Cellule buone contro il rigetto e le malattie autoimmuni Diabete

Cellule buone contro il rigetto e le malattie autoimmuni
Diabete mellito di tipo 1, malattie infiammatorie croniche intestinali, celiachia, ma anche soppressione
del rigetto dopo il trapianto di organo o di cellule staminali adulte: soprattutto queste situazioni si
gioveranno in futuro della scoperta attuata dai ricercatori dell’Istituto San Raffaele Telethon per la
Terapia Genica di Milano, insieme all’Università americana di Yale, riguardante le cosiddette “cellule
T regolatorie di tipo 1”
La recente scoperta riguardante il segnale di riconoscimento di particolari cellule del sistema immune
– le cellule T regolatorie di tipo 1 (Tr1) – potrà facilitarne l’utilizzo in ambito terapeutico per la
prevenzione e la cura delle malattie autoimmuni e del rigetto dei trapianti.
Lo ha dimostrato uno studio pubblicato dalla rivista scientifica «Nature Medicine», a cura del team di
ricercatori dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (HSR-TIGET) di Milano, guidato
da Maria Grazia Roncarolo, in collaborazione con il gruppo di ricerca di Richard A. Flavell
dell’Università americana di Yale.
Le cellule T regolatorie sono una classe di cellule del sangue molto importante per la regolazione dei
meccanismi di difesa del nostro organismo. In particolare, esse sono specializzate nel mantenimento
della tolleranza immunologica, quel meccanismo grazie al quale il sistema immune combatte i
patogeni (ad esempio gli agenti infettivi), ma non aggredisce i propri tessuti (gli antigeni “self”). Ne
esistono di diversi tipi, tra cui quelle appunto di tipo 1 (Tr1) – scoperte proprio da Maria Grazia
Roncarolo, quando agiva presso il DNAX Research Institute of Molecular and Cellular Biology di Palo
Alto, in California – caratterizzate dalla capacità di secernere alti livelli di due particolari sostanze:
l’interleuchina 10 (IL-10) e il transforming growth factor beta (TGF-beta).
Nell’ultimo decennio, queste cellule si sono dimostrate molto importanti nella prevenzione e nella
cura di malattie autoimmuni, come il diabete mellito di tipo 1, di malattie infiammatorie croniche
intestinali, della celiachia e delle allergie, ma anche nella soppressione del rigetto dopo il trapianto
d’organo o di cellule staminali adulte. Questo potenziale terapeutico è stato dimostrato sia in modelli
pre-clinici di laboratorio, sia in studi clinici all’avanguardia di terapia cellulare; e tuttavia, fino ad ora,
la loro applicazione clinica era fortemente limitata dalla mancanza di marcatori specifici, ovvero di
precise molecole di riconoscimento che permettessero ai ricercatori di individuarle e seguirne il
comportamento.
La ricerca, dunque, coordinata presso l’HSR-TIGET di Milano, permette di superare il problema:
Roncarolo e i suoi collaboratori, infatti, hanno descritto due marcatori (CD49b e LAG-3), che
consentono di identificare in modo specifico le cellule Tr1 tra tutte le altre.
D’ora in avanti, pertanto, sarà possibile studiare la presenza e la funzione di queste cellule negli
individui sani e confrontarle con quelle di persone affette da malattie immuno-mediate, per
comprendere se un loro difetto può avere un ruolo nello sviluppo della malattia stessa. Inoltre, grazie
alla scoperta di questi specifici marcatori, si potranno anche quantificare le cellule Tr1 nelle persone
sottoposte a terapie immunosoppressive o immunomodulanti, in modo da identificare i farmaci più
adatti per favorirne l’espansione, e quindi l’effetto terapeutico, nell’organismo.
Infine, l’utilizzo dei marcatori CD49b e LAG-3 consentirà di purificare le cellule Tr1, rendendole così
utilizzabili come terapia cellulare avanzata nella prevenzione del rigetto nei trapianti di organo e di
cellule staminali adulte, oltre che nella cura delle malattie autoimmuni
fonte: superando.it – 7 maggio 2013
Screening neonatale, da 50 anni e' possibile prevenire la disabilita' e la morte precoce
Il primo test è nato negli USA nel 1963. Prelevando una sola goccia di sangue oggi è possibile
indagare la presenza di quaranta patologie che, se non diagnosticate, comportano conseguenze
gravissime
Le cause di disabilità motoria o intellettiva sono molte, molto diverse tra loro. Una delle possibili
cause genetiche di disabilità è rappresentata dalle malattie metaboliche ereditarie, patologie croniche
che se non riconosciute immediatamente provocano danni irreversibili. Sono causate da disfunzioni
del metabolismo, spesso dall’assenza o dalla carenza di enzimi specifici, che attraverso complesse
reazioni chimiche eliminano le sostanze tossiche prodotte dall’organismo umano. L’accumulo di tali
sostanze può essere la causa di gravissime disabilità fisiche o intellettive, oltre ad essere spesso
causa di morte precoce.
