la concorrenza sleale

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“LA CONCORRENZA SLEALE”
PROF. RENATO SANTAGATA DE
CASTRO
Università Telematica Pegaso
La concorrenza sleale
Indice
1
LIBERTÀ DI CONCORRENZA E DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE. ---------------------- 3
2
GLI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. LE FATTISPECIE TIPICHE. --------------------------------------- 8
3
(SEGUE): GLI ALTRI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. ----------------------------------------------------- 12
4
LE SANZIONI ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 14
5
LE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE FRA IMPRESE E CONSUMATORI. --------------------- 16
6
(SEGUE): LA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE E COMPARATIVA. --------------------------------------------- 19
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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La concorrenza sleale
Libertà di concorrenza e disciplina della
concorrenza sleale.
La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di una pluralità di
imprenditori che offrono beni o servizi identici o similari e che, conseguentemente, sono in
competizione fra loro per conquistare il potenziale pubblico dei consumatori e conseguire il
maggior successo economico. Nel perseguimento di questi obiettivi ciascun imprenditore gode di
ampia libertà di azione e può porre in atto le tecniche e le strategie che ritiene più proficue, non solo
per attrarre a sé la clientela ma anche per sottrarla ai propri concorrenti. E la competizione può
essere anche rude e pesante, dato che in un sistema basato sulla concorrenza non è tutelabile e non é
tutelato l'interesse degli imprenditori a conservare la clientela acquisita. Il danno che un
imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è danno
ingiusto e risarcibile.
Se procurarsi un vantaggio sul mercato a scapito di quanti altri sullo stesso mercato operano
rientra nelle regole della concorrenza, è tuttavia interesse generale che la competizione fra
imprenditori — come del resto ogni forma di competizione — si svolga in modo corretto e leale. Da
qui la necessità di predeterminare talune regole di comportamento che devono essere osservate
nello svolgimento della concorrenza, al fine di impedire «colpi bassi» e vittorie truffaldine. La
necessità, in breve, di distinguere fra comportamenti concorrenziali leali, e perciò leciti e consentiti
dall'ordinamento, e comportamenti all'opposto sleali e perciò illeciti e vietati.
Il codice di commercio del 1882 non conteneva specifiche disposizioni al riguardo ed il
vuoto normativo fu originariamente colmato dalla giuri-sprudenza applicando in materia la
disciplina generale dell’illecito civile. I comportamenti concorrenziali giudicati riprovevoli erano
sanzionati come atti illeciti, cosi dando luogo alla progressiva formazione giurisprudenziale di un
complesso di regole del gioco della concorrenza.
Nell'ordinamento vigente la stessa esigenza è soddisfatta in via legislativa dalla disciplina
della concorrenza sleale.
I principi base della disciplina della concorrenza sleale possono essere così fissati in prima
approssimazione. Nello svolgimento della competizio-ne fra imprenditori concorrenti è vietato
servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai «principi della correttezza professionale». I fatti, gli atti
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e i comportamenti che violano tale regola sono atti di concorrenza sleale (c.d. illecito
concorrenziale).
Tali atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa. Inoltre, essi sono
repressi e sanzionati anche se non hanno ancora arrecato un danno ai concorrenti.
Basta infatti il cosiddetto danno potenziale.
Concorrenza sleale ed illecito civile sono quindi istituti che posti a raf-fronto, presentano nel
contempo affinità e divergenze. La disciplina della concorrenza sleale germina da quella dell'illecito
civile e tutt'oggi assolve, nell'ambito specifico dei rapporti fra imprenditori concorrenti, la funzione
di prevenire e reprimere atti suscettibili di arrecare un danno ingiusto. Funzione quindi
sostanzialmente identica a quella che l'ordinamento assegna alla disciplina generale dell'illecito
civile, ma perseguita con gli adattamenti imposti dalla specificità del tipo di illecito che si vuol
reprimere (illecito concorrenziale); specificità che determina non trascurabili differenze di
disciplina. E ciò in quanto la repressione degli atti di concorrenza sleale: a) è svincolata dal
ricorrere dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa; b) è ulteriormente svincolata dalla
presenza di un danno patrimoniale attuale; c) è attuata attraverso sanzioni tipiche (inibitoria e
rimozione), che non si esauriscono nel risarcimento dei danni, del resto solo eventuale.
Si tratta in definitiva di una disciplina speciale rispetto a quella genera-le dell'illecito civile e
che, a ben vedere, offre agli imprenditori una tutela sotto più profili più energica nelle relazioni con
i concorrenti. E ciò al fine di evitare che pratiche scorrette alterino un «valore» di interesse
generale: il corretto funzionamento del mercato, quale assicurato dal gioco della concorrenza.
