ISSR «N. Stenone» - Appunti di teologia sacramentaria – 2009/10 : Penitenza
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P ENITENZA
Il sacramento della penitenza appartiene al vissuto della fede cristiana, prima che alla sua elaborazione teorica. Il suo nome (confessione, penitenza, riconciliazione) rivela i diversi atteggiamenti
con cui è dal popolo cristiano. Nella crisi che ne attraversa la pratica è opportuno partire dalla domanda sul «perché» ci si confessa oggi. La risposta non può prescindere dai cristiani di oggi
(l’uomo) né dal confronto con l’origine e il fondamento del sacramento stesso (la Rivelazione). Le
due realtà si corrispondono: la Rivelazione è predestinata all’uomo, l’uomo va compreso nella sua
integrità. Così la teologia, in quanto corrisponde alle necessità dell’uomo, non cade nell’ideologia e,
in quanto corrisponde alla Rivelazione, non si rinchiude nelle aporie antropologiche: le risposte alle
domande dell’uomo sono al di là dell’uomo. Molti studi sul sacramento della penitenza partono
dall’analisi della dimensione antropologica della colpa e del peccato: p. es. il manuale di RamosRegidor. Il nostro approccio, invece, partirà dalla situazione teologica del sacramento: il perdono
dei peccati di un battezzato. Si tratta di una dimensione ecclesiologica. Nella prospettiva della Rivelazione, Dio in Gesù Cristo ha detto la parola definitiva del perdono, strutturato nella forma
dell’alleanza (2Cor 5,19-21): la Parola di Dio crea, fa nascere il popolo dell’alleanza nell’incontro
definitivo con Gesù Cristo e nella fedeltà alla sua parola. Tuttavia, anche all’interno del popolo
dell’alleanza continuano a esistere peccato e perdono. La chiesa muore nel peccato del cristiano e
rivive nel suo perdono sacramentale. Comprende se stessa in una rinnovata accoglienza, dopo quella battesimale. Questa situazione particolare si trova codificata in un particolare rito della chiesa, di
cui cercheremo le tracce all’interno del NT insieme alla testimonianza di una cura pastorale da parte
della comunità verso i cristiani peccatori. Prassi e fede della chiesa apostolica avranno particolari
sviluppi nella chiesa dei padri e dei secoli successivi. L’excursus teologico e storico mostra come,
attraverso forme diverse, la chiesa ha sempre vissuto in modo rituale la riconciliazione dei cristiani
pentiti del loro peccato. Questo modo rituale ed ecclesiale, con cui il cristiano porta a termine la
propria «conversione» dal peccato, è un rito sacramentale: il sacramento della penitenza.
I Esiste un rito della penitenza nel NT?
Dal NT non sembra possibile raccogliere elementi per una procedura penitenziale, in vista del
perdono o dello scioglimento dai peccati dei battezzati. 1Tm 5,22, dove l’imposizione delle mani da
parte di Timoteo è messa in qualche modo in relazione con una realtà di peccato, non sopporta
un’interpretazione esegetica penitenziale condivisa dagli studiosi. Il gesto può essere inteso sia come parte di un rito di ordinazione sia come riconciliazione di un peccatore. Probabilmente, unici ge-
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sti liturgici penitenziali sono nella 1Gv (1,9 all’interno della sezione 1,5-2,2; 5,16s) e in Gc 5
(nell’interpretazione della tradizione orientale, fin da Origene e Giovanni Crisostomo). A questi testi si aggiunge la questione del rapporto fra l’esclusione dalla comunità e la riconciliazione con essa, legata alla prassi di escludere e riammettere all’eucaristia (cf Mt 18 e 1Cor 5). La frazione del
pane o cena del Signore si presenta come un gesto della comunità cristiana (1Cor 10,17; 11; Gc 2,14), e la riconciliazione del cristiano peccatore coincide con la koinônia al Corpo di Cristo.
Nella prima comunità cristiana la conversione (metanoia) è oggetto dell’annuncio apostolico, rivolto a pagani e giudei. Dalla resurrezione di Cristo e dal dono del suo Spirito nasce la chiesa, costituita oggettivamente con la remissione dei peccati e la fede vissuta secondo la via della comunità, in
un rapporto organico con il sacramento del battesimo. L’annuncio (kerygma) è per tutti, in vista della loro conversione (At 2,21; 17,30s; 26,20). Sfocia in uno stile di vita (At 11,23; 26,20). Secondo
una terminologia giudaica, la fede cristiana è presentata come via del Signore (At 18,25). L’intero
processo avviene in una modalità comunitaria, nella consapevolezza che un’azione divina guida
l’intero processo. La comunità cristiana avverte una esigenza di santità. La conversione battesimale
comporterebbe un atteggiamento spirituale definitivo in perfetta coerenza, mostrando la singolarità
dell’evento battesimale, che pone il credente in una situazione di intrinseca e oggettiva incompatibilità col peccato (cf Mt 13,24-30.36-43).
I.A
Per una comprensione del rapporto fra peccato e comunità ec-
clesiale
Nella logica della nuova alleanza, Dio continua a chiamare il suo popolo al pentimento. Il problema è quello di una certa tollerabilità: entro quali limiti la comunità cristiana può conservare il
cristiano peccatore nella pienezza di relazioni che la costituiscono? Tutti devono confessarsi peccatori (1Gv e Gc) e pregano per essere liberati dal male (Mt 6; Gc 5). Certe azioni, però, come gli elenchi presenti in varie pagine del NT, conducono la comunità a fare di tutto perché il fratello si
converta e si penta (Mt 18; 1Gv 5; Gc 5). Ma questa tensione verso il fratello, in attesa del suo libero pentimento, può giungere persino all’esclusione dalla vita comunitaria. In 1Gv 1,9 abbiamo un
gesto penitenziale comunitario, probabilmente liturgico: “Se riconosciamo (omologheô) i nostri
peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa”. In 1Gv 5,16s
la comunione (con Cristo e con i fratelli) trova espressione nella preghiera efficace secondo la volontà di Cristo:
Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita; s’intende a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte: c’è infatti un peccato che conduce
alla morte; per questo dico di non pregare. Ogni iniquità è peccato, ma c’è il peccato che non conduce alla morte.
