dal fatto che io esisto, io, che posseggo questa idea, concludo così evidentemente l’esistenza di Dio e l’intera dipendenza della mia esistenza
da lui in tutti i momenti della mia vita, che non penso che lo spirito umano possa
conoscere qualcosa con maggiore evidenza e certezza»25 e subito dopo aggiunge
l’annuncio dell’itinerario che lo porterà a riconoscere l’oggettività del mondo: «E già
mi sembra di scoprire un cammino che condurrà da questa contemplazione del vero
Dio (nel quale tutti i tesori della scienza e della saggezza sono rinchiusi) alla conoscenza delle cose dell’universo»26. Non seguiamo Cartesio nell’esporre il suo itinerario, il criterio che lo guida è comunque formulato immediatamente dopo: «Poiché, in
primo luogo io riconosco che è impossibile che Dio m’inganni, ché in ogni frode ed
inganno si trova qualche imperfezione»27. La soggettività trascendentale interpersonale, la comunità intermonadica di Husserl non sono certo il Dio dell’idea cartesiana;
l’ego husserliano è tuttavia, per sua natura, pure esso veridico. La garanzia, in entrambi i casi, è nella assolutezza, in entrambi i casi si tratta di una garanzia interna al soggetto, interna ed allo stesso tempo diversa dalla condizione di solus ipse da cui parte
l’argomentazione, garanzia interna ma erga omnes. Non è nemmeno il caso di ricordare che il discorso di Husserl si disegna nell’ambito della coscienza trascendentale
23
24
25
26
27
E. HUSSERL, o.c., pp.102-103.
E. HUSSERL, o.c., p. 102.
CARTESIO, Opere; vol. I, Bari 1967, p. 232.
Ibidem.
CARTESIO, o.c., pp. 232-233.
281
studi
ridotta, ambito proprio della fenomenologia, mentre quella di Cartesio conduce direttamente all’ontologia, anzi alla metafisica nel senso vero e proprio del termine.
Analogie e differenze quindi non mancano, ma ha un suo significato comunque il fatto
che l’alterità garante, evinta in entrambi i casi dall’approfondimento dell’ego, sia stata
esplicitamente individuata in Dio da uno dei due pensatori, da Cartesio appunto.
Sebbene il parallelismo tra le due posizioni non sia privo di notevoli difficoltà, le
accennate convergenze vengono a rafforzare l’ipotesi avanzata nel precedente paragrafo sul carattere assoluto, in qualche modo divino, della soggettività trascendentale
ed intermonadica husserliana. Il panteismo implicito nell’orizzonte trascendentale
husserliano ha un qualche antecedente nell’ontologismo implicito nelle articolazioni
del cogito di Cartesio.
6. Il messianismo della ragione
L’ultimo aspetto su cui intendiamo soffermarci riguarda la natura teleologica
della ragione husserliana, il suo compito infinito così come emerge già dalle prime
pagine della Krisis28. Prendiamo l’avvio dal paragrafo 6 dove, delineato un abbozzo di
storia della filosofia moderna, Husserl precisa il compito per la ripresa, dopo la crisi e
la stanchezza speculativa del nostro tempo, mediante il ritorno ad una «fede in una
ragione assoluta che dia senso al mondo, fede nel senso della storia, nel senso
dell’umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibilità dell’uomo di conferire un
senso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale»29. La realizzazione di questo impegno comporta il «portare la ragione latente all’auto-comprensione, alla comprensione delle proprie possibilità e perciò rendere evidente la possibilità, la vera possibilità, di una metafisica — è questo l’unico modo per portare la metafisica, cioè la filosofia universale, sulla via laboriosa della propria realizzazione»30. Si
configura così un «movimento infinito dalla ragione latente alla ragione rivelata e nel
perseguimento infinito dell’auto-normatività». La ragione quindi può presentarsi
latente oppure rivelata, il suo fine è la omnicomprensione, un fine che ha un orizzonte
infinito in cui esplicarsi. La omnicomprensione è sostanzialmente una autocomprensione. Possiamo dire che Husserl ha una fede nel significato positivo, unitario e quindi
razionale implicito nel “mondo della vita”. La filosofia non ha senso fuori di questa
opzione positiva, è una lotta per chiarire questo platonismo di fondo e contro la
regressione di una civiltà e società che perdono la percezione e il senso del valore.
Questa razionalità universale ci deve essere, è postulata con un atto di fede. Proprio
per questa sua presenza postulata, per questo suo situarsi in prospettiva di compito da
realizzarsi come telos, come ideale, la razionalità (nelle sue forme particolari e nelle
sue particolari realizzazioni) è latente o meglio è passata o sta passando da uno stadio
di latenza ad uno di esplicitazione. La ragione è quindi, di fatto, dal punto di vista storico un processo di razionalizzazione, da latente si va facendo rivelata, un processo
che indica un compito infinito. Essa tende alla omnicomprensione, che sarà pure autocomprensione, ed è un tendere aperto, intenzionalmente rivolta ad identificarsi col
28
Cfr. E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di
E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 33-47.
29 E. HUSSERL, o.c., p. 42.
30 E. HUSSERL, o.c., p. 44.
282
Armando Rigobello
proprio ideale, che si configura in qualche modo analogo al kantiano “ideale della
ragione”. Che in Kant ha, come è noto, soltanto un uso regolativo ed è l’idea di Dio.
La razionalità delle scienze positive, nel quadro della prospettiva husserliana
che stiamo esponendo, è una razionalità formale, che chiude i fatti entro le proprie
strutture analitiche, è una efflorescenza feconda della ricerca umana ma è semplicemente un defluire laterale del grande fiume della ricerca filosofica che non dovrebbe
scindersi e ristagnare nelle realizzazioni parziali, ma procedere oltre. La razionalità
che presiede alle singole scienze ed alle tecniche non è la ragione senz’altro, si alimenta essa stessa di una fonte che non esaurisce in sé. La distinzione e le articolazioni sono elementi transitori, storicamente opportuni, ma debbono essere intenzionalmente rivolti a quella unità verso cui procede il filone centrale della ricerca, senza
per questo perdere la loro autonomia operativa. Se la rivelazione potesse essere completa, se la terra promessa potesse essere raggiunta, allora si coglierebbe nella comprensione assoluta l’unità totale e si perverrebbe anche alla umanizzazione totale del
mondo che consiste nella autocomprensione. Questo messianesimo della ragione è di
grande interesse per il nostro tema e vorremmo valutarlo approfondendo l’analisi
della struttura della ragione, colta in itinere. Se, per così dire, sorprendessimo la
ragione husserliana in un momento del processo delineato, ci apparirebbe il tipo di
razionalità propria delle scienze particolari ma entro il quadro unitario e prospettico
della ragione in una pienezza che tuttavia ancora costituisce soltanto un orizzonte
regolativo. Tra la razionalità esplicita ed operante in tutta la chiarezza delle sue articolazioni logiche e la razionalità latente che si appresta alla rivelazione compare
sempre un iato che interrompe una continuità da cui tuttavia non si può prescindere.
Il punto critico della omnicomprensione-autocomprensione caratterizzante la razionalità husserliana sembra essere quindi nell’ardua sutura tra tecniche logiche, proprie
delle scienze particolari, e l’ideale della comprensione totale. Ci si dovrebbe muovere nel più rigoroso razionalismo, ma si parla di ragione nascosta, di ragione rivelata,
di fede e si mobilita lo slancio morale per la soluzione del compito. Una fede, una
passione di unità e di totalità di significato pervadono tutta la prospettiva husserliana,
ma la progressiva razionalizzazione deve sempre combattere contro un regredimento,
un fermarsi al settoriale, insomma contro la perdita di senso. Ed ecco quindi l’appello
alla immagine ed alla forza quasi religiosa di un ideale razionale e regolativo.
Sono proprio rimossi in Husserl quei presupposti “ingenui” che impediscono a
Kant, secondo la critica husserliana, di saldare l’analitica a-priori con l’ideale della
ragione? Che tipo di razionalità potrà essere quella che si realizza nella comprensione
totale? Il rimando ad una razionalizzazione mai compiuta è forse il segno di una trascendenza elusa? Il compito infinito della ragione orientata verso una assoluta comprensione è certamente segnato da una forte tensione religiosa che richiama dinamiche interne alla soggettività-intersoggettività trascendentali, delineate nei precedenti
paragrafi e che qui viene colto in una proiezione temporale di compito storico; di
compito che tuttavia, dato il carattere di infinito che gli è costitutivo, acquista tonalità
messianiche e il cui orizzonte intenzionale richiama una prospettiva escatologica.
Tutto questo accentua il carattere religioso del compito della ragione. L’analogia, sia
pure parziale, con l’ideale regolativo kantiano, d’altra parte, reca un ulteriore elemento per considerare il telos della ragione husserliana un analogo dell’idea di Dio.
Analogia non è identità, le differenze rimangono, rimane tuttavia anche un abbozzo
di ricerca che si apre ad un ridimensionamento delle differenze.
283
studi
7. Considerazioni conclusive
Possiamo raccogliere i disparati elementi di quella che potremmo indicare come
la prospettiva teologica di Husserl, elementi certamente tra loro connessi, ma che non
si possono organizzare in un sistema unitario. Ciò è significativo in un Autore cui
non manca una forte passione sistematica. Da ciò potremmo trarre una prima considerazione: sul terreno strettamente fenomenologico, anche a livello di fenomenologia
trascendentale, il tema di Dio, tema metafisico proprio della filosofia classica, non
occupa un posto di rilievo. In forma esplicita Husserl se ne occupa nel paragrafo 58
di Ideen nei modi e nei limiti che si è cercato di chiarire: un riconoscimento della
validità degli argomenti filosofici ma non fenomenologici dell’esistenza di Dio;
l’estraneità di tale tema alla ricerca fenomenologica.
La nostra ricerca per procedere ha dovuto spostarsi su di un piano diverso: quello della affinità con alcune connotazioni metafisiche dell’idea di Dio. Un discorso su
Husserl contro Husserl o, meglio, oltre Husserl, cioè attribuendo impliciti significati
metafisici a considerazioni che Husserl intende invece mantenere sul terreno rigorosamente fenomenologico. Ciò si riferisce a quanto si è andati dicendo sulla soggettività trascendentale monadica e intermonadica e sulla sua attività costituente, come
pure sulla garanzia intersoggettiva nel superamento del solipsismo ed infine sul compito infinito della ragione. Il problema pregiudiziale rimane tuttavia quello del rapporto tra fenomenologia e discorso metafisico. In proposito la conclusione del paragrafo 64 con cui si chiudono le Meditazioni Cartesiane può recare un ulteriore chiarimento. Avviandosi a terminare il discorso, Husserl sottolinea come il metodo fenomenologico sia incompatibile con quella “metafisica ingenua” che ammette le “cose
in sé”, ma non disconosce le istanze problematiche che hanno dato vita a tale metafisica, sia pure “tra problemi e metodi errati”31. La metafisica compatibile invece con
la fenomenologia è costituita dal plesso problematico che si interroga sui temi “ultimi
e sommi” come quelli della giustificazione dell’esistenza, dell’esistenza autentica,
della morte, della genesi del senso e della storia. Tutto ciò è accolto soltanto “a titolo
ideale di possibilità di essenza”32, cioè come espressione di tensioni ideali di cui possiamo avere referto fenomenologico. Non si tratta di un passaggio dal livello fenomenologico al piano metafisico, ma dell’attenzione a quanto abbia riferimento a temi e
problemi dell’esistenza radicalmente intesa e dell’ulteriore che sempre ci trascende,
attenzione fenomenologica situata nell’orizzonte di senso che la fenomenologia definisce. Si tratta di una metafisica impropria che può più correttamente definirsi fenomenologia delle istanze metafisiche, fenomenologia della coscienza morale e
dell’esperienza religiosa. I caratteri propri della metafisica appaiono invece impliciti
in un’ “auto riflessione universale”: «L’essere in sé primo che precede ogni oggettività mondana e la comprende in sé, è l’intersoggettività trascendentale, la totalità
delle monadi che si articola in diverse forme di comunità»33. Entro l’intrascendibile
sfera monadica appaiono le idee metafisiche ma con la consistenza propria di un
fenomeno della coscienza trascendentale ridotta. Tutto ciò è in piena corrispondenza
con il programma fenomenologico fin dal suo primo configurarsi.
31
32
33
E. HUSSERL, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 174.
Ibidem.
Ibidem.
284
Armando Rigobello
Chiariti i limiti del rapporto che Husserl pone tra fenomenologia e metafisica,
non ci rimane che cercare tra i frammenti di metafisica implicita nella prospettiva
fenomenologica un primo abbozzo di risposta al tema che ci eravamo proposti, ossia
il posto che occupa il problema di Dio nella fenomenologia trascendentale husserliana. Gli elementi su cui ci siamo soffermati presentano tuttavia tra loro notevoli diversità, anzi appaiono eterogenei. Uno, quello sulla struttura finalistica del mondo, infatti è valido purché lo si prenda in considerazione al di fuori della ricerca fenomenologica, un altro, quello del logos a-priori, si colloca tra ontologia e gnoseologia, una
altro ancora fa riferimento alla dinamica della costituzione, una attività ambivalente
tra la scoperta e la implicita creatività. Due ulteriori elementi investono da un lato il
tema delle garanzie conoscitive, dall’altro il compito inesauribile della ricerca come
struttura della razionalità stessa. Questi elementi disparati troverebbero tuttavia reciproche connessioni se potessero convergere in un nucleo dottrinale, quello appunto
della nozione classica di Dio, un nucleo alluso, indicato come orizzonte intenzionale
ma mantenuto nel limbo di una ontologia fenomenologica che non gli permette di
costituirsi nella propria identità speculativa. Se la fenomenologia trascendentale
giungesse alla soluzione del compito in vista del quale Husserl l’aveva formulata, e
attingesse il livello delle verità metafisiche si attuerebbe l’accennata convergenza: il
finalismo cosmico si rivelerebbe parallelo con la teleologia infinita della ragione, il
“logos di ogni essere possibile” si identificherebbe con la mente divina, cadrebbe
l’ambivalenza tra l’attività costitutiva e creatività, la struttura ontologico-metafisica
renderebbe superflua la garanzia intersoggettiva, l’infinito e l’assolutezza non si troverebbero in conflitto con il già dato, col limite, con la finitezza.
Ma Husserl non ha portato il suo discorso fino a questo punto, il suo progetto
fenomenologico non è tramontato in una ontologia e tanto meno in una metafisica di
tipo classico. Ciò non toglie che l’ipotesi di un suo sviluppo in senso teistico abbia un
suo significato speculativo nella valutazione di logiche interne al pensiero moderno e
nel giudizio sulla stessa fenomenologia. Il pensiero moderno ogniqualvolta si articola
a livello di assolutezza non può eludere il problema di Dio comunque lo risolva, e
d’altra parte il problema di Dio pone la ricerca fenomenologica in situazioni limite
ove la singolarità del suo consistere ontologico rivela tutta la sua precarietà. Uno studio intorno all’idea di Dio nella fenomenologia husserliana potrebbe includere anche
un paragrafo sulla fenomenologia della religione, del linguaggio e dell’esperienza religiosa, ma ci siamo limitati alla fondazione speculativa dell’idea di Dio e così pure
abbiamo tralasciato l’aspetto biografico, sulla personale religiosità di Husserl. Un adeguato quadro relativo alla fenomenologia della religione come sviluppo di tematiche
husserliane è stato tracciato da Angela Ales Bello in Husserl. Sul problema di Dio34.
L’Autrice riferisce sul dibattito in corso e sottolinea la rilevanza religiosa della regressione al vissuto originario che la Rückfrage husserliana contribuisce a porre in luce.
Xavier Tilliette, in una breve introduzione alla fenomenologia husserliana, dedica al tema che siamo andati trattando alcune pagine che intitola Digressione teologica quasi a sottolineare la secondarietà dell’argomento nel pur vastissimo ambito della
ricerca fenomenologica di Husserl. Il P. Tilliette si chiede «se la rarefazione del divi34
A. ALES BELLO, Husserl sul problema di Dio, Studium, Roma 1985. Si vedano soprattutto
le pp. 105-137.
285
studi
no nella fenomenologia non sia l’effetto accidentale di una ristrettezza metodica»35.
È da questa ristrettezza che nasce l’idea di una filosofia “come scienza rigorosa”,
un’idea che oggi appare anacronistica, a meno di una radicale trasformazione della
filosofia in formalismo analitico, uno sbocco ben lontano dalla concezione husserliana del filosofare. Il divieto di ogni “eccesso speculativo” discende dalla pregiudiziale
metodologica che isola il divino al di fuori della ricerca.
Eppure è proprio la scelta metodologica della riduzione, della messa fuori gioco
del mondo naturalisticamente inteso, che offre l’opportunità della descrizione di connessioni di senso che richiamano, come si è già accennato, le dinamiche interne della
vita ab intra di un Dio fonte del senso. Ma tutto ciò rimane ad un livello di limbo
ontologico con tutte le ambiguità che questa collocazione comporta, un’ambiguità il
cui fascino spesso discende da un’esperienza di isolamento in un mondo virtuale. Il
periodo con cui si chiude la Quinta Meditazione, dopo aver richiamato il detto socratico del “conosci te stesso” ed aver affermato che la scienza positiva è scienza di ciò
che si è perduto nel mondo, conclude con un programma di ascesi speculativa in
vista di una nuova pienezza di senso, di una salvezza: «Si deve perdere (verlieren) il
mondo mediante l’epoché, per riottenerlo con l’autoriflessione universale (um sie in
universaler Selbstbesinnung wiederzugewinnen)». E termina rileggendo Agostino
alla luce della nuova interiorità: «Noli foras ire, dice Agostino, in te redi, in interiore
homine habitat veritas»36. Questa presa di coscienza di se stessi non è la scoperta di
una fonte interiore di senso più intima a noi che noi stessi, ma un’autoriflessione che
è riappropriazione razionale di quel mondo cui si aveva rinunciato con l’ascesi
dell’epoché. Il presupposto illuministico infatti impedisce all’autocoscienza riconquistata di raccogliersi nell’intimità di ciò che le è “più proprio”.
***
Abstract: In Husserl, God is identified as cause of the teleological order of the
world, absolute and transcendent; but the divine being falls outside the scope of phenomenological study and must be “bracketed”. Husserl insists on a radical distinction between God’s transcendence and that of consciousness. However, the nature of
the difference is unclear. The analysis of transcendental subjectivity manifests a priori grounds or functions which possess a seemingly divine absoluteness: the Logos of
all possible beings, at once universal and concrete, reminiscent of the spinozian and
kantian conceptions of the divine mind; the guarantee of intersubjectivity, analogous
to God’s role as the guarantee of truth in Descartes; and a tension toward omni-comprehension, with religious connotations comparable to those of Kant’s “ideal of reason”. As in the case of the transcendental subject’s role as “constitutive” of meaning,
a role which is ambivalent between “creativity” and mere “dynamic discovery”, the
limits of the phenomenological method preclude a definitive resolution of the ambiguity. The question requires a positive confrontation between phenomenology and
classical metaphysics.
35
X. TILLIETTE, Breve introduzione alla fenomenologia husserliana, a cura di E. Garulli,
Itinerari, Lanciano 1983, p. 124.
36 E. HUSSERL, o.c., p. 175.
286
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 287/313
Dio e la questione dell’essere in Heidegger
LUIS ROMERA OÑATE*
Sommario: Introduzione; 1. L’assenza di Dio; 1.1. L’epoca della notte del mondo; 1.2. La questione di Dio e la questione dell’essere; 2. La natura onto-teo-logica del pensiero metafisico di Dio;
2.1. Il primato della “ratio” e il principio di ragione; 2.2. Il significato dell’oggettivazione; 2.3. Il
Dio non divino; 3. L’altro inizio: verso il Dio divino; 3.1. L’ultimo Dio e il superamento della
metafisica; 3.2. L’essere pensato dalla differenza ontologica; 3.3. L’essere come l’accadere appropriante (l’“Ereignis”); 4. L’apparire di Dio; 4.1. Le dimensioni del pensiero dell’essere e la loro
unità: il “Geviert”; 4.2. Dal sacro ai divini; 4.3. Il Dio di Heidegger.
■
Introduzione
M. Heidegger è un pensatore ad un tempo essenziale ed epocale. Infatti, il pensatore tedesco ha occupato, e occupa tutt’ora, un posto preminente nel pensiero di
questo secolo perché ritorna sulle questioni essenziali di ogni tempo, ripensandole da
una situazione storica assunta in un modo consapevole, il che gli consente di considerarle contemporaneamente in dialogo con la tradizione e con lo sguardo rivolto verso
il futuro. Più in particolare Löwith sottolinea che Heidegger è un pensatore inquietante per i suoi contemporanei per lo stesso motivo per cui lo furono Fichte e
Schelling, cioè perché il suo pensiero è associato a questioni religiose1.
Forse il discusso risultato finale del periplo speculativo heideggeriano, siccome
— prima o poi — finisce per condurre alla questione di Dio, può essere simbolicamente rappresentato nell’immagine dell’“uomo pazzo” che annunzia la morte di Dio
al mercato, nella nota pagina di Nietzsche. Nella lettura che fa di essa Heidegger si
enfatizza, non a caso, l’affermazione con cui il personaggio nietzscheano fa ingresso
nella scena: “cerco Dio!”, mentre il requiem che Nietzsche gli fa cantare è sostituito
da Heidegger con il de profundis. E commenta: «l’uomo pazzo, invece, — come
risulta chiaramente dalla prima parte del passo, e, più chiaramente ancora, per chi ha
orecchie per intendere, dall’ultima parte — è colui che cerca Dio invocandolo ad alta
*
Ateneo Romano della Santa Croce, Piazza di S. Apollinare 49, 00186 Roma
1
Cfr. K. LÖWITH, Heidegger, pensador de un tiempo indigente, Rialp, Madrid 1952, p. 179.
Anche O. PÖGGELER (El camino del pensar en Martin Heidegger, Alianza, Madrid 1986) osserva che il problema di Dio era presente sin dall’inizio del pensiero di Heidegger (pp. 283-291).
287
studi
voce. Un pensatore ha forse qui realmente invocato il de profundis? E hanno udito le
orecchie del nostro pensiero? O continuano ancora a non udire il grido? Il grido continuerà a non essere udito finché non si incomincerà a pensare. Ma il pensiero incomincerà solo quando si renderà conto che la ragione glorificata da secoli è la più
accanita nemica del pensiero»2.
Come non sentire la voce del medesimo Heidegger nel pensatore che cerca
Iddio e canta il de profundis per un Dio che non si trova più, il cui canto solo sarà
capito da un pensiero liberatosi della ratio? Diversamente da Nietzsche, Heidegger
non recita un responsorio (che indica sempre qualcosa di definitivo: requiem aeternam dona ei...) dinanzi alla morte di Dio; lui invoca il salmo dell’uomo che, pieno di
angoscia di fronte all’assenza di Dio, nel profondo del suo cuore brama, mosso
dall’anelito e dalla nostalgia, perché Dio torni a farsi presente (de profundis clamavi
ad te...). Ma, d’altra parte, coincide con Nietzsche sia nella costatazione dello sparire
di Dio, sia nell’identificazione della causa della sua assenza: Dio è morto perché noi
l’abbiamo ucciso. «“Dio è morto”. Questa affermazione non corrisponde a un atteggiamento di negazione e di astio, quasi significasse: “Non c’è alcun Dio”; ma rispecchia invece lo sdegno: “Dio è stato ucciso!”. Siamo di fronte al pensiero cruciale; ma
nello stesso tempo la comprensione si fa ancora più ardua. Sarebbe più facile comprendere il detto “Dio è morto” se significasse: “Dio si è allontanato di sua iniziativa
dalla sua vivente presenza”. Ma che Dio sia stato ucciso da altri, e per di più
dall’uomo, è cosa inconcepibile»3.
Ma forse il pensiero di Heidegger nella ricerca di Dio alla fine si risolve nella
sola indicazione di una possibile via per arrivare a Lui, si conclude cioè nell’anelito,
senza riuscire però a trovare Iddio4; da ciò l’immagine ricordata dell’uomo che canta
il de profundis, che è lamento per l’assenza, anelito e supplica, ma non ancora gioia
per la presenza ritrovata5.
Quattro sarebbero di conseguenza i temi che si presentano alla considerazione
della questione di Dio nel pensiero di Heidegger: 1) l’assenza di Dio nel nostro
tempo, 2) il motivo per cui Dio è sparito, 3) la modalità di pensiero che può cercare il
Dio nascosto e, infine, 4) l’esito del sentiero heideggeriano. A questi quattro punti
allude la presente nota sintetica.
1. L’assenza di Dio
1.1. L’epoca della notte del mondo
Richiamandosi a Hörderlin — l’altro punto di riferimento heideggeriano insieme a Nietzsche nella considerazione del problema di Dio — Heidegger vede la
nostra epoca come un tempo indigente nel quale è calata e si estende la notte del
2
M. HEIDEGGER (=H.), La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in Sentieri interrotti, La
Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 245-246.
3 Ibidem, p. 239.
4 Cfr. J. B. LOTZ, Das Sein nach Heidegger und Thomas von Aquin, in Atti del congresso internazionale «Tommaso d’Aquino nel suo VII centenario», vol. VI, Roma-Napoli, pp. 38-41.
5 Non è nostra intenzione pronunciarci sul problema biografico di Dio in Heidegger, ma soltanto sulle indicazioni teoretiche della sua opera.
288
Luis Romera
mondo. La povertà e l’oscurità che invadono con sempre più intensità tutte le sfere
del momento attuale non riguardano aspetti accessori: «ormai l’epoca è caratterizzata
dall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio” (...). La mancanza di Dio significa che
non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le
cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli
uomini in essa»6. La notte del mondo consiste nella mancanza di quel Dio, che non si
limitava ad essere un elemento culturale insieme ad altri; al contrario, la sua assenza
si annuncia con la mancanza di un fondamento che fonda, in modo tale che veniamo
a trovarci in un’epoca che, mancando il fondamento, «pende nell’abisso»7.
Il momento storico attuale, epigono finale e definitivo dell’epoca moderna, è così
configurato che l’ente si presenta in quanto tale sotto il dominio della tecnica. Alla
domanda sul come “è” oggi in generale l’ente, Heidegger risponde affermando: «quale
esso “è” ci vien detto dal predominio dell’essenza della tecnica moderna, il cui dominio
si manifesta in tutti i campi della vita, come appare dal fatto che si hanno espressioni
caratteristiche come funzionalizzazione, massimo rendimento (Perfection), automazione, burocratizzazione, informazione»8. Nell’epoca della tecnica9 le tracce di Dio si
sono perse, nascoste o dimenticate sotto il predominio della volontà dell’uomo
sull’ente, che rende impossibile il lasciar essere l’ente e l’apparire di Dio.
Ciò nonostante non risiede qui il motivo ultimo dell’indigenza del nostro
tempo: «nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo
gli dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale.
Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più
povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio
come mancanza»10. Nell’assenza di Dio e nella progressiva incapacità di riconoscere
l’assenza come assenza resta legata la sorte dell’uomo in un modo radicale.
Heidegger ritiene che all’interno di questo processo storico di impoverimento diventa
ogni volta più difficile che l’uomo possa trovare lo spazio nel quale raggiungere e
sviluppare la propria essenza11. Riprendendo una delle note che caratterizzano
l’uomo sin da Sein und Zeit (la morte, nella cui anticipazione, operata dal pensiero,
l’uomo diventa consapevole del suo essere) avverte: «il tempo è povero non soltanto
perché Dio è morto, ma anche perché i mortali sono a mala pena in grado di conoscere il loro essere-mortali. Essi non sono ancora padroni della propria essenza. La
morte si ritrae nell’enigmatico»12.
L’assenza di Dio, che si manifesta come mancanza di un fondamento che permette all’uomo di trovare nella storia lo spazio in cui soggiornare nella propria essenza, si costituisce come un processo o destino storico13 che si realizza nell’epoca della
6 H., Perché i poeti?,
7 Ibidem, p. 248.
8 H., La concezione
in Sentieri interrotti, o.c., p. 247.
onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza II, «Teoresi»
(1967), pp. 215-235, qui p. 221.
9 «L’espressione ‘tecnologia’ deve servire come caratterizzazione della metafisica dell’epoca
atomica» (ibidem, p. 221).
10 H., Perché i poeti?, o.c., p. 247. Cfr. P. DE VITIS, Heidegger e la filosofia della religione, in
AA.VV., La ricezione italiana di Heidegger, Cedam, Padova 1989, pp. 181-202.
11 Cfr. H., Perché i poeti?, o.c., p. 249.
12 Ibidem, p. 252.
13 Cfr. ibidem, p. 249.
289
studi
tecnica con la sua definitiva radicalità: «l’essenza della tecnica viene a giorno con
estrema lentezza. Questo giorno è la notte del mondo, mistificato in giorno tecnico.
Si tratta del giorno più corto di tutti. Con esso si leva la minaccia di un unico interminabile inverno. Frattanto, non solo è tolta all’uomo ogni protezione, ma le tenebre
avvolgono l’integrità di tutto l’ente. Ogni salvezza (Heil) è tolta. Il mondo diviene
allora empio (heillos). E così, non solo resta nascosto il Sacro (das Heilige) come
traccia della divinità, ma la stessa traccia del Sacro, la salvezza, sembra dissolta. A
meno che non ci siano mortali in grado di vedere la minaccia della mancanza di salvezza in quanto minaccia»14.
La domanda che in questo contesto emerge con forza e urgenza dinanzi al pensiero suonerebbe così: come mai siamo arrivati alla mancanza di Dio, anzi, all’incapacità di percepire l’assenza come tale? Perché essa costituisce un destino storico in
cui è inserito l’uomo? S’intravede una possibile via d’uscita che permetta di recuperare lo spazio in cui si manifesti il Dio fuggito e dove l’uomo ritorni alla sua essenza?
In Heidegger queste domande puntano verso quel segno che determina il centro del
suo pensiero: l’oblio dell’essere, l’oblio dell’oblio e il bisogno di un pensiero
dell’essere. «E se questo oblio fosse l’essenza nascosta della povertà del tempo della
povertà?»15.
È certo che Heidegger ha manifestato più volte la sua estraneità ad un avvicinamento della filosofia alla teologia, rivendicando il carattere proprio e specifico del
pensiero filosofico16, ma è anche vero che non sono meno frequenti le affermazioni
circa la unicità del suo pensiero: «numerosi sono i sentieri (Feldwege) sconosciuti
che vi conducono. Tuttavia per ogni pensatore ne sussiste uno solo, il suo, quello che
gli è assegnato, sulla cui traccia egli deve muoversi in un costante andirivieni, per
mantenersi in esso come nel proprio, anche se non gli appartiene, e dire ciò che così
gli risulta»17.
Heidegger si manifesta cauto sulla possibilità di un discorso su Dio all’interno
del pensiero dell’essere: «con questa indicazione, tuttavia, il pensiero che rimanda
alla verità dell’essere come a ciò che è da pensare, non intende affatto aver deciso per
il teismo. Esso non può essere teista più di quanto non possa essere ateo. Ma questo
non sul fondamento di un atteggiamento di indifferenza, ma di rispetto dei limiti che
sono posti al pensiero come tale, e precisamente da parte di ciò che gli si dà come ciò
che va pensato, ossia da parte della verità dell’essere»18.
1.2. La questione di Dio e la questione dell’essere
Nonostante le riserve ora riportate, Heidegger è anche esplicito nell’indicare il
14 Ibidem, p. 272.
15 Ibidem, p. 251.
16 Cfr H., Fenomenologia
e teologia, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 3-34. Per
Heidegger la «filosofia cristiana» sarebbe un «ferro di legno» (cfr. H., Introduzione alla
metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 19) o un «cerchio quadrato» (cfr. H., Nietzsche II,
Neske, Pfullingen 1961, p. 132). Per una discussione del rapporto filosofia-teologia in
Heidegger cfr. V. MELCHIORRE, Il linguaggio dell’essere fra filosofia e teologia, in AA.VV.,
Heidegger e la metafisica, Marietti, Genova 1991, pp. 191-222.
17 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 193.
18 H., Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, o.c., p. 303.
290
Luis Romera
modo secondo il quale considera che si deve impostare il problema di Dio: «solo a
partire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partire
dall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla luce
dell’essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola
‘Dio’»19. Perciò si domanda: «ma come può l’uomo dell’attuale storia del mondo riuscire anche solo a domandarsi in modo serio e rigoroso se Dio si avvicini o si sottragga, quando proprio quest’uomo tralascia di pensare anzitutto in quella dimensione in
cui solamente quella domanda può essere posta? Ma questa è la dimensione del
sacro, che rimane chiusa persino come dimensione, se l’apertura dell’essere non è
diradata e, nella sua radura, non è vicina all’uomo. Può darsi che la caratteristica di
quest’epoca del mondo consista nella chiusura alla dimensione di ciò che è integro
(das Heile). Forse questa è l’unica sventura (Unheil)»20.
La connessione tra il problema di Dio e la questione dell’essere consiste nell’antecedenza dell’ultima nei confronti della prima; il che significa che, sebbene il pensiero
dell’essere ancora non possa pronunciarsi su Dio, è imprescindibile e condiziona il riferimento dell’uomo a Dio21. In questo senso è prioritario un pensiero dell’essere in riferimento al sacro, e del sacro rispetto a Dio. «L’etere, nel quale soltanto gli dei sono dei,
è la loro divinità. L’elemento di questo etere, in cui la divinità stessa è presente, è il
sacro. L’elemento dell’etere per il ritorno degli dei, il sacro, è la traccia degli dei fuggiti. Ma chi sarà in grado di rintracciare questa traccia? Le tracce, sovente, sono ben poco
visibili, e sono sempre il retaggio di un’indicazione appena presentita»22.
Si raggiunge lo spazio in cui porre il problema di Dio soltanto nella misura in
cui ci si avvicina al sacro, il che implica pensare prima di tutto l’essere. E, parallelamente, ricuperare lo spazio per l’apparire di Dio suppone contemporaneamente e
inscindibilmente che l’uomo si riappropri della sua essenza: «la salvezza deve venire
da là donde proviene ai mortali la svolta della loro essenza»23. Anche qui il pensiero
deve incamminarsi verso il sentiero che conduce all’essere giacché «il pericolo consiste nella minaccia che investe l’essenza dell’uomo nel suo rapporto all’essere e non
in qualche pericolo momentaneo»24.
19 Ibidem,
p. 303. Ma «l’essere non è né Dio né il fondamento del mondo. L’essere è essenzialmente più lontano di ogni ente e nondimeno è più vicino all’uomo di qualsiasi ente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio» (ibidem, p. 284).
20 Ibidem, p. 303.
21 «Pochi sono coloro che sanno che Dio attende la fondazione della verità dell’essere e quindi
il salto dell’uomo nell’esserci! Si ritiene invece che dovrebbe essere l’uomo che aspetta
Dio. Forse è questa la forma più pericolosa dell’essere-senza-Dio (Gottlosigkeit)» (H.,
Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Gesamtausgabe (=GA), Bd. 65, Klostermann,
Frankfurt a. M. 1989, p. 417).
22 H., Perché i poeti?, o.c., p. 250. «Però questo sacro non è semplicemente il divino di una
“religione” sussistente, in questo caso di quella cristiana. Il sacro non si può in generale stabilire “teologicamente”, perché ogni “teologia” già presuppone lo Theos, il Dio, e questo è
così vero che sempre dove appare la teologia, il Dio ha già cominciato la sua fuga» (H.,
Hölderlins Hymne «Andenken», GA, Bd. 52, pp. 132-133).
23 H., Perché i poeti?, o.c., p. 273. «Per giungere nella dimensione della verità dell’essere in
modo da poterlo pensare, noi, uomini di oggi, siamo tenuti a chiarire anzitutto come l’essere
riguarda l’uomo e come lo reclama. Tale esperienza essenziale ci accade nel momento in
cui capiamo che l’uomo è in quanto e-siste» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 282).
24 H., Perché i poeti?, o.c., p. 272.
291
studi
Ma qui Heidegger fornisce un’indicazione di natura dialettica: perché la salvezza incominci ad annunciarsi è imprescindibile che l’uomo si accosti fino all’esperienza totale dell’assenza di Dio e del fondamento. «Per vedere il pericolo e rivelarlo
occorrono mortali che giungano più rapidamente nell’abisso»25, perché «forse ogni
salvezza che non provenga da dove ha luogo il pericolo, è ancora sventura (Unheil).
Ogni salvezza mediante espedienti (...) non è che vuota apparenza»26. E questo perché se si considera l’essenza degli uomini «essi appaiono più vicini alla non-presenza
(Ab-wesen) perché sono investiti dall’esser-presente (An-wesen), cioè dall’essere,
come è chiaro fin dai tempi più remoti. Poiché l’esser-presente nello stesso tempo si
nasconde, esso è già non-presenza. Pertanto l’abisso (Ab-grund) custodisce e ritiene
tutto»27. L’uomo deve giungere nell’abisso per scoprire i segni che racchiude in sé,
vale a dire, i segni degli «dei fuggiti»28 perché nell’abisso s’intravede quell’esserepresente (l’essere) che si nasconde (non-presenza) al pensiero come espressione della
volontà di dominio.
2. La natura onto-teo-logica del pensiero metafisico di Dio
2.1. Il primato della “ratio” e il principio di ragione
Il richiamo di Heidegger a Nietzsche per fornire una traccia che permetta di
capire il motivo per cui Dio è assente nell’attualità è duplice. Da una parte la mancanza di Dio fa parte del destino intrinseco del pensiero occidentale, destino che per
Nietzsche — come per Heidegger — può essere definito nel suo tratto essenziale con
il termine nichilismo; dall’altra, la mancanza di Dio, proprio in quanto destino, ha la
sua sorgente nella radice del pensiero occidentale, perciò l’annunzio di Nietzsche
segnala e la morte di Dio e i suoi responsabili. Ora, se il pensiero dell’occidente è un
pensiero metafisico che si è contraddistinto — per Nietzsche, come per Heidegger —
in ultima analisi per l’affermazione teoretica di Dio, l’asserzione nietzscheana, nella
lettura di Heidegger, finisce per dire che è la metafisica in quanto tale, cioè come
modalità del pensiero, che ha come destino ed esito finale l’allontanamento di Dio.
Come è possibile che il pensiero che ha avuto la pretesa di essere il pensiero su Dio
sia, nella sua essenza, il pensiero della morte di Dio? Sarà così nella misura in cui il
destino della metafisica, cioè lo sviluppo storico delle potenzialità intrinseche della
sua essenza — inizialmente nascoste —, sia di fatto il destino dell’assenza di Dio.
Per chiarire in modo esauriente il suddetto destino non è sufficiente l’analisi storica,
occorre piuttosto pensare l’essenza della metafisica, da cui derivano le diverse forme
storiche in cui è apparsa e che restava paradossalmente nascosta (non-pensata) alla
metafisica stessa. «Il criterio per un discorso con la tradizione storica è (...) [cercare]
un non-pensato, da cui il già-pensato riceve il suo spazio fontale»29.
25 Ibidem, p. 272.
25 Ibidem, p. 273.
27 Ibidem, p. 249.
«La non-salvezza in quanto non-salvezza ci dà la traccia della salvezza. La
salvezza evoca il Sacro. Il Sacro congiunge il Divino. Il Divino avvicina Dio»(ibidem, p.
296). Cfr. H., Nietzsche I, Neske, Pfullingen 1961, p. 352.
28 H., Perché i poeti?, o.c., p. 249.
29 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 219.
292
Luis Romera
Il pensiero in cammino verso l’essenza non-pensata deve compiere quel passo
indietro (Schritt zurück) che (passando dal derivato all’originario) conduce
nell’ambito, finora non considerato, dal quale l’essenza della metafisica e l’essenza
della verità dell’essere possono essere pensate30.
Da sempre — ritiene Heidegger — la metafisica si è caratterizzata come un
discorso teoretico razionale (è logia) incentrato sull’ente in quanto ente (è ontologia), il quale si conclude con l’emergenza del discorso su Dio (è teo-logia): la
metafisica ha una costituzione onto-teo-logica. «La metafisica è teologia, cioè un
argomentare su Dio, perché Iddio fa parte della questione filosofica»31. La prima e
fondamentale domanda che sorge, qualora si avesse la pretesa di chiarire la mancanza
di Dio, è «la domanda su come Iddio entri a far parte della questione filosofica e ciò
non soltanto nella filosofia dell’epoca moderna, ma nella filosofia in quanto tale»32.
La domanda è bivalente e unitaria ad un tempo, pone in discussione l’ambito in
cui s’impone il problema di Dio e contemporaneamente indaga l’essenza della filosofia stessa, vale a dire, «la questione ‘come pervenga Iddio nella filosofia?’ rimanda
allora alla domanda ‘da dove deriva la struttura onto-teologica dell’essenza della
metafisica?’»33. Porre e discutere questa domanda significa compiere il passo indietro con il quale diventa possibile fare luce sul modo in cui si è pensato Dio nella
metafisica.
Innanzitutto preme a Heidegger mettere in evidenza il significato del termine
logia, che accompagna comunemente la denominazione delle scienze, indicando in
tal modo che l’esercizio del pensiero, che di solito si considera scientifico, è sotto la
formalità di tale logia: «nel suffisso -logia non si nasconde soltanto la logicità nel
senso del discorso conseguenziale, ed in special modo del procedimento predicativo,
che ordina, dirige, assicura e comunica il sapere scientifico. -Logia è rispettivamente
(jeweils) la totalità di una connessione fondante, in cui l’oggetto delle scienze viene
rappresentato e concepito in rapporto al suo fondamento»34.
Logia indica una modalità del pensare — che oggi è diventata la forma più rigorosa e quindi la modalità per eccellenza del pensare — che parte da rappresentazioni
del reale, in cui l’ente è colto nella sua verità tramite la sua oggettivazione ed è
espresso mediante la proposizione. Sulla base delle rappresentazioni, la logia è anche
processo logico che, grazie al discorso conseguenziale, determina le cause-ragioni
che spiegano l’ente oggettivato, per finire con un’immagine completa e sistematica
dell’ente articolata secondo connessioni fondanti che rapportano l’ente al suo fondamento ed è così giustificato e assicurato dal pensiero e per il pensiero. In quanto assicurato dalla ratio l’ente diventa disponibile alla tecnica.
