Latino - le origini

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Latino - le origini
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Fra i documenti latini in cui sono norme rituali per sacrifici, parzialmente in grafia latina, vi sono
le sette tavole bronzee trovate a Gubbio, cioè le Tabule Iguvinae. Il dialetto osco usato da
Sanniti, Campani, Frentani, Lucani, era in uso anche quando si affermó l’uso del latino
adoperato nella fabula Atellana, farsa di origine campana, primo esempio di teatro indigeno.
Altre iscrizioni in dialetto osco e in alfabeto greco-calcidico sono state ritrovate in una tabula di
Agnone, in una lamina di piombo di Capua, nel cippo di Abella. La Fibula Praenestina, spilla
d’oro trovata in una tomba a Preneste, in caratteri greco arcaici con elementi osci, indica forse il
nome dell’artista e della persona alla quale era dedicata.
La piú antica iscrizione votiva in dialetto latino è stata ritrovata, a Roma, nell’anno 1880, nel
vaso detto di Dueno, risalente forse al VI sec a. Ch.
I canti religiosi rappresentano le prime forme poetiche dei Romani, volti a celebrare, con riti
adeguati al carattere agrario del popolo, la natura, per ovviare al male che incombe sulla terra
con preghiere, rivolte dal sacerdote arvale, alla potenza di divinitá agresti, nella festa della
primavera, in uso fino al terzo secolo dopo Cristo, dopo il ripristino voluto da Cesare Agusto nel
742, perché le zolle offrissero biade dalla terra ferace (arva). Si svolgeva la festa presso un
bosco sulla via Campana per tre giorni nel mese di maggio e il rito era celebrato dai dodici
sacerdoti arvali, che rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, nutrice di Romolo, che
aveva preso il posto di uno di essi morto precocemente.
La dea tutelare era Dia, epiteto dell’antichissima Cerere indigena, rappresentante la terra
feconda.
“Quod bonum, faustum, felix, fortunatum, salutareque sit populo Romano, Quiritibus,
fratibusque Arvalibus, mihique”. Sia buona, propizia, felice, fortunata, salutare per il popolo
romano, per i Quiriti, per i fratelli arvali, per me.
La cerimonia lunga, complessa, con i rituali sacrifici, si concludeva con il moto ritmico dei piedi
dei dodici sacerdoti e con la intonazioene del carme di oscura interpretazione, con cui
invocavano divinitá laziali e italiche, in linguaggio primitivo per ottenerne la protezione. Enos
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Lases iuvate...........triumpe, triumpe, triumpe, triumpe, triump.
Questo culto di carattere agreste non aveva nulla a che vedere con quelli di carattere mistico
proprio dei Greci, perchè indirizzato, nelle sacre formule, a liberare la terra e l’uomo dai morbi,
attraverso il sacrificio di tre vittime, l’agnella, il porco e il toro, condotte intorno alle messi
verdeggianti.
Molto noto era anche il Carmen saliare, cantato dai dodoci sacerdoti Sali danzanti, stabiliti a
Tusculum e a Tibur e ministri di Mars e di Hercules. Il loro numero corrispondeva a quello degli
ancilia, gli scudi sacri custoditi da loro, uno dei quali era caduto dal cielo, come emblema della
futura grandezza di Roma, mentre gli altri, perchè nessuno potesse impadronirsi di quello vero,
erano stati fabbricati da un mitico artista, poi divinizzato, Mamurius Veturius.
Virgilio fa comparire i Salii al tempo di Evandro, che accolse Enea e i Troiani ai piedi del
Palatino dove sorse piú tardi il Forum Boarum. I Salii con le tempie recinte di ramoscelli di
pioppo, mentre i vecchi cantavano le lodi di Ercole e i giovani ne seguivano l’azione con la
mimica della danza, sacrificavano a Marte e ad Ercole.
“Axamenta dicebantur carmina saliaria, quae a Saliis sacerdotibus componebantur, in universos
homines ( forse deos ) composita”.
Axamenta erano chiamati i carmi saliari che erano composti dai sacerdoti Salii e rivolti a tutti gli
dei.
Famose sono anche le formule di scongiuro, gli oracoli, le profezie, i proverbi, (che si
riscontrano ancora nelle consuetudini popolari e rusticane,) che una volta i vati di Fauno
recitavano, con i quali sembra che Fauno abbia rivelato i fati agli uomini. “quos olim Fauni
vatesque canebant, quibus Faunus fata cecinisse hominibus videtur”
Non mancavano certamente i canti di amore, le cantilene delle donne al telaio e degli uomini al
loro lavoro, che hanno sempre accompagnato le varie attivitá umane.
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Le nenie, i carmi conviviali e quelli trionfali erano molto importanti e da essi, forse, nella
celebrazione eroica delle imprese rimaste nella memoria, provenivano le radici di racconti
leggendari alla base dell’epopea nazionale. “Utinam exstarent illa carmina quae, multis saecliis
ante suam aetatem, in epulis esse cantitata a singulis convivis de clarorum vivorum laudibus, in
Originibus scriptum reliquit Cato!” fa dire Cicerone a Bruto
La “Nenia est carmen quod in funere laudandi gratia cantatur ad tibiam” La nenia é il carme che
veniva cantato con l’accompagnamento della tibia in lode dell’estinto.
