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IL VIAGGIO DI ERACLE ATTRAVERSO LA FOLLIA
Siracusa – 23 maggio 2007
di Mariapia Iacopino
Nella stagione classica 2007 organizzata dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico al
teatro greco di Siracusa il protagonista è Eracle,
messo in scena attraverso le parole di Sofocle con le
Trachinie e di Euripide con l’Eracle – oggetto
quest’ultimo del presente articolo. Le due opere, pur
trattando aspetti differenti dell’eroe mitico
convergono, tuttavia, nell’evidenziare la fragilità
umana, il mondo oscuro ed incontrollabile delle
passioni dell’animo e le forze contrastanti che
agivano l’uomo dell’Atene del V secolo, così come
l’uomo del III millennio.
“Chi non conosce l’uomo che ha spartito il suo letto con Zeus?” … la voce potente e
calda di Anfitrione rompe il silenzio del teatro. E’ il prologo dell’Eracle recitato da uno
strepitoso Ugo Pagliai, che riempie l’aria e
conduce tutto il pubblico verso, dentro la vicenda.
Non bisogna dimenticare che ci troviamo in un
teatro all’aperto e non in uno spazio chiuso da
pareti che trattengono le voci e i suoni, favorendo
il coinvolgimento del pubblico. E, nonostante
questo, le parole di Anfitrione che racconta
l’antefatto catturano immediatamente lo spettatore
e lo immergono in un clima di solennità e
tensione. La risoluta rassegnazione di Megara
(Giovanna Di Rauso) che stringe a sé i figli,
l’aspro confronto fra Anfitrione e Lico (Massimo Reale) fanno salire la tensione che raggiunge
vertici altissimi con il primo stasimo. Guidati da un bravissimo Corifeo (Antonio Zanoletti) che
davanti all’altare di Zeus narra le imprese di Eracle, in un incalzare di voce, parole e gesti, i
coreuti, allineati sul fondo della scena, con movimenti ritmici e quasi spezzati, si avvicinano via
via, rendendo sempre più densa e tangibile l’emozione. Le parole del Corifeo, in una
progressione di tono e di ritmo, si alternano al lamento del coro “Alinos”, ripetuto in volute
sempre più strette e pressanti; il lamento crea
come una cassa di risonanza nella quale parole ed
emozioni si amplificano. E’ un momento
indimenticabile e carico di pathos, che non
abbandonerà più il teatro, fino al termine della
rappresentazione. Il regista De Fusco, sfruttando al
massimo la bellissima traduzione di Giulio
Guidorizzi, ha magistralmente costruito la scena,
inducendo il pubblico a penetrare la vicenda con
emozione profonda e condivisa.
Arriva Eracle (Sebastiano Lo Monaco). La
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1
modalità dell’entrata in scena dell’eroe è l’unico punto dell’opera che si discosta dal testo. In
Euripide l’eroe arriva da lontano e saluta il tetto e il portico della sua casa. Il regista, invece, fa
faticosamente emergere dal pavimento della scena una figura un po’ rattrappita, che si muove a
scatti e si trascina sul terreno. E’ un Eracle che materialmente proviene da sotto terra, dal mondo
dei morti, portandosi addosso tutto il peso dell’oltretomba, nonché i segni del suo viaggio
nell’Ade, rivelati anche da un marchio bianco e rosso sulla fronte. Tale scelta registica, anziché
allontanare la figura dell’eroe dalla caratterizzazione euripidea, in un certo qual modo, la
rafforza, restituendoci un Eracle duramente provato, non solo nella psiche, ma anche nel corpo;
un Eracle irrimediabilmente contaminato dalla morte, al punto che non può più farne a meno:
ucciderà per sacrificare agli dèi del focolare, ucciderà Lico per vendicare il trono, ucciderà,
infine, la sua famiglia per follia. L’effetto della contaminazione genera un Eracle stranito, non
particolarmente coinvolto emotivamente, preoccupato soprattutto di ristabilire l’ordine e di
vendicarsi di coloro che non gli sono stati fedeli, poiché quello è il suo compito. Il padre e marito
affettuoso che ci si aspetterebbe in una simile situazione è offuscato da una patina di freddezza,
ben evidenziata da una recitazione declamata, quasi scontata. Questa interpretazione, che
richiama bene lo spirito del testo euripideo, mantiene tensione ed inquietudine, nonostante la
circostanza induca al rasserenamento.