La metafisica in quanto onto-teo-logia risponde alla modalità del pensiero logico: «l’ontologia e la teologia sono ‘logie’, in quanto cercano la spiegazione dell’ente
30
Cfr. ibidem, p. 219. Passo indietro significa problematizzare, partendo da ciò che è stato
pensato, per arrivare nell’implicito non pensato, vale a dire, per giungere alla radice od origine del già-pensato. Cfr. H., Dell’essenza del fondamento e Dell’essenza della verità (in
Segnavia, o.c., pp. 79-157) per il passaggio del concetto di verità come adeguazione (il giàpensato) alla verità come aletheia (il non-pensato originario).
31 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 223.
32 Ibidem, p. 223.
33 Ibidem, p. 224.
34 Ibidem, p. 225.
293
studi
in quanto tale e lo fondano nella totalità. Esse danno ragione dell’essere come fondamento dell’ente. Esse rispondono al ‘logos’ (Rede stehen = lo corrispondono) e sono
essenzialmente logos-conformi, logoiformi; sono cioè la logica del logos»35.
Per Heidegger il carattere logico della metafisica costituisce una sua nota essenziale, già presente sin dall’inizio della sua storia36. Tuttavia, l’autentica natura e la
portata di tale carattere, per quanto riguarda il pensiero dell’ente, dell’essere e, quindi, di Dio, si manifesta esplicitamente soltanto con la modernità. Inoltre, il pensiero
logico, nel senso sopra indicato, come modalità del pensiero scientifico, non limita il
suo campo di applicazione all’ambito delle scienze nel senso stretto; è diventato
invece la formalità del pensiero che domina preponderantemente la cultura occidentale in tutti i campi.
La natura del pensiero logico può essere conseguentemente enunciata in modo
sintetico tramite il “principio di ragione” formulato da Leibniz con l’espressione nihil
est sine ratione. Heidegger ritiene che il principio ora enunciato agiva già da secoli
nel profondo della cultura dell’occidente, e in modo particolare nella metafisica,
anche se solo con Leibniz venne messo in luce esplicitamente37. Il fatto che sia un
principio indica che si riferisce all’elemento fondamentale dell’atteggiamento
dell’uomo di fronte al reale. Infatti, secondo questo principio, si segnala che «l’intelletto umano in quanto tale, ovunque e ogni qualvolta è in attività, mira subito a scovare il fondamento in base al quale ciò che gli capita di incontrare è così com’è (...).
L’intelletto pretende che per le sue asserzioni e per le sue affermazioni si dia una fondazione»38. Nel principio di ragione viene al linguaggio il nostro modo di abitare
sulla terra: «il nostro soggiorno e il nostro andare sulla terra sono ovunque in cammino verso delle ragioni, verso il fondamento (...). Sondare il fondo e fondare determinano tutto il nostro fare e il nostro lasciar stare»39.
Proprio il fatto che ci siano voluti dei secoli perché il principio di ragione fosse
enunciato esplicitamente indica per Heidegger come sia lungo e difficile il cammino
che porta il pensiero verso ciò che gli è più vicino, cioè verso ciò che forma la base
sulla quale si costituisce, cresce e determina il suo destino40. Il principio leibniziano
è un principio del pensiero in quanto svela cosa significhi in generale conoscere e che
cosa si debba ritenere conoscenza valida e verità accettabile. Concretamente il principio è enunciato da Leibniz con altre formule equivalenti con l’espressione sopra
riportata, come quando lo nomina principium reddendae rationis e lo esplicita dicendo quod omnis veritatis reddi ratio potest41.
Il principio di ragione, nel significato che ha in Leibniz e in generale nella
modernità, si ricollega al rappresentare del soggetto, dove “fornire una ragione” indica giustificare razionalmente le rappresentazioni all’io che rappresenta. «Tutto ciò
che si incontra viene presentato, posto in una presenza, rispetto all’io che rappresenta, viene ad esso riportato e ad esso offerto. In conformità al principium reddendae
35
Ibidem, p. 225. In queste pagine Heidegger ha presente soprattutto Hegel, ma la valenza
dell’affermazione ha la pretesa di estendersi a tutta la metafisica occidentale.
36 Cfr. H., La dottrina platonica della verità, in Segnavia, o.c., pp. 159-192.
37 Cfr. H., Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 17.
38 Ibidem, p. 15.
39 Ibidem, p. 28.
40 Cfr. ibidem, p. 18 e p. 42.
41 Cfr. ibidem, p. 47.
294
Luis Romera
rationis, il rappresentare, se vuole essere conoscitivo, deve fornire al rappresentare
stesso il fondamento di ciò che incontra, deve, cioè, renderglielo (reddere)»42.
Ma il principio di ragione, perché principio del pensiero, è anche un principio
dell’ente, giacché «per Leibniz e per tutto il pensiero dell’età moderna, il modo in cui
l’ente ‘è’ poggia sull’oggettività degli oggetti. L’oggettività dell’oggetto per il rappresentare comporta l’essere rappresentato degli oggetti», il che significa infine che
«qualcosa ‘è’, e cioè si dimostra un ente, soltanto se viene enunciato in una proposizione che soddisfa il principio di ragione»43. Secondo la dimensione ontica — e ad
un tempo noetica — il principio è anche esplicitato secondo la formula principium
rationis=nihil est sine ratione seu effectus sine causa44. La tesi del fondamento si
presenta come un principio nella misura in cui determina il riferimento a tutto ciò che
è, accomunando così i termini ratio e causa (nihil est sine ratione, nihil est sine
causa)45, in quanto è ente soltanto ciò che è rappresentato e quindi «la ragione, il
fondamento, è qualcosa che va fornito all’uomo che rappresenta e che pensa»46.
Nell’analisi finora seguita si prepara l’ultimo passo delle riflessioni di
Heidegger intorno al significato del principio di ragione. Tenendo presente che «solo
ciò che si presenta al nostro rappresentare, che ci viene-incontro (be-gegnet) in modo
tale da risultare posto, posato, sul proprio fondamento, vale come qualcosa che sta in
modo sicuro, che sta di fronte, e cioè come un oggetto (Gegenstand)», e quindi che
«soltanto di ciò che sta in questo modo possiamo dire con certezza: esso è»47; allora
all’interno del pensiero rappresentante-fondante si compie il passaggio fino a Dio
come ultima ratio rerum48. «Detto in termini estremi, ciò significa: Dio esiste soltanto in quanto la tesi del fondamento è valida»49, e viceversa50.
2.2. Il significato dell’oggettivazione
Il carattere di logia del pensiero, che fa sì che esso si sviluppi secondo il principio di ragione e che riconduce il che cosa è e il perché è dell’ente alla ratio, determina il modo in cui Dio è entrato nella metafisica, condizionando la modalità del pensare Dio. Per cogliere di quale Dio si tratta occorre ancora soffermarsi sulle conseguenze del carattere di logia del pensiero, il che suppone tornare sul significato
dell’oggettivazione in Heidegger.
«Ogni ente è ora o il reale come oggetto o il realizzante come rappresentazione
oggettivante in cui si costituisce la oggettività dell’oggetto. La rappresentazione
42 Ibidem, p. 47.
43 Ibidem, p. 49.
44 Cfr. ibidem, p.
45. In Tommaso d’Aquino è invece chiara ed esplicita la distinzione tra
causa (piano ontologico) e ragione (piano noetico). Inoltre l’analogia esula dalla visione
della ratio offerta da Heidegger. La modernità come criterio ermeneutico della metafisica
rende impossibile la comprensione delle metafische non razionalistiche.
45 Cfr. ibidem, p. 53.
46 Ibidem, p. 50.
47 Ibidem, p. 55.
48 Cfr. ibidem, p. 54. L’espressione già annuncia il nucleo della critica di Heidegger al Dio
della metafisica: questo Dio è deducibile o spiegabile e, quindi, è controllato dalla ratio.
49 Ibidem, p. 56.
50 Cfr. ibidem, p. 57.
295
studi
oggettivante, rappresentando, subordina l’oggetto all’ego cogito. In questa remissione, l’ego cogito rivela ciò che è in base alla sua attività (la subordinazione rappresentativa), cioè si rivela come subjectum. Il soggetto è soggetto a se stesso. L’essenza
della conoscenza è l’autocoscienza. Ogni ente è dunque o oggetto del soggetto o soggetto del soggetto. In entrambi i casi l’essere dell’ente consiste in una rappresentazione che è un porsi-innanzi-a-se-stesso e quindi in un imporsi. All’interno della soggettività dell’ente l’uomo assurge a soggetto della sua stessa essenza. L’uomo si costituisce nell’in-sorgere. Il mondo si muta in oggetto»51. Oggettivare significa porre qualcosa dinanzi al soggetto (ob-iectum, Gegen-stand) in modo tale che l’ente così posto
resta comprensibile, disponibile e assicurato dal e per il soggetto che rappresenta.
Heidegger interpreta l’essenza del rappresentare in quanto imporsi alla luce della dottrina di Nietzsche della volontà di potenza, la quale costituirebbe lo stato finale dello
sviluppo del rappresentare moderno, manifestando la natura definitiva di ciò che si
contiene nella logia, nella misura in cui l’oggettivare presuppone la decisione che
l’ente vale come ente solo in quanto diventa oggetto per un soggetto. «Il volere (...) è
l’imposizione incondizionata di sé secondo un progetto che ha già posto il mondo
come l’insieme degli oggetti producibili. Questo volere determina l’essenza
dell’uomo moderno senza che egli si renda conto della sua portata, senza che, a
tutt’oggi, possa ancora capire in base a quale volontà — assurta ad essere dell’ente
— questo volere voglia»52.
L’ultima conseguenza è affermata da Heidegger con tutta la sua radicalità:
«questo rapporto fra soggetto e oggetto vale come l’unico ambito in cui si decide in
merito all’ente rispetto al suo essere, in cui si decide, cioè, dell’essere, ma sempre e
soltanto in quanto oggettività dell’oggetto, e mai dell’essere in quanto tale»53 giacché
l’essere è l’indisponibile simpliciter. Il principio di ragione è l’ambito in cui l’essere
in quanto tale non appare, si sottrae, si dimentica. Il primato della ratio che corrisponde alla logia condiziona l’oblio dell’essere54.
L’appartenenza di ratio, onto-teo-logia e oblio dell’essere determina il modo in
cui l’essere si è destinato alla metafisica e condiziona la sua storia. Come è stato
detto, Heidegger conduce la sua analisi seguendo le indicazioni del pensiero moderno
giacché «solo nel mondo moderno tutto ciò comincia a palesarsi come il destino
(Geschick) della verità dell’essere dell’ente nel suo insieme»55. Ovvero, con la
modernità diventa chiaro il sostrato essenziale che guidava sin dall’inizio la storiadestino del pensiero metafisico, in modo tale che, nella misura in cui pensare significa
51 H.,
La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 235. Per Heidegger la storia della metafisica, da Platone a Hegel, ha cercato sempre di ricondurre la verità come aletheia all’antropologia (cfr. H, Beiträge zur Philosophie, o.c., n. 110, pp. 208-222).
52 H., Perché i poeti?, o.c., p. 266, e continua: «la totalità degli oggetti disponibili, che ormai
costituisce il mondo, è sottoposta alla produzione autoimponentesi, è ordinata da questa e
sottoposta ai suoi deliberati (...). Viene così in chiaro, nel corso della metafisica moderna,
l’essenza —a lungo nascosta— della volontà, quale da tempo si andava attuando come
l’essere dell’ente» (id).
53 H., Il principio di ragione, o.c., p. 100.
54 «La metafisica non si interroga sulla verità dell’essere stesso. Perciò, essa non si chiede
neppure mai in che modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo la
metafisica non ha ancora posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibile
alla metafisica in quanto metafisica» (H., Lettera sull’«umanismo», p. 276).
55 H., Perché i poeti?, o.c., p. 267.
296
Luis Romera
rappresentare l’ente in quanto ente (sia come idea, come sostanza, come ente creato o
come oggetto), il «pensiero metafisico è onto-logia e null’altro»56, cioè non è mai
pensiero dell’essere. «La metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così
anche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente»57.
Come oblio dell’essere il pensiero metafisico è un pensiero nichilista e la storia
che sottostà a codesto pensiero è nichilismo: «in ogni fase della metafisica si rende di
volta in volta visibile un tratto della via che il destino (Geschick) dell’essere si traccia
nel seno dell’ente, nelle brusche epoche della verità. Nietzsche stesso spiega metafisicamente il corso della storia occidentale, e precisamente come il sorgere e lo svilupparsi del nichilismo»58.
Nella misura in cui l’epoca moderna è l’epoca della massima sottrazione
dell’essere, in essa si svela totalmente il destino nichilista nascosto della metafisica
occidentale59. Heidegger non ha dubbi circa la vicendevole appartenenza dei termini
onto, teo e logia, affermando che «la metafisica è teo-logia perché è onto-logia. Essa
è questa, perché essa è quella»60. Il che significa che il Dio della metafisica poggia
sul nichilismo.
Il Dio dell’onto-teo-logia è, quindi, il Dio dell’oblio dell’essere, un Dio che è
raggiunto cercando ragioni-fondamenti nell’ambito della ratio oggettivante sottoposta all’io che rappresenta e controllata da lui; un Dio che costituisce perciò la ratio
definitiva, la giustificazione finale, la causa ultima (Ur-sache), l’Ente sommo61.
2.3. Il Dio non divino
Come entra Dio nella filosofia? Di quale Dio si tratta? Nella metafisica
«l’essere, come fondamento del fondato, abbisogna di una fondazione adeguata,
cioè della causa prima. Questa causa è data come Causa sui. Così suona nella filosofia il nome adeguato per Iddio»62. Il Dio della metafisica si viene a trovare rinchiuso nei limiti della ratio, così diventa un oggetto assicurato dalla ragione e rap56 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 192.
57 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 276. L’interpretazione
heideggeriana della metafisica
è stata fondatamente contestata da più parti: cfr. W. BEIERWALTERS, Martin Heidegger. La
sua tesi dell’oblio dell’essere messa in dubbio dal pensiero neoplatonico, in AA.VV.,
Identità e differenza, Vita e Pensiero, Milano 1985, pp. 365-378; C. FABRO, Partecipazione
e causalità, SEI, Torino 1960; idem, Tomismo e pensiero moderno, PUL, Roma 1969; idem,
Dall’essere all’esistente, Morcelliana, Brescia 1957, pp. 335-419; M. BERCIANO, La crítica
de Heidegger al pensamiento occidental, UPS, Salamanca 1990, pp. 45-46.
58 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 192. «In nessun luogo troviamo questa
apprensione (Erfahren) dell’essere stesso. In nessun luogo incontriamo un pensatore che
pensi la verità dell’essere stesso e quindi la verità stessa come essere (...). La storia
dell’essere ha inizio, e certo necessariamente, con l’oblio dell’essere (...). L’essenza del
nichilismo risiede nella storia, in virtù della quale, nell’apparire stesso dell’ente come tale
nel suo insieme, ne è nulla dell’essere come tale e della sua verità» (id., p. 242).
59 Cfr. H., Il principio di ragione, o.c., pp. 98-99.
60 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 226.
61 Cfr. ibidem, pp. 224-226, anche H., Nietzsche II, o.c., pp. 342-347.
62 Ibidem, p. 234. È ovvio che la ricostruzione storica di Heidegger sembra alquanto sommaria.
297
studi
presentato come il supra-ente, auto-causa e fondamento-ragione ultima fornito dalla
ragione a se stessa63.
Heidegger avverte che del pensiero che si muove secondo il principio di ragione
«fa parte anche l’assicurazione che qualcosa è inspiegabile. Con simili asserzioni crediamo di stare davanti al mistero, come se fosse pacifico che la verità dell’essere
possa essere fatta poggiare su cause e ragioni esplicative o, che è lo stesso, sulla sua
inafferrabilità»64. Il Dio della metafisica (anche quando lo si crede l’ineffabile) sarebbe sottomesso al primato del pensiero dell’ente in quanto l’onto-logia parte dall’ente
in generale e cercando il suo fondamento — senza pensare l’essere — diventa teologia arrivando all’ente supremo e causa ultima. «Nell’unità dell’ente in quanto tale,
in generale e supremo, si fonda la concezione essenziale della metafisica»65.
Per Heidegger la problematicità del Dio della metafisica affiora non appena si
guardano le cose dalla prospettiva della religione: «dinnanzi ad un tale Dio l’uomo
non può né pregare, né tanto meno offrire sacrifici. Dinnanzi alla Causa sui l’uomo
non può porsi in ginocchio riverente, né tanto meno far cantare e danzare il suo
cuore. Conseguentemente il pensare a-teo, che deve rinunciare al Dio della filosofia,
cioè alla Causa sui, è forse più vicino al Dio divino (dem göttlichen Gott). Questa
espressione vuol significare soltanto che un tale pensare è più libero (più disponibile)
per Lui di quanto la Onto-teo-logia non sia disposta ad ammettere. Possa una tale
osservazione rischiarare quel cammino, nel quale un pensare è in via; quel cammino
che il passo indietro vien tracciando: al di là della metafisica nella essenza di essa, al
di là dell’oblio della differenza»66.
Dalle premesse ora accennate Heidegger trae la sua conclusione teoretica: «la
metafisica è onto-teologia. Chi conosce la teologia nel suo maturarsi storico, sia quella della fede cristiana, sia quella della filosofia, preferisce oggi, nell’ambito del pensare, tacere su Dio. Difatti il carattere onto-teologico della metafisica è diventato
discutibile per il pensare, non a motivo di qualsiasi ateismo, ma a motivo dell’esperienza di un pensare, al quale, nella onto-teo-logia, si è affacciata la prospettiva di
una unità dell’essenza della metafisica, non ancora pensata»67. L’esperienza di un
pensare più originario di cui ci parla il limite della metafisica informa, inoltre, del
motivo dell’assenza di Dio. Detto in altre parole: «l’ultimo colpo contro Dio e contro
il mondo sovrasensibile consiste nel misconoscere Dio, l’ente dell’ente, assumendolo
come supremo valore. Il colpo più duro contro Dio non consiste nel ritenerlo inconoscibile, nel provare la indimostrabilità della sua esistenza, ma nell’innalzarlo a supremo valore. Questo colpo non viene inferto da coloro che stanno a vedere e non credono in Dio, ma dai credenti e dai loro teologi che parlano del più essente degli enti
senza mai impegnarsi a pensare l’essere stesso e senza quindi rendersi conto che quel
parlare e questo pensare, considerati in base alla fede, sono la pura e semplice
bestemmia di Dio, una volta mescolati alla teologia della fede»68.
63
«Un Dio che per prima cosa deve provare la propria esistenza è in fin dei conti un Dio
molto poco divino, e provare la sua esistenza risulta al massimo un atto blasfemo» (H.,
Nietzsche I, o.c., p. 366).
64 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 273.
65 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 227.
66 Ibidem, p. 234.
67 Ibidem, p. 223.
68 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., pp. 238-239.
298
Luis Romera
Tacere su Dio, non ripetere la bestemmia di Dio, non significa in Heidegger la
rinuncia al problema di Dio; vuol dire invece che il compito che ha la filosofia oggi è
quello di tornare sulla questione dell’essere e, in essa, risalire alla questione
sull’uomo per disporsi alla questione di Dio. Nell’epoca della massima sottrazione
dell’essere e dell’assenza di Dio Heidegger vede l’uomo smarrito, fuori e lontano di
casa. La spaesatezza (Heimatlosigkeit) sperimentata dall’uomo che riflette riguarda la
propria e più intima essenza, perché per Heidegger la patria del soggiorno storico
dell’uomo è la vicinanza all’essere. «In questa vicinanza si compie, se mai si compie,
la decisione se e come Dio e gli dei si neghino e resti la notte, se e come il giorno del
sacro albeggi, se e come nell’albeggiare del sacro possano cominciare di nuovo ad
apparire Dio e gli dei. Ma il sacro, che solo è lo spazio essenziale della divinità, che
sola a sua volta concede la dimensione per gli dei e per Dio, giunge ad apparire solo
se prima, dopo lunga preparazione, l’essere stesso viene a diradarsi ed è esperito
nella sua verità. Solo così comincia, a partire dall’essere, il superamento di quella
spaesatezza, in cui non solo gli uomini, ma l’essenza dell’uomo stanno vagando»69.
Come più volte è stato sottolineato, Heidegger non ha fretta nel parlare di Dio,
prima occorre arrivare al luogo in cui si dischiude il sacro e diventa possibile l’apparire del Dio divino. Per portare a compimento tale desiderio abbiamo bisogno di pensare l’essere superando l’oggettività che sottoponeva l’ente all’io, in modo tale che si
riconosca e si rispetti il carattere di indisponibilità dell’essere; solo così ci si avvicina
alla sacralità.
3. L’altro inizio: verso il Dio divino
3.1. L’ultimo Dio e il superamento della metafisica
Il Dio divino verso il quale tende il pensiero di Heidegger si prospetta necessariamente come l’opposto del Dio della metafisica. Non a caso ha voluto Heidegger
intitolare la sezione VII dei Beiträge zur Philosophie con le parole: “L’ultimo Dio”,
che sono accompagnate dal sottotitolo: “il completamente Altro contro i passati,
soprattutto contro quello cristiano”70. Devono essere superati tutti i modi metafisici
di pensare Dio e Heidegger non esita a ricondurre il Dio della teologia cristiana alla
metafisica e quindi ad esigere il suo superamento71: «l’ultimo Dio ha la sua più unica
69 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 291.
70 H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 403.
71 Cfr. lo studio di Regina sul problema di Dio
nei Beiträge zur Philosophie, dove ritiene che in
questo testo Heidegger parla del cristianesimo come pensiero teologico ridotto al platonismo
e questo al soggettivismo, mentre, sempre secondo Regina, non esisterebbe a priori un’opposizione tra il Dio cristiano non teologizzato e l’ultimo Dio di Heidegger. Piuttosto i titoli
“tutt’Altro” e “l’ultimo Dio” starebbero a significare l’impossibilità di arrivare a lui con il
pensiero calcolante. (U. REGINA, I mortali e l’ultimo Dio nei Beiträge zur Philosophie, in
AA.VV., Heidegger, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 165-198). Molto più critico si manifesta
L. PAREYSON, Heidegger: la libertà e il nulla, «Annuario filosofico», 5 (1989), pp. 9-29.
Pöggeler ritiene invece che il modo giudaico, cristiano e greco di pensare il divino sono il
“già-stato” che obbliga a passare attraverso l’esperienza nietzscheana della morte di Dio perché il nuovo Dio pervenga (El camino..., o.c. p. 209). Cfr. H., Nietzsche II, o.c., p. 29.
299
studi
unicità e si mantiene fuori di quella determinazione calcolante che è pensata nei titoli
“mono-teismo”, “pan-teismo” e “a-teismo”. Il “monoteismo” e ogni forma di “teismo” esiste dalla “apologetica” giudaico-cristiana, la quale ha come presupposto speculativo la “metafisica”. Con la morte di questo Dio cadono tutti i teismi»72.
La posizione che assume Heidegger nei confronti della storia della metafisica
(come sviluppo del nichilismo legato al principio di ragione) lo porta a tentare un
nuovo inizio per il pensiero con il quale inaugurare una nuova storia grazie all’apparire di un nuovo Dio, l’ultimo Dio, il Dio divino. «L’ultimo Dio non è la fine, ma l’altro
inizio delle smisurate possibilità della nostra storia. Per amor suo è permesso alla storia che c’è stata finora di non finire, ma deve essere portata fino alla sua fine»73.
Per allontanare la propensione a pensare Dio metafisicamente e rientrare nella
storia della metafisica, Heidegger sottolinea tre caratteristiche del Dio a cui si riferisce: 1) l’ultimo Dio non è la fine ma il più profondo principio (der tiefste Anfang),
2) tale Dio si sottrae a qualsiasi calcolo (Rechnung), cioè a quella razionalità dove
tutto torna e resta chiaro e fondato per la ratio, e 3) l’ultimo Dio ci chiama con un
cenno (Wink), non si manifesta in un modo palese all’uomo. Con lo stesso scopo
adopera spesso il termine “gli dei” per indicare, da una parte, l’indisponibilità
dell’ultimo Dio da parte della ratio e quindi l’opposizione di questo Dio all’ente
supremo della metafisica; e, dall’altra, la ricchezza di un Dio che in qualche modo è
coinvolto nella storia, come si dirà74.
Ma anche qui il primo passo del nuovo inizio verso l’ultimo Dio riguarda
l’essere: «l’essere sussiste come il “fra” per Dio e l’uomo, ma in modo tale che questo spazio intermedio (Zwischenraum) disponga (einräumt) alla possibilità essenziale
per Dio e l’uomo»75. Per Heidegger l’essere non si trova né sopra né sotto “gli dei”,
il rapporto dell’essere con il divino è di natura diversa, ma è tale da potersi affermare
che «gli Dei hanno bisogno dell’essere», «gli dei si servono dell’essere»76, per il loro
apparire (non soltanto nel senso di apparire alla coscienza umana, ma nel significato
che ha in Heidegger il termine apparire o farsi presente, cioè come anwesen).
3.2. L’essere pensato dalla differenza ontologica
Per trarre l’essere dall’oblio e pensarlo nella sua verità Heidegger identifica
come strada percorribile dal pensiero quella che conduce al luogo dove si trova la
distinzione ontologica tra essere e ente (il pensiero diventa una topologia)77. Forse
72 H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 411.
73 5Ibidem, p. 411.
74 Cfr. ibidem, p. 411.
75 Ibidem, p. 476.
76 Ibidem, p. 438. «Gli dei hanno bisogno
del pensare secondo la storia dell’essere, ossia
hanno bisogno della filosofia» (ibidem, p. 438).
77 Per Heidegger l’essere non è riducibile al semplice giacere dell’ente di fronte a me, alla
vuota e positivistica esistenza; ma l’essere non può neanche essere pensato metafisicamente
come la determinazione più generale dell’ente, né come la formalità che costituisce l’ente in
quanto ente (l’entità) o l’oggetto in quanto oggetto (l’oggettività). Tanto meno l’essere si
lascia cogliere come la ragione-causa giustificante dell’ente. In tutti questi casi l’essere ci
sfugge come ciò che non è disponibile per la ratio: pensarlo come esistenza significa
un’impostazione o positivista (ingenua e senza pensiero) o secondo le modalità logiche
300
Luis Romera
pensando la differenza in quanto differenza, il pensiero riceve un’indicazione
sull’essere e, con essa, un chiarimento sull’essenza della metafisica, vale a dire, sul
come è sorta la onto-teo-logia e sul perché l’essere si sia destinato ad essa nel modo
in cui lo ha fatto. È chiaro che, se la differenza è essenziale, ogni pensiero dell’ente,
anzi ogni pensiero che oblia l’essere, è pur sempre un pensiero che sorge dalla differenza stessa, dove la mancanza consisterebbe proprio nel non averla pensata78.
Heidegger è infatti di questa opinione. «Penseremo l’essere in modo concreto (sachlich), solo se lo penseremo nella differenza con l’ente, e questo nella differenza con
l’essere»79. Per calarsi nella differenza Heidegger avverte propedeuticamente che
occorre evitare il ricorso alle rappresentazioni, le quali ci porterebbero a concepire la
differenza come una relazione che il pensiero aggiungerebbe all’essere e all’ente per
metterli in rapporto80; la differenza è più radicale. Ma offre anche una premessa sulla
portata della differenza ontologica: «allora si vedrà che essere significa, ovunque e
sempre, essere dell’ente, nella cui flessione il genitivo è da intendere come genitivo
oggettivo... Ente significa, ovunque e sempre, ente dell’essere, nella cui flessione il
genitivo è da intendere come genitivo soggettivo»81. La differenza distingue, però
collega, non ci conduce in un essere-in-sé isolato.
Avvicinarsi alla differenza, per cogliere l’origine dell’essenza della metafisica e
preparare il pensiero dell’essere, implica muoversi ancora una volta secondo la
modalità del passo indietro che nel suo domandare instancabile si spinge verso l’originario. In questo contesto Heidegger fornisce un’indicazione precisa sul modo in cui
pensare la differenza e, in essa, l’essere: «essere dell’ente significa: essere, il quale è
l’ente. L’“è” è detto qui in modo transitivo (con un significato transitivo), passando.
L’essere è qui nel modo di un transito verso l’ente»82. Ciò non significa — sottolinea
Heidegger — relativizzare la differenza o sottintendere che l’essere lasci il suo luogo
(Ort) per passare nell’ente come se quest’ultimo prima fosse senza l’essere e solo
secondariamente si collegasse all’essere; ma, neanche, che l’essere, nel passare
nell’ente, si snaturalizzi, polverizzandosi nella pluralità degli enti.
(possibilità-realtà) nella quale il primato è dalla parte del logos che determina le condizioni
di possibilità (logiche) dell’essenza perché questa possa esistere; pensarlo come la determinazione più astratta o come ragione sufficiente dell’ente sono altri modi di avvicinarsi
all’essere sempre sotto il dominio della ratio. In Heidegger, invece, l’approccio all’essere si
realizza sottolineando il primato del senso nella considerazione dell’ente. Il senso rinvia a
un orizzonte complessivo di significato in cui l’ente come tale è: tale orizzonte è il mondo
(Welt). Nella misura in cui c’è un mondo, ci sono gli enti corrispondenti a quel contesto
totale di senso, in modo tale che il mondo è l’apertura in cui s’illumina l’ente, ed è presente.
Il mondo però ha un carattere storico, il che significa che in nessun mondo si svela completamente l’essere; in ogni orizzonte di senso l’essere si mostra parzialmente (si svela e si
nasconde). Il carattere storico, veritativo e di rapporto con l’ente sono tre caratteristiche fondamentali dell’essere in Heidegger.
78 Cfr. H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 228.
79 Ibidem, p. 227.
80 Cfr. ibidem, p. 227.
81 Ibidem, p. 227.
82 Ibidem, p. 229; quando, come in questo caso, la traduzione è stata modificata da noi riprodurremo il testo tedesco: «Sein des Seienden heißt: Sein, welches das Seiende ist. Das “ist”
spricht hier transitiv, übergehend. Sein west hier in der Weise eines Überganges zum
Seienden» (H., Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik, Identität und Differenz,
Neske, Pfullingen 1978, p. 56).
301
studi
Il problema, stando alle indicazioni viste, consiste nel pensare coerentemente e
adeguatamente il passare (Überkommnis) nel suo significato più radicale e originario. La metafisica ha preteso di pensarlo secondo la modalità della ratio oggettivante
che ha portato a rappresentare il passare come un produrre, in modo tale che l’essere
diventa il fondamento o ragione ultima nell’ambito di una comprensione dell’ente
che lo prospetta sempre come prodotto (effettuato dalla causa efficente, creato
dall’Ente supremo o posto dalla coscienza)83. Storicamente le rappresentazioni metafisiche dell’essere e del passare hanno avuto forme diverse, il che significa che
l’essere — in quanto passare nel senso del produrre come causare-giustificare — si
dà di volta in volta nella metafisica «in questa od in quella accezione storica: physis,
logos, en, idea, energheia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà di
potenza, volontà di volontà»84.
Ma Heidegger ritiene che l’interpretazione produttiva del passare non sia la più
radicale e originaria. In altri termini, dobbiamo ricuperare un pensiero ancora più
radicale, il quale avrà ovviamente la difficoltà di pensare e dire l’essere senza i concetti e i termini metafisici consueti nella cultura occidentale85; pensiero, tra l’altro,
che ci condurrà verso quella dimensione radicale, essenziale od originaria (come dir
si voglia) dalla quale provengono le interpretazioni storiche delle metafisiche (senza
però essere stata pensata da esse).
Sulla linea della ricerca dell’originario, Heidegger afferma che l’«essere vuol
dire, dall’alba del pensiero occidentale-europeo fino ad oggi, lo stesso che esser presente (Anwesen)»86. Corrispondentemente l’ente è ciò che è presente, il presente o
presentato (das Anwesende). Qui di nuovo sorge il problema di pensare non soltanto
l’ente, ma l’essere; cioè, di pensare la presenza (Anwesenheit) nella quale è presente
l’ente, di pensare il far-presente (An-wesen nel senso verbale, Anwesenlassen).
«Essere, da cui ogni essente è segnato come tale, essere vuol dire esser presente,
ostendersi dell’essere nella presenza (Anwesen). Pensato in riferimento a ciò che così
è presente (auf das Anwesende), l’esser presente (Anwesen) si mostra come lasciaresser-nella-presenza, lasciar-esser-presente (als Anwesenlassen). Ma ora si tratta di
pensare propriamente questo lasciar-esser-nella-presenza»87.
Per Heidegger l’essere visto dal passare e dal far-presente, nel senso più radicale, significa che l’essere apre lo spazio in cui appare l’ente, spalanca la radura
(Lichtung) nella quale l’ente si fa presente e così è come ente: «lasciar-esser-presente
vuol dire: disvelare, portare nell’Aperto (Entbergen, ins Offene bringen)»88. Però
l’essere, nell’aprire la radura, nel far apparire l’ente, si sottrae in quanto essere;
l’essere porta nella presenza, mostra, però il mostrare e il portare nella presenza si
83 Cfr. H., Tempo ed essere, Guida, Napoli 1987, pp. 142-143.
84 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 230.
85 «Il linguaggio ci rifiuta ancora la sua essenza, che consiste nell’essere
la casa della verità
dell’essere. Il linguaggio si concede piuttosto al nostro semplice volere e alla nostra attività
come uno strumento del dominio sull’ente» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 272).
86 H., Tempo ed essere, o.c., p. 102.
87 Ibidem, p. 106.
88 Ibidem, p. 106. «Lo stare nella radura (Lichtung) dell’essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo.
Solo all’uomo appartiene un tal modo d’essere. L’e-sistenza così intesa non è solo il fondamento della possibilità della ragione, ratio, ma è ciò in cui l’essenza dell’uomo conserva la
provenienza della sua determinazione» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 277).
302
Luis Romera
occultano per lasciare apparire l’ente. L’essere ha il carattere del ritrarsi
(Entzugscharakter), gli corrisponde il nascondimento e il nascondersi (Verborgenheit
und Sichverbergen)89.
Invece di soffermarsi a chiarire il significato originario del far-apparire che si
occulta, la metafisica ha interpretato l’essere secondo i canoni dell’oggettività: «la
presenza di ciò che è presente è interpretato in Aristotele come poiesis. Questa, reinterpretata più tardi come creatio, conduce, lungo una linea di grandiosa semplicità,
fino alla posizione (Setzung), quale è quella della coscienza trascendentale degli
oggetti. Si fa evidente, così, che il tratto fondamentale del lasciar-venire-alla-presenza è nella metafisica il produrre (Hervorbringen) nelle sue diverse forme»90. La presenza a cui vuole richiamarsi Heidegger è più originaria della semplice-presenza
(Vorhandenheit) nel senso dell’esistenza di fatto che rinvia a una essenza come possibilità (ambito delle modalità), e anche più originaria della presenza come utilizzabilità (Zuhandenheit). «Utilizzabilità e semplice-presenza sono modi dell’Anwesen;
cioè del venire ad essere nella presenza»91; e, in quanto modi, derivati; e, come derivati, sono modi in cui si è interpretata la presenza nella metafisica.
Il passo indietro verso l’originario impensato porta il pensiero — secondo
Heidegger — a considerare l’essere in funzione del passare. Alla luce di quanto è
stato detto, il passare dell’essere è un pervenire svelando, il quale svela da se stesso e
così arriva nell’ente. «Arrivo significa: occultarsi nello svelamento, cioè mantenersi
occulto: essere ente»92. Heidegger pensa l’essere e l’ente con il gioco di quattro termini: pervenire (Überkommnis) e arrivo (Ankunft), svelare e occultare. «L’essere si
mostra come il pervenire (Überkommnis) che svela. L’ente come tale appare nel
modo dell’arrivo (Ankunft) che si occulta nella svelatezza»93. L’essere e l’ente pensati così si mostrano come diversi grazie alla differenza, la quale dà e mantiene separato il tra (das Zwischen), dove essere come pervenire ed ente come arrivo sono in rapporto, si separano e si riuniscono94. «La differenza dell’essere e l’ente è, come differenza tra pervenire e arrivo, la risoluzione (Austrag) svelante-velante di entrambi» 95. Quando il pensiero raggiunge la differenza come risoluzione o diporto
(Austrag) di pervenire e arrivo, si pensa l’essere nella differenza.
L’essere come pervenire apre lo spazio (svela) donde l’ente appare (arriva allo
svelamento mentre vela la svelatezza e lo svelare). Nell’aprire lo spazio (il mondo,
89 Cfr. H., Tempo ed essere, o.c., pp. 137-138.
90 Ibidem, p. 156.
91 Ibidem, p. 109.
92 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica,
o.c., p. 229; «Sein geht über (das) hin,
kommt entbergend über (das), was durch solche Überkommnis erst als von sich her
Unverborgenes ankommt. Ankunft heißt: sich bergen in Unverborgenheit: also geborgen
anwähren: Seiendes sein» (p. 56).
93 Ibidem, p. 229; «Sein zeigt sich als die entbergende Überkommnis. Seiendes als solche
erscheint in der Weise der in die Unverborgenheit sich bergenden Ankunft» (p. 56).
94 Cfr. ibidem, p. 229; «Dieser [der Unter-Schied] vergibt erst und hält auseinander das
Zwischen, worin Überkommnis und Ankunft zueinander gehalten, auseinander-zueinander
getragen sind» (pp. 56-57).
95 Ibidem, p. 229; « Die Differenz von Sein und Seiendem ist als der Unter-Schied von
Überkommnis und Ankunft der entbergend-bergende Austrag beider. Im Austrag waltet
Lichtung des sich verhüllend Verließenden, welches Walten das Aus- und Zueinander von
Überkommnis und Ankunft vergibt» (p. 57).
303
studi
Welt) l’essere richiama l’uomo perché questi gli corrisponda permettendo che il
mondo sia eretto, s’imponga e perduri. L’uomo è Dasein, dove il da indica la radura
aperta dall’essere e nella quale l’ente, ogni ente, è96. Le accezioni storiche in cui
l’essere si dà nella e alla metafisica sono i diversi modi in cui si è pensato l’essere
dell’ente, cioè i diversi modi in cui si è interpretato lo svelare e il passare senza pensare direttamente allo svelare e al pervenire in quanto tale97, né tanto meno, alla differenza come diporto che li separa e riunisce, rapportandoli.
L’essere si dà sempre storicamente configurando le diverse epoche a seconda del
modo in cui l’essere, destinandosi, è interpretato dalla metafisica. Che sia l’essere
stesso che si destina in modo storico significa, da una parte, che la forma in cui l’essere si dà è determinata secondo il modo in cui lo stesso essere si illumina in un’epoca
storica98; e dall’altra, che l’esperienza dell’essere e della differenza, cioè il modo in
cui si pensano l’uno e l’altra, costituiscono i singoli momenti della storia dell’essere99.
La storia dell’essere costituisce l’autentica storia in quanto l’essere si offre
all’uomo aprendo lo spazio in cui l’ente appare. Perché si offre storicamente
Heidegger applica all’essere il termine destino (Geschick). «Riferendo la parola
Geschick all’essere, intendiamo dunque dire che l’essere si rivolge a noi e si dirada,
e, diradandosi, predispone e concede il lasco di spazio e tempo (den Zeit-Spiel-Raum
einräumt) nel quale l’ente può apparire»100.
I termini storia dell’essere e destino si articolano con i termini visti prima di
svelare e velare, di passare e arrivo101. «L’essere è (west) come destino, come svelarsi che al tempo stesso perdura in quanto velarsi»102 (per questo l’ente come
Ankunft occulta). «L’essere perdura in quanto destinarsi — che si sottrae — del lasco
di spazio e di tempo per l’apparire di ciò che, corrispondendo al destino e alla sua
ingiunzione, si chiama, di volta in volta, l’ente»103.
96
Cfr. H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 298. «Il modo in cui l’uomo, nella sua essenza
propria, è presente all’essere è l’estatico stare-dentro nella verità dell’essere. Con questa
determinazione essenziale dell’uomo non vengono dichiarate false e rifiutate le interpretazioni umanistiche dell’uomo come animal rationale, come ‘persona’, come essere composto
di spirito, di anima e corpo. Piuttosto, l’unico pensiero è che le supreme determinazioni
umanistiche dell’essenza dell’uomo non esperiscono ancora l’autentica dignità dell’uomo»
(H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 283).
97 Cfr. H., Tempo ed essere, o.c., pp. 156-157.
98 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 231.
99 Cfr. ibidem, p. 231.
100 H., Il principio di ragione, o.c., p. 111.
101 «Muovendo dalla struttura-destino dell’essere stesso (aus dem Geschick des Seins), il nihil
del nichilismo significa che l’essere è tenuto per nulla. L’essere non entra nella luce della
propria essenza. Nell’apparire dell’ente come tale, l’essere rimane escluso. La verità
dell’essere sfugge; è dimenticata. Il nichilismo sarebbe dunque nella sua essenza una storia
che concerne l’essere. Il non-esser-pensato avrebbe dunque le sue radici nell’essenza stessa
dell’essere, essendo l’essere stesso a sottrarsi. L’essere si sottrae ritraendosi nella propria
verità. Esso custodisce se stesso e si nasconde in questo custodirsi (...). In tal caso la metafisica non sarebbe affatto la semplice dimenticanza di un problema non ancora posto nei
riguardi dell’essere. Essa non sarebbe affatto un errore. La metafisica verrebbe ad essere la
storia dell’ente come tale, a partire dalla struttura-destino (Geschick) dell’essere stesso» (H.,
La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 243).