L'interesse tutelato dalla disciplina della concorrenza sleale non è perciò esauribile
nell'interesse degli imprenditori a non veder alterate le proprie probabilità di guadagno per effetto di
comportamenti sleali dei concorrenti. Tutelato è anche il più generale interesse a che non vengano
falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico e non siano tratti in inganno i
destinatari finali della produzione: i consumatori. Al riguardo è tuttavia necessario evitare facili
suggestioni e fuorviami equivoci.
Gli interessi diffusi dei consumatori di certo non possono considerarsi del tutto estranei al
sistema della concorrenza sleale e devono perciò essere tenuti presenti nel valutare la «lealtà» delle
pratiche concorrenziali. Non possono essere però elevati ad interessi direttamente tutelati da tale
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disciplina, come pure da più parti si è in passato sostenuto. Infatti, necessario ma al tempo stesso
sufficiente perché un atto configuri concorrenza sleale è l'idoneità dello stesso a danneggiare i
concorrenti. E tale Tatto resta anche se non arreca alcun pregiudizio ai consumatori e pure se questi
ne traggono un vantaggio. Tipico è il caso delle vendite sottocosto finalizzate all'annientamento dei
concorrenti (c.d. dumping), pacificamente inquadrate fra gli atti di concorrenza sleale.
Risolutiva é poi la circostanza che legittimati a reagire contro gli atti di concorrenza sleale
sono solo gli imprenditori concorrenti o le loro associazioni di categoria; non invece il singolo
consumatore o le relative associazioni. Il che implica, inevitabilmente, che l'interesse dei consumatori a non essere tratti in inganno nelle loro scelte è tutelato dalla di-sciplina della concorrenza
sleale solo in modo mediato e riflesso; nei limiti in cui la reazione degli imprenditori lesi dall'altrui
comportamento sleale assicura la lealtà della competizione e la trasparenza del mercato.
Il sistema della concorrenza sleale non può essere perciò deputato ad assolvere una diretta
funzione protettiva dei consumatori. In particolare, salvo i casi più gravi in cui ricorrono gli estremi
per la repressione penale delle frodi in commercio, lascia questi ultimi esposti ai possibili inganni
dei mezzi di persuasione pubblicitaria, cui le imprese largamente ricorrono per orientare la domanda
verso i loro prodotti.
Tuttavia anche sotto questo profilo significativi passi avanti sono stati compi dal 1942 ad
oggi. All'originaria mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro gli inganni
pubblicitari ha infatti in un primo tempo supplito l'autonomia privata: con la volontaria adozione da
parte delle imprese del settore di un Codice di autodisciplina pubblicitaria, sul cui rispetto vigila un
apposito organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina). Al sistema di autodisciplina si è
poi affiancata una disciplina statale della pubblicità ingannevole, e da ultimo il d.lgs. 2-8-2007 n.
146 ha introdotto nel "codice del consumo" norme di tutela dei consumatori contro tutte le pratiche
commerciali scorrette. Si è cosi colmato il precedente vuoto legislativo.
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Ambito di applicazione della disciplina della concorrenza sleale.
La disciplina della concorrenza sleale regola i rapporti di coesistenza sul mercato fra
imprenditori concorrenti. La sua applicazione postula perciò il ricorso di un duplice presupposto:
a) la qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere (direttamente o
indirettamente) l'atto di concorrenza vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenze:
b) l'esistenza di un rapporto di concorrenza economica fra i medesimi.
Per contro, chi è leso nella propria attività di impresa da altro soggetto, che non è
imprenditore o non è suo concorrente, potrà reagire avvalendosi della meno favorevole disciplina
generale dell'illecito civile, sempre che ne ricorrano i presupposti. Inoltre, la sola sanzione
invocabile sarà il ristoro dei danni subiti.
Entrambi i presupposti di applicazione della disciplina della concorrenza sleale, sopra
enunciati, meritano tuttavia alcune puntualizzazioni.
Che soggetto passivo dell'atto di concorrenza sleale possa essere solo un imprenditore è
fuori contestazione, poiché solo nei confronti di chi è imprenditore può verificarsi la condizione
dell'idoneità dell'atto «a dan-neggiare l’altrui azienda», o meglio, l'altrui attività di impresa.
Lo stesso dato normativo alimenta invece qualche incertezza sulla ne-cessità che la qualità
di imprenditore debba essere rivestita anche dall'autore del comportamento sleale, affermandosi
testualmente che «compie atti di concorrenza sleale chiunque...».