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Per i fratelli peccatori i cristiani sono come dei parakletoi (invocatori, chiamati accanto), come
lo è Cristo per tutti (1Gv 2,1). Per alcuni non si può pregare. La situazione va intesa in parallelo
all’impeccabilità escatologica di 1Gv 3,6-9. Così nel “peccato che conduce alla morte” non sono in
gioco né il perdono di Dio né la possibilità di conversione, ma è la situazione in quanto tale che si
manifesta in questo particolare peccato e alla quale essa rimanda. Non pregando per questa irriducibile avversità a Dio, la comunità dei figli di Dio, nella comunione escatologica con Dio, manifesta
di non potere essere contemporaneamente in comunione con l’iniquità. Il punto fondamentale è la
comunione escatologica con Dio che la preghiera manifesta. L’intolleranza al peccato diventa esclusione del peccatore, se questi, nella sua ostinazione, rende come stabile la sua incompatibilità
con la santità richiesta alla comunità. Troviamo allora nel NT espressioni come “non essere ricevuto
in casa e non salutato” (2Gv 10), “essere consegnato a Satana” (1Cor 5,5), essere escluso dalla preghiera della comunità o dei singoli (1Gv 5; Gv 17,9). Poiché la chiesa, in quanto mistero
dell’alleanza, in qualche modo è il mistero della salvezza, l’atto di esclusione dalla comunità ecclesiale ha un significato molto pesante. L’incompatibilità riguarda le situazioni. La questione della
salvezza dei singoli resta impregiudicata: non si dà mai azione peccaminosa nella storia umana che
sia irremissibile davanti a Dio. La radicale novità cristiana implica una conversione fondamentale
(Rm 2,4), a Dio (2Ts 1,9) o al Signore Gesù (2Cor 3,16). Alcuni testi mostrano la progressione di
questa radicale novità (Gal 6,15s; 2Cor 5,14-18; Col 3,9-11): chi accoglie nella fede la parola di
salvezza passa dall’essere nel peccato all’esistenza in Cristo. 2Ts 3,6-15 offre un parallelo a Mt 18.
Facendo forza sulla sua autorità (v. 6), Paolo impone alla comunità di separarsi dai fratelli peccatori. In modo simile l’apostolo interviene autorevolmente in 1Cor 5. Giudica ed espelle dalla comunità il cosiddetto “incestuoso”, ma il gesto è avvertito come comunitario. L’azione ha valore per
il suo rapporto con Gesù Cristo, nel cui nome è posta. Si tratta di un aspetto della missione che
l’apostolo ha ricevuto da Cristo, di un provvedimento disciplinare in vista della salvezza escatologica. La possibilità di una conversione non sembra preventivata.
II L’evoluzione storica della prassi e dei riti penitenziali
II.A
La penitenza nei primi secoli della chiesa
Nei primi secoli il discorso penitenziale non è separabile dall’ecclesiologia. In sintonia con i dati
del NT, il problema verte sulla possibilità di una remissione dei peccati per i cristiani. Ogni tipo di
risposta implica differenti visioni di chiesa e la soluzione di principio non si fonda sulla gravità del
peccato, ma sull’ecclesiologia di base. Accettando una penitenza cristiana, la chiesa dei padri fu
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concorde nel determinare che la chiesa terrena comprende i peccatori, che la grazia battesimale non
implica l’impeccabilità. Nacque così la formazione di una prassi ecclesiastica adeguata in vista della
riammissione dei peccatori nella piena comunione ecclesiale. Il cristiano peccatore pentito deve essere riammesso in senso reale nella chiesa. La sua posizione si definisce in rapporto alla chiesa, che
ha il dovere (cioè la missione) di preoccuparsi dei cristiani peccatori e della loro salvezza escatologica. La chiesa non considera irreparabile l’esclusione del peccatore, ma agisce in un determinato
modo per riconciliarlo con se stessa.1 La testimonianza più chiara è data dal Pastore di Erma, dove
si parla della “rivelazione dell’unica penitenza” (Erma, Il pastore, Mandato 4, 1-3). Gli studiosi
hanno proposto varie interpretazioni sul valore dell’unicità di questa riconciliazione. In ogni caso,
l’unicità della penitenza stabilita nel Pastore diverrà un principio pastorale mantenuto senza eccezioni per tutta la penitenza antica e ne guiderà l’evoluzione. La posizione del Pastore si riflette anche nella Traditio apostolica, che riconosce al vescovo il potere di rimettere i peccati, secondo
quanto concesso agli apostoli (TA 3). L’unicità della penitenza in Erma si fonda su una prospettiva
escatologica. Invece Clemente alessandrino la fonda sulla psicologia del cristiano peccatore: un
pentimento ripetuto mostrerebbe che quel cristiano non ha mai avuto fede (cf Eb 10,25). Ulteriore
testimone dell’unicità della penitenza è Tertulliano. Per lui la penitenza non conosce limiti nella sua
estensione a qualunque peccato, ma resta categoricamente unica (pœnitentiæ secundæ et unius, Tertulliano, de pœnitentia 5. 9)
Due ecclesiologie entrarono in conflitto: la chiesa che presume di essere quella dei profeti e dei
martiri (Novaziano) e la chiesa dei vescovi, che si sente chiamata a raccogliere in sé tutti gli uomini.
Sono state formulate due ipotesi. Secondo la «progressiva affermazione dell’istituzione ecclesiastica», dal rigorismo iniziale si sarebbe passati alla giustificazione di un intervento da parte della gerarchia ecclesiastica. La chiesa gerarchica si attribuisce un potere ricevuto da Cristo: nascerebbe così la penitenza pubblica. L’ipotesi non regge davanti a numerose obiezioni. La chiesa è unica, anche
in sede storica. Non si può contrapporre una chiesa dei primi secoli a quella del NT. Il problema del
cristiano peccatore si trova già all’interno del NT (Lc e Mt su tutti; solo Eb ha testi difficili da integrare). La chiesa del III secolo non presenta alcun segno di possedere una nuova coscienza ecclesiologica. L’ipotesi di un rigorismo delle origini finisce per semplificare troppo i dati storici. Certamente è esistito un rigorismo di fondo nella visione della vita da parte della giovane comunità cristiana, ma la sua spiegazione non va cercata nelle direzioni prese dal montanismo e da Ippolito,
bensì in tendenze varie e situazioni particolari, del tutto comprensibili all’interno di una comunità in
continua crescita. La seconda ipotesi configura una precoce trasformazione penitenziale. Una qual1
L’ipotesi di una chiesa del NT intesa come comunità al cui interno ci fosse posto solo per chi non peccasse dopo il battesimo (Taufetheorie = teoria battesimale) si è rivelata senza fondamento. E’ vero, però, che tale visione è stata
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che forma di penitenza privata sarebbe stata la forma originaria, dalla quale si sarebbe evoluta la
penitenza pubblica per motivazioni pastorali della chiesa, in modo parallelo allo sviluppo del catecumenato. Ma i dati a disposizione non fanno conoscere che un solo istituto penitenziale, quello cosiddetto pubblico, attraverso cui l’intera comunità ecclesiale giudica il peccatore e lo riaccoglie in
sé.