In alto a sinistra, con l’ausilio di una pedana mobile, emerge Follia (Marianella Bargilli),
in abito lamè ed argento, sfolgorante e seducente, fronteggiata da Iride (Deli De Maio), in alto a
destra, caratterizzata come una vecchia megera. Il balletto di Follia e delle sue seguaci,
accompagnate da uno struggente suono di violino, crea una sorta di sospensione che rimanda
qualsiasi riflessione ad un tempo successivo. Per il momento si è immersi e trasportati dalle note
tristi e seducenti della musica e di una voce che canta in grammelot.1 Il linguaggio perde il suo
significato letterale per diventare suono, vibrazione, musicalità che comunica emozioni e
suggestioni.
Molto interessante la rappresentazione di Follia come una donna che seduce, che avvolge
nelle proprie spire e che, non con la forza, ma con la persuasione porta alla pazzia. Non è certo
una libera interpretazione del regista quella di
presentare in queste fascinose vesti Follia; dal
testo, infatti, non emerge affatto una figura
negativa, anzi, in più punti le sue parole sono di
dubbio e riserva circa l’azione che dovrà compiere
su Eracle: “Ti consiglio di non fargli del male” e
ancora “Chiamo a testimone il Sole che agisco
contro mia voglia”. Tuttavia, come se la follia
avesse corteggiato Eracle durante tutto il suo
cammino - concetto ben evidenziato fin dall’inizio
dalle parole di Anfitrione del prologo “Così, reso
folle dal pungolo di Era o forse seguendo il proprio destino …” - per l’eroe non c’è scampo, egli
deve sottostare al volere degli dèi o alle sue passioni interiori. La vista delle danzatrici in abiti
lucenti ed eterei che alternano movimenti flessuosi e tondi ad altri geometrici e spigolosi, è
amplificata dalle parole di Follia, rese da una traduzione incalzante ed avvolgente che, come in
un vortice, sembra voler afferrare anche tutto il pubblico presente: “… e il mare furioso con le
sue onde avide, il terremoto o il sibilo spaventoso del fulmine non saranno niente in confronto
alla mia corsa attraverso il petto di Eracle. Squarcerò … abbatterò … Presto lo farò danzare
ancora di più, e suonerò il flauto del terrore …”. Ecco perché la tragedia greca è definita “teatro
1
Nonostante gli studiosi considerino il grammelot un’invenzione dei comici della Commedia dell’Arte, si può
intravederne un esempio già in Aristofane, Acarnesi, quando in scena entra un persiano e dice: “I artàmane
Xàrxas apiàona sàrtra …” (Aristofane, Acarnesi, vv. 100-sgg., trad. Francesco Ballotto, BUR, Milano 1964).
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di parola”; è in momenti come questo, e non solo, che appare chiara la forza del logos. Parole
scelte accuratamente, accostate e contrapposte con precisione, in modo da restituire un’onda di
significato che non incontra ostacoli e che scende in profondità nella mente e nell’animo di chi
ascolta. La scena è materialmente sconquassata dal terremoto, rappresentato da alcune lastre del
pavimento sollevate e da una profonda crepa del leone dorato che vegliava il palazzo dall’alto fin
dall’inizio.
Il resoconto del messaggero sulla strage compiuta da Eracle all’interno del palazzo
riporta lo spettatore all’orrore e alla paura. Un bravissimo Luca Lazzareschi ricrea le immagini
raccapriccianti del massacro, scegliendo il giusto ritmo nelle frasi, nelle pause e nei toni. Nella
rhesis del messaggero, unanimemente riconosciuta da filologi e studiosi come uno dei momenti
più alti del teatro di Euripide, il pubblico viene bersagliato da un’incalzante successione di
immagini cruente e pietose e, con il fiato sospeso, soffre insieme ai personaggi del mito.