Argomenti sia letterali che sostanziali inducono tuttavia la dottrina e la giurisprudenza
prevalenti a propendere per un'interpretazione restrittiva di tale formula. Invero, concorrente di un
imprenditore non può che esse-re altro imprenditore. E, soprattutto, per tale soluzione milita una
fonda-mentale esigenza di parità di trattamento, dato che «non si saprebbe davvero ravvisare la
giustificazione di una tutela privilegiata dell'imprenditore nei confronti di tutti i consociati, mentre
una tutela speciale dell'imprenditore nei confronti degli altri imprenditori perde il carattere di
privilegio data la stessa reciprocità della tutela». Né, a ben vedere, tale delimitazione è contraddetta
dalla giurisprudenza che applica la disciplina della concorrenza sleale a carico e a favore
dell'imprenditore che sta organizzando la propria attività o che si trova in fase di liquidazione.
Come visto, la qualità di imprenditore può essere acquistata nella fase organizzativa e non si perde
nella fase di liquidazione.
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È poi certo che l'imprenditore risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da
lui direttamente compiuti, ma anche per quelli posti in essere da altri, nel suo interesse e su sua
istigazione o specifico incarico. Infatti, l'art. 2598 n. 3, prevede espressamente che Tatto di
concorrenza sleale può essere compiuto anche indirettamente.
II secondo presupposto di applicabilità della disciplina della concorrenza sleale è l'esistenza
di un rapporto di concorrenza fra gli imprenditori e di concorrenza prossima o effettiva. Soggetto
attivo e soggetto passivo devono cioè offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano
destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei con-sumatori o bisogni similari o complementari.
E’ tuttavia opinione ormai pacifica che, nel valutare l'esistenza del rap-porto di concorrenza,
si deve tenere conto anche della prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo
merceologico in prodotti complementari o affini dell'attività dell'imprenditore che subisce l'atto di
concorrenza sleale (c.d. concorrenza potenziale). Perciò, ad esempio, dovranno considerarsi in
rapporto di concorrenza un produttore di acque minerali ed un produttore di bibite, un produttore di
liquori ed un produttore di estratti per liquori, un giornale a diffusione nazionale ed uno a diffusione
locale, e così via.
Un ulteriore passo avanti nell'estendere la disciplina della concorrenza sleale è stato poi
compiuto dalla giurisprudenza, con l'ammettere che essa è applicabile anche fra operatori che
agiscono a livelli economici diversi : produttore-rivenditore; grossista-dettagliante. Necessario ma
al tempo stesso sufficiente è «che il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa
categoria di consumatori», anche se diversa è la cerchia di clientela direttamente servita (c.d.
concorrenza verticale).
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Gli atti di concorrenza sleale. Le fattispecie
tipiche.
I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall'art. 2598 cod.
civ..
La norma individua innanzitutto due ampie fattispecie tipiche:
a) gli atti, di confusione;
b) gli atti di denigrazione e appropriazione di pregi altrui.
Enuncia poi una regola generale di chiusura, disponendo che costituisce atto di concorrenza
sleale «ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l'altrui azienda».
È indubbio che in quest'ultima formula sono racchiusi gli elementi che qualificano in
generale Tatto di concorrenza sleale e che, pertanto, anche le fattispecie tipiche si caratterizzano sia
per la scorrettezza professionale, sia per l'idoneità a danneggiare i concorrenti. Questi caratteri
devono però ritenersi sempre presenti, per valutazione legislativa tipica, negli atti inquadrabili nelle
due fattispecie tipizzate. Perciò, chi reagisce contro gli stessi non sarà tenuto a provare che il
comportamento del concorrente è idoneo a danneggiare la propria azienda. Inoltre, il giudice non
sarà te¬nuto a valutare se Tatto in questione contrasta con il parametro della correttezza
professionale. Tale valutazione è stata già compiuta dal legislatore in via preventiva e non può
essere disattesa nel caso concreto. In breve, la previsione legislativa di atti tipici di concorrenza
sleale risponde alla fi¬nalità pratica di restringere i margini di incertezza e di discrezionalità insiti
nella repressione fondata sull'applicazione della elastica clausola generale di chiusura.
Ciò fissato, analizziamo le due fattispecie tipiche.
È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con
l’attività di un concorrente. E lecito attrarre a sé l'altrui clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi
di mezzi che possono trarre in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e sull'identità
personale dell'imprenditore. Questi mezzi sono sleali in quanto sfruttano il successo sul mercato
conquistato dai concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento dell'altrui clientela.
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Molteplici sono le tecniche e le pratiche che un imprenditore può porre in atto per realizzare
la confondibilità dei propri prodotti e della propria attività con i prodotti e con l'attività di un
concorrente. Il legislatore ne individua espressamente due.
Innanzitutto, l'uso di nomi o di segni distintivi «idonei a produrre confusione con i nomi o
con i segni distintivi legittimamente usati da altri» imprenditori concorrenti.
