N. 142 - Novembre 2016 - Nuova Informazione Cardiologica

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 FORUM di BIOETICA - NEWSLETTER N. 142 N O V E M B R E – 2 0 1 6 Il forum di bioetica vuole suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e aprire
il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna
INDICE: P r in c ip i e D ile m m i d i b io e t ic a
S e v i e n e m e n o l a S p e r a n z a s i c h i u d e l a p o r t a d e l c i e l o d i P a o l o R o s s i E v a e P a n d o r a G l i u o m i n i n o n p o s s o n o r i n u n c i a r e a l l a s p e r a n z a I p e s s i m i s t i s o n o s e n z a s p e r a n z a : I l p e s s i m i s m o e s i s t e n z i a l e ; I l p e s s i m i s m o f i l o s o f i c o ( E g e s i a d i C i r e n e ; A r t h u r S c h o p e n h a u e r ; G i a c o m o L e o p a r d i ; F r i e d r i c h N i e t z s c h e ; J e a n -­‐ P a u l S a r t r e ) D i s p e r a z i o n e : G i u d a I s c a r i o t a e P i e t r o . I l s a c r a m e n t o d e l l a r i c o n c i l i a z i o n e . I l d r a m m a d e l l a s p e r a n z a : L a n a s c i t a d e l l a s p e r a n z a ; d e f i n i z i o n e d e l l a s p e r a n z a ; l ’ a t t a c c o c o n t r o l a s p e r a n z a ; l a r e s t a u r a z i o n e d e l l a s p e r a n z a ; n o n c ’ è s a l v e z z a c h e n o n p a s s i p e r l a C h i e s a L ’ a m o r e d i D i o è i n s i e m e g i u s t i z i a e m i s e r i c o r d i a R e s t a u r a r e l a s p e r a n z a C e r c a r e D i o n e l s i l e n z i o 1
Principi e Dilemmi di Bioetica Se viene meno la Speranza si chiude la porta del cielo di Paolo Rossi “Cerca l'unione con Dio e riempiti di speranza -­‐ virtù sicura! -­‐, perché Gesù ti illuminerà, anche nella notte più oscura, con le luci della sua misericordia.” Forgia 293. san Josemarìa Escrivà (1902-­‐1975.) Eva e Pandora Per i Greci la speranza era originariamente un male; nella loro cultura era troppo vicina
all’illusione, a cui seguiva inevitabilmente la delusione, che rende ancora più tragica la
realtà; dunque, meglio non sperare.
Nella narrazione della Genesi e nella mitologia greca le prime due donne, Eva1 e Pandora 2,
furono create dalle divinità (Dio e Zeus) per gli uomini. Anche se le motivazioni furono
differenti. Infatti la prima fu plasmata dalla costola di Adamo per “fargli compagnia” ed
essere sua moglie. La seconda, invece, per punire gli uomini troppo audaci. Entrambe,
però, sono state accusate - ingiustamente - di essere la causa dei mali umani.
Zeus, infuriato per il furto del fuoco 3 divino commesso da Prometeo 4 (eroe dalla natura
divina), decise di punire questi e la sua amata creazione: il genere umano. Prometeo
venne incatenato ad una roccia ed ogni giorno un'aquila gli divorava il fegato: l'organo
ricresceva durante la notte e così, la mattina successiva, il tormento riprendeva. Per
punire gli uomini 5, Zeus ordinò ad Efesto di creare una bellissima fanciulla, Pandora, alla
quale gli dei offrirono grazia e ogni sorta di virtù. Ermes, che aveva dotato la giovane di
astuzia e curiosità, venne incaricato di condurre Pandora dal fratello di Prometeo (nel
frattempo già liberato da Ercole), Epimeteo. Questi, nonostante l'avvertimento del fratello
di non accettare doni dagli dei, sposò Pandora, da cui ebbe Pirra. Ella recava con sé un
vaso6 regalatole da Zeus, che però le aveva ordinato di lasciare sempre chiuso. Ma, spinta
1
Eva è il nome che Adamo, primo uomo secondo la Genesi 3,20, ha dato alla sua compagna dopo che l'aveva chiamata
"donna". La Bibbia dà di questi due nomi un'etimologia popolare. Eva viene fatto derivare da "vivente" o "che suscita la vita"
(Madre dell'umanità). Il nome "donna" ('ishshah) viene considerato come forma femminile di ish (= maschio). L'intendere
donna come "maschi-a" indica una relazione essenziale: sia per origine che per finalità, la donna costituisce una unità con
l'uomo. A ciò allude anche il racconto di Genesi 2,18-22, secondo cui la donna è tratta dal fianco del primo uomo.
2
Pandora (" beneficiaria di tutti i doni") è la prima donna creata, per ordine di Zeus, per punire l'umanità.
3
Il Fuoco simboleggia la conoscenza, perché è attraverso il fuoco (calore) che l’uomo modifica le proprietà della materia e le
plasma a sua piacimento. Il fuoco nell’oscurità illumina la via da seguire, come la conoscenza. Il fuoco è l’energia maschile
che mette in moto la volontà del genere umano.
4
Prometeo è l’eroe che possiede il coraggio e la possibilità di sfidare gli dei, ha compassione per gli uomini perché cosciente
che non hanno il coraggio e l’intelligenza per sfidare gli dei. Abile stratega, inganna Zeus col fine di ridicolizzare il suo
continuo volere sacrifici umani per cospargere con il fumo la propria abitazione. Sembra che determinate parti del corpo di
animali o umane bruciate, emanassero un odore tale da placare gli istinti degli dei, intorpidendoli e rilassandoli, lo stesso
effetto che fanno le terme ad un uomo.
5
Scoperto l’inganno Zeus toglie il fuoco agli uomini, riducendoli a degli ominidi, impietosito Prometeo ruba una scintilla del
“Fuoco Divino” di Zeus e la dona all’umanità. Zeus abile manipolatore è il capo degli dei, il quale ha diritto di vita o di morte
sull’umanità, della quale però se ne serve per avere una vita prospera e agevolata.