Per evitare di incorrere in danni gravi è necessario che queste malattie siano diagnosticate
immediatamente, a pochi giorni dalla nascita. La diagnosi permette infatti di iniziare immediatamente
la terapia corretta (che può essere una dieta ferrea o una terapia farmacologica vera e propria),
prevenendo i danni da accumulo di sostanze dannose. La diagnosi precoce è possibile grazie al test
di screening neonatale: dal prelievo di una goccia di sangue del neonato è infatti possibile
determinare il rischio di più di 40 patologie. Una volta effettuato il test, qualora i risultati fossero
positivi, si passa immediatamente all’indagine diagnostica vera e propria e all’avvio della terapia, il
tutto in pochi giorni.
Si tratta di una metodica sicura, viene infatti effettuata ormai da 50 anni. Il primo test è stato messo a
punto dal microbiologo americano Robert Guthrie, ispirato dalla nipotina malata di fenilchetonuria.
Dalla sua idea è poi nato il primo screening neonatale che, adottato ufficialmente nel 1963, ha
salvato migliaia di bambini. Grazie ai progressi scientifici negli USA è possibile effettuare il test di
screening per 31 diverse patologie, che ogni anno salvano circa 12.000 bambini da un futuro di
sofferenza o da una morte precoce. Il cinquantesimo anniversario del test di screening neonatale è
dunque un appuntamento importante, un’utile occasione per ricordare tutti i bambini che grazie al test
sono diventati adulti e hanno vissuto una vita piena e il più possibile in salute. E’ anche però
un’occasione per ricordare tutti i bambini che non hanno avuto questa possibilità e che hanno subito
e subiscono danni irreversibili che oggi possono essere evitati con dei costi irrisori.
“E’ ormai chiaro – spiega il Prof. Roberto Cerone, Responsabile del Centro regionale di riferimento
per lo screening neonatale e la diagnosi delle malattie metaboliche dell’IRCCS Ospedale Gaslini di
Genova e Presidente della SIMMESN (Società Italiana Malattie Metaboliche Ereditarie e Screening
Neonatali) - che diagnosticare e curare in tempo una malattia che può portare a disabilità grave
conviene anche in termini economici, non è solo un principio etico.”
Anche in Italia è disponibile lo screening per le malattie metaboliche, definito "screening allargato",
con il quale è possibile indagare la presenza di ben 40 patologie. Purtroppo però lo screening
allargato non rientra nei LEA ed è oggi disponibile solo per i nuovi nati di Toscana, Umbria, EmiliaRomagna e Liguria. Sono molti i progetti pilota avviati nelle altre regioni, che non garantiscono però
pari opportunità ai neonati italiani.
“Proprio per questo la SIMMESN – conclude Cerone – sta lavorando insieme all’Istituto Superiore di
Sanità: dobbiamo fornire una regolamentazione nazionale che possa servire da indirizzo per
garantire lo screening metabolico allargato a tutti i neonati italiani.”
fonte: disabili.com – 10 maggio 2013
Staminali e cure compassionevoli: ok alla sperimentazione di Stamina
Unanimità della Commissione Affari Sociali della Camera alla sperimentazione del metodo Stamina,
con supervisione di Aifa e Iss
La Commissione Affari Sociali della Camera ha votato all'unanimità a un emendamento al decreto
Balduzzi, che dà il via libera alla sperimentazione di terapie avanzate a base di cellule staminali
mesenchimali, quelle cioè usate con il "metodo Stamina". La sperimentazione sarà promossa dal
Ministero della Salute avvalendosi di Aifa (Agenzia italiana del farmaco), Iss (Istituto Superiore di
Sanità)e Cnt (Centro Nazionale Trapianti) e con l'unico paletto della sicurezza dei pazienti.
