Credito in Europa: un «segno di contraddizione

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Credito in Europa: un
«segno di contraddizione»
di Antonio Quaglio
Senior editor de
Il Sole 24 Ore
Bernardino da Feltre e Michele Carcano, i francescani che nel Quattrocento inventarono i Monti di Pietà, negli ultimi mesi avrebbero quasi certamente fatto la spola
fra Zuccotti Park e tutti gli altri campi del movimento Occupy, gli «indignados» per i
guai provocati da Wall Street, dalla City, da tutta la finanza globale.
Ai loro tempi i frati minori osservanti furono anche più militanti nella loro crociata
a favore del credito «pietoso» contro l’usura affaristica. Bernardino (personaggio
talmente spigoloso da aver perso, oggi, il titolo canonico di «beato», mantenuto per
quasi quattrocento anni) collezionò cacciate ed esili ovunque in Italia: nella Milano
di Lodovico il Moro, proto-industriale e autoritaria; in una Venezia tollerantissima
ma geneticamente «mercatista», ovviamente nella Firenze dei banchieri più cosmopoliti. Se fosse vissuto nel secolo successivo, non è affatto escluso che lo avremmo
trovato sotto le mura della Ginevra di Calvino.
Non lontano da quella Basilea che a cavallo del secolo ventunesimo è divenuta il
luogo simbolo di un’ideologia bancaria e di tutte le sue contraddizioni: l’assunto
(mai dimostrato, anzi) che in qualsiasi angolo del pianeta intermediare risparmio e
far credito debba rispondere alle stesse regole, quelle rigide dell’attività «profit
oriented» in concorrenza darwiniana sul mercato.
Per non parlare di un «a priori» implicito ben più simbolico e insidioso: che il riferimento a Basilea – nel cuore del continente europeo – certifichi che questo «modo
unico» di far banca costituisca una delle radici forti della cultura economica dell’Europa, o addirittura l’aggancio storico più saldo e originario (non è stato diverso
l’approccio di chi si è ostinato a escludere dalla Costituzione dell’Unione Europea la
tradizione cristiana).
L’UE si accinge ora a far propria la nuova architettura di regolazione finanziaria di
«Basilea 3», vent’anni dopo aver riformato i suoi modelli bancari di base. La Seconda Direttiva UE nel 1992 accoglieva come forma standard di istituzione creditizia l’impresa bancaria organizzata in forma di società di capitali orientata al
profitto e tendenzialmente quotata in Borsa. Il credito cooperativo (no-profit) era
mantenuto come sola eccezione in termini di «diversità finanziaria», anche se in
chiave chiaramente «alternativa» rispetto al nuovo paradigma unico.
L’Europa – proiettata verso l’unione monetaria – accoglieva gli standard della globalizzazione economico-finanziaria che accelerava nella sua espansione egemone,
ancorché vissuta come accettabile «fine della storia». Ma la banca «capitalista» –
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cardine di un’economia finanziarizzata, rovesciata nei rapporti gerarchici tra capitali monetari e imprese – era più figlia della Gran Bretagna che del continente.
Certo, dai Medici fiorentini ai «carrettieri del mare» olandesi o baltici, dai «lombards» di casa anche a Londra alla rete potente ed efficiente della finanza israelita,
il capitalismo finanziario è cresciuto con passo deciso anche al di qua della Manica: in osmosi con l’industria e il commercio delle città mercantili, trainando
l’uscita dalla staticità feudale.
Ma il parto laborioso della modernità economica ha fatto maturare una ineliminabile pluralità di strutture, culture e pratiche bancarie.
Luci e ombre del sistema creditizio
Non c’è differenza oggettiva tra il banking dei cavalieri templari – che finanziavano
anche le Crociate – e le successive «compagnie delle Indie» britanniche o olandesi
che investivano sulle scoperte geografiche.
Né c’è distanza tecnica astratta fra l’usura e il credito a pegno. Ma è diametralmente opposto – nel secondo caso – l’approccio di chi ha come interesse esclusivo
la massimizzazione del suo profitto finanziario a spese di chi è in situazione di debolezza rispetto alla gestione «sussidiaria» dei rischio finanziario da parte di istituzioni «collettive» o «cooperative»: più «civili» che «pubbliche», anche quando lo
Stato interviene (come nello sviluppo delle Casse di risparmio della casta area
«asburgica», fra il Settecento e l’Ottocento).
In parallelo: sono ben diverse la governance e la strategia di una compagnia finanziaria privata anglosassone da quelle di una Cassa di risparmio. Nel primo caso, alla
base, c’è l’interesse dell’individuo, temporaneamente associato ad altri interessi
singoli: l’obiettivo «hobbesiano» è – nei fatti – tutelare i singoli associati nei confronti di tutti gli altri, frenare e bilanciare gli animal spirits dell’economia di mercato.
La struttura tripartita della Compagnia olandese delle Indie orientali (1605) è considerata l’archetipo sia della moderna società per azioni, sia della futura democrazia parlamentare, prima che Montesquieu teorizzasse la divisione dei poteri
istituzionali: è necessario fissare i limiti della sovranità dei «proprietari, investitori,
finanziatori» (elettori ed eletti) ma stabilire anche le responsabilità dei «gestori»
(governanti) e, per questo, occorre introdurre in permanenza un «collegio sindacale» indipendente (magistrati) che dirima le questioni e controlli gli altri soggetti.
Diverso è l’orizzonte di un sistema creditizio in cui l’interesse di base è collettivo e
la struttura creata per gestirlo è radicata nei poteri pubblici e nella società economica: la Caixa di Barcellona è un esempio tuttora vivente di gruppo bancario di
fatto inalveato in una grande comunità come la Catalogna.
Non diversamente la Cassa di risparmio delle Province Lombarde nasce nel 1816 su
promozione di un gruppo di nobili del Lombardo-Veneto che raccolgono «fondi di
pubblica beneficienza» con un fine duplice: alleviare una congiuntura economica
particolarmente difficile e sostenere «il lavoro» della popolazione.
Nella struttura amministrativa della Cassa (che comincia a sviluppare il credito all’industria e alla casa come ente non profit) resta prevalente il fine di rafforzamento patrimoniale e di distribuzione di parte degli attivi annuali in iniziative di
pubblica utilità.
L’esperienza della Cariplo (e di altre Casse di risparmio italiane) è sopravvissuta
nell’ultimo ventennio nelle Fondazioni da cui le aziende bancarie sono state scorporate ma non del tutto. E la relativa miglior tenuta delle banche italiane durante
la recente crisi bancaria è certamente in parte attribuibile al ruolo di presidio da
parte di investitori stabili a moderna vocazione sussidiaria.
Non diversamente, giganti del credito cooperativo come il francese Credit Agricole
o l’olandese Rabobank sono capofila in Europa di un modello cooperativo nel quale
la «creazione di valore per il socio-cliente» continua a misurarsi con un modello di
attività bancaria con il pensiero unico della «creazione di valore per l’azionista».
La crisi economico-finanziaria e le sue ripercussioni, sempre più epocali anche in
termini politico-sociali, sembra essere lo scenario di una riaffermazione di uno dei
più importanti «segni di contraddizione» della cultura cristiana nel mondo.
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