Sulla scena appaiono i corpi martoriati dei figli e della sposa di Eracle, portati alla vista
del pubblico attraverso una piattaforma girevole2 ed in mezzo a loro il corpo esangue e legato
dell’eroe. L’impatto è amplificato dal gioco di specchi delle pareti della piattaforma composta da
più pannelli che sdoppiano e rifrangono le figure, quasi a voler esasperare all’infinito la tragicità
della strage e l’assurdità
di queste morti. Ma ora
è il silenzio che domina,
appena
rotto
dallo
scambio di battute fra il
coro e Anfitrione, il
quale, per timore che il
figlio,
svegliandosi,
riprenda ad uccidere,
invita il coro a parlare
sottovoce. Il tono della
voce,
i
movimenti
felpati di Anfitrione, la
scena nel suo complesso
inducono gli spettatori
quasi ad abbassare lo
sguardo, non solo per
rispetto dei morti, ma
anche alla presenza di
due esseri umani, Eracle
ed Anfitrione, così
stimati dagli uomini e
così duramente provati dal destino.
L’ultima parte dell’opera assume toni più pacati, ma non meno intensi. Attraverso una
sorta di processo psicanalitico, Anfitrione riporta cautamente Eracle alla realtà. Questa è la scena
nella quale Lo Monaco si esprime al meglio: la delicatezza di interpretazione di Pagliai, che ben
rappresenta la comprensione e nobiltà d’animo di Anfitrione, si contrappone alla disperazione di
Eracle, espressa da Lo Monaco con una convincente interpretazione, giocata sui cambiamenti di
tono e sugli scarti nel movimento.
Con l’ingresso in scena di Teseo (Roberto Bisacco), non a caso vestito di bianco in
mezzo agli altri attori in abito nero, l’angoscia si stempera e anche il pubblico intravede qualche
speranza di rasserenamento. Se Eracle come primo impulso ha quello di uccidersi per la
vergogna di ciò che ha commesso,
attraverso un lungo dialogo con Teseo,
alla fine, si convince a prendersi le
proprie responsabilità vivendo, non
uccidendosi, ed a seguire il re di Atene
nella sua città, dove troverà riparo e
protezione. Da quest’ultimo quadro,
emergono chiari i messaggi del testo: gli
dèi non si occupano delle vicende dei
mortali e la fragile vita degli uomini è in
mano al destino, sempre pronto a
2
Una citazione dell’ekkyklema delle antiche messinscena.
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capovolgere la buona sorte – “(Era) … ha sradicato il destino dell’uomo migliore di Grecia, l’ha
fatto precipitare nell’abisso.” L’interpretazione di Bisacco, nelle vesti di un rassicurante Teseo,
e le ultime significative parole di Eracle “E’ uno stolto chi pensa che ricchezza e potere valgano
più di un amico generoso” concludono una vicenda che ha coinvolto non solo gli attori in scena,
ma tutto il pubblico, che davvero ha sofferto e gioito insieme a loro, sperimentando una briciola
di quella magia che è stato il teatro dell’Atene del V secolo a.C.
“Andiamo via, in lutto, tra le lacrime: abbiamo perduto l’amico più caro.” Con queste
parole, il Corifeo congeda attori e spettatori: la rappresentazione è finita. E dalle gradinate si leva
un applauso scrosciante, liberatorio; tutto il pubblico si alza in piedi e si avvicina all’orchestra,
continuando ad applaudire e ad invocare l’entrata in scena degli attori. Sembra quasi un tifo da
stadio, mentre, uno ad uno, gli attori si presentano sulla scena e ringraziano per il calore e
l’affetto con cui vengono accolti. L’applauso raggiunge il culmine all’ingresso di Ugo Pagliai. In
un cast davvero molto qualificato e convincente, Pagliai ha portato indubbiamente quel
“qualcosa in più”, fatto dalla sua grande presenza scenica, dalla potenza della sua recitazione,
dalla capacità di modulare la voce, da un’esperienza di tutta una vita di teatro e soprattutto dalla
professionalità e dalla passione che lo animano.
Nel complesso questa messinscena è stata emozionante, compatta e scorrevole, chiara nei
suoi messaggi e potente nella loro manifestazione. E’ stata messa in scena la morte, la morte in
tutte le sue sfumature, nel racconto delle imprese di Eracle, nel suo viaggio nell’Ade,
nell’uccisione volontaria del tiranno Lico e nella strage inconsapevole della sua famiglia. E’ stata
messa in scena la pochezza e la fragilità degli esseri umani. E’ stato messo in scena il
disinteresse degli dèi per l’umanità e la fondamentale importanza dell’amicizia, unica via di
salvezza dell’uomo. Tutti temi che emergono prepotentemente durante la rappresentazione e
colpiscono nel profondo chi ascolta inducendo alla riflessione.