La confondibilità può riguardare segni distintivi tipici (ditta, insegna e marchio) ed in tal
caso la tutela offerta dalla disciplina della concorrenza sleale integrerà quella offerta dalla disciplina
dei segni distintivi, come espressamente previsto dall'art. 2598. La confondibilità può altresì riguardare segni non protetti da altre disposizioni ed in tal caso il valore individuante degli stessi potrà
essere difeso solo invocando l'applicazione della disciplina della concorrenza sleale. È comunque
necessario che si tratti di segni distintivi legittimamente usati.
L'altra ipotesi di concorrenza sleale per confusione specificamente considerata è costituita
dall' imitazione servile dei prodotti di un concorrente. E tale la pedissequa riproduzione delle forme
esteriori dei prodotti altrui, attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti —
l'originale e l'imitato — provengono dalla stessa impresa.
L'imitazione deve però riguardare elementi formali non necessari e allo stesso tempo
caratterizzanti; idonei cioè a differenziare esteriormente quel dato prodotto dagli altri dello stesso
genere agli occhi della specifica clientela cui sono diretti. Non si ha perciò imitazione servile
quando vengono imitate forme comuni o ormai standardizzate e rinvenibili in ogni prodotto di quel
genere.
Rientra infine nella categoria in esame ogni altro mezzo idoneo a creare confusione con i
prodotti o con l'attività di un concorrente.
La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale ricomprende:
a) gli atti di denigrazione, che consistono nel diffondere «notizie e apprezzamenti sui
prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito»;
b) 1’appropriazione di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente.
Comune ad entrambe le fattispecie è la finalità di falsare gli elementi di valutazione
comparativa del pubblico, attraverso comunicazioni indirizzate a terzi e in primo luogo avvalendosi
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dell'arma della pubblicità. Diverse sono però nei due casi le modalità con cui tale finalità è
perseguita. Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro
reputazione commerciale. Con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il
proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi e qualità che in realtà
appartengono a uno o più concorrenti.
Diverse sono le pratiche riconducibili nello schema della concorrenza sleale per
denigrazione.
a) Le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici
(ad esempio, la violazione di un proprio brevetto in-dustriale), quando la diffida sia priva di
fondamento o il suo contenuto oltrepassi i limiti della necessaria tutela del proprio diritto. E più in
generale. la divulgazione di notizie che possano screditare la reputazione com-merciale di un
concorrente.
b) La pubblicità iperbolica (o superlativa). Con tale forma di pubblicità si tende ad
accreditare l'idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi
(non oggettivi), che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti. Lecito è
invece il cosiddetto puffing, consistente nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei
propri prodotti, anche se non sempre è agevole stabilire la linea di confine con la pubblicità
ingannevole.
Anche l'appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche diverse.
Ne costituiscono forme tipiche la pubblicità parrassitaria (o per sottrazione) e la pubblicità
per riferimento (o per agganciamento).
La prima consiste nella mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti,
premi e comunque di caratteristiche positive che in realtà appartengono ad altri imprenditori del
settore. La seconda tende a far credere che i propri prodotti siano simili a quelli di un concorrente,
attraverso l'utilizzazione di espressioni come tipo, modello, sistema; e ciò al fine di avvantaggiarsi
indebitamente dell'altrui rinomanza commerciale.
Non sempre costituisce invece atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa.
Costituisce pubblicità comparativa ogni pubblicità che identifichi in modo esplicito o
implicito un concorrente, ovvero beni o servizi offerti da un concorrente. Essa consiste perciò nel
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confronto fra la propria attività e i propri prodotti e quelli di uno o più concorrenti, fatto in modo da
gettare discredito sugli altrui prodotti o sull'altrui attività. E ciò sia nell'ipotesi in cui si esprime un
proprio giudizio negativo sui concorrenti, sia nell'ipotesi in cui si utilizzano indagini di terzi
contenenti giudizi a sé favorevoli o sfavorevoli ai concorrenti.
In passato era controverso se la pubblicità comparativa fosse sempre illecita, ovvero dovesse
ritenersi consentita a determinate condizioni. E quest'ultima è la soluzione accolta dall'attuale
disciplina.
La comparazione è infatti lecita quando non è ingannevole, confronta oggettivamente
caratteristiche essenziali e verificabili (compreso eventualmente il prezzo) di beni o servizi
omogenei, non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o denigrazione del
concorrente. Non deve inoltre procurare all'autore della pubblicità un indebito vantaggio tratto dalla
notorietà dei segni distintivi del concorrente. La pubblicità comparativa non si può quindi ritenere
vietata in modo assoluto.
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(Segue): Gli altri atti di concorrenza sleale.
L'art. 2598 chiude l'elencazione degli atti di concorrenza sleale affer-mando che è tale «ogni
altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui
azienda».
