UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA Facoltà di Lettere e Filosofia in Arezzo ASSIMO GALLORINI IMAGING ARCHEOMETRICO Scienz@rte PER IMMAGINI CON NOTE DI RIPRESA, FOTOGRAMMERIA, CATALOGAZIONE, ESERCITAZIONi ARACNE Copyright © MMV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 88–548-0109-7 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: giugno 2005 Per la realizzazione di questo lavoro si ringraziano il preside della Facoltà di Lettere e Filosofia in Arezzo, Prof. Camillo Brezzi, il direttore del CISLAB (Centro di Studi sui Beni Archivistico Librari), Prof.ssa Caterina Tristano e il Dipartimento di Teoria e Documentazione delle Tradizioni Culturali. Si ringrazia la Nital Italia per il materiale fornito e in particolare Giuseppe Maio per parte dei testi dei capitoli 2, 3, 6 e per la relativa parte iconografica. Si ringrazia il Dott. Maurizio Pampaloni, già Direttore della Produzione e della Ricerca dell’Istituto Geografico di Firenze, per il capitolo 5 relativamente alla Fotogrammetria Architettonica e il Dott. Maurizio Fea, ESA, Direzione dei programmi di osservazione della terra, per il capitolo 5 relativamente alla Fotogrammetria Satellitare. Si ringrazia l’Ing.Vincenzo Fiasconaro, ENEA, Unità Tecnico–Scientifica Tecnologie Fisiche Avanzate, per il materiale fornito e quanti hanno realizzato il progetto per la realizzazione del paragrafo 7.4. Elaborazione testi e impaginazione con il contributo di: Daniela Bartolini, Giuseppina Noviello www.massimogallorini.it PREMESSA L’intento fondamentale di questo libro è quello di far conoscere e valorizzare l’importanza delle immagini sia dal punto di vista culturale sia tecnico–scientifico, attraverso i vari metodi oggi in uso per acquisire, elaborare ed archiviare i documenti di tipo iconografico riferiti ai differenti settori dei Beni Culturali. “Imaging archeometrico” è un’espressione che comprende lo studio di immagini, di norma digitali, in tutti i campi spettrali, dai raggi X all’infrarosso; quindi non solo le tecniche di ripresa ma anche i diversi tipi di elaborazioni con conversione di formati o di spazi colore, compressione con finalità di archiviazione, eliminazione di difetti, fotoritocco, inserimento di effetti speciali ed elementi grafici, ottimizzazione, ricostruzione di complesse immagini in 3D a partire da singoli frame, telemetria e fotogrammetria architetturale e satellitare. Il testo è rivolto al settore dei Beni Culturali e questo sembrerebbe ridurre e semplificare gli argomenti da trattare, ma, in base alle mie esperienze e verificando anche gli ultimi lavori svolti in questo campo, posso affermare che non è così. Oggi, infatti, stiamo assistendo ad una serie di trasferimenti di tecnologie da un settore ad un altro per cui, ad esempio, uno scanner 3D utilizzato nel settore aereo-spaziale con sofisticati S.W. di trattamento immagini per la ricostruzione in 3D viene impiegato anche per esaminare l’ultimo reperto archeologico proveniente dagli scavi di… Per questi motivi a fianco di una trattazione organica di vari argomenti giustificativi, esplicativi e pratici ho introdotto alcuni flash di esperienze particolarmente importanti ed innovative. Lo studente e il lettore hanno così la possibilità di approfondire alcune tematiche che al momento possono sembrare solo un esercizio accademico di ricerca e domani, invece, divenire di routine. XI XII Premessa Per completezza, parlando di immagini ho inserito una breve parentesi su come la nostra mente percepisce ed elabora attraverso gli occhi non solo il mondo che ci circonda, ma anche il risultato parziale e finale di ogni “trattamento immagini” svolto al computer. INTRODUZIONE Siamo abituati a considerare le fotografie e le immagini in genere per il loro valore iconico, il cui legame con la realtà è dettato dalla somiglianza e le guardiamo allo stesso modo di una pittura o di un’altra forma di rappresentazione, applicando loro gli stessi criteri estetici che riteniamo adeguati ad esse: luminosità, contrasti, messa a fuoco, ricchezza di dettagli, composizione, particolarità della scelta del soggetto, originalità del modo d’espressione e simili. Risulta quindi fondamentale, prima di addentrarci nei principi e nelle tecniche del trattamento immagini, capire la struttura e il funzionamento “dell’obiettivo