102 H., Il principio di ragione, o.c., p. 131.
103 Ibidem, p. 144.
304
Luis Romera
In questi passi si sottolineano quattro elementi del pensiero dell’essere di
Heidegger: 1) il carattere storico-destinale dell’essere, 2) il suo passare nell’ente
aprendo il luogo in cui esso si fa presente (Lichtung, Welt)104, 3) il rapporto stretto tra
l’essere e l’uomo105 e 4) il primato dell’ens ut verum. Tuttavia la dimensione storica
essenziale dell’essere e il suo pervenire nell’ente non implicano assenza di unità
nell’essere: «se tuttavia ha una sua verità il fatto che l’essere di volta in volta si destina a noi, e inoltre che l’essere, in quanto tale, si concede a noi ed è destinazione, allora, in base a ciò, si ha che “essere” ed “essere” dicono di volta in volta, nelle differenti epoche del suo destino, qualcosa di diverso. Nondimeno, nell’insieme del destino dell’essere domina un qualcosa di medesimo, che non si lascia però rappresentare
mediante un concetto generale»106.
Rivolgendo lo sguardo verso la differenza si raggiunge il luogo in cui pensare
l’essere, e ad un tempo si può capire il modo in cui esso si è destinato nella metafisica (nella sottrazione)107. Infatti, per Heidegger, la metafisica ha pensato la differenza
essere-ente in termini di fondamento-fondato secondo il predominio del pensiero rappresentante-fondante, interpretando l’essere e l’ente e la differenza, in modo tale che
l’essere e la differenza restavano nell’oblio per la prepotenza dell’oggettivazione.
Dall’oggettivazione e dal principio di ragione la metafisica, quando pensa l’ente
come il più generale e fondato, è onto-logia e, quando pensa l’ente come ente supremo che fonda, è teo-logia108.
La metafisica è solo quell’interpretazione dell’essere che perde l’essere stesso.
Quando il pensiero si ritira nell’essenza della metafisica e intravede la sua sorgente
(la differenza come Austrag) la metafisica è superata e il pensiero si prepara per
accogliere l’essere dimenticato e far così spazio per una nuova manifestazione di
Dio. Ciò nonostante, nel sentiero di Heidegger non si è compiuto ancora l’ultimo
passo.
3.3. L’essere come l’accadere appropriante (l’“Ereignis”)
Il carattere unitario che reclama l’essere nonostante il suo destinarsi e darsi storico (il quale costituisce la Seinsgeschichte) porta il pensare a soffermarsi ancora una
volta ad approfondire nell’essere in quanto tale, non solo nella differenza con l’ente,
ma secondo il carattere del darsi che gli è proprio. Infatti, l’essere come l’apertura
che fa presente e si occulta, così come l’essere in quanto destinarsi storico, non rinviano forse a una dimensione ancora più profonda dove pensare l’essere? Il darsi storico ma unitario dell’essere implica che ci deve essere un’istanza più originaria dalla
quale la storia dell’essere riceve il suo destinarsi, costituendo essa la sorgente unitaria
104 «Ma proprio la radura (Lichtung) è l’essere» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 285).
105 «Ma come si rapporta, se mai ci è consentito porre il problema in questo modo, l’essere
all’e-sistenza? L’essere stesso è il rapporto (Verhältnis) in quanto è lui che tiene a sé l’esistenza nella sua essenza esistenziale, cioè estatica, e la raccoglie in sé come il luogo della
verità dell’essere nel mezzo dell’ente» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 285).
106 H., Il principio di ragione, o.c., p. 111.
107 Cfr. ibidem, p. 109.
108 Cfr. ibidem, p. 150.
305
studi
del donarsi dell’essere nel tempo. Tale istanza è nominata da Heidegger con il termine Ereignis e la si raggiunge tramite l’analisi del darsi (es gibt) dell’essere109.
Con lo scopo di dire e pensare l’essere come presenza (Anwesen) senza scambiarlo con l’ente, del quale diciamo sempre che è, Heidegger adopera l’espressione
c’è-si dà (es gibt) per indicare l’essere stesso. L’ente è, l’essere c’è-si dà110. «Nel
disvelare gioca un dare (Geben), quello appunto che nel lasciar-esser-nella-presenza
(Anwesen-lassen) dà (gibt) l’esser presente (Anwesen), cioè l’essere (Sein)»111. In
riferimento all’espressione tedesca es gibt, il dare di cui si parla — interpreta
Heidegger — fa riferimento a uno es che dà. Ma la storia dell’essere ci attesta che
tale darsi è sempre nel tempo, il che significa constatare che insieme all’essere si dà
il tempo. «Quindi noi tenteremo ora di gettare uno sguardo in avanti fino allo Es di
questo Es gibt Sein, Es gibt Zeit, allo Es che dà essere e tempo (...) e scriviamo lo Es
con la maiuscola (...). Per questa via dovrà mostrarsi il modo in cui si dà (es gibt)
essere, si dà (es gibt) tempo» 112 . Alla luce della modalità della donazione e
dell’istanza che dona (lo Es) sarà evidenziata nell’analisi heideggeriana la modalità
dell’essere a cui arriva il suo pensiero. È perciò necessario analizzare quest’ultimo
passo della sua opera per cogliere l’impostazione heideggeriana del problema di Dio.
In continuità con l’orientamento che sta alla base di tutto il cammino del pensiero di Heidegger — da “Essere e tempo” (1927), e prima, a “Tempo e essere”
(1964) —, il motivo ultimo che persegue Heidegger nella sua riflessione intorno allo
Es gibt Sein è di pensare l’essere distogliendo lo sguardo dall’essere pensato dalla
metafisica: «pensare propriamente l’essere esige che si abbandoni l’essere come fondamento dell’essente a favore del dare che gioca nascosto nel disvelamento, cioè a
favore dello Es gibt. L’essere, in quanto è la donazione (Gabe) di questo Es gibt,
trova il suo luogo proprio (gehört) nel dare. L’essere in quanto donazione non è svincolato dal dare»113.
Heidegger indica che il dare l’essere può mostrarsi più chiaramente nell’ambito di una riflessione sul dare a cui si riferisce. Ciò riesce nella misura in cui volgiamo la nostra attenzione verso la ricchezza dell’essere di cui è custode, e di cui ci
parla, la storia dell’essere; vale a dire verso la ricchezza di cambiamento (Reichtum
der Wandlung), ovvero verso la pienezza di cambiamento (Wandlungsfülle)
dell’essere, dove, secondo Heidegger, si trova il primo punto d’appoggio per pensare il significato dell’esser presente (Anwesen) come espressione della pienezza del
109
Nei Beiträge, nel capitolo VII sull’Ultimo Dio, il paragrafo 256 —intitolato appunto Der
letzte Gott— è preceduto dal paragrafo 255 con il titolo: Die Kehre im Ereignis. Afferma O.
Pöggeler (Heidegger und die hermeneutische Philosophie, Alber, Freiburg-München 1983,
p. 118): «Sein als das unverfügbare, jeweils geschichtliche Seinsgeschick zeigt sich in seinem Sinn oder in seiner Offenheit und Wahrheit als Ereignis (...). Sein als Ereignis: mit dieser Bestimmung des Sinns von Sein ist Heideggers Denken angekommen an seinem Ziel.
Im Ereignis ist die Zeit, in deren Licht das Sein immer schon auf eine verborgene Weise
verstanden wurde, eigens mitgedacht». Per un’analisi del termine Anwesen e il suo rapporto
con lo Es, cfr. M. MARASSI, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità orginaria, in
AA.VV., La differenza e l’origine, Vita e Pensiero, Milano 1987.
110 Cfr. H., Tempo ed essere, o.c., pp. 105-106.
111 Ibidem, p. 106.
112 Ibidem, p. 106. Già si era espresso in questi termini nella Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 288.
113 H., Tempo ed essere, o.c., p. 107.
306
Luis Romera
donare. In altri termini, il dare e l’esser presente propri dell’essere si possono
cogliere solo se si tiene presente la dimensione storica dell’essere. «Noi possiamo
accertare la pienezza di cambiamento (Wandlungsfülle) dell’Anwesen anche storicamente (historisch), ricordando come Anwesen, venire ed essere nella presenza, si
mostra come lo En, l’uno unicamente unificante, come Logos, il raccoglimento
custodente il Tutto, come idea, ousia, energheia, substantia, actualitas, perceptio,
monade, come oggettività, come posizione (Gesetztheit) del porre-sé nel senso della
volontà di ragione, d’amore, di spirito, di potenza, come volontà di volontà
nell’eterno ritorno dell’eguale. Ciò che si può accertare storiograficamente si lascia
incontrare all’interno della storia (Geschichte). Il dispiegarsi della pienezza di cambiamento dell’essere appare a prima vista come una storia dell’essere (Geschichte
des Seins)» e solo così si manifesta come accade e avviene l’essere (wie Sein
geschieht) e il modo in cui si dà essere114.
Questo dare che dona la sua donazione al tempo che si trattiene in sé conservando la sua pienezza Heidegger lo denomina il destinare (das Schicken). «Se noi pensiamo — come va fatto — in questo senso il dare, l’essere, che si dà (es gibt), è il
destinato (das Geschickte)»115. L’accadere dell’essere e il suo carattere destinale
determinano la storia dell’essere: «storia dell’essere significa destino dell’essere
(Seinsgeschichte heißt Geschick von Sein), nelle cui destinazioni (Schickungen) tanto
il destinare (das Schicken) quanto anche Quello (das Es) che destina (schickt)
sospendono, trattenendosene, la loro manifestazione»116. Pensato dall’invio, che
dona e si mantiene in sé, conservandosi, in quanto si sottrae, l’essere si svela con la
sua epocale pienezza di cambiamento.
Per completare il quadro Heidegger si richiama in questo contesto al ruolo
essenziale dell’uomo, giacché l’uomo «è però tale che egli riceve come donazione
(Gabe) l’esser presente (Anwesen), che grazie allo Es si dà (das Es gibt), percependo
ciò che appare nel lasciar-l’essere-ostendersi-nella-presenza (im Anwesenlassen)»117.
Il darsi dell’essere non è pensabile in termini di fattualità empirica o fenomenica, né tanto meno come un in-sé effettuato da un’istanza con il ruolo di causa producente, né come posizione nell’ambito del rapporto soggetto-oggetto. In tutti questi
casi l’essere è visto metafisicamente. La modalità del pensiero dell’essere di
Heidegger, vale a dire, il come si manifesta e si pensa l’essere in Heidegger, non è
secondo il contro (che oppone causa ed effetto, soggetto e oggetto), né in funzione
dell’in-sé , in questi casi il modo di pensare l’essere l’ontifica; egli, invece, sviluppa
un pensiero nel quale è fondamentale il rapporto come dimensione originaria ultima
non concettualizzabile, la quale indica il come in cui appare, e si deve pensare,
l’essere. Il rapporto è apparso chiaramente nell’analisi della differenza come Austrag
che distingue mantenendo la vicendevole relazione tra essere e ente118. Il rapporto
riappare quando si pensa alla relazione tra l’essere e l’uomo: «l’essere ha bisogno
114 Ibidem, p. 109.
115 Ibidem, p. 110.
116 Ibidem, p. 111.
117 Ibidem, p. 115.
118 «“Pensare l’essere
senza l’essente” non significa, dunque, che all’essere sarebbe inessenziale il rapporto all’essente e che sarebbe necessario prescindere da questo rapporto; piuttosto vuol dire che non bisogna pensare l’essere alla maniera della metafisica» (H., Tempo ed
essere, o.c., p. 142).
307
studi
dell’uomo per essenziarsi, e l’uomo appartiene all’essere per compiere in questo la
sua estrema determinazione come esserci»119. La mutua appartenenza di essere e
uomo compare spesso nelle opere di Heidegger120. Il rapporto riappare nel contesto
del darsi dell’essere nel tempo: c’è un appropriare e un traspropriare (Zueignen, Übereignen) «dell’essere come presenza e del tempo come regione dell’Aperto in ciò che
è loro proprio (in ihr Eigenes)»121.
L’essere pensato nel suo darsi storico, ma unitario, secondo la modalità del rapporto di appartenenza (che rispetta la distinzione) di essere ed ente, essere e uomo ed
essere e tempo è nominato da Heidegger con il termine Ereignis; dove si osserva però
un’evoluzione, giacché, in un primo momento, l’Ereignis designava l’essere (il rapporto dell’abbisognare dell’essere nei confronti dell’uomo e dell’appartenenza
dell’uomo all’essere «costituisce l’essere come Ereignis»122), mentre in un secondo
momento l’Ereignis indica lo Es che dà l’essere: «ciò che determina ambedue, tempo
ed essere, in quel che è loro proprio, cioè nella loro coappartenenza
(Zusammengehören), noi lo chiamiamo: das Ereignis»123. Questo spostamento
semantico è già un’indicazione di come l’essere pensato da Heidegger rinvia a una
dimensione più originaria dello stesso essere (lo Es che dà), nella quale si pensa il
rapporto tra essere e tempo. Questa struttura di pensiero era già apparsa quando
abbiamo visto la differenza ontologica; anche lì la distinzione e il rapporto tra essere
ed ente rinviavano a un’istanza (l’Austrag) nella quale pensare la differenza e il
vicendevole rapporto di essere ed ente.
L’Ereignis non è il semplice evento, né una semplice relazione che soppraggiunge successivamente, né un altro nome metafisico dell’essere, né un concetto
onniabbracciante124. Heidegger non è esplicito sul significato ultimo di questa
dimensione radicale: «la sua esplicazione non è più compito di questa
conferenza»125; ciò che si può dire è che l’Ereignis è l’accadimento dell’appropriare
(essere e tempo, essere e uomo, essere ed ente), che al tempo stesso s’impropria sottraendosi e conservando la sua pienezza essenziale126.
4. L’apparire di Dio
4.1. Le dimensioni del pensiero dell’essere e la loro unità: il “Geviert”
Il pensiero dell’essere è impostato da Heidegger secondo le diverse prospettive
che sono emerse lungo l’analisi fin qui condotta: l’essere visto dalla differenza con
l’ente ci ha portato a vederlo secondo i termini del passare come far presente che
119 H., Beiträge zur philosophie, o.c., p. 244.
120 «Così nella conferenza sull’identità (...) è
detto cosa l’ap-propriamento (das Ereignis) adpropria, cioè porta nel suo proprio (ins Eigene) e mantiene nell’appropriamento: vale a dire
la co-apparteneza di essere e uomo» (H., Tempo ed essere, o.c., p. 152).
121 Ibidem, p. 124.
122 H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 244.
123 H., Tempo ed essere, o.c., p. 125.
124 Cfr. ibidem, pp. 125-128, 150, 160.
125 Ibidem, p. 128.
126 Cfr. ibidem, pp. 129-131. cfr. J. GREISCH, Identité et différence dans la pensée de Martin
Heidegger, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 57 (1973), pp. 71-111.
308
Luis Romera
dischiude mentre si occulta; l’essere nel suo rapporto con il tempo, come destinarsi
che costituisce la storia dell’essere; l’essere nella vicendevole appartenenza
(Zusammengehörigkeit) con l’uomo in quanto il suo destinarsi richiama l’uomo come
Dasein che permette che si apra e si mantenga la radura (il da) in cui l’ente si mostra
ed è. Tutte queste prospettive possono essere integrate nel termine Ereignis (come
accadere storico appropriante di esse), ma Heidegger ha adoperato anche un altro termine in cui unificare le dimensioni ora segnalate: il termine Geviert, che offre inoltre
il vantaggio di includere in sé un riferimento esplicito al divino.
Il Geviert indica «le quattro contrade dell’insieme dei Quattro e la loro riunione
nel luogo dell’incrocio»127. Le quattro contrade a cui si riferisce Heidegger indicano
le quattro dimensioni in cui si deve pensare l’essere, quattro dimensioni che devono
essere integrate e riunite per pensare l’essere secondo la loro specificità ma ad un
tempo unitariamente.
Le prime dimensioni del Geviert sono nominate con il binomio cielo (o mondo
nelle prime versioni128) e terra, dove il primo termine indica l’aprire dell’essere che
dischiude lo spazio nel quale l’ente trova significato e la vita dell’uomo e un popolo
incontrano il luogo per il loro soggiorno. Il secondo termine (terra) allude al nascondimento dell’essere che serba così la propria ricchezza: «la terra è l’autochiudersi per
essenza»129, «che servando sorregge»130.
La terza dimensione sono i mortali poiché «essere-presente (‘essere’) è sempre, in
quanto essere-presente, un essere-presente all’essere umano, essendo l’essere-presente
quel richiamo che di volta in volta chiama l’essere umano»131. Il richiamo dell’essere
all’uomo si compie nel pensiero e accade nel linguaggio come «casa dell’essere»132.
La quarta dimensione sono i divini: «i divini sono messaggeri che ci indicano la
divinità. Nel sacro dispiegarsi della loro potenza, il Dio appare nella presenza o si
ritira nel suo nascondimento»133. In questo testo Heidegger presenta quattro termini
che vanno distinti: i divini, la divinità, il sacro e il Dio. Per poter precisare il rapporto
tra i divini (o gli dei) e il Dio, e tra questi e il sacro e la divinità, occorre prima concludere la visione del Geviert.
«Quattro sono le voci che risuonano: il cielo, la terra, l’uomo e il Dio. In queste
quattro voci il destino raccoglie l’intero rapporto infinito»134. Ma Heidegger rapporta
anche il termine Geviert all’ente (o alla cosa) e quindi lo prospetta come mondo
(Welt). L’ente si manifesta ed è all’interno di un mondo che contemporaneamente
mantiene: «è necessario che, a partire dell’Ereignis, la differenza ontologica sia
rimessa al pensiero. Ora, però, visto dall’Ereignis, questo rapporto si mostra come il
rapporto di mondo e cosa»135.
Il rapporto di essere-mondo con ente-cosa è già stato delineato nell’analisi della
127 H., La questione dell’essere, in Segnavia, o.c., p. 360.
128 Cfr. H., L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, o.c., pp. 21-30.
129 Ibidem, p. 32.
130 H., Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 99.
131 H., La questione dell’essere, o.c., p. 357.
132 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 267; H., Il linguaggio, in In cammino
verso il linguaggio, Mursia, Milano 1984, pp. 28-35.
133 H., Costruire abitare pensare, o.c., p. 99.
134 H., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, pp. 203-204.
135 H., Tempo ed essere, o.c., p. 147; cfr. H., La cosa, in Saggi e discorsi, o.c., pp. 109-124.
309
studi
differenza, ora però può essere precisato ulteriormente: «le cose (...) adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini. I Quattro costituiscono, nel loro relazionarsi,
un’unità originaria. Le cose trattengono presso di sé il Quadrato (Geviert) dei
Quattro. In questo adunare e trattenere consiste l’essere cosa della cosa. L’unitario
Quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto
cose, noi lo chiamiamo: il mondo. (...) Le cose (...) nel loro essere e operare come
cose, dispiegano il mondo»136.
Pensare l’essere come Geviert significa pensarlo come il punto d’incrocio delle
dimensioni essenziali a cui il Geviert accenna: l’essere come disvelare che si occulta
e si offre ai mortali costituendo così un mondo in cui l’ente è in quanto tale, sicché
solo nel mondo l’ente è e viceversa; l’ente trattiene la riunione delle dimensioni mantenendo un mondo per la durata epocale di tale mondo. Il darsi (es gibt) dell’essere,
come accadere (Ereignis) che appropria reciprocamente (zueinanderereignet) le
dimensioni del Geviert mentre ogni dimensione si traspropria (vereignen) e confida
alle altre configurando il Quadrato nella sua unitarietà, è un darsi che non è costituito
dal soggetto, né può essere ridotto a un effetto che richiama una ratio sufficiens.
L’arrivare all’essere è reso possibile da un pensiero che sa attendere l’avvento
dell’essere, sentire il suo appello, rammemorare quello in cui già si è. Con queste
espressioni Heidegger tenta di nominare un pensiero che è riflessione senza concettualizzare o ragionare. Questo tipo di riflessione non produce un pensiero, ma si
lascia invadere dall’essere. Il carattere gratuito, non dipendente da me, di qualcosa
che ci viene incontro senza essere afferrata, è il tratto indicato nei divini.
4.2. Dal sacro ai divini
Come abbiamo visto l’apparire di Dio al pensiero va preceduto in Heidegger dal
pensiero della divinità, del sacro e dell’essere secondo un susseguirsi di tappe che
non possono essere omesse.
Il sacro si mostra unicamente nell’ambito di una verità che non è a disposizione
dell’uomo. Il sentiero del pensiero di Heidegger è il tentativo di arrivare a un essere
che reclama per sé la pienezza e l’indisponibilità, che non si lascia impossessare dal
pensiero oggettivo-metafisico, né diventa materiale per la tecnica dell’uomo. Solo
quando il pensiero raggiunge tale essere, si mostra e percepisce il sacro.
Il sacro dice inoltre riferimento a un essere che non scioglie l’ente nel nulla, ma
che, invece, lo raccoglie e lo trattiene nel suo essere e nella sua verità di ente, nella
misura in cui apre e mantiene lo spazio in cui l’ente è come tale. Il sacro allude quindi a quell’essere che permette all’uomo di sviluppare le potenzialità storiche affidategli. Nella misura in cui il sacro parla di un essere che lascia l’ente e i mortali nella
loro essenza, il sacro salva137.
136 H.,
Il linguaggio, o.c., p. 35. Cfr. H., Costruire abitare pensare, o.c., p. 99. Pöggeler sottolinea il rapporto tra critica al pensiero occidentale, centralità del Welt e attesa soteriologica
in Heidegger: «Nicht das erstarrte und entleerte Sein, sondern die “Welt” soll das zentrale
Thema Heideggers sein: die Welt als “wahre Welt”, als Welt, die den abendländischen
Nihilismus in seiner Gesamtheit hinter sich läßt. Heidegger soll die alte verfallene, christlich-metaphysisch-bürgerliche Welt verwerfen und die kommende, heile und neue Welt
erwarten» (O. PÖGGELER, Heidegger und die hermeneutische Philosophie, o.c., p. 75).
137 Cfr. O. PÖGGELER, El camino..., o.c., p. 231.
310
Luis Romera
Il sacro non si mostra mai direttamente all’uomo finito, non è mai un prodotto
né ricade nelle reti della ratio. Il sacro si mostra come ciò che riunisce un mondo
secondo la storia accaduta dell’essere. Infatti, il raccogliere del sacro è sempre storico, giacché consiste nel riunire un mondo come Geviert. Perciò ogni epoca storica è
raccolta in un’unità grazie al sacro che si presenta di volta in volta sotto la forma di
un dio.
Il sacro ci porta nell’ambito della divinità dove si mostrano gli dei come coloro
che indicano l’avvenire dell’essere e raccolgono il mondo. Il dio come il divino (un
dio della schiera degli dei, un divino) raccoglie e trattiene un mondo. Perciò ai mortali compete aspettare l’avvento del divino: «i mortali abitano in quanto attendono i
divini come divini. Sperando, essi si confrontano con l’inatteso e insperato. Essi
attendono gli indizi del loro avvento, e non misconoscono i segni della loro assenza.
Non si fanno da sé i loro dei e non praticano il culto degli idoli. Nella disgrazia, essi
attendono ancora la salvezza che si è allontanata da loro»138. I divini non sono né una
nuova versione metafisica di Dio, né una riedizione di un politeismo pagano, mostrano piuttosto, da una parte, la contrapposizione con l’uomo: questi è “fondato”, i divini ricordano l’essere fondato dell’uomo e la ricchezza del fondamento, non metafisicamente pensato, e il carattere di dono dell’essere139. Dall’altra, i divini indicano
quel carattere del dio che raccoglie e mantiene un mondo che avviene storicamente in
modo gratuito.
Così i mortali non riportano gli dei al Dio della metafisica confezionando un
idolo, ma, secondo la loro divinità e sacralità, sanno ricevere il dono che essi ottengono. Il sacro, nel riunire, ci parla dell’interpellanza di un dio, di quel dio che fonda
il soggiorno storico dell’uomo. Ma il divino (un dio degli dei) è solo nell’ambito del
Geviert, cioè si manifesta come una delle dimensioni del Quadrato.
4.3. Il Dio di Heidegger
Fin qui il Dio di Heidegger sembra esaurirsi negli dei; vale a dire, il Dio si presenta in ogni epoca storica sotto la forma del dio che raccoglie e sorregge il mondo in
cui sono gli enti e l’uomo, ed è soltanto questo. Ma parallelamente al richiamo ad
un’istanza unitaria originaria che dà l’essere nel suo accadere storico, anche qui
Heidegger allude a un Dio al quale accennano i divini: «i divini sono i messaggeri
della divinità, che ci fanno segno. Dal nascosto dispiegarsi di questa, appare il Dio
nella sua essenza, che lo sottrae ad ogni confronto con ciò che è presente»140.
Questo Dio (l’ultimo Dio, il Dio divino) non si lascia paragonare con niente di
ciò che è presente. Il Dio di Heidegger non si presenta mai chiaramente ai mortali,
resta avvolto nel suo mistero. Forse davanti a tale Dio solo resta l’attesa di un suo
segno a cui corrispondere con l’atteggiamento mistico.
Ma qui è opportuno chiedersi di quale Dio potrebbe eventualmente trattarsi.
Ricapitolando quanto è stato detto, si è visto che l’essere va pensato da una
parte secondo il rapporto; dall’altra in funzione dell’unità e pienezza che esige per
138 H., Costruire abitare pensare, o.c., p. 100.
139 Cfr. M. BERCIANO VILLALIBRE, El evento (Ereignis)
como concepto fundamental de la filosofía de Heidegger, «Logos», XXIII-53 (1990), pp. 29-45.
140 H., La cosa, o.c., p. 118.
311
studi
sé. Secondo il rapporto l’essere si prospetta: 1) nel rapporto essere-ente come differenza che collega (espressa tramite i termini passare, far presente, presenza), 2) nel
rapporto essere-uomo come identità che distingue perché non è la semplice uguaglianza (indicato come vicendevole appartenenza) e, infine, 3) nel rapporto esseretempo come destinarsi storico che apre i mondi e le epoche storiche (segnalato con i
termini storia dell’essere e destino). In questo contesto facevamo riferimento
all’essere come mondo nel senso del Geviert.
L’essere però rivendica un carattere unitario (è sempro lo stesso, das Selbe) che
ci ha portato all’Ereignis e allo Es.
In questo orizzonte appare il sacro come l’indisponibile che raccoglie e rinvia a
un divino che sorregge il mondo e interpella l’uomo perché questi corrisponda al
destino storico dell’essere nell’epoca a lui affidata.
Qui, però, può apparire l’ambiguità o indecisione finale del pensiero di
Heidegger. L’unità dell’essere emerge come tale solo nel suo dispiegarsi nel tempo,
cioè essa si dà sempre e necessariamente in un modo storico, costituendo un mondo
nel destinarsi nel tempo, in modo tale che la pienezza dell’essere si mostra nel susseguirsi delle epoche storiche. Se l’essere, inoltre, si dà sempre nel passare nell’ente
(istituendo un mondo) e nel richiamare l’uomo (perché gli corrisponda e si mantenga
il mondo), allora dobbiamo reintrodurre nell’ambito dell’essere, anzi nell’ambito
della donazione dell’essere, la necessità. Ma una pienezza che necessariamente deve
passare e istituire, vale a dire, una pienezza che necessariamnete si dà nella storia e
nel far presente gli enti, è una pienezza piena? Neanche con il rinvio allo Es
dell’Ereignis sparisce l’ambiguità, poiché anche l’Ereignis va pensato secondo la
necessità di un dare essere e tempo, e la sua pienezza, anche se indisponibile per
l’uomo, finisce nel destinare storico del suo dono. Ma un dono che è necessario, è
totalmente dono o è soltanto dono in una dimensione, quella cioè affermata nell’indisponibilità nei confronti dell’uomo?
È merito indiscutibile di Heidegger l’aver richiamato l’attenzione verso la questione dell’essere e del Dio divino. L’uomo non ha a che fare soltanto con gli enti,
egli si rapporta all’essere in quanto tale, e unicamente all’interno di un rapporto del
pensiero con l’essere nel quale l’essere è pensato (e non obliato) può emergere la
questione di Dio. Ma è proprio la modalità dell’essere heideggeriano, e quindi la
modalità del dono e della donazione, che rendono ambiguo il cammino verso l’apparire del Dio divino.
In effetti, la filosofia è nata in Grecia come il problema dell’uno e dei molti,
come il problema della molteplicità finita e temporale (storica) degli enti che rinvia a
un’istanza unitaria nella quale fuggire dal nulla. Due sono le risposte che, in ultima
analisi, si sono date al problema. La prima considera che l’uno si rapporta ai molti
facendoli sorgere dalla propria pienezza, alla quale ritornano, costituendo così una
totalità. La soluzione monista appare nella physis greca e si ripropone nei panteismi,
in quello spinoziano e in altri, come forse anche nello Spirito assoluto hegeliano e,
secondo un’impostazione diversa, nell’eterno ritorno dell’uguale nietzschiano. Gli
enti emergono dalla physis e vi ritornano; la physis però non è mai senza gli enti,
anche se non si esaurisce in nessuna forma ontica storica. La physis è pervasa dal
tempo, genera necessariamente, è impersonale.
La seconda risposta considera il rapporto secondo il termine trascendenza. In
questo caso l’uno, nella misura in cui è autenticamente trascendente (cosa solo possi312
Luis Romera
bile in una metafisica creazionista) dona i molti, ma il suo donare è gratuito, la sua
pienezza è tale da non aver bisogno della donazione. Il Trascendente è il più lontano
della necessità; perciò esiste una differenza essenziale tra ragione e causa, tra fondare come processo intellettuale (che s’inizia con la problematicità di ciò che è fondato
per arrivare al fondamento che è affermato come necessario però a partire dal fondato) e il fondare ontologico del fondatore come donare del Trascendente (che è gratuito, indeducibile).
In ambedue i casi l’istanza raggiunta può essere sottomessa alla ratio, come fa
il meccanicismo monista o il Dio razionalista che crea il migliore dei mondi possibili.
Ma anche nei due casi l’istanza è suscettibile di essere pensata come al di là della
ratio. Ciò che è però essenziale è che soltanto in un contesto di trascendenza ha spazio un Dio divino.
È questo il caso di Heidegger? È difficile a dirsi141. Il pensiero dell’essere di
Heidegger non sembra però molto aperto alla Trascendenza; forse solo resta, dopo il
tentativo speculativo, l’attesa: «soltanto un Dio può ancora salvarci. La sola possibilità che ci resta nel pensiero e nella poesia, è la possibilità per la manifestazione di
questo Dio»142.
***
Abstract: The problem of God is profoundly present in Heidegger’s thought. It has
been the object of frequent discussion in the attempt to determine both the modality
of Heidegger’s God and the attitude of thought that according to Heidegger is capable of peceiving God’s gesture. The question of God is developed in four moments:
the analysis of the absence of God in our age, the lack of God as fruit of onto-theology, the thought of being as the first stage towards the sacred, towards the divinity,
and therefore towards God, and the final result of Heidegger’s thought (regarding
God). This study concludes with a question regarding the ambiguity or problematic
of a transcendent God in Heidegger’s thought.
141
L’ambiguità può essere indicata confrontando il rinvio allo Es, che sembra lasciar aperta
una porta verso la trascendenza (cfr. J. B. LOTZ, Dall’essere al sacro. Il pensiero metafisico
dopo Heidegger, Querciana, Brescia, 1993), con affermazioni come: «anche Dio è, se egli è,
un essente, si trova come essente nell’essere» (H., Die Technik und die Kehre, Neske,
Pfullingen 1962, p, 45). È in generale critico nei confronti del carattere fondativo dell’impostazione heideggeriana W. WEISCHEDEL, Il Dio dei filosofi, vol. II, Il Melangolo, Genova
1991, pp. 307-350.
142 H., «Der Spiegel», 31.V.76, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guarda, Parma 1987, p. 136.
313
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 315/325
note e commenti
Sobre el origen del ser y la nada
RAÚL ECHAURI*
■
El viejo y acuciante problema del origen del ser ha cobrado en los últimos años
nuevamente actualidad gracias a la conocida teoría del big bang, según la cual una
fantástica estampida originaria habría dado lugar al nacimiento del universo. En tal
sentido, S. Hawking habla de un comienzo del tiempo y, con él, del universo, cuando
era “infinitésimamente pequeño e infinitamente denso”1.
Dejando de lado todos los interrogantes que pueda suscitar la existencia de un
universo autoconcentrado en un punto preexistente de energía, la obra de Hawking
destaca elocuentemente, por lo menos en sus primeros pasos, que el universo
comenzó a existir en un momento determinado. Pero luego, el autor se inclina a pensar, según lo expuesto en una conferencia pronunciada en el Vaticano, que el universo no tuvo “ningún principio” y que, por consiguiente, no fue creado2.
No cabe ninguna duda que la física actual está rondando con tales ideas en torno
al misterio mismo del ser, a su posible aurora, a su posible ocaso incluso, ya que si
amaneció gracias a la explosión del big bang, podría también atardecer en virtud del
big crunch o gran implosión. Por otra parte, ¿resulta correcto afirmar que si el universo no comenzó, carecería de creador? Como pensamos que tales cuestiones, en última
instancia, son de naturaleza preferentemente metafísica, es decir, pertenecientes a un
dominio que excede la ciencia, aunque ella los pueda avalar desde su óptica propia,
nos permitiremos recurrir a distintos filósofos, comenzando, con Parménides de Elea,
uno de los primeros que parece haber planteado la cuestión del origen del ser.
1. Parménides
Sorprendido ante el hecho de que el ente sea, Parménides estima que él resulta
*
Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (Conicet), Sánchez de Loria 536
bis, 2000 Rosario, República Argentina
1
2
S.W. HAWKING, Historia del tiempo, Grijalbo, Buenos Aires 1988, p. 26.
Op.cit., p. 156.
315
note e commenti
inengendrado e imperecedero; y para reafirmar su postura, se interroga a sí mismo,
en un pasaje notable, acerca de una posible génesis u origen de lo real, preguntándose
cómo y de dónde habría podido surgir. De haber nacido, tendría que haber nacido a
partir de lo que no es (εκ µη εοντος); pero ello resulta absolutamente imposible, ya
que lo que no es, no es ni expresable (φατον), ni pensable (νοητον).
Nos parece evidente que lo que no es se identifica para Parménides con la nada,
y la nada, como lo había afirmado poco antes, no es (µηδεν δ ουκ εστιν). De lo que
no es, no puede obviamente resultar lo que es. Por otra parte, si el ente procediese de
la nada (του µεδενοσ), ¿qué necesidad —vuelve a preguntar Parménides— lo habría
hecho emerger antes o después?
En efecto, si el ente hubiese nacido, ¿qué lo habría hecho nacer? Al no visualizar Parménides ninguna razón que dé cuenta de un presunto nacimiento del universo,
concluye, una vez más, en la perennidad de todo cuanto existe: “es necesario que sea
absolutamente o no” (fr.8). Desde el momento que el ente es, resulta imposible que
no sea, ni que no haya sido. El es, por lo tanto, absolutamente y, por ello, sin origen.
De haberse generado, señala Meliso en sintonía con esta postura, el ente tendría
que haber sido precedido por la nada; pero resulta imposible que de la nada provenga
algo: “Siempre fue lo que era y siempre será. Pues si se hubiese generado, resulta
necesario que antes de generarse no hubiese sido nada; si antes no fue nada, jamás
podría generarse nada de la nada (ουδεν εκ µηδενος)” (fr.l).
En este espléndido texto, Meliso pone de relieve una de las convicciones fundamentales de toda la filosofía antigua: el universo no ha tenido origen, porque, de
tenerlo, la nada lo habría antecedido; pero como de la nada efectivamente nada puede
surgir, él es ingénito, eterno e imperecedero, tal como lo apunta el segundo fragmento: “Porque él entonces no ha surgido, él es, fue y siempre será, y no tiene ningún
comienzo, y tampoco ningún fin, sino que es infinito”.
Tanto Parménides como Meliso, por lo tanto, han pensado y planteado la posibilidad de un origen radical del universo, aunque la han desechado inmediatamente,
porque ella supondría su procedencia de la nada; y lo que es no puede provenir de lo
que no es, tal como también lo reitera por su parte Empédocles de Agrigento: “Pues
es imposible que algo llegue a ser a partir de lo que no es” (fr.12).
2. Platón
Por otra parte, es esta última expresión, “lo que no es” (το µη ον), aquella cuyo
sentido trata de dilucidar Platón en El sofista y ante la cual manifiesta su perplejidad.
Si el no ser no fuera, no se podría explicar a su juicio la existencia de lo falso, ya que
lo falso alude justamente a lo que no es. Sin embargo, Platón recuerda los versos de
Parménides antes citados, según los cuales es imposible que el no ser sea. ¿Cómo
compaginar entonces la existencia de lo falso, o sea de lo que no es, con la absoluta
inexistencia del no ser proclamada por Parménides?
Intrigado por esta cuestión, Platón ya no sabe qué designa el no ser, ni a qué
objeto o a qué realidad correspondería (237 c). Resulta imposible, al respecto, concebir el no ser, decirlo, pronunciarlo o comprenderlo (238 c). No obstante, así como lo
falso acreditaba, en cierta manera, la realidad del no ser, también la mentira la respalda, pues el que miente dice lo que no es. Temiendo convertirse en un parricida, al
316
Raúl Echauri
contradecir a su padre Parménides, Platón sostiene que lo que no es, en cierto modo
es, en tanto que lo que es, de alguna manera, no es (241 d). Si lo frío y lo caliente
son, prosigue Platón, ¿qué puede significar el “ser” que conviene a ambos?
Indudablemente, Platón se asocia aquí a lo que él llama una “lucha de gigantes” en
torno a la realidad.
Finalmente, Platón culmina sus reflexiones sobre el no ser, con una pieza
dialéctica, modelo ejemplar de su pensamiento y que constituye, a juicio de
Brochard, la piedra angular de todo el platonismo. Cinco géneros o ideas supremas
participan mutuamente entre sí: lo que es, el movimiento, el reposo, lo mismo y lo
otro. Indudablemente, el movimiento es, asegura Platón, en tanto que participa de lo
que es, pero no es, en tanto que participa de lo otro, lo cual lo hace distinto del ser y,
por ello mismo, no ser. “Es por lo tanto inevitable que haya un ser del no ser, no solamente en el movimiento, sino en toda la sucesión de los géneros. En toda la serie, en
efecto, la naturaleza de lo otro hace de cada uno de ellos otro que el ser, y, por eso
mismo, no ser. Así todos, universalmente, bajo esta relación, diremos correctamente
que no son, y, por el contrario, en tanto que participan del ser, diremos que son y los
llamaremos seres” (256 e).
Alrededor de cada forma, por ende, hay multiplicidad de ser, infinita cantidad
de no ser; y dado que el ser mismo resulta diverso del resto de los géneros o ideas,
toda vez que estos son, el ser no es, y toda vez que el ser es, las otras formas no son.
De esta manera, Platón se ve como forzado a sostener la realidad del no ser, en un
texto incomparable, que señala un hito en su filosofía: “Cuando enunciamos el no ser
(µη ον), esto no significa, parece, enunciar alguna cosa contraria (εναντιον) al ser,
sino solamente alguna cosa distinta (ετερον)” (257 b).
La naturaleza de lo otro hace de cada forma que participa de él, otro que el ser,
y, por ello mismo, no ser. El género “lo otro” resulta así la condición o el fundamento
del no ser. ¿Se ha convertido Platón realmente en un parricida, al afirmar contra
Parménides la realidad del no ser, que éste rotundamente negaba? Quizás, sea una
osadía de nuestra parte decir que Platón no comprendió la visión parmenídea acerca
del no ser, pues cuando el filósofo de Elea habla del no ser, se refiere a él como a un
vacío ontológico, del cual el ente no habría podido surgir.
En cambio, cuando Platón afirma que las cosas, al participar de lo otro, no son,
no niega que existan, o sea que no sean en absoluto, sino que son distintas. Por tal
motivo, mientras para Parménides el no ser indica la nada, para Platón el no ser señala lo otro.
De este modo, tanto la expresión ser como la de no ser poseen para Parménides
un sabor existencial, del que están desprovistas para Platón. “Uno puede estar seguro
de encontrarse en la tradición del platonismo auténtico —anota Gilson— cada vez
que las nociones de existencia y de nada son remitidas a las nociones puramente
esenciales de lo mismo y de lo otro, de eodem et diverso”3.
Platón, por lo tanto, no lo contraría a Parménides, sino que utiliza las palabras
ser y no ser con un sentido decididamente esencialista. De aquí, que Platón use indistintamente los términos ser, ente y esencia, por cuanto para él ser (ειναι) es ser algo
(ον) o algo que se es (ουσια),
Para Parménides, en cambio, ser no significa ser lo que se es, sino que el ser
3
E. GILSON, Le Thomisme, Vrin, Paris 1965, 6ª ed., pp. 54-55.
317
note e commenti
designa la condición o estado mismo de lo real, pues el ente es o está siendo, y el no
ser la ausencia absoluta de realidad, pues la nada no es. Por tal motivo, Platón no
distingue entre el “es” copulativo y el “es” existencial; mejor dicho, Platón reduce el
“es” existencial al copulativo, lo cual es otra manera de decir, que el ser goza para él
de un sentido puramente esencial. Sin duda alguna, el ente es, tanto para Parménides
como para Platón; pero que sea significa para el primero que está ejerciendo el ser,
mientras que para el segundo significa que es tal o cual cosa. Decir simplemente “la
flor es” significaría para Parménides que ella está siendo, mientras para Platón que
ella es tal o cual cosa o que ella está siendo lo que es.
3. Aristóteles
Por su parte, Aristóteles estima que el “es” sólo posee una dimensión copulativa. Las expresiones ser o no ser, “en sí mismas, en efecto, no son nada (ουδεν εστι),
pero ellas agregan a su propio sentido una cierta composición que es imposible de
concebir independientemente de las cosas compuestas”4.
Nuevamente aquí, igual que para Platón, ser significa ser esto o lo otro, jamás
ser en el sentido fuerte o existencial del término, tal como era el caso de Parménides.
El verbo ser se reduce a simple cópula verbal, mero nexo de unión entre un sujeto y
su atributo o predicado. Por ello, siempre que Aristóteles habla de un tránsito del no
ser absoluto al ser, sólo se refiere al paso del no ser tal o cual cosa, al ser esa cosa. En
todos los casos, se trata siempre de la generación, sea sustancial, sea accidental, que
únicamente afecta al rostro esencial del ente, nunca a su faz existencial.