E questo un criterio elastico che affida al giudice il delicato compito di rendersi interprete
della coscienza sociale del momento. E ciò al fine di stabilire se un comportamento concorrenziale,
diverso da quelli legislati-vamente tipizzati, sia o meno in armonia con i canoni di etica
professionale generalmente accettati e seguiti dal mondo degli affari (o dal settore cui appartengono
dati imprenditori), sempreché questi ultimi non contrastino con i principi di un ordinato e corretto
svolgimento del gioco della concorrenza quali oggi emergono, fra l'altro, dalla normativa posta a
tutela della struttura concorrenziale del mercato.
Fra gli atti contrari al parametro della correttezza professionale rientra innanzitutto la
pubblicità menzognera: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad
alcun concorrente (e perciò non inquadrabile nella fattispecie tipica dell'appropriazione di pregi).
Costituisce certamente illecito concorrenziale la pubblicità menzognera specificamente
diretta a screditare i prodotti di altro imprenditore. Ma illecita si deve considerare anche la
pubblicità menzognera non specificamente lesiva di un determinato concorrente, quando il
messaggio pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico falsandone gli elementi di giudizio,
con danno potenziale per tutti i concorrenti del settore. Il punto è stato in passato controverso; oggi
però non si può più dubitare che ogni forma di pubblicità ingannevole sia contraria alla correttezza
imprenditoriale.
Chiare indicazioni in tal senso erano già offerte da oltre un ventennio dal sistema di
autodisciplina pubblicitaria: il relativo codice espressamente vieta la pubblicità ingannevole, così
dimostrando come lo stesso ceto imprenditoriale abbia autonomamente riconosciuto la slealtà della
pubblicità basata sulla menzogna e sull'inganno. Ogni residuo dubbio
è stato comunque rimosso dalla disciplina legislativa della pubblicità in-gannevole, che
prevede specifici rimedi ma nel contempo fa salva l'applicazione della disciplina della concorrenza
sleale.
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Alla medesima conclusione si deve inoltre pervenire per le altre condotte che il codice del
consumo qualifica come pratiche commerciali scorrette, dato che anche in questo caso è fatta salva
l'applicazione della disciplina della concorrenza sleale, oltre agli specifici rimedi previsti dalla
relativa disciplina.
Fra le altre forme di concorrenza sleale ricondotte dalla giurisprudenza nella categoria
residuale del n. 3 dall'art. 2598, vanno ricordate:
concorrenza parassitaria. Essa consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative
imprenditoriali. Imitazione attuata, per un verso, con accorgimenti tali da evitare la piena
confondibilità delle attività, e, per altro verso, con un disegno complessivo che denota il pedissequo
sfruttamento dell'altrui creatività.
Il boicottaggio economico. E tale il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un'impresa in
posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate
(boicottaggio collettivo) di fornire i propri prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli
dal mercato. Inquadrando tali comportamenti fra gli atti contrari alla corret-tezza professionale, la
giurisprudenza tende a reprimere le forme più vistose di monopolio di fatto, per le quali oggi però
soccorre anche la disciplina antimonopolistica.
La sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti (dumping). E’ tuttavia controverso se
il dumping costituisca atto di concorrenza sleale in ogni caso, ovvero solo quando sia finalizzato
all'eliminazione dei concorrenti ed all'acquisizione di una posizione monopolistica, cosi
configurando un comportamento vietato anche dalla legislazione antimonopolistica.
La sottrazione ad un concorrente di dipendenti o anche di collaboratori autonomi
particolarmente qualificati, quando venga attuata con mezzi scorretti e col deliberato proposito di
trarne vantaggio con danno dell'altrui azienda. Per aversi concorrenza sleale non è però sufficiente il
semplice allettamento basato sull'offerta di condizioni economiche migliori.
Fra gli atti di concorrenza sleale è oggi espressamente compresa anche la violazione di
segreti aziendali.
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Le sanzioni
La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni. La sanzione
tipica dell'inibitoria e quella, comune all'illecito civile, del risarcimento dei danni.
Interesse primario dell'imprenditore che subisce un atto di concorrenza sleale è quello di
ottenere la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla ancor prima che l'atto gli
abbia causato un danno patrimoniale. A tale finalità risponde l'azione inibitoria. Essa è diretta ad
ottenere una sentenza che accerti l'illecito concorrenziale, ne ini-bisca la continuazione per il futuro
e disponga a carico della controparte i provvedimenti reintegrativi necessari per far cessare gli
effetti della concorrenza sleale. L'azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla
colpa del soggetto attivo dell'atto di concorrenza sleale e dall'esistenza di un danno patrimoniale
attuale per la controparte.