Ricordiamo che la questione è da tempo al centro di una diatriba che interessa il cosiddetto metodo
Vannoni (o metodo Stamina), il quale prevede l'utilizzo di cellule staminali adulte mesenchimali per
tentare la cura di patologie altrimenti molto gravi e al momento senza cura, come alcune serissime
malattie rare. Cure che attualmente sono somministrate ad alcuni soggetti, in modo gratuito, presso
gli Spedali Civili di Brescia, ma sulla cui efficacia e sicurezza si scontrano le parti. Il caso, ricorderete,
ha visto anche l'intervento della magistratura, portando la questione a uscire dal solo ambito medico.
Ora dunque la situazione pare sbloccata: un finanziamento di tre milioni di euro, vincolati nel Fondo
sanitario nazionale coprirà la sperimentazione, che partirà dal 1 luglio per 18 mesi, e per garantire
''la ripetibilita' delle terapie le modalita' di preparazione'' dovranno essere rese disponibili ad Aifa e
Iss, che avranno funzione di controllo.
Nel pomeriggio di ieri si era registrata tensione a piazza Montecitorio, dove le famiglie dei malati
manifestavano a sostegno della sperimentazione e del protocollo Stamina. Intervenendo alla
manifestazione, Davide Vannoni, Presidente di Stamina Foundation, ricordava: "Sono 84 i pazienti in
cura agli Spedali di Brescia con il metodo Stamina, ma ci sono 600 famiglie pronte a fare ricorso per
ottenere le cure con staminali sulla base del nostro protocollo".
I manifestanti, alla notizia dell'approvazione della sperimentazione, hanno poi fatto esplodere la loro
gioia.
Alla notizia dell'approvazione della Commissione alla sperimentazione, è stata cauta la reazione di
Davide Vannoni, soprattutto rispetto al tipo di laboratori che attueranno la sperimentazione: "In
laboratori farmaceutici il nostro metodo non è applicabile", ha commentato. Va infatti detto che lo
studio rispetterà le regole in vigore a livello europeo applicate per i farmaci (Regolamento europeo
1394 del 2007), che prevedono metodica e requisiti tecnici differenti rispetto a quelli utilizzati nel
protocollo Stamina.
Ora la palla passa al Senato per la conversione in legge del decreto, dopo il passaggio al Senato,
entro il 25 maggio.
fonte: disabili.com – 17 maggio 2013
Il cervello, viaggio nei suoi segreti
Azioni e pensieri, emozioni e istinti: la mente umana è la responsabile di queste e molte
altre funzioni. Maggio è il mese europeo del cervello: un evento che si celebra con
centinaia di conferenze, congressi e mostre. In questa settimana “Futuris” vi porta in
Lituania, Austria e Francia, per fornirvi una panoramica delle ultime ricerche.
Partiamo dalla Francia, da Bordeaux, dove l’esibizione “Cervorama” fa entrare i bambini
nei meandri della mente. Vincent Jouanneau, uno dei curatori, ci guida alla scoperta dei
progetti che stanno portando avanti i ricercatori europei per accedere nelle parti più
misteriose del cervello e scoprire le sue sorprendenti capacità. “Il cervello umano ha delle
caratteristiche differenti che variano da un individuo a un altro”- spiega. “Le sue capacità
cognitive si sviluppano in base al modo in cui lo usiamo, alle esperienze di vita che
facciamo e alle conoscenze che accumuliamo. L’elasticità è l’elemento che fa della nostra
mente un organo unico, perfetto, che si adatta a ogni persona.” Nel passato il cervello
poteva essere studiato solo dopo la morte di un uomo, durante o dopo l’autopsia. Oggi è
possibile osservarlo in tempo reale, in persone vive: “Questo è possibile grazie alla
diagnostica per immagini. Una tecnologia che ci fa comprenderne meglio il suo
funzionamento.” Ci troviamo di fronte a un organo fragile e complesso: “Tutti hanno paura
di toccarlo” – continua Vincent Jouanneau. “La neurochirurgia non è un’operazione di
appendicite. C’ è sempre una certa preoccupazione.” Il cervello è molto più di un organo
fragile. I bambini hanno appreso, vistando la mostra di Bordeaux, che la mente umana ha
la straordinaria capacità di accrescere da sola il proprio potenziale. Un potenziale che può
essere perso, in un percorso a ritroso altrettanto veloce quando si invecchia. “La plasticità
del cervello umano è il risultato di fattori differenti” – sottolinea Vincent Jouanneau. “I
neuroni svolgono il ruolo più importante, sono in grado di organizzarsi da soli e creare dei
collegamenti. Più stimoli ricevono, più sinapsi si formano e più sono affidabili. Meno stimoli
ricevono e più questi collegamenti sono destinati a diminuire fino a scomparire del tutto.”