6
Il Vaso simboleggia una parte occulta perché chiusa, Pandora è curiosa di aprire il vaso perché in qualche modo vuole
conoscere il suo contenuto, ma, come spesso accade quando si scoprono i lati occulti, l’uomo ne riamane all’inizio vittima
perdendo la sua innocenza
2
dalla curiosità, Pandora disobbedì: 7 aprì il vaso e da esso uscirono degli spiriti maligni che
erano i mali del mondo: la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia ed il vizio, che si
abbatterono sull'umanità.
Sul fondo del vaso rimase solo la speranza che non fece in tempo ad allontanarsi prima
che il vaso venisse chiuso di nuovo. Prima di questo momento l'umanità aveva vissuto
libera da mali, fatiche o preoccupazioni di sorta, e gli uomini erano, così come gli dei,
immortali. Dopo l'apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale,
simile ad un deserto, finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche la speranza,
l'ultima a morire, ed il mondo riprese a vivere.
Eva offre la mela ad Adamo Nel III capitolo della Genesi, Dio, rendendosi conto che gli animali che aveva affiancato ad
Adamo non erano sufficienti, prende un pezzo della sua costola e forgia Eva, la prima
donna. La nuova compagna di Adamo, tentata dal serpente, trova l’albero del melo, che
era stato loro vietato, «gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza». Ne
prende un frutto e lo mangia. Poi lo offre anche al marito «e anch’egli ne mangia».
Accortosi dell’accaduto Dio interroga i due disobbedienti. La donna cerca di discolparsi
sostenendo di essere stata ingannata dal serpente. Il Signore rivolgendosi a Eva le dice:
«[...], con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».
Adamo accetta di buon grado Durante la conversazione tra il serpente ed Eva, Adamo è accanto alla compagna e non
proferisce parola. Poi, però, quando è interrogato da Dio, il cui rimprovero gli fa
comprendere l’errore, non perde tempo e accusa la donna della sua trasgressione. Ma, Eva
non ha certo costretto Adamo a mangiare la mela, lei gliel'ha offerta e lui ha accettato il
dono senza troppo preoccuparsi. Si è difeso incolpando la sua “costola”, invece di
prendersi le responsabilità delle proprie azioni! E così, da quel momento la donna è stata
sempre, nel corso dei secoli, tacciata di essere “sede” del diavolo e delle tentazioni.
Pertanto Pandora ed Eva, nelle quali si possono identificare le donne di ogni tempo, sono
considerate “tentatrici e causa di tutti i mali”, sebbene la loro colpa sia soltanto relativa.
Gli uomini non possono rinunciare alla speranza Eppure, a prescindere da miti e religione, mai gli uomini hanno rinunciato a sperare.
Perché? Sperare è una forma di ragionevolezza o di sentimentalismo? Non è un dubbio
astratto, ma una questione sostanziale, in un momento in cui le correnti di disfattismo e
addirittura il catastrofismo - con le sue visioni di imminente autodistruzione dell’umanità fanno serpeggiare molte paure e atteggiamenti regressivi. In realtà il nostro pensiero è
fatto di speranza, perché noi valutiamo il nostro futuro ogni minuto, anche soltanto per il
minuto successivo, e desideriamo che sia un futuro positivo. Dunque la speranza ha una
base logica che ci proietta nel futuro. Il termine speranza, in latino “spes”, deriva infatti
dalla parola greca “elpìs” che significa originariamente “desiderio”. Ora, poiché nessuno
desidera il male per sé, la speranza sin dai tempi antichi significa tendere verso il bene.
Quindi possiamo dire che sperare è quasi una necessità biologica per l’individuo, vicina
all’imperativo della sopravvivenza, e la società ha il dovere di tutelarla.
I pessimisti sono senza speranza Lo affermavano già le apocalissi giudaiche precristiane. 8 Il pessimismo è in senso generico
un atteggiamento sentimentale che tende a sottolineare gli aspetti negativi di
7
Epimeteo. Figlio, come Prometeo, del titano Giapeto, rappresenta il tipo contrario del fratello: preveggente per eccellenza
questi, poco accorto quegli. Dopo che Prometeo ha ingannato gli Dei e ha pure compiuto il furto del fuoco, egli avverte il
fratello Epimeteo di non ricevere nessun dono da Giove. Tuttavia Epimeteo riceve la seducente Pandora che Giove gli manda
per mezzo di Ermete, e porta così sventura tra i mortali, sia in quanto - secondo la concezione della Teogonia esiodea - ogni
male proviene dalla donna, sia in quanto - come racconta l'altra opera esiodea, Le Opere e i Giorni - Pandora apre il vaso
che contiene tutti i mali
8
Apocalissi (o disvelamento) nelle religioni. Molte religioni trattano il tema dell'allontanamento dell'uomo dalla sua originaria
comunione con l'Assoluto, il Divino. Le culture orientali e quelle indoeuropee precristiane (Indù, Greci, Romani)
rappresentano il tempo ciclicamente, secondo una scansione in quattro cicli che la tradizione classica greco-romana chiama
età dell'oro, dell'argento, del bronzo e del ferro. L'uomo, al termine di ognuna delle quattro fasi, si allontana
progressivamente dalla virtù e dal bene. Nelle religioni fondate sul monoteismo (Ebraismo, Cristianesimo, Islam) il punto di
partenza è la caduta di Adamo in seguito alla quale l'uomo realizzerà sulla Terra un Regno delle Tenebre. Tuttavia,
nell'escatologia e soteriologia delle religioni, a questa caduta seguirà l'intervento divino, l'arrivo di un Redentore.
3
un'esperienza della realtà caratterizzata dall'infelicità e dal dolore. Il pessimismo ci
circonda. Basta guardarsi attorno per rendersi conto che i pessimisti sono dappertutto. Si
può essere afflitti da pessimismo in maniera continua o solo periodicamente. Svariati studi
hanno messo in luce come i pessimisti si arrendano più facilmente di fronte alle difficoltà,
abbiano meno successo nel lavoro, cadano più spesso in depressione e si ammalino più
facilmente. 9Al contrario si è visto come persone ottimiste rendano meglio nello studio, nel
lavoro e nello sport. Inoltre sembra che gli ottimisti siano più abili nei test attitudinali e
tendano ad essere scelti più spesso dei pessimisti quando concorrono a cariche politiche o
dirigenziali. Infine si è rilevato come le persone ottimiste godano di uno stato di salute
eccezionalmente buono: infatti sembra che il loro sistema immunitario sia più efficiente
per cui si ammalano di meno, invecchiano meglio, in quanto risentono meno dei consueti
malanni fisici della mezza età, e quindi vivono più a lungo.