II.A.1
La penitenza pubblica dei primi secoli
Nella chiesa antica si forma un istituto penitenziale pubblico con alcuni elementi che lo caratterizzano: una struttura comunitaria e pubblica, sotto la presidenza del vescovo, dove la realtà spirituale di rottura e pacificazione nella comunione ecclesiale trova un segno liturgico nella “scomunica
pubblica” (allontanamento e riaccoglienza nella chiesa) e nel rapporto con l’eucaristia. Questa penitenza antica presenta una dimensione comunitaria molto forte. La comunità collabora con i presbiteri e il vescovo nell’individuazione dei colpevoli (correndo il rischio di possibili delazioni), nelle loro esclusione e ammissione rituali. L’idea di chiesa come mistero implica anche l’idea di una reale
solidarietà ecclesiale nell’espiazione o purificazione dei peccati. La comunità intera “lega e scioglie” nell’azione del vescovo e sotto la sua personale responsabilità. In questa situazione, la figura
del vescovo assume un ruolo determinante. Solo in subordine notiamo la presenza di presbiteri e
diaconi. Nella riconciliazione dei peccatori pentiti è lui il vero responsabile della pace da concedere
o rifiutare. Il peccato del cristiano non è mai un atto privato; in modo analogo non lo è nemmeno il
suo cammino di purificazione. Il peccatore si esclude dalla verità ecclesiale, determinando
un’espressione esteriore, ma reale del suo allontanamento dal mistero della chiesa. Nella solidarietà
mistica della chiesa, il vescovo scioglie e lega, escludendo dall’eucaristia, all’interno di un processo
penitenziale di per sé ecclesiologico. Questo processo penitenziale della chiesa antica portava ad
una coincidenza pratica tra la pace con la chiesa e la partecipazione all’eucaristia. Il peccato, incompatibile con la santità battesimale e l’appartenenza alla comunità, è per sé incompatibile anche
con l’eucaristia. S’introduce una gradualità rituale nella riammissione dei penitenti e la si misura sul
progressivo avvicinamento all’eucaristia. Vi sono “coloro che piangono” all’esterno della porta di
chiesa, implorando i fratelli che passano di pregare per loro. Poi “coloro che ascoltano” la liturgia
della parola, nel vestibolo, sotto il portico, ed escono, dopo i catecumeni, al momento della preghiera dei fedeli. Infine “coloro che restano prostrati” all’interno del tempio fino a “coloro che partecipano” nuovamente ai sacri misteri. Notiamo già un parallelismo fra l’ammissione dei catecumeni ai
sacramenti dell’iniziazione cristiana e la riammissione dei penitenti all’eucaristia, culmine
propria di alcune frange ereticali della chiesa dei primi secoli.
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dell’iniziazione sacramentale. Il parallelismo è espresso chiaramente in testi come la Didascalia degli apostoli:
Come dunque battezzi un pagano e poi lo accogli, così anche imporrai la mano a costui, mentre tutti pregano
per lui, e poi lo introdurrai e lo farai partecipe nella chiesa e per lui starà in luogo di un battesimo l’imposizione della mano; infatti o per l’imposizione della mano o per il battesimo ricevono la partecipazione dello Spirito santo (Didascalia II, 41).
Ogni cristiano ha bisogno di conversione, ma non per tutti i peccati si viene esclusi
dall’Eucaristia. E’ divenuto comune esprimere in modo sintetico i peccati oggetto della penitenza
ecclesiastica con una triade di peccati pubblici: apostasia, adulterio e omicidio volontario. In realtà,
possediamo diverse liste diocesane di peccati sottoposti alla penitenza pubblica, dove il criterio
dell’elenco appare più di tipo pastorale che sistematico, legato alle situazioni concrete delle varie
comunità. Il procedimento penitenziale è un processo in se stesso liturgico. Prende avvio quando il
peccatore decide di convertirsi nella penitenza; è ancorato alla preghiera comunitaria e
all’eucaristia; la riconciliazione e la pace coincidono con la partecipazione all’eucaristia. Ha
un’espressione rituale propria nell’imposizione delle mani da parte del vescovo, accompagnata da
una preghiera di assoluzione che mantiene sempre una forma deprecativa.
Il cristiano peccatore si rapporta con la chiesa, ma la sua integrazione rinnovata nella chiesa non
è puramente sociologica. La riconciliazione termina con il perdono di Dio e la partecipazione allo
Spirito santo. Livello ecclesiologico e teologico (pneumatologico) si integrano. La purificazione
battesimale viene rinnovata, anche se i padri distinguono anche a livello terminologico fra il perdono battesimale (aphesis o rimozione) e quello penitenziale (metanoia o conversione). Questa seconda conversione (pœnitentia secunda) è detta anche “più faticosa” (Cipriano, Tertulliano).
L’impegno penitenziale verso la riammissione nella chiesa si pone con diverse prospettive. Il ritorno a Dio coincide con la concessione della pace con la chiesa fatta attraverso i vescovi. Per Clemente e Origene esiste una progressiva rieducazione attraverso il pentimento e il distacco dal peccato: è
una prospettiva pedagogica. Nei battezzati peccatori vi è un qualcosa di ecclesiologico che si esprime in modo contraddittorio: il simbolo da loro espresso (la chiamata alla santità) viene ridotto a una
dimensione esteriore, per quanto mantenga ancora qualcosa della verità della chiesa. In sintesi, nella
chiesa antica esiste un particolare rito per la riconciliazione dei cristiani peccatori e pentiti. Il processo sistematico operato dalla scolastica, ponendo tutto l’accento sull’essenza dei sacramenti, ne
ha oscurato aspetti significativi come quello ecclesiologico-comunitario.