El no ser aristotélico, por tanto, no indica la nada, sino la ausencia de una
forma, sustancial o accidental, que puede nacer por generación o morir por corrupción. Como dice Tricot, no hay para Aristóteles ni generación ex nihilo, ni corrupción
ad nihilum. Por ello, no existe en la obra aristotélica la más mínima alusión a un origen radical de los seres, ni mucho menos a su creación, aunque, de hecho, no haya
habido en ella nada que se opusiera a la misma, tal como lo señala Jolivet5.
4. Filón
Si bien la idea de creación estaba virtualmente contenida en el primer versículo
del Génesis (Bereschit bara Elohim), parece haber sido Filón de Alejandría el primero en advertirla, tal como lo destaca G. Reale: “Filón es el primer pensador que introduce en la filosofía la doctrina de la creación”6.
El mismo Gilson, por su parte, corrobora tal juicio, otorgándole a Filón la paternidad de tal idea, aunque durante los primeros años de su magisterio se la había negado7.
4ARISTÓTELES, De Interpretatione, 16b, 23-25.
5 Cf. R. JOLIVET, Essai sur les rapports entre la
pensée grecque et la pensée chrétienne, Vrin,
Paris 1931.
6 G. REALE, Storia della filosofia antica, Vita e pensiero, Milano 1978, Vol. IV, p. 279.
7 “La influencia de Platón ha sido tan profunda que Filón el Judío que habría debido ser el primero en desarrollar una filosofía de la creación ex nihilo, no ha concebido jamás su idea”
318
Raúl Echauri
Indudablemente, asistimos con Filón a los primeros albores de una idea, quizás
no completamente perfilada en su pensamiento, ya que la acción creadora de Dios
parece confundirse a veces con la acción meramente configuradora del demiurgo
platónico. El texto del Génesis utiliza el verbo bara, que la versión griega de los
Setenta traduce por epoihsen. En tal sentido, Dios hizo el cielo y la tierra; pero el
demiurgo también los hizo, lo cual no significa que los haya creado, ya que su actividad se reduce a modelar y configurar una materia preexistente. Por tal motivo, al no
existir en el léxico griego el verbo “crear”, Filón tiene que recurrir al verbo κτιζειν,
que significa “fundar” y “construir”, para expresar el acto creador. Por ello, y para
distinguir la creación, de la mera formación, Filón escribe: “Dios no sólo ha conducido las cosas a la luz, sino que ha hecho aquellas cosas que antes no eran; él no es
solamente demiurgo, sino incluso creador (κτιστης)8.
A partir de este momento, y gracias al contacto con el texto bíblico, la cuestión
del origen del ser, débilmente sospechada, alcanza una relevancia especialísima.
Habiendo desestimado tanto Parménides como Meliso y Empédocles la posibilidad
de un surgimiento radical del universo, por cuanto nada puede proceder de la nada, la
idea de creación introduce una alternativa frente a la idea rectora y dominante del
pensamiento griego, tal como lo ha subrayado E.Bréhier: “Nada viene de la nada,
nada retorna a la nada. Este principio, martillado en los versos del viejo Lucrecio, ha
quedado la gran idea rectora de todos los pensadores griegos, desde los físicos presocráticos hasta los últimos platónicos”9.
Dos cosmovisiones se encuentran ahora enfrentadas. El mundo no ha tenido
principio, ni tendrá fin, o, por el contrario, ha tenido un origen; en otras palabras, o es
eterno o ha sido creado. Pero si el mundo es eterno, su eternidad no puede ser la
misma que la de Dios, dado que el universo visible está afectado por el tiempo, en
tanto que Dios, no. Por ello, aunque el mundo no haya tenido ni principio, ni fin, no
se lo puede calificar de eterno a juicio de Boecio, porque si bien posee una duración
ilimitada, no abarca todo el pasado y el porvenir en un solo instante. Sólo Dios es
eterno, por cuanto “en su presente reúne la infinidad de los momentos del tiempo que
fluye”10. En tal sentido, Boecio atribuye la eternidad exclusivamente a Dios, mientras que al mundo le reserva la perpetuidad.
5. Santo Tomás
Santo Tomás, por su parte, se solidariza plenamente con Boecio, negando la
coeternidad del mundo con Dios, ya que “incluso si el mundo siempre existió, no
sería coeterno con Dios” (Deo coaeternus), pues su duración no sería totalmente
simultanea; lo cual es requerido por el sentido de la eternidad. Pues la eternidad es,
como allí mismo se dice, la posesión totalmente simultánea y perfecta de una vida
interminable. Pero la sucesión del tiempo resulta causada por el movimiento, como
(Cf. L’esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Paris, 1948, p. 69). “La creación del mundo
ex nihilo ha sido enseñada por Filón” (Cf. History of Christian Philosophy in the Middle
Ages, Random House, New York 1955, p. 39).
8 FILON, De somniis, I, 76, F.H. Colso-G.H. Whitaker, London-Cambridge, Vol.V, p. 337.
9 E. BRÉHIER, Etudes de philosophie antique, P.U.F, Paris l955, p. 166.
10 BOECIO, La consolación de la filosofía, Aguilar, Buenos Aires 1960, p. 185.
319
note e commenti
dice el Filósofo. Por lo cual, lo que está sometido a la mutabilidad, aunque siempre
haya existido, no puede ser eterno; y a causa de esto, Agustín dice que ninguna creatura puede ser coeterna con la invariable esencia de la Trinidad” (De pot., q.3, a.14).
Según Santo Tomás, no se puede hablar de una creatura coeterna con Dios, si
asignamos a la palabra “eternidad” el mismo sentido, cuando la atribuimos a la creatura y cuando la atribuimos a Dios. Primero, porque la duración del mundo, de ser
eterno, no sería tota simul como la de Dios; y segundo, porque las cosas están sometidas a una mutabilidad completamente extraña a la esencia divina.
Sin embargo, sabemos ciertamente por la fe, que el mundo no existió siempre;
pero ello no se puede demostrar racionalmente “por cuanto la novedad del mundo
(novitas mundi) no puede recibir una demostración por parte del mismo mundo”
(S.Theol., Ia., q.46, a.2). Por lo tanto, que el mundo haya comenzado, y sea una novedad, resulta objeto de fe, pero no se puede demostrar, ni saber: unde mundum incoepisse est credibile, non autem demonstrabile vel scibile (S.Theol., Ia., q.46, a.2).
No obstante, Santo Tomás estima que el mundo podría no haber comenzado, o
sea que podría haber sido creado desde toda la eternidad (ab aeterno). Tal es lo que
trata de mostrar en su penetrante opúsculo De aeternitate mundi, que entre otras
cosas, marca la autonomía del pensamiento filosófico con respecto a la fe religiosa; y
hablamos de la autonomía de la razón, porque si bien Santo Tomás sabe por su fe que
Dios creó el mundo en el tiempo, o si se quiere, que el mundo y el tiempo comenzaron, considera racionalmente posible que el mundo y el tiempo no hayan comenzado,
con lo cual creación del mundo y eternidad del mundo no se excluyen entre sí.
Escrito contra los que murmuran que tales ideas sean compatibles, Santo Tomás
estima plausible que podría haber existido algo eterno, siempre y cuando toda su realidad hubiese sido causada por Dios. En tal caso, el universo carecería de un principio de duración (principium durationis), es decir, no habría comenzado. Ello podría
repugnar al entendimiento por dos razones. En primer lugar, porque, de ser así, Dios
como causa agente, piensan algunos, tendría que haber precedido a lo creado en
duración. Dicho con otras palabras, como siempre una causa precede a su efecto,
sería menester que Dios antecediese a la creatura, lo cual no sería posible si el mundo
fuese eterno. Sin embargo, Santo Tomás piensa que un efecto puede ser producido
súbita e instantáneamente por su causa, con lo cual no existe ningún orden de prelación temporal entre ésta y aquél.
En segundo lugar, dado que el mundo ha sido hecho de la nada, también repugnaría al entendimiento la idea de su eternidad, porque, en tal caso, su no ser tendría
que haber precedido en duración a su ser. Haber sido hechas de la nada significa que
las cosas no han sido hechas a partir de algo preexistente, de modo tal que la nada no
ha precedido a lo creado, “como si fuera necesario que la nada fuese antes de lo que
fue hecho e inmediatamente después exista algo”11. En todo caso, resulta lícito decir
que primero es la nada que el ser, en el sentido de que la creatura, considerada en sí
misma y por sí misma, no es nada, “por lo cual hay que decir que naturalmente tiene
antes la nada que el ser”12.
No existe, por ende, la menor repugnancia en pensar que “algo ha sido creado
11
12
S. TOMÁS, De aeternitate mundi, en Opuscula philosophica, Lethielleux, Paris 1949, p. 57.
Op.cit., p. 58.
320
Raúl Echauri
por Dios y que este algo siempre existió”13. Si hubiese existido alguna incongruencia
al respecto, San Agustín la habría notado, según Santo Tomás, sobre todo porque
habría sido la manera más eficaz para él de negar la eternidad del mundo.
Sin embargo, a pesar de no haber nunca admitido la eternidad de la creatura,
San Agustín parece no rechazarla, en opinión de Santo Tomás, por haber citado un
argumento usado por los platónicos, según el cual Dios habría causado desde siempre
a la creatura, sin precederla, tal como acontece con un pie que deja su huella en el
polvo. El pie podría haber estado posado en el polvo desde toda la eternidad causando su huella; del mismo modo, Dios podría haber creado las cosas desde siempre, en
cuyo caso la causa y el efecto serían concomitantes.
No obstante, algunos opinan que no puede existir una creatura coeterna con
Dios, como sostienen Juan Damasceno, Hugo de San Víctor y el mismo San Agustín.
Pero la explicación última de esta postura, según Santo Tomás, la brinda Boecio,
cuando en su Consolación de la filosofía escribe: “Una cosa es ser conducido a través
de una vida interminable, lo cual atribuye Platón al mundo, otra cosa distinta es que
toda la presencia de una vida interminable sea igualmente abarcada, lo cual resulta
manifiesto que sólo es propio de la mente divina”14. En otros términos, mientras la
vida de la creatura está extendida en el tiempo, la vida divina está concentrada en un
punto. La eternidad de la creatura, por lo tanto, afectada por el cambio, el movimiento y la duración es temporal; por el contrario, la eternidad de Dios, ajena a ellos,
resulta atemporal.
En este sentido preciso, tampoco para Santo Tomás se puede hablar de una
creatura coeterna con el creador, porque la eternidad de la creatura no tiene el mismo
carácter que la de Dios. Sin embargo, se puede hablar de una creatura coeterna con
Dios, en el sentido de que la creatura, móvil y temporal, podría haber coexistido
desde siempre con su Creador, inmóvil y atemporal. El tiempo y la eternidad podrían
haber coexistido paralelamente, no obstante la radical heterogeneidad de sus naturalezas respectivas. Dicho de otro modo, lo que para Santo Tomás resulta congeniable
es la eternidad de Dios y la perennidad temporal del mundo.
Tal postura no desdice, por otro lado, la doctrina de Santo Tomás sobre el esse,
primer efecto de la causa suprema: primus effectus est esse et non est ante ipsum
creatum aliquid (De pot.,q.7, a.2). Dado que crear es dar el esse (prima rerum creatarum est esse), Dios podría haber conferido el actus essendi a las cosas desde toda la
eternidad, o, por el contrario, ellas podrían haber comenzado a ser. La creación es
una relación de dependencia por parte de la creatura con respecto al Creador, y esa
dependencia pudo haber sido eterna, aunque sabemos por la Revelación que ha sido
temporal: et sic creatio nihil est aliud realiter quam relatio quaedam ad Deum cum
novitate essendi (De pot., q.3., a.3).
El universo, por tanto, de ser eterno, no habría tenido principio de duración,
pero aun en este caso, habría tenido principio de origen (principium originis), ya que
Dios lo causa y produce. Podría haber carecido de un inicio temporal, pero nunca de
origen, porque él depende totalmente de Dios.
13
14
Op.cit., p. 58.
BOETHIUS, The Theological Tractates, University Press, Harvard 1958, pp. 401-402.
321
note e commenti
6. Leibniz
Como señala Leibniz al respecto en su opúsculo De rerum originatione
radicali, aunque el mundo sea eterno, debe haber una razón última de su existencia.
En tal sentido, existen cosas más bien que nada, dado que cada esencia posible tiene
la pretensión de existir según el grado de realidad o perfección que encierra. La existencia, por ende, resulta algo exigido por aquellas esencias aptas para alcanzar su
actualidad. Pero Dios se manifiesta como la razón última y como la fuente misma
tanto de los seres posibles como de los actuales.
Leibniz habla, en este sentido, del “gran principio”, según el cual “nada se hace
sin razón suficiente”. “Asentado este principio, la primera pregunta que tenemos
derecho a formular será por qué hay algo más bien que nada. Pues la nada es más
simple y más fácil que algo”15.
Lo que nos llama la atención en este notable texto, no es tanto la formulación de
lo que se ha llamado “la cuestión fundamental de la metafísica”, sino más bien su
referencia a la simplicidad de la nada, con la cual, por otra parte, debería haber
comenzado el texto, ya que más que una conclusión resulta una premisa. En este sentido, dado que la nada es más simple y fácil que algo, ¿por qué hay cosas? Dicho de
otro modo, sería más lógico o más comprensible que no hubiese nada en absoluto, ya
que la nada es más simple y fácil que el ser. Sin embargo, hay ser, y éste resulta,
obviamente, mucho más difícil de justificar que la nada.
No obstante, lo más maravilloso que hace un ente es ser. Y el ser que el ente
ejerce lo constituye y establece como tal, ya que si no lo ejerciera no sería y no
habría entonces nada en absoluto. En tal sentido, Leibniz parece inscribirse en la
nómina de aquellos pensadores que lo han detectado, al interrogar por qué existen las
cosas y no más bien la nada, tal como también lo presume Gilson: “Por haber escrito
esa frase, es necesario, sin duda, que Leibniz se haya sorprendido y admirado, al contacto con el acto misterioso que llamamos el ser, aquél en virtud del cual uno dice de
los entes que ellos son”16.
Pero la diversidad de los espíritus es una cosa admirable y para verificarlo
bastará que nos remitamos al filósofo de la duración, para quien el problema del origen del ser resulta un problema fantasma por cuanto la idea de nada es, a su juicio,
una pseudo-idea.
7. Bergson
Al comienzo de su recordado análisis de esta cuestión en L’évolution créatrice,
Bergson escribe: “La existencia se me aparece como una conquista sobre la nada. Yo
me digo que podría, que debería incluso no haber nada, y me sorprendo entonces que
haya alguna cosa. O bien, me represento toda realidad como extendida sobre la nada
como sobre un tapiz: la nada era en primer lugar y el ser ha venido por añadidura. O
bien aún, si siempre ha existido alguna cosa, es necesario que la nada le haya siempre
15
16
G.W. LEIBNIZ, Escritos filosóficos, Charcas, Buenos Aires 1982, p. 601.
E. GILSON, Constantes philosophiques de l’être, Vrin, Paris 1983, p. 147.
322
Raúl Echauri
servido de substrato o de receptáculo y sea, en consecuencia, eternamente
anterior”17.
Según Bergson, resulta imposible imaginar la nada, pero podríamos tratar de
concebirla, al pensar en un objeto inexistente. Pensemos, en primer lugar, en un objeto existente. La idea de este objeto no es más que la representación pura y simple de
ese objeto, pues no se puede representar un objeto, “sin atribuirle por eso mismo, una
cierta realidad. Entre pensar un objeto y pensarlo existente, no hay absolutamente
ninguna diferencia”18.
Pero si pensamos el objeto como inexistente le agregamos algo, a saber, “la idea
de una exclusión de este objeto particular por la realidad actual en general”19.
Representarse un objeto como inexistente implica conferirle, por lo menos, una existencia puramente ideal, la de un puro posible; negada la existencia sustancial del
objeto, aparece la existencia atenuada de lo simplemente posible, con lo cual resulta
absolutamente imposible pensar en un objeto inexistente y, con ello, pensar en la
nada.
“En otros términos, y por extraño que pueda parecer nuestra aserción, hay más,
y no menos, en la idea de un objeto concebido como ‘no existente’ que en la idea de
este mismo objeto concebido como ‘existente’, pues la idea del objeto ‘no existente’
es necesariamente la idea del objeto ‘existente’ con la representación, además, de una
exclusión de este objeto por la realidad actual tomada en bloque”20.
Entre pensar un objeto y pensarlo existente no hay para Bergson ninguna diferencia, siempre y cuando la reducción que él propone de lo realmente existente a lo
pensado, o la identificación del ente actual con su idea sea genuina. En efecto, no hay
ninguna diferencia desde un punto de vista puramente conceptual; pero si lo real
encierra además de su esencia, objeto de concepto, el ser o la existencia como algo
no incluido en la esencia o distinto de ella, la realidad no se identificaría, ni coincidiría con su idea o concepto. La realidad no es reductible a mera idea, o, dicho de
otro modo, ella excede el plano lógico, dado que el misterio de la existencia no es
susceptible de ser apresado por un concepto.
Por otra parte, “creemos figurarnos —apunta Bergson— que el ser ha venido a
llenar un vacío y que la nada preexistía lógicamente al ser”21. Bastaría, sin embargo,
recordar a Parménides y a Meliso, para invalidar tal aseveración. Ni el ser ha venido
a colmar un vacío, ni la nada lo ha precedido, como también lo asegura Santo Tomás.
Su noción de la nada, por tanto, como un vacío ontológico previo al ser, no
tiene la vigencia que Bergson parece asignarle. Por otra parte, ¿cómo imaginar o concebir lo que no es, tal como lo propone? ¿Qué otra cosa se puede decir de la nada,
sino que ella no es? Pero aunque la nada no sea ni pensable, ni imaginable, ella es
una idea exigida por el pensamiento cuando éste se aboca a la cuestión del origen del
ser. Por tanto, ella ha jugado un papel relevante no sólo en las concepciones creacionistas del universo, sino también en aquellas cosmovisiones que, sin afirmar la creación se asomaron al problema de un presunto advenimiento del ser.
17
18
19
20
21
H. BERGSON, L’évolution créatrice, P.U.F., Paris 1948, p. 276.
Op.cit., p. 284.
Op.cit., p. 285.
Op.cit., p. 286.
H. BERGSON, La pensée et le mouvant, P.U.F., Paris 1950, p. 65.
323
note e commenti
8. Heidegger
Pero la pregunta fundamental de la metafísica ha sido retomada en nuestros días
por Martin Heidegger, sin brindar, por otra parte, no obstante la exspectativa suscitada, ninguna respuesta satisfactoria al respecto.
En primer lugar, Heidegger estima que un cristiano no puede acceder a la cuestión planteada, porque de antemano tiene la solución, ya que cree que Dios creó al
principio el cielo y la tierra. Prescindiendo de que esa proposición sea “verdadera o
falsa para la fe”22, ella no se relaciona, por lo tanto, con la pregunta fundamental, ni
la admite, porque el creyente queda dispensado por su fe de tal interrogación.
Sin embargo, lo absolutamente importante, a nuestro juicio, consistiría en saber
si tal idea, verdadera para la fe, es también verdadera para la razón, en cuyo caso la
creación explicaría el origen radical del ser, satisfaciendo la pregunta fundamental.
Rechazar la idea de creación, porque ella está asociada a una determinada
Revelación, implica un cierto filosofismo, desde el momento que el pensamiento, en
tal caso, está decidido a no aceptar otras ideas más que las que él mismo descubre.
Si la idea de creación le brinda al filósofo una respuesta atendible al problema
del ser, sería absurdo despreciarla por el solo hecho de no haber sido advertida por su
reflexión.
Por otra parte, la creación es una verdad de orden natural, a juicio de Santo
Tomás, que la inteligencia humana habría podido conquistar, aunque de hecho ella la
deba a la Revelación. En tal sentido, Dios no sólo ha revelado verdades de carácter
sobrenatural, como su paternidad o la Trinidad, sino también de índole natural por ser
de difícil acceso a la razón, tales como la creación.
Pero nuestro filósofo está reñido con tal idea; incluso, en uno de los poquísimos
textos sobre el particular, Heidegger atribuye al tomismo una visión hylemórfica del
acto creador. En tal sentido, lo creado es lo confeccionado, y crear significa, por
ende, según Heidegger, fabricar. Conviene recordar, sin embargo, que para Santo
Tomás, Dios no procede como un artesano, porque el objeto inmediato del acto creador es el esse, el ser mismo del ente, el cual actualiza a la materia y a la forma, esto
es, a la esencia, resultando a su vez restringido y limitado por ella.
Pero los equívocos de Heidegger abundan. Tal como lo señala en Was ist
Metaphysik?, el pensamiento cristiano considera a la nada como la ausencia total de
realidad, lo cual implicaría, en su opinión, que Dios, al crear, tendría que haberse vinculado con ella. Sorprende bastante que un metafísico de su talla piense que Dios
pueda relacionarse con la nada, como si ésta fuese una zona sin ser que coexistiría
con Dios.
Antes de la creación, no existían simultáneamente la nada y el ser, como lo
asienta Santo Tomás, sino sólo Dios, el ser mismo puro y subsistente, que todo lo llenaba y todo lo inundaba; y si El todo lo colmaba antes de su fiat creador, también lo
sigue colmando después, pues Dios está presente en todas las cosas (adest omnibus)
como causa de su ser.
Por otra parte, Parménides, Meliso y Empédocles tuvieron mil veces razón, al
negar que el ente pudiese provenir de la nada. Y Santo Tomás los confirma plena22
M. HEIDEGGER, Introducción a la metafísica, Nova, Buenos Aires 1956, p. 43.
324
Raúl Echauri
mente, porque el ente no procede de la nada, sino de Dios como fuente absoluta y
única de todo lo que es. Sólo el Ser puede engendrar el ser. En tal sentido, la creación
tiene el carácter de un acontecimiento constituido por el don del ser, aunque tal don
no presuponga evidentemente un receptor.
A nadie se le puede escapar la resonancia heideggeriana de estas ideas, por lo
menos tal como se pueden apreciar en Zur Sache des Denkens. Sin duda, la noción de
Ereignis ocupa allí un lugar central entendida como el acontecimiento que trae aparejado el obsequio del ser: “El don (Gabe) del estar presente es lo peculiar del acontecer”23. Pero una vez que el suceso tiene lugar, el ser desaparece como tal, y sólo
queda en la superficie el ente: “Cuando el ser es visualizado como el acontecimiento,
desaparece como ser”24.
Estas reflexiones heideggerianas, un poco esotéricas, pueden ser esclarecidas a
la luz de la doctrina tomista de la creación. Indudablemente, la creación ha constituido un acontecimiento fundamental, ya que gracias a ella ha comenzado realmente a
existir lo que no existía. Pero el esse mismo, lo más íntimo y profundo del ente, se
disimula en el seno de éste. Sólo podemos percibir el ente, pero el ser mismo en virtud del cual él es o existe, se sustrae a la captación tanto sensible como conceptual. Si
bien el ente indica “lo que es”, el espíritu humano recala espontáneamente en el “lo
que”, sin reparar en el “es”, o sea en el ser. Y es natural que así sea, porque el “lo
que” señala la esencia del ente, y ésta constituye el objeto adecuado y connatural del
entendimiento humano.
Sin embargo, resulta necesario exceder la esencia, el “lo que”, para divisar el
esse como la raíz secreta de todo cuanto existe. Expresado ahora en términos heideggerianos, “el ser es, con respecto al ente, aquello que muestra, que hace visible, sin
mostrarse a sí mismo”25.
También el esse tomista hace visible al ente, por cuanto lo hace existir; y también él, igual que el Sein heideggeriano, no se muestra a sí mismo, ya que se entraña
íntimamente en el seno del ente como el fundamento invisible de la realidad visible.
Este parentesco entra la idea tomista de creación y la noción heideggeriana de
Ereignis, que ha acudido espontáneamente a nuestro espíritu, también ha sido advertida por J. Lotz en un texto que nos complace citar: “Reencontramos aquí una vecindad profunda entre Heidegger y Santo Tomás, en cuanto que el evento original de
aquél y la creación de éste, indican simplemente la comunicación del ser”26.
Efectivamente, creatio y Ereignis designan el acontecimiento del ser, o, si se
quiere, ambos han tenido como objeto la dádiva del ser, obsequio admirable que nos
permite contemplar el fantástico espectáculo de los entes y cuyo misterio siempre
estimulará la reflexión del espíritu humano.
23
24
25
26
M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens, Max Niemeyer, Tubingen 1969, p. 22.
Op.cit., p. 46.
Op.cit., p. 39.
J.B. LOTZ, Il valore religioso nella filosofia dell’essere di M. Heidegger, «Sapienza», 3
(1978), p. 261.
325
note e commenti
326
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 327/338
Filosofía como arte y experiencia de la vida
DANIEL INNERARITY*
■
Forma parte de los tópicos de la profesión que del filósofo se espere una actitud
de desconfianza por principio, una duda o sospecha genérica en relación con la existencia del mundo exterior y de la realidad. Mientras el hombre corriente libra su
batalla contra la dureza del mundo real, el ocioso pensador flirtea con distinguidas
entidades y se bate contra monstruos vaporosos en un mundo al que no llegan los
rotundos desmentidos de la realidad vulgar. Nadie sabría decir a ciencia cierta quién
le ha concedido a este personaje el privilegio de prescindir olímpicamente de la experiencia de la vida. Esta caricatura parece retratar bien a quien se considera un filósofo
escéptico y entiende la filosofía como una actividad más cercana al arte que a la ciencia, más adicta al sentido que a la exactitud. Pues bien, voy a sostener la tesis aparentemente paradójica de que cuanto más escéptico se es, tanto más irrenunciable resulta
la experiencia de la vida, es decir, esas evidencias fundamentales arrancadas penosamente al curso de los acontecimientos, en el trato con la realidad, como sabiduría
vital ganada tras las decepciones y los gozos que jalonan los tropiezos de una biografía finita.
El escepticismo consecuente ha de comenzar desconfiando de la duda absoluta
acerca de la realidad. En el célebre prólogo a la segunda edición de la Crítica de la
razón pura, Kant hablaba de un escándalo de la filosofía consistente en que la existencia del mundo exterior se base en la fe y que no sea posible ofrecer suficientes
pruebas a quien se obstine en ponerla en duda. Heidegger decía en Ser y tiempo que
el verdadero escándalo consistía más bien en que hubiera alguien que esperara tales
demostraciones. El escepticismo razonable se pone de parte de Heidegger en la medida en que duda de la duda acerca de la existencia de la realidad, o al menos no renuncia al hábito —formado en la experiencia de la vida— de que en estos casos el peso
de la prueba recae sobre el acusador. Lo que en la vida se ha mostrado como una
garantía procesal que sirve a la justicia no puede ser ignorado en el ejercicio de la
teoría.
La ocupación del filósofo no puede justificarse si no es porque conduce a una
*
Departamento de Filosofía, Facultad de Filosofía y Letras, Universidad de Zaragoza, Spagna
327
note e commenti
ganancia de experiencia, con todo lo que ello comporta: descubrimiento, sentido,
comprensión, orientación. Si la filosofía fuera únicamente negativa habría desaparecido con la comprobación de que la realidad no es solamente el escenario de la desolación y el sinsentido, como parecería complacer a los apologetas de la amargura. El
pesimismo y la crítica que rebasan las fronteras de lo razonable se convierten en un
implacable tribunal que se dedica a extender arbitrariamente la contingencia del
mundo, a no reconocer los testimonios en favor de un sentido —incoado, modesto—
en lo que se nos ofrece y en lo que hacemos con ello. El hombre teórico excesivamente seducido por la crítica colabora así —probablemente contra sus intenciones—
a ampliar el alcance de la irrealidad, disminuyendo a un tiempo el trabajo de la experiencia. Un vacío inmenso comienza a abrirse a los pies de su atalaya. El estereotipo
de filósofo-que-sospecha se hace a su vez sospechoso de no tener nada interesante
que ofrecer, de que su filosofía a martillazos es una venganza resentida contra su propia ceguera. Y es mejor que no le pille a uno cerca esa peligrosa síntesis de despiste y
violencia.
1. Estrategias contra la desrealización
La filosofía es atención y aprendizaje, experiencia ganada en el trato —no siempre fácil y gratificante— con la realidad. Y además pretendo mostrar cómo esta
ganancia de experiencia que proporciona no aleja a la filosofía del arte, sino todo lo
contrario. La filosofía y el arte son igualmente cultivos de la atención hacia la realidad y no ejercicios de distracción. La filosofía puede ser considerada como una de
las bellas artes en la medida en que coopera con ellas en la ampliación y concentración de nuestro sentido de realidad. Son verdaderas estrategias de resistencia contra
la desrealización.
Hay una tradición filosófica que describe la historia de la humanidad en términos de una progresiva desilusión, como una ganancia de sentido de la realidad. Al
principio era la fantasía y lo ficticio, ahora gobiernan la observación y la experiencia.
Me permito desconfiar de esta épica de la desconfianza. La experiencia nos dice que
andamos más bien escasos de experiencias y sobrados de credulidad. Bien examinadas las cosas, nuestro mundo ofrece también el rostro de una ingenuidad no superada,
creciente incluso. Podría afirmarse que el contenido ilusorio de la realidad oficial ha
aumentado en la cultura moderna.
Este mundo moderno es un mundo de creciente aceleración, de progreso. La
Ilustración tenía, fundamentalmente, prisa. Con ella se introdujo una apremiante
necesidad de tiempo, pues había que recuperar el retraso de la razón. Y para recuperar el único procedimiento era acelerar los procesos. El tiempo, que hasta entonces
no era más que un medio en el que hacían su aparición acciones y actores, se convierte en un poder al que todo se confía en virtud de su mera cantidad. Este cambio
de escala había de tener como consecuencia que el individuo se viera zarandeado en
ese nuevo formato universal entre el entusiasmo por las nuevas dimensiones de los
proyectos históricos y el desconsuelo ante su insignificancia personal. Las tareas
públicas se sobreponen a la pereza privada, la expectativa histórica pone en un
segundo plano a las experiencias personales, entre las cuales está la evidencia de
nuestra finitud y la sabiduría de la paciencia. El nuevo formato del tiempo acelerado
328
Daniel Innerarity
de las expectativas se permite prescindir del tiempo lento de la experiencia. En el
torbellino de la aceleración la experiencia resulta cada vez más impotente, pues cada
vez envejecen con más velocidad aquellas situaciones en las cuales y para las cuales
se obtuvieron las experiencias.
Por eso es propio de los procesos progresivos que comiencen con una iniciativa
ética para continuar con una inercia cinética. Lo que podríamos llamar una heteromovilidad catastrófica consiste en que quien se mueve, mueve algo más que a sí mismo.
Quien hace la historia, hace algo más que historia: destino. Es el exceso cinético que
sobrepasa los límites hasta arribar a lo no pretendido. Ese más fatal es la dinámica de
las masas muertas que, una vez puestas en movimiento, ya no quieren saber nada de
finalidades morales. El fatalismo es la otra cara del activismo irreflexivo. ¿Es posible
entonces hacer algo? Sí, bajo la condición de suponer una continuidad que realmente
no existe, es decir, actuando desde la ficción de que las cosas no han cambiado o no
han cambiado tanto. Al menos, que no ha habido un cambio significativo desde que
comenzó nuestra reflexión y menos aún desde que tomamos la decisión y la pusimos
en práctica. Esta paradoja es especialmente aguda en las acciones que, por su dimensión o por el número elevado de sujetos que están implicados, necesitan mucho tiempo. Mientras el tiempo transcurre —y además aceleradamente— cambian también
los datos a partir de los cuales se comenzó a actuar, y la rectificación no siempre es
posible o beneficiosa. Entonces resulta necesario ignorar las nuevas condiciones,
actuar como si no las hubiera, bajo el supuesto de que las cosas están como al principio. Sin estas ficciones sería imposible acabar ninguna empresa. Donde todo fluye,
las acciones son obligadas a devenir ficciones. Sólo es posible actuar suspendiendo
ficticiamente el curso del tiempo. Luhmann ha hablado a este respecto de la necesidad de reducir la complejidad, pero a nadie se le oculta que toda simplificación contiene alguna mentira piadosa o, mejor dicho, progresista.
Tratándose de política, la observación de Luhmann es muy cierta. El número
creciente de participantes en las decisiones hace que no sea posible controlar a todos
o a algunos expertos, por lo que se impone hacer como si se les hubiera controlado,
pero en verdad nos ponemos en sus manos: les creemos. Esta es la consecuencia de
su tesis de que el incremento de racionalización exige un incremento de confianza,
hasta que ya no se sabe si se cree o se sabe (o se finge saber, que es lo más probable
tratándose, por ejemplo, de política económica). Esta nueva necesidad de creer, instalada en el núcleo de la sociedad tecnológica, supone un incremento del número de
inexpertos, una disminución de la experiencia propia, que no proporciona ninguna
indicación acerca de qué debe hacerse ante las situaciones inéditas. Es uno de los
modos en que se manifiesta que la racionalidad del mundo moderno no reduce el
espacio de lo ilusorio sino que lo aumenta.
2. Experiencia, expectativa, experimento
Otra indicación de la presencia creciente de ficciones en el mundo moderno es
la pérdida de experiencia que se produce cuando es sustituida por la expectativa.
Vivimos en una cultura que está cada vez más dispuesta a la ilusión. Quien carece de
experiencias tiene más facilidad para hacerse ilusiones. Esto tiene mucho que ver, sin
duda, con el ya mencionado envejecimiento de nuestras experiencias, lo que nos hace
329
note e commenti
añorar aquella niñez en la que el mundo no nos resultaba aún extraño. Si no se tienen
experiencias que puedan ser significativas en el momento presente, nuestra expectativa hacia el futuro no puede ser medida —moderada, generalmente— por las experiencias —malas, generalmente— de que disponemos. La expectativa no controlada
por la experiencia se magnifica y tiende a convertirse en ilusoria. Aparecen las superesperanzas y los super-miedos que tan buena acogida tienen entre los desmemoriados.
Ya sé que no ponerse inmediatamente y sin condiciones en favor de la utopía
está tan mal visto como interrumpir por un momento la queja y ver lo que de positivo
hay en la realidad. Pero a veces la utopía no es sino una renuncia a mejorar lo existente en nombre de lo inmejorable. Creo que nuestro campo de acción se define en
otros términos. Se requiere más valor para poner a prueba una opinión o un juicio
que para navegar en el reino de las posibilidades jamás contradichas. Y es que la
experiencia probablemente no sea otra cosa que el nombre que damos al aprendizaje
que resulta del fracaso, del desmentido de una expectativa por el veto interpuesto por
la realidad. Las experiencias son el buen resultado de la crisis de las expectativas. El
malo es la puerilidad. Cuando la fuerza de desmentir que es propia de la experiencia
gira en el vacío, el principio de realidad pierde crecientemente la posibilidad de
hacerse valer. Aparece lo que Koselleck llama el vacío entre la expectativa y la experiencia1. Los hombres se convierten en “esperadores” sin experiencia, en ilusos. Las
expectativas que han soltado las amarras con el pasado y con el presente se dirigen a
lo más lejano y futuro, adquieren un tono patético. A este respecto, Koselleck ha
denominado a la modernidad la era de las singularizaciones2. En ella no sólo se singularizan los progresos en el progreso, las libertades en la libertad, las historias en la
historia, sino sobre todo las expectativas en la expectativa: en una única y absoluta
expectativa total que está por encima de toda satisfacción real —y, por tanto, de cualquier decepción—, pues está decepcionada a priori de lo dado, de tal modo que esperanza y decepción confluyen en una actitud que podríamos llamar de indignación
continua. El principio esperanza se convierte así en principio fanatismo, lo que en
alemán se dice Unbelehrbarkeit, es decir, literalmente: imposibilidad de ser enseñado, de aprender, incorregible. Lo malo del doctrinarismo es que no tiene remedio. La
indisposición habitual a ser corregido por las experiencias agudiza la pérdida de
experiencia. Condena al hombre a existir esperando todavía y habiendo dejado ya de
experimentar.
Al hablar de experiencia hay que distinguirla cuidadosamente del experimento
científico, pues no son la misma cosa. Es más: están incluso en relación inversamente
proporcional. Precisamente en la era moderna —caracterizada por una pérdida creciente de la experiencia— es cuando tiene lugar el apogeo de las ciencias experimentales. Allí donde disminuye la capacidad para la experiencia de la vida, se hace necesario salvarla mediante una delegación en los especialistas de lo empírico. Pero la
paradoja consiste en que cuanto más exacta —más especializada— es la elaboración
que los expertos hacen de la experiencia, tanto menos podemos seguirles, y nos
vemos obligados a aceptar experiencias que nosotros mismos no hacemos y que, por
1
R. KOSELLECK, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp,
Frankfurt 1979, pp. 349ss.
2 Cfr. ibidem, p. 265.
330
Daniel Innerarity
tanto, no son experiencias de la vida, de nuestra vida. La ciencia conduce a la fe... en
la ciencia y en los científicos. En la medida en que los especialistas del experimento
científico hacen del mundo —por decirlo con Kant— “objeto de la experiencia posible”, deja el mundo de ser objeto de la experiencia propia.
3. El cultivo moral de la experiencia
El fenómeno correlativo en el campo de la ética es la apriorización de las
expectativas morales, la respuesta menos oportuna a la pérdida de experiencia: la
renuncia explícita a ella, o sea aquel apriorismo que —pese a la acertada crítica hegeliana, infructuosa al parecer— se ha convertido en un signo de identidad de buena
parte de la ética posterior a Kant y que culmina en la actual ética discursiva que
absuelve actualmente a quien lo desee de las faltas por omisión en materia de experiencia.
Los intentos de hacer una ética sin experiencia se apoyan en la suposición de
que vivimos en una era postconvencional, lo que nos condena a producir toda nuestra
orientación existencial a partir del discurso ético-filosófico. Creo que tiene razón
Odo Marquard al declararse escéptico ante esta declaración “fundamentalista”, de
que haya que partir de cero: tan mal no estamos3. El apriorismo de la ética discursiva
exige que toda norma moral se fundamente en un discurso universal libre de dominio
al que accedemos con la predisposición de dejarnos convencer por la fuerza del
mejor argumento. Ahora bien, esa disposición a relativizar el propio punto de vista y
a escuchar a los demás se sustenta ya en una actitud moral no deducida de ningún
discurso, sino de la experiencia de la vida, que nos ha enseñado esta obligación elemental. El discurso no puede ser fundamento, comienzo absoluto. Sin una experiencia moral fundamental ni siquiera el discurso mismo puede iniciarse. ¿Cuál es entonces la fuerza argumentativa en materia moral? No lo sé exactamente, pero en cualquier caso muy limitada. Una sociedad donde la vida de seres inocentes hubiera de
protegerse únicamente con argumentos —en la que no hubiera ninguna “convencionalidad” previa bajo la forma de compasión espontánea, atención al otro, sinceridad,
repugnancia ante el dolor injusto o sentido del ridículo— sería mejor abandonarla a
su suerte y, por supuesto, mantenerse lo más alejado posible de los torturadores sin
pretender convencerlos. Si todo hubiera de salvarlo la ética filosófica, sería un indicio de que ya no queda nada que salvar. La experiencia de la vida nos enseña que no
estamos tan mal.
Aristóteles afirmaba que la ética no era apropiada para los jóvenes porque
carecían de experiencia de la vida. Esta opinión supone que la ética es una tematización de la experiencia de la vida que ya se tiene y no una fuente de futuras convicciones. De la ética esperaba el perfeccionamiento del arte de vivir, una ayuda para confirmar o corregir las costumbres de la vida, insustituible por un artefacto argumentativo. Pero para eso se necesita una cierta edad. Esa experiencia de la vida comparecerá
sin duda en un discurso moral pero no se adquiere en él. Si la moral “laica” quiere
decir lo que el término significa —inexperto, lego en la materia, ignorante—, indi3
Cfr. Das Über-Wir. Bemerkungen zur Diskursethik, en K. STIERLE / R. WARNING (eds.), Das
Gespräch, Fink, München 1984, pp. 29ss.
331
note e commenti
caría que se espera demasiado de la ética y que se nos tiene en demasiado poco a los
que no somos catedráticos de la materia. No estamos tan mal como piensan los anunciantes de la postconvencionalidad. La extensión de una suerte de docta ignorantia
universalis como condición de acceso a la elaboración mutua de obligaciones morales provoca en el honrado hombre medio la sensación de que lo hecho hasta el
momento era una indecencia.
A diferencia de Aristóteles, el punto de partida de Kant es catastrofista. Parece
interesado más bien en aleccionar al que no quiere ser bueno que en mejorar al que
ya está convencido, al ciudadano cuya honestidad se reconoce —mientras no se
demuestre lo contrario—, verdadero y único sujeto de la ética (que no necesitan ni el
perfecto ni el desalmado, pues ambos son igualmente incorregibles). Kant parece
suponer que no hay nada en lo que apoyarse, una convicción inicial, algún valor pacíficamente compartido, una preferencia de principio por el bien, un deseo de felicidad
que no significa necesariamente el mal ajeno. El acceso al punto de vista del imperativo moral tiene el estatuto de una conversión. Bien podría decirse que el hombre es
un estudiante de ética que no dejará de ser reprobable mientras no haya aprobado la
asignatura. La ética de Kant es una respuesta a la pregunta: ¿cómo es posible una
ética independiente de la experiencia? El apriorismo ético es la negación de la experiencia de la vida como instancia ética. No es casual que se dirija primordialmente a
los casos de conflicto ético en los que las convenciones y la experiencia de la vida
parecen no ofrecer ninguna solución hasta que aparece la tabla de salvación de un
imperativo formal. Para Aristóteles, en cambio, el conflicto no es el punto de partida.
Por eso dedica su ética al acierto accesible a todos, a una virtud que no supone una
victoria, y transfiere los conflictos a la competencia de los poetas trágicos.
4. El realismo de la lentitud
La actual crisis de la experiencia a causa de la renuncia o desaparición de la
experiencia de la vida es lo que hace que aumente la necesidad de las ciencias del
espíritu, de los saberes humanísticos, de la conciencia histórica y la experiencia estética, de la filosofía. La recuperación del sentido de la realidad requiere otro ritmo.
