"diritti degli animali": una ricognizione

Quando Nietzsche abbracciò un cavallo
QUANDO NIETZSCHE
ABBRACCIÒ UN CAVALLO
I “DIRITTI DEGLI ANIMALI”:
UNA RICOGNIZIONE
SOCIOLOGICA
di Carlo Gambescia*
È trascorso poco più di un secolo da quando Nietzsche, nel tentativo di sottrarre un cavallo alle percosse del padrone, abbracciandolo, rischiò l’arresto. Oggi un fatto del genere
non potrebbe accadere. La sensibilità sociale nei riguardi degli animali è notevolmente cresciuta. È bene? È male? Non ci pronunciamo. Nello scritto che segue ci limiteremo a una
ricognizione sociologica intorno a due punti, a prima vista lontani dalla questione “diritti
degli animali”, ma in realtà importanti per capire quali implicazioni sociologiche vi siano
dietro: 1) il nodo di un individualismo protetto dallo stato, esteso anche agli animali; 2) il
problema del sempre possibile passaggio dalla violenza simbolica insita in ogni dibattito
pubblico - a parole rifiutata da tutti: animalisti e non animalisti - alla violenza reale.
Il nostro - concludendo - è un articolo non tanto “su” quanto “intorno”, sociologicamente “intorno”, ai “diritti degli animali”.
It was little more than a century since Nietzsche, in an attempt to steal a horse beaten by
his owner, hugging it, risked to be arrested. Today such a thing could not happen.Social
sensitivity towards the animals is greatly increased. Is it a good thing? Or a bad one?We
can’t say anything about it.
In the following text we will just overlook a sociological survey on two points, at first
glance away from the question "animal rights", but really important to understand the
sociological implications that are behind it:1) the node of a personal protective state
extended to animals,
2) the problem can always move from symbolic violence inherent in any public debate in words rejected by everyone: animals, not animals – to the actual real violence.
Prologo: il cavallo di Nietzsche
N
ietzsche nelle ultime giornate torinesi, prima di sprofondare nella
follia, cercò di sottrarre un cavallo alle percosse del suo padrone,
abbracciandolo. Quell’animale non solo non aveva alcun “dirit-
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Sociologo
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to” ma neppure poteva fruire di una legge che lo difendesse dal maltrattamento di un carrettiere1.
Oggi un fatto del genere non potrebbe accadere. La sensibilità sociale
nei riguardi degli animali è cresciuta. E un Nietzsche redivivo, non verrebbe allontanato con la forza da due guardie municipali. E quel carrettiere, di sicuro punito.
Ciò che però desideriamo sottolineare è - semplificando - lo statuto di
persona morale, oggi riconosciuto agli animali. Condizione che per alcuni implica il diritto dell’animale a non soffrire, cui corrisponde il dovere
dell’ uomo a non ingiuriarlo in alcun modo2. Mentre per altri comporta
addirittura l’attribuzione di un valore intrinseco a ogni essere vivente;
valore da cui sorgerebbero diritti fondamentali, naturali e inalienabili di
specie3.
Che dire? È bene? È male? Non ci pronunceremo. Desideriamo solo
sviluppare una ricognizione intorno a due punti, a prima vista lontani
dalla questione “diritti degli animali”, ma in realtà importanti per capire, se il lettore avrà la pazienza di seguirci fino in fondo, quali implicazioni sociologiche vi siano dietro: 1) il nodo di un individualismo protetto dallo stato, esteso anche agli animali; 2) il problema del sempre possibile passaggio dalla violenza simbolica, latente in ogni dibattito pubblico
- a parole rifiutata da tutti: animalisti e non animalisti - alla violenza
aperta e reale.
Le intuizioni di Tocqueville
La moderna e trionfale espansione dei diritti dell’uomo, in chiave
soprattutto di diritti individuali4, è il prodotto della più massiccia avanzata dei poteri pubblici, mai registrata nella storia5. Probabilmente fu
Tocqueville il primo a scorgere la pericolosità della miscela diritti individuali-democrazia di massa- benevolo dispotismo statuale. Il grande pensatore francese intuì il rischio rappresentato da una folla di piccoli uomini famelici, muniti di minuziosi diritti, sui quali si sarebbe naturalmente
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L’episodio, risalente alla fine del dicembre 1888, è riferito - in modo rudemente analitico - da A. Verrecchia, La
tragedia di Nietzsche a Torino (ed. or. 1978), Bompiani, Milano 1997, pp.342-348.