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II.B
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Evoluzione della penitenza dal VII secolo a Trento
Elemento comune alle tradizioni cristiane d’oriente e d’occidente è il passaggio dall’unica penitenza pubblica, dove il punto fondamentale è l’esclusione liturgica dalla comunità fino al ritorno in
essa, segnato dalla rinnovata partecipazione all’eucaristia, verso una “penitenza privata”, ripetibile e
conferita da singoli presbiteri. In questa traiettoria le tradizioni orientale e occidentale si distinsero
sottolineando aspetti diversi del cammino comune. La tradizione orientale ha sviluppato maggiormente una dimensione “spirituale” della penitenza, mentre in occidente l’accentuarsi del rigorismo
penitenziale ha sottolineato la modifica dell’istituto penitenziale verso una penitenza individuale e
privata.
Con la strutturazione del cammino catecumenale, anche la prassi penitenziale venne ad avere
modalità precise. L’ingresso nell’ordo dei penitenti avveniva di solito il mercoledì delle ceneri.
Un’orazione deprecativa da parte del vescovo immetteva coloro che si riconoscevano peccatori
nell’ordo dei penitenti; seguiva la loro espulsione liturgica dalla comunità e l’inizio del cammino
penitenziale. La penitenza poteva durare anni, al termine dei quali avveniva la riconciliazione alla
comunione ecclesiale per mezzo dell’imposizione delle mani da parte del vescovo, il giovedì santo.
La partecipazione all’eucaristia durante la veglia pasquale assimilava ancora di più l’istituto penitenziale al cammino catecumenale: unicità, processo liturgico di preparazione, concluso con la partecipazione ai sacramenti pasquali. La durezza di questa disciplina penitenziale, adatta solo a tempi
di fervore religioso, portò al suo abbandono. In modo più preciso si tese sempre più a differirla nel
tempo, sia per la sua caratteristica di unicità sia per le pesanti implicazioni ascetiche che
l’accompagnavano (dai digiuni prolungati all’astinenza dai rapporti coniugali). Abbiamo persino testimonianze di vescovi che, per senso pastorale, invitano i loro cristiani a differire l’ingresso
nell’ordine dei penitenti. Da notare che i membri del clero non erano soggetti a questa disciplina
penitenziale. Nel caso di peccati gravi da loro commessi, sacerdoti e vescovi venivano privati della
facoltà di esercitare il ministero, pena canonica che sembrava sufficiente alla chiesa antica. In Oriente il passaggio fondamentale da una penitenza pubblica a una penitenza individuale è accompagnato da una visione della penitenza come funzione medicinale: in fondo, per la visione orientale il
peccato non è che una malattia dell’animo e lo Spirito santo guarisce il cuore dell’uomo. I peccati
per i quali si ricorre alla penitenza sono l’idolatria, peccati sessuali particolarmente gravi,
l’omicidio, la magia, l’aborto. Nelle chiese locali viene a essere istituito l’ufficio di penitenziere.
Tre punti caratterizzano la penitenza nell’evoluzione che il sacramento ha ricevuto all’interno della
tradizione orientale: la compunzione, la confessione dei peccati e la qualità spirituale del potere delle chiavi. Tutti e tre conservano mettono in evidenza la loro origine monastica. La compunzione o
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pentimento per i peccati, un pentimento che presso i padri del deserto giungeva talvolta fino alle lacrime, è la dimensione fondamentale e permanente dell’esistenza cristiana. La confessione non assume in oriente la forma di elenco di peccati, più o meno particolareggiato, ma equivale all’apertura
totale del cuore e alla manifestazione dei pensieri al padre spirituale, perché li giudichi e indichi la
via da percorrere per essere guarito. Proprio la figura del “padre” nello Spirito è paradigmatica per
indicare la dimensione spirituale che assume la potestà di perdonare e guarire dai peccati. Siamo
lontani dalla visione giuridica che s’impose nella teologia medievale in occidente.
Il periodo storico lungo il quale l’occidente cristiano determinò l’attuale forma del sacramento
della penitenza va dal termine dell’epoca patristica alla contestazione rivolta al sacramento da parte
dei riformatori. Intervenendo contro di loro, il concilio di Trento metterà una parola più o meno definitiva su alcune acquisizioni teologiche. In questo lasso di tempo il concilio Lateranense IV del
1215 si pone come una cerniera fra due epoche distinte. Fra i provvedimenti disciplinari presi dal
concilio troviamo alcune precisazioni sul sacramento della penitenza che segnerano una svolta col
passato e determinarono una traiettoria precisa per la successiva riflessione teologica. Quindi abbiamo una suddivisione sommaria in quattro punti: prima del Lateranenese IV, le precisazioni del
concilio (1215), la riflessione teologica che segue al concilio, la nuova interpretazione portata avanti da Lutero e la risposta tridentina.
II.B.1.a I mutamenti in Occidente prima del Lateranense IV
Dopo il IV secolo la consuetudine dell’unica penitenza induce una prassi di riconciliazione attraverso una limitazione delle libertà personali. La permanenza nell’ordo pœnitentium richiede la
continenza sessuale anche per i coniugati, l’esclusione dalla milizia e dall’uso delle armi, la sospensione di ogni attività commerciale. I peccati per i quali ci si sottopone alla penitenza pubblica si
moltiplicano, soprattutto integrando i comportamenti particolarmente dannosi per la vita sociale: la
chiesa comincia a identificarsi con una società cristiana. All’idolatria o il sacrilegio, adulterio o fornicazione, omicidio e falsa testimonianza si aggiungono tutti i crimini che la legge civile punisce
con la pena capitale: sequestro di persona, falsificazione di testamenti o di monete, corruzione elettorale, distrazione di fondi pubblici. La riconciliazione segue il completamento del cammino penitenziale. Nei secoli VI-VII assistiamo in Gallia a una trasformazione della natura dell’ordo
pœnitentium. In vista di una maggiore conversione o per la propria situazione spirituale alcuni cristiani chiedono di entrare nell’ordine dei penitenti per motivi puramente ascetici e dovuti al loro
fervore. In senso radicalmente opposto inizia l’uso di obbligare all’ingresso nell’ordo per misure
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coercitive. L’idea classica della penitenza canonica come venne realizzata nella chiesa dei primi secoli si è definitivamente trasformata.
