STRATEGIA Dalla Fleet in Being alla guerra fredda e alle missioni di pace: la lunga marcia della dissuasione Col. Ferruccio Botti Già Colonnello dell’Esercito L a guerra - ha detto Clausewitz - è un fenomeno che “appartiene alla vita sociale”. La sua logica è perciò la stessa della politica, dalla quale deriva. Il generale prussiano la presenta come un gioco di azioni e reazioni spesso impreviste, nelle quali prevalgono le forze morali e psicologiche: ne consegue che “l’arte della guerra si muove nel campo delle forze viventi e delle forze morali e non può quindi mai raggiungere l’assoluto e la certezza” (1). E’ anche ben noto che, nella vita di ogni giorno, il nostro modo di agire influenza amici ed avversari e al tempo stesso ne è influenzato, fino a spingerci spesso a modificare i nostri atteggiamenti o a tentare di modificare quelli altrui. Quest’ultima operazione psicologica riesce solo se riusciamo ad imporci, cioè a dimostrare il possesso di una forza morale o materiale, alla quale non è conveniente o inutile opporsi. E che dire se, pur avendo buone ragioni, nelle lotte della vita ci si trova di fronte un individuo che ostenta troppi muscoli, oppure un organismo potente, contro il quale ben difficilmente una lotta legale o di altro genere avrebbe ben poche possibilità di riuscita? Ebbene, la dissuasione - argomento all’ordine del giorno in campo militare specie dal 1945 in poi - attiene alla prevalente dimensione morale e sociale dei conflitti e alla fin fine non è che la trasposizione in campo militare di una logica, di meccanismi psicologici già ben presenti nella vita sociale. In sostanza, essa mira a indurre con dimostrazioni di forza, di efficienza militare “l’altro” a mantenere comportamenti per noi più convenienti e ad (1) abbandonarne altri che sarebbero per noi dannosi. Il “Glossario NATO di architettura europea” (1991) ne dà una definizione un po’ ristretta, ancor tipica della guerra fredda: “si ha dissuasione quando le difese di cui si dispone sono talmente forti da non lasciare all’avversario alcuna speranza di riuscita, impedendogli dunque di fatto ogni aggressione e inducendolo a un atteggiamento più moderato”. Dalla definizione militare emerge subito che la chiave di tutto è la psicologia dell’avversario: è infatti l’avversario che deve essere ben convinto che non gli conviene agire in un certo modo. Nella guerra fredda, fortunatamente la dissuasione ha funzionato: tuttavia, prima e dopo la guerra fredda essa non sempre è risultata efficace e ha prevenuto i conflitti. Ad esempio, nel periodo precedente la prima guerra mondiale la corsa al riarmo di ambedue i blocchi contrapposti non ha impedito ma facilitato la guerra. Ciò è avvenuto per la semplice ragione che mancava o era poco probabile la minaccia nucleare, mentre qualcuno dei contendenti è stato indotto a sottovalutare troppo la forza dell’avversario e a sopravvalutare la propria. In ogni caso, se si concepisce la dissuasione in senso lato - cioè come un complesso di predisposizioni intese a influire con la forza, ma senza bisogno di ricorso alle armi, sulla volontà dell’avversario o “dell’altro”, inducendoli ad adottare comportamenti per noi più convenienti e ad abbandonarne altri - essa non può essere legata solo all’arma nucleare e al periodo della guerra fredda, anche se in tale periodo è Karl Von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori 1970, Vol. I p. 36 49 STRATEGIA non tentare tanto facilmente il superamento del limes (vero è però che a un certo punto le invasioni barbariche si sono dimostrate incontenibili, dimostrando che la dissuasione funziona solo per un tempo limitato e in un dato contesto internazionale ad essa tutto sommato favorevole). Le grida e i canti di guerra degli antichi guerrieri, il loro