Bianca De Angelis
I CANNIBALI DELL’ARTE
ISBN 9788866070283
Immagine di Copertina
Massimo Nava
DELIRIUM EDIZIONI
CASA EDITRICE DI CLAUDIA MARINO © 2011
ISBN 9788866070283
Indice
- Introduzione
- Capitolo Primo Esperienza e modernità
L’Esperienza del Bello
Analisi a quattro dimensioni
- Capitolo Secondo Una passeggiata sul Continente
Un piacere immediato
L’esperienza popolare e la dimensione demarcativa
Differenziazione e comprensione di sé
- Capitolo Terzo Fine dell’esperienza estetica
Oltre il cubo bianco
Uno spettro metafisico?
Sintomatologia
L’uomo e il cyborg
- Conclusioni
- Bibliografia
3
Introduzione
L’estetica è per gli artisti ciò che l’ornitologia è per
gli uccelli”. Con questa sentenza il pittore Barnett Newman
(1905- 1970), esponente di spicco dell’espressionismo astratto,
stigmatizzava, non troppo ironicamente, il nuovo ruolo assunto
dall’estetica nel panorama culturale del ventesimo secolo.
La progressiva tecnicizzazione dei saperi, la formalizzazione
della filosofia e il costante appello al rigorismo metodologico,
il fortunato sposalizio dell’epistemologia tradizionale con la
logica formale (il riferimento va in particolare alla cosiddetta
“svolta linguistica”), hanno relegato le istanze, tipicamente
appannaggio dell’estetica, nel campo dell’indeterminato e
indeterminabile, dell’indistinto e dell’apparenza non definibile
razionalmente e scientificamente.
È tuttavia evidenza inconfutabile che i filosofi
contemporanei abbiano continuato e continuino ad occuparsi
di questioni relative all’arte e alle sue relazioni con le scienze
umane. Sembra però riduttivo sostenere che questo sia stato fatto
esclusivamente nei termini di una estetica negativa, intenta cioè
a sottolineare solo le mancanze e i debiti di una disciplina che
non sembra prestarsi facilmente alle esigenze normative della
filosofia analitica.
Quale elemento, dunque, sopravvive a tale ‘epochè’?
Appurata l’irriducibilità della dimensione soggettiva di gran
parte delle categorie estetiche (quantomeno di quelle tradizionali)
ai fondamenti logici ed oggettivi delle scienze, cosa resta da
indagare agli studiosi perché possano qualificarsi ancora come
5
estetologi? È con l’abbandono programmatico del carattere
valutativo che l’estetica si orienta verso una definizione di se
stessa come metacritica, come disciplina puramente descrittiva,
cominciando a “muoversi in una direzione più pragmatica e
duttile, attenta alla molteplicità delle pratiche proprie della
critica”1 artistica e letteraria. Facendo una preventiva ammissione
di scarso rigore di analisi, si potrebbe tematizzare il passaggio,
non certo reversibile o sempre riscontrabile, da un’estetica ‘dal
punto di vista della produzione’ ad un’estetica ‘dal punto di
vista della fruizione’2. Ed è in questa non tanto nuova quanto
rinnovata prospettiva che è possibile rinvenire quell’elemento
che abbiamo cercato come ‘residuo fenomenologico’3 del
criticismo analitico, ciò che si configura come punto focale delle
questioni della filosofia dell’arte, suscettibile quindi di essere
indagato scientificamente: il concetto di esperienza estetica.
Va da sé che tale concetto non presenta assolutamente
carattere di univocità nella ricerca estetica contemporanea,
essendo variamente interpretato ora come punto di partenza ora
come punto di arrivo dell’indagine, o venendo altrove di fatto
1
G. Carchia, Estetica Analitica, in Dizionario di Estetica,
a cura di G. Carchia e P. D’Angelo, Editori Laterza, Roma –
Bari, 1999, p. 7.
2
Faccio qui riferimento non tanto all’Estetica della Ricezione, nella formulazione data da Jauss o dalla cosiddetta “Scuola di Costanza” della funzione produttiva oltre che contemplativa del fruitore (della quale ho una conoscenza purtroppo non
sufficientemente approfondita), quanto piuttosto ad un generale (e generalizzato) orientamento dell’estetica contemporanea,
particolarmente nella sua declinazione analitico-pragrmatista.
3
Da non intendersi, ovviamente, strictu sensu, ma soltanto
come ciò che sopravvive alla pars destruens dell’estetica analitica.
6
ignorato. Ma è comunque possibile sostenere che è ad esso, o
più in generale alle sottocategorie che ad esso pertengono e al
più ampio concetto di soggettività cui esso fa inevitabilmente
riferimento, che si indirizzano gli interrogativi e gli interessi
degli studiosi del secolo appena conclusosi.
Nel solco di questa tradizione di colloca l’indagine di
Richard M. Shusterman, esponente di rilievo del corrente indirizzo
pragmatista della filosofia analitica americana, attualmente
presidente del Dipartimento di Filosofia della Temple University
di Philadelphia e Directeur de Programme presso il College
International de Philosophie di Parigi. L’estetica di Shusterman
si muove all’interno di una cornice filosofica piuttosto elaborata
e complessa, costituitasi per lo più sulla revisione e sulla
fusione di una serie di istanze appartenenti a scuole differenti,
spesso apparentemente in contrasto. Ricordando con William
James che il pragmatismo altro non è che “una nuova parola
che esprime vecchi modi di pensare”4, il filosofo americano ci
tiene a sottolineare che il proposito che anima la sua indagine
non è tanto la ricerca dell’originalità, fine a se stessa e più
spesso ottenuta mediante una poco dignitosa svalutazione
dei contemporanei che non mediante l’elaborazione di tesi
effettivamente innovative, quanto un tentativo di risoluzione di
vecchi e nuovi problemi teoretici che infestano la filosofia e una
rivalutazione di fenomeni spesso ignorati, quando non addirittura
4
“new word for some old ways of thinking..”, cit. in G.