Ci spostiamo in Lituania, nell’ospedale di Vilnius i pazienti che hanno subito un trauma
cranico indossano degli occhiali di plastica particolari che misurano la pressione dei tessuti
cerebrali. Fino a oggi, queste misurazioni si sono effettuate solo perforando il cranio. Una
tecnica rischiosa e anche molto costosa. Ragioni per le quali un milione di europei non si
sottopongono a questi esami. Ma presto, si potrebbe voltare pagina. “Questa piattaforma
dà a noi neurochirurghi la possibilità di capire cosa succede nel cervello senza essere
invasivi” – dice il neurochirurgo Saulius Rocka. “Tecniche di misurazione invasive sono la
prassi nella neurochirurgia, ma non è possibile usarle, per esempio, con pazienti coscienti.
Questo strumento ci permette di eseguire un monitoraggio accurato, veloce e sicuro della
pressione intracranica.” Questa piattaforma si basa sulla tecnologia a ultrasuoni.
Gli ultrasuoni (US), che sono particolari onde acustiche, vengono applicati con dolcezza
sugli occhi. A essere misurati sono i parametri del sangue in due diverse regioni della
arteria oftalmica. Una tecnica minuziosa e innovativa, come spiega Edvardas Satkauskas,
il coordinatore del progetto “BrainSafe”: “Stiamo cercando di misurare la velocità delle
particelle del sangue e altri parametri di piccoli vasi nel cervello. La grande sfida è la
precisione, quindi la nostra piattaforma deve essere molto sensibile. Per questo abbiamo
dovuto sviluppare soluzioni e tecnologie innovative come, ad esempio, l’elaborazione del
segnale digitale e di algoritmi di filtraggio, tutti insieme in un’interfaccia elettronica.”
In Austria, a Vienna, un gruppo di scienziati studia il cervello con l’obiettivo di svelare i
segreti molecolari del suo invecchiamento.
In particolare, cercano di capire perché alcuni cervelli, nonostante l’età, restano in buona
salute, mentre altri sviluppano malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. “I
neuroni, le cellule nervose, come prima cosa perdono i moltissimi collegamenti che hanno
tra loro” – spiega il neurologo e neuropatologo Gabor G. Kovacs dell’Università di
Medicina di Vienna. “Dopo aver perso questi contatti, muoiono. In contemporanea, si
accumulano proteine, proteine malate. È questo che porta all’Alzheimer. Noi vogliamo
risalire all’inizio di questo processo. Quando un paziente si reca dal medico con i primi
sintomi del morbo, i neuroni sono già persi. Noi vogliamo tornare indietro di 5 o 8 anni, nel
periodo in cui ha inizio la malattia.” La ricerca sta andando avanti. E si sta facendo strada
tra gli studiosi la convinzione che le stesse proteine e i geni coinvolti nello sviluppo del
cervello abbiano un ruolo anche nella fase successiva neuro-degenerativa. Una scoperta
che fornisce contributi importanti per il miglioramento della capacità diagnostica e della
terapia dell’Alzheimer. “Sarebbe molto importante capire” – continua Gabor G. Kovacs –
“perché una parte della popolazione non ne è interessata, vedere se esiste una qualche
alterazione genetica protettiva. Nel nostro progetto, infatti, ci concentriamo non solo sui
fattori di rischio a livello dell’intero genoma ma anche sui fattori di protezione, per capire
quale tipo di costellazione genetica può proteggere dall’Alzheimer. La scoperta di
un’alterazione dei geni potremmo tradurla a livello proteico. Potremmo lavorare sulla
creazione di un marker e sulla terapia, per aiutare i pazienti perché sappiamo cosa può
proteggere il cervello.”
La mente umana ha straordinarie capacità, ancora inesplorate. A rivelarlo è il “Brain
Computer Interface” (BCI) ovvero un’interfaccia neurale, basata sul segnale
elettroencefalografico, in grado di far comunicare il sistema nervoso centrale con una
periferica esterna come un computer. In altre parole, con la sola attività mentale si
possono controllare vari tipi di dispositivi: una complessa tecnica già usata dai ricercatori
per aiutare persone con disabilità o mobilità ridotta.