Possiamo riconoscere due forme principali di pessimismo: 1) che coinvolge l’intera
esistenza di una persona, si tratta di un pessimismo esistenziale; 2) che riguarda il modo di
pensare, si tratta di un pessimismo intellettuale o filosofico. Il pessimismo esistenziale riguarda chiunque, semplice o acculturato, che vive l’infelicità e il
dolore ma perde ogni speranza di poter cambiare o contrastare la propria esperienza di
vita. Chi è senza speranza è lontano da Dio, cerca di sostituirlo con gli idoli del mondo, ma
senza successo.
Il pessimismo filosofico Parlare di pessimismo in filosofia è in un certo senso un’impresa. Da un lato, perché il
tema è uno dei più ampi che si possano trovare, declinato in mille forme e nei confronti di
mille argomenti. Dall’altro, perché nel corso degli ultimi due o tre secoli questa particolare
disposizione d’animo ha incontrato crescenti favori e decine di sostenitori.
Il più grande dei pessimisti antichi fu però Egesia di Cirene, vissuto nel IV secolo a.C. Infatti
lui era convinto, come i suoi maestri, che il fine della vita umana fosse il piacere, ma era
altresì sicuro che questo piacere non fosse raggiungibile. «La morte ci divide dai mali, non
dai beni, se badiamo al vero», affermava, enunciando una dottrina che portò al suicidio
molti dei suoi discepoli
Arthur Schopenhauer. Il dolore come condizione permanente dell’esistenza; è il più famoso
filosofo pessimista. Non è un caso che nel suo pensiero si siano trovati i segni di quello che
i critici hanno definito un “pessimismo cosmico”, che non investe cioè solo l’uomo o gli
esseri viventi ma ogni cosa che esiste. Da questo dolore permanente, che veniva solo
sporadicamente interrotto da brevi attimi di piacere (che però non facevano altro che
permettere al dolore di tornare a tormentarci), non c’era via d’uscita. L’amore, a cui
spesso affidiamo le nostre speranze, era per Schopenhauer pura illusione. Anche il suicidio
su cui tanto aveva insistito Egesia non faceva altro che riaffermare la Volontà invece di
sconfiggerla. L’unica scappatoia, l’unico modo per uscire da questa spirale di tormento era
l’ascesi, che si poteva raggiungere tramite l’annullamento della Volontà e il passaggio alla
noluntas, da perseguire rinunciando ai desideri tradizionali e cominciando a desiderare le
cose spiacevoli.
Così per Giacomo Leopardi con il pessimismo globale, l'esperimento cosmico è destinato a
fallire, uomo o non uomo: «Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà
spenta. E nel modo che grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che
furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimenti del mondo
intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure vestigia; ma
un silenzio nudo e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo
arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né
inteso, si dileguerà e perderassi.» 10
Friedrich Nietzsche è stato uno dei primi filosofi a portare avanti una lunga disamina del
pessimismo nella storia della filosofia. Per lui la realtà caotica e insensata della vita non è
neppure in discussione: è un dato di fatto, a cui l’uomo nel corso dei secoli ha tentato di
9
Guido Calogero, Enciclopedia Treccani, 1936
G. Leopardi Cantico del gallo silvestre, in Operette morali, 1824
10
4
rispondere in diversi modi. Da queste premesse, Nietzsche sviluppò il proprio pensiero. Un
pensiero in cui non c’è spazio per Dio né per alcuna illusione metafisica, che noi stessi
abbiamo ucciso. Un pensiero che sfocia nel nichilismo, nella negazione cioè di tutti i valori
e di tutti i sistemi che sono emersi nella storia per dare significato all’esistenza. Ma il
nichilismo di Nietzsche, come ribadiva lo stesso pensatore, non è un nichilismo passivo,
bensì attivo. Dalle macerie l’uomo deve ricostruire, dando egli stesso un senso alla realtà.
Per fare questo e quindi per superare il pessimismo dovrà però trasformarsi in Oltre-uomo,
in un essere cioè che vive in una prospettiva nuova, un uomo che è padrone finalmente di
se stesso e del proprio destino. 11
Jean-­‐Paul Sartre. Dal pessimismo al marxismo. Sartre ha avuto sulla storia del Novecento
una influenza profonda. Il padre dell’esistenzialismo francese fu filosofo “di grido” per
molti decenni e i suoi scritti – da “La nausea” a “L’essere e il nulla” – sono stati letti per
molto tempo. 12 Proprio La nausea segna anzi la fase più pessimista della filosofia di
Sartre, in cui l’uomo – davanti alla morte di Dio – scopre il vuoto della sua esistenza, il
nichilismo interiore e l’impossibilità di trovare un appiglio neppure negli altri, che
rappresentano anzi, con una celebre espressione, “l’inferno”. Nel dopoguerra, con
l’adesione al marxismo la filosofia di Sartre muterà di tono, abbandonando gli accenti più
cupi e pessimisti ed abbracciando una morale attiva, in cui la libertà non è più vissuta
come una condanna angosciante, ma come un’occasione per dare un senso all’esistenza.
Una fase in cui lo scopo di tutta la ricerca del filosofo sarà quello di riuscire a conciliare
proprio il suo umanismo fondato sulla libertà con il materialismo storico e infine leader
della fazione maoista, in Francia come altrove. Disperazione «Tutto è bene uscendo dalle mani dell'autore delle cose e tutto degenera tra le della fazione dell'uomo.» è l’incipit di “Emile” . La disperazione è lo stato d’animo di chi non ha più
alcuna speranza ed è perciò oppresso da inconsolabile sconforto e da grave abbattimento
morale. 13 Un sentimento, (opposto alla speranza), che nasce dalla convinzione di non
potersi salvare, ritenendo impossibile il perdono dei propri peccati. Due apostoli di Gesù li
rappresentano con esiti opposti: Giuda Iscariota e Pietro.