abbigliamento appariscente prima della battaglia, le esibizioni di abilità di fronte all’esercito nemico sono altrettanti segni elementari di dissuasione, miranti a dimostrare la propria forza e capacità combattiva agli occhi dell’avversario, deprimendone il morale e quindi la volontà di combattere, alimentata dalla coscienza della propria superiorità. Anche in campo sociale, del resto, antichi costumi come quello di giustiziare i condannati a morte sulla pubblica piazza (magari lasciandovi a lungo il corpo del condannato) o quello di mettere i rei alla gogna, sono altrettanti segni di dissuasione, così come l’esistenza di carceri, pene e severe multe serve a dissuadere il cittadino dal tenere determinati comportamenti giudicati nocivi alla società, mentre la quasi - certezza dell’impunità incoraggia a commettere reati. Resa di Peschiera. Truppe piemontesi nella piazza (da “Monde Illustré” seconda metà Anche in due classici del pensiero dell’Ottocento) militare come Sun Zu e Clausewitz la A parte il caso particolare della guerra fred- dissuasione non è assente. Presentando la vitda, a ben guardare il meccanismo della dissua- toria senza combattere come l’ideale strategico, sione, dall’antichità fino al XXI secolo, ha con- indicando molti trucchi per far credere al tinuato ad essere presente e ad esercitare un’in- nemico di essere più forti, e in genere mirando fluenza variabile, magari in misura meno appa- a influenzare nel senso per noi più vantaggioso riscente e quindi meno percepita dai mass la psicologia e la volontà di combattere del media e dall’uomo della strada. Troppo facile nemico, Sun Zu fa della dissuasione una delle sarebbe citare il romano si vis pacem para bel- chiavi del suo pensiero. A sua volta Claulum. Meglio ricordare l’opera di Edward sewitz, come ricorda il Santoro, “accenna alla Luttwak La grande strategia dell’Impero romano eventualità di ‘combattimenti possibili’ che nel - l’apparato militare come forza di dissuasione, nostro caso sarebbero la deterrenza e gli spiega(2) nella quale l’autore dimostra che, con una menti, anche verbali, delle forze, oltre alla perrazionale organizzazione di difesa dei confini manente e diffusa microconflittualità indiretta. impostata sulla loro fortificazione, nel periodo Egli dice testualmente: ‘la semplice possibilità della sua maturità l’Impero romano è riuscito che avvenga il combattimento ha prodotto almeno per molto tempo a tenere a bada le delle conseguenze: e per ciò stesso esso è tribù barbare, inducendole a non tentare o a diventato cosa reale” (3). Senza contare il vecstata il tema d’ogni giorno per i mass media, con le interminabili trattative tra i due blocchi per ridurre in qualche modo le tensioni e i pericoli di guerra nucleare (che avrebbe potuto scoppiare magari per errore, o perché uno dei due contendenti si era convinto di aver ormai acquisito un vantaggio decisivo e incolmabile sull’avversario, senza troppo pericolo proprio). Va anche tenuto conto che, nella guerra fredda, non c’erano alternative alla pace, perché caso unico nella storia - una guerra atomica avrebbe sicuramente provocato la distruzione reciproca dei due mondi in competizione. (2) (3) 50 Cfr. Edward N. Luttwak, La grande strategia dell’Impero romano - l’apparato militare come forza di dissuasione (1976), ultima ed. it. Milano, Super BUR Rizzoli 2002 Cit. in Carlo M. Santoro, La guerra possibile (in AAVV. “Della guerra”, Venezia, Arsenale Coop. Editrice 1982, p. 66) STRATEGIA chio detto, attribuito a Napoleone, che in battaglia “è battuto chi si sente battuto”. Va però ricordato che il principio della dissuasione, inteso in senso lato, storicamente ha avuto per la prima volta riconoscimento teorico e una buona risonanza in campo navale e non in campo terrestre; ed