In Austria, in un laboratorio di Linz, il cervello è già impiegato per accendere e spegnere le
luci. Una serie di elettrodi posizionati sul cranio rivelano i segnali elettrici e un computer
legge l’attività cerebrale e la traduce in comandi. Ma non è tutto, per i ricercatori questo è
solo l’inizio. Le persone paraplegiche potrebbero essere aiutate con dei dispositivi a
interagire con i video-game, a giocare a giochi da tavolo o ad aprire le porte a distanza. Il
meglio, assicurano i ricercatori, deve ancora arrivare. “Il Brain Computer Interface funziona
sostanzialmente così” – spiega l’informatico Stefan Parker dell’Università Johannes
Kepler. “Gli elettrodi vengono disposti sul cranio in determinati punti dove è possibile
misurare specifiche onde cerebrali. Una sola variante nel segnale neurologico basta per
costruire un sistema di controllo del computer. Proprio come un singolo interruttore può
innescare un certo comando, un segnale unico del cervello può attivare le funzioni di
alcuni dispositivi.” Questi ricercatori stanno già testando sofisticati dispositivi volanti
controllati a distanza grazie a una combinazione di sensori, computer e onde cerebrali.
Restando con i piedi per terra, alcuni progetti più a portata di mano, come la costruzione di
una e-carozzina, sono già in fieri. A sentire gli scienziati, il futuro è già qui, giusto dietro
l’angolo. La scoperta del limite del cervello umano è, tuttavia, di là da venire: la ricerca
continua su questo organo tanto fragile quanto complesso e straordinario con ancora molti
segreti da decifrare.
fonte: it.euronews.com – 21 maggio 2013
Nell’EPS 8 la soluzione alle disabilità intellettive
Nella proteina EPS 8 la chiave delle disabilità intellettive. Frutto di studi italiani, la ricerca,
pubblicata su Embo Journal, mette in evidenza che tale proteina è essenziale nei processi
di plasticità sinaptica che, se viene a mancare, inficia la comunicazione tra i neuroni. Le
sinapsi regolano la percezione, il processo decisionale, l’umore, l’attenzione e nel
momento in cui viene a mancare l’apporto dell’EPS8, tali funzioni vengono compromesse.
Causando, tra l’altro, deficit di memoria e di apprendimento, così come difetti morfologici
di un tipo di sinapsi che si trova nell’ippocampo. Lo studio della plasticità sinaptica e dei
meccanismi che la regolano potrebbe rivelarsi fondamentale nella messa a punto di nuove
terapie per la cura delle disabilità intellettive, così come dell’autismo.
fonte: west-info.eu – 21 maggio 2013
CNR: Disabilità intellettiva, scoperta una proteina chiave
Si chiama Eps8 e gioca un ruolo fondamentale nei processi di memoria e apprendimento.
A svelarne i meccanismi molecolari, un team di ricercatori italiani dell’Università degli Studi
di Milano, Istituto di Neuroscienze del Cnr e Humanitas. Lo studio, pubblicato su Embo
Journal, aprirà la strada a nuovi percorsi di cura per affrontare i gravi problemi legati ad
autismo e ritardo mentale. Eps8 gioca un ruolo cruciale nel funzionamento del cervello e la
sua assenza genetica causa deficit di apprendimento e memoria in alcune patologie del
sistema nervoso, tra cui l’autismo e il ritardo mentale. In particolare una ricerca, condotta
da Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) di Milano,
Università degli Studi di Milano e Humanitas dimostra che la proteina Eps8 è
fondamentale per la plasticità sinaptica e svela i meccanismi molecolari attraverso cui
controlla tale processo.
“La comunicazione fra le cellule nervose è fondamentale nel funzionamento del cervello”,
spiega Michela Matteoli dell’Università di Milano, associata In-Cnr e responsabile del
Laboratorio di farmacologia e patologia cerebrale di Humanitas, coordinatrice dello studio
insieme a Elisabetta Menna dell’In-Cnr. “Le ‘sinapsi’, che mediano il trasferimento
dell'informazione tra i neuroni, sono strutture altamente dinamiche, che variano di numero
e forma sia durante lo sviluppo del cervello sia nell’organismo adulto, grazie alla ‘plasticità
neuronale’, che è alla base di molte fondamentali funzioni dell’organismo, come
l’apprendimento, l'attenzione, la percezione, il processo decisionale, l'umore e l’affetto”.