Il vangelo descrive la fine orrenda di Giuda: “«Giuda, che l'aveva tradito, vedendo che
Gesù era stato condannato, si pentì, e riportò i trenta sicli d'argento ai capi dei sacerdoti e
agli anziani, dicendo: Ho peccato, consegnandovi sangue innocente. Ma essi dissero: Che
c'importa? Pensaci tu. Ed egli, buttati i sicli nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi»
(Mt 27, 3-5).
Ma non diamo un giudizio affrettato. Gesù non ha mai abbandonato Giuda e nessuno sa
dove egli è caduto nel momento in cui si è lanciato dall’albero con la corda al collo: se
nelle mani di Satana o in quelle di Dio. Chi può dire cosa è passato nella sua anima in
quegli ultimi istanti? “Amico”, era stata l’ultima parola rivoltagli da Gesù nell’orto ed egli
non poteva averla dimenticata, come non poteva aver dimenticato il suo sguardo.
È vero che, parlando al Padre dei suoi discepoli, Gesù aveva detto di Giuda: «Nessuno di
loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione» (Gv 17, 12), ma qui, come in tanti altri
casi, egli parla nella prospettiva del tempo non dell’eternità. Anche l’altra parola tremenda
detta di Giuda: «Meglio sarebbe per quell’uomo se non fosse mai nato» (Mc 14, 21) si spiega
11
Friedrich W. Nietzsche. Sul pathos della verità, 1870-1873, incipit di Verità e menzogna in senso extramorale, Opere, v.
III, t. II, p. 216.
12
Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre (Parigi, 1905 – 1980) è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo, critico letterario e
attivista francese, considerato uno dei più importanti rappresentanti dell'esistenzialismo, che in lui prende la forma di un
umanismo ateo in cui ogni individuo è radicalmente libero e responsabile delle sue scelte, ma in una prospettiva
soggettivista e relativista. In seguito Sartre diverrà un sostenitore dell'ideologia marxista e del conseguente materialismo
storico. Sartre morì nel 1980 al culmine del suo successo di intellettuale "impegnato", quando ormai era diventato icona
della gioventù ribelle e anticonformista del dopoguerra, in modo particolare della frazione maoista, di cui era diventato
leader insieme a Pierre Victor (pseudonimo di Benny Lévy), passando dalla militanza nel Partito Comunista Francese ad una
posizione di indipendenza di tipo anarco-comunista. Si stima che al suo funerale presenziarono cinquantamila persone.
13
l’Emilio, lungo romanzo-saggio dedicato all’educazione, di Jean-Jacques Rousseau; Ginevra, 1712 – Ermenonville, 1778);
è stato un filosofo, scrittore e musicista ginevrino; è uno dei massimi esponenti del pensiero europeo e considerato sia come
ispiratore della Rivoluzione francese, sia come teorico del ritorno ad una innocenza primitiva. Senza dubbio il fondatore della
pedagogia moderna e per certi versi precursore del romanticismo, teorizza la voce del cuore, del sentimento come guida che
porta sempre al bene senza possibilità di errore.
5
con l’enormità del fatto, senza bisogno di pensare a un fallimento eterno. Il destino eterno
della creatura è un segreto inviolabile di Dio. La Chiesa ci assicura che un uomo o una
donna proclamati santi sono nella beatitudine eterna; ma di nessuno essa stessa sa che è
certamente all’inferno.
La cosa più grande nella vicenda di Giuda non è il suo tradimento, ma la risposta che Gesù
da ad esso. Egli sapeva bene cosa stava maturando nel cuore del suo discepolo; ma non lo
espone, vuole dargli la possibilità fino all’ultimo di tornare indietro, quasi lo protegge. Sa
perché è venuto, ma non rifiuta, nell’orto degli ulivi, il “suo bacio di gelo” e anzi lo chiama
amico (Mt 26, 50).
Come cercò il volto di Pietro dopo il rinnegamento per dargli il suo perdono, chissà come
avrà cercato anche quello di Giuda in qualche svolta della sua via crucis! Quando dalla
croce prega: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34), non esclude
certamente da essi Giuda.
Che faremo dunque noi? Chi seguiremo, Giuda o Pietro? Pietro ebbe rimorso di quello che
aveva fatto, ma anche Giuda ebbe rimorso, tanto che gridò: «Ho tradito sangue
innocente!» e restituì i trenta denari. Dov’è allora la differenza? In una cosa sola: Pietro
ebbe fiducia nella misericordia di Cristo, Giuda no! Il più grande peccato di Giuda non fu
aver tradito Gesù, ma non aver creduto alla sua misericordia 14.
Se lo abbiamo imitato, chi più chi meno, nel tradimento, non lo imitiamo in questa sua
mancanza di fiducia nel perdono. Esiste un sacramento nel quale è possibile fare una
esperienza sicura della misericordia di Cristo: il sacramento della riconciliazione. Quanto è bello
questo sacramento! È dolce sperimentare Gesù come maestro, come Signore, ma ancora
più dolce sperimentarlo come Redentore: come colui che ti tira fuori dal baratro, come
Pietro dal mare, che ti tocca, come fece con il lebbroso, e ti dice: «Lo voglio, sii guarito!»
(Mt 8,3).
Il dramma della speranza “Il principio speranza”, è la più nota opera filosofica del secolo XX pubblicata in tre volumi
tra il 1954 e il 1959 dal filosofo marxista Ernst Bloch (1885-1977). In questo testo Bloch –
ebreo di nascita e di cultura – riconosce che la nozione filosofica e teologica di speranza
nasce propriamente con la Bibbia.
Ma afferma che la speranza ebraica e cristiana rimane inguaribilmente soggettiva,
individualistica, privata: quando cerca di cambiare la società e di instaurare la giustizia
diventa mito o favola, tanto che può essere paragonata alla ricerca delle città perdute,
dell’Eldorado o della fonte dell’eterna giovinezza. La mancanza della speranza appare la
cosa più insostenibile, la più insopportabile per i bisogni umani. «Stolta tristezza degli
animali, creature senza prospettive, abbandonate ad una istantaneità senza luce, solo gli
uomini tentano di protendersi verso il futuro, irrequieti, di trascendersi.»