Ricorrendo anche questi ultimi presupposti, il concorrente leso potrà ottenere anche il
risarcimento dei danni. E l'esercizio della relativa azione è facilitato dal fatto che, in deroga alla
disciplina generale dell'illecito civile, la colpa del danneggiante si presume una volta accertato l'atto
di concorrenza sleale.
Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in
uno o più giornali a spese del soccombente. Sanzione questa particolarmente ambita dal concorrente
vittorioso e che i giudici tendono a concedere con larghezza
L'azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall'imprenditore o
dagli imprenditori lesi. La relativa legittimazione è poi espressamente riconosciuta anche alle
associazioni professionali degli imprenditori e agli enti rappresentativi di categoria, «quando gli atti
di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale». Il che induce a
ritenere che le associazioni professionali possano agire in giudizio anche se l'atto non danneggi
specificamente alcun associato.
Fra i soggetti legittimati a promuovere la repressione della concorrenza sleale non sono
invece menzionati né i singoli consumatori né le associa-zioni rappresentative dei loro interessi. I
primi, se direttamente danneggiati, potevano in passato chiedere solo il risarcimento dei danni sulla
base della meno favorevole disciplina generale dell'illecito civile. La situazione è però oggi
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parzialmente cambiata quando ricorrono i presupposti per l'applicazione della disciplina specifica
per la regressione delle pratiche commerciali scorrette e della pubblicità ingannevole.
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La concorrenza sleale
Le pratiche commerciali scorrette fra imprese e
consumatori.
Come anticipato, la disciplina della concorrenza sleale, di per sé inido-nea a tutelare
adeguatamente i consumatori, è stata dapprima affiancata da una specifica disciplina contro la
pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita ed ora da una più generale normativa per
la repressione di tutte le pratiche commerciali scorrette fra imprese e consumatori. Con tali
interventi normativi l'interesse del pubblico dei consumatori ad essere tutelato contro gli effetti
distorsivi di pratiche commerciali illecite assurge ad interesse direttamente e specificamente tutelato
dall'ordinamento statale. A tal fine è stato introdotto un controllo amministrativo affidato
all'Autorità garante della concorrenza e del mercato istituita dalla legge antitrust.
Pratica commerciale è in senso lato qualsiasi condotta posta in essere da un professionista in
relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori.
Rientrano perciò in questa definizione tutte le attività realizzate dall'im-prenditore prima
dell'operazione commerciale, come la promozione del prodotto, ma anche durante o dopo, come le
modalità di informazione del consumatore o la fornitura di assistenza post-vendita. Ed anche le
omissioni, quando sono idonee a trarre in inganno il consumatore o possono essere considerate
altrimenti scorrette. Ne sono invece escluse le pratiche commerciali realizzate nei confronti di altri
professionisti.
Una pratica commerciale è scorretta quando, cumulativamente:
a) non è conforme al grado di diligenza che il consumatore può ragionevolmente attendersi
dal professionista in base ai principi generali di correttezza e buona fede nel settore di attività del
professionista stesso;
b) ed è idonea a falsare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo
ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Sono valutate con maggior rigore le pratiche commerciali che, per le loro caratteristiche o
per il prodotto, possono prevedibilmente influenzare uno specifico gruppo di consumatori
particolarmente vulnerabile. La correttezza della condotta del professionista dovrà in tal caso essere
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La concorrenza sleale
accertata in relazione alla normale capacità di discernimento di un individuo appartenente a quella
categoria debole, anche se la pratica raggiunge un gruppo più ampio di consumatori.
La legge delinea inoltre due categorie tipiche di pratiche commerciali scorrette: le pratiche
ingannevoli e quelle aggressive.
Sono ingannevoli le pratiche che, in quanto contengono informazioni false oppure per la
presentazione o in qualsiasi altro modo, sono idonee a trarre in errore il consumatore medio su
elementi essenziali dell'opera-zione commerciale e possono indurlo ad assumere una decisione di
natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso.
La legge specifica dettagliatamente su quali elementi l'errore è essenzia-le: caratteri del
prodotto, prezzo, qualifiche del professionista, diritti del consumatore, ecc..
Sono altresì ingannevoli le pratiche commerciali che in concreto com-portino confusione
con i prodotti o i segni distintivi di un concorrente, ov-vero siano realizzate in violazione dei codici
di comportamento che il pro-fessionista ha dichiarato di rispettare; così pure le pratiche che possono
minacciare la sicurezza dei minori o inducono i consumatori a condotte imprudenti.
Lo stesso vale inoltre quando il professionista tace o presenta in modo oscuro informazioni
determinanti affinché il consumatore medio possa as-sumere consapevolmente le proprie scelte
d'acquisto.
Sono aggressive le pratiche che mediante molestie oppure coercizione fisica o morale siano
idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio
e possono indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe
preso.