Lo studio Eps8 controls dendritic spine density and synaptic plasticity through its actin
capping activity, pubblicato su ‘Embo Journal’, consente ora un importante avanzamento.
“La sinapsi solitamente si forma tra il terminale di un assone, che conduce gli impulsi del
neurone, e la membrana del dendrite, le fibre che si ramificano dal neurone e trasportano
il segnale nervoso, mediante piccole protrusioni chiamate spine dendritiche”, continua
Matteoli. “Il nostro lavoro dimostra che le modificazioni strutturali delle spine dendritiche
durante i processi di plasticità sinaptica sono in gran parte a carico del citoscheletro di
actina (una sorta di ‘impalcatura cellulare’) e della proteina Eps8”.
“La proteina Eps8 è dunque essenziale nei processi di plasticità sinaptica”, aggiunge
Elisabetta Menna. “Tanto che la sua assenza genetica può essere causa di deficit di
memoria e apprendimento, associati a difetti morfologici delle sinapsi eccitatorie
dell’ippocampo, che appaiono immature e incapaci di aumentare di numero. È quanto
avviene, per esempio, nel cervello di pazienti affetti da autismo”.
L’importanza di tale scoperta, che riprende un precedente studio dello stesso gruppo che
aveva evidenziato un ruolo della proteina Eps8 nello sviluppo neuronale, è legata alle sue
possibili ricadute cliniche. “La speranza è che sezionare i meccanismi alla base della
plasticità dei neuroni e delle loro interazioni (sinapsi), e dunque della memoria e
dell’apprendimento, possa aprire percorsi terapeutici innovativi per affrontare i gravi
problemi legati alla disabilità intellettiva e le varie patologie del sistema nervoso centrale,
tra cui l’autismo e il ritardo mentale”, conclude la ricercatrice dell’In-Cnr.
fonte: lescienze.it – 21 maggio 2013
Non vedenti che si orientano come i delfini
Le persone con disabilità visive avrebbero un “potenziale di ecolocalizzazione” che li
aiuterebbe a localizzare un oggetto attraverso l‘udito, e in particolare mediante l’eco.
Proprio come i delfini e i pipistrelli. Lo dicono ricerche dell’University of Southampton’s
Institute of Sound and Vibration Research (ISVR) e la University of Cyprus, che hanno
utilizzato varie manipolazioni audio – tecnica spazio uditivo virtuale – per studiare gli effetti
della distanza, dell’orientamento di un oggetto e della durate, da 10 a 400 millisecondi,
della banda di rumore sulla capacità soggettiva di identificare posizioni precise.
I risultati hanno mostrato che sia le persone vedenti che quelle non vedenti possedevano il
potenziale di utilizzare echi e di localizzare cose, anche se del tutto inesperte di
ecolocalizzazione, ma con un buon udito. I ricercatori hanno inoltre scoperto che suoni ad
alta frequenza (sopra i 2 kHz) sono necessari per una performance efficace. Le
conoscenze acquisite da questo studio potrebbero aiutare i ricercatori a sviluppare
programmi di formazione e dispositivi di assistenza per le persone non vedenti ed
ipovedenti, migliorando sensibilmente la loro
fonte: west-info.eu – 22 maggio 2013
Padova, scoperta cura per atrofia muscolare spino-bulbare
Uno studio condotto dal dottor Gianni Sorarù dell'università di Padova ha rivelato che un
comune farmaco antiasma può curare una patologia rara e invalidante: si prevede ora la
partenza di un trial clinico più ampio
ROMA - Uno studio condotto dal dottor Gianni Sorarù dell'università di Padova ha rivelato
che l'uso del clenbuterolo, un comune antiasma, può curare una patologia rara e
invalidante: l'atrofia muscolare spino-bulbare. Conosciuta anche come malattia di
Kennedy, si tratta di una patologia trasmessa geneticamente ai soli individui di sesso
maschile e causa una lenta e progressiva debolezza e atrofia muscolare con difficoltà
soprattutto nella deambulazione associate spesso a sintomi bulbari (difficoltà a deglutire
ed articolare le parole) e talora respiratori.