P. Singer, Liberazione animale (ed. or. 1976), L.A.V. , Roma 1987 .
T. Regan, I diritti animali (ed. or. 1984), Garzanti, Milano 1990.
Sulla relazione diritti dell’uomo/diritti individuali si veda il sulfureo saggio di A. de Benoist, Oltre i diritti dell’uomo (ed. or. 2004), Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004, pp. 13-27 (Cap. I: “I diritti dell’uomo attengono
alla sfera del diritto?”).
Perché si tratta di un’ espansione statuale avvenuta “nonostante” la moderna formalizzazione costituzionale
della libertà individuale; sconosciuta, ad esempio, agli antichi. E quindi siamo davanti a un’espansione inaspettata e senza precedenti. Un fatto che rinvia all’esistenza di “regolarità sociologiche” che precedono e governano la vita sociale e politica di tutti i tempi, democratici e non. Su questi aspetti si veda A. Rüstow, Freedom
e Domination. A Historical critique of Civilization (ed. or. 1950-1957), Princeton University Press, Princeton
(N.J), 1980, edizione ridotta.
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stesa la benevola mano dello stato, pronto ad appagare qualsiasi forma di
microegoismo, producendo leggi su leggi, in cambio dell’obbedienza politica6. Talvolta cieca.
Per farla breve: i diritti implicano, legiferazione, e la legiferazione,
implica nuovi diritti, in termini di crescenti e contrastanti interessi individuali, il che richiede nuove leggi, e dunque nuovi diritti, sui quali legiferare. E così via. Si potrebbe parlare di un moltiplicatore giuridicosociale dalla forza tremenda.
Il che spiega il passaggio - in atto - dai diritti dell’uomo ai “diritti degli
animali”. Un processo che va visto anche alla luce di una sensibilità
mutata grazie alla crescita dei reddito medio e alla disponibilità di maggiore tempo libero, seppure massificato.
Per dirla brutalmente: quando gli stomaci sono pieni, il superfluo
diventa necessario. Per secoli aristocrazie cinguettanti, soprattutto nelle
fasi di decadenza, si sono interessate al benessere degli animali7. Oggi è il
momento di masse tanto satolle quanto le aristocrazie di un tempo. Affamate, in chiave squisitamente moderna, di valori giuridici sconosciuti alle
società precedenti. Come appunto quei diritti individuali, sanciti da
Carte e Costituzioni, da estendere “doverosamente”, in termini di crescente benessere per tutti, anche agli animali.
Certo, per i sostenitori dei “diritti degli animali” si tratta di una conquista, mentre per i detrattori di una retrocessione dell’uomo dal centro
alla periferia del Creato. Per l’osservatore neutrale, invece, siamo al
cospetto di una forma estensiva (anche agli animali) di “individualismo
protetto”. Spieghiamo perché
Che cos’è l’individualismo protetto?
Parliamo di un individualismo senza eguali nella storia. Nel senso che
oggi i diritti individuali devono essere ( e sono) garantiti da strutture pubbliche: dal potere sociale. L’individuo è libero di decidere ma all’interno
di un “percorso” istituzionale e societario obbligato: gli si dice che obbedisce a se stesso. Un “percorso” che in realtà finisce per condizionare,
spesso pesantemente, la decisione del singolo. E senza che quest’ultimo se
ne accorga.
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A. de Tocqueville, La democrazia in America (ed. or. 1835-1840), in Idem, Scritti Politici, a cura di N. Matteucci, Utet, Torino 1981, in particolare il Libro Secondo, Parte Quarta (pp. 783-828). Ma su questo aspetto si
veda N. Matteucci, Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura, Il Mulino, Bologna 1990, in particolare il capitolo II, pp. 91-117 (“Tocqueville e la modernità”).
Sui rapporti fra aristocrazie e decadenza rinviamo al classico V. Pareto, Trattato di sociologia generale (ed. or.
1916), Utet, Torino 1988, vol. IV (“La forma generale della società”). Per alcuni utili spunti sulla relazione fra
decadenza e classi sociali, si veda J. Freund, La décadence, Sirey, Paris 1984, cap. V, pp. 132-199 (“Les théories générales de la décadence”).
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Si pensi, ad esempio, alle tutela giuridica del lavoro, della salute e dell’
istruzione; giustissima sul piano degli ideali e delle libertà di (positive). E di
conseguenza condivise dai cittadini in nome del “bene di tutti e di ciascuno”,
ma di fatto gestite da occhiute, impersonali e spesso sciatte burocrazie8.