umano”, ossia l’occhio, e i fenomeni della “percezione visiva”. STRUTTURA DELL’OCCHIO UMANO L’occhio, o bulbo oculare, ha una forma globoide, è costituito da membrane, che ne formano le pareti, e da mezzi trasparenti o rifrangenti (liquidi e solidi) che ne riempiono lo spazio interno ed è spesso paragonato ad una cipolla per questa sua struttura stratificata. XIII XIV Introduzione Le membrane sono tre: 1. membrana fibrosa. È la più esterna ed ha una funzione essenzialmente protettiva; la parte posteriore è chiamata sclerotica, ed è bianca ed opaca, mentre la parte anteriore è detta cornea ed è trasparente; 2. membrana vascolare. Nella parte posteriore è nera e ricchissima di vasi e prende il nome di coroide, nella parte anteriore costituisce l’iride, diaframma contrattile atto a regolare la quantità di luce che entra nell’occhio, diversamente colorato, forato nel mezzo da un’apertura circolare detta pupilla; 3. membrana nervosa o retina. È formata dall’espansione del nervo ottico, è sottilissima e trasparente ed esercita la funzione visiva propriamente detta. Una parte essenziale della sua struttura è lo strato dei coni e dei bastoncelli. I coni, così chiamati per la loro forma simile a piccole bottiglie, servono per la visione dei colori e funzionano oltre una certa intensità luminosa; i bastoncelli, che hanno una forma di coni allungati, entrano invece in funzione in caso di una debole intensità luminosa e non distinguono i colori. La funzione pratica dei bastoncelli è riferita perciò alla cosiddetta “visione crepuscolare”, dove le energie luminose necessarie per impressionare la retina sono veramente minime. Nel punto della membrana in cui il nervo ottico penetra nel bulbo oculare, si trova una piccola zona rotonda di retina priva di cellule fotosensibili, la papilla ottica, che rappresenta il punto cieco dell’occhio. Una persona non si rende conto che il suo campo visivo è formato da una zona centrale nitida circondata da una zona di sfocatura crescente, perché gli occhi sono in costante movimento e portano nella regione della fovea prima una parte del campo visivo e poi un’altra, spostando l’attenzione da un oggetto all’altro. Questi movimenti vengono prodotti da sei muscoli che spostano il bulbo oculare in alto, in basso, a sinistra, a destra e in senso obliquo. I movimenti dei muscoli oculari sono molto precisi: è stato stimato che gli occhi possono essere mossi per mettere a fuoco non meno di 100.000 punti distinti del campo visivo. I muscoli oculari, lavoran- Introduzione XV do insieme, hanno anche l’importante funzione di far convergere gli occhi su un punto, in modo che le immagini percepite dai due occhi coincidano. Quando la convergenza è difettosa o assente si verifica una diplopia, cioè l’immagine appare sdoppiata. Il movimento degli occhi e la fusione delle immagini svolgono un ruolo anche nella valutazione visiva delle dimensioni e della distanza. Anche se gli occhi sono uguali, ognuno di noi ne ha uno che il cervello privilegia nel processare le informazioni e che viene chiamato occhio dominante. Per scoprirlo basta eseguire un semplice esperimento, che può essere fatto da tutti: unire il pollice e l’indice di una mano formando un anello e posizionarli a circa 30 cm dal naso provando ad inquadrare un oggetto distante, centrandolo all’interno del foro, con entrambi gli occhi aperti. Chiudendo alternativamente gli occhi si noterà che solo quando se ne chiude uno l’oggetto sarà perfettamente visibile tra le due dita, mentre chiudendo l’altro occhio l’oggetto risulterà spostato a destra o a sinistra. L’occhio dominante è quello che è stato chiuso nel momento in cui l’oggetto non è visibile all’interno dell’anello formato con le dita. FUNZIONAMENTO DELL’OCCHIO E PERCEZIONE VISIVA Gli occhi dei mammiferi possono essere paragonati, per il loro funzionamento, a macchine fotografiche, in quanto il cristallino forma sulla retina fotosensibile, che corrisponde alla pellicola della macchina fotografica, un’immagine capovolta degli oggetti. Il fenomeno della visione è il prodotto dell’attività del cervello e non dell’occhio: gli stimoli luminosi della retina, infatti, vengono trasformati in impulsi nervosi e inviati all’encefalo e quivi elaborati e trasformati in immagine. La visione, infatti, è sempre associata ad un’attività inconscia