Dapprima fu una parente ad esaltare il defunto, mentre poi fu una donna prezzolata, la praefica,
a farlo e perse il carattere della improvvisazione, per assumere quello di un eccesso di
sconfinata lode, che travisava la reale personalitá e la storia della vita connessa all’estinto.
Nell’Italia meridionale l’usanza delle lamentazioni funebri rimase viva a lungo..
Oggi , per l’evoluzione dei costumi di vita, in seguito al livellamento della cultura agevolata dai
mezzi di comunicazione di massa, tipo la televisione, i quotidiani e l’obbligo scolare, questo uso
é, per fortuna, venuto meno.
I carmi trionfali delle soldatesche accompagnavano, in genere, con lazzi il trionfo dei condottieri
ed erano colmi di beffe anche verso il vincitore, per esaltare, a volte, un tribuno caro al popolo,
erano la viva testimonianza della partecipazione della plebe alla vita pubblica. Alternando le lodi
ai vituperi, con lo scopo di moderare la gioia del trionfo, si volevano scongiurare le possibili
ritorsioni della sorte.
Questa licentia popolana si riscontrava anche nei cortei nuziali, dove la
maldicenza serviva da antidoto allo sposo contro i sinistri influssi del destino.
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I fescennini versus, di cui si servirono i Romani nell’epoca arcaica, in
saturnio sono la testimonianza di una autoctona forma poetica, che col tempo si dischiuse
all’epopea, alla lirica e alla rappresentazione scenica.
Attraverso il contatto con altre civiltá nella sua espansione politica e l’opera di grandi autori, i
Romani dettero alla lingua una forma stilistica perfetta nelle sue strutture sintatticha, forse unica
nel suo genere, e crearono opere di grande valore artistico, letterario e culturale.
Nella loro capacitá di assimilazione e di trasmissione di cultura ai popoli con i quali vennero a
contatto o per motivi commerciali o di conquiste territoriali, i Romani lasciarono tracce della loro
presenza in opere monumentali, quali strade, teatri, terme, opere giuridiche,
opere giuridiche, testimonianza del loro genio creativo e propulsivo di civiltá.
1.
1.
Appio Claudio
Di alcuni scrittori delle origini si tradurranno alcuni brani, iniziando da Appio Claudio, il piú
autorevole di quel periodo, del quale non restano che poche frasi e i giudizi di alcuni scrittori
posteriori che valsero a metterne in rilievo alcune particolari caratteristiche.
Si sa che Appio Claudio fu un grande oratore e dimostró la sua arte oratoria quando Pirro, re
dell’Epiro, mandó Cinea a trattare la pace con i Romani, nel 280 a.Ch.. Egli, vecchio e cieco,
riuscí con una sua orazione a persuadere il consesso dei senatori a respingere le proposte di
pace e di alleanza fatte da Pirro.
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Cicerone parla di quell’orazione, nel De Senectute 6,16 con questi termini, riferendone una
frase riportata da Ennio nella sua opera epica:
“Ad Appi Claudi senectutem accedebat vitam ut caecus esset: tamen is cum sententia senatus
inclinaret ad pacem cum Pyrrho foedusque faciendum, non dubitavit dicere illa, quae versibus
persecutus est Ennius:
Quo vobis mentes. recte quae stare solebant
Antehac, dementes sese flexere viai”
La traduzione é questa: “Alla vecchiaia di Appio Claudio, si aggiungeva la cecitá: tuttavia egli,
inclinando il senato alla pace con Pirro e a stringere un patto di alleanza, non esitó a dire ció
che riferí in versi Ennio: “ le vostre menti che prima solevano ragionare rettamente, come hanno
potuto, da dementi, mutare via!”( stravolgere il loro modo di pensare!)
Avendo contribuito alla vittoria sui Sanniti, Sabini ed Etruschi, la nuova strada romana, da lui
voluta, fu dal suo nome chiamata Appia, e serví a collegare la capitale con le terre del Sud;
mentre altre vie consolari in seguito sorsero per unire alla città altri territori conquistati, per cui
valido si diffuse il famoso detto: ”Tutte le vie conducono a Roma!”
Fu inoltre un riformatore in materia ortografica e fonetica e a lui si deve, fra l’altro, l’eliminazione
della lettera Z. Inoltre egli sentí, la necessitá del procedimento legale nei rapporti giuridici, e,
tramanda Cicerone, conobbe la dottrina pitagorica e lasció tracce di poesia gnomica.
Di lui sono rimaste tre sentenze, la piú nota delle quali è quella che celebra il libero potere
dell’uomo, artefice della propria fortuna:
“Est unus quisque faber ipse suae fortunae” Ciascuno è artefice della propria sorte.
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Per concludere, ebbe una personalitá notevole, che lasció tracce che restano a documentare la
sua variegata mobilitá di intelletto, volto a trattare vari, disparati argomenti, atti a rendere piú
agevole la vita di tutti i giorni.
(c) Pierluigi Adami - testo con licenza " Creative Commons - non commerciale "
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