è sempre in campo navale che ha dimostrato le sue interfacce tuttora più controverse. Nel luglio 1690 l’ammiraglio inglese Torrington, dopo essere stato sconfitto dall’ammiraglio francese Tourville nella battaglia di Beachy Head, si è rifugiato con il resto della flotta alle foci del Tamigi, sostenendo che nonostante tutto la sola presenza delle sue navi in questa posizione-chiave avrebbe impedito alla flotta francese di tentare uno sbarco sulle coste inglesi. Torrington non fu creduto, e venne rinchiuso nella Torre di Londra: in effetti, non risulta che Tourville abbia ricevuto dal suo Re l’ordine di sbarcare in Inghilterra. Ad ogni modo, è nato allora il celebre principio della fleet in being ( da tradurre in flotta in potenza e non in flotta in esistenza), basato sul fatto che la semplice presenza di una flotta in un dato porto influenza le decisioni dell’ammiraglio nemico, condiziona i suoi movimenti e lo dissuade dal compiere certe operazioni offensive, che altrimenti deciderebbe senz’altro. Da allora, questo principio è rimasto in gran voga nella strategia navale fino alla seconda guerra mondiale, sia pur con frequenti accuse di non essere altro che la giustificazione teorica della mancata volontà o possibilità di combattere di una flotta. Ha avuto comunque ragione il comandante Domenico Bonamico a precisare (1901) che per esercitare un’effettiva influenza sulle operazioni navali nemiche non basta a una flotta essere semplicemente all’ancora in un porto; essa deve realmente possedere il grado di efficienza morale e materiale necessario per uscire all’occorrenza dal porto rompendo l’eventuale blocco e per affrontare il nemico in mare aperto con qualche probabilità di successo (4). Giulio Rocco, il celebre autore delle Riflessioni sul potere marittimo (1814), attribuisce (4) (5) (6) alle forze navali un chiaro potere dissuasivo, perché “nella pace l’apparenza di una flotta pronta a mettere alla vela si impone in modo, che ognuno è tenuto a serie preoccupazioni se mai voglia provocare una guerra; in questa poi tale apparenza si rende molto imponente: perché le diversioni e i danni, i quali può cagionare, non sono ristretti a limiti facili a prevederli, onde prevenirli” (5). Una curiosa conferma di questo principio si ebbe intorno al 1830, quando il Re di Sardegna, che da solo non riusciva a proteggere le sue navi mercantili dagli attacchi dei pirati algerini, chiese all’Inghilterra di autorizzare le sue navi a inalberare il vessillo inglese, che dati il prestigio e la potenza della Royal Navy (conquistati con il pronto ricorso ai cannoni in tutti i mari del mondo) sarebbe bastato a dissuadere i pirati dall’attaccare le sue navi. Dimostrazione che, affinché la dissuasione funzioni, bisogna - oltre che essere forti mostrarsi ben determinati all’uso della forza; l’atteggiamento contrario non fa che incoraggiare il nemico ad essere aggressivo. Per venire a tempi a noi più vicini, nel 1895 è comparso anche l’effetto di dissuasione che potevano esercitare i potenti eserciti che all’epoca si stavano preparando, sì che - secondo il colonnello De Chaurand - proprio “il militarismo”, ritenuto da taluni la causa delle guerre, contribuiva invece ad allontanarle, con la sua funzione di dissuasione. Infatti “gli enormi eserciti in conflitto e i potentissimi mezzi di distruzione renderebbero la lotta più crudele e più disastrosa di qualunque altra abbia finora funestato il genere umano: tale da mettere in causa l’esistenza stessa delle nazioni” (6). Nei primi anni del secolo XX è nata l’Aviazione, nuova Arma dal crescente potenziale bellico che non ha potuto non esercitare un effetto morale e dissuasivo. Nel 1936 il maggiore dell’Aeronautica Antonino Trizzino ha messo in evidenza la potenza dell’Aviazione italiana, l’ottimo