Efectivamente vivimos en un mundo acelerado, pero también tenemos al alcance
medios para compensarla. A la realidad oficial de la aceleración le acompaña siempre la realidad alternativa de la lentitud. Más aún: precisamente en un mundo rápido
es en el que que hay que ser lento para ser realista, es decir, para ser un poco más
escéptico, para creer menos en los experimentos y en las expectativas, para no confiarlo todo a un discurso universal definitivo. Me refiero a esa suerte de escepticismo
que se basa en la experiencia de nuestra finitud, de la escasez de tiempo, de la necesidad de contar con lo dado, de renunciar al patetismo crítico y mirar con desconfianza
las expectativas desmesuradas.
La velocidad no vence completamente a la lentitud; más bien ocurre que la
necesita para reparar sus propias disfunciones y con frecuencia acude a ella secretamente. Si, por ejemplo, nuestro tiempo está caracterizado por una creciente aceleración, esto significa que nuestras experiencias envejecen cada vez más rápidamente.
Este es el problema de la obsolescencia que acompaña a toda aceleración; la creación
de novedades incrementa lo que ha de desecharse. A la innovación le sigue el cemen332
Daniel Innerarity
terio. A una cultura de la basura le acompaña siempre otra del reciclaje. Si en el
ámbito de la ciencia y la técnica aumenta el envejecimiento, en el de las letras recae
la tarea de rescatar las significaciones de las particularidades agonizantes que no
merecen perecer. Tras la revolución viene el museo, es decir: el sentido estético y el
sentido histórico. Donde crece la extrañeza crece también la necesidad de interpretar
lo pasado. La era del desecho es también la era del museo y el monumento, de los
parques naturales, de la protección del sentido de continuidad histórica, de la ecología física y de la ecología del espíritu, que son precisamente las humanidades, los
saberes de la interpretación y del recuerdo, de la lentitud. Pues la primera experiencia
que se adquiere con el estudio de la historia es la siguiente: cuánto ha cambiado
donde casi nada ha cambiado. Y la segunda dice: qué poco ha cambiado donde casi
todo ha cambiado y donde —como es el caso del mundo moderno— más cosas cambian y más rápido. En el mundo del cambio acelerado habita también la lentitud que
es necesaria para no perecer en ese cambio, para hacerlo inofensivo, menos extraño.
Ayuda a superar la insatisfacción con el mundo que —bajo la forma de desorientación o perplejidad— surgiría ante la impresión de caducidad generalizada.
En un mundo acelerado crece pues la extrañeza, disminuye la experiencia.
Nuestras experiencias envejecen con creciente rapidez. El mundo se amplía enormemente, pero —como ya he señalado— los experimentos técnico-científicos que lo
sustentan no están a nuestro alcance. A los científicos se les cree. Lo que de ello
resulta es que nos vemos empujados a sustituir las experiencias por expectativas ilusorias, hasta que finalmente dejamos de percibir la realidad por culpa de la ilusión: la
realidad misma adquiere el estatuto de lo ilusorio (la confianza en el científico, el
video juego, la realidad virtual, el pánico en las bolsas, la cultura de la imagen, el
rumor, la simulación política... ). Si las ciencias físico-matemáticas se hicieran con el
monopolio de la experiencia, los no versados viviríamos en un mundo irreal, de pura
creencia, sustentado en experimentaciones sofisticadas cuya validez no podríamos
comprobar. Pero afortunadamente existen las letras que todo el mundo entiende más
o menos, para las que no hay una frontera exacta entre profesionales y aficionados, ni
acreditaciones de competencia exclusiva. A los humanistas se les juzga.
5. El rendimiento cognoscitivo del arte
En esta situación, los saberes humanísticos son un camino de retorno desde lo
ficticio a la realidad. Aparentemente tienen más bien que ver con todo lo contrario:
mundos irreales, mitos superados, libros envejecidos, teorías etéreas, sentidos indemostrables, horrores y bellezas en estado puro, gestas y tragedias... La expresión de
Verlaine et tout le reste est litérature designa precisamente esa identificación de
arte y falsedad retórica o, al menos, insignificancia cognoscitiva. Frente a este
prejuicio, Marquard ha propuesto recoger lo mejor de la concepción romántica del
arte como anti-ficción, cuya tarea no tiene lugar en el ámbito de lo ficticio, sino
que es un instrumento para obtener experiencias —por eso Schelling llamaba al
arte el órgano de la filosofía—, de reflexión y atención. Lejos de ser un entretenimiento banal, el arte tiene que ver con lo que es “grave y constante” (James Joyce)
en el misterio de nuestra condición. Su rendimiento cognoscitivo —al presentarnos
la condición humana de una forma que nos es inédita y familiar a la vez, pues todo
333
note e commenti
el mundo entiende el dolor y el llanto, cualquiera sabe de amores y traiciones—
puede ser de gran relevancia en una sociedad precipitadamente dividida entre legos
y competentes. El mundo del arte permite enriquecer las experiencias sin que dejen
de ser nuestras. Por eso puede contribuir a que deje de ser necesario adquirir competencia técnica a cambio de rudimentalismo cultural o pagar con un analfabetismo
tecnológico la privacidad llena de sentido. En otros términos: a que no haya que
optar entre la lentitud y la prisa, entre la experiencia y la perplejidad. Porque el arte
es lo más resistente al envejecimiento; su constancia y duración constituyen el
núcleo de su llamada de atención sobre ese aspecto y ese ritmo desatendido en la
superficie de la aceleración.
El arte es experiencia, es decir, camino de acceso hacia la realidad. Esta concepción del arte es la antítesis de determinado estereotipo tardo-romántico que lo
entendía como embriaguez autorreferente. Un ejemplo de este tipo lo encontramos en
la oposición entre conocimiento y arte, tal como lo establece Nietzsche en su comentario a una fábula puesta en boca de “un espíritu sin sentimientos” y que forma parte
de un escrito póstumo titulado Sobre el pathos de la verdad.
En un lejano rincón cualquiera del universo que se derrama reluciente en incontables sistemas solares hubo una vez una estrella sobre la que astutos animales inventaron el conocer. Fue el minuto más arrogante y embustero de la humanidad, pero fue
sólo un minuto. Tras unas pocas respiraciones de la naturaleza, se heló la estrella y
los astutos animales tuvieron que morir. Ocurrió en el momento preciso: aunque ya
se habían vanagloriado de haber conocido mucho, llegaron finalmente por detrás a la
gran amargura de que todo lo habían conocido falsamente. Murieron y huyeron con
el deseo de la verdad. Así fue la casta de animales desesperados que habían inventado el conocer.
Esta sería la suerte del hombre si fuera precisamente sólo un ser que conoce; la
verdad le arrojaría a la desesperación y al aniquilamiento, la verdad de estar condenado eternamente a la no-verdad. Pero al hombre sólo le conviene la fe en una verdad
alcanzable, en una ilusión que se acerca cordialmente. ¿No vive propiamente de un
continuo ser embaucado? ¿Acaso no le oculta la naturaleza la mayoría de las cosas,
precisamente lo más próximo, por ejemplo su propio cuerpo, del que sólo tiene una
engañosa “conciencia”? Está encerrado en esta conciencia y la naturaleza arrojó la
llave. ¡Ay de la funesta pasión del filósofo por lo nuevo, que exige mirar por una rendija hacia fuera de esa habitación de la conciencia! Quizás vislumbre entonces que el
hombre está fijado sobre la avidez, la insatisfacción, la repugnancia, la impiedad, lo
criminal, colgado a la vez de la indiferencia de su ignorancia y de las espaldas de un
tigre en sueños.
“Déjalo colgado”, dice el arte. “Despiértalo”, dice el filósofo en el pathos de la
verdad. Pero éste naufraga, mientras cree sacudir al que duerme, en una mágica dormición todavía más profunda — quizás sueñe entonces con las “ideas” o con la
inmortalidad. El arte es más poderoso que el conocimiento, pues él quiere la vida,
mientras que el otro alcanza como último fin tan sólo la aniquilación4.
La contraposición de Nietzsche se explica y a la vez es deudora de la restricción
racionalista que trató de asimilar lo verdadero a lo apodíctico y exacto, mientras
4
KSA, 1, pp. 759-760 (cito según la edición Colli-Montinari, Kritische Studienausgabe,
Berlin 1980).
334
Daniel Innerarity
entregaba el vasto espacio de la opinión, de lo razonable, del relato verosímil al sombrío poder de la irracionalidad. Reconocer que existe una dimensión cognoscitiva en
el arte y una dimensión artística en la filosofía se presenta como la única manera de
superar la estéril contraposición entre el discurso de la verdad objetiva y el de la ficción fantasiosa. El arte y la filosofía conspiran juntos en la tarea de ampliar la experiencia humana y fortalecer su atención. Están igualmente interesados en la vigilia
del hombre, que no quisieran pagar con el precio de despojar a la realidad de riqueza
y significación. Ambos rechazan tener que elegir entre los hechos y el sentido. Las
ficciones son susceptibles de una verosimilitud que se hace patente en su rendimiento
cognoscitivo al explorar las posibilidades humanas. Esto no significa que el arte sea
la ilustración de una tesis filosófica. La única razón de ser del arte consiste en decir
aquello que tan sólo el arte puede decir. Se trata de esclarecer estéticamente el mundo
de la vida aventurándose en el reino de las posibilidades humanas. Efectivamente, el
arte proporciona consuelo, pero podemos distinguir entre los consuelos legítimos y
los demasiado fáciles o escapistas. Del arte no queremos sólo que nos consuele, sino
que haga descubrimientos sobre la dura realidad, que suavicen pero no oculten el verdadero dramatismo de la vida. En esto no hay nada perverso. Sólamente los libros
que hacen pasar lo posible por real, que pretenden suplantar la vida y nos impiden
atender a la realidad, los que nos transportan temporalmente a un ámbito del que
regresamos sin ninguna ganancia, que no nos ayudan a comprender mejor la existencia humana, solamente estas mentiras inverosímiles merecen acabar, una vez pasado
el efecto de la droga, en el basurero de los aliviaderos.
La parábola de Nietzsche puede ser más cierta si es invertida y se intercambian
los papeles. En no pocas ocasiones la filosofía contiene menos realidad que el arte y
nos deja literalmente colgados, mientras que el arte es un medio colosal de espabilamiento. Cuanto más tiende la realidad moderna a pasar de la experiencia a la expectativa, tanto más tiende el arte moderno a recorrer el camino inverso y salvar estéticamente la experiencia. No se trata tanto de descubrir lo estético en la experiencia cotidiana, como de salvar la experiencia cotidiana en lo estético. Pero esto sólo es posible si lo estético (el arte y su recepción) es entendido y querido como experiencia. Lo
cual, a su vez, no se logra a pesar, sino debido a que lo estético es un placer, un regalo, una posesión: el gozo de la experiencia5. El gozo recupera la fuerza de la experiencia para desmentir y para aprobar, que había desaparecido en presencia de la rigidez subjetiva o en la nebulosa de una expectativa siempre remota. La experiencia
estética nos confirma en lo que somos y esperamos, pero nos hace gozar con el cumplimiento de una expectativa. Vuelve a trazar un puente entre la experiencia y la
expectativa. Gracias a la experiencia estética ponemos fin a nuestra desatención y
desacuerdo hacia lo que ya somos, y al mismo tiempo nos libera de la sospecha de
que no estemos haciendo otra cosa que un ejercicio de autocomplacencia, nos quita
de encima la estrechez de miras, de quedar ciegos y necios. Y la estupidez más habitual —la que rige el mundo de hoy: “cuánto nos está costando sacarlo adelante”— es
la expectativa etérea e inexperta que —al no conocer satisfacción plena— se vuelve
contra el mundo dado para anularlo en nombre de la salvación, aunque generalmente
5
H. R. Jauß ha llamado la atención sobre este aspecto olvidado por la ascética estética de la
negatividad: la acción de disfrutar, que desencadena y posibilita el arte, es la experiencia
estética originaria (Kleine Apologie des ästhetischen Erfahrung, Konstanz 1972, p. 7).
335
note e commenti
la aniquilación no pase de ser una incapacidad para reconocer todo lo bueno que no
sea resultado de nuestra esforzada construcción.
A un sujeto así le contradice y rectifica la experiencia estética, en la medida en
que ésta mantiene y conserva el mundo que al negador se le estaba volviendo lejano.
La experiencia estética torna las anteojeras en horizontes, desilusiona y pluraliza las
expectativas por el cauce de lo beau relatif. Si esto es así, todos los vocablos con pretensiones de ocupar un lugar central en la definición del arte —utopía, manifestación,
crítica, provocación, revuelta— deberían dejar paso a otros más tranquilos y reflexivos: experiencia, placer, variación, pluralidad, recuerdo, catarsis, identificación. El
arte de la expectativa debe ser sustituido por el arte de la experiencia para frenar esa
creciente extrañeza del mundo, ese peculiar contemptus mundi de la desrealización.
Las obras de arte son los medios de que se sirve la realidad para seducirnos, son
aprobaciones de lo existente, evidencias contra las escatologías precipitadas, remedios contra el abandono del mundo.
6. El error como falta de atención
El filósofo que no atiende a las seducciones de lo real se convierte en un ser
hostil y poco simpático, desconocedor del gozo del descubrimiento. Su pathos crítico
le lleva a tener dificultades para decir que sí, para aprobar6. El gesto de descontento
hacia la realidad forma ya parte del estereotipo filosófico y da a entender que decir
no es la auténtica relación con la realidad. Marquard habla a este respecto de una
nostalgia del malestar en el mundo del bienestar. La cultura había sido definida por
Gehlen como una descarga de lo negativo; gracias a ella los hombres son aliviados
del peligro, la enfermedad, la necesidad, el cansancio, el miedo. Los hombres tienen
pues una disposición a negar, a deshacerse de lo negativo. Cuando lo negativo va
desapareciendo de la realidad, no desaparece al mismo tiempo la disposición humana
a negar. Se queda en paro y busca nuevas ocupaciones —males—, y los encuentra
precisamente en aquella cultura que libera de lo negativo, precisamente porque libera
de lo negativo. Inicia un turismo frenético a la caza de confirmaciones de lo siniestro.
A causa de esta nostalgia del malestar en el mundo del bienestar, el bienestar mismo
termina siendo denominado malestar. Cuanto mejor nos va, tanto peor nos parece
aquello en virtud de lo cual nos va mejor. La descarga de lo negativo conduce a la
negativización de lo que efectúa la descarga. Mencionaré algunos ejemplos de esta
inclemente inversión de la disposición a negar: cuanto más enfermedades vence la
medicina tanto más se tiende a declarar a la medicina misma como enfermedad,
cuanto más ventajas proporciona la química a la vida humana más se hace acreedora
de la sospecha de haber sido inventada para el envenenamiento del hombre, cuanto
más represión ahorra la democracia liberal tanto más es increpada ella misma como
represiva. Quizá sea esta inversión la que explique también que precisamente en una
cultura que logra superar las crisis se tienda a concebir la cultura misma como crisis.
Quisiera mencionar un ejemplo de ceguera filosófica y pathos de cercanía del
6
Cfr. O. MARQUARD, Einheit und Vielheit. Ein philosophischer Beitrag zur Analyse der
modernen Welt, en Stifterband für Deutsche Wissenschaft: Mitgliedversammlung, Stuttgart
8 de mayo de 1986, pp. 11-19.
336
Daniel Innerarity
fin del mundo advertida desde el despiste trascendental disfrazado de privilegio. En
un seminario que tuvo lugar en 1942 acerca de la Teoría de las necesidades y cuyo
protocolo para la discusión ha sido publicado no hace mucho en las Obras completas
de Max Horkheimer, se recogen algunas observaciones sin duda muy esclarecedoras
del alcance de la teoría crítica7. En el momento en que se presentía la posibilidad de
que el capitalismo pudiera satisfacer en buena medida las necesidades elementales,
aparece una nueva preocupación: que los hombres no se ocupen de las cosas más elevadas cuando están satisfechos. En una discusión con la novela de Aldous Huxley
Brave New World se expresa el temor de que la supresión de la necesidad pudiera
equivaler a la supresión de la cultura. Con la desaparición de los viejos miedos se
insinúa una nueva amenaza. Adorno califica la reacción de los intelectuales ante la
maquinaria de cosificación como pánico8. Horkheimer declara que si se hace una
distinción entre las necesidades materiales e ideales, hay que mantenerse sin duda
en la satisfacción de las materiales, pues en esta satisfacción está implícita el cambio social. Esta pretensión de realismo se traduce en el empeño por evitar la demencia que supondría apelar a exigencias individuales. En la tranquilidad crítica del
seminario, Adorno realiza la siguiente afirmación: no es que el chicle dañe a la
metafísica; es que el chicle mismo es ya metafísica. La mala filosofía es expresión de
que los hombres, en la abundancia de la vida asegurada, terminan por arreglárselas
con la miseria y la injusticia. La metafísica es una distracción.
La discusión continúa con la inquietud no disimulada de que la supresión de la
necesidad pudiera llevarla a cabo el capitalismo y no el socialismo. La teoría crítica
de la cultura debería garantizar que la necesidad no fuera vencida por el falso salvador. Este era el sentido de la transformación del arte y de toda la cultura en crítica. El
arte es el guardián de esa verdad utópica. Por eso el arte es desrealizado en un sentido inédito: hablamos hoy de arte, aunque no lo haya. En el arte que no se ha perdido
en la cultura se esconde un presentimiento de la situación en la cual no habrá dominio.
Una confirmación de que la idea de una sociedad sin clases es el único pensamiento que está libre de toda sospecha de ideología la proporciona Horkheimer al
confesar: todo lo que tengo que afirmar hace referencia a la sociedad sin clases; el
resto se me cae de las manos como una mentira. Este planteamiento llevaba consigo
la exigencia de mantener el ideal alejado de cualquier intento de llenarlo de contenido por medio de una intuición o identificarlo en la realidad de algo presente. La
vaguedad del ideal es la condición de su pureza incontaminada. Es difícil, piensa
Horkheimer, decir cómo será la sociedad sin clases. Tan sólo se puede estar seguro
de que todo lo que actualmente se llama cultura es mentira. Los discos de gramófono
no existen sino para cargarse la idea de la sociedad socialista. ¿Por qué vamos a
definir como un valor algo que sabemos que sólo existe hoy para impedir la sociedad
sin clases? Si la cultura presente es excluida de participar en el futuro abstracto, esto
significa que la cultura actual en un sentido afirmativo sólo es posible como crítica
de la cultura. Cualquier tentación de construir puentes entre el presente y el futuro es
7
8
Cfr. Gesammelte Schriften, Fischer, Frankfurt 1985, 12, pp. 559-586.
La posición de Adorno, posteriormente matizada, será recogida en su escrito Aldous Huxley
und die Utopie, integrado en Prismen, Gesammelte Werke, Suhrkamp, Frankfurt 1977, 10,
pp. 97-122.
337
note e commenti
ahuyentada en estas discusiones. Todas las objeciones contra la realidad de la caverna
—sobre la que los filósofos deberían actuar— son tan fuertes que al filósofo sólo le
queda la función de erigirse en un vigilante. En el fondo de la cueva rige una ceguera
tan generalizada que, como dice Adorno en un juicio severo acerca de las piezas de
Beckett, hasta la muerte sale mal. El apocalipsis es el punto de fuga negativo de la
relación hacia la idea originaria.
En estas discusiones, la dialéctica resulta ser el oscilar entre preguntas ingenuas
y respuestas dogmáticas, un esfuerzo por salvarse de la ruina total presagiada por la
imagen espectral de un fascismo ubicuitario. Su negativa a claudicar ante lo existente
confiere a los filósofos un gesto crítico, les da la apariencia de estar emitiendo un juicio definitivo. Pero la idea de una sociedad sin clases no es más que un ticket que
permite liberarse de las lealtades frente a las circunstancias en las que se vive, circular con un orgullo filosófico que vive del desprecio de todo saber empírico, desacreditar la empiria limitada de los habitantes de la cueva. En un excelente comentario al
mito platónico de la caverna y a su recepción histórica, Blumenberg ha hablado —a
propósito del filósofo que ha visto las ideas y viene a mostrárselas a los habitantes de
la penumbra interior— de las manos vacías del que regresa9. Esta vaciedad es otra
manera de llamar a la falta de experiencia. La verdadera ingenuidad filosófica no es
esa falta de experiencia que se disimula con un gesto de superioridad sobre lo real.
9
Cfr. Höhlenausgänge, Suhrkamp, Frankfurt 1989.
338
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 339/352
Tre teorie sulle emozioni: cognitiva, fenomenologica e
comportamentistica (seconda parte)*
ANTONIO MALO**
■
III. Teoria fenomenologica
Un altro modo di spiegare l’emozione è quello proprio della teoria fenomenologica1. Prima di incominciare a parlare di questa importante corrente teoretica, è
necessario stabilire ciò che intendiamo come teoria fenomenologica. Con questo termine non ci riferiamo soltanto alle tesi della fenomenologia di Husserl e dei suoi
seguaci, ma anche a tutte quelle teorie sull’affettività che la considerano come un
fenomeno di coscienza.
1. Si può considerare Cartesio come il precursore di questa tesi. Questo filosofo
considera l’emozione come un sentimento soggettivistico concomitante ai processi
fisiologici ed alla condotta: l’uomo è capace di rendersi conto dello stato del suo
organismo e della condotta che ne deriverà, e tramite questa conoscenza può scegliere tra il seguire l’impulso degli spiriti animali o no2. C’è un punto di contatto con la
teoria cognitiva, in quanto l’emozione è un modo di conoscere, ma si differenzia da
essa perché non si tratta di una conoscenza sul nostro rapporto con il mondo — in
contrapposizione a Aristotele — e neppure del nostro atteggiamento tendenziale —
in contrapposizione a San Tommaso —, bensì si tratta di un sentimento soggettivistico concomitante. Ad esempio, la paura è il sentimento concomitante alla fuga e al
*
La prima parte del presente articolo è stata pubblicata sul precedente fascicolo di «Acta
Philosophica», 3 (1994), pp. 97-111.
** Ateneo Romano della Santa Croce, Piazza Sant’Apollinare 49, 00186 Roma
1 Invece
di teoria fenomenologica, Lyons parla di teoria dei sentimenti. Ci sembra che sia preferibile parlare di corrente teoretica fenomenologica, perché ciò che le diverse teorie di questa amplia corrente hanno in comune non è il concetto di sentimento, bensì l’identificazione
dell’emozione con un fenomeno particolare di coscienza.
2 Cfr. Les passions de l’âme, AT XI, p. 347. Su questo argomento può vedersi il nostro articolo Coscienza e affettività in Cartesio, in «Acta Philosophica», 2 (1993), pp. 281-299.
339
note e commenti
trovarsi fisiologicamente in un certo stato. Abbiamo così che l’emozione — secondo
Cartesio — ha un carattere complesso e quasi paradossale: non è una tendenza sentita, perché la tendenza appartiene alla sostanza estesa che in sé è inconscia (l’emozione è, invece, un sentimento e quindi un fenomeno di coscienza) ma, allo stesso
tempo, essa si trova naturalmente collegata a determinati processi fisiologici.
L’ascrizione dell’emozione all’ambito dei fenomeni di coscienza, benché sembri di grande chiarezza (secondo Cartesio, non si può avere paura senza sentire paura,
giacché la paura non è altro che un determinato oggetto di coscienza), pone due
importanti problemi. In primo luogo, il tipo di oggettività che hanno le emozioni è —
secondo Cartesio — diverso da tutti gli altri fenomeni di coscienza, perché, oltre ad
avere oscurità e confusione come nelle sensazioni e nei sentimenti organici, si sperimenta anche un’interiorizzazione o commozione nella propria anima, dalla quale ha
origine il nome di emozione3.
In secondo luogo, Cartesio afferma che nell’emozione c’è un rapporto tra cambiamenti fisiologici-emozione-condotta che non si trova negli altri oggetti di coscienza. Ciò fa ipotizzare l’esistenza di un rapporto stretto tra la sostanza estesa e quella
pensante che metafisicamente apparivano indipendenti. Certamente non si tratta —
sempre secondo Cartesio — di un rapporto necessario, bensì contingente, in cui non
si può parlare di causalità propriamente detta — Cartesio accetta soltanto quella efficiente —, ma di occasione naturale o di abito volontario. La contingenza di tale rapporto fa sì che le passioni abbiano conseguenze morali, giacché attraverso la ragione
e l’abito — questo concepito fondamentalmente come una tecnica — è possibile
rompere il rapporto naturale.
D’altra parte, l’oggettività peculiare dell’emozione e il suddetto rapporto vengono messi in difficoltà dalla scoperta cartesiana di emozioni pure — l’amore, l’odio,
l’allegria, la tristezza, ecc. — che non hanno un’origine corporale. Perciò si vede
obbligato a introdurre un altro aspetto nella sua teoria delle emozioni: la valutazione
razionale. Ciò nonostante non risolve il problema, perché la valutazione non serve
per spiegare l’emozione in se stessa ma soltanto la sua origine. L’emozione continua
ad essere un sentimento che accompagna uno stato fisiologico e una condotta e, quindi, Cartesio deve sdoppiare ogni passione pura in una passione pura — sentimento
dell’anima senza stato fisiologico — e in una passione impura — sentimento
dell’anima che accompagna uno stato fisiologico particolare4.
2. Con la psicoanalisi, il concetto di emozione come fenomeno di coscienza si
arricchisce dei risultati delle moderne teorie fisiologiche. La teoria di Freud5 collega
il punto di partenza cartesiano — l’emozione è la registrazione soggettiva dei cambiamenti fisiologici e dei movimenti corporali in un sentimento o percezione — con
la tesi di Hume sul ruolo capitale che il piacere o il dispiacere hanno nell’emozione.
Ma lo fa in un modo completamente nuovo. Freud accetta — come Hume — che
l’emozione non sia un evento mentale o first impression, bensì un’impressione
3 Cfr. Les passions de l’âme, AT XI, p. 348.
4 Cfr. ibid., p. 397.
5 Ci sembra che la tesi di Freud sull’emozione,
sia per il punto di partenza sia per il ruolo
essenziale che in essa ha il sentimento, debba essere considerata come appartenente alla corrente fenomenologica, intesa nel senso ampio che usiamo qui.
340
Antonio Malo
secondaria o reflective impression. La differenza tra Freud e Hume consiste in questo: secondo Freud, quest’impressione secondaria non deriva dalle impressioni originali — né immediatamente e neppure tramite l’interposizione della loro idea — perché la causa dell’emozione non ha nulla a che vedere né con la coscienza né con il
cogito.
La distinzione tra la causa dell’emozione e l’emozione stessa risolve il problema cartesiano dell’oscurità e confusione presenti nell’emozione. Infatti — secondo
Freud — l’emozione, in quanto fenomeno di coscienza, è chiara, ma si tratta di una
chiarezza falsa perché nasconde la sua origine oscura e confusa. La sorgente
dell’emozione, come pure quella di ogni altro fenomeno di coscienza, è l’Es. L’Es, la
cui materia prima è la libido6 o pulsione istintiva più impersonale e antica, è il fondamento delle altre due parti della psiche: l’Io — costituito dal pensiero e dal giudizio
— è la parte dell’Es modificata dal contatto e dall’influsso del mondo esterno, e il
Super-Io, che reprime gli istinti censurandoli o ricacciandoli nell’oblio.
Nella spiegazione dell’emozione, Freud si serve di questa triplice distinzione.
L’emozione include in primo luogo particolari innervazioni o scariche, e in secondo
luogo certi sentimenti di due tipi: percezioni delle azioni motrici che si sono prodotte
e sentimenti di piacere o dispiacere che danno all’emozione la sua caratteristica
essenziale. L’unione di questi due aspetti — sempre secondo Freud — nasce dalla
ripetizione di una esperienza particolare che si deve collocare nella preistoria, non
dell’individuo, bensì della specie. Quando si presenta una situazione simile a quella
esperienza originale, gli stati affettivi sono vissuti nuovamente come simboli mnemici. Secondo Freud, l’esperienza originale che è alla base di tutta l’affettività è il desiderio sessuale dell’infanzia che rimane represso e inconscio. L’oggetto o la persona
che produce l’emozione deve, dunque, essere collegata a questo desiderio. Quando
l’energia istintiva che risiede nell’inconscio è alta, c’è bisogno di una scarica che la
riconduca a livelli normali. Se questa scarica non si produce tramite i canali appropriati (la condotta sessuale), si fa attraverso valvole di sicurezza come gli affetti7.
L’affetto viene considerato così un segno dell’energia istintiva.
L’impostazione freudiana dell’emozione ha un valore retorico ed etico contrario
a quello assegnatole da Aristotele. Lo psicoanalista analizza l’emozione, perché vi
vede il simbolo di qualcosa di nascosto. A differenza del retore, lo psicoanalista non
cerca di suscitare l’emozione nel paziente ma di scoprirne la causa. Una volta trovati
i desideri censurati o repressi cercherà di convincere il paziente di ciò che deve fare
per tornare alla situazione ottima di equilibrio psichico. Arrivati a questo punto la
retorica e l’ermeneutica psicoanalitiche si trasformano in etica: il dovere psicoanalitico non deriva — come è logico — dal giudizio dell’intelletto sulla molteplicità dei
desideri (come accadeva in Aristotele), perché il giudizio stesso è fondato sulla
libido, radice di tutti i desideri; ma è proprio questo impulso originario la sorgente
del dovere: la tendenza della libido al proprio soddisfacimento è l’unico dovere reale.
6
Nella riduzione della psiche umana e, quindi, di tutte le manifestazioni culturali a libido
influisce grandemente la filosofia di Schopenhauer (vid. J. CHOZA, Conciencia y afectividad, o. c., specialmente il primo capitolo).
7 Nell’impossibilità di liberare quest’energia istintiva si troverebbe l’origine della frustrazione,
dei complessi e dei conflitti dell’uomo (vid. S. FREUD, The Psychopathology of Everyday
Life, Holt, New York 1915).
341
note e commenti
3. Con la filosofia fenomenologica, questa corrente teoretica sull’emozione raggiunge i risultati più interessanti. Il suo punto di partenza è la concezione dell’emozione come un fenomeno di coscienza diverso dagli atti di pensiero e dalle volizioni:
l’emozione non è un’idea o un oggetto di pensiero — contrariamente a Cartesio —,
perché non corrisponde al logos, bensì è anteriore e, di conseguenza, ha un carattere
prerazionale. L’emozione non è neppure l’aspetto conscio degli istinti biologici, né si
può ridurre al sentimento di piacere o di dispiacere — contro gli psicanalisti.
Nel suo saggio Filosofia della Volontà, Ricoeur sistematizza il pensiero della
fenomenologia sul problema dell’emozione. Accetta la tesi di Husserl, secondo la
quale il sentimento è intenzionale giacché si sente sempre «qualche cosa», ma a differenza di questo filosofo, che non pone nessun limite alla noematizzazione, Ricoeur
sottolinea la peculiarità dell’intenzionalità del sentimento8; si tratta di un’intenzionalità strana perché «da una parte designa delle qualità sentite sulle cose, sulle persone,
sul mondo, d’altra parte manifesta, rivela il modo in cui l’io è intimamente
affettato»9. Nello stesso vissuto convivono, dunque, un’intenzione e un’affezione, un
vissuto trascendente e la rivelazione di un’intimità. Secondo Ricoeur, in questo paradosso consiste l’essenza del sentimento per la quale il sentimento è anteriore e irriducibile a qualsiasi polarità oggettiva.
L’intenzionalità dei sentimenti corrisponde — sempre secondo questo autore —
all’intenzionalità delle nostre tendenze, perché ogni desiderio di «qualche cosa» contiene un «sentimento e amore di se stesso». Perciò, Ricoeur propone come metodo
per studiare l’affettività, l’analisi intenzionale delle tendenze. Richiamandosi alla
distinzione platonica delle tre parti dell’anima (bios, thymós, e logos) concepisce
l’affettività come il thymós o mediazione tra il bios e il logos10. L’emozione non
sarebbe né puramente biologica né puramente razionale, ma parteciperebbe di ambedue i livelli. In quanto legata al bios, l’affettività ha un desiderio vitale — o
epithymía—; in quanto legata al logos, l’affettività ha un amore intellettuale — o
8 Levinas
sostiene qualcosa di molto simile: l’intenzionalità del «vivere di ...» (ciò che è sentito) è diversa dall’intenzionalità della percezione perché il gioco della costituzione cambia di
senso. Ciò — sempre secondo questo filosofo — è stato intuito da Cartesio, quando ha negato il rango di idee chiare e distinte alle sensazioni, ma non da Husserl. «Le monde où je vis
n’est pas simplement le vis-à-vis ou le contemporain de la pensée et de sa liberté constituante, mais conditionnement et antériorité. Le monde que je constitue me nourrit et me baigne»
(E. LEVINAS, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, 4ª ed., Nijhoff, La Haye 1971, p. 102).
9 P. RICOEUR, o. c., p. 100.
10 Prima di Ricoeur, Strasser concepisce l’affettività — seguendo Platone — come thymós o
Gemüt. Ma, mentre per Platone il thymós è inferiore al logos, per lo Strasser è il livello di
esistenza più alto, perché lo concepisce come l’ambito proprio di uno spirito finito, capace
di assoluto tramite la mediazione del finito. Secondo lo Strasser, nel sentimento c’è un
movimento temporale che cerca di superare la stessa temporalità: alla condizione pre-intenzionale, intesa come disposizione ad agire, segue l’atto, che è già intenzionale; il risultato
dell’atto, in quanto rinforza la preferenza o gerarchia delle valutazioni, costituisce uno stato
post-intenzionale o meta-intenzionale. Tallon sostiene che «with the help of affective connaturality and habitude, Strasser’s metaphysics of the Gemüt is complete» (A. TALLON, o.
c., pp. 341-360). Secondo questo critico, la conoscenza per connaturalità, che si identifica in
un certo senso con l’intuizione, e l’abito fanno sì che l’uomo si avvicini agli spiriti angelici,
i quali per intendere non hanno bisogno di ragione e il loro volere non nasce da un atto della
volontà, bensì è l’atto di volontà a nascere dal loro volere.
342
Antonio Malo
eros —. Tra questi due desideri esiste una sproporzione originaria che rende impossibile il tentativo di classificare le passioni a partire da un numero limitato di passioni
semplici, perché le passioni umane non possono mai ricondursi all’unità. Questa dualità dei desideri si riflette nella dualità del piacere e della felicità: il piacere perfeziona atti o processi isolati e parziali, mentre la felicità si riferisce ad un progetto esistenziale.
Il momento etico di questa teoria dell’emozione arriva con la distinzione tra
felicità e piacere. La felicità — sempre secondo Ricoeur — è più perfetta del piacere,
perché questo è finito, mentre quella è infinita. Nel contrarre la felicità in un istante,
il piacere minaccia di paralizzare il dinamismo dell’agire nel festeggiamento del
vivere. Il desiderio vitale non può essere, dunque, sorgente di eticità perché non è
fondamento di un progetto esistenziale; lo è invece l’amore intellettuale, perché questo non si riferisce a ciò che è gradevole o sgradevole, bensì al valore o a priori del
bene e del male qua e adesso11.
1. Obiezioni e critiche alle tesi fenomenologiche
La principale obiezione fatta a Cartesio, e in generale a tutta la psicologia che si
fonda sull’analisi dei fenomeni di coscienza, è stata quella del Wittgenstein, il quale
ha negato la possibilità stessa di ogni analisi considerando che la nostra esperienza
interna — completamente differente da quella esterna — non ne permette alcuna.
Secondo Wittgenstein, l’errore di questi autori deriverebbe dalla tesi razionalista ed
empirista, secondo le quali per sentire qualsiasi tipo di evento mentale è necessario
un innersense o senso interno, simile ai sensi esterni, e questo — sempre secondo il
Wittgenstein — è falso come dimostra l’asimmetria che esiste tra la prima e la terza
persona dei verbi che esprimono emozioni: io ho paura (l’emozione non ha bisogno
di nessuna osservazione per essere verificata) e lui ha paura, in cui è necessaria
l’osservazione12.
L’errore consiste, dunque, nello stabilire una simmetria tra i fatti che sono conosciuti e verificati attraverso i sensi esterni e i fatti di coscienza — eventi, processi,
stati d’animo, ecc. In realtà — opina Wittgenstein — non esistono propriamente fatti
di coscienza, perché, mentre i fatti esterni possono essere espressi tramite il linguaggio, gli eventi mentali sono inesprimibili e, quindi, incomunicabili. Il carattere mutevole dell’evento mentale renderebbe impossibile la descrizione diretta e interna dello
stato di coscienza associato ad una parola isolata. L’impossibilità di comunicare
l’evento mentale deriva dalla specificità propria dell’espressione linguistica, perché
— secondo questo pensatore — ogni espressione linguistica ha un carattere comparativo, negativo e oppositivo, la cui significazione non procede da un’esperienza vissuta, bensì da una scelta e da una valutazione escludenti13.
11 Cfr. P. RICOEUR, o. c., p. 106.
12 Cfr. J.V. ARREGUI, Descartes
y Wittgenstein sobre las emociones, «Anuario Filosófico»,
24/2 (1991), p. 299.
13 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Remarks on the Philosophy of Psychology, I, eds. G.E.M. Anscombe,
G.H. von Wright, Blackwell, Oxford 1980, § 648. Commentando queste idee, Petit scrive:
«nous nous rapportons aux choses avec tout notre langage, avec tout le système de nos con-
343
note e commenti
La tesi di Wittgenstein non corrisponde completamente all’esperienza che tutti
noi abbiamo. Certamente i vissuti interni non sono come i fatti esterni, perfettamente
oggettivabili, esprimibili e comunicabili, né l’osservazione esterna è uguale all’esperienza interna, ma ciò non impedisce l’esistenza di vissuti né la loro conoscenza. Ad
esempio, l’allegria si sperimenta come luminosità interna, che non è osservabile
come un fatto esterno, bensì come un vissuto. Ci sembra che si possa fare a
Wittgenstein una critica simile a quella che lui ha fatto ai razionalisti: questo autore
tenta di trovare una simmetria, lì dove c’è asimmetria, e siccome non la scopre, finisce per negare l’esistenza di ciò che è asimmetrico.
L’impostazione cartesiana non si deve, quindi, rifiutare completamente, perché
l’emozione è anche conosciuta per mezzo dei nostri vissuti. Ciò che della tesi cartesiana non si può, invece, sostenere è la considerazione dell’emozione come un oggetto di pensiero, benché si affermi che è oscuro e confuso. Infatti, la considerazione
dell’emozione come un semplice evento mentale fa sorgere dei problemi irresolubili:
come differenziare una paura da un’altra (ad esempio la paura di perdere la vita, la
paura di essere tradito, la paura di ciò che è sconosciuto, ecc.)? Se si parla di paura in
tutti questi casi, è perché c’è qualcosa di comune; ma in cosa consiste? Nel sentimento che può essere identificato come paura, nell’azione o nello stato fisiologico?
I filosofi analitici inglesi, sulla scia di Wittgenstein, hanno criticato anche il
concetto cartesiano di causalità contingente. Kenny afferma infatti che le connessioni
tra l’emozione e l’oggetto, e tra l’emozione, i cambiamenti corporali e la condotta
non sono contingenti, bensì necessari, giacché non si può definire un sentimento
senza tenere conto dell’oggetto, delle alterazioni corporali e della condotta né reidentificarlo14.
Tutte le critiche mosse contro Cartesio si possono ricondurre — secondo
Ricoeur — alla sua falsa visione antropologica, secondo la quale l’uomo sarebbe una
sostanza pensante e, pertanto, la sua coscienza s’identificherebbe con il logos. Ma è
ugualmente sbagliato — sempre secondo questo autore — ridurre l’uomo a un semplice essere biologico, la cui coscienza sarebbe esclusivamente coscienza di istinti
biologici, specie dell’istinto sessuale.
Nel situare l’origine delle emozioni nella preistoria della specie, Freud propone
l’esistenza di una tendenza che è anteriore alla conoscenza razionale. Ma — come
hanno messo in rilievo i filosofi fenomenologi — non si tratta di una tendenza unica
bensì di una molteplicità: la repressione sessuale non può spiegare l’affetto di un
padre o di una madre per il bambino appena nato (l’interesse sessuale è rilevabile tramite la secrezione di un ormone, ma tale secrezione non appare in questo tipo di
affetto). D’altra parte è interessante sottolineare — come fa Freud — che la tendenza,
benché sia inconscia, influisce sulla nostra condotta, ma certamente non con l’assolutezza e il determinismo che propone Freud.
Riguardo alla tesi di Ricoeur, ci sembra che questa non sia così contraria a quella di San Tommaso come ad un primo sguardo potrebbe sembrare, perché l’Aquinate
parla anche dell’esistenza di due tipi di appetiti: quello sensibile e quello intelligibile,
cepts. Holisme: un mot est solidaire de la structure grammaticale d’une phrase, et cette phrase est à la langue comme une pièce de machine à la machine entière. Or le système complet
de la langue ne correspond à rien dans notre expérience vécue» (J.-L. PETIT, La Philosophie
de la Psychologie de Wittgenstein, «Archives de Philosophie», 54 (1991), p. 595).
14 Cfr. A. KENNY, o. c., pp. 12-13.
344
Antonio Malo
che hanno una certa somiglianza con i due desideri di cui parla Ricoeur. Ciò nonostante esiste un’importante differenza: San Tommaso vede un rapporto stretto tra
questi due appetiti, come tra la conoscenza sensibile e quella intelligibile, mentre
Ricoeur sottolinea la loro dualità che finisce molte volte in contrasto o in tensione.
Questa sproporzione originaria tra la epithymía e l’eros è —secondo noi — il
punto più debole della tesi di Ricoeur. La possibilità dell’integrazione di questi desideri si fonda — a suo avviso — non sulla capacità che ha l’eros di assumere tutti gli
altri desideri, per il fatto di derivare dalle istanze conoscitive e volitive alle quali si
subordinano naturalmente le istanze conoscitive inferiori (questa è la soluzione di
Aristotele e di San Tommaso), bensì sulla possibilità che ha lo spirito di cogliere i
diversi valori mediante la riduzione all’essenza e l’intuizione preferenziale.