del cervello, che appena ricevute le informazioni trasmesse dall’ occhio, le controlla automaticamente cercando nella memoria gli elementi di comparazione. Un foglio bianco, ad esempio, sarà percepito come tale sia in condizioni di luce diretta sia in penombra. XVI Introduzione Un punto preso da un oggetto dà in ciascun occhio un punto immagine; grazie alla possibilità di ciascun occhio di vedere una porzione dell’oggetto in più rispetto all’altro, si ha la visione binoculare, che ci dà la sensazione di profondità e rilievo dell’oggetto. L’immagine retinica ha una persistenza di 1/16 di secondo per consentire la visione del movimento; questo fenomeno, detto persistenza retinica, ha permesso il cinematografo e la corrente alternata per l’illuminazione elettrica. L’acutezza visiva riveste una particolare importanza nella percezione dei dettagli ed è normalmente molto limitata: l’occhio, infatti, di norma non riesce a distinguere due punti come separati se divisi fra loro da uno spazio di un millimetro e posti a due metri di distanza. L’acutezza visiva raggiunge i suoi valori ottimali nella zona centrale del campo visivo; al contrario, il potere separatore è molto ridotto alla periferia. Il colore della luce è un fatto puramente soggettivo, fisiologico e psicologico, in relazione all’aspetto sotto il quale noi lo percepiamo. La sensibilità alla visione si differenzia fortemente da un individuo all’altro; per questo motivo il colore è definito anche come sensazione psico–fisica. La psiche interpreta infatti l’immagine luminosa secondo i dati dell’esperienza e della memoria e il colore è un fenomeno che in- * Le due immagini sono tratte dall’Enciclopedia Multimediale Encarta.. Introduzione XVII veste l’uomo nella sua totalità, trovando nell’occhio il punto d’incontro tra l’esperienza dell’individuo e le sollecitazioni esterne. Il nostro occhio vede solo una fascia molto ristretta del totale delle radiazioni elettromagnetiche e precisamente quella compresa tra 400 e 800 nanometri, detta luce bianca o policromatica. Lo spettro visibile è, infatti, l’insieme delle radiazioni elettromagnetiche che producono sensazioni luminose. All’interno di questa banda, l’occhio è molto sensibile al variare dei colori, soprattutto nella fascia centrale del giallo–verde, mentre verso i bordi violetti e rossi la percezione sfuma. Ciascuna radiazione monocromatica comporta la visione di un determinato colore; combinazioni di radiazioni diverse fanno vedere colori diversi e tale rappresentazione psichica varia a seconda degli individui e delle situazioni. Si considerano generalmente sette zone dello spettro luminoso corrispondenti ad altrettante bande di radiazioni, ovvero ad altrettante zone di colore; si hanno così i colori detti tradizionalmente fondamentali, cioè i colori dell’iride: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. A questo punto cominciamo a capire quanto complesso e, per alcuni versi, soggettivo sia il meccanismo della percezione che è alla base dell’interpretazione delle immagini e quindi del loro successivo studio e trattamento. Parlare di un’opera d’arte pittorica, ad esempio, coinvolge, prima dell’aspetto critico–artistico, la nostra reale percezione della stessa con i suoi colori, le sue forme e i suoi significati. Quando “trattiamo” un’immagine decidiamo se il processo in divenire è corretto in base a quello che vediamo sul monitor, ma quello che vediamo quanto è oggettivo/soggettivo? Le informazioni visive provenienti dal videoterminale sono “lette” dagli occhi e vengono trasmesse al cervello in quantità insufficiente a restituire l’immagine chiara e dettagliata: è il cervello che supplisce l’economia di sforzi attuata dagli occhi! Prima di mostrare come il cervello viene in nostro soccorso facendoci vivere tranquilli in un mondo di immagini non troppo dettagliate, ma spesso sfumate o addirittura abbozzate, bisogna ricordare che la corteccia visiva è più ricettiva nell’emisfero destro del cervello XVIII Introduzione che in quello sinistro (principalmente deputato alla decodificazione del linguaggio). La presenza di un incrocio tra i nervi oculari fa sì che l’immagine registrata dall’occhio destro sia trasmessa all’emisfero sinistro, mentre l’immagine prodotta dall’occhio sinistro viene comunicata all’emisfero destro. La maggiore