sistema di basi delle quali disponeva e la sua efficacia specie contro le basi navali nemiche e le navi in mare aperto. A suo parere durante la guerra d’Etiopia essa ha impedito alla flotta inglese, concentrata nel Mediterraneo anch’essa a evidente scopo dis- Domenico Bonamico, Scritti sul potere marittimo (1878-1914) - a cura di Ferruccio BOTTI, Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1998, pp. 288-289 Giulio Rocco, Riflessioni sul potere marittimo (1814), Rist. 1911 Roma, Lega Navale Italiana, pp. 89-90 Felice De Chaurand De Saint Eustache, Le Istituzioni militari odierne e il loro avvenire, Roma, Voghera 1895, pp. 180-181 51 STRATEGIA suasivo, di ostacolare i trasporti per l’Etiopia e/o comunque di agire contro l’Italia. In proposito egli scriveva: è dato di fatto - sul quale tutti convengono che la potenza aerea italiana è stata quella che ha infranto la furibonda aberrazione britannica, limitandola alle trascurabili escandescenze verbose di sudditi di vario ceto e alle mene meschine della diplomazia. Più oltre l’Inghilterra non potè andare; pesò, sulle bellicose tentazioni la prospettiva della nostra Armata Aerea […] scatenata, da incoercibili necessità di vita, contro quelle basi navali che furono, in passato, baluardi inoffendibili e cardini della potenza inglese nel Mediterraneo, contro le stesse unità navali, che si credeva dovessero costituire per il loro numero, una schiacciante supremazia contro di noi (7). Tesi naturalmente discutibile, perché nel 1935-1936 l’Inghilterra non si è presumibilmente mossa per diverse altre ragioni, né la Royal Navy ha mai lasciato capire di temere l’Aeronautica Italiana. Discutibile e discussa è anche la tesi che in ambedue le guerre mondiali le corazzate italiane sarebbero state in being , e pertanto avrebbero esercitato un’utile funzione dissuasiva nei riguardi delle iniziative delle forze navali nemiche. In merito, ci limitiamo a rilevare che a parer nostro nella 1a guerra mondiale esse non sono state in being, e che sia il Fioravanzo che il Bernotti hanno negato la validità di tale principio anche per la 2a guerra mondiale, per effetto dell’Arma aerea (8). Ben dimostrato, invece, l’effetto dissuasivo esercitato dalla nostra Aeronautica nei confronti della Francia nel giugno 1940, quando i Francesi, per timore di rappresaglie, hanno impedito con la forza il decollo dalle loro basi di bombardieri inglesi destinati a colpire le città del Nord Italia. Tra le due guerre mondiali, in Francia la costruzione lungo il confine con la Germania della celebre e potente “Linea Maginot”, iniziata fin dagli anni Venti, aveva anzitutto una chiara funzione dissuasiva. Nella prima guerra mondiale la Francia aveva pagato la vittoria a ben caro prezzo: 1.200.000 caduti, cioè circa il doppio dei caduti italiani, con una popolazione non molto superiore. Il popolo francese (7) (8) (9) (10) 52 non intendeva più combattere altre guerre con un siffatto contributo di sangue; tra di esso si erano diffusi l’antimilitarismo e il pacifismo (9). Per ragioni interne politico-sociali, anzi più sociali che politiche, la Francia ha potuto quindi adottare solo una strategia difensiva, e tentare in ogni modo di scongiurare una guerra totale. La linea Maginot è il frutto militare di questa situazione. Intendeva scoraggiare i prevedibili tentativi di rivincita tedesca costruendo un muro di cemento e acciaio, potentemente armato, alla frontiera con la Germania o, male che andasse, risparmiare il sangue della gioventù francese. In sostanza, la linea “Maginot” non era che un aspetto di una più vasta politica di sicurezza francese, mirante ad evitare un’altra guerra mondiale. E’ infatti in Francia alla fine degli anni Trenta, e non nell’età nucleare dopo il 1945, che è nata la strategia