Dal VI secolo comincia a diffondersi la «penitenza tariffata», reale innovazione nella prassi penitenziale della chiesa occidentale. Di origine monastica irlandese, viene diffusa in Europa attraverso le missioni dei monaci irlandesi. Le distinzioni dalla penitenza pubblica sono notevoli. Nata dalla
consuetudine monastica di rivolgere i propri pensieri al padre spirituale o al superiore della comunità, la nuova penitenza porta con sé le modalità proprie di questo rapporto. Prima di tutto assume un
carattere “privato” e “ripetibile”, perché il peccatore pentito si rivolge in segreto al singolo sacerdote e vi ricorre ogni volta che ne ha bisogno. Per venire in aiuto all’equo discernimento dei confessori nascono dei libri detti “tariffari”, dove per ogni categoria di peccati sono indicate le opere penitenziali opportune. Questa penitenza, detta “insulare” dalla sua origine o “tariffata”, si sviluppò insieme al diffondersi di questi libri penitenziali, ad uso del sacerdote. Il nuovo rito prevedeva la confessione dei peccati fatta a un sacerdote che proponeva un’opera penitenziale, compiuta la quale si
ritornava dal sacerdote per ricevere la riconciliazione. Per aiutare i sacerdoti nella scelta delle opere
penitenziali si diffusero delle tabelle di pene, dove si precisava una tassazione precisa in proporzione alle colpe accusate. Da qui il nome di penitenza tariffata. Compiuta l’opera penitenziale prescritta il penitente ritorna dal sacerdote che gli offre la riconciliazione e il perdono di Dio. Nello specchietto seguente risaltano le differenze fra la penitenza pubblica antica e quella nuova, cosiddetta
“tariffata”:
penitenza pubblica antica
unicità
pubblica, rito ecclesiale comunitario
perdono da parte del vescovo
gesto di riconciliazione che insiste
sull’imposizione delle mani
cammino penitenziale integrato nell’intero rito
ecclesiale
penitenza tariffata
possibilità di ripetizione
privata, rito coi soli penitente e ministro
perdono da parte del sacerdote
gesto di riconciliazione che mette l’accento sulla formula di assoluzione
opera penitenziale come “soddisfazione giuridica”. In un primo tempo precede l’assoluzione,
poi la seguirà
La diffusione di questo nuovo modo di riconciliazione non avvenne senza reazioni. Un canone
del concilio di Toledo del 589 si scaglia contro coloro che hanno la “presunzione esecrabile” di ricevere la riconciliazione con la chiesa “ogni volta che peccano”(cf ca. 11). Che si trattò di
un’opposizione inutile, risalta dal canone 8 del concilio di Chalon, del 650. Appena mezzo secolo
dopo si riconosce della massima utilità la penitenza dopo ogni confessione dei peccati. In sede storica, per un certo periodo di tempo le due forme penitenziali sussistettero in contemporanea. Con
una certa approssimazione, possiamo dire che i peccati pubblici venivano sottoposti a penitenza
pubblica, quelli privati a penitenza tariffata. Con l’introduzione del cosiddetto “pellegrinaggio penitenziale” il quadro generale si complica, ma possiamo ugualmente indicare una generale pratica pe-
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nitenziale suddivisa in tre forme rituali. La penitenza tariffata o privata, reiterabile, è quella indicata
per i peccati gravi compiuti da parte dei chierici e per i peccati di “normale amministrazione” compiuti dai fedeli. Accanto troviamo ancora la penitenza antica, che viene ad assumere due forme distinte. La classica “penitenza pubblica solenne”, retaggio della penitenza canonica della prima chiesa, ancora non reiterabile, mantiene la sua dimensione ecclesiale. Il rito è presieduto dal vescovo, i
penitenti vestono con cilicio e sono cosparsi di cenere. Ci si sottopone ad essa solo per gravissimi
crimini, come l’omicidio del coniuge, del genitore o del figlio, di un sacerdote. La partecipazione ad
essa è interdetta ai membri del clero, per quanto gravemente possano avere peccato. La seconda e
nuova forma di penitenza pubblica è quella detta semplicemente “penitenza pubblica” o “peregrinatio” e consiste in un vero e proprio pellegrinaggio penitenziale. Inizia con un rito preciso e al termine del tempo fissato si riceve il perdono dal sacerdote. Nato come un peregrinare senza meta, la devozione ai santuari dove sono conservate le reliquie dei santi lo trasforma in un pellegrinaggio verso
una meta precisa (Roma, Santiago, San Michele, Colonia; poi Gerusalemme). Il pellegrinaggio penitenziale è reiterabile. Viene intrapreso per espiare quei peccati gravi che non raggiungono
l’efferatezza di quelli da sottoporre alla penitenza pubblica solenne. Ma il discorso cambia per i
membri del clero. Esclusi in ogni caso dalla penitenza pubblica solenne, qualora si siano macchiati
di quegli stessi crimini sono invitati a intraprendere questi pellegrinaggi, allontanandosi al tempo
stesso dalle comunità dove potrebbero creare uno scandalo difficilmente sopportabile.2
La situazione si evolve rapidamente. Nel XIV secolo la penitenza pubblica solenne non è più
praticata. La penitenza tariffata si evolve attraverso la generalizzazione dell’uso di concedere il perdono subito dopo la confessione dei peccati. Pertanto, all’interno del rito sacramentale la «confessione» diventa più importante della soddisfazione e su di essa cade l’insistenza della pastorale: il
termine «confessione» passa a indicare il rito sacramentale. Questo processo è dovuto anche alla
degenerazione di un aspetto insito nel meccanismo della penitenza tariffata: la sostituzione delle
pene, meccanismo al quale è legata la nascita delle indulgenze. Davanti alle onerose opere penitenziali previste, di stampo monastico e quindi difficilmente adattabili nella vita di tutti i giorni, nasce
l’idea di possibili commutazioni: un’opera penitenziale gravosa per la sua durata può essere commutata con un’altra più intensa ma di durata minore. In genere al digiuno si sostituisce la recita di
salmi. Ma il processo una volta innescato e trovando un fondamento teologico non si fermò più. La
commutazione passa a implicare offerte in denaro come elemosine o stipendi per un determinato
2
Al di là della poesia, bisogna rendersi conto della concreta tipologia di questi pellegrini. Membri del clero o
meno, erano tutti responsabili di crimini, dai quali non sempre si erano sinceramente pentiti. Inevitabilmente in queste
compagnie di pellegrini si poteva trovare un po’ di tutto. E non sempre al pellegrinaggio corrispondeva un cammino di
conversione dai peccati commessi.
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numero di Messe. Si concede alle persone che se lo possono permettere di compensare con denaro
chi si sottopone al loro posto alla pratica penitenziale.