Certamente la possibilità di cogliere i valori suppone un’apertura dell’eros rispetto
agli altri desideri, ma se il desiderio vitale non ha una certa subordinazione naturale
nei riguardi dell’eros, il dominio di questo ultimo non potrà non essere dispotico.
D’altra parte, Ricoeur stabilisce una dicotomia tra la epithymía o affettività vitale e l’eros o affettività spirituale; ma — a nostro parere — l’uomo ha una sola affettività, perché l’affettività è inseparabile dalla coscienza, che è unica15.
IV. Teoria comportamentista
Un’altra tesi è quella dei comportamentisti che riducono l’emozione ai suoi
aspetti osservabili. Il precursore di questa tesi è James, che critica le entità psichiche
delle emozioni cartesiane. A suo avviso, benché si debba accettare che le emozioni
sono sentimenti, questi sono il risultato dei cambiamenti fisiologici che, proprio per
questo, costituiscono l’essenza dell’emozione (siamo tristi perché piangiamo, ma non
piangiamo perché siamo tristi) 16. Certamente, il pianto ha a sua volta una causa, la
percezione di un oggetto che ci fa piangere, ma questa percezione — a suo avviso —
non fa parte dell’emozione, bensì è il suo antecedente. In questo modo, nell’emozione
— sempre secondo questo autore — non c’è nessun fattore cognoscitivo. L’elemento
conoscitivo non appartiene all’essenza dell’emozione e, di conseguenza, non serve a
stabilire differenze tra le emozioni. Per fare ciò è sufficiente — secondo James — analizzare e misurare quantitativamente i cambiamenti fisiologici osservabili17.
La tesi di James è stata approfondita e corretta dalla psicologia comportamentista. Secondo Watson, un’emozione è un pattern-reaction ereditato che contiene in sé
profondi cambiamenti nei meccanismi corporali, specie nel sistema limbico. Questo
pattern-reaction — sempre secondo Watson — viene modificato molto presto, perciò
15
Ugualmente ci sembra inesatta la tesi di Alquié, secondo cui ci sarebbero due coscienze:
una razionale ed un’altra affettiva (vid. F. ALQUIÉ, La conscience affective, Vrin, Paris
1979).
16 Cfr. W. JAMES, The principles of Psychology, Holt, New York 1890, pp. 452 e sgg. James
stabilisce una distinzione tra «coarser emotions», come la collera, il dolore e la paura, e
«subtler emotions», come l’amore, l’indignazione e l’orgoglio; questo secondo tipo di emozioni contiene meno sentimenti del primo.
17 Il problema è — come afferma Munn — che l’aspetto fisiologico non racconta tutta la storia
dell’emozione. Cannon, d’altra parte, ha sperimentato che gli stessi cambiamenti avvengono
in emozioni differenti ed anche negli stati non emozionali (cfr. W. LYONS, o. c., pp. 15-16).
345
note e commenti
negli adulti è difficile differenziare, in riferimento ai patterns della condotta, un’emozione da un’altra o da un sentimento non emozionale. Il problema principale per
Watson consiste nell’individuare questi pattern-reaction prima della loro modifica,
altrimenti non si conoscerà mai il tipo di emozione; né, d’altra parte, si potrà stabilire
una classificazione, giacché le reazioni non sono mai identiche, neppure nello stesso
soggetto.
Watson riduce, dunque, tutte le emozioni ai pattern-reaction del bambino appena nato e questi, a loro volta, a reazioni provocate da cambiamenti fisiologici. La
paura, la rabbia e l’amore (questo ultimo inteso nel senso freudiano di libido) costituiscono i tre tipi di cambiamento fisiologico che si producono nel bambino; e di
questi tre, soltanto la paura e la rabbia sono emozioni. Siccome l’emozione consiste
in una semplice reazione, ciò che causa l’emozione è — secondo Watson — la situazione. Davanti alla stessa situazione, conclude questo psicologo, l’emozione è più o
meno la stessa, perché i cambiamenti fisiologici sono gli stessi18.
Skinner, il più noto esponente del comportamentismo contemporaneo, si rende
conto dell’insufficienza della tesi di Watson. Benché accetti che il comportamento si
fonda su due fattori — la fisiologia e lo stimolo esterno o ambiente — non considera
i cambiamenti fisiologici come essenza dell’emozione, bensì la condotta che agisce o
produce un risultato desiderato e, perciò, tende a ripetersi. Sono, quindi, le predisposizioni ad agire in un modo determinato quelle che definiscono un’emozione specifica: un uomo adirato colpisce il tavolo, sbatte la porta..., perché il suo comportamento
tende a raggiungere i risultati desiderati, propri della persona che è stata offesa19.
Scott, un altro comportamentista, cerca di studiare il comportamento in accordo
con le attuali teorie di sistemi. In un articolo molto discusso20, studia la funzione
delle emozioni nei sistemi di comportamento. Le conclusioni a cui arriva sono le
seguenti:
1. Le emozioni sono aspetti dei complessi rapporti che si stabiliscono tra i sistemi dell’organismo: ingestivo, protettivo-ricercativo, investigativo, sessuale,
epimeletico (cura dei piccoli della propria specie), et-epimeletico (di espressione di aiuto e di attenzione), agonistico, allelomimetico (di imitazione) ed
eliminativo (di secrezione).
2. C’è un piccolo numero di emozioni, la cui funzione varia secondo il livello di
organizzazione del sistema in cui appaiono: alcune emozioni si trovano primariamente collegate al mantenimiento della stabilità interna o omeostasi
(come la fame, la sete, il respiro, la tenerezza, la collera, l’ansietà); altre
emozioni, come quell’agonistica e quella sessuale, contribuiscono fortemente
all’approfondimento dei rapporti sociali.
3. Nessuna emozione può essere usata come modello delle altre, giacché ognuna ha una funzione diversa secondo il sistema a cui appartiene; così l’amore
18
Cfr. J. B. WATSON, Psycology as the Behaviorist views it, «Psycological Review», XX
(1913), pp. 158-177. Può vedersi anche la sua opera Behaviorism, Norton, New York 1930.
19 B.F. SKINNER-HOLLAND, The Analysis of Behavior, p. 214; cit.: W. LYONS, o. c., p. 21.
20 J. P. SCOTT, The function of emotions in behavioral systems: a systems theory analysis, in
AA. VV., Emotion: Theory, Research, and Experience I: Theories of Emotion, Academic
Press, Inc., London 1980, pp. 35-56.
346
Antonio Malo
dei genitori verso i piccoli è diverso dall’amore tra maschio e femmina, perché il primo appartiene al sistema epimeletico, mentre il secondo corrisponde
al sistema sessuale.
4. Non c’è una separazione chiara e netta tra sensazione ed emozione, bensì una
continuità graduale.
5. Tutte le emozioni hanno due funzioni nei sistemi organici: mantenere il comportamento per lunghi periodi affinché l’adattamento si produca, e rafforzare
il comportamento in un modo positivo o negativo, contribuendo così
all’apprendistato delle risposte necessarie per vivere.
1. Obiezioni e critiche alle tesi comportamentiste
Benché i comportamentisti differiscano tra loro nel modo di considerare l’emozione (alcuni sottolineano l’importanza del pattern-reaction, altri mettono l’accento
sullo stimolo esterno, sul comportamento o sulla funzione biologica dell’emozione),
tutti concordano nell’identificare l’emozione a partire esclusivamente dalle manifestazioni esterne (siano cambiamenti fisiologici, siano comportamenti determinati).
Questa tesi viene rifiutata dalla semplice esperienza, giacché nonostante le
manifestazioni esterne possano indicare l’emozione che prova una persona, non sempre lo fanno in un modo veritiero. Contro la tesi di Watson, si deve affermare, dunque, che la situazione non è in grado di spiegare l’origine dell’emozione perché una
stessa situazione può provocare emozioni diverse o non provocarne nessuna. Watson
non può spiegare perché davanti al pericolo uno fugga e un altro resti fermo. D’altra
parte, le alterazioni fisiologiche non sono il fondamento dell’emozione, perché, ad
esempio, nel coma si verificano delle alterazioni fisiologiche che non corrispondono
a nessuna emozione.
Si potrebbe per lo meno accettare che l’emozione si trovi legata a un determinato comportamento come vorrebbe lo Skinner? Questo autore vede bene che l’azione
appartiene al concetto di emozione, ma quest’azione non sempre è una condotta
determinata come egli vorrebbe. Alla tesi di Skinner si può fare, perciò, la seguente
obiezione, seguendo il Lyons21. L’uomo adirato agisce in una molteplicità di modi
diversi: arossisce, contrae i muscoli, grida, ecc. Come capire se la faccia rossa corrisponda al comportamento dell’uomo adirato o a quello dell’uomo in preda alla vergogna? Skinner farebbe probabilmente appello ad un altro fattore, la situazione. Ma
così è impossibile evitare di cadere in un circolo logico: la condotta viene identificata
come adirata a partire dallo stimolo della situazione e, a sua volta, lo stimolo viene
identificato come provocatore dell’ira a partire dalla condotta che stimola.
D’altra parte, secondo Skinner, l’emozione nasce quando non c’è una reazione
adeguata tra lo stimolo e la risposta, perché quando la reazione è adeguata la risposta
è così subitanea che non ha bisogno di emozioni. L’emozione avrebbe allora la funzione di trovare una risposta adeguata. Ma, come sottolinea la Heller, «la tesi è assolutamente falsa quando la reazione adeguata non è parte organica del processo ma,
per esempio, del prodotto finale. Chi non ha mai ancora provato la soddisfazione e
21 Cfr.
W. LYONS, o. c., p. 22.
347
note e commenti
gioia incontenibile se a una domanda inaspettata ha risposto con prontezza e precisione?»22.
La tesi di Scott sfugge a questa seconda obiezione perché l’emozione non appare come sostitutivo della risposta adeguata, bensì si trova legata necessariamente a
sistemi di comportamento ben determinato. Ciò nonostante, non riesce a sottrarsi alla
prima obiezione, perché il solo metodo che egli adopera è quello dell’eteroosservazione esterna. Da qui l’indistinzione tra sensazione e sentimento, giacché dal punto di
vista della loro funzione nel sistema non ci sono differenze. D’altra parte non può
concepire sentimenti che non siano collegati ai sistemi che egli individua. Ad esempio, l’amore è — secondo lui — collegato al sistema epimeletico o al sistema sessuale, ma l’amore per Dio o l’amicizia non hanno nulla a che vedere con questi due
sistemi.
V. Conclusione
La storia filosofica dell’emozione si può interpretare come la ricerca di una
risposta alla domanda sull’oggettività dell’emozione. Oltre ad essere centrale in
ambito teoretico — soprattutto nel campo della teoria della conoscenza e dell’antropologia —23 la questione ha delle conseguenze molto importanti in ambito pratico,
poiché la negazione del carattere oggettivo dell’emozione significa di racchiuderla
nell’ambito della coscienza e, di conseguenza, di rendere impossibile la sua comunicazione (l’emozione sarebbe qualcosa di ineffabile), la sua razionalizzazione (l’emozione potrebbe essere soltanto intuita) e la sua educazione (l’unico controllo possibile
sull’emozione sarebbe quello dispotico della ragione). D’altra parte, affermare
l’oggettività dell’emozione presenta meno problemi, ma ciò non corrisponde
all’esperienza che noi abbiamo dell’emozione, secondo la quale ci rendiamo conto
che essa non è perfettamente comunicabile né può essere assolutamente oggettivata
né controllata.
I cognitivisti hanno visto molto bene quando sostengono che l’emozione è in
rapporto con la valutazione di una realtà — sia attraverso la semplice presenza
dell’oggetto in una circostanza determinata, sia attraverso l’impulso che l’oggetto fa
sorgere in noi — e, di conseguenza, che l’emozione non è fenomeno meramente soggettivo. Infatti, siccome l’emozione ha un rapporto con la valutazione fatta dal soggetto, essa ha un carattere soggettivo; ma, poiché la valutazione si riferisce ad una
realtà che appare nell’emozione come il suo oggetto, l’emozione ha un’oggettività.
Dal canto suo, il cognitivismo moderno, sotto la spinta della psicoanalisi e del
comportamentismo, ha sottolineato altri elementi che sono presenti nell’emozione:
l’impulso, il desiderio, il sentimento e l’azione. L’emozione appare così come una
realtà complessa in cui c’è un’interiorità — impulso, cambiamenti fisiologici, sentimento, valutazione o opinione — e un’esteriorità — realtà, evento o azione davanti
alla quale essa viene provata; manifestazioni esterne dei cambiamenti fisiologici,
gesti e azioni.
22 A. HELLER, Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 27.
23 Autori come Scheler, Strasser, Lersch, Wojtyla, Ricoeur, ecc. hanno
speciale al ruolo dell’affettività nella struttura della persona.
348
prestato un’attenzione
Antonio Malo
Due sono i problemi che emergono dall’impostazione cognitivista:
a) Esiste un rapporto tra tutti questi elementi?
b) Qual è il tipo di rapporto?
I comportamentisti negano l’esistenza di un rapporto tendenza-sentimento-comportamento perché il loro metodo di accesso allo studio dell’emozione è esclusivamente l’eteroosservazione. Siccome attraverso questo tipo di esperienza non è possibile accedere alle tendenze né ai sentimenti, l’emozione è identificata con il comportamento, con le differenze già viste a seconda degli autori.
I cognitivisti e i fenomenologi accettano invece l’esistenza di questo rapporto,
perché, oltre all’eteroosservazione, considerano lecita l’autoosservazione. La distinzione tra queste due correnti sta nel modo di concepire il sentimento: nel cognitivismo — sia quello classico, sia quello moderno — il sentimento è una valutazione o
una tendenza sentita che dipende da una valutazione (la valutazione o giudizio è
l’elemento essenziale dell’emozione), mentre nella fenomenologia il sentimento è un
fenomeno di coscienza, che nasconde un impulso originario (questo è il pensiero di
Freud) o è un fenomeno di coscienza, la cui intenzionalità è peculiare perché suppone
la propria affezione e, di conseguenza, il livello tendenziale della nostra personalità
(questo è il pensiero di Ricoeur, Levinas, ecc.).
Le differenze tra queste due correnti si osservano meglio se si analizza il modo
in cui ognuna concepisce il tipo di rapporto tendenza-sentimento-comportamento.
Tutti i cognitivisti accettano l’esistenza di un rapporto. Nella tesi di San Tommaso,
seguita dalla Arnold, la valutazione è la causa dell’emozione, giacché muove l’appetito — lo fa passare dalla potenza all’atto — e, come abbiamo spiegato, questo movimento, in quanto viene sentito, costituisce propriamente l’emozione.
Lyons però critica questa tesi, perché — secondo lui — l’emozione non è un
appetito sentito bensì una valutazione. Per mostrare l’inconsistenza della tesi tomista,
Lyons usa l’esempio dell’emozione della tristezza cagionata dalla morte di un amico,
nella quale non si sente nessun impulso o tendenza ad agire e, dunque, non è spiegabile attraverso lo schema impulso-verso il bene o impulso contro-il male percepito.
In definitiva — conclude questo critico — ci sono emozioni che non sono attive,
come la tristezza o, in misura minore, l’allegria, ma quello che non manca mai
nell’emozione è la valutazione.
A nostro avviso, il problema della tesi di San Tommaso non è identificare il sentimento con l’appetito sentito, bensì il fare dipendere l’attivazione dell’appetito da una
valutazione della cogitativa. Infatti se così fosse, il rapporto valutazione-sentimentoazione sarebbe molto simile a quello di causalità efficiente, ma in questo tipo di rapporto non è possibile distinguere con chiarezza la causa dall’effetto. Certamente, la
valutazione di qualcosa come pericolosa può attivare l’appetito che spinge alla fuga o
a fare fronte al pericolo, ma la valutazione stessa è possibile soltanto se si ha appetito
o tendenza alla propria conservazione. Un problema simile si presenta alla tesi di
Lyons, in quanto la valutazione, oltre ad essere causa dell’emozione, costituisce un
elemento dell’emozione stessa. Infatti, l’attaccamento del soggetto ad un valore —
come l’amicizia verso una persona — appare come condizione antecedente dell’emozione della tristezza per la morte dell’amico. Ma come stabilire se il soggetto sia attaccato a un valore, se non tramite la constatazione che egli reagisce emotivamente nelle
349
note e commenti
situazioni in cui questo valore è messo in gioco o viene perduto, come accade appunto
nel caso della morte dell’amico24?
Perciò — in questo siamo d’accordo con Ricoeur — più che parlare di un rapporto causale tendenza-sentimento-azione si deve parlare di un rapporto intenzionale,
in quanto il sentimento contiene in sé il riferimento alla tendenza. È proprio questo
riferimento alla tendenza ciò che appare nella coscienza come una valutazione. La
tristezza per la morte di un amico si fonda sulla percezione di quella morte come un
male, ma è un male non perché venga valutata così da un giudizio razionale, bensì da
un giudizio naturale che è previo e, a volte contrario, al giudizio razionale. Se possiamo valutare come un male la morte dell’amico, è necessario accettare l’esistenza di
un appetito nell’uomo verso l’amicizia. La possibilità di poter percepire questo bene
di natura spirituale, dimostra che nell’uomo oltre alle tendenze biologiche ci sono
anche quelle spirituali25. La classificazione tomista degli appetiti deve essere, dunque, ampliata da questi appetiti o tendenze spirituali.
Per fare ciò è necessario stabilire altri criteri nella classificazione degli appetiti.
San Tommaso usa come criterio l’oggetto dell’appetito così come appare nella riflessione: l’appetito irascibile ha come oggetto il bene arduo o difficile da raggiungere,
l’appetito concupiscibile quello concupiscibile e l’appetito intelligibile quello intelligibile. Ma gli appetiti, tranne quelli spirituali, non possono avere come oggetti queste
realtà astratte che non soddisfano i bisogni, bensì realtà concrete che li soddisfino,
come il cibo, una bibita, ecc. Dunque gli oggetti che specificano le tendenze saranno
tali perché le soddisfino. Ci sembra che la definizione tomista di appetito non corrisponda a ciò che è l’appetito o tendenza in se stessa, bensì alla valutazione che deriva
dalla tendenza — qualcosa è conveniente o sconveniente — o al modo in cui appare
l’oggetto nella coscienza — la coscienza di piacere, la coscienza di difficoltà, ecc.
24 Neuberg
critica tanto la teoria cognitiva quanto la fisiologica o comportamentista, perché —
secondo lui — spiegare la reazione emotiva di un individuo non consiste nell’indentificare
gli antecedenti causali dell’emozione, bensì nel farla apparire come espressione della persona, presente in una situazione che essa considera come qualcosa che la coinvolge. Benché
non neghi l’esistenza di un elemento conoscitivo nell’emozione, considera che questo elemento non sembra essere una valutazione puramente cognitiva come sarebbe, invece, quella
dell’intelletto che, considerando da un lato la situazione e dall’altro i valori a cui la persona
è attaccata, giudicherebbe questa situazione come pericolosa (a questo giudizio seguirebbe
un sentimento di paura). È — sempre secondo questo autore — la persona che fin dall’inizio sente quella situazione come paurosa, la sperimenta come fastidiosa, ecc. Ciò non vuol
dire — conclude Neuberg — che senta delle sensazioni di pericolo, bensì che la persona è
presente in tale situazione in uno stato di tensione, di eccitazione, di agitazione, ecc. (vid.
M. NEUBERG, o. c., pp. 479-508). Neuberg non spiega però perché la persona è presente in
una data situazione in un determinato stato.
25 Un’ampliazione delle tendenze in questa direzione è stata fatta dal Lersch, per il quale c’è
una pluralità di tendenze somatiche-psichiche-spirituali che, nell’essere vissute, danno
luogo alle diverse emozioni. Lersch stabilisce una corrispondenza piena tra tendenza ed
emozione (vid. Ph. LERSCH, o. c., pp. 99-303), ma — secondo noi — questa corrispondenza
non è perfetta, perché, ad esempio, la tendenza al nutrimento è sentita come fame e non
come emozione. C’è bisogno dunque di stabilire una distinzione tra l’emozione e le altre
tendenze sentite. D’altra parte non sempre le tendenze sono conscie: molte volte la tendenza
all’autostima in un modo esagerato non si sperimenta ma il soggetto ha questa tendenza,
come dimostra il giudizio sbagliato che dà di se stesso e degli altri.
350
Antonio Malo
Infatti la coscienza della valutazione di qualcosa come piacevole o difficile non è un
appetito, bensì un sentimento.
Si potrebbe obiettare che se la tendenza è all’origine della valutazione non
sarebbe possibile spiegare perché davanti alla stessa realtà, ad esempio, un cane che
abbaia, alcune persone hanno paura mentre altre non hanno nessuna emozione. La
distinzione tra le valutazioni che fanno le persone davanti alla stessa realtà può illustrarsi nel seguente modo: benché tutti gli uomini abbiano in genere le stesse tendenze — come quella alla sopravvivenza —, il temperamento, le esperienze e, soprattutto, l’educazione ricevuta le va foggiando in un modo determinato. In definitiva la
tendenza di unione a ciò che è ritenuto come conveniente per la vita e il suo contrario
— di separazione — spiegano perché l’uomo sia in grado di amare e di odiare, ma la
concretizzazione di questo amore o odio di una certa persona verso una determinata
realtà non si può spiegare facendo appello soltanto alle tendenze.
Un’altra obiezione si riferisce al rapporto intenzionale del sentimento con
l’azione. Secondo Lyons questo rapporto non esistirebbe perché una stessa emozione
può dare origine a diversi comportamenti. La critica di questo autore non ci sembra
pertinente, perché l’azione non deve sempre intendersi come un comportamento concreto. Certamente nell’emozione dell’ira, le azioni si possono situare all’interno d’un
comportamento aggressivo, ma nelle emozioni che nascono da tendenze spirituali —
desiderio di potere, amicizia, religiosità — non esiste un collegamento necessario
con un comportamento determinato, perché la condotta non è data nella tendenza se
non come differenti possibilità di agire che devono essere concretizzate. La cultura
gioca in questo punto un ruolo essenziale.
Il sentimento però non può ridursi alla valutazione, perché la sua intenzionalità
è allo stesso tempo un’affezione. L’affezione si presenta come una totalità dotata di
caratteristiche somatiche e psichiche. Dal punto di vista psichico, il vissuto affettivo
può essere analizzato in termini di intensità, interiorità, attualità ed altri analoghi.
L’emozione dell’allegria, ad esempio, si percepisce come luminosità interna e come
mancanza di tre note penose dell’esistenza: il suo peso, la sua tensione e la sua strettezza e, in fine, come vissuto singolare del tempo, in quanto la coscienza rimane
totalmente immersa nella visione del presente26. Non è casuale che la beatitudine,
paradigma dell’allegria, sia rappresentata proprio in questo modo, né che una mistica
come Santa Teresa d’Avila descriva l’inferno, il paradigma opposto, come un corridoio buio, molto stretto27.
In conclusione per accedere all’emozione abbiamo una doppia via: l’esperienza
interna che permette di analizzare la valutazione e il sentimento, e l’esperienza esterna che permette di osservare le manifestazioni esterne. Ognuna di queste due esperienze, nonostante la loro utilità, non serve da sola né per sentire l’emozione né per
spiegarla. Ciò si osserva, ad esempio, nella nostra comprensione dell’allegria, che
parte sempre dal sentimento di allegria che abbiamo sperimentato qualche volta.
26
Per la caratterizzazione fenomenologica dell’allegria può vedersi Ph. LERSCH, o. c., p. 37.
Oltre a queste esperienze dell’allegria ne abbiamo un’altra, quella che corrisponde ad un
tono vitale alto manifestato nei toni acuti della voce — alle volte sono vere e proprie grida
—, nei gesti di aprire le braccia o di sollevarle e nell’attività diligente.
27 SANTA TERESA DE AVILA, Obras completas, 8ª edizione, La Editorial Católica S.A., Madrid
1986, p. 173.
351
note e commenti
Infatti se non esistesse questa esperienza interna dell’allegria, le sue manifestazioni
esterne rimarrebbero per chi le osserva vuote di significato, sarebbero come il significante di una parola in cinese per una persona che non ha nessuna conoscenza di questa lingua o come la descrizione di un colore per un cieco dalla nascita. D’altra parte
se non ci fossero delle manifestazioni, l’allegria — come qualsiasi altra emozione —
sarebbe incomunicabile, non soltanto in quello che ha di esteriorità ma anche in quello che corrisponde al proprio modo di sentirla. La connessione tra aspetto interno ed
esterno si presenta quindi come qualcosa di necessario nella costituzione dell’emozione e nella sua comprensione, ma non è una connessione spiegabile in termini di
causalità efficiente28, bensì in termini dell’intenzionalità specifica che corrisponde
all’affettività.
28
Certamente è possibile scoprire dei collegamenti tra il sentimento interno dell’allegria e le
sue manifestazioni esterne, come il tono vitale alto e il vissuto di ampiezza, o tra il sentimento di godimento del presente e la visione fiduciosa o l’atteggiamento diligente. Ma nella
manifestazione esterna non c’è nulla che si identifichi o, per lo meno, che assomigli al vissuto di luminosità o di chiarezza. Così come la diligenza nell’agire non è vissuta nel sentimento interno di allegria.
352
Cronache di filosofia
A cura di DANIEL GAMARRA
La verità scientifica
Nei giorni 24 e 25 febbraio 1994 si è svolto all’Ateneo Romano della Santa Croce il III
Convegno annuale organizzato dalla Facoltà di Filosofia, sul tema La verità scientifica. La scienza attuale di fronte all’intellegibilità del reale.
La tematica trova la sua motivazione nella fiducia riposta oggi nella scienza, apparentemente
più credibile della filosofia come sapere oggettivo, insieme alla crescente convinzione epistemologica della scienza come conoscenza congetturale in perenne revisione di se stessa.
V. Cappelletti, vicepresidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ha inaugurato la seduta
del primo giorno con un’ampia e penetrante presentazione del pensiero umano sempre rivolto alla
ricerca della molteplice unità della natura, sin dai presocratici (in particolare Parmenide) fino alla
scienza moderna. Nella dialettica universale-individuale, quantità-qualità (ma sottolineando il primato del qualitativo), il pensiero cerca l’intellegibilità del mondo fisico e approda ad una mente
universale che trascende la natura stessa.
Dalla metafisica si è passati alla scienza con l’esposizione di T. Arecchi, presidente
dell’Istituto Nazione di Ottica. Il suo intervento ha rilevato la crisi effettiva della scienza univoca
cartesiana e galileiana, una scienza deduttiva basata sul dualismo teoria-osservazione e su una
grammatica semanticamente riduttiva, la cui formalizzazione completa fu vanamente tentata da
Carnap nel contesto del neopositivismo logico. I teoremi di limitazione di Gödel e di altri matematici e l’attuale indirizzo delle scienze fisiche non lineari hanno evidenziato l’intrattabilità delle
situazioni complesse e l’indicibilità e non computabilità come caratteristiche che emergono
dall’approccio matematico e analitico nei confronti della natura. Arecchi propone un nuovo schema
scientifico basato su un linguaggio “adattivo” che rivaluta il senso della verità come “adeguamento
alla realtà” (San Tommaso), purché venga abbandonata la concezione definita “schizofrenica” di
voler cogliere completamente la natura attraverso procedure di computazione.
M. Baldini, ordinario di storia della medicina all’ Università di Roma “La Sapienza”, terzo
relatore della prima giornata, ha fatto notare il ruolo positivo degli errori nella conoscenza scientifica. Pur nella sua negatività, l’errore riconosciuto e sempre in agguato non è solo un segno della
limitazione umana ma è anche un collaboratore nella ricerca della verità. Possiamo imparare dai
nostri errori e come indici negativi essi sono indicatori della strada più giusta. Dopo aver illustrato
l’importanza dell’errore epistemologico nelle filosofie di Popper e di Bachelard, Baldini ha concluso invitando la filosofia della scienza a prendere nota di un punto pratico fondamentale: la scienza
non nasconda gli errori storici commessi nelle indagini, altrimenti non imparerà a rettificare.
La seconda giornata del Convegno ha avuto inizio con la relazione di R. Martínez, docente di
filosofia della scienza all’Ateneo della Santa Croce. La scienza è riconosciuta come intrinsecamente fallibile dall’odierna epistemologia, ma la fallibilità non è assoluta, osservò il relatore, nel senso
che non sempre le teorie scientifiche superate finiscono “nel cestino dei rifiuti”. Se la cosmologia
tolemaica ad esempio può considerarsi come semplicemente falsa, la scienza newtoniana nei confronti della teoria della relatività e della fisica quantistica non merita certamente un’identica valutazione. In quest’ultimo caso abbiamo a che fare con una scienza superata eppure vera a un certo
livello. Questa conclusione, che porta anche al ridimensionamento dell’incommensurabilità di para-
353
Cronache di filosofia
digmi di Kuhn, si comprende meglio con un concetto adeguato di verità scientifica, non assolutistico o razionalista.
La relazione di M. Artigas, decano della Facoltà ecclesiastica di filosofia dell’Università di
Navarra (Spagna), si pone in continuità con la medesima tematica. La verità delle scienze sperimentali è parziale, contestuale e approssimativa. La sua contestualità, punto discusso con particolare vivacità nella tavola rotonda del pomeriggio, deriva dal fatto che le scienze fisiche elaborano
oggettivazioni precise per capire la realtà in rapporto a strumenti di misura e di osservazioni (con
l’uso, di conseguenza, delle definizioni operazionali). In queste condizioni (cioè in un contesto concettuale e sperimentale) è possibile determinare il significato e il riferimento dei termini degli enunciati scientifici, onde nasce il rapporto veritativo come adeguamento dell’enunciato scientifico con
la corrispondente realtà naturale.
Infine mons. J. Zycinski, vescovo di Tarnów e membro della Pontificia Accademia Teologica
di Cracovia, si è soffermato sulla convinzione realistica degli scienziati, sempre riconfermata dalle
scoperte scientifiche che alle volte avvengono anche indipendentemente dalle teorie, da una parte, e
al contempo e convergentemente previste dai teorici (come avvenne con la scoperta della radiazione cosmica di fondo nel 1965). Non sorprende allora la rinascita odierna della filosofia della natura
ispirata alle scienze sperimentali, anche se praticata spesso in modo dilettantesco. Si apre così, concluse mons. Zycinski, un panorama di ricerca promettente per la filosofia: «esiste un ampio numero
di problemi scientifici, soprattutto nel campo della cosmologia, della meccanica quantistica e della
biologia che può avere una funzione euristica positiva per lo sviluppo della metafisica».
Juan José SANGUINETI
CONVEGNI
● Sul tema Le passioni di Simone Weil. Politica, cultura, religione, si è svolto un convegno, il
27 e 28 gennaio 1994, organizzato dal Dipartimento di Ermeneutica filosofica dell’Università di
Torino, e dal Centre Culturel Français e dall’Association pour l’Étude de la pensée de Simone
Weil. Dopo il saluto del prof. U. Perrone, sono intervenuti come relatori: A. Devaux, Simone Weil
ou la passion de la vérité; G. Gaeta, Simone Weil, una lettura politica; P.C. Bori, Ogni religione è
l’unica vera; G. Forni, Simone Weil e il cristianesimo. L’incontro è terminato con una tavola rotonda in cui erano presenti: U. Perrone, G. Fiori, B. Manghi, A. Marchetti, L. Ronconi, A. Devaux, G.
Forni, G. Gaeta, N. Bosco. Le sessioni del convegno si sono tenute presso il Centro di Studi T.S.T.,
Piazza San Carlo, 161, 10123 Torino.
● Su Il mistero del male e la libertà possibile: lettura delle ‘Confessiones’ e del ‘De Trinitate’
di Agostino, è stato organizzato dal Centro Studi Agostiniani, a Perugia, un convegno di studio
svoltosi dal 22 al 23 marzo 1994. Hanno partecipato con diverse relazioni: N. Cipriani, Istituto
Patristico di Roma: L’autonomia della volontà umana nell’atto di fede; V. Grossi, Istituto Patristico
di Roma: Libero arbitrio, libertà e antropologia nelle Confessioni; J. Oroz Reta, Università di
Salamanca: Esigenze della libertà e del male nelle Confessioni; M. Cristiani, Università di Siena:
Manicheismo e responsabilità personale. Inoltre sono state lette le seguenti comunicazioni: I.
Sciuto, La volontà del male tra libertà e arbitrio; M. Bettetini, Libertà e male nel XII libro delle
Confessioni; G. Balido, Realtà divina e virtualità antropologica nel De Trinitate; V. Paccioni,
Auctoritas et ratio, via alla vera libertà; P.A. Ferrisi, Male, misticismo e sessualità nel pensiero di
s. Agostino. Le riunioni si sono svolte presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, Sala delle Adunanze,
Piazza Morlacchi, Perugia. Segreteria organizzativa: Via Aquilone 8, 06123 Perugia.
● La Commissione Diocesana per la pastorale universitaria del Vicariato di Roma ha organizzato il
7 maggio 1994, presso l’Aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense, Piazza San
Giovanni in Laterano 4, 00184 Roma, il Simposio dei docenti delle Università di Roma sul tema:
Verità e Cultura. Il simposio era diviso in quattro sessioni: Verità e Cultura; Verità e Cultura
354
Cronache di filosofia
nell’Università (I e II); Molteplicità e unità del sapere, e vi hanno partecipato diversi professori e
autorità accademiche delle Università romane: U. Betti, Rettore della Pontificia Università
Lateranense, G. Tecce, Rettore dell’Università degli Studi “La Sapienza”, A. Bausola, Rettore
dell’Università del Sacro Cuore, P. Bucci, Rettore del Libero Istituto Universitario Campus
Biomedico, B. Tedeschini Lalli, Rettore della III Università di Roma, L. Clavell, Rettore
dell’Ateneo Romano della Santa Croce, A. Brancati, Rettore dell’Università “Tor Vergata”, G.
Dalla Torre, Rettore della LUMSA, M. Arcelli, Rettore della LUISS. Inoltre sono intervenuti nelle
diverse sessioni: il Cardinale Camillo Ruini, V. Cimagalli, R. Cortesini, F. D’Agostino, C. di
Agresti, R. Farina, G. Iacovitti.
● Due importanti incontri si sono tenuti nel corso del 1994 nel campo della filosofia fenomenologi-
ca; entrambi sono stati organizzati dall’Istituto Mondiale di Ricerca e di Studi Avanzati di
Fenomenologia, presieduto dalla prof.ssa A.T. Tymieniecka. Il primo, il cui titolo è stato Gli ideali
dell’umanità, si è svolto a Graz (Austria), dal 22 al 28 agosto, in occasione della celebrazione del
25º anniversario dell’Istituto. In questi anni di lavoro questa istituzione ha organizzato ben 35 convegni internazionali, ha pubblicato 48 volumi della serie Analecta Husserliana, e 17 corrispondenti
alla collana Phenomenology Inquiry. Il secondo convegno si è svolto a Parigi dal 6 all’8 ottobre, e
ha avuto come tema centrale La fenomenologia della vita come punto di partenza della filosofia. Per informazioni sulla pubblicazione degli atti ci si può rivolgere a: A.T. Tymieniecka, 348
Payson Rd., 02178 Belmont, Mass., Stati Uniti.
● Il Departement of Moral Philosophy, dell’University of St. Andrews, ha organizzato per il pros-
simo mese di marzo del 1995, dal 23 al 26, la Conference of Moral Philosophy, a cui parteciperanno, fra gli altri, D. Brink, T. Irwin, Ch. Korsgaard, P. Railton, M. Smith, D. Velleman. Per informazioni è possibile rivolgersi a: G. Cullity, B. Gaut, J. Skorupski, Departement of Moral
Philosophy, University of St. Andrews, Scotland KY16 9 AL, tel.: 0334-62486/7; fax: 0334-6248.
RIVISTE
◆ ANGELICUM (Universitas a Sancto Thoma Aquinate in Urbe)
71/1 (1994)
A. Lobato, Filosofía y “Sacra Doctrina” en la escuela dominicana del s. XIII
L’A. mette in risalto la novità culturale della scuola domenicana che, soprattutto attraverso
Tommaso d’Aquino, dà vita ad una nuova ed originale filosofia al servizio del sapere teologico.
Una delle basi fondamentali di questa novità, valida ancor oggi, è la portata trascendente della
intelligenza umana che permette di capire l’essere e i primi principi. L’articolo si chiude con
un’appendice con una selezione di testi riguardanti la legislazione dell’Ordine Domenicano
sugli studi. I testi appartengono a documenti del 1228 e del 1259.
J.A. Merino, Filosofía y teología en la escuela franciscana medieval
L’articolo prende in esame i rapporti fra filosofia e teologia in tre grandi autori francescani:
Bonaventura, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham, ma anche con qualche riferimento
a Alessandro di Hales. L’orizzonte speculativo della scuola francescana, sottolinea l’A., non è
fondamentalmente antagonico rispetto ad altre scuole del XIII secolo, ma rappresenta una lettura originale e, allo stesso tempo, complementare dell’universo medievale.
H. Barbour, Tra “lectio” e “disputatio” negli studi monastici del XIII secolo
L’A. mette in risalto il ruolo della retorica nella costituzione della filosofia scolastica, e come
questa ars non venne trascurata né in ambito filosofico-accademico né in ambito liturgico, cioè
nelle disputationes e nella lectio divina, rispettivamente.
355
Cronache di filosofia
◆ THE JOURNAL OF THE BRITISH SOCIETY FOR PHENOMENOLOGY (JBSP)
25 (1994), fascicolo monografico: The Philosophy of Merleau-Ponty
A. Grieder, How Phenomenologists Rediscovered the World
L’A. afferma che la fenomenologia non è un’unica filosofia, ma che si tratta soprattutto di un
insieme di filosofie la cui connessione si deve cercare nell’aria di famiglia che esiste fra di
esse. Nell’articolo vengono delineate alcune caratteristiche comuni alle diverse filosofie fenomenologiche per individuare il contesto nel quale si colloca la filosofia di Merleau-Ponty.
T. O’Connor, Foundations, Intentions and Competing Theories
L’articolo presenta una prospettiva critica riguardo all’avvicinamento e alla valutazione fondamentale della filosofia di Merleau-Ponty. L’A. afferma che la sola lettura positiva dei testi del
filosofo francese non è sufficiente per capire la portata del suo pensiero; lo si dovrebbe leggere
invece con una certa dose di scetticismo, motivato dal fatto che la filosofia di Merleau-Ponty
ha, secondo l’A., problemi di unità interna e dall’esistenza di autori che contestano più o meno
radicalmente l’idea stessa di filosofia così come la intende Merleau-Ponty.
P.L. Bourgeois, Merleau-Ponty and Heidegger: The Intentionality of Transcendence, The Being of
Intentionality
Il modo in cui Merleau-Ponty affronta il tema dell’intenzionalità e quello della trascendenza è
ambiguo, secondo l’A., e ciò è dovuto, in parte, alla questione della continuità o discontinuità, a
seconda delle interpretazioni, fra le opere giovanili e il suo pensiero più maturo. L’A. comunque afferma che tale ambiguità si potrebbe in buona misura superare attraverso uno studio organico della totalità delle opere di Merleau-Ponty che rivelerebbero anche una vicinanza rispetto
ad alcune tematiche heideggeriane, di cui lo stesso Merleau-Ponty sarebbe l’ispiratore.
M. Villela-Petit, Selfhood and Corporeity
A differenza di Heidegger, la considerazione del se (selfhood) secondo Merleau-Ponty implica,
malgrado la via indiretta e talvolta esitante attraverso cui conduce la sua ricerca, una considerazione esplicita e centrale del problema della corporeità, che in ultima analisi lo conduce, secondo l’A., a tentare un vero sviluppo di un’ontologia della carne.
F. Dastur, Perceptual Faith and the Invisible
L’A. esegue un’attenta analisi fenomenologica della questione della percezione sensibile e della
fede nella realtà risultante dalla percezione, allo scopo di individuare quali sono, secondo
Merleau-Ponty, le percezioni originarie che servono ad innestare il vero discorso filosofico.
L’A. conclude che la fede nella percezione è l’esperienza dell’appartenenza all’essere che permette una visione indiretta di ciò che in se stesso è invisibile.
G.A. Johnson, The Colors of the Fire: Depth and Desire in Merleau-Ponty’s “Eye and mind”
La filosofia si trova nella situazione di dover cogliere il profondo a partire da ciò che il filosofo
vede e che è appunto superficiale. La tematica del profondo in Merleau-Ponty è un punto centrale del suo pensiero giacché compare a proposito di diverse analisi e questioni fenomenologiche. L’A. dell’articolo spiega come Merleau-Ponty intende il profondo in rapporto con la
dimensione spaziale, e come mette in evidenza la tematica del profondo del mondo con il
profondo del desiderio.
M.S. Münchow, Seeing Otherwise - Merleau-Ponty’s Line
La finalità dell’articolo è quella di esplorare un elemento che appare nella fenomenologia della
pittura secondo Merleau-Ponty, cioè la tematica della fenomenologia della linea che evidenzia
come l’universo onirico, che la pittura realizza, è un arricchimento dell’esperienza umana.
W.S. Hamrick, Perception, Corporeity and Kindness
Il soggetto centrale che sviluppa l’A. è quello di mostrare, seguendo il pensiero di MerleauPonty, come il fenomeno della qualità viene illuminato attraverso la fenomenologia della perce-
356
Cronache di filosofia
zione e della corporeità. Esistono, secondo l’A., percezioni immediate della presenza della qualità, che fondano e sono il presupposto delle nostre più complesse relazioni percettive con gradi
diversi di qualità. Il chiarimento di questi rapporti è possibile attraverso l’analisi fenomenologica della percezione della qualità come specificamente diversa dalla percezione ordinaria.
R. McLure, Seeing
L’A. tenta di chiarire alcuni aspetti centrali del dibattito sul vedere epistemico e il vedere nonepistemico, che è tuttora in corso fra diversi autori inglesi e americani. L’A. prende posizione
nel senso che considera il vedere in se stesso come un atto non-epistemico sulla base del concetto di Merleau-Ponty del vedere pre-predicativo.