Un grande testo, una grande traduzione per una grande regia, rappresentati da attori che
sono stati capaci di rendere al meglio il significato che man mano emerge dalle parole. De Fusco
ha saputo sfruttare al meglio e trovare la massima resa per una traduzione fluida e chiara,
attualizzata, ma non snaturata. Infatti, il procedimento di attualizzazione realizzato sulla scrittura,
come intende Guidorizzi, consiste nell’eliminare i riferimenti che il pubblico di oggi non può
cogliere o nel limitare i vocativi così numerosi nel testo greco, senza, tuttavia, stravolgere la
narrazione. Quindi niente modernismi fuori luogo, ma scena minimale e abbigliamento senza
tempo. I colori prevalenti della scenografia sono l’ottone e il rame; un altare, costituito da una
semplice lastra di pietra poggiata sul pavimento, di fronte a due strutture laterali che servono per
le apparizioni di Follia ed Iride, fra le quali una porta celata, quella del palazzo di Eracle, che poi
ruotando mostrerà i corpi martoriati, posta fra due rampe di scale dalle quali entrano ed escono i
personaggi. Sulla colonna centrale che contiene la porta del palazzo spicca un leone dorato che
alla fine della rappresentazione appare frantumato in due, in seguito al terremoto della follia.
Originale la rappresentazione del terremoto, evidente, oltre che dalla crepa nel leone, da alcune
sezioni di pavimento sprofondate o sollevate. Come per tutta la scenografia, anche in questo
caso, non si assiste a colpi di scena o a scelte troppo spettacolari, ma a piccoli particolari tuttavia
molto significativi e determinati per la comprensione degli accadimenti. Dunque, linee essenziali
per una scenografia essenziale, scelte per non disturbare le parole e le azioni che scorrono fluide
spostandosi ora in uno spazio ora nell’altro della scena, ma sempre senza trovare ostacoli.
I costumi sono tutti neri e dal taglio geometrico, adatti, come racconta il costumista
Maurizio Millenotti, “ad evocare solo lontanamente la grecità, piuttosto che citarla
esplicitamente”.3 Gli unici due personaggi a non indossare la veste nera sono Follia e Teseo.
3
Vd. libretto delle opere “XLIII Ciclo di Rappresentazioni Classiche” redatto dall’I.N.D.A. per il 2007, nella
sezione dedicata ai costumi dell’Eracle.
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Non a caso sono le due figure che provengono dall’“esterno”; Follia, in rilucente abito lungo
color argento, fa parte del mondo delle divinità e Teseo, vestito di bianco, rappresenta la
democratica e civilissima Atene, in contrapposizione a Tebe – luogo in cui si svolgono gli eventi
– città di grandi e nobili tradizioni, ma lontana da Atene e luogo di contaminazione e turpi
vicende. Inoltre, Teseo esprime quelle istanze di umanità e benevolenza, che fanno di lui un
personaggio positivo e luminoso, ben rappresentato da un rilucente colore bianco.
Le musiche composte da Antonio Di Pofi, come ho già detto, sono parte integrante della
tragedia e contribuiscono in maniera significativa ad amplificare le emozioni delle parole e delle
azioni.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che a
monte del grande successo ottenuto dall’Eracle, ci
sono mesi di lavoro in sinergia da parte delle
istituzioni territoriali e nazionali, coordinate
dall’INDA – Istituto Nazionale del Dramma
Antico, che con grande professionalità ed
esperienza ha saputo creare i presupposti affinché
traduzione, regia ed attori potessero esprimersi al
meglio.
Questa
sera,
l’emozione
e
il
coinvolgimento di un pubblico molto numeroso si sono percepiti in modo chiaro ed intenso. E’
stata una rappresentazione carica di pathos e la messa in scena, semplice ma efficace, ha saputo
trasmettere parole e pensieri antichi, ma sempre attuali, a testimoniare l’eterna ricerca dell’uomo
della propria identità, del suo rapporto con il divino e della sua lotta interiore contro i demoni
della propria anima.
E chi ha commentato questa rappresentazione definendola, quasi a volerla sminuire,
“nazional-popolare” … dovrebbe forse riflettere su questo fatto: nell’Atene del V secolo non era
forse proprio questa l’essenza del teatro?
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