Il principio speranza è in gran parte una specie di fenomenologia che descrive le diverse
forme ed esperienze “della coscienza anticipante”, come Bloch chiama la coscienza
dell’uomo in quanto, mossa dal desiderio e dalla illusione in una speranza reale: e non
tanto il marxismo di Karl Marx (1818-1883), che rimane ancora teoria, ma il comunismo
pratico di Vladimir Il’ič Ul’janov “Lenin” (1870-1924). Per Bloch finalmente “è in vista una
fine del tunnel che non proviene dalla Palestina ma da Mosca: ubi Lenin, ibi Jerusalem”,
“dove è Lenin, lì è la Gerusalemme Celeste” . Naturalmente oggi sappiamo che nella Mosca
comunista non c’era nessuna Gerusalemme Celeste, bensì la ferocia della dittatura di
Stalin con suoi milioni e milioni di morti. E tuttavia Il principio speranza ha avuto un ruolo fondamentale nella teologia cattolica
postconciliare, dove molti hanno tentato di ritrasformare in cristiana la speranza della
Bibbia che Bloch aveva trasformato in comunista, certo ottenendo risultati diversi dal
punto di partenza, cioè dall’originaria speranza cristiana, nel quadro di quella ubriacatura
marxista della teologia cattolica, anzitutto (ma non solo) tedesca, con cui Benedetto XVI
14
Ma, dal Vangelo sappiamo che Giuda fuggì, per poi togliersi la vita. Prima di suicidarsi, Giuda fu disperato, perché Satana
lo portò, ormai, a disperare del perdono di Cristo. Inoltre Satana lo fece convinto che, reietto da tutti, non avrebbe trovato
pace in alcun luogo.
6
ha dovuto fare i conti quando insegnava in Germania, come racconta nella sua
autobiografia 15.
La nascita della speranza La speranza in statu nascenti inizia a partire da un’affermazione, che oggi suona
certamente scandalosa, di san Paolo († 67 d.C.) il quale, scrivendo agli Efesini, ricorda loro
che prima dell’incontro con Gesù Cristo i pagani erano “senza speranza e senza Dio nel
mondo” (Ef 2, 12).
«Tuttavia fin dall'inizio c'erano anche conversioni nei ceti aristocratici e colti. Poiché
proprio anche loro vivevano « senza speranza e senza Dio nel mondo ». Il mito aveva
perso la sua credibilità; la religione di Stato romana si era sclerotizzata in semplice
cerimoniale, che veniva eseguito scrupolosamente, ma ridotto ormai appunto solo ad una
«religione politica».
Il razionalismo filosofico aveva confinato gli dei nel campo dell'irreale. Il Divino veniva
visto in vari modi nelle forze cosmiche, ma un Dio che si potesse pregare non esisteva. Paolo illustra
la problematica essenziale della religione di allora in modo assolutamente appropriato,
quando contrappone alla vita «secondo Cristo» una vita sotto la signoria degli « elementi
del cosmo » (Col 2,8). 16 Ma nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il
nuovo re Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l'orbita
determinata da Cristo. 17
Viene così capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è
nuovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia
che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè
l'universo; non le leggi della materia e dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione,
volontà, amore – una Persona -. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora
veramente l'inesorabile potere degli elementi materiali non è più l'ultima istanza; allora
non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi. La vita non è un
semplice prodotto delle leggi e della materia governata dal caso, ma in tutto e
contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in
Gesù si è rivelato come Amore 18.
La definizione della speranza Fede e speranza sono strettamente collegate. La fede per san Paolo è “hypostasis delle
cose che si sperano, elenchos delle cose che non si vedono” (Eb 11,1): e chi sbaglia
traduzione finisce per sbagliare teologia. Hypostasis va tradotto come “sostanza”: e quello
di sostanza è un concetto fondamentale di tutta la filosofia greca e medioevale.
La sostanza è quanto vi è di più importante in ogni realtà. È la sostanza che fa del foglio
che stiamo leggendo un foglio, e fa sì che un foglio sia diverso da una nave, da un gatto o
da un pensiero – ma, nello stesso tempo, abbia qualche cosa di essenziale in comune con
ogni altro foglio, anche lontanissimo nel tempo e nello spazio, rispetto al quale non
cambierà la sostanza, ma muteranno quelli che la filosofia classica chiama accidenti.
La sostanza delle cose che si sperano è dunque qualche cosa di molto concreto. Non uno stato
d’animo, un desiderio, una passione, un’emozione: ma una cosa. La speranza (e così si
comincia anche a rispondere a Bloch) non è un’illusione: certo, si riferisce in buona parte
al futuro ma una parte di questo futuro è già dentro di noi, non come fantasia ma come
realtà. Veramente dentro di noi c’è «già ora qualcosa della realtà attesa» (Spe Salvi n. 7), e
solo la parola “sostanza” ci permette di dare all’espressione “qualcosa” tutta la sua realtà,
sottraendola definitivamente al regno del vago, dell’indefinito e dell’illusorio.
Non solo: la fede – che qui si fa anche e nello stesso tempo speranza – è “elenchos delle
cose che non si vedono”. Elenchos deve essere tradotto con “prova”: la prova che sostiene
un’affermazione vera e la distingue da una falsa, ma anche la prova cui sta appeso il
discorso giuridico, dell’avvocato e del giudice, che fa la differenza fra la ragione e il torto,
15
16
17
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Joseph Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005.
Benedetto XVI Enciclica Spe Salvi sulla speranza cristiana, 2007 punto 5
san Gregorio Nazianzeno. Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429.
Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1817-1821.
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fra la colpevolezza e l’innocenza. Dunque, ancora, quanto di più concreto e di meno vago e
sentimentale possibile. Le “cose che non si vedono” non sono sostenute da semplici
aspirazioni soggettive, ma da prove.
Definire questo “qualcosa” che è dentro di noi come un germe della “vita eterna” non è
soddisfacente. Perché “vita eterna”, a pensarci bene, è espressione in sé contraddittoria.