basata sulla ricerca di mezzi alternativi per evitare il ricorso alla “guerra calda”, che anche allora si riteneva sarebbe stata la rovina non solo della Francia, ma dell’intera Europa. Lo dimostra un articolo del 1939 non firmato, ma dovuto a uno dei padri della force de frappe atomica francese del dopoguerra: il generale Beaufre. Il suo articolo, dal titolo emblematico Una nuova forma dei conflitti internazionali: la pace-guerra (10), partiva da due principî: 1) la difensiva, rafforzata dalla fortificazione permanente, prevarrà anche nella prossima guerra totale, nella quale però “la vittoria non pagherà più gli sforzi per conquistarla”, perché “la concezione classica della guerra conduce a una forma di conflitti che non risponde più né alle possibilità né alle necessità dell’Europa di oggi”, tanto più che “l’opinione pubblica della maggior parte delle nazioni europee rifiuta istintivamente l’idea della guerra, perché l’ultima ha lasciato un’impressione profonda d’orrore e d’inutilità”; 2) occorre pertanto cercare dei metodi nuovi per risolvere i conflitti, tenendo presente che la Società delle Nazioni ha fallito i suoi scopi, perché “mira a cristallizzare i risultati politici della prima guerra mondiale”. Antonino Trizzino, L’Aviazione italiana nel Mediterraneo e in Africa Orientale, Roma, Ed. Nuova Europa 1936, pp. 87-88 Si veda, in merito, il Nostro La Marina italiana nel XX secolo, in “Rivista Marittima” luglio 2001 Cfr., in merito, Simone Weil, Sulla guerra - scritti 1933 - 1943, Milano, Nuova Pratiche ed. 1998 (Senza Autore), Une forme nouvelle des conflits internationaux: la paix - guerre, in “Revue des Deux Mondes” del 15 agosto 1939. Il Beaufre si attribuisce la paternità dell’articolo nella sua celebre Introduction à la stratégie del dopoguerra STRATEGIA La “pace-guerra” intendeva perciò approfittare del timore della catastrofe che avrebbe causato una nuova guerra totale, per esercitare sulla Germania delle pressioni più forti che nel passato, evitando tuttavia di creare una tensione tale, da indurre Hitler a scatenare una guerra totale. Occorreva innalzare il valore del “punto critico”, con una strategia che aveva parecchi punti di contatto con le “guerre di gabinetto” pre napoleoniche dei secoli XVII e XVIII, che tendevano ad evitare la battaglia perché distruggeva uomini e denaro, portando a conseguenze imprevedibili all’epoca. Tra le nuove forme di guerra il Beaufre indicava la guerra politica, la guerra economica, la guerra diplomatica. La guerra politica consisteva nell’intervenire nella politica interna dello Stato avversario, disgregando il morale della popolazione con una propaganda ben mirata e continua (che oggi chiameremmo “guerra psicologica”). La guerra economica comprendeva varie misure (sanzioni, embargo, ecc.) tendenti a rovinare l’economia del Paese avversario, privandolo delle materie prime necessarie per la condotta di una guerra totale di lunga durata. A tal fine poteva anche essere adottato un blocco economico, da mantenere con la marina e con l’aviazione (il Beaufre spiegava anche le ragioni per cui le sanzioni contro l’Italia nella guerra d’Etiopia non avevano avuto effetto). Infine, la guerra diplomatica mirava a procurarsi alleati potenti e numerosi, isolando invece l’avversario. Queste “guerre” per il Beaufre avrebbero potuto avere successo, solo con la disponibilità di un apparato militare difensivo efficiente e pronto ad entrare in azione anche per combattere una guerra totale, che rimaneva pur sempre possibile. Peraltro, gli apprestamenti militari del momento avevano (almeno per la Francia) un carattere ben diverso da quello offensivo e di massa, tipico del periodo precedente la guerra 1914 - 1914. La preparazione militare “tende anzitutto a rendere impossibile