Il dottor Sorarù, ricercatore del dipartimento di Neuroscienze dell'università di Padova, ha
scoperto la grande potenzialità del farmaco grazie a una sperimentazione clinica, condotta
su venti pazienti, che e' stata riportata dalla prestigiosa rivista internazionale Neurology. Il
farmaco, che ha il grande vantaggio di essere gi à disponibile in commercio, ha migliorato
significativamente la vita dei pazienti.
"La sperimentazione che abbiamo condotto somministrando il clenbuterolo per via oralespiega Sorarù a Osservatorio malattie rare- ha avuto un grande successo. La forza fisica
dei pazienti è migliorata sensibilmente, senza effetti collaterali di rilievo. Per questo
abbiamo ora intenzione di istituire un trial clinico più ampio, da condurre in doppio cieco.
Invito quindi i pazienti italiani a contattare l'ambulatorio malattie del motoneuroni del
policlinico universitario di Padova, per una prima fase informativa, inviando una mail a
[email protected]; [email protected]; oppure chiamando lo 049 8211943 in
orario mattutino".
La malattia di Kennedy ha una prevalenza di circa 1/30.000 nati maschi. I sintomi
solitamente compaiono tra i 30 e i 60 anni, con tremore, i crampi muscolari, l'affaticamento
e la disartria. Man mano che la malattia progredisce, i pazienti sviluppano anche
debolezza e atrofia dei muscoli bulbari e degli arti, manifestando disartria, disfonia, tic
muscolari, atrofia linguale, difficoltà alla masticazione e anomalie del movimento. Il declino
cognitivo e' minimo o assente
fonte: superabile.it – 24 maggio 2013
Staminali, bimbo esce dallo stato vegetativo dopo la cura
Lo straordinario risultato ottenuto in Germania su un paziente con paralisi cerebrale. Curato con le
cellule staminali del suo stesso cordone ombelicale, è uscito dal coma e lentamente sta guarendo:
mangia, parla e comincia a camminare
Quella che state per leggere è la storia di una specie di miracolo. A parlarne per la prima volta è la
rivista scientifica Case Reports in Transplantation che, nel numero del 2013, pubblica uno studio su
un caso di trapianto di staminali effettuato nella Clinica Universitaria tedesca di Bochum.
La sperimentazione, i cui risultati paiono essere senza precedenti, porta la firma dei professori Arne
Jensen e Eckard Hamelmann. Si è svolta su un bambino le cui possibilità di sopravvivenza erano,
secondo la letteratura medica, soltanto sei su cento, un bambino che qualora fosse sopravvissuto,
contro tutte le statistiche, sarebbe stato comunque condannato ad una vita vegetale.
Dopo un solo trapianto con le cellule del suo stesso cordone ombelicale, invece, è uscito lentamente
dal coma vegetativo e ha ripreso gradualmente a capire, rispondere, controllare gli arti, mangiare e
infine persino stare seduto e camminare.
La storia
La storia, i cui risultati sono raccontati soltanto adesso dopo un follow-up di quattro anni, comincia nel
2008. Il piccolo, che all’epoca ha due anni e mezzo, subisce un arresto cardiaco e rimane privo di
vita a tutti gli effetti per venticinque minuti, nonostante i tentativi di rianimazione.
Quando i medici riescono a rianimarlo, la sua è una vita compromessa: in coma, con gran parte del
cervello danneggiata da larghe ischemie, gli organi non più funzionali, il corpo paralizzato e
accartocciato come una carta di caramelle. Si lamenta gemendo piano e continuativamente, non
risponde a nessuno stimolo, i suoi occhi non seguono la luce e le possibilità che rimanga in vita sono
talmente risicate da non lasciare speranza.
In casi come questo, anche chi sopravvive, rimane soltanto nella condizione in cui è: non esiste in
letteratura testimonianza di alcun caso di miglioramento.
La disperazione dei genitori e la ricerca di un’alternativa
I genitori, disperati, si mettono a caccia di una qualsiasi alternativa, anche sperimentale, che possa
migliorare la situazione. Dopo aver letto di un esperimento sui ratti con paralisi cerebrale, che avendo
ricevuto cellule staminali umane, avevano manifestato una ripresa, un’idea colpisce la loro mente.
Si mettono in contatto con il Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Bochum per
chiedere se è possibile tentare un trattamento col sangue del cordone ombelicale del figlio, che
hanno fatto conservare alla nascita.