II.B.1.b Evoluzione teologica prima del Lateranense IV
Accanto al mutare della disciplina penitenziale, la riflessione teologica compie un cammino collaterale. Agli inizi del XII secolo la penitenza viene considerata fondamentalmente una virtù cristiana, ma con la grande scolastica del XIII secolo diventa prima di tutto un sacramento. Pietro Lombardo è classico esponente della prima visione. La virtù della penitenza cristiana assume anche una
forma sacramentale, da comprendere all’interno della prima. Alla fine del XIII Duns Scoto è
l’esponente radicale della nuova impostazione che inquadra la penitenza partendo dal settenario sacramentale. Inoltre, i teologi scolastici distinguono due tipi di pentimento. Semplificando il discorso
abbiamo “la contrizione”, pentimento pieno perché informato dalla carità soprannaturale, e
“l’attrizione”, un pentimento che non deriva dall’amore soprannaturale, ma dalla paura delle pene o
conseguenze del peccato. La distinzione verrà in qualche modo consacrata dal concilio di Trento.
Una svolta rituale, carica di conseguenze teologiche, è la forma indicativa dell’assoluzione che si
diffonde con il concilio Lateranense IV: “Io ti assolvo…”. Nella scolastica del XII secolo il segno
sacramentale della penitenza viene individuato nella manifestazione esteriore davanti al ministro
della chiesa, per sottoporsi al giudizio di chi detiene la potestà delle chiavi. L’azione umana e sacramentale sul peccato, però, resta solo relativa ed espressiva dell’azione divina. La nuova formula
diffusa dal concilio favorisce nella scolastica del XIII lo spostamento d’accento sull’azione del sacerdote, attraverso la quale opera la potenza divina. Così per Scoto il sacramento della penitenza
consisterà formalmente nell’azione sacerdotale assolutoria. Solo la sintesi di Tommaso riuscirà a
mantenere un equilibrio comprensivo dei vari elementi che entrano in gioco nel rito sacramentale.
Il rinnovamento teologico del secolo XII coinvolge anche il sacramento della penitenza. La dimensione soggettiva del sacramento è approfondita nei suoi aspetti più interiori come il pentimento
o più esteriori, come la confessione e la soddisfazione. Tre fattori culturali incidono sulla riflessione
teologica: una nuova dimensione ecclesiale del peccato, l’inserimento della penitenza nel settenario
sacramentale e il pullulare dei movimenti eterodossi. L’orientamento agostiniano prevalente fa
comprendere la chiesa come «corpo di Cristo», integrando però la dimensione spirituale di Agostino
con il nuovo interesse per la dimensione giuridica e di potere. Pertanto, la comunione spirituale dei
credenti si esprime nell’unità della fede professata e nella partecipazione ai sacramenti ecclesiastici.
Da questo punto di vista, non solo eretici, scismatici e scomunicati sono esclusi dalla chiesa, ma sono ritenuti tali anche i peccatori. Costoro vengono reintegrati nella comunione ecclesiale attraverso
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il sacramento della remissione dei peccati, che attua una reale incorporazione alla chiesa. Abbiamo
un chiaro parallelismo fra battesimo e penitenza sacramentale.
In modo specifico, in relazione al sacramento della penitenza tre problemi chiedero ulteriori
precisazioni: la distinzione della penitenza cristiana fra virtù e sacramento; la determinazione del
senso della confessione; la funzione che esercita la potestà sacerdotale nella remissione dei peccati
attraverso il sacramento della penitenza. I teologi iniziano a distinguere fra “penitenza interiore” e
“penitenza esteriore”. Sulla scia della distinzione fra penitenza interiore ed esteriore nasce la riflessione su quale sia la penitenza autentica, quella adeguata a ottenere il perdono dei peccati. La distinzione segnerà la teologia seguente.
Anche per il sacramento della penitenza il XIII secolo si presenta come il grande secolo della
teologia scolastica, durante il quale trovarono precisione e soluzione i problemi apparsi nell’analisi
del secolo precedente. Con un elemento in più a determinare la riflessione teologica: il concilio Lateranense IV del 1215. Fulcro dello sforzo riformatore della chiesa dell’inizio del XIII, il concilio
Lateranense IV segnò una svolta importante nella teologia e nella prassi del sacramento della penitenza. La “professione di fede contro albigesi e catari” afferma la possibilità di una vera penitenza
in riparazione dei peccati commessi dopo il battesimo [DS 802]. Soprattutto nelle disposizioni pastorali il concilio imprime una svolta determinante. Al capitolo 21 si prescrive l’obbligo della confessione annuale al proprio parroco. E si tratta di un obbligo tassativo, più che la partecipazione
all’Eucaristia pasquale, dalla quale, p. es., il fedele potrebbe essere dispensato anche su consiglio
dello stesso parroco [DS 812]. La figura del parroco assume una dimensione sociale. In un periodo
in cui i movimenti ereticali si distinguevano per atteggiamenti anti-sacramentali e anti-istituzionali,
la partecipazione al sacramento della penitenza diventa un elemento di controllo sociale esterno
prima di ogni altro significato. Attraverso l’osservanza delle disposizioni conciliari si distinguono i
veri cattolici. Ma questa funzione di controllo rischia di diventare anche un “controllo interno” attraverso le disposizioni che limitano la libertà nella scelta del confessore. Il concilio stabilisce che
solo con licenza del proprio parroco si possa andare da un altro sacerdote per ragionevole motivo e
delibera anche sul comportamento del sacerdote in sede di sacramento, reagendo a eccessi o superficialità comuni. Il sacerdote è visto sì come un medico, ma l’immagine viene spinta all’esortazione
di indagare con diligenza sulla situazione del peccatore: si apre la strada a possibili degenerazioni
che daranno fondamento alle accuse di Lutero sulla confessione come mezzo per costringere la coscienza dei cristiani [cf DS 812-814].