capacità ricettiva dell’emisfero destro incide a livello inconscio sulla nostra interpretazione del mondo, restituendoci, ad esempio, nel caso si guardi un ritratto, impressioni di gioia o tristezza a seconda se l’increspatura delle labbra è a sinistra o a destra. Per facilitare il nostro orientamento nel mondo, il cervello interviene rielaborando scrupolosamente e dettagliatamente le immagini sommarie comunicategli dagli occhi. La “disattenzione” della vista non va scambiata per pigrizia, ma deve essere riconosciuta nelle due diverse implicazioni fisiologiche che ha alla base (e che la differenziano completamente, per questi aspetti particolari, dai dispositivi di ripresa che vedremo più avanti): la messa a fuoco selettiva e l’area oculare priva di fotorecettori. L’occhio, al contrario dei sensori CCD, ha una visione localizzata: infatti, la fovea centralis, l’unica capace di visione netta, copre meno di un grado, lasciando il resto del campo visivo tanto più indistinto tanto più è lontano da essa. L’ineguaglianza della visione non viene percepita consciamente sia perché la mobilità dell’occhio è tale che è possibile immediatamente mettere a fuoco altri dettagli della stessa immagine senza sentirne disagio sia perché il cervello tende a completare le parti “lasciate scoperte” dall’ispezione ottica, suggerendo per gli spazi di ambiguità proposte di oggetti in forme, colori e dimensioni, in armonia con il contesto dell’intera immagine. Un esempio comune di quanto detto è la lettura: gli occhi non leggono Introduzione XIX tutte le lettere, ma procedono a salti di 7–9 caratteri, lasciando al cervello il compito di completare il senso della frase (per questo motivo talvolta la lettura frettolosa è ingannevole!). Uno dei primi studiosi a proporre la teoria della messa a fuoco selettiva fu il pittore William Hogarth, del XVIII secolo . (disegno tratto dal saggio: W. Hogarth,The Analysis of Beauty, written with a view of fixing the fluctuating ideas of taste, London 1753). Il cervello si attiva a creare un’immagine completa anche quando deve combattere i “punti ciechi” presenti nella visione. Questi corrispondono alle aree prive di fotorecettori perché occupate dai nervi ottici. Anche in questo caso non percepiamo consciamente questi spazi oscuri perché sono situati in punti opposti del campo visivo. Il cervello in questo caso reagisce cercando di riempire lo spazio vuoto con lo sfondo più probabile, prendendolo in prestito dai contorni dell’area che non può essere osservata. Chiudere l'occhio sinistro e con il destro fissare il manoscritto. Spostandosi ad una distanza di circa 15 cm dalla pagina la mela a destra scompare e viene sostituita dallo sfondo bianco. XX Introduzione Molti altri sono i fenomeni correlati tra percezione e trattamento immagini, compresi quelli studiati da Hermann (la griglia di) e dal fisico Ernst Mach che per primo ha disegnato la cosiddetta “Banda di Mach”, in cui il graduale passaggio fra nero e bianco crea un’illusione ai lati della banda grigia centrale. Tale fenomeno vale anche per altre tonalità e quando ritocchiamo/trattiamo immagini con queste caratteristiche non dobbiamo cadere in errore. Tenendo ben presenti anche gli aspetti fin qui trattati, è ovvio comprendere come lo studio analitico e sistematico delle opere d’arte oggetto di esame da parte dei BBCC non sia cosa semplice, ma richieda tutta una serie di codifiche e normative per rendere tale studio il meno possibile soggettivo. Avremo quindi modo di conoscere attraverso una breve storia non solo l’evoluzione di tali ricerche, ma anche le principali normative e i relativi protocolli e standard applicativi. CAPITOLO 1 LA TECNOLOGIA NEI BENI CULTURALI 1.1 LA SITUAZIONE IN ITALIA I Beni Culturali sono delle testimonianze materiali aventi valore di civiltà. Questa definizione manifesta la complessità dell’argomento in quanto il riconoscimento di un “bene” è l’aspetto più difficile e molto spesso viene fatta confusione nel riconoscere in un reperto archeologico, addirittura in forma frammentaria, una testimonianza artistica della civiltà al pari dei capolavori dell’arte. Questi ultimi, infatti, rientrano sempre nella generale categoria dei Beni Culturali. È evidente, a questo punto, che per i Beni Culturali ad essere messo in discussione è proprio il concetto