◆ THE PHILOSOPHICAL QUARTERLY (University of St. Andrews)
175 (1994)
D.W. Hamlyn, Perception, Sensation and Non-conceptual Content
L’A. prende in considerazione la questione dei rapporti fra oggetto e conoscenza sensibile, con
l’intenzione di chiarire se tale rapporto possa essere concettualizzato attraverso uno schema
causa-effetto, oppure se c’è nella percezione qualche elemento che non si riduce ad un rapporto
causale e che potrebbe di conseguenza essere più adatto ad una spiegazione di taglio fisiologista.
R. Moran, Interpretation Theory and the First Person
Esiste il consenso, afferma l’A., che ogni volta che nell’ambito della filosofia della mente si
parla di argomenti come la fiducia, il desiderio, la percezione, e via dicendo, questi concetti
implicano l’applicazione di un determinato tipo di teoria. Il discorso sul riconoscimento della
prima e della terza persona implica invece una serie di concetti che appartengono alla psicologia del senso comune, che non costituisce una teoria fittizia oppure preconcetta, ma si tratta,
come dice l’A., di una “teoria teoria”, cioè di una vera spiegazione dei fatti psicologici.
Vengono discusse quindi due posizioni intorno alla questione degli stati mentali nel riconoscimento della prima e terza persona, e l’A. prende posizione per quella denominata
“Interpretation theory”, che si rifà a D. Davidson.
H.O. Mounce, The Philosophy of the Conditioned
L’A. prende in considerazione alcuni aspetti della filosofia di J.S. Mill e di W. Hamilton per
stabilire in che modo entrambi gli autori possano dirsi realisti. Il filo dell’argomentazione
dell’A. è la considerazione delle tesi fondamentali della gnoseologia sia di Mill che di
Hamilton; malgrado il diverso successo dell’uno e dell’altro —si afferma—, la filosofia di
Hamilton è “l’unica forma coerente di realismo”.
J. McDowell, The Content of Perceptual Experience
L’A. esamina alcuni punti della teoria di D. Dennett sul rapporto fra il contenuto percettivo e
mondo, per affermare che, secondo Dennett, le intuizioni non sono indipendenti da ogni contenuto concettuale, e che appunto non può affermarsi un dualismo, di stampo kantiano, fra intuizione e concetto.
◆ SAPIENTIA (Universidad Católica Argentina, Facultad de Filosofía y Letras)
187-190 (1993)
Vengono pubblicati gli indici generali della rivista, dalla sua fondazione nel 1946 fino al 1992,
in due fascicoli doppi. Gli indici, come scrive nella Presentazione il prof. R.E. Aras, comprendono gli indici di autori di articoli e di note, gli indici di materie generali, e gli indici di concetti
rilevanti.
Vol. 48, fasc. 187-188: Indice general (1946-1992), I: Editoriales y Artículos
Vol. 48, fasc. 188-189: Indice general (1946-1992), II: Notas, Comentarios y Reseñas
Bibliográficas
357
Cronache di filosofia
◆ ETHICS. AN INTERNATIONAL JOURNAL OF SOCIAL POLITICAL AND LEGAL PHILOSOPHY
In un fascicolo non numerato, la rivista di etica dell’Università di Chicago, pubblica: One
Hundred Year Index, Volumes 1-100 (October 1890 - July 1990). Articles and Discussions
Indexed by Author. Si tratta degli indici completi di cento anni di pubblicazioni.
SOCIETÀ FILOSOFICHE
La Sociedad Iberoamericana de Estudios Kierkegaardianos, dell’Università
Panamericana di Città del Messico, ha presentato il libro di Luis Guerrero Martínez, Direttore della
Società, intitolato: Kierkegaard: los límites de la razón en la existencia humana (Publicaciones
Cruz O, México, 1993). L’opera di Guerrero presenta una biografia del filosofo danese, un resoconto dei suoi scritti, per un’ulteriore e più profonda analisi ermeneutica di Kierkegaard. Altri temi sviluppati nella pubblicazione sono: i presupposti antropologici nel divenire esistenziale; coscienza e
scelta nei modi di esistenza; l’io come sintesi; dimensione antropologica del peccato; esistenza e
mondo; la fede come realizzazione esistenziale.
Da poco più di un anno ha cominciato la sua attività l’Istituto S. Tommaso (IST), presso la
Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino di Roma, presieduto dal P. Dietrich Lorenz. L’Istituto
organizza corsi di complemento degli studi tomistici, indirizzati alla specializzazione nella lettura
ed ermeneutica delle opere di Tommaso d’Aquino. È associato alla Fédération Internationale des
Instituts d’Études Médiévales (FIDEM) e si «propone di formare allo studio e all’approfondimento
di S. Tommaso e del tomismo, e di evidenziare il contributo che essi offrono alla riflessione contemporanea». I corsi comprendono un biennio di studio, suddiviso in quattro semestri. Il primo
semestre è stato dedicato ad una Introduzione storico-critica e allo studio di alcune opere di san
Tommaso, e vi hanno partecipato come professori: D. Lorenz, A. Lobato, L.-J. Bataillon, R. Busa,
L. Boyle e S. Tugwell. Durante il secondo semestre sono state studiate le Opere filosofiche di
Tommaso d’Aquino, con speciale riferimento a suoi opuscoli, con la partecipazione, fra gli altri, di
E. Berti, D. Mongillo, P. Nowacki e F. Compagnoni. La terza parte del corso è stata dedicata fondamentalmente allo studio delle Opere di Teologia e Sacra Scrittura, con corsi tenuti da E.
Kaczynski, R. Imbach, M.M. Rossi, L. Sileo, A. Cacciotti, B. Douroux, G. Muraro e T. Centi. Per
l’anno accademico 1994-95 sono previsti invece una serie di corsi il cui tema centrale sarà la Storia
del tomismo e rapporto col pensiero moderno; i professori che interverranno sono: R.
Scognamiglio, S. Fernández, M. Fitzgerald, E. Platti, A. Cortavarría, A. Eszer, P. Conforti, U.
Horst, J. Castaño, C. Soria e J. Montero. Col titolo Studi 1994, l’IST ha pubblicato una raccolta di
studi, conferenze e discussioni che hanno avuto luogo in questo suo primo anno di vita. Al termine
del biennio di studi l’IST rilascia un Diploma; l’indirizzo è: Largo Angelicum 1, 00184 Roma. Tel.:
67021; Fax: 679.04.07.
In occasione del 50º anniversario della morte del filosofo idealista Giovanni Gentile, e del
250º anniversario della morte di Giambattista Vico, l’Accademia d’Ungheria in Roma, con sede a
Palazzo Falconieri, Via Giulia, 1, 00186 Roma, ha organizzato le Giornate di Studio sulla Filosofia
Italiana, dal 25 al 27 maggio 1994. Ha presentato e introdotto i lavori János Kelemen, Direttore
dell’Accademia e professore dell’Università di Budapest, e sono intervenuti in qualità di relatori:
A. Negri, che ha parlato su: Neoidealismo italiano - Ricupero di Vico - Ermeneutica; J. Pál, Sulla
fortuna di Vico; A.M. Jacobelli, Vico e il linguaggio; C. Castellani, Metafisica della mente e
«verum factum»; J. Jacobelli, Il carteggio di Gentile; V. Stella, La filosofia dell’arte di Gentile; A.
Jannazzo, Gentile e il fascismo. Fra gli altri hanno presentato comunicazioni: K. Kaboklicki, T.
Szabó, A. Wessely, F. Rizzo Celona, B. Somlyó, A. Sabatini, L. La Porta, E. Ördögh, A. Infranca e
M. Montori. Le Giornate di studio si sono concluse con una tavola rotonda, presieduta da G.
Vattimo, sulla filosofia ermeneutica italiana, cui hanno preso parte anche B. Bacsó, G. Carchia, J.
358
Cronache di filosofia
Kelemen, G. Nicolaci e B. Samlyó. Nel corso della tavola rotonda è stato presentato un numero
monografico della Rivista «Athenaeum» di Budapest, con il titolo Olasz filozófai hermeneutika
(Filosofia ermeneutica italiana).
La Katholische Hochschulgemeinde, di Vienna, ha pubblicato gli atti dei suoi due ultimi
convegni. Il primo volume, il cui titolo è Naturwissenschaft und Weltbild. Mathematik und
Quantenphysik in unserem Denk- und Wertesystem, ed è curato da H.-Ch. Reichel e Enrique Prat
(Verlag Hölder, Wien 1992), raccoglie i contributi del simposio tenutosi dal 15 al 17 gennaio 1991.
Il volume è diviso in tre sezioni: Matematica e immagine del mondo, con interventi di H.-Ch.
Reichel, G.J. Chaitin, K. Sigmund; Fisica e immagine del mondo: W. Kummer, K. Baumann, J.S.
Bell, A. Zeilinger, D. Flamm; Scienza della natura, filosofia e fede: P. Weingartner, G. Pöltner, J.
Seifert, A. Suarez. Il secondo volume, intitolato Ökonomie, Ethik und Menschenbild, a cura di E.
Prat (Verlag Fassbaender, Wien 1993), presenta gli atti del simposio corrispondente al 24-25 marzo
1992. Nella prima sezione, Etica e immagine dell’uomo nella teoria economica, scrivono H.-Ch.
Biswanger, H. Matis, M. Spieker, E. Prat, J. Hanns Pichler; la seconda, Etica, razionalità ed economia, è a carico di P. Koslowski, F.R. Hrubi, R. Alvira; e l’ultima, intitolata: Etica e immagine
dell’uomo nella prassi economica, raccoglie le relazioni di A. Maculan, K. Czempirek, M.
Hofmann, H. Stremitzer; il libro si chiude con un Epilogo di Ch. Schönborn. Entrambi i volumi
vengono corredati da un ampio indice di nomi e di materie.
La Fondazione Ezio Franceschini, presieduta dai proff. M. Olivi e C. Leonardi, bandisce
ogni anno diverse borse di studio sia per avviare programmi di ricerche, che per tesi di laurea già
discusse. Fra l’altro quest’anno le borse istituite sono state dedicate alla miglior tesi di laurea in
cultura mediolatina e a ricerche in storia della letteratura mistica del Medioevo, teoria musicale nel
Medioevo, filologia e letteratura latina medievale. Le informazioni per participare ai diversi concorsi si possono richiedere alla Fondazione: Certosa del Galluzzo - 50124 Firenze; tel. (055)
204.9749.
In occasione della pubblicazione dell’opera di Paul Ricoeur, Sé come un altro, a cura di
Daniela Iannotta (Jaca Book, Milano 1993), l’8 gennaio 1994 hanno parlato sull’Ermeneutica del
Sé, presso la sede del Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche (Via dei Serpenti 100, 1º): F.
Brezzi, D. Iannotta, D. Iervolino, T. Imamichi e M. Sánchez Sorondo. Il 26 febbraio, in occasione
della presentazione dell’opera di Marco Ivaldo, Libertà e Ragione. L’etica di Fichte (Mursia,
Milano 1992), sono intervenuti sul tema: Fatto morale e metodica trascendentale, i proff. F.
Bianco, A. Rigobello, A. Ales Bello e M. Ivaldo. Entrambe le sessioni sono state seguite da un
dibattito.
RASSEGNE EDITORIALI
■ La casa editrice Laterza (Roma-Bari 1993) ha pubblicato di H. Althaus, Vita di Hegel. Anni
eroici della filosofia, in cui l’autore presenta una ricostruzione unitaria della vita, opere e sviluppo
del pensiero di Hegel.
■ Il noto studioso di Aristotele Pierre Aubenque ha curato un interessante lavoro collettivo sulla
politica aristotelica: P. Aubenque - A. Tordesillas (a cura di), Aristote politique: études sur la
‘Politique’ d’Aristote, PUF, Paris 1993.
■ G. Duso pubblica un approfondito studio: Il contratto sociale nella filosofia politica moderna,
Franco Angeli, Milano 1993.
■ Sono stati pubblicati gli Atti dell’Internationales-Edith Stein-Symposion tenutosi a Eichstatt nel
359
Cronache di filosofia
1991: R.L. Fetz - M. Rath - P. Schulz (a cura di), Studien zur Philosophie von Edith Stein, Karl
Alber Verlag, 1993.
■ È uscito un nuovo volume della opera omnia di Hans-Georg Gadamer che include scritti di estetica: Gesammelte Werke, vol.: VIII: Ästhetik und Poetik I. Kunst als Aussage, J.C.B. Mohr,
Tübingen 1993.
■ Presso la casa editrice Payot di Parigi è uscito: George Gusdorf, Le Romantisme, 2 voll. (Payot,
Paris 1993).
■ Una traduzione di un importate libro di S. Kierkegaard è stata pubblicata da Rizzoli: S. Kier-
kegaard, Stadi sul cammino della vita, Rizzoli, Milano 1993. L’edizione è stata curata da
Ludovica Koch.
■ Un interessante libro su un aspetto di singolare importanza per la cultura filosofica tedesca di
questo secolo è uscito di recente: K.-Ch. Köhnke, Entstehung und Aufstieg des Neukantismus.
Die deutsche Universitätproblem zwischen Idealismus und Positivismus, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt a.M. 1993.
■ Nella collana “La Nuova Italia Scientifica”, diretta da C. Cesa, sono stati pubblicati due interessanti volumi sulla filosofia di Kant: S. Landucci, La Critica della ragion pratica di Kant.
Introduzione alla lettura, La Nuova Italia, Firenze 1993; e G. Tognini (a cura di), Introduzione
alla morale di Kant. Guida alla critica, La Nuova Italia, Firenze 1993.
■ Un importante strumento di lavoro viene pubblicato da Vrin di Parigi: si tratta del carteggio fra
Leibniz e Thomasius che appare per la prima volta in versione completa: G.W. Leibniz - J.
Thomasius, J., Correspondances: 1663-1672, a cura di R. Bodéüs (Vrin, Paris 1993).
■ La casa editrice Einaudi (Torino 1993), pubblica il volume: Novalis, Opera filosofica.
■ Un classico di filosofia della religione è stato tradotto in italiano: W.F. Otto, Il Mito, Il
Melangolo, Genova 1993.
■ Il primo volume di un progetto comprendente l’intera storia della filosofia è stato presentato a
Firenze: P. Rossi - C.A. Viano, Storia della Filosofia, Laterza, Roma-Bari 1993. Il corso completo
sarà di sei volumi.
■ La traduzione di un importante testo di G. Simmel, uno dei fondatori della moderna sociologia, è
stato pubblicato da Guanda (Parma 1994): G. Simmel, Saggi di cultura filosofica; si tratta della
traduzione di Philosophische Kultur, apparso per la prima volta nel 1913.
■ Curata da G. Santinello, è stata pubblicata la traduzione di: K.-H. Volkmann-Schluck, Nicolò
Cusano. La filosofia nel trapasso dal Medioevo all’Età Moderna, traduzione di Umberto Proch,
Morcelliana, Brescia 1993.
360
recensioni
AA. VV., Filosofia e democrazia in Augusto Del Noce (a cura di Giuseppe
Ceci e Lorella Cedroni), Cinque Lune, Roma 1993, pp. 233.
■
La filosofia delnociana, come ha segnalato Gaetano Vairo nella postfazione a Filosofia
e Democrazia in Augusto del Noce, costituisce un’analisi prospettica che trova “una evidente
attuazione” nella situazione politica italiana di oggi. Perciò possiamo anche affermare che
l’opera che adesso commentiamo riveste un notevole interesse non solo per chi vuole
approfondire la conoscenza del noto filosofo, ma per chi sia veramente interessato ad una
riflessione sul collegamento tra la prassi socio-politica e le sue radici filosofiche.
Infatti, la struttura dell’opera consente di seguire i passi principali dell’analisi di Del
Noce sulla storia della filosofia moderna, facendo vedere nello stesso tempo che tale riflessione critica prende spunto sempre dal confronto con la cultura laica del suo tempo.
Andrea Parisi apre la prima sezione del libro con il saggio La genesi della modernità e il
problema del realismo nel pensiero di Augusto del Noce (pp. 27-64), nel quale cerca di ricomporre a grandi linee il quadro della concezione che il filosofo propose come alternativa al
razionalismo moderno. Partendo dallo studio del 600 francese, Del Noce intendeva arrivare ad
una filosofia cristiana “per essenza”. Riesce a concepire un realismo cristiano, incompatibile
però con il cartesianesimo, caratterizzato dal separatismo, dall’antinaturalismo e dalla conseguente dualità tra vita spirituale e storia. Perciò il suo realismo è un tentativo di riproporre
l’essere partendo dall’esistenza e dalla storia.
Il secondo saggio, Del Noce critico del totalitarismo (pp. 65-94), è di Gianni Dessì. Si tratta della ricostruzione di come si è sviluppata la critica delnociana al totalitarismo dal 1936 al
1957, periodo in cui egli formula le tesi che verranno esposte in seguito nei suoi volumi più
conosciuti, come Il problema dell’ateismo e Il suicidio della rivoluzione. Gianni Dessì difende la
seguente interpretazione: Del Noce, quindi il suo pensiero, è contraddistinto dall’apertura,
dall’accettazione della sfida della storia, che mette alla prova un presupposto da lui assunto, che
è sostanzialmente il suo cattolicesimo e la posizione antropologica ad esso connessa. La strada
che l’Autore propone per verificare tale ipotesi di lettura del pensiero delnociano passa attraverso l’analisi della formazione delle sue posizioni politiche, lo studio della sua nozione di totalitarismo e il nucleo di problemi alla quale essa rimanda, soprattutto l’antitesi forza-persuasione.
Pasquale Serra si sofferma sulla Metafisica e democrazia in Augusto del Noce (pp. 95108). In questo scritto, tendente — come tutti e cinque i saggi che compongono la prima parte
del libro — a far comprendere il complesso itinerario speculativo delnociano, Serra sottolinea
che è stato l’incontro con Marx a costringere Del Noce a ripensare il modo tradizionale di intendere i rapporti tra metafisica e storia, tra filosofia e politica. Questo dialogo critico col marxismo
gli ha fatto capire il bisogno di una nuova posizione metafisica, capace di mostrare il fallimento
della filosofia moderna attraverso l’uso del loro stesso metodo, quello dell’evidenza critica.
361
recensioni
Tale confronto col marxismo e col totalitarismo, insieme all’analisi critica del concetto
di modernità, porta a una democrazia che è un punto di arrivo nella filosofia di Del Noce.
Lorella Cedroni dà un orientamento per l’approfondimento di tale dimensione speculativa
nelle pagine intitolate Democrazia e filosofia politica in Augusto Del Noce (pp. 109-139).
Il filosofo, sottolinea la Cedroni, cerca di superare lo stato di precarietà della democrazia, l’unico regime che «rischia continuamente la possibilità della propria autodistruzione».
Ciò significherà per Del Noce raggiungere una giustificazione della democrazia come “valore
in sé” e non più “democrazia procedurale” o accordo convenzionale sulle regole del gioco raggiunto dalla maggioranza. La condizione per tale superamento è recuperare la dimensione
“trascendente” della democrazia, che il razionalismo cerca di ignorare. Del Noce affronta così
il vero problema della filosofia: quello dell’interpretazione transpolitica della storia. È questa
la chiave per capire anche il senso della critica delnociana alla democrazia pura: una democrazia fondata sulla forza rappresentata dalla quantità dei voti e retta dal principio della quantità, in pratica si traduce, secondo Del Noce, in democrazia manipolata.
Nel quinto saggio, Il problema politico dei cattolici in Augusto del Noce (pp. 141-169),
Massimo Borghesi giustifica l’immagine che lo stesso filosofo accreditava di sé: quella di un
“pensatore solitario”, almeno fino al suo incontro con “Comunione e liberazione”.
La prospettiva di impegno politico di Del Noce non coincideva con la violenza antifascista, per cui verso il 1945 avvenne la sua rottura col cristianesimo di sinistra; ma nemmeno
trovava nella proposta democristiana una prassi comune. A partire dalla spiegazione di queste
difficoltà, Massimo Borghesi presenta un Del Noce che da una parte difende la laicità della
politica, contro la prassi clericale di diversi settori democristiani, ma che d’altra parte sa rifiutare l’atteggiamento laicista di quei cristiani che adottano una separazione tra religione e vita
pubblica, che cancellano più o meno coscientemente la rilevanza storica della fede.
Il saggio del Borghesi trova continuità nei primi tre studi che compongono
«Argomenti», la seconda sezione dell’opera. Infatti, Giuseppe Ceci (Augusto del Noce:
l’uomo, il pensiero, pp. 173-181) descrive in poche pagine qual è stata la posizione delnociana
sull’unità politica dei cattolici. Del Noce la concepiva sì come un bisogno di questo momento
storico italiano, per salvare la democrazia, ma continuava a sostenere il carattere relativo di
tale necessità, perché, secondo lui, partendo da una morale basilare comune anche ai non cattolici, saremmo arrivati ad un dibattito politico riguardante l’opportunità o meno di certe vie
politiche. Ciò renderebbe superflua l’unità politica dei cattolici.
Nello studio di Bruno Iorio (Del Noce e la crisi del moderno nella filosofia politica
dell’Italia del novecento, pp. 183-194), troviamo descritto l’atteggiamento di Del Noce di
fronte alla filosofia politica dell’Italia moderna e contemporanea. L’obiettivo è quello di
addurre una serie di ipotesi di verifica della validità dell’interpretazione fatta dal filosofo.
Attraverso quest’analisi, l’Autore mette in risalto la funzione delnociana di stimolo e di critica, indispensabile per la ricostruzione della storia del nostro tempo.
L’ultimo lavoro della sezione è di Alfredo Omaggio (L’itinerario della storiografia speculativa di Augusto del Noce, pp. 195-214), che ci propone il “filosofo teoretico” o lo “storico
della filosofia” in contrapposizione al filosofo della politica. Seguendo la traccia indicata da
Vittorio Mathieu, Alfredo Omaggio presenta la storiografia delnociana come il mezzo che ha
liberato la riflessione speculativa di Del Noce.
L’opera si chiude con l’intervista di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli a Augusto del
Noce, risalente al 1984, e apparsa su «Trentagiorni», nell’aprile dello stesso anno. A conclusione delle analisi del pensiero di Del Noce, la rilettura di queste sue dichiarazioni rilasciate
pochi anni prima della sua morte, è come mettere in rilievo ancora una volta che la sua chiarezza di idee è stata resa possibile da una grandezza intellettuale che il filosofo ha saputo vincolare a una volontà sempre aperta ad accogliere ogni conquista umana della verità e del bene.
Maria Aparecida FERRARI
362
recensioni
ARISTOTELE, Metafisica (a cura di G. Reale), Vita e Pensiero, Milano 1993,
pp. 408 (vol. 1), 706 (vol. 2) e 712 (vol. 3).
■
L’edizione maggiore rinnovata della Metafisica di Aristotele che Reale ora presenta
offre al lettore alcune novità rispetto alle edizioni precedenti — nella forma di presentazione e
in alcuni complementi —, anche se, come egli stesso afferma, la sua ben nota interpretazione
dell’unità della Metafisica di Aristotele non viene mutata; anzi, viene ribadita sulla base delle
diverse acquisizioni fatte negli ultimi anni, dedicati allo studio di Platone e i Platonici.
L’edizione è composta di tre volumi: un primo che contiene un Saggio introduttivo e gli
indici, il secondo contenente la sua ormai classica traduzione della Metafisica, con testo greco
a fronte — ottimo strumento di lavoro per chi si occupa di quest’opera —, e infine un altro
volume con il commento di Reale.
Il primo volume, con il Saggio introduttivo, è una vera e propria monografia, dove
Reale studia tutta la problematica della Metafisica aristotelica, in particolare il suo rapporto
con Platone e i Platonici — rapporto che è stato concentrato in questo primo volume per non
appesantire il commento. I primi sette capitoli contengono l’introduzione originaria
dell’opera, con solo qualche modifica formale rispetto alle prime edizioni: vengono considerati i concetti chiave e la struttura della Metafisica, con un particolare riferimento alle quattro
dimensioni della Metafisica aristotelica segnalate da Reale: aitiologia, ontologia, usiologia e
teologia. I capitoli 8-12 sono invece del tutto nuovi, e contengono lo studio del suo rapporto
con Platone e i Platonici, cioè, l’interpretazione delle posizioni assunte da Aristotele nei confronti di questi pensatori, e la credibilità della sua testimonianza sulle dottrine platoniche non
scritte.
Anche i sedici diversi indici con cui finisce questo primo volume sono un ottimo strumento di lavoro. Essi «hanno il preciso scopo di dimostrare in quale misura la Metafisica di
Aristotele sia una vera e propria miniera per la ricostruzione del pensiero di filosofi anteriori
e contemporanei ad Aristotele medesimo» (vol. 1, p. 23). La molteplicità degli indici acquisisce perciò un suo interesse particolare se viene considerata nella prospettiva della posizione
assunta da Reale sul rapporto di Aristotele con questi filosofi precedenti e contemporanei:
attraverso gli indici si può vedere infatti in quale grande misura la sua testimonianza su di essi
sia stata accolta nelle moderne edizioni critiche di quei filosofi.
Rispetto alla ormai ben nota traduzione di Reale, contenuta nel secondo volume, si deve
tener conto dell’avvertenza dell’autore stesso: «ho scelto di rendere nella nostra lingua soprattutto i concetti e non le mere parole» (vol. 1, p. 16). Egli crede che in effetti una moderna traduzione non possa essere più ad litteram, come quelle latine, ma debba necessariamente essere una traduzione-interpretazione.
Il terzo volume contiene il commento di Reale, che considera in maniera analitica
363
recensioni
ciascun testo della Metafisica, aiutando però il lettore con sommari sintetici. Perciò come
egli stesso indica, questa è una fra le pochissime edizioni a livello internazionale che presentino un commentario completo.
Sia la traduzione-interpretazione di Reale sia il suo commento vengono illuminati dalla
spiegazione contenuta nel primo volume della sua particolare interpretazione di Aristotele, e
dell’importanza che riveste una corretta comprensione del suo rapporto con Platone per poter
capire la struttura stessa della Metafisica. Voglio quindi presentare alcune delle idee chiavi
contenute nel Saggio introduttivo.
Si deve tener conto anzitutto che Reale opera una particolare rilettura della Metafisica
alla luce del pensiero di Platone. Questa intenzione, che era già presente fin dalla prima edizione di quest’opera, si è fatta ancora più presente dopo gli anni trascorsi studiando Platone e,
perciò, risulta ancora più evidente in questa nuova edizione. Ciò risalta, oltre che nell’interpretazione dell’influsso di Platone sulla struttura e il contenuto della Metafisica, nell’interpretazione di alcuni dei concetti metafisici più importanti, e dello stesso oggetto della metafisica.
Valga come esempio ciò che dice sui concetti di essere e di sostanza. Secondo Reale il
senso primo dell’essere — il senso principale e fondamento degli altri — è la sostanza (cfr.
vol. 1, pp. 85-86; 105-109). La divisione dell’essere nelle categorie è quindi la distinzione originaria, su cui si poggia necessariamente la distinzione degli ulteriori significati. L’essere
come atto e come potenza, perciò, non esiste fuori od oltre le categorie: sono modi di essere
che si poggiano sull’essere stesso delle categorie (cfr. vol. 1, p. 100).
Il capitolo quinto dell’introduzione è dedicato alla polivocità della concezione aristotelica della sostanza (senso primo dell’essere), per tentare di liberare la teoria da tutte le interpretazioni successive (la rielaborazione medioevale, che vede l’individualità come una caratteristica della sostanza prima; i presupposti storiografici, che portano a vedere nella sostanza aristotelica un’antitesi della forma platonica; e l’interpretazione storico-genetica, già considerata
altre volte nelle opere di Reale). Dopo aver fatto questa liberazione dagli indebiti presupposti,
Reale segnala cinque caratteristiche definitorie della sostanza: l’essere soggetto di inesione e
sussistenza separata, la determinatezza, l’unità e l’attualità (cfr. vol. 1, p. 124). La materia —
che lo stesso Aristotele alcune volte chiama “sostanza” — esaurisce in effetti la prima caratteristica elencata; ma gli altri due sensi di sostanza (la forma e il composto di materia e forma,
cioè, il sinolo) esauriscono tutte e cinque le caratteristiche.
Qual è quindi la sostanza per eccellenza: la forma o il sinolo?, si domanda Reale. La
risposta è chiara, e consona alla sua “rilettura platonica”: anche se in prospettiva empirica
(quoad nos) è il sinolo, in prospettiva metafisica (in se) è la forma.
Un altro punto saliente nella sua nuova interpretazione, strettamente connesso con quello precedente, è l’insistenza sul fatto che sono le sostanze soprasensibili — e non quelle sensibili, individuali, oggetto della fisica — l’oggetto dell’indagine metafisica (cfr. vol. 1, p. 68);
quindi la metafisica è fondamentalmente teologia: «La metafisica è teoria dell’essere o ontologia; ma l’essere è un molteplice che fa capo — come meglio si vedrà più avanti — strutturalmente alla sostanza, sicché l’indagine ontologica si configura, necessariamente, principalmente come usiologia, cioè indagine di quell’essere (l’ousia) che è il fondamento di tutti gli altri
esseri. Ora, se ci fossero solo sostanze sensibili, la metafisica come tale non sussisterebbe, in
quanto si ridurrebbe a mera fisica. Pertanto, il darsi di una ontologia e usiologia non fisiche (o
non meramente fisiche) dipende dall’esserci o no di una sostanza sopra-fisica. In questo
senso, allora, l’ontologia e l’usiologia non-fisiche o meta-fisiche sono possibili solo a patto
che si aprano in senso teologico» (vol. 1, p. 64).
La proposta di Reale riguardante la necessità di liberare alcuni concetti aristotelici da
alcune aggiunte posteriori, che era già presente nelle sue prime edizioni della Metafisica di
Aristotele, si è ancora più confermata da quando ha cominciato ad approfondire le questioni
legate al rapporto fra il nostro filosofo e il suo maestro Platone. Lo studio della veracità di
364
recensioni
tutto ciò che Aristotele afferma su Platone, infatti, è rilevante, secondo Reale, sia per un’adeguata interpretazione del pensiero platonico, sia per la stessa interpretazione della Metafisica
di Aristotele.
È ben certo, ammette Reale, che quando si tratta di polemizzare con Platone e i Platonici
Aristotele perde spesso «il senso della giusta misura, del greco equilibrio, di qualsiasi raffinato gusto, e non poche volte perde anche la correttezza» (p. 254); e dedica il capitolo 10 del suo
Saggio introduttivo per mostrare che Aristotele in effetti deforma alcuni punti chiave del pensiero platonico, per facilitare lo scopo che si era proposto nella sua Metafisica. Ciononostante,
«tali polemiche sono essenziali, perché solo se si capisce a fondo che cosa Aristotele vuole
distruggere, si comprende a fondo ciò che egli intende presentare in antitesi. Tanto più che,
proprio ciò che egli costruisce, lo costruisce con materiale in larga misura proveniente da
quel pensiero con cui polemizza» (p. 257). La metafisica di Aristotele viene perciò definita
come una «prosecuzione della platonica “seconda navigazione”».
È proprio questa considerazione di Aristotele nel suo rapporto con Platone — prosecuzione — ciò che porta Reale, come detto, ad insistere sulla priorità della forma nella metafisica aristotelica: «è una nuova cifra teoretica emblematica di Platone, che Aristotele ha ripensato a fondo in modo del tutto nuovo» (p. 296). Ma questa novità radicale della Metafisica può
portare il lettore proprio a una perplessità sull’interpretazione che di essa dà lo stesso Reale:
ciò che fa non è forse avvicinargli troppo Platone?
L’interpretazione di Reale, in ogni caso, suggerisce al lettore — anche a chi non è del
tutto d’accordo con lui — molte questioni e domande che sono state tante volte dimenticate.
Chi non creda adeguate alcune delle risposte che dà Reale, non avrà certo facile il cammino
per contestargliele, visto l’enorme apparato critico su cui poggia le sue opinioni.
Miguel PÉREZ DE LABORDA
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recensioni
Angelo CRESCINI, L’enigma dell’essere. Introduzione a una metafisica
integrale, Tilgher-Genova, Genova 1990, pp. 279.
■
L’opera che intendiamo recensire merita l’attenzione di chi è preoccupato per il futuro
della metafisica, apparentemente arrivata a un punto morto negli ultimi decenni. L’autore
imbocca la strada di una metafisica “integrale” che, a differenza della metafisica classica, non
solo inizia dall’esperienza ordinaria ma anche da quella scientifica.
Il primo percorso della metafisica (parte I) incomincia con l’analisi dell’esperienza
comune nel suo volgersi sul mondo di oggetti caratterizzati da reciproche differenze e variazioni. Le differenze “di primo ordine” sono le diverse presentazioni fenomeniche delle cose
che pur perseverano nella loro identità. Le differenze “di secondo ordine” (essenziali) intercorrono invece tra gli oggetti diversamente nominati. La conoscenza completa di una cosa è il
suo “riconoscimento”, una sintesi originaria in cui si tiene conto della memoria e delle diverse
esperienze di una medesima cosa. Nel riconoscimento si arriva ai contenuti essenziali delle
realtà del mondo, mai catturabili in un modo definitivo in quanto ad essi appartengono innumerevoli relazioni (nei confronti di tutte le altre cose dell’universo) e in quanto sono sempre
incompleti dal momento che nessun oggetto è esauribile dalla conoscenza umana. Il soggetto
dotato di contenuti essenziali è detto “soggetto alla prima potenza” (la sostanza della filosofia
classica).
Ora è la coscienza umana, il “soggetto alla seconda potenza”, il luogo privilegiato dove
si compiono tutte le operazioni prospettiche di riconoscimento che portano al concetto di
“cosa”, di realtà di mondo, proprio nel confronto tra le diverse e contrapposte essenze e nel
passaggio indefinito di oggetto in oggetto, indipendentemente dalla loro presenza fisica. Ma la
coscienza umana, essendo limitata, non può vedere le cose se non prospetticamente e sempre
in funzione dell’esperienza e del linguaggio, il che non si oppone al rapporto veritativo come
corrispondenza della mente con la realtà. D’altra parte, nell’incontro con le altre coscienze,
due mondi o due prospettive possono compenetrarsi, superando così in parte i limiti inerenti al
relativo isolamento di ogni individuo umano.
Seguono alcune analisi ontologiche, sempre in questa linea, dei concetti metafisici di
sostanzialità, causalità, tempo e spazio. La causalità non va intesa come regolarità nelle presentazioni fenomeniche (Hume) bensì come interazione costitutiva (agire e reagire vicendevole) tra “cose” nel senso prima illustrato. La scienza moderna si è fermata solo alle manifestazioni fenomeniche della casualità efficiente, ma bisogna ricuperare tutta l’ampiezza della causalità considerata dalla metafisica classica. Il tempo generale o fluire unidirezionale degli
eventi (da cui deriva poi ogni tempo particolare, con i propri ritmi) viene visto da Crescini
come una sorta di “intuizione astratta” derivata dalla percezione intellettuale del passare da
una cosa all’altra, nelle variazioni che ciò comporta. Una sezione trasversale (resa “statica”)
366
recensioni
del tempo è lo spazio, intuizione, secondo l’A., dell’infinita possibilità di “percorsi” di situazioni. Così lo spazio risulta derivato dal tempo, ma insieme lo spazio cresce all’infinito nella
linea delle possibilità, mentre il tempo rimane un’intuizione più ancorata alla realtà nel suo
divenire concreto. Ovviamente tempo e spazio, concepiti in questo modo, si capiscono solo
nell’ambito della coscienza umana (sono cioè derivazioni dal nostro modo di conoscere la
realtà naturale).
Vediamo ora che cosa succede nell’esperienza scientifica (parte II). La via tradizionale
si affidava troppo alle prime presentazioni fenomeniche del mondo. La scienza moderna considera invece che il mondo osservabile immediato non si giustifica da solo. Si scopre allora
una realtà, il metacosmo, allargata grazie ai nuovi strumenti tecnici e concettuali di ricerca,
che è divisa nel microcosmo e nell’ultramacrocosmo. I concetti metafisici fondamentali
(sostanzialità, causalità, atto e potenza) sono applicabili alla nuova realtà, anche se non univocamente. Ma non bisogna illudersi: non conosciamo il metacosmo come se fosse semplicemente un ampliamento del cosmo ordinario. Il mondo della scienza è solo indirettamente
osservabile e non riceve facili concettualizzazioni: il microcosmo subisce le conseguenze
dell’indeterminazione quantistica, che non consente di farne delle rappresentazioni univoche;
l’ultramacrocosmo è dominato dall’idea relativistica di campo, che riempie in qualche modo
lo spazio vuoto, dandogli la valenza di una realtà dinamica.
La scienza moderna sviluppa una particolare dialettica di manifestazione e nascondimento, ma già a livello ordinario sappiamo che le cose si manifestano e al contempo si
nascondono, poiché le cose sono molto di più di quanto vi si presenta nell’atto del loro riconoscimento. Solo che il metacosmo ci è essenzialmente nascosto. Il nascondimento normale
delle cose è rivelante, in quanto presentazione parziale delle cose all’uomo; il nascondimento
dell’esperienza scientifica è occultante, dato che il metacosmo non ricade propriamente sotto
la nostra esperienza, ma è piuttosto una costruzione derivata e soggetta a molti limiti.
In definitiva la spaccatura tra mondo e metacosmo è uno degli indici più caratteristici
della limitazione ineliminabile del pensiero umano. Senz’altro il metacosmo spiega il mondo
ordinario, ma siccome lo spiega in un modo parziale e congetturale, vale anche la verità reciproca, cioè per capire quel mondo bisogna fare assegnamento su quello che conosciamo primariamente nella vita ordinaria. Concretamente, i modelli del microcosmo sono inadeguati, mentre non sappiamo bene che cosa sia ontologicamente lo spazio-tempo che sembra ricoprire univocamente tutte le entità dell’ultramacrocosmo. In conclusione, la scienza ci offre ombre di
cose e di sostanze: i campi e le particelle sono realtà ombratili, che noi ci illudiamo di poter
conoscere come se si trattasse delle cose della vita ordinaria. Anche le scienze formali (logica e
matematica) trovano dei limiti, e tutte insieme, cioè le scienze sia formali che reali, proprio in
questi limiti dimostrano di non poter essere autonome e di avere sempre un riferimento ontologico (molto opportune a questo riguardo le illustrazioni dell’autore sul calcolo infinitesimale).
Nella terza parte, più breve ma senz’altro più ardua, si evidenzia alla fine con più chiarezza il senso completo di questo libro. La dispersione fenomenica veniva superata dal soggetto alla prima potenza (cane, rosa, casa, cielo), mentre le differenze formali venivano a loro
volta rivelate come tali solo nel confronto di ciascuna con tutte le altre, un confronto operato
solo dal soggetto cosciente, che diventa perciò il “fondamento” delle cose come cose cioè del
“mondo”. Solo che nel riconoscimento la manifestazione della cosa include il suo ben più
ampio nascondimento, tra l’altro perché il mondo è incluso nel metacosmo che in quanto tale
ci è nascosto.
Occorre risalire dunque all’ultimo livello, quello del riconoscimento totale delle cose, in
cui si vede la vera unità del mondo nella rivelazione del suo essere, un livello che corrisponde
all’Essere assoluto (Dio), l’identica alterità, l’immanente trascendenza, l’immobile movimento, l’istantanea e simultanea eternità, la sussistente infinità (ciascuna di queste denominazioni
è un singolo breve capitolo del libro).
367
recensioni
Per capire queste ultime pagine bisogna rileggerle parecchie volte: vi si trovano risonanze heideggeriane (dialettica di svelamento e nascondimento dell’essere) e una vicinanza alla
distinzione di Tommaso tra l’essere e l’essenza, indicata esplicitamente nell’ultima pagina. La
sintesi dell’autore è evidentemente personale. Crescini ha preso senz’altro la via metafisicognoseologica della manifestazione-occultamento sposata con la dialettica platonica della differenza, sul grandioso sfondo parmenideo dell’esigenza d’identità dell’essere.
Le cose in quanto si manifestano come presenza attuale rivelano l’essere di ogni cosa,
che pure non è una cosa. L’essere del mondo si manifesta ma insieme si occulta in un gioco
reciproco di presenze e di assenze. «Le cose sono fatte dal nascondimento di ciò che è» (p.
266). Ma tutte le cose del mondo, compresi anche i soggetti coscienti, finiscono col distruggersi completamente nella loro dissoluzione nel metacosmo: l’essere delle cose è un passare
che porta così, paradossalmente, all’essere senza nascondimento che non può non essere, che
non “passa” perché non è nel tempo: è l’Essere eterno, «la coscienza dell’essere» (p. 264).
«L’essere non può essere distrutto» (p. 268) e perciò esiste necessariamente ed è l’attuale
completa presenza, la totale manifestazione dell’essere, il suo completo riconoscimento.
«L’attualmente disvelato è tale per il suo disvelamento, ossia l’essere è tale per l’Essere, ossia
per il suo passare senza nascondimento» (p. 268).
Merito indubbio di questo lavoro è il suo aprirsi in modo convincente a una metafisica
che cerca di incorporare le concezioni classiche più profonde con alcune intuizioni, ci sembra,
della filosofia moderna, che pure viene sostanzialmente criticata, e inoltre con l’esperienza
scientifica, in un quadro di ampio respiro in cui compare tutta la realtà, vista dinamicamente
come unità pur sempre fragmentata e segnata dalla contingenza e particolarmente elevata nella
coscienza umana, nonostante le sue limitazioni. In quest’opera la contrapposizione di nascondimento e rivelazione è analoga a quella tra potenza ed atto della metafisica classica. La conoscenza scientifica non è semplicemente relegata dall’autore al posto di un sapere secondario
che nulla dice al filosofo, ma viene integrata nella riflessione filosofica in modo molto naturale e specifico, sempre associata alla conoscenza ordinaria da cui non si può prescindere. La
prospettività del pensiero umano rende ragione di certe istanze della filosofia moderna che
non necessariamene sboccano nell’idealismo o nel relativismo. Il libro poteva forse essere più
esplicito sul significato dell’essere delle cose, di cui si parla nelle ultime pagine con una certa
oscurità. L’opera in definitiva lascia molte porte aperte e in questo senso è suggestiva, inducendo nel lettore un positivo stimolo per una metafisica rinnovata della realtà che oggi sembra
assente ma che è anche presentita nelle istanze speculative che stiamo vivendo.