Leypold, intervista a R. Shusterman, The Pragmatist Aesthetic
of Richard Shusterman: a Conversation, da Zeitschrift fur Anglistik und Amerikanistik: A Quarterly of Language, Literature
and Culture, 48:1, 2000.
7
considerati filosoficamente irrilevanti, dai dibattiti accademici.
La via da intraprendere per il conseguimento di tali obiettivi
non può dunque essere quel superamento della tradizione così
fortemente auspicato da Rorty5; questo, tuttavia, non deve affatto
implicare un’accettazione acritica della tradizione in questione
(Shusterman a questo proposito non manca di evidenziare il
radicale scarto che intercorre tra la propria posizione e ogni
sterile e improduttivo conservatorismo). Si tratta piuttosto di
cercare “un equilibrio di vecchio e nuovo”6, di oltrepassare
ma dialetticamente, di ‘sintetizzare’ (inteso nella specificità
del lessico hegeliano7), di operare una conciliazione tra istanze
spesso erroneamente considerate antitetiche. Coerentemente
a queste premesse, quindi, Shusterman definisce il proprio
indirizzo teorico come “via di mezzo tra la rigidità della filosofia
analitica e gli indefiniti flussi della teoria post-strutturalista8”,
5
Questo distanziarsi da Rorty relativamente alla questione della tradizione non è assolutamente indice di un atteggiamento di rifiuto generale. Shusterman condivide infatti molti
aspetti del suo funzionalismo.
6
“a balance of old and new”, R. Shusterman, intervista di
G. Leypold, The Pragmatist Aesthetic of Richard Shusterman: a
Conversation, da Zeitschrift fur Anglistik und Amerikanistik: A
Quarterly of Language, Literature and Culture, 48:1, 2000.
7
Il pensiero qui corre al termine tedesco “aufheben”, che
inevitabilmente nelle traduzioni perde la propria pregnanza semantica.
8
“middle way between the rigidity of analytical philosophy and the confusing flux of poststructural theory”, cit. in R.
Shusterman, intervista di G. Leypold, The Pragmatic Aesthetic
of Richard Shusterman: a Conversation, da Zeitschrift fur Anglistik und Amerikanistik: A Quarterly of Language, Literature
and Cuture, 48:1, 2000.
8
distanziandosi contemporaneamente sia da un essenzialismo che
considera gli oggetti della conoscenza come entità determinate e
autonome, sia da un contestualismo che, al contrario, considera
i medesimi oggetti della conoscenza come prodotti della mente
e del linguaggio.
Tale orientamento metodologico è anche alla base delle
ricerche più specificamente estetiche, ed è particolarmente
riscontrabile soprattutto nell’articolo “The End of Aesthetic
Experience”, dove la ricerca di una mediazione si fa addirittura
programmatica. Pubblicato nell’inverno del 1997 nella rivista
“the Journal of Aesthetics and Art Criticism” (del cui Comitato
Editoriale Shusterman è membro dal 1999), l’articolo si presenta
da un lato come resoconto, che vuole essere più ragionato che
esaustivo, dell’evoluzione di un concetto, dall’altro come una
proposta di revisione e rivalutazione del concetto stessi. È il
titolo stesso, volutamente ambiguo, a darci indicazione di questo
duplice intento. Nel momento in cui la tradizione filosofica,
in particolar modo quella dell’ultimo secolo, sembra voler
decretare la fine dell’esperienza estetica, Shusterman si propone
di riabilitarne il fine9. Ricognizione e redenzione.
Prima di procedere con un’analisi dettagliata dell’articolo
in questione, ho ritenuto opportuno approfondire, seppure
seguendo linee generalissime, il ruolo rivestito dal concetto di
esperienza estetica nella filosofia premoderna, su cui Shusterman
invece non si dilunga, limitandosi a ribadirne un’importanza che
9
Il termine inglese end possiede entrambi i significati; la
distinzione è quindi esclusivamente contestuale, diversamente
dalla lingua italiana, nella quale i due diversi significati sono
distinguibili anche a partire dal genere attribuito al termine.
9
egli dà per scontata. Se ne parlerà nella prima sezione del primo
capitolo.
Questo mio lavoro altro non vuole essere se non la
confessione di una immotivata diffidenza. La cieca devozione
al mito dell’autonomia dell’arte (non sempre supportata da
adeguate competenze), la pigrizia intellettuale che sempre segue
al pregiudizio, la complessità della materia e la conseguente
scarsa conoscenza, mi hanno sempre portata a diffidare di quelli
che consideravo gli ‘sterili tecnicismi’ dell’estetica analitica.
Per molti di noi giunge il momento nella vita di fare
i conti con l’arte e con le questioni ad essa legate. Ognuno
sviluppa, così, le proprie modalità privilegiate cui spesso resta
incondizionatamente fedele. Ringrazio il Professor Shusterman
per avermi insegnato che fare “analiticamente” i conti con l’arte
non sempre significa risolvere un’equazione matematica.
10