La vita non è eterna: ha un inizio e una fine; quindi, l’eternità è a rigore cosa diversa dalla
vita. Si rischia allora di comprendere la “vita eterna” come una semplice durata indefinita
e ripetitiva. In questo senso, la prospettiva può apparire come non particolarmente
entusiasmante: «vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere
solo noioso e alla fine insopportabile. Oggi, anzi, “continuare a vivere in eterno – senza
fine – appare più una condanna che un dono». (Spe salvi n. 10)
Queste parole catturano l’essenza di uno dei grandi archetipi della letteratura moderna, il
mito del vampiro. Dracula, il personaggio creato dal romanziere irlandese Abraham “Bram”
Stoker (1847-1912), non è affatto contento del suo “vivere senza fine” e, nel profondo del suo
essere, aspira alla fine della sua esistenza di vampiro come a una liberazione 19. Ma,
appunto, la vita “senza fine” del vampiro non ha niente a che fare con la misteriosa e
sublime realtà cui allude il cristianesimo quando parla di “vita eterna”. Sant’Agostino (354430) mostra come quella che chiamiamo “vita eterna” è propriamente la “vita vera” (SPE salvi
n. 11).
Tutti in qualche modo percepiamo – anche se non tutti ne attribuiamo, correttamente, la
causa al peccato originale – che questa vita, quella di tutti i giorni in cui si mangia, si
beve, si dorme, si fa e si subisce violenza e si pecca non è la vita vera: «ciò che nella
quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è» (n. 11). Ma ogni tanto brilla nella nostra
consapevolezza – fosse pure per un breve momento – un’altra vita, più reale della vita
“reale”. “Ci sono dei momenti in cui percepiamo all'improvviso: sì, sarebbe propriamente
questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere” (Spe salvi n. 11).
Di questa “vita vera” la speranza non è semplice aspirazione, ma anticipazione:
“substantia” che dentro di noi già vive, anche se solo in certi rari momenti ne percepiamo
la presenza e lo splendore.
L’attacco contro la speranza
La speranza, nata con Cristo e precisata nei suoi termini concettuali attraverso un saldo
ancoraggio tanto alla fede quanto alla ragione, è stata attaccata nella storia moderna
dell’Europa e dell’Occidente, attraverso i passaggi della Riforma protestante,
dell’Illuminismo e del comunismo. Lutero, al quale «la Lettera agli Ebrei non era in se
stessa molto simpatica» (Spe salvi n. 7) e – dopo la radicale “de-ellenizzazione” e la
svalutazione della ragione e del fondamento filosofico greco – “il concetto di «sostanza»
non diceva niente”, compie il primo, ma decisivo, passo traducendo hypostasis non con
“sostanza” ma con Feststehen, “stare saldi”, ed elenchos non con “prova” ma con
Überzeugtsein, “essere convinti” (Spe salvi n. 7).
Notiamo subito che da sostantivi siamo passati a verbi, da “cose” ad atteggiamenti della
persona, che “sta salda” – qualche cosa che evoca immediatamente, se non un pugno sul
tavolo, una forma di volontarismo, ed “è convinta”, che è evidentemente cosa diversa
dall’avere delle “prove”.
Le prove sono oggettive, le convinzioni soggettive: dopo tutto, ci sono anche convinzioni
sbagliate. Invece in san Paolo “il termine greco usato (elenchos) non ha il valore
soggettivo di «convinzione», ma quello oggettivo di prova»”.
Naturalmente il volontarismo e il soggettivismo possono anche sentirsi molto forti, riparati
come stanno in Lutero sotto l’ombrello della fede. La fede separata dalla ragione esercita il
suo dominio su un campo ristretto, strettamente teologico. Senonché, come era stato
illustrato a Ratisbona:«Si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e
dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo
anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo
dominarle.
19
Rodney Stark, Discovering God. The Origins of the Great Religions and the Evolution of Belief, Harper One, New York 2007
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Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la
limitazione della ragione auto-decretata dalla scienza a ciò che è verificabile
nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. Solo così
diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui
abbiamo un così urgente bisogno.
Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e
le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente
religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della
ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è
sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel
dialogo delle culture.» 20
La piazza pubblica, per usare un’espressione della lingua inglese, denudata dalla presenza
cristiana 21, è lasciata ad altri, che non si servono della fede, né di una ragione che dialoga
con la fede e cerca la verità (perché questa è stata sistematicamente svalutata ed
emarginata da Lutero), ma di una ragione strumentale, la «ragione del potere e del fare»
(Spe salvi n. 23). Mentre «non è che la fede venga semplicemente negata (ibi n.17) – non ancora
– ma “viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed
ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo». E
questi “altri” si presentano rapidamente a occupare la piazza pubblica, sotto la bandiera
della scienza innalzata da Francesco Bacone 22. Il vero è sostituito dall’utile; la speranza, è sostituita dalla “ideologia del progresso” .
Quando gli “altri” si accorgono che tutta la piazza pubblica è libera, cercano d’impadronirsi
di tutta la cultura e la politica con l’Illuminismo, che mostra il suo aspetto violento con la
Rivoluzione francese. Certo, alla bandiera della scienza si affianca qui quella della libertà:
ma anche “libertà” è una parola dai molteplici significati, che si presta agli inganni. Non si
tratta, nell’Illuminismo in marcia verso la Rivoluzione francese, di una libertà per la verità
ma di una libertà dal limite, dai “vincoli” della fede e della stessa vita politica come allora
la si concepiva, una “libertà” che portava in sé un sinistro “potenziale rivoluzionario di
un'enorme forza esplosiva” (Spe salvi n. 18).
L’itinerario attraverso il quale la speranza è erosa e decostruita nella storia dell’Occidente
– che sbocca, partendo dagli errori di Lutero, nella Rivoluzione francese, nella Rivoluzione
bolscevica e nel nichilismo che segue il fallimento delle ideologie del 1968 – permette di
chiudere con una morale. La scienza e la politica non sono in realtà inutili e dannose. Lo
diventano soltanto quando pensano di potere instaurare paradisi in Terra e regni di Dio
intra-mondani. «Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per
sempre, fa una promessa falsa» (Spe salvi n. 24). Chi annuncia il Paradiso sulla Terra, sulla
Terra costruisce invece l’Inferno. Come lo dimostrano i milioni di morti dei regimi
comunisti passati e contemporanei.