Juan José SANGUINETI
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recensioni
Pierpaolo DONATI, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 1993, pp. 330.
■
Il prof. Donati, ordinario di Sociologia presso l’Università di Bologna, propone in questo libro una riflessione sociologica, profonda e di grande valore, sulla emergenza della cittadinanza post-moderna. In quanto opera di natura sociologica, l’analisi sviluppata dall’autore
su questo fenomeno sociale è in parte descrittiva e interpretativa, e in parte “normativa” (in
senso sociologico: cioè, nello stesso senso in cui, ad esempio, si assume che parlare di bisogni-diritti implichi allo stesso tempo parlare di obbligazioni-doveri per i medesimi titolari).
Ma, in quanto opera di Donati, questa “lettura” non poteva non essere fatta che in chiave
“relazionale” (cfr. P. Donati, Teoria relazionale della società, F. Angeli, Milano 1991): davvero una chiave che apre le porte alla comprensione della struttura e della dinamica della
società, a giudicare dai risultati di questo suo lavoro.
Veniamo però ai contenuti. Nel primo capitolo l’autore mette a fuoco il codice simbolico moderno della cittadinanza democratica come codice problematico dal punto di vista evolutivo. Essa, nel suo processo storico di crescita che sfocia nel welfare state così come oggi lo
conosciamo, sarebbe giunta ad un punto-limite oltre il quale tende ad auto-distruggersi: per
questo motivo la gente non si identifica più con i propri rappresentanti politici, la convergenza
su valori e mete comuni alla generalità dei consociati è sempre più astratta e formale, il distacco fra società civile e Stato si accentua, ecc.
Questi ed altri fatti, anziché portarci a pensare in termini di limitazioni ad un astratto
principio di inclusione delle richieste dei cittadini (ridimensionamento delle politiche sociali
entro i binari di quel tanto di controllo sistemico che è effettivamente perseguibile e implementabile), dovrebbero indurci ad operare una ridefinizione della cittadinanza come cittadinanza societaria. Per tanto, le limitazioni allo Stato sociale dovrebbero essere riferite solo e
specificamente al tipo di inclusione che è stato istituzionalizzato nell’assetto del welfare state
industriale.
Ma, quali sono i tratti essenziali della cittadinanza societaria? Non si tratta, ci tiene a
premettere l’autore, di rispolverare la vecchia dottrina dei corpi intermedi; tra l’altro perché
occorre assolutamente preservare l’universalismo acquisito con la modernità. L’idea è piuttosto che, in una prospettiva a lungo termine, essere cittadino non dovrà più significare semplicemente avere uno status ascrittivo conferito dallo Stato, ma appartenere alle soggettività
sociali “nuove” e “vecchie” che fanno pluralistiche e complesse le nostre società, perché tali
soggettività sono politicamente rilevanti per i beni comuni che devono essere prodotti. In altre
parole, si tratterà di intendere la cultura dei diritti di cittadinanza come capacità di esprimere
una solidarietà autonoma dotata di senso proprio, che chiede di essere riconosciuta e tutelata, e
quindi anche regolata e sostenuta, dallo Stato, ma mantenendo in sé la propria ragion d’essere,
la propria giuridicità, la propria progettualità, la propria gestione. Anche se altri possono con-
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recensioni
dividerla e farla propria, al limite diventando universalistica, essa può essere praticata solo sul
terreno del “senso associativo” della società.
Nel secondo capitolo viene argomentata questa tesi con riferimento a quelle specifiche
sfere di relazioni sociali che costituiscono il “privato-sociale” (detto anche “Terzo Settore”).
Un fenomeno sociale questo che sfida la lettura che la modernità ha fatto dei bisogni sociali e
dei diritti sociali, e che invece nella società attuale viene sempre più spesso inteso e praticato
come un modo per costruire un ambiente padroneggiabile su scala inter-soggettiva, o come un
modo per garantire l’accesso, l’esigibilità e il controllo dei diritti relativi a interessi legittimi e
diffusi da parte di comunità (minori e/o periferiche), o, tanto per citare qualche altro esempio,
come un modo per elaborare una cultura dei nuovi diritti di vita quotidiana a fini di umanizzazione del lavoro e dei servizi di cure alle persone.
Mancano ancora, è vero, le categorie interpretative sufficienti per capire tale fenomeno,
e quelle politico-giuridiche che possano osservarlo e regolarlo. Ma lo scopo dovrebbe essere
chiaro: occorre prevedere e mettere in atto un sistema di incentivi e sostegni, anziché di penalizzazioni dirette o indirette, per chi porta la cittadinanza ad essere concreta espressione e realizzazione delle virtù civiche.
Nel terzo capitolo viene ampliata l’argomentazione precedente. Non è più solo questione di “privato-sociale”. È la società complessa nel suo insieme che manifesta nuove esigenze
di autonomia, in ogni ambito della vita e ad ogni livello della organizzazione sociale, culturale, economica e politica, come esigenza di nuova cittadinanza. La società europea contemporanea sviluppa una “eccedenza di socialità” che — entro il quadro della modernità — rimane
latente, rimossa e repressa. La cittadinanza in senso moderno non può riportare questi fenomeni al suo codice simbolico-normativo. Deve perciò esserci uno spostamento fondamentale:
o le esigenze di una nuova cittadinanza sono disattese e allora la società si frantuma, oppure
le esigenze di cui si parla sono riconosciute e tradotte in pratiche sociali, lungo linee di differenziazione e integrazione fra diversi ambiti di autonomia, e allora la soggettività della
società potrà esprimersi in una cittadinanza più universale e più particolare insieme, attraverso — appunto — “autonomie universalistiche”.
Nel quarto capitolo, la tesi iniziale è ulteriormente approfondita e sviluppata con riferimento al fatto che le richieste di autonomia sociale non sono impersonali e anonime, non sono
più quelle della società di massa con i suoi specifici “movimenti sociali” (studenteschi, femministi, ecc.), ma provengono da “nuove soggettività sociali”. Se vogliamo comprendere queste soggettività sociali dobbiamo elaborare un paradigma nel quale la soggettività è compresa
e definita in rapporto alla relazionalità degli attori. Occorrerà, in altre parole, collocarsi in un
sistema di osservazione secondo il quale la soggettività non può essere definita se non attraverso, con e nelle relazioni (si tratta del paradigma “relazionale” o della “società come rete”
sviluppato dall’autore nell’opera sopra citata). Comprendere questi soggetti sociali e le loro
istanze significa ri-disegnare la cittadinanza in una società post-moderna come cittadinanza
societaria.
Si apre una fase storica — conclude Donati — «in cui la cittadinanza assume la forma di
un complesso di diritti-doveri delle persone e delle formazioni associative che articola la vita
civica in “autonomie universalistiche” capaci di integrare la generalità dei fini con pratiche di
autogestione. Questa è la sfida che la società complessa lancia a se stessa. Tale sfida si chiama
“cittadinanza societaria” o delle autonomie sociali» (p. 300) .
Gabriel CHALMETA
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Sandro NANNINI, Cause e Ragioni. Modelli di spiegazione delle azioni
umane nella filosofia analitica, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 367.
■
L’opera di Nannini, ordinario di filosofia morale all’Università di Urbino, entra nel
dibattito tra naturalisti (Hempel, Nagel) e antinaturalisti (Ryle, Dray, Wittgenstein, von
Wright) nella proposta di modelli di spiegazione delle azioni umane che possano caratterizzare il metodo delle scienze storiografiche e sociali.
I modelli hempeliani, tratti dalle scienze naturali, sono schemi nomologico-deduttivi che
spiegano gli eventi a partire dalla congiunzione logica tra leggi universali e condizioni particolari. La loro estensione alle scienze storiche non è incompatibile con il riconoscimento degli
atti liberi, secondo l’A., visto che nell’uomo sono individuabili comportamenti razionali regolari sia a livello individuale che sociale. L’applicazione all’indagine storica di quei modelli
richiede l’intervento di leggi generali induttive (psicologiche, sociali, economiche), di solito
non esatte come le leggi naturali ma valide e importanti come generalizzazioni empiriche probabilistiche, talvolta a livello di senso comune (per es., «il malcontento popolare può provocare rivoluzioni in determinate condizioni»).
L’autore si schiera con franchezza a favore di questi modelli, pur accogliendo l’istanza
degli atti intenzionali, compiuti cioè con uno scopo prescelto dall’individuo, come elemento
indispensabile per capire il comportamento umano e la storia. Le correnti storicistiche, analitiche ed ermeneutiche hanno sostenuto l’irriducibilità degli atti intenzionali agli eventi della
natura e di conseguenza l’eterogeneità radicale del metodo storico rispetto a quello delle
scienze naturali. Secondo Nannini comunque lo schema naturalista, se depurato da alcuni elementi positivisti, è irrinunciabile per la comprensione e la spiegazione dei comportamenti
umani, il che peraltro serve per non cadere nel neostoricismo cui tende oggi l’approccio ermeneutico.
L’opera conduce con rigore e chiarezza una forma di dibattito (senza propositi storici)
tra l’indirizzo naturalistico (cap. I) e quello denominato “antinaturalistico” (cap. II), imperniato più sull’analisi della singola azione umana anziché sulla metodologia storica, per concludersi con una proposta di ricostruzione ideale della spiegazione delle azioni individuali altrui
(cap. III).
La filosofia analitica contemporanea (Wittgenstein, von Wright, Anscombe) ha abbandonato la tesi dualistica che vede nell’intenzione, nell’atto volontario, una sorta di evento
mentale che può fungere da causa quasi-meccanica degli atti esterni dell’uomo. Senza arrivare
necessariamente al comportamentismo, la spiegazione analitica respinge tale concezione,
chiamata solitamente “teoria causale dell’azione”, per vedere invece l’intenzione (lato interno)
e l’azione umana (lato esterno) come intrinsecamente associate (al modo di un significato e il
suo segno). Prendiamo ad esempio l’azione di muovere le mani per pompare dell’acqua (cfr p.
371
recensioni
254 ss): l’intenzione di fare quest’atto, per la filosofia analitica, è un tutt’uno con l’atto esterno e viceversa, poiché anche se è vero che quell’intenzione può esistere prima della sua realizzazione, non si capirebbe come siffatta intenzione se non fosse riferita all’atto oggettivo, e
certamente noi non potremmo mai riconoscerla negli altri se non viene manifestata attraverso
certe formalità empiriche socialmente riconosciute (come il linguaggio). Vuol dire che tra
l’intenzione e l’azione altrui (il che vale anche per le mie intenzioni non immediatamente
conosciute, per esempio ricordate) esiste un legame concettuale quasi-analitico, in quanto di
un’intenzione non manifestata almeno linguisticamente, tramite cioè qualche segno esterno,
non sappiamo niente (critica wittgensteniana del linguaggio privato).
Nannini arriva a chiarire il concetto di azione umana dei filosofi analitici superando con
maestria le difficoltà esegetiche e le sottigliezze dei diversi autori, pur ritenendo insoddisfacente questo tipo di analisi. La sua posizione cerca invece di rendere compatibile lo schema
causale humiano (successione regolare tra eventi logicamente indipendenti, quindi di carattere
nomologico almeno statistico o probabilistico) con lo svolgersi dell’azione umana, anche
interpretata come veramente intenzionale.
L’intenzione altrui viene considerata dall’A. come conosciuta tramite un concetto disposizionale teorico, non osservativo, che si manifesta empiricamente attraverso molteplici sintomi, così come una causa fisica teorica ipotizzata (per es. una disposizione, una propensione) è
conoscibile induttivamente a partire dai suoi effetti sensibili regolari. L’atto volontario e
intenzionale può essere visto come una causa di azioni umane: ad esempio, l’azione teleologica di “aprire una finestra per far entrare nella sala un po’ d’aria fresca” è conoscibile come
azione intenzionale grazie a generalizzazioni empiriche, nel senso che noi quando vediamo
che una persona apre materialmente una finestra, dalla situazione concreta in cui si trova (la
stanza è calda, la persona è normale, è vestita pesante, non ci sono altri motivi per aprire la
finestra, non c’è fumo nella stanza), compiamo naturalmente l’inferenza induttiva, grazie
all’accertamento di molti casi simili del passato, secondo cui, quando la persona produce
quell’atto, la sua intenzione quasi certamente sarà quella di rinfrescare la sala.
In conclusione, il lavoro di uno storico, pur presentandosi nella forma di una narrazione,
non può limitarsi secondo Nannini alla comprensione simpatetica degli atti altrui, come ha
rilevato l’indirizzo storicistico, ma deve anche spiegarli secondo ipotesi basate su generalizzazioni empiriche, visto che la conoscenza dell’interiorità degli altri sarà sempre indiretta, così
come fa il detective che cerca di ricostruire i fatti avvenuti. L’intento principale dell’A. è ben
riassunto nelle ultime righe della sua opera: «Non solo dunque tra la conoscenza dell’uomo e
quella della natura, ma anche tra il senso comune e la scienza, non si apre alcun abisso: il
ponte per passare dall’una all’altra sponda è ampio e facile a trovarsi. Perché non usarlo allora, invece di esasperare un contrasto tra il sapere scientifico e le discipline umanistiche che,
malgrado l’ascolto riscosso oggi da cultori dell’ermeneutica e di un nuovo storicismo, non ha
in effetti nessuna solida giustificazione?» (p. 327).
Il lavoro di Nannini può essere valutato sia dal punto di vista dell’analisi dell’atto
umano, sia nella prospettiva del suo contributo alla metodologia delle scienze storiche.
Riguardo al primo punto, ci sembra di poter condividere solo parzialmente la sua tesi sulla
conoscenza altrui medianti ipotesi induttive. La riteniamo giusta quando è in gioco un’idea
mediata delle persone (lontane, del passato, poco familiari) ma crediamo che esista anche un
ambito, seppur limitato, di percezione quasi-immediata dell’altro come persona, con i suoi atti
intenzionali: dinanzi a una persona che ci parla noi non impieghiamo l’“ipotesi causale”
secondo cui chi ci parla molto probabilmente è una persona con una intenzione, ma piuttosto
“vediamo la sua anima” (come direbbe Wittgenstein ma anche S. Tommaso, per cui è possibile vedere un amico o un uomo), vale a dire non occorre restringere la nozione di osservabile ai
dati fenomenici dei sensi esterni.
Una ricostruzione ideale dei processi induttivi che ci portano al riconoscimento di una
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condotta intenzionale negli altri rischia di essere superflua, se intesa come ricostruzione logica
per ciò che invece sembra una percezione immediata dotata di evidenza propria. In verità questo punto non è così distante da quanto si sostiene in questo libro, a patto che tale procedura
logica basata su generalizzazioni empiriche sia vista piuttosto come un processo psicologico
mediato di imparare a conoscere, così come s’imparano una lingua o gli usi sociali. Una volta
che si crea una maggior distanza tra noi e il comportamento altrui, allora entrano in funzione
le forme logico-induttive rilevate da Nannini, che fanno anche perno sulla coscienza di noi
stessi e perciò sono sorrette anche da corrispondenze analogiche a partire dalla conoscenza
immediata di noi stessi e di quelli che ci sono più familiari.
Riguardo al metodo delle scienze storiografiche, ci sembra che l’intento dell’autore di
correggere gli eccessi storicistici non sia da trascurare. La storia non cerca ovviamente di formulare delle leggi generali, al contrario di quanto fanno le scienze naturali, ma la comprensione e la spiegazione delle vicende umane implica il ricorso (ordinariamente presupposto) alla
conoscenza degli usi umani tramite generalizzazioni di natura empirica, una conoscenza ottenuta peraltro con l’aiuto delle scienze antropologiche e della filosofia. L’opera di Nannini
risulta opportuna in questo senso e, nell’evidenziare la presenza nel lavoro degli storici di
enunciati generali sintetici, soprattutto di senso comune, senz’altro contribuisce all’auspicata
continuità tra le scienze naturali e il sapere umanistico.
Juan José SANGUINETI
373
recensioni
Leonardo POLO, Curso de teoría del conocimiento, vol. IV, parte I, Eunsa,
Pamplona 1993, pp. 421.
■
La scansione temporale con cui è stato dato alle stampe il pensiero di Polo manifesta
una singolarità che a mio giudizio è indice dell’operosità dell’autore. Nella presentazione del
suo filosofema più caratteristico — la limitazione della mente umana —, fatta in un libro
dell’anno 1964 (El acceso al ser), vennero promessi quattro volumi in cui sarebbero state sviluppate le quattro dimensioni dell’innovatore abbandono del limite mentale, ma solo il primo
di essi vide la luce nel 1966 (El ser. I: La existencia extramental). Poi, quanto in seguito ci è
pervenuto non sono stati i tre successivi volumi promessi ma qualcosa di meglio. Dopo venti
anni di attesa apparvero, fra il 1984 e il 1988, tre volumi d’un corso di teoria della conoscenza
che giustificavano e verificavano con maggiore ampiezza di vedute e più matura esposizione
la precedente proposta di un limite per la mente umana e la possibilità di abbandonarlo. Quei
tre volumi dovevano essere affiancati da un quarto che ancora una volta si fece attendere.
Adesso, a dieci anni dal primo, appare questo quarto volume ma, come in precedenza, il ritardo viene controbilanciato dal fatto che il libro offre molto più di quanto era stato promesso.
Certamente esso non è una semplice parte di un manuale di gnoseologia ma qualcosa in più.
Se io dovessi precisare quel qualcosa in più metterei l’accento su tre punti. Da una parte,
il libro costituisce l’esposizione della seconda dimensione dell’abbandono del limite mentale
proposto da Polo; è dunque uno sviluppo della sua filosofia annunciato già dal 1964. In secondo luogo, esso è l’esposizione d’una parte — quella mancante — della teoria della conoscenza
umana: l’esposizione della ragione umana, delle operazioni unificatrici e degli abiti razionali
fino all’abito dei primi principi. Inoltre, in un terzo ma non perciò meno importante luogo, è
un libro di fisica, di fisica filosofica: un’esposizione del modo in cui l’uomo intende la natura
fisica, le sostanze ed i movimenti, gli esseri viventi e le loro funzioni vitali, ecc. Non c’è da
stupirsi, perciò, che sia stato necessario dividere in due parti questo volume: quella appena
apparsa, e un’altra in fase di stampa. Tutto ciò serve a mettere sull’avviso il lettore che non
troverà un testo di facile lettura ma, al contrario, materia di molto studio e meditazione.
Penso di essere in grado di affermare senza particolari remore che questo libro è l’opera
più importante di Polo, quasi un lascito della maturità al termine della carriera accademica; è
per lo meno l’opera che fornisce il maggior numero di precisazioni, conseguenza della gran
mole di lavoro di cui è il risultato (sono testimone, perché le ho battute a macchina, delle
prime stesure che ne faceva Polo già dal 1980). Perciò è difficile fare una scelta fra i suoi contributi. L’impressione che provoca una lettura veloce del libro è quella d’un eccesso: una profusione di questioni studiate. Sono sicuro, per esempio, che nel campo della filosofia della
natura gli studiosi riceveranno con gratitudine molti dei suggerimenti poliani come, scegliamo
a caso, l’idea di ritardo temporale (anticipazione) o quella di riserva della materia con cui Polo
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illustra il cosiddetto principio della sua conservazione. Dal campo della logica vengono suggerite anche molteplici osservazioni fra le quali spicca il posto eminente che viene aggiudicato
alla matematica come modo di conoscenza. Altrettanto potremmo dire della psicologia, alla
quale certamente interesserà la distinzione fra le intenzionalità della sensazione, l’immaginazione e il pensiero, ben descritte da Polo. Abbiamo a che fare, insomma, con una quantità di
spunti davvero rilevante. Tuttavia, se veniamo al fondo argomentativo del libro, penso che ciò
che Polo ci offre possa essere ricondotto ad alcune nozioni o questioni di base che forse vale
la pena di ricordare qui.
Da un punto di vista gnoseologico questo volume costituisce la proposta formale del
modo in cui gli abiti intervengono nella crescita conoscitiva dell’intelligenza umana. L’abito
è, rigorosamente, l’illuminazione dell’operazione conoscitiva: la conoscenza non riflessa del
conoscere. Quest’importante incorporazione della nozione di abito nella teoria della conoscenza permette di fare, a mio avviso, la sintesi fra critica moderna — interessata al conoscere — e
gnoseologia classica — più attenta a ciò che è conosciuto — e rende possibile rispondere
finalmente alla domanda su come venga conosciuto l’essere, domanda che un idealista potrebbe obiettare ad un realista oggettivo.
Da un punto di vista tematico, ciò che in questo libro si dice sulla natura è l’aggiustamento [ajuste] necessario di cui la fisica di Aristotele ha bisogno per diventare un interlocutore valido della nostra scienza attuale. In paragone con altri tentativi analoghi che la storia della
filosofia recente ci offre, c’è da evidenziare come Polo ricuperi in modo preciso le nozioni aristoteliche di elemento, ciclo di trasformazioni fra sostanze elementari, movimento circolare
come causa di tali trasformazioni, ecc., come anche la loro incorporazione nella biologia aristotelica. Troviamo, quindi, non soltanto una permanenza delle nozioni o principi più radicali
— come la materia e la forma o le cause —, ma l’intero intreccio della fisica teorica, sia pure
aggiustata in ciò che è necessario (e talvolta in modo tale che un aristotelico genuino rifiuterebbe simili aggiustamenti). Particolare portata riveste, in questo senso, la rettificazione del
luogo che Aristotele assegna alla circonferenza come forma di un movimento — chiave del
suo superato geocentrismo —, ma bisogna riconoscere che, senza di essa, la natura inerte non
può essere capita pienamente. È anche da rilevare, dalla prospettiva della filosofia classica, la
riduzione poliana delle categorie alle cause.
Infine, per quanto riguarda all’ispirazione strettamente poliana — che, del resto, costituisce il nerbo che unisce tutti gli altri punti di vista — ritengo che la nozione cui si deva fare
attenzione sia quella di esplicitazione. Essa è un tentativo di formulare il modo in cui la ragione umana raggiunge la conoscenza della realtà fisica al di sopra del proprio limite. In questa
linea c’è da segnalare che l’esplicitazione non è un compito mentale. Essa è ascritta alle proprie cause: affidata ad esse dalla mente. Ne risulta che la conoscenza delle cause non è oggettiva: le cause non sono oggetto della ragione ma principi extramentali. Perciò, fra loro e la
mente si instaura una contesa [pugna] che la ragione compensa oggettivamente*; ma gli
oggetti della ragione (concetti, giudizi e dimostrazioni) sono consolidamenti logici di quella
compensazione e non la conoscenza delle cause, che è inoggettiva. Ripeto: ciò che è da sottolineare — e a mio avviso è anche la chiave per comprendere l’approccio poliano — è che
l’esplicitazione non viene esercitata dalla ragione come operazione mentale commisurata ad
oggetti, ma sono le cause ad esplicitarsi in contesa con la ragione, una contesa, del resto, che
la ragione non è sempre in grado di compensare.
Una simile ottica consente di intravedere, dalla prospettiva della realtà conosciuta, che
la manifestazione dell’ente (Polo preferisce parlare di essenza anziché di ente) non è un’avvenimento eventuale, come la tradizione heideggeriana attualmente ci suggerisce, perché sebbene essa non si riduca alla logica umana (l’idealismo esigeva tale riduzione) è anche vero che
* Pugna, compensación e ajuste sono termini tecnici [N. del T.].
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non si produce neppure al margine della ragione umana ma in accordo con essa, in corrispondenza con essa.
D’altra parte, dal punto di vista del conoscente umano, la nozione di esplicitazione
determina con precisione la differenza fra gli oggetti logici della ragione, con la loro particolare intenzionalità, e la conoscenza della realtà causale che l’uomo può raggiungere nel ragionare, la quale non è intenzionale. In questa distinzione risiede ciò che Polo ha chiamato con
accortezza “minaccia d’ignoranza”. Se l’uomo non nota la finitezza del suo conoscere, ostacola il palesamento della concausalità esplicita e allora la conoscenza razionale della realtà soccombe alla minaccia dell’ignoranza, il che significa ignorare il senso principiale della realtà,
ovverosia il senso stretto in cui è reale la realtà fisica.
La teoria poliana della conoscenza, dunque, non solo procede all’aggiustamento tecnico
fra i diversi approcci metafisici, tramite il ricorso alla distinzione delle operazioni intellettuali
che ognuno di essi applica; non solo fa risiedere nell’oggettività intenzionale della ragione la
zavorra che contraddistingue ciò che Polo chiama “metafisica prematura”; c’è qualcosa di più
radicale ed importante: la possibilità che il sapere umano come tale venga falsato per il fatto di
non aver avvertito il proprio limite. Il contrario di quella dotta ignoranza del Cusano diventa
ora quell’ignorante sapere che minaccia la ragione umana, in ultima analisi, se essa scambia
cause per ragioni.
Infine mi rivolgo ai poliani per fare il punto sull’evolversi della formulazione della filosofia poliana: il libro presenta la seconda dimensione dell’abbandono del limite mentale come
graduale e la cui culminazione è la prima dimensione di tale abbandono. Il limite mentale
viene già notato negli abiti che rendono possibili le operazioni razionali e lo è progressivamente di più fino a quando viene avvertito in condizioni tali che è possibile abbandonarlo,
cioè, nell’abito dei primi principi, abito non seguito da operazioni. Non sono dunque due
dimensioni dell’abbandono del limite separate o sconnesse, né in esse viene abbandonato in
maniera uguale il limite mentale. In precedenza Polo non l’aveva posto in questi termini.
Juan A. GARCÍ A GONZÁLEZ
376
schede bibliografiche
■
A A .V V., The Past and the Present.
Problems of Understanding,
Grandpont House, Oxford 1993, pp.
102.
The six papers collected in this
volume are the fruit of a conference
held at Oxford, under the sponsorship
of Grandpont House, on the theme of
“Pre-Modern Europe and the Modern
Student: Problems of Understanding”.
As Andrew Hegarty explains in his
introduction, the conference formed
part of an ongoing effort by Grandpont
House to respond to John-Paul II’s
appeal to Europeans to rediscover the
truth of their origins. The urgency of
that appeal rests not only on the
obvious fact that modern (and even
“post-modern”) Europe cannot fully
understand itself except in light of its
past and its tradition, but also on the
belief that the tradition itself contains
precious resources for fortifying and
guiding the search for truth, both historical and otherwise. Gaining access to
those resources and using them discerningly, however, is anything but easy.
Learning about the past, and learning
from the past, encounter obstacles on
all sides: in ourselves, in the past itself,
and in the very nature of such an
inquiry. The conference brought
together six prominent scholars—three
philosophers and three historians—to
reflect upon some of these difficulties
and ways of dealing with them.
In the first paper, “Knowledge
and Belief in Human Testimony”, Peter
Geach argues, with typical force and
wit, for the inevitability and indispensability of human authority as a source
of knowledge. He shows the significance of this claim by drawing a sharp
distinction between knowledge and
belief. Belief is merely a kind of disposition, e.g. to judge or to answer a question in a certain way; but knowledge is
a capacity, an ability—we might say a
kind of mastery of something. Geach
then takes up the acceptance of authority or testimony as one of our main
natural means of acquiring knowledge.
He argues that although it is sometimes
necessary to choose between conflicting authorities, making such a choice
does not imply having independent
knowledge of the matter in question;
“we cannot escape from resorting to
testimony and authority”. It is “only by
his trusting the testimony of others”
that “the experience of mankind…is
made available to an individual”.
Geach’s reflections bring to mind
Aristotle’s dictum that he who wants to
learn must trust his teacher. They also
echo of Aquinas’ claim that theology,
which rests on faith, is genuine science.
Aquinas of course was speaking of
faith in divine authority; but he did so
in a cultural context in which human
authority too was recognized as a source of knowledge. The medievals’ view
of authority is perhaps one of the main
obstacles to the modern student’s
taking them seriously and learning
from them. This forms the target of the
volume’s second paper, “The Argument
377
schede
from Authority”, by Christopher
Martin. Martin thinks we can learn
something from the medieval view of
authority—not only something about
them but also something about ourselves and our own conception of knowledge. This is that we too, willy-nilly,
rely heavily upon authority, precisely
because we still regard knowledge as
something to be taught and learned.
Not acknowledging the role of authority contradicts our own standards of
reasonableness, those which we ourselves have learned and teach, and prevents us from exercising it or controlling it according to those standards.
The medievals acknowledged it, and
controlled it. For them the argument
from authority “was an argument.
Admittedly it was the weakest argument of all, so that any other argument
was stronger: but it was none the less
an argument. You needed another argument to refute it, before you could
ignore it.”
The third paper, by John Haldane,
presents a lucid account of four conceptions of human nature which have
been prominent in the history of philosophy, and seeks to clarify and defend
the one which is perhaps the least sympathetic to the modern mind: that of
man as a bodily creature with a rational
soul, a “psychophysical unity”, both
organic and rational. This is by no
means just one particular topic among
many, in the domain of problems in
historical understanding; it may be this
very conception of man which best
does justice to his historicity, which is
to say, his temporal and visible personhood. As Haldane explains, to
understand it is to perceive, “through
observation of the multitude of activities and artifacts that constitute the
human world, that there are persons,
i.e. creatures such as ourselves with
378
aspects whose souls we are everyday
presented.”
Limitations of space prevent
much discussion here of the volume’s
remaining papers, by the three historians; but they are well worth reading.
Anne Duggan calls attention to various
ideological obstacles to our doing “real
history”—obstacles in our very conception of historical knowledge, and
obstacles in our attitude toward certain
dominant elements of Europe’s past,
particularly our “aversion from the religious”. Jonathan Riley-Smith argues
against the impossibility of an entirely
neutral approach to the past—the questions we ask of it are always our questions—urging instead that we strive to
be conscious of our own partial and
conditioned vantage point, and that the
historian seek to express “in comprehensible terms a necessary vision of
society’s collective experience.”
Finally, John Morrill insists that “you
can get to know people in the past”,
just as you can get to know people in
the present: “you can come to have a
sense of the rhythms of their lives, of
the way in which they behave, of the
way in which they respond to a certain
kind of thing.” He also insists upon the
value of a “horizontal” approach to the
past, the effort to “re-create the contemporary context of events and
actions in their fuller sense.” Doing so
“teaches us something of the poverty of
our understanding of our own culture.”
S.L. BROCK
Italo MANCINI, Come leggere Maritain,
Morcelliana, Brescia 1993, pp. 57.
In questa opera, densa e breve,
Mancini propone la sua ermeneutica
del pensiero maritainiano. Essa parte
schede
da un criterio preciso: il fenomeno
Maritain è intraecclesiale, vale a dire,
la sua opera può essere veramente
compresa soltanto all’interno della
comunità credente. Egli, infatti, «ha
curato una filosofia incurante del filosofare» (p. 11), non tanto preoccupata
di lasciare in eredità una scuola filosofica, ma di rendere un servizio in quanto proposta di comprensione cattolica.
Da questa premessa emergono tre
modi distinti di lettura. Ed essi hanno
necessariamente un sapore autobiografico perché altro non sono che le diverse riletture che nel corso del tempo lo
stesso Mancini ha fatto dell’opera
maritainiana.
La prima si colloca negli anni 50
dove Maritain appare come uno “schiaritore di concetti”; come la personalità
capace — mediante opere come La
Pétite Logique, Les sept leçons sur
l’être e Les degrés du savoir — di delineare «il nostro territorio di fronte alla
ontologia fondamentale di Heidegger,
alla ontologia esistenziale di Sartre, alle
varie forme fenomenologiche» (p. 17).
La seconda lettura, di tipo politico, corrisponde agli anni 60. In questa
decade opere come Umanesimo integrale e L’uomo e lo Stato, furono capaci di illuminare la coscienza politica
mediante una riflessione profonda. E
Mancini, a modo di esempio, indica
cinque elementi ritenuti di particolare
rilevanza: 1) la preminenza delle forme
comunitarie e naturali di fronte a quelle
più propriamente sociali; 2) la attribuzione del solo senso teologico al concetto di sovranità; 3) la critica all’ipermoralismo politico; 4) la dottrina dei
mezzi atti a conseguire i fini politici; 5)
la sua teoria della legge naturale.
Il terzo criterio di lettura ci porta
invece agli anni 70, all’epoca del postConcilio tutta intesa a rispondere alla
domanda sul tipo di cristianità possibi-
le. Anche in questo problema — come
dimenticare Il Contadino della
Garonna? — Maritain ha molto da dire
e da proporre: il rifiuto del medioevalismo, la sua valutazione del marxismo,
le proposte per la nuova cristianità, ecc.
Ma tale lettura ci porta inevitabilmente ad un’altra, perché «la cristianità
non basta». Il kerigma cristiano eccede
sempre ogni sua possibile particolarizzazione culturale. E così appare l’ultimo Maritain. Scrittore non della cristianità, ma di cristianesimo, pensatore del
rapporto personale con Dio. Paradigma
incompiuto di tale atteggiamento è
Approches sans entraves, che non poté
correggere perché stroncato dalla
morte.
Con questa ultima pennellata
chiude Mancini il piccolo volume che
lo vede ripercorrere in maniera lucida
la maggior parte dell’opera maritainiana. Tenuto conto inoltre della sua ricchezza e densità di riflessioni esso si
pone come una necessaria e bella introduzione al pensiero di Jacques
Maritain. Un nome che, secondo
l’autore, «il mondo cristiano terrebbe
più vivo se fosse meglio abituato ai
silenzi profondi e alla concentrazione»
(p. 52).
J.M. BURGOS
Ricardo YEPES STORK, La doctrina del
acto en Aristóteles, E U N S A ,
Pamplona 1993, pp. 510.
La obra se presenta como una
investigación de las nociones de energeia y entelecheia en Aristóteles, que
pretende, a partir de la recuperación de
todos los sentidos del acto en
Aristóteles, superar una defectuosa
teoría del conocimiento — propia del
racionalismo y las actuales doctrinas a
379
schede
él ligadas — y la consiguiente descalificación del conocimiento metafísico
de la realidad.
Para ello, trata el autor de dar
cuenta de todos los estudios acerca de
esta doctrina del acto, considerando su
diverso valor y las principales aportaciones de cada uno de ellos; e intenta asimismo, teniendo en cuenta el problema
de la génesis y evolución de sus obras,
analizar todos los textos en los que aparecen estas nociones estudiadas, para
hacer una interpretación sistemática y
unitaria de las expresiones energeia y
entelecheia en el Corpus Aristotelicum.
En la primera parte de la obra
acomete la labor de mostrar que tal
procedimiento unitario no es invalidado por una supuesta evolución de tales
términos, puesto que la doctrina del
acto, en todas sus dimensiones, está
presente ya desde el inicio de la especulación de Aristóteles, cuando aún
estaba en la Academia de Platón.
La tesis central de la obra — elaborada en la segunda parte — es la del
triple sentido del acto: movimiento,
forma (sustancia) y operación. Tal tesis
no es, según afirma el autor (p. 29), un
a priori, sino resultado de la lectura y
estudio de los textos.
Comienza esta segunda parte (c.
4) con una consideración del sentido
más general de energeia — contrapue-
380
sto a la potencia (dynamis) —, para
pasar después a analizar cada uno de
los tres mencionados sentidos: el movimiento (c. 5), la forma (c. 6) y la operación (c. 7). En el c. 8 se hace un análisis de la aplicación que este tercer sentido (“operación”) tiene en la teología
aristotélica, para acabar esta segunda
parte con un último capítulo, el 9, en el
que recoge otros diversos pasajes en
los que aparecen estas expresiones, de
modo que se cumpla el objetivo que se
había propuesto de analizar todos los
textos en los que están presentes las
expresiones que trata de estudiar.
Acaba la obra (c. 10) con una
consideración global del sentido último
que tiene el descubrimiento aristotélico
del acto, exponiendo la interpretación
que L. Polo hace de esta doctrina aristotélica del acto.
La obra resulta sin duda interesante para cualquier estudioso de
Aristóteles, por la exhaustividad del
análisis de los textos aristotélicos y de
las principales interpretaciones, y por
la indudable relevancia de la propia
propuesta de Yepes sobre la diferenciación de los sentidos del acto. Pero por
esta misma exhaustividad puede ser
difícil de seguir para quien se acerque a
ella sin un buen conocimiento del pensamiento del Estagirita.
M. PÉREZ DE LABORDA
Pubblicazioni ricevute
AA. VV., Ripensare Agostino: interiorità e intenzionalità (a cura di L. Alici, R.
Piccolomini, A. Pieretti), Studia Ephemeridis “Augustinianum”, Roma 1993.
A A . V V ., The Past and the Present: Problems of Understanding. A
Philosophical and Historical Enquiry, Grandpont House, Oxford 1993.
Luigi ALICI, Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi 1992.
ARISTOTELE, Metafisica. Edizione maggiore rinnovata, in 3 voll., con Saggio
introduttivo, testo greco con traduzione a fronte e commentario a cura di G. Reale,
Vita e Pensiero, Milano 1993.
Juan Cruz CRUZ, Libertad en el tiempo. Ideas para una teoría de la historia,
Eunsa, Pamplona 1993.
Manuel FONTAN, El significado de lo estético. La “Crítica del Juicio” y la filosofía de Kant, Eunsa, Pamplona 1994.
Umberto GALEAZZI, Ermeneutica e Storia in Vico. Morale, diritto e società
nella “Scienza Nuova”, Japadre, L’Aquila 1993.
Antonio GALVANI, La danza del paradosso, Villa Verucchio 1993.
José Ángel GARCIA CUADRADO, Hacia una semántica realista. La filosofía del
lenguaje de San Vicente Ferrer, Eunsa, Pamplona 1994.
Daniel INNERARITY, Hegel y el romanticismo, Tecnos, Madrid 1993.
Luigi PAREYSON, Prospettive di filosofia contemporanea, Mursia, Milano 1993.
Leonardo POLO, Curso de teoría del conocimiento, IV (primera parte), Eunsa,
Pamplona 1994.
Armando RIGOBELLO, Oltre il trascendentale, Fondazione Ugo Spirito, Roma
1994.
F.W.J. SCHELLING, Lecciones muniquesas para la historia de la filosofía moderna, trad. Luis de Santiago Guervos, Edinford, Málaga 1993.
Orlando TODISCO , Parola e verità. Agostino e la filosofia del linguaggio,
Anicia, Roma 1993.
381
Indice del vol. 3 (1994)
Editoriale: Un dovere di gratitudine
p. 197
Studi
GABRIEL CHALMETA
Il principio personalista
p.
NICOLAS GRIMALDI
Dieu dans la philosophie de Descartes
p. 201
JOSÉ LUIS FERNÁNDEZ
Dios en la filosofía de Malebranche
p. 227
DANIEL GAMARRA
J. G. Fichte: l’affermazione dell’assoluto
p. 247
MICHELE MARSONET
Logica e ontologia nella filosofia analitica
p. 27
RAFAEL MARTÍ NEZ
Il significato epistemologico del caso Galileo
p. 45
ARMANDO RIGOBELLO
Dio nella modernità: Husserl
p. 271
LUIS ROMERA
Dio e la questione dell’essere in Heidegger
p. 287
IGNACIO YARZA
La razionalità dell’Etica Nicomachea
p. 75
5
Note e commenti
RAÚL ECHAURI
Sobre el origen del ser y la nada
p. 315
DANIEL INNERARITY
Filosofía como arte y experiencia de la vida
p. 327
ANTONIO MALO
Tre teorie sulle emozioni (I parte)
(II parte)
p. 97
p. 339
JOSÉ MIGUEL ODERO
Filosofía de la religión en Kant
p. 113
FRANCESCO RUSSO
La spiritualità della persona come autotrascendenza
p. 127
382
JAVIER VILLANUEVA
Intorno al body-mind problem
p. 135
Cronache di filosofia
Storia della logica (R. JIMÉNEZ CATAÑO)
p. 144
Gli studi su Xavier Zubiri (J. VILLANUEVA)
p. 145
Libertà e morale (F. RUSSO)
p. 146
La verità scientifica (J.J. SANGUINETI)
p. 353
Recensioni
AA. VV., Filosofia e democrazia in Augusto del Noce (M.A. Ferrari)
p. 361
AA.VV., Estudios sobre la “Centesimus annus” (E. Colom)
p. 157
ARISTOTELE, Metafisica, a cura di G. Reale (M. Pérez de Laborda)
p. 363
A. CRESCINI, L’enigma dell’essere (J.J. Sanguineti)
p. 366
R. CUBEDDU, Il liberalismo della Scuola Austriaca (R. Crespo)
p. 160
A. DEL NOCE, Da Cartesio a Rosmini e Filosofi dell’esistenza e
della libertà (P. Armellini)
p. 162
P. DONATI, La cittadinanza societaria (G. Chalmeta)
p. 369
E. FORMENT, Lecciones de metafísica (J.J. Sanguineti)
p. 166
S. NANNINI, Cause e ragioni (J.J. Sanguineti)
p. 371
J.M. ODERO, La fe en Kant (D. Gamarra)
p. 169
L. PAREYSON, Dostoevskij (F. Russo)
p. 175
J. PIEPER, ¿Qué significa sagrado? (J. Villanueva)
p. 177
L. POLO, Teoría del conocimiento (vol. IV) (J.A. García González)
p. 374
G. SAVAGNONE, Theoria (J.J. Sanguineti)
p. 180
Schede bibliografiche
AA.VV., The Past & the Present (S.L. Brock)
p. 377
AA. VV., Metafisica e teologia civile in Giambattista Vico (F. Russo)
p. 183
S. AZZARO, Politica e storia in Fichte (A. Livi)
p. 183
E. BRITO, Filosofia della religione (D. Gamarra)
p. 185
383
G. CHALMETA (a cura di), Crisi di senso e pensiero metafisico
(M. Pérez de Laborda)
p. 186
J. HABERMAS, Il pensiero post-metafisico (A. Livi)
p. 187
R. JIMÉNEZ CATAÑO, Octavio Paz: poética del hombre (J.P. Maldonado)
p. 188
I. MANCINI, Come leggere Maritain (J. M. Burgos)
p. 378
R. YEPES STORK, La doctrina del acto en Aristóteles (M. Pérez de Laborda)
p. 379
384