il ricorso alla guerra totale, assicurando agli Stati una potenza difensiva formidabile. E’ per evitare la ripetizione degli inconvenienti del 1914 che la Francia ha costruito la linea Maginot…”. Occorreva anche apprestare un corpo di spedizione indipendente dal sistema difensivo, con carattere offensivo e pronto a intervenire in ogni momento, senza bisogno di mobilitazione, per condurre ovunque, anche oltremare, le guerre limitate che sarebbero state necessarie, per intervenire in conflitti interni di altri Stati a sostegno di una delle due parti ecc; diventavano infine possibili anche “guerre per procura”. Il Beaufre così concludeva: “questo nuovo tipo di guerra, che abbiano creduto di riconoscere specialmente nelle recenti mosse di Hitler, è stato da noi definito come una combinazione di mezzi di coercizione politici, economici, diplomatici e militari, avente lo scopo di ottenere la capitolazione dell’avversario con delle pressioni ben calcolate, sufficienti per provocare una decisione, ma troppo deboli per condurre a una guerra totale. Se questa conduzione è esatta, si deve prevedere un rinnovamento e un ampliamento del campo d’azione della strategia, finora confinata nel ristretto quadro delle operazioni militari”. A questo punto, appare persino superfluo sottolineare le sorprendenti analogie tra l’approccio strategico anteguerra del Beaufre e la filosofia strategica tipica della guerra fredda: anzi, quella del Beaufre potrebbe essere definita una “guerra fredda” in anteprima, anche se allora - fallita. Perché è fallita? Per diverse ragioni. Perché l’apparato militare francese in generale e la linea Maginot in particolare non hanno affatto esercitato il potere dissuasivo loro attribuito dal Beaufre. Mancava, come già detto, la bomba atomica; e le armi di distruzione di massa (aggressivi chimici), in possesso di tutti i contendenti, hanno esercitato un effetto dissuasivo reciproco. Inoltre, dal 1934 al 1939 i vincitori di Versailles avevano dimostrato a Hitler di temere troppo una nuova guerra, incoraggiandone le mosse aggressive che almeno all’inizio hanno avuto successo, ma in seguito hanno provocato all’Europa, e proprio alla Germania, le rovine e le perdite umane che Beaufre avrebbe voluto evitare. Insomma: la guerra fredda ha dimostrato che il potenziale dissuasivo auspicato dal generale francese poteva reggere solo con l’arma nucleare; ciò non toglie che l’arma economica, dandogli ragione in ritardo, alla fin fine è riuscita a risolvere nel 1989 il conflitto tra i due blocchi per implosione del sistema economico-sociale più debole, senza arrivare a una rovinosa guerra totale. Rimane ora da chiedersi se e in che misura nel periodo post-guerra fredda, fino ai nostri 53 STRATEGIA giorni, la dissuasione ha conservato almeno in parte il ruolo tipico della guerra fredda, che è stata senza dubbio il suo periodo d’oro. La risposta è articolata: non ha più un ruolo centrale, ma tuttavia continua ad essere un fattore importante, anche se mal percepito e spesso trascurato dai mass media. Essa è oggi esercitata, ciascuna per la sua parte, da tutte e tre le Forze Armate. In realtà, i conflitti, le crisi e le guerre limitate che in gran numero hanno caratterizzato il periodo post-guerra fredda se ben analizzati nei precedenti e nelle conseguenze lasciano qua e là affiorare e operare anche un potenziale dissuasivo. Tale potenziale è posseduto in misura notevole, anche se non appariscente, dalle numerose “missioni di pace” (peace keeping) aventi lo scopo di garantire il mantenimento della pace in genere tra due parti ostili, che in precedenza si sono combattute, per poi venire - anche per effetto delle pressioni internazionali - a un accordo più o meno precario. Ebbene, bisogna rivolgersi una semplice domanda: se non vi fosse sul territorio una presenza di truppe e di varie organizzazioni internazionali, tale accordo reggerebbe ugualmente? Nella maggioranza dei casi, la risposta non può essere che negativa. Ecco dunque che una presenza armata occidentale in vari punti dissuade in qualche modo le parti in contrasto, che tali rimangono, dal riprendere la guerra, e li incoraggia alla trattativa e alla convivenza. Anche l’embargo, il pattugliamento, la minaccia navale e aerea, anche i sorvoli di aerei, anche gli interventi aerei misurati e limitati o le sanzioni economiche hanno sostanzialmente lo scopo di impedire o ostacolare i conflitti caldi, di dimostrare la determinazione delle Nazioni maggiori e di influenzare la volontà di combattere dei contendenti. Certo, come avveniva già ai tempi della fleet in being, i sistemi attuali di dissuasione sono imperfetti e soggetti a inconvenienti e critiche . L’accusa più frequente alle forze impiegate in missioni di pace è di “lasciar troppo correre”, di non intervenire in situazioni difficili, per non trasformare le missioni di pace in missioni di imposizione della pace (peace enforcing), cioè in piccole guerre. Una cosa comunque è certa: che la presenza di contingenti armati in una data area non può di per sé non avere delle conseguenze politiche, sia per le popolazioni locali sia per il mondo internazionale; e queste ricadute sono senza dubbio tali, da scoraggiare e ostacolare almeno il riaccendersi dei conflitti, anche se non provocano certo la risoluzione definitiva di problemi annosi e complessi. Anche la bomba atomica continua ad avere un sia pur ridotto potere dissuasivo e un peso politico per chi la possiede. Tant’è vero che gli Stati appartenenti al cosiddetto club nucleare hanno magari ridotto, ma non certo eliminato (e spesso anche modernizzato) i loro arsenali. La “bomba” serve ancora a dissuadere dall’impiego di ordigni similari - o di armi di distruzione di massa - altri Stati non amici. Essa colloca tuttora a un livello strategico superiore chi la possiede: di qui il forte impegno degli Stati Uniti e delle altre potenze nucleari per impedire che altri Stati riescano ad entrarne in possesso. Obiettivo sempre più difficile, perché le tecnologie nucleari, e anche quelle per la produzione di armi di distruzione di massa, diventano sempre più accessibili, mentre è estremamente difficile controllare il mercato internazionale delle armi. La stessa potenza convenzionale militare americana - anche nel campo spaziale - tende di per sé ad avere un potere dissuasivo. L’attuale Segretario americano alla Difesa, Donald Rumsfeld, nel luglio 1901 - quindi poco prima dell’attacco terroristico dell’11 settembre - scriveva che “l’apertura dei nostri confini e delle nostre società facilita un attacco terroristico e la nostra dipendenza dall’informatica rende la rete un bersaglio interessante per nuove forme di cyber - attacco […]. Abbiamo bisogno di una risposta nuova a un mondo tutto diverso da quello della guerra fredda. Alora il nostro obiettivo era impedire a una singola potenza ostile di usare il suo arsenale contro di noi, ora invece dobbiamo dissuadere più avversari potenziali non solo dall’usare le armi che già possiedono, ma anche di svilupparne di nuove. Proprio come intendiamo costruire ‘difese a strati’ per affrontare le minacce missilistiche in diversi stadi, così abbiamo bisogno di una strategia di “deterrenza a strati” che possa affrontare una varietà di nuove minacce a differenti stadi” (11). Di questo sistema di deterrenza globale non fanno parte solo le armi nucleari e lo scudo spaziale, ma anche le forze convenzionali. Ad esem- (11) Donald Rumsfeld, Lo scudo per un mondo sicuro, in “La Stampa” del 1° luglio 2001 54 STRATEGIA pio, sempre secondo Rumsfeld “la schiacciante fondamentale lavoro di intelligence per sgomipotenza navale americana scoraggia potenziali nare per tempo organizzazioni terroristiche e avversari dall’investire risorse in una Marina com- identificarne con sicurezza i sostegni e le basi è petitiva per minacciare la libertà dei mari, perché, estremamente difficile. La quinta è la reperibialla fine, costerebbe una fortuna e non raggiunge- lità relativamente facile di personale di manorebbe gli obiettivi strategici”. Anche nella recentis- valanza disposto anche al suicidio, in totale sima guerra dell’Iraq le imponenti forze terrestri contrasto con la mentalità occidentale. In sintesi il terrorismo è il mezzo più refrate aeronavali radunate ai confini con l’Iraq avevano prima di tutto uno scopo dissuasivo, non rag- tario alla dissuasione, e al tempo stesso più giunto perché Saddam non ha abbassato le armi. adatto a supplire in qualche misura all’inferioTuttavia, come ha notato Barbara Spinelli (12), rità tecnologica e militare dei nemici degli Stati lo schieramento di imponenti forze militari è Uniti e dell’Occidente. Per questo il Libro stato essenziale per indurre Saddam ad accettare Bianco della Difesa 2002 lo definisce “fattore almeno il ritorno degli ispettori; e vi è stato catalizzatore e moltiplicatore” dei molteplici anche chi ha proposto, allora, di mantenere una rischi asimmetrici con i quali la Comunità “cintura di ferro” (peraltro costosissima e onerosa per il personale) intorno all’Iraq, fino a indurre Saddam a piegarsi senza “guerra calda”. E’ auspicabile che lo stesso principio americano della “guerra preventiva” finisca con l’avere un significato dissuasivo, inducendo taluni Paesi ad evitare comportamenti e decisioni che potrebbero essere ritenuti dagli Stati Uniti pregiudizievoli per la loro sicurezza. Subito dopo la fine della guerra all’Iraq Giovanni Sartori ha scritto: “Se la guerra all’Iraq farà paura, se avrà la sperata efficacia deterrente, allora la guerra americana finisce qui. Da quando il Presidente Reagan bombardò Gheddafi, da allora la Libia è stata Armata austriaca nei primi del Novecento cauta. La polverizzazione in tre settimane di Saddam Hussein dovrebbe indurre alla cautela internazionale dovrà misurarsi in futuro, anche la Siria, l’Iran e la Corea del Nord. La guer- costringendo le politiche di sicurezza e difesa a ra infinita che ci aspetta è, temo, un’altra: la guer- non limitarsi più alla sfera tradizionale delle capacità propriamente belliche (14). Ciò non ra del terrorismo globale” (13). Il prof. Sartori con queste ultime parole ha toglie che la dissuasione, anche se problematimesso il dito sulla piaga: il vero pericolo del ca e di minore incidenza rispetto a un passato futuro è il terrorismo, per tutta una serie di recente, continuerà ad essere presente e operagioni. La prima è proprio perché sfugge con rante anche nei conflitti e crisi del futuro, una certa facilità a misure di dissuasione e a quale elemento di prevenzione e stabilizzaziosistemi d’arma e/o a tecnologie di controllo ne dei conflitti a vantaggio dell’Occidente, che lo possono prevenire, ma non possono esercitato soprattutto con le forze militari trafarlo al 100%. La seconda è che ha a disposi- dizionali. Non per nulla, anche oggi, vale il zione un’infinita serie di obiettivi, che è impos- vecchio detto che una politica estera senza un sibile proteggere in toto. La terza è che non ha supporto militare, è come un’orchestra senza bisogno di armi sofisticate. La quarta è che il strumenti. (12) Barbara Spinelli, I costi della pace, in “La Stampa” del 23 febbraio 2003 (13) Giovanni Sartori, Quel che resta di un conflitto, in “Corriere della Sera” del 19 aprile 2003 (14) Ministero della Difesa, La Difesa - Libro Bianco 2002, Roma 2002, p. 8 55