Fanno richiesta di sperimentazione terapeutica al comitato etico dell’Università: la vaga speranza è,
sulla scorta dei risultati della sperimentazione animale, quella di riuscire a favorire una regressione
della paralisi spastica. Tuttavia, una conoscenza sicura in merito non c’è, dal momento che non ci
sono, a livello mondiale, risultati di studi controllati riguardo all’efficacia di questo trattamento.
Decidono di assumersi il rischio.
La terapia
Il 27 gennaio 2009, nove settimane dopo l’arresto cardiaco, al bambino vengono somministrate per
infusione intravenosa le cellule del suo stesso sangue: dal cordone ombelicale se ne sono ricavati
poco più di novanta millilitri, un dito di vino in un bicchiere.
Dopo quaranta minuti di infusione, si manifesta qualche effetto collaterale minore: ipertensione e
alterazioni dell’emoglobulina, ma niente di pericoloso.
I progressi
E qui inizia il miracolo: il piccolo, a cui viene praticata giornalmente la riabilitazione, comincia a
migliorare. Dopo la prima settimana, cessano i lamenti e sembra risalire lentamente dal coma.
Risponde agli stimoli acustici. Dopo due mesi, la paralisi spastica è largamente ridotta, comincia ad
avere controllo sui movimenti e recupera la vista. Sorride quando qualcuno gioca con lui ed è in
grado di dire “mamma” e “papà”. L’elettroencefalogramma torna normale. Dopo 40 mesi, mangia da
solo, gattona e cammina se aiutato. Riesce persino a formulare intere frasi.
Una speranza per il futuro
Tutti i miglioramenti vengono documentati con accurati e rigorosi esami medici, nonché con dei
video.
Nelle conclusioni, il team di ricerca scrive: «Data la severità del danno cerebrale e lo stato vegetativo
persistente di cui soffriva, il paziente ha recuperato in un modo che è difficile spiegare con la sola
riabilitazione intensa. Considerando i dati raccolti, appare che il trapianto autologo di cellule
provenienti dal sangue del cordone ombelicale possa in parte aver contribuito all’eccezionale
rigenerazione neurologica funzionale osservata nel paziente. Se così fosse, questo sarebbe il primo
resoconto di una terapia cellulare di successo sulla paralisi cerebrale pediatrica, una condizione per
la quale al momento non c’è cura”.
fonte: lastampa.it – 29 maggio 2013
Una ricerca clinica sulla sindrome di Rett
Un progetto di ricerca il cui principale scopo è quello di ritardare e rendere meno grave, se
non arrestare, la perdita delle abilità motorie nella sindrome di Rett – patologia progressiva
dello sviluppo neurologico, che colpisce quasi esclusivamente le bambine – supportando
al tempo stesso la terapia riabilitativa. Per sostenere l’iniziativa, l’Associazione AIRETT ha
lanciato in queste settimane una raccolta fondi tramite SMS
Patologia progressiva dello sviluppo neurologico, la sindrome di Rett colpisce quasi
esclusivamente le bambine, durante i primi anni di vita e dopo un periodo di apparente
normalità. Nella forma classica, infatti, le pazienti mostrano uno sviluppo prenatale e
perinatale normale, ma dopo circa sei, diciotto e ventiquattro mesi, esse presentano un
arresto dello sviluppo stesso, seguito da una regressione. Riconosciuta per la prima volta
dal medico austriaco Andreas Rett - che coniò anche, per le piccole pazienti, l’appellativo
divenuto poi comune di “bimbe dagli occhi belli” – questa sindrome è oggi ritenuta la
seconda causa di ritardo mentale nelle bambine.
A occuparsene in Italia c’è l’AIRETT (Associazione Italiana Rett), che ha come obiettivi
fondamentali la promozione e il finanziamento della ricerca genetica, per arrivare quanto
prima a una cura della malattia, oltreché della ricerca clinica e riabilitativa, per individuare
soluzioni alle numerose problematiche che una bimba affetta da sindrome di Rett si trova
quotidianamente a dover affrontare.
In queste settimane, fino al 23 giugno, l’Associazione ha lanciato una campagna di
raccolta fondi, tramite SMS (numero 45509), per finanziare un progetto di ricerca clinica, il
cui principale scopo è quello di ritardare e rendere meno grave – se non arrestare – la
perdita delle abilità motorie, supportando al tempo stesso la terapia riabilitativa.
fonte: superando.it – 30 maggio 2013