di materialità, integrità. Nel 1964 è stata istituita la commissione Franceschini, col compito di ordinare da un punto di vista legislativo il vasto patrimonio storico-artistico italiano, che già da qualche anno veniva indicato come patrimonio dei Beni Culturali. Grazie alla commissione, la vecchia legge n.1089 del 1939, fu modificata e si individuò come bene culturale la testimonianza culturale avente valore di civiltà. Questa definizione ha provocato alcune critiche da parte di esponenti della cultura e della dottrina giuridica. Per alcuni giuristi, infatti, i Beni Culturali sono un’entità materiale, ma nello stesso tempo bisogna rendersi conto che la loro funzione è essenzialmente di natura immateriale. La commissione Franceschini si è interessata anche alla distinzione tra valore culturale e valore patrimoniale. Anche in questo caso sono scesi in campo alcuni giuristi, in particolare Massimo Severo Giannini, che più volte ha avuto modo di ribadire che il “bene culturale” è al tempo stesso un bene patrimoniale e per questo motivo può addirittura non esistere. 1.1 1.2 CAPITOLO 1 Proprio per questo motivo, l’inserimento di un qualsiasi bene nella categoria dei Beni Culturali deve avere un interesse di natura storico–culturale. Il concetto è interessante, soprattutto da un punto di vista legislativo, in quanto analizzando gli articoli 1 e 2 del D.Lgs. 490/99 (il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di Beni Culturali e Ambientali) si notano gli elementi essenziali delle due leggi di tutela del 1939 (n.1089 e n.1497), dato che entrambe le norme parlano di opere che presentano: un «interesse artistico, storico, numismatico» (art. 2, comma a), un «interesse particolarmente importante» (art. 2, comma b) o un «eccezionale interesse» (art. 2, comma c). A supporto di quanto appena detto è possibile notare come, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico, i beni di pubblica utilità in riferimento all’art. 826 c.c. sono considerati patrimonio della collettività. Valorizzazione, conservazione e tutela sono sempre stati aspetti molto importanti per le opere d’arte del nostro Paese ed hanno favorito la creazione di un catalogo che le rendesse ancora di più “opere vive”. Nasce così l’esigenza da parte del Ministero per i Beni Culturali e le Attività Culturali di istituire, con il D.P.R. n. 805 del 3.12.1975, l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD). 1.2 STANDARD DELL’ICCD Valorizzazione,conservazione e tutela, come già detto, sono tre aspetti molto importanti per i Beni Culturali. Quindi, la necessità della catalogazione sistematica come azione conoscitiva, è alla base di qualsiasi intervento di tutela e valorizzazione del patrimonio storico artistico. “Tutela” è da intendersi non solo come pianificazione di interventi conservativi e di restauro, ma anche come possibile certificazione di appartenenza del bene al patrimonio nazionale. “Valorizzazione” va intesa come diffusione della conoscenza sui BB.CC. non più legata solo ai mezzi tradizionali, quali pubblicazioni o esposizioni, ma grazie alle nuove tecnologie informatiche, sempre Beni culturali e tecnologia 1.3 più aperta ai mezzi multimediali, come banche dati e banche immagini consultabili, magari in tempo reale, tramite Internet. Oggi la catalogazione costituisce uno strumento indispensabile per ogni attività di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio culturale. La scheda di catalogo rappresenta la “carta d’identità” di un dato bene ed i suoi elementi conoscitivi consentono di predisporre con maggior consapevolezza e scientificità sia la programmazione degli interventi di restauro da parte di Soprintendenze ed Istituti competenti sia la valutazione del bene, costituendo il supporto essenziale per l’eventuale recupero dei beni illegittimamente asportati. Precedentemente alla creazione dell’Istituto Centrale del Catalogo e Documentazione, (ai sensi del D.P.R. 13.12.1975, n. 805, art. 13), sono stati eseguiti lavori di schedatura a seconda della disponibilità economica. Il lavoro svolto con la legge 145/92, spinta dall’esigenza dell’apertura delle frontiere, ha introdotto il criterio dell’inventariazione, prevedendo soltanto la raccolta dei dati essenziali del bene e della condizione giuridica, con l’obiettivo di pervenire a risultati significativi