Invece, una scienza e una politica che sappiano essere modeste, consapevoli che il
Paradiso è una realtà di altra natura e che sfugge completamente al loro orizzonte, non
solo non sono dannose ma sono gli umili, necessari mattoni: «la sempre nuova faticosa
ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai
compito semplicemente concluso» (Spe salvi n. 25).
La restaurazione della speranza Dal fondo del processo rivoluzionario moderno sorge anche per gli stessi cristiani il dovere
di un’autocritica. «Bisogna che nell'autocritica dell'età moderna confluisca anche
un'autocritica del cristianesimo moderno» (Spe salvi n. 22). Il dramma è più complesso di una
semplice divisione fra “noi” e “loro”, fra le ideologie della modernità che hanno demolito la
speranza e i cristiani che hanno tentato di conservarla. Qualche volta gli stessi cristiani,
20
Papa Ratzinger nella Conferenza di Ratisbona ha ripreso la distinzione tra una «ragione ristretta» tipica della scienza e una
«ragione estesa» che coincide con la fede e che comprende in sé la prima.
21
Richard John Neuhaus, The Naked Public Square. Religion and Democracy in America, William B. Eerdmans, Grand Rapids
(Michigan) 1984
22
Francesco Bacone (Londra 1561 – 1626), è stato un filosofo, politico, giurista e saggista inglese.
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secondo un’espressione famosa di Papa Paolo VI , hanno purtroppo dato il loro contributo
con un’opera di “autodemolizione” 23.
Ci sono, anzitutto, i cristiani che si sono senz’altro schierati con l’avversario e si sono fatti
compagni di strada dell’Illuminismo o del marxismo. Dopo la fragorosa caduta delle
ideologie del XX secolo, la critica di costoro è facile e quasi scontata sul piano dottrinale, e
purtroppo nella realtà concreta della storia si tratta di correnti e personaggi che non sono
affatto scomparsi.
Un errore più sottile trova le sue radici nella penetrazione nella Chiesa cattolica dell’errore
di Lutero, il quale trasforma la speranza da oggettiva in soggettiva.
In questa critica si nasconde un inganno, così che la risposta non può essere soltanto
difensiva. Quegli stessi che hanno operato, mediante un processo secolare, per cacciare i
cristiani dalla piazza pubblica dove pensavano di edificare gioiosamente il loro “regno
dell’uomo” (Spe salvi n. 30) senza essere disturbati da Dio, quando la piazza si riempie di
rovine vanno a rimproverare i cristiani per essere rimasti a occuparsi della loro salvezza
eterna in casa o in chiesa – dove però li avevano confinati loro.
E tuttavia il bisogno di “autocritica” rimane. I cristiani qualche volta dalla piazza pubblica si
sono lasciati escludere senza reagire, quasi compiacendosi di lasciarla ad altri, di cui si
pensava che ne avrebbero avuto miglior cura (è quella che in Italia è stata chiamata a
lungo “scelta religiosa”). C’è davvero un cristianesimo che ha ridotto «la gioia di Gesù a
un’esperienza meramente “individuale” che, incurante dei drammi della società e della
storia, nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano» (Spe salvi n. 13).
Ma questi cristiani, questi cattolici hanno sbagliato escatologia 24. «Nell'epoca moderna il
pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata
soprattutto verso la salvezza personale dell'anima» (Spe salvi n. 42). Naturalmente, non vi è
nulla di sbagliato e vi è tutto di giusto e di doveroso nel preoccuparsi della salvezza della
propria anima.
Ma gli antichi sapevano meglio di noi che non ci si salva da soli. L’espressione cristiana
secondo cui non c’è salvezza che non passi per la Chiesa significa anche che non c’è salvezza
che non abbia una dimensione sociale. E molto aiutava a ricordare questa dimensione uno
sguardo volto al Giudizio universale, non solo al giudizio particolare che attende ogni
anima dopo la morte.
In effetti, senza il Giudizio universale non si risponde veramente né all’obiezione di Bloch
(la speranza ebraica e cristiana rimane inguaribilmente soggettiva ed è solo un mito impotente sul
piano della giustizia concreta) né alla domanda di giustizia che sale da tutta la storia umana.
«La questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna» (Spe salvi n. 43). Dio stesso si è dato un' «immagine»: nel
Cristo che si è fatto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è
portata all'estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che
condivide la condizione dell'uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo
sofferente innocente è diventato speranza-certezza: Dio c'è, e Dio sa creare la giustizia in
un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo
intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la «revoca» della
sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. La questione della giustizia costituisce
l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita
eterna.
Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato,
dell'immortalità, dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per
credere che l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con l'impossibilità che
23
Paolo VI, Allocuzione agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968,
L'escatologia cristiana ha a che vedere con la resurrezione dei morti, la vita eterna, il giorno del giudizio e l'Aldilà. La
(prima) venuta di Cristo (il Redentore) viene vista come un fondamentale evento escatologico, che ridà la speranza ai
cristiani. Una seconda venuta di Cristo significa l'instaurazione definitiva del Regno di Dio.
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l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del
ritorno di Cristo e della nuova vita. (Spe salvi n 43)
Se apriamo le nostre finestre e guardiamo il dramma del mondo, non occorre essere
pessimisti inguaribili per concludere che sembra proprio che spesso i buoni perdano e che i
cattivi vincano.
Se questa ingiustizia fosse l’ultima parola della storia, la stessa storia non avrebbe
ultimamente senso.
Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31), ha presentato a
nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e
dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa
della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità
di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Gesù in questa
parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una
concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione
intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora»”
(Spe salvi n. 44 ).
La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è
sviluppata man mano la dottrina del purgatorio.
Certo, l’inferno c’è, e non è vuoto come vorrebbe qualche teologo. È la condizione che si
preparano quelle «persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della
verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che
hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva
terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo
spaventoso profili di tal genere» (Spe salvi n. 45).