Lasciando perdere autori di minore influenza, limitiamoci a un esame del pensiero di Tommaso
e Duns Scoto. In questi ultimi autori troveremo due impostazioni distinte che riassumono in sintesi
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l’elaborazione teologica precedente e segneranno in modo determinante quella successiva. Posteriore alla sintesi tomista, la storia della teologia sul sacramento della penitenza registra la soluzione delineata dal francescano Duns Scoto, dove trova sistematizzazione radicale la distinzione fra virtù e
sacramento della penitenza. Scoto definisce la penitenza cristiana in modo tale da farla coincidere
con l’assoluzione dell’uomo pentito: “La penitenza è l’assoluzione dell’uomo pentito, operata con
parole precise, pronunciate con la dovuta intenzione da un sacerdote avente la giurisdizione, parole
che per istituzione divina significano efficacemente l’assoluzione dell’anima dal peccato” (Duns
Scoto). Scoto parte dal paragone con il gesto battesimale. La giustificazione dell’adulto non cristiano può avvenire in un duplice modo: attraverso una disposizione interiore che apra per la prima volta alla grazia o attraverso il battesimo. Lo stesso avviene per la giustificazione del cristiano peccatore. In ogni caso, “la misericordia di Dio ha predisposto una duplice via attraverso la quale si possa
giustificare il peccato, invece di costringerlo ad un’unica via” (Duns Scoto). Allora per Scoto abbiamo una duplice via attraverso la quale il peccatore viene giustificato: una giustificazione sacramentale e una extra-sacramentale. In entrambe elemento determinante è la fedeltà di Dio al patto nel
quale si è impegnato. Nel caso in cui un cristiano peccatore nutra nel proprio cuore un pentimento
perfetto riceve non per suo merito, ma per la fedeltà di Dio al suo patto l’effetto del sacramento,
cioè la grazia della remissione dei peccati. Nel rito sacramentale, invece, la disposizione interiore
del penitente (un qualunque pentimento, sia pure di piccola intensità) resta estranea al rito. Il suo
valore consiste nella volontà di sottomettersi al sacramento come viene dispensato dalla chiesa. E’
l’assoluzione da parte del sacerdote che, sempre in virtù del patto cui Dio si è liberamente vincolato,
ha la forza di perdonare il peccato.
Tommaso d’Aquino riesce a operare una sintesi geniale sulla penitenza. Virtù e sacramento, la
penitenza cristiana si comprende pienamente solo considerandola nell’ambito più generale della sua
idea di giustificazione e del contesto cristologico dell’azione salvifica di Cristo. Il contesto globale
nel quale i vari aspetti vengono a unificarsi è il primato assoluto dell’agire della grazia di Dio. Per
Tommaso la giustificazione dell’uomo avviene in conseguenza dell’iniziativa divina che santifica e
solo all’interno di questa iniziativa trova spazio e possibilità di attuazione la libera attività
dell’uomo. In questo modo Tommaso separa dal contesto sacramentale il mistero della giustificazione del peccatore per inserirlo nel processo del ritorno a Dio (la conversione), cioè nel trattato
della grazia dove entra in gioco il rapporto fra la grazia divina e la libertà dell’uomo. La questione
dei sacramenti è inserita nell’ambito di un’economia storica, per la quale il peccatore pentito incontra la figura di Cristo e della sua chiesa. Il rapporto fra le due questioni è preciso: la prima questione
precede e illumina la seconda; l’atto della penitenza o conversione a Dio viene inserito in una realtà
istituzionale (il sacramento della penitenza). Così per Tommaso la contrizione o pentimento perfetto
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è la virtù piena della penitenza, mentre nella penitenza sacramentale è sufficiente l’attrizione o pentimento debole. Elemento unificatore è il primato dell’azione divina in Cristo. La penitenza cristiana è essenzialmente un sacramento. Con l’inserimento nella realtà sociale della chiesa, per il battezzato la virtù della penitenza non è autonoma o estrinsecamente ordinata all’assoluzione. L’agire di
Dio conduce il battezzato peccatore alla giustificazione e alla caritas, la bontà soprannaturale. Questa azione unica trova significazione tanto nell’atteggiamento penitenziale del peccatore quanto nelle parole di assoluzione da parte del sacerdote. Le due distinte azioni umane rinviano all’unica azione divina; la loro complessità viene unificata nel sacramento della penitenza, la cui unità rituale si
compone di una pluralità di parti. Per la «virtù della penitenza» il peccatore pentito con le cose che
fa e dice mostra in modo significativo che si è allontanato dal peccato; parimenti il sacerdote con
quanto fa e dice mostra l’azione di Dio che rimette i peccati: “di qui è chiaro che la penitenza che si
fa nella chiesa è sacramento”. E’ il rito sacramentale che riceve efficacia dal mistero della passione
di Cristo e il rito giunge alla sua perfezione con l’intervento assolutorio da parte del ministro. Il penitente che si accosta al sacramento con un pentimento imperfetto si trova davanti a Dio e alla chiesa con una disposizione soprannaturale “informe”. E’ il caso della “attrizione”. Non si tratta di una
finzione (fictio), che renderebbe falso e quindi invalido il rito sacramentale. La stessa attrizione per
Tommaso è una disposizione soprannaturale dell’animo; anch’essa viene da Dio, nel rapporto che
lega il primato dell’iniziativa divina e la libera accoglienza dell’uomo. Solo che questa disposizione
è ancora informe. Attraverso il rito sacramentale raggiunge la forma piena della contrizione e quindi
la giustificazione e il dono della carità soprannaturale.
II.C
Riformatori e Trento
II.C.1
La posizione dei riformatori
L’approccio ecclesiologico che stiamo sviluppando verso una comprensione del sacramento della penitenza chiama in gioco la visione di chiesa dei riformatori. Lutero opera un’autentica reinterpretazione del sacramento della penitenza. La contritio, pentimento perfetto che ottiene il perdono
dei peccati anche secondo la visione tomista, proviene dalla sola fede. La coscienza atterrita dalla
consapevolezza dei propri peccati si apre alla fede nella salvezza offerta dalla misericordia di Dio e
si pacifica nella promessa del perdono. Il rito della penitenza diventa, allora, l’annuncio della parola
di Dio che promette il perdono dei peccati. Bisogna riconoscersi peccatori davanti a Dio, ma non
c’è obbligo della confessione auricolare, un dominio sulle coscienze da parte di Roma, una sovrastruttura antievangelica. Può essere pastoralmente utile se fatta liberamente, in vista di una maggio-
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re fede nella parola di Dio, chiedendo aiuto a un fratello sperimentato nella fede. Questo compito lo
può assolvere un qualunque cristiano, non è privilegio di vescovi e sacerdoti. L’assoluzione è
l’aiuto a essere certi nella fede che Dio giustifica il peccatore: “il sacramento della penitenza…
manca di un segno visibile e istituito da Dio, e ho detto che non è altro che via e ritorno al battesimo” (de captivitate). La soddisfazione viene negata, come le opere penitenziali, finalizzate per i cattolici alla riparazione del peccato; la vera soddisfazione è la novità di vita. In sintesi per Lutero la
penitenza consiste dei due momenti dell’esperienza della giustificazione dai peccati: angoscia verso
il giudizio di condanna e pacificazione nella fede certa del perdono (è via di ritorno al battesimo,
sacramento permanente).