in tempi brevi. Negli anni Settanta, l’Istituto sopra indicato, ha elaborato la metodologia generale per lo sviluppo della catalogazione territoriale promuovendo e coordinando l’attività esecutiva di catalogazione e di documentazione, al fine di costituire e gestire il catalogo generale dei beni di interesse archeologico, storico, artistico ed ambientale. Naturalmente, la raccolta di una così grande quantità di informazioni e di materiale cartaceo ha presentato notevoli problemi di conservazione e di gestione, pertanto l’Istituto, per permettere una migliore fruizione della banca dati, ha introdotto l’informatica, ossia la scienza che si occupa del trattamento automatico delle informazioni (negli ultimi anni c’è stata una vera e propria rivoluzione digitale fatta di Bit — base dell’informazione — unità di misura dell’informatica). 1.4 CAPITOLO 1 Slide dell'ICCD: Il Dato Catalografico è rappresentato dai dati Alfanumerici–Iconografici–Riferimenti Cartografici; questa e le altre slide similari sono trattedalla presentazione dell'istituto nel loro sito: www.iccd.beniculturali.it La slide esplicativa dell’ICCD riporta a proposito del dato catalografico informatizzato non solo la componente alfanumerica, ma anche quella iconografica che, come vedre-mo in seguito, sarà sempre più di provenienza digitale diretta. 1.3 HARDWARE E SOFTWARE INFORMATICI Proprio grazie all’informatica è stato necessario impostare un nuovo “linguaggio”, che col tempo è andato perfezionandosi dando vita ad una nuova strutturazione dei dati organizzati con la massima disgregazione delle informazioni. All’inizio degli anni Novanta l’Istituto ha predisposto e realizzato gli strumenti software per l’informatizzazione, quali SAXA e suc- Beni culturali e tecnologia 1.5 cessivamente DESC e, in fase più avanzata dei lavori, il programma Mercurio e Apollo, per il controllo dei dati informatici e per la valutazione degli standard schedografici. Per la compilazione della scheda si è resa necessaria la normalizzazione dei paragrafi, dei campi e dei sottocampi, i quali, a prescindere dalla tipologia della scheda stessa, hanno la medesima denominazione e, dove è possibile, la medesima struttura normativa.Ad esempio, per citarne alcuni: i codici, la localizzazione, la definizione dell’oggetto, il formato e la risoluzione dell’immagine iconografica. La trasformazione del “catalogo cartaceo” in “catalogo informatico”, ha provocato non solo l’inserimento di lessici controllati nella redazione delle voci schedografiche, ma anche la preponderante introduzione di immagini digitali. In primis queste erano tratte dalle vecchie riproduzioni su carta fotografica tramite processi di scannerizzazione ed ora, come accennato, direttamente da foto digitale. Slide dell'ICCD: Normalizzazione dei Dati. Il Thesaurus Multilingue comprende, come è evidenziato in rosso, un Archivio Fotografico 1.6 CAPITOLO 1 È importante precisare che fin dal 1999, le direttive dell’Istituto Centrale del Catalogo Unico hanno stabilito il minimo dei requisiti necessari all’identificazione del bene catalogato, attraverso l’utilizzo del formato internazionale di scambio UNIMARC, nel rispetto delle normative internazionali in uso per tipo specifico di materiale. A tal proposito si veda il CD curato dall’ICCD e dal Ministero dei Beni e le Attività Culturali Thesaurus Multilingue del corredo ecclesiastico contenente 4000 termini e 2500 immagini. Tutto questo a riprova che le immagini fotografiche sono parte integrante e importante della scheda di catalogo. 1.4 IL FUTURO È DIGITALE Si è visto che l’ICCD si è interessato in modo approfondito anche alla documentazione fotografica e le foto costituiscono parte integrante della scheda di catalogo a prescindere dal livello. La documentazione fotografica, sia essa destinata alla catalogazione per l’ICCD o per altri usi in ambito dei BB.CC., deve fornire tutti gli elementi atti all’approfondimento e alla integrazione delle informazioni, anche di quelle non indicate in fase di descrizione. Negli ultimi anni è cambiata la considerazione del materiale fotografico: oggi si considera un documento da tutelare la foto stessa, dunque per quanto riguarda la ripresa fotografica non ci si può affidare alla libera interpretazione del fotografo, ma sono stati stabiliti parametri e canoni. Relativamente