Si può perciò parlare, dal punto di vista sociologico, di diritti individuali “vincolati” al riconoscimento, da parte del cittadino, di un potere
sociale o pubblico, talvolta inefficiente, che si manifesta e concretizza
attraverso leggi, regolamenti, giudici e funzionari, lungo un percorso
sociologico (dalla legiferazione all’attuazione delle leggi), che va, se ci si
perdona la caduta di stile, dalle “stelle” (delle “Carte Costituzionali e dei
Diritti”) alle “stalle” (della routine quotidiana, gestita dalle burocrazie).
Ma non è tutto. Come ha notato lo storico Christopher Lasch nelle
società moderne tutte le grandi strutture burocratiche (anche quelle private s’intende) tendono a deresponsabilizzare l’individuo: sia lo stato che la
grande impresa, appoggiandosi l’uno all’altra, facilitano la trasformazione
dell’individuo in una specie di eterno bambino, un narciso, dedito ai consumi privati e pubblici. Soprattutto la crescente fornitura statale di beni
pubblici priverebbe progressivamente le persone della propria qualità di
lavoratori, mariti, padri. Le trasformerebbe in marionette, i cui fili sono
tirati dai vertici delle grandi organizzazioni pubbliche e anche private, che
spesso intervengono nella gestione stessa, affiancando l’opera dello stato9.
Per farla breve: oltre un certo limite il welfare state, o stato sociale, provoca dipendenza. Come per contro - sia detto per inciso - il laissez-faire allo
stato puro determina la distruzione di ogni legame sociale.
Purtroppo la perfezione non è di questo mondo.
Un welfare state anche per gli animali?
Ora, per tornare all’argomento “diritti degli animali, va notato come
i provvedimenti legislativi in materia siano particolarmente aumentati
negli ultimi cinquant’anni10. Quasi di pari passo con lo sviluppo del welfare state, senza peraltro risentire delle critiche rivolte allo stato sociale.
Sorvolando sulle grandi dichiarazioni internazionali di principio, in
Italia con la legge del 20 luglio 2004, n. 189 è stato addirittura inserito un
nuovo titolo (il IX bis) nel libro II del Codice Penale, rubricato, secondo
8
Per ragioni di spazio dobbiamo tralasciare la discussione, a dire il vero più filosofica che sociologica, sui concetti di liberta da (negativa) e libertà di (positiva). Rinviamo però a un classico in argomento: I. Berlin, Libertà
(ed. or. 2002), Feltrinelli, Milano 2005, in particolare pp. 169-222 (“Due concetti di libertà”).
9 Si vedano in particolare C. Lasch, La cultura del narcisismo (ed. or. 1979), Bompiani, Milano 1981; Idem, L’Io
minimo (ed. or. 1984), Feltrinelli 1985.
10 Sugli aspetti storico-giuridici cfr. S. Castiglione, Diritti degli animali, in AA.VV. Enciclopedia delle scienze
sociali, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1993, vol. III, pp. 14-15 (“Cenni di diritto comparato”). Per
un aggiornamento si veda in questo fascicolo di “Silvae” lo studio di Francesca Rescigno.
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una ratio sociologica a metà strada tra Beccaria e Rousseau, oggi più che
mai in auge: “Dei Delitti contro il sentimento per gli animali”. Un paradossale mix di positivismo giuridico e sentimentalismo.
Ma lasciamo la parola al penalista Guido Casaroli:
“Il titolo contiene cinque disposizioni, di cui le prime quattro configurano nuove fattispecie criminose, mentre l’ultima prevede una particolare ipotesi di confisca e speciali pene accessori. L’art. 1, comma 3, l.
198/2004 riformula, infine, la precedente ipotesi di abbandono di animali, prima accorpata nella fattispecie generale di maltrattamento di cui
all’art. 727 c.p. e ora elevata ad autonomo titolo di reato. Mediante la
tecnica dell’interpolazione, il legislatore inserisce nel corpo del Codice, i
nuovi articoli 544-bis e 544-sexies, con cui vengono previsti, quali “delitti”: l’uccisione di animali (art. 544-bis), il maltrattamento di animali (art.
544-ter); gli spettacoli o manifestazioni vietate (art. 544-quater); il divieto di combattimenti tra animali (art. 544-quinquies)[…]. In estrema sintesi, può dirsi che, con la trasformazione degli illeciti da contravvenzioni
in delitti, da un punto di vista ‘qualitativo’ si determina un indubbio
innalzamento della soglia della tutela penale degli animali”11.
Per alcuni ciò è meritorio, per altri un atto dovuto, o addirittura
insufficiente. Mentre per chi scrive è segno di un’ invasiva produzione
legislativa, per ora sul piano qualitativo, che rischia però di farsi in futuro sempre più capillare. E che in prospettiva sembra puntare all’edificazione di un iperprotettivo welfare state, anche per gli animali.