II.C.2
Il concilio di Trento
Le decisioni del concilio di Trento vanno comprese non solo come una reazione di fronte alla
visione innovativa dei riformatori, ma nel contesto della situazione pastorale dell’epoca. Il sacramento della confessione è in crisi profonda; il popolo cristiano mostra una diffusa disaffezione nei
suoi confronti. Spesso viene vissuto in modo formale. Accanto a un tale vissuto, e in qualche modo
essendone causa, troviamo comportamenti dei confessori che destano più di una critica. Giovanni
Eck scrive a p. Adriano VI lamentandosi della generale ignoranza sulla Scrittura e le opere dei Padri
da parte dei preti, simila a quella di un asino sulla musica. Si registrano veri e propri abusi: da
un’estrema leggerezza nei confronti del sigillo sacramentale a venali richieste di elemosine imposte
come penitenza, fino a sollecitazioni indebite favorite dall’intimità del colloquio con donne. Sulla
scia di Pietro Lombardo, pensatori come Erasmo riprendono e diffondono l’idea della confessione
rivolta unicamente a Dio. Di fronte a una tale realtà, bisognosa di un’urgente riforma, si precisano
due possibili linee d’intervento. La maggior parte dei pensatori, anche cattolici, si trova d’accordo
con Erasmo da Rotterdam quando sostiene di dover reinserire la pratica del sacramento della penitenza all’interno di una dinamica autentica di conversione del cuore. A Trento, però, avrà la meglio
una diversa impostazione teologica e pastorale. Il concilio vorrà mantenere in vita quello che ritiene
il rito tradizionale del sacramento e cercherà di giustificare dottrinalmente l’accusa esplicita dei
peccati come realtà essenziale del sacramento della penitenza. La conversione, poi, non si pone
normalmente al di fuori del potere affidato alla chiesa.
Il decreto sulla penitenza si compone di 9 capitoli e 15 canoni. Sia il decreto che i canoni seguono il medesimo sviluppo: nell’economia della nuova alleanza esiste un sacramento della penitenza,
istituito da Cristo, per mezzo del quale il batezzato peccatore viene riconciliato con Dio. Questo sacramento si distingue dal puro ricordo del proprio battesimo; all’interno del rito il penitente compie
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tre atti fondamentali che vengono esaminati e precisati dal concilio. Infine, l’attenzione viene posta
su alcune questioni che riguardano la figura del ministro, tra cui il valore giudiziario
dell’assoluzione e la potestà dei vescovi di riservare a sé il perdono di particolari peccati. Nel valutare la scelta che necessariamente dobbiamo fare, è importante notare come il concilio di Trento
mostra diversi comportamenti nelle varie sessioni. Il decreto sulla giustificazione, per esempio, ha
tutto il suo peso sulla dottrina, molto più che nei canoni seguenti. Per il sacramento della penitenza
è tutto il contrario. Le discussioni in aula si incentrarono sui canoni, formulati in risposta alle proposizioni dei riformatori presentate all’attenzione dei teologi. Ed è soprattutto sui canoni che cade il
peso dell’autorità magisteriale del concilio. Il decreto venne discusso e approvato solo negli ultimi
giorni.
Il valore dogmatico dei singoli canoni va precisato volta per volta. Sullo sfondo emerge la questione intorno al potere sacramentale della chiesa. Semplificando una realtà difficile da esporre in
poche righe, per Lutero non esiste alcuna realtà (potere) fra la Parola di Dio e la fede dell’uomo che
l’accoglie. La visione cattolica integra questa posizione con la fede nella presenza di Cristo lungo la
storia attraverso uomini e gesti, una presenta fondata sulla sua volontà e distinta da quella nella sua
Parola. Trento non esprime ancora una visione sacramentale della chiesa, però ne difende la potestas. Questa differenza di vedute emerge chiaramente nei canoni sulla penitenza. In primo luogo esiste un sacramento della penitenza distinto dal battesimo: è il senso dogmatico del ca. 2 (DS 1702).
La giustificazione non si riduce alla fede fiduciale (aprendo il problema complesso fra penitenza e
giustificazione). Pur rispettando le posizioni scotiste sul valore dell’assoluzione sacerdotale e le due
vie di riconciliazione, il concilio si sposta più sulla linea tomista: il valore della penitenza in rapporto a una sola via di giustificazione (DS 1704 e capp. di riferimento). In sintesi, Trento si pronuncia
con forza su quattro punti:
1. Per volontà di Cristo esiste nella chiesa un vero e proprio sacramento della penitenza per i battezzati peccatori.
2. Non si può escludere il riferimento di Gv 20 al sacramento della penitenza e non si può intenderlo solo come
predicazione del Vangelo [Il testo præcipue instituit eum… vuole non escludere dal concetto di istituzione il
passo di Mt 16,18].
3. Il sacramento della penitenza non è riducibile al battesimo per vari motivi. Contiene un atteggiamento penitenziale del peccatore e l’assoluzione sacerdotale. Fondamentalmente Trento sposa la posizione di Tommaso,
con opportune correzioni per non delegittimare lo scotismo: p. es., sull’assoluzione “nella quale si trova in modo specifico la forza della stessa” salvando così la posizione scotista.
4.
Non è accettabile la posizione luterana che riduce la penitenza alla dinamica del passaggio
dall’angoscia per i peccati alla consolazione per la fede nel perdono. La penitenza comprende come elementi
essenziali gli atteggiamenti del penitenti che sono la contrizione, la confessione e la soddisfazione.
In modo particolare abbiamo l’idea di contritio che il concilio vede in rapporto al sacramento attraverso l’idea di “votum”. E’ importante notare come la posizione conciliare si distingua da quella
protestante perché la concezione cattolica della contrizione non comporta solo la cessazione dal
peccato e la novità di vita, ma anche l’avversione al peccato, un atteggiamento spirituale inconcepi-
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bile per la visione dei riformatori. Il concilio di Trento introduce l’idea di attrizione in