La legge indica alcuni elementi da prendere in considerazione nel deter-minare l'esistenza di
una molestia o di una coercizione (tempi, luogo, per-sistenza, minacce, ecc.), fermo restando che
l'aggressività della pratica va stabilita tenuto conto di tutte le caratteristiche del caso concreto.
Per semplificare l'accertamento degli illeciti, sono inoltre elencate una serie di pratiche che
devono in ogni caso essere considerate ingannevoli o aggressive : veri e propri "cataloghi degli
orrori" delle pratiche commerciali scorrette, che non hanno tuttavia carattere tassativo e non
impediscono dunque la repressione di condotte non contemplate.
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La concorrenza sleale
L'Autorità garante, d'ufficio o su istanza di qualsiasi interessato, inibisce le pratiche
commerciali illecite, ne elimina gli effetti e commina sanzioni pecuniarie a carico del
professionista.
Se giudica la pratica commerciale scorretta, l'Autorità può anche disporre la pubblicazione
della pronuncia, nonché di un'apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che la
condotta illecita continui a produrre effetti. Nei casi meno gravi, tuttavia, può chiudere il procedimento mediante un accordo con cui il professionista si impegna a porre fi-ne all'infrazione, senza
ulteriori sanzioni. In caso di urgenza, l'Autorità può disporre anche la sospensione provvisoria della
pratica commerciale.
L'intervenuta regolamentazione pubblicistica non preclude la possibilità di azionare
preventivamente eventuali sistemi di autodisciplina, even-tualmente organizzati da associazioni
imprenditoriali e professionali, co-me il Giurì di autodisciplina pubblicitaria.
È infatti previsto che le parti interessate possono rivolgersi ad organismi volontari ed
autonomi di autodisciplina per ottenere l'inibitoria degli atti di pubblicità ingannevole o
comparativa, convenendo, nel contempo, di astenersi dall'adire l'Autorità garante fino alla
pronuncia definitiva del Giurì. Inoltre, ogni interessato può richiedere all'Autorità la sospensione
del procedimento iniziato dinanzi alla stessa da altri soggetti legittimati, in attesa della pronuncia
dell'organo di autodisciplina. La sospensione può essere disposta per un periodo non superiore a
trenta giorni.
In ogni caso la decisione dell'organo di autodisciplina non pregiudica il diritto del
consumatore di adire l'Autorità garante o di promuovere un'a-zione giudiziaria.
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La concorrenza sleale
(Segue): La pubblicità ingannevole e
comparativa.
L'interesse pubblico alla proibizione delle pratiche commerciali scorrette assume poi
specifico rilievo nel caso di pubblicità ingannevole o della pubblicità comparativa illecita, in
ragione dell'ampia diffusione e della pericolosità che il mezzo pubblicitario può avere. La materia è
perciò oggetto di una disciplina speciale che precisa i criteri a cui deve attenersi la comunicazione
pubblicitaria corretta: inoltre, il controllo amministrativo esercitato dall'Autorità garante della
concorrenza e del mercato è più ampio, in quanto è volto a reprime l'impiego di pratiche
pubblicitarie scorrette non soltanto nei confronti dei consumatori, ma anche nell'ambito di relazioni
commerciali fra professionisti. E così superato il precedente vuoto legislativo, cui aveva solo in
parte sopperito l'autonomia privata.
A partire dalla metà degli anni sessanta, i più importanti mezzi di pubblicità hanno infatti
dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi
pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato (il
codice di autodisciplina pubblicitaria), che fra l'altro espressamente vieta la pubblicità ingannevole.
Un organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina), con sede a Milano, vigila sul rispetto
del codice e funge da organo giudicante. L'azione dinanzi al Giuri può essere promossa da chiunque
si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice o su iniziativa del Comitato di
controllo dallo stesso previsto. Le decisioni del Giurì sono insindacabili.
Il codice di autodisciplina e le decisioni del Giuri sono tuttavia vincolanti, su base
contrattuale, solo per i mezzi pubblicitari che hanno aderito all'autodisciplina e per gli operatori
economici che degli stessi si avvalgono. Il sistema di autodisciplina non risolve perciò in modo
compiuto i pro-blemi di tutela dei consumatori.
Con il d.lgs. 74/1992, all'autodisciplina si affianca la disciplina legislativa; al controllo
privato dei Giurì il controllo pubblico dell'Autorità garante. Ed identici principi operano per la
pubblicità comparativa illecita in seguito alla disciplina della stessa introdotta dal d.lgs. 67/2000. La
normativa della materia è dettata attualmente dal d.lgs. 2- 8-2007 n. 145.
Ciò fissato, vediamo in sintesi i punti salienti della disciplina legislativa in tema di
pubblicità ingannevole.