Si tratta perciò di un fenomeno che può inquadrarsi in una tendenza
che va ben oltre il problema “dei diritti degli animali”. Sulle cui ragioni
ci siamo già soffermati a sufficienza. Quanto al valore di uno “zoo-welfare”, lasciamo siano i lettori a interrogarsi e decidere.
La “forza del sociale”
Veniamo ora al secondo punto. In genere gli animalisti condannano
ogni forma di violenza. Un atteggiamento condiviso anche dagli stessi critici dell’animalismo. I quali concordano sulla necessità di mitigare l’uso
della violenza sugli animali, pur nella sostanziale fedeltà alle antiche tradizioni alimentari carnivore12.
11 G. Casaroli, Animali (delitti contro il sentimento per gli), in S. Patti (diretta da), Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, Milano-Bergamo 2007, vol. I. pp. 425-426.
12 Come nel caso di R. Scruton, Manifesto dei conservatori (ed. or. 2006), Raffaello Cortina Editore, Milano
2007, pp. 59-76 (“Mangiare i nostri amici”).
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Ma la questione è più complessa. Perché siamo dinanzi a un preciso
meccanismo sociologico che regola, ma non solo, i dibattiti, soprattutto
quelli pubblici. Quale? Quello dell’istituzionalizzazione delle decisioni
umane, attraverso la quale un fatto individuale - come una decisione - si
trasforma in fatto istituzionale, nel senso che impone comportamenti collettivi standardizzati: la decisione individuale si “cosalizza”; diventa una
cosa sociale. E ciò a prescindere dalla bontà o meno della “causa” e della
motivazione culturale dei singoli attori. Di qui la “forza del sociale” o
delle “rappresentazioni sociali”13. E il rischio del ricorso alla violenza.
Ma ci spieghiamo meglio.
La prima conseguenza, sul piano comunicativo, è che una questione
privata - ad esempio l’amore per criceti, topolini e coniglietti frammisto
alla volontà di prolungarne la vita - appena posta all’attenzione collettiva, diventa una questione pubblica. Viene inglobata dai mezzi di comunicazione sociale e trattata secondo specifici stereotipi dialettici e mediatici, legati a logiche oppositive di gruppo.
Ecco allora che i “diritti degli animali” assumono forza propria, “si
cosalizzano” fino a diventare il simbolo, negativo o positivo, di una
società buona o cattiva, a seconda dello schieramento ideologico.
La teoria dell’etichettamento
La seconda conseguenza, sul piano sociologico, è quella della radicalizzazione delle posizioni. I fronti opposti - mediatici e sociali - iniziano
subito a comportarsi secondo la teoria dell’etichettamento14; ovvero si
comportano in base a schemi acquisiti e conformi ai valori, che di essi
hanno i rispettivi avversari. Semplificando: un “reazionario” e un “progressista” rispetto ai diritti degli animali, accentueranno il proprio comportamento, perché così impongono i ruoli sociali imposti da una situazione di conflitto: ogni parte in campo è come costretta a dare il peggio di
sé... A comportarsi come impone, il modello immaginativo, del gruppo
avversario.
Può apparire paradossale ma esiste il conformismo, socialmente imposto, delle diversità in conflitto. Da ciò discende quella lotta senza quartiere delle opinioni.
La terza conseguenza, sul piano politico, è quella del “ chi ha più forza
non può non usarla”. Di qui i provvedimenti e le conseguenti divisioni 13 Tema sociologico classico. È perciò d’obbligo il rinvio a É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico (ed.
or. 1895), Edizioni di Comunità, Milano 1963, pp. 25-33 (Capitolo I: “Che cos’è un fatto sociale”)
14 Si veda in argomento H. Becker, Outsiders. Studies in the Sociology of Deviance (ed. or. 1963), Free Press, New
York 1997. Noi qui “espandiamo” il modello di Becker, riconducendolo, forse per alcuni criminologi impropriamente, nell’alveo della sociologia dei conflitti sociali.
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secondo la forza scalare del potere detenuto - tra i diversi gruppi sociali
( interni a parlamento, governo, magistratura e burocrazie). Cui seguono
nuove contrapposizioni, in seno alla società civile e politica. Nonché la
richiesta di altri interventi legislativi che “risolvano” in modo definitivo i
nuovi contrasti, e così via.