Così come, fortunatamente, incontriamo “persone purissime” (n. 45) che non abbiamo
difficoltà a immaginare come destinate immediatamente al Paradiso. Ma nella maggioranza
delle persone «molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che,
ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente
nell'anima» (n. 45); il che rende la prospettiva del Purgatorio fondata sul piano teologico e
molto ragionevole. (n. 46)
L’amore di Dio, infatti, è insieme giustizia e misericordia. Se fosse solo misericordia, e salvasse
tutti senza guardare al bene o al male che hanno compiuto, se fosse “una spugna che
cancella tutto” (n. 44) quanto si è fatto nella vita, si esporrebbe alla protesta cui ha dato
voce, fra gli altri, Fjodor Dostoëvskij (1821-1881) ne “I fratelli Karamazov”. No: «I
malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto
alle vittime, come se nulla fosse stato» (n. 46). «Se fosse soltanto grazia che rende
irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla
domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso»
(Spe salvi n. 47).
D’altro canto, «se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di
paura» ((Spe salvi n. 48).
«È nella prospettiva che tiene fermo lo sguardo sul Giudizio universale e che nel giudizio
particolare discerne come possibilità l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso che giustizia e
misericordia si collegano strettamente, come eminentemente avviene nella persona stessa
di Gesù Cristo.» E acquistano un senso più profondo anche la preghiera di suffragio per le
anime dei defunti e l’offerta delle proprie sofferenze per gli altri. (n. 40)
Restaurare la speranza Due percorsi prioritari per restaurare la speranza: la preghiera e la capacità di accettare la
sofferenza come occasione di santità (il che non esclude evidentemente il valore di ogni sforzo
umano che miri ad attenuare le sofferenze, nella consapevolezza però che la loro totale
eliminazione è impossibile e ci farebbe ricadere nelle rovinose utopie del regno di Dio sulla Terra).
Le esperienze drammatiche dei martiri solo a una lettura veramente superficiale e
grossolana possono apparire come individualiste. In realtà, vissute nella comunione della Chiesa e dei santi e nella prospettiva escatologica del Giudizio, cambiano il mondo e restaurano
la speranza. Questa fu, del resto, l’esperienza della Vergine Maria sul Calvario. Qualcuno
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avrebbe potuto dire che in quella notte di tenebra il regno di Gesù Cristo era «finito prima
di cominciare» (Spe salvi n. 50). Era tutto il contrario: attorno alla Vergine Maria, stella della
speranza, il regno «iniziava in quell'ora e non avrebbe avuto mai fine».
Cercare Dio nel silenzio «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola
onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio,
portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Sapienza 18,14)
Chi potrebbe parlare del silenzio, e soprattutto di Dio, in una forma adeguata? Possiamo
tentare di parlare di Dio solo a partire dalla nostra propria esperienza di silenzio. Perché
Dio è avvolto nel silenzio e si rivela nel silenzio interiore del nostro cuore. Nel cuore
dell’uomo c’è un silenzio innato, perché Dio abita nel profondo di ogni persona. Dio è
silenzio, e questo silenzio divino abita l’uomo. In Dio, noi siamo inseparabilmente legati al
silenzio. Ma abbiamo la sensazione che il silenzio sia divenuto un’oasi inattingibile. Senza
rumore, l’uomo postmoderno cade in una inquietudine sorda e lancinante. È abituato a un
rumore di fondo permanente, che lo rende malato; il rumore lo rassicura come una droga
da cui è divenuto dipendente. L’agitazione diviene un tranquillante, un sedativo, una dose
di morfina, una forma di sogno, d’onirismo senza consistenza. Uno stato che fa perdere i
riferimenti vitali e necessari e ancora di più il contatto con Dio, con la preghiera.
Il nostro mondo non comprende più Dio perché parla continuamente, a un ritmo e a una
velocità della luce, per non dire niente. La civiltà moderna non sa tacere, nega il passato e
vede il presente come un vile oggetto di consumo. Guarda l’avvenire attraverso le ragioni
di un progresso quasi ossessivo. Oggi, inoltre, si moltiplicano le immense celebrazioni
eucaristiche composte da migliaia e migliaia di partecipanti che altro non fanno se non
favorire il pericolo di trasformare l’eucaristia, il grande mistero della fede, in una banale
kermesse. I preti che distribuiscono le sacre specie non conoscono nessuno e danno il
corpo di Gesù a tutti, senza discernimento tra i cristiani e i non cristiani, partecipano alla
profanazione del santo sacrificio eucaristico.
Il risultato di queste “gigantesche e ridicole autocelebrazioni” è che “davvero pochi
comprendono che ‘voi annunciate la morte del Signore affinché egli venga’. Ed è proprio
nella preghiera che Dio ci comunica la sua Vita, ossia manifesta la sua presenza nella
nostra anima, irrigandola con i flutti del suo Amore trinitario: il Padre attraverso il Figlio
nello Spirito Santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio. Il silenzio è uno dei mezzi
principali che ci permettono di entrare nello spirito della preghiera. Il silenzio ci dispone a
stabilire relazioni vitali e continue con Dio. Un luogo teologico privilegiato dunque, il luogo
di incontro tra l’anima e Dio perché: “Il primo linguaggio di Dio è il silenzio”.25
25
Cardinale Robert Sarah “La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore”, pubblicato a Parigi dall’editore Fayard,
ottobre 2016
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La Parola ai lettori
Tutti coloro che ricevono questa newsletter sono invitati ad utilizzare la opportunità offerta dal
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Comitato di redazione
Dott. Cleto Antonini, (C.A.), Aiuto anestesista del Dipartimento di
Rianimazione Ospedale Maggiore di Novara;
Don Pier Davide Guenzi, (P.D.G.), docente di teologia morale presso la
Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione parallela di Torino; e
di Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del S. Cuore di
Milano e vice-presidente del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera
“Maggiore della Carità” di Novara.
Don Michele Valsesia, parroco dell'Ospedale di Novara, docente di Bioetica
alla Facoltà Teologica dell'Italia Sett. sez. di Torino
Prof. Paolo Rossi, (P.R.) Primario cardiologo di Novara
Master di Bioetica Università Cattolica di Roma
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