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La concorrenza sleale
Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché
chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole
dandone una nozione particolarmente ampia.
E’ infatti ingannevole «qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua
presentazione, induce in errore o può indurre in errore» le persone alle quali è rivolta e che «possa
pregiudicare il loro comporta-mento economico ovvero...ledere un concorrente». Sono inoltre
dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di
pubblicità è ingannevole: caratteri dei beni, prezzo, ecc..
Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi e per quella
suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti. E infine vietata ogni forma di pubblicità
subliminale, di pubblicità cioè che stimoli l'inconscio.
Ogni interessato può denunciare l'uso di pubblicità ingannevole o comparativa illecita
all'Autorità garante; quest'ultima può procedere anche d'ufficio, esercitando i poteri repressivi e
sanzionatoli già esaminati per le pratiche commerciali scorrette.
Come visto, resta ferma inoltre la possibilità di ricorrere preventivamente al Giurì di
autodisciplina.
«Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un organizzazione comune per la
disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese» (art. 2602). E' questa l'attuale
nuova nozione dei consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, introdotta dalla legge 105-1976, n. 377, che ha anche modificato in più punti l'originaria disciplina dettata dal codice civile (artt.
2602-2620).
La nuova ampia definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi schema associativo tra
imprenditori idoneo a ricomprendere due distinti fenomeni della realtà.
Un consorzio può essere costituito al fine prevalente o esclusivo di disciplinare — limitandola - la
reciproca concorrenza sul mercato fra imprenditori che svolgono la stessa attività o attività similari
(consorzio con funzione anticoncorrenziale). In tal caso il contratto di consorzio si pre¬senta come una delle
possibili manifestazioni dei patti limitativi della con-correnza previsti e regolati dall'art. 2596; patto che si
caratterizza vuoi per la reciprocità delle limitazioni, vuoi per la creazione di un'organizzazione comune cui è
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La concorrenza sleale
demandato il compito di dare attuazione al patto restrittivo della concorrenza. Esempio classico di consorzio
anticoncorrenziale è quello costituito per il contingentamento della produzione o degli scambi fra
imprenditori concorrenti. Un consorzio che ha esclusivamente tale oggetto, è un puro contratto limitativo
della reciproca concorrenza.
Più imprenditori possono però dar vita ad un consorzio anche per conseguire un fine parzialmente o
totalmente diverso: «per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese». In tal caso il consorzio
rappresenta anche uno strumento di cooperazione inte-raziendale finalizzato alla riduzione dei costi di
gestione delle singole imprese consorziate (consorzio con funzione di coordinamento).
A queste forme di cooperazione reciproca ricorrono in modo particolare le imprese di piccole e
medie dimensioni, per raggiungere e recuperare competitività sul mercato attraverso la riduzione delle spese
generali di esercizio.
Consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione interaziendale si prestano a valutazioni
politiche diverse e sollevano problemi legislativi diversi quando si consideri il profilo pubblicistico della loro
incidenza sulla struttura concorrenziale del mercato.
I consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino
situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l'interesse generale. Esigenza questa oggi soddisfatta dalla
disciplina antimonopolistica in tema di intese, esposta nel capitolo precedente.
A valutazioni diverse danno invece luogo i consorzi di cooperazione interaziendale. Essi rispondono
all'esigenza di conservare e di accrescere la competitività delle imprese e, in quanto favoriscono la
sopravvivenza delle piccole e medie imprese, concorrono a pre-servare la struttura concorrenziale del
mercato. I consorzi che perseguono tale finalità sono perciò guardati con favore dal legislatore, che ne
agevola la costituzione ed il funzionamento con una serie di provvidenze creditizie e tributarie a favore dei
consorzi e delle società consortili fra piccole e medie imprese, che rispondono a determinati requisiti.
Ciò tenuto presente, è da aggiungere che, sul piano della disciplina di diritto privato, consorzi
anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione aziendale sono regolati in modo tendenzialmente uniforme.
Altra è però la distinzione rilevante sul piano civilistico. Ed è la distinzione fra consorzi con (sola)
attività interna e consorzi destinati a svolgere (anche) attività esterna. In entrambi si dà luogo alla creazione
di un'organizzazione comune; ma nei consorzi con sola attività interna il compito di tale organizzazione si
esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra i con-sorziati e nel controllare il rispetto di quanto convenuto. Il
consorzio in quanto tale non entra in contatto e non opera con i terzi. Nei consorzi con attività esterna,
invece, le parti prevedono l'istituzione di un ufficio comune, destinato a svolgere attività con i terzi
nell'interesse delle imprese consorziate. Ed è questa la struttura più diffusa dei consorzi di cooperazione
interaziendale, mentre i consorzi limitativi della concorrenza possono in concreto assumere entrambe le
forme.
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