Sullo sfondo, come abbiamo visto, di un individualismo protetto,
anch’esso in espansione, con al centro uomini, donne e bambini, sempre
più capricciosamente bisognosi della compagnia di animali. E perché allora non accontentarli? Soprattutto se tutto ciò può diventare un fattore di
ordine?
Ma non un fattore di stabile coesione sociale. Perché le nuove leggi, se
approvate, daranno vita ad altre divisioni, legate a questioni applicative,
secondo una spirale di natura circolare. Pertanto il confine tra ordine e
disordine resta piuttosto sottile e mobile15.
Il rischio della violenza
Ciò accade perché i processi sociali hanno natura ciclica e non evolutiva, tendono alla ripetizione del semplice e del complesso e non all’unilinearità dal semplice al complesso (o comunque evolvono ma all’interno
di un ciclo evolutivo predeterminato, nascita, vita, morte). L’uomo sociale è un animale “reiterativo”. La reiterazione di ciò che è stabile, come ad
esempio l’ assumere certe posizioni all’interno di un dibattito, è fonte di
sicurezza e gerarchizzazione (“noi”, i migliori, contro “loro”, i peggiori…): in una situazione di crisi, optare per una delle due parti in lotta è
perciò fonte di identità. E quanto più si radicalizzano e dilatano le opposte posizioni tanto più si riducono i margini di incertezza individuale e
collettiva.
Pertanto, di regola, il dibattito pubblico - soprattutto in una società
che non riconosca altre fonti autoritative e/o veritative esterne - è sempre
destinato a radicalizzarsi (se non a trasformarsi, in alcuni casi, addirittura in guerra civile) e prolungarsi nel tempo. Fino al primo “armistizio
societario”, per poi riaccendersi, e così via. Certo, variando nelle dimensioni, durata e intensità, in base alle tradizioni storiche e culturali della
società di riferimento. In realtà il dibattito puro può “funzionare”, ma
fino a un certo punto, solo all'interno dei piccoli gruppi. Ma questa è
un’altra storia.
Pertanto c’è sempre il rischio, che per salvare un topolino dalla vivisezione, o al contrario per favorirne l’utilizzazione sperimentale, si fini15 In argomento si veda l’eccellente studio di E. Werner, L’anteguerra civile. Il disordine come condizione dell’ordine nelle democrazie contemporanee, (ed. or. 1998) Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004.
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sca per ricorrere alla violenza, e non solo simbolica16.
E anche questo può essere un buon motivo di riflessione per i lettori.
Cioè se i “diritti degli animali” valgano, non la famigerata Messa, ma
almeno in prospettiva, l’acuirsi di una “guerra”se non civile, sicuramente “culturale”. Le cui conseguenze non vanno mai sottovalutate.
Epilogo: da Nietzsche a Nietzsche
Una precisazione. Quanto appena detto, non significa che chi scrive
sia contrario al dibattito pubblico. Ci mancherebbe altro. Si ritiene sia
utile conoscerne i limiti sociologici. Tutto qui.
Se infine ci è concessa una valutazione normativa sui “diritti degli animali”, crediamo sia necessario puntare su una visione olistica. Che tuttavia conservi al centro l’uomo. Una concezione, al tempo stesso, rispettosa degli animali e delle gerarchie naturali. Capace, seguendo l’ispirazione nietzschiana, di sospingere l’ uomo ad abbracciare un cavallo sofferente, senza però identificarsi totalmente con esso.
L’uomo, scrive Nietzsche, è “una fune sopra l’ abisso”17. Ma è una
fune pensante, che a differenza di altri esseri viventi, “sente” il peso
“metafisico”18 del rischio di spezzarsi all’improvviso. Un sentimento che
può rendere l’uomo, come è giusto che sia, sensibile alle sofferenze del
cavallo. Ma potrà mai bastare la “cura” a rendere il cavallo consapevole
delle sofferenze dell’uomo?
16 Su questi aspetti si veda A. Gaspari e V. Pisano, Dal popolo di Seattle all’ecoterrorismo. Movimenti antiglobalizzazione e radicalismo ambientale, 21mo Secolo Editore, Milano 2003. In alcuni punti gli autori esagerano.
Ma i rischi di certe posizioni estreme, in campo non solo ambientale, sono chiaramente messi in luce.
17 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Prefazione, 4 in Idem, Opere 1882-1895, Newton Compton, Roma 1993,
vol. II, p. 234.
18 Sulla distinzione “metafisica” tra esseri umani e animali (nei termini di ambizioni, speranze, aspirazioni presenti, consapevolmente, soltanto nell’uomo), rinviamo alla soddisfacente trattazione di R. Scruton, op. cit.,
pp. 60-65.
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