all’introduzione del colore nelle riprese fotografiche la prima esperienza è stata condotta con il progetto speciale di catalogazione previsto dalla legge 160/88. La fotografia può essere di tipo “analogico” o “digitale”, diversi solo nel modo in cui viene registrata l’immagine. La fotografia digitale non stravolge dunque i principali aspetti ottici della fotografia, che restano assolutamente inalterati e determinanti. È necessario, però, precisare che anche con il digitale gli errori di ripresa non sempre possono essere modificati al computer. La fotografia digitale certamente aiuta in molti aspetti, anche escludendo l’introdotta Beni culturali e tecnologia 1.7 potenzialità di fotoritocco artistico, ma le basi di ripresa fotografica restano di prioritaria importanza. Il segreto di una corretta fotografia non è da ricercarsi nel mezzo analogico o digitale impiegato, bensì nella capacità d’utilizzo, avendo buone nozioni di fotografia. La tecnologia applicata agevola il fine, che però non deve essere confuso con il mezzo preferito ed utilizzato allo scopo. La fotografia, come vedremo più avanti, è influenzata da moltissimi parametri e può variare anche a seconda dell’oggetto che si riprende: quest’ultimo determina un diverso fattore di assorbimento e riflessione luminosa. Le sperimentazioni finalizzate all’acquisizione in digitale delle immagini fotografiche nel campo dei BB.CC. sono state condotte in maniera costante dall’ICCD nel corso degli anni Novanta. L’Istituto si è reso progressivamente conto che la fotografia digitale, a differenza di quella analogica, oltre alle differenze tecniche sopra citate, permette l’immediata visualizzazione della qualità dell’immagine scattata, riducendo i tempi e i costi. In particolare, gli sforzi legati allo sviluppo di metodologie operative per la riproduzione delle opere d’arte hanno condotto all’elaborazione di una serie di interessanti documenti e normative da parte dell’Istituto.Tra i più importanti vi sono la Normativa per l’acquisizione digitale delle immagini fotografiche e la Normativa per la strutturazione e il trasferimento dei dati. Slide dell’ICCD: rappresentazione grafica delle tre Normative 1. Alfanumeriche 2. Cartografiche 3. Iconografiche 1.8 CAPITOLO 1 1.5 L’ACQUISIZIONE DI IMMAGINI IN DIGITALE: NORME Le immagini a corredo delle schede catalografiche devono, per prima cosa, assoggettarsi a quattro tipi di normative, che riguardano: la ripresa, la digitalizzazione, il trasferimento dati e le schede, come riportato nella slide successiva. Per quanto concerne le normative di ripresa digitale, ai fini di un controllo della qualità e della risoluzione dell’immagine i criteri richiesti sono: Livello DESCRIZIONE A Immagini ad altissima risoluzione spaziale utilizzate soprattutto per la riproduzione digitale dell’originale fotografico attraverso la stampa e l’uso di scanner o fotocamere digitali professionali. B Immagini di media risoluzione spaziale utilizzate soprattutto per la consultazione delle diverse tipologie di schede. C Immagini francobollo, da utilizzare per schematizzare le immagini sullo schermo; la riduzione delle immagini avviene grazie a dei software appositi. I tre livelli di acquisizione delle immagini citati in tabella (A,B e C) fanno riferimento a specifici formati da utilizzare durante le procedure di ricerca fotografica del catalogo. Entrando nel dettaglio, per il Livello A è previsto l’uso del formato PNG, mentre per i Livelli B e C il riferimento è in particolare al formato JPEG; tali metodi saranno trattati in seguito. Per quanto concerne la resa cromatica valgono le seguenti considerazioni: — il tono primario della scala presente nell’inquadratura è il bianco; — l’inquadratura deve consentire di ottenere la migliore “leggibilità” complessiva del bene; — l’illuminazione deve essere uniforme (fatta eccezione per quelle opere che presentano decorazioni o lavorazioni superficiali: vasi, bassorilievi, ecc.), radente o incisiva a seconda del caso; Beni culturali e tecnologia 1.9 — i riflessi vanno eliminati; — servono scale metriche (per oggetti di lato inferiore a 10 cm); — è necessaria la scala cromatica (per consentire una più fedele riproduzione in fase di stampa); — il bene va decontestualizzato (quadro generale e particolare); — il fondale va scelto opaco (preferibilmente carta o molto sfocato); — per gli oggetti di dimensioni ridotte e particolari occorre usare la scala metrica posta lungo un lato del fotogramma nonché la scala dei grigi. Slide dell’ICCD: le Normative Iconografiche si dividono in: - Normative di Ripresa - Normative di Digitalizzazione - Normative di Schede - Normative di Trasferimento 1.10 CAPITOLO 1 1. Metodo di compressione PNG (PORTABLE NETWORK GRAPHICS) Il metodo PNG è standardizzato per la compressione (processo di elaborazione matematica) delle immagini senza perdita di qualità. Il PORTABLE NETWORK GRAPHICS (PNG) è stato realizzato in sostituzione del vecchio formato GIF a partire dal 1995, dopo che la società che deteneva il brevetto sul metodo di compressione ha reclamato il pagamento dei diritti d’autore. Questo metodo supporta tre principali tipi di immagini: 1. a colori: immagini con 8bit per colore e con 16 bit di profondità; 2. a toni di grigio: immagini codificate utilizzando 1,2,4,8 e 16 bit per pixel; 3. con tavolozza associata/immagini (palette) il numero dei colori può variare da 1 a 256. La compressione PNG ha inoltre il vantaggio di essere libera da copyright e permette l’inserimento di stralci di testo, anch’essi comprimibili. 2. Metodo di compressione JPEG (Joint Photographic Experts Group) Questo metodo si riferisce soltanto ad una famiglia di metodi di compressione e non rappresenta uno specifico formato standard di file. La compressione JPEG è una procedura che, mediante l’applicazione di algoritmi specifici e complessi, consente di ridurre il peso in byte dell’immagine allo scopo di facilitarne la gestione e l’archiviazione. Tale risultato viene conseguito riassumendo e descrivendo con formule i dati contenuti nell’immagine suddivisa in matrici di 8x8 pixel (nella fotografia tradizionale l’immagine impressa sulla pellicola è composta da tanti cristalli detti “grana” della pellicola, che si trovano anche nelle immagini digitali. A differenza della pellicola, dove la grana assume trame e forme diverse, nella fotografia digitale i pixel hanno forma poligonale sempre esattamente identica in base sia al sensore che l’ha generata sia allo strumento utilizzato per la rappresentazione). Beni culturali e tecnologia 1.11 La compressione JPEG applica algoritmi con perdita di dati, perciò le immagini salvate in questo modo comportano sempre una perdita di qualità che, per giunta, peggiora ad ogni nuova compressione. Un file JPEG potrà quindi mantenere la qualità iniziale anche copiandolo più volte, ma peggiorerà la sua originaria qualità se aperto e risalvato in diverse riprese. È dunque buona norma mantenere sempre una copia dell’originale prima di iniziare sessioni di trattamento immagine e/o fotoritocco che nelle lavorazioni intermedie dovrà essere salvato in modalità non compressa TIFF o altro. Terminate le lavorazioni, potrà nuovamente essere salvato in JPEG compresso subendo, di fatto, la seconda ed ultima compressione, che non apporterà perdite qualitative percettibili. In fase di salvataggio JPEG è inoltre possibile stabilire il grado di compressione: più esso è alto, più l’immagine risulta “leggera”, ma anche più scarsa in termini qualitativi; (a pagina 1.16 parleremo del formato RAW). STRUTTURAZIONE, IL TRASFERIMENTO E L’ARCHIVIAZIONE DI DATI: NORME 1.6 LA È una riedizione delle norme per la strutturazione dei dati alfanumerici del catalogo dei Beni Culturali emanate negli anni 1986,1990 e 1994. Per quanto concerne le modalità da rispettare nella strutturazione dei dati, anche ai fini della parte iconografica, occorre innanzitutto fare riferimento alla tipologia stessa delle schede, i cui elementi sono stati organizzati in base a quattro categorie: — beni immobili; — beni mobili; — beni demo–antropologici; — archivi di controllo. Ciascuna categoria è a sua volta organizzata in sottolivelli che concorrono a determinarla. La categoria 1, ad esempio, per i beni immobili comprende i livelli descritti dalla seguente tabella. 1.12 CAPITOLO 1 BENI IMMOBILI TIPO DESCRIZIONE A Architettonico PG Parchi e giardini SI Sito archeologico MA/CA Monumenti e complessi archeologici (prototipo) Slide dell’ICCD: Le Normative di Alfanumeriche si dividono in: - Normative di Catalogazione - Normative Vocabolari Authority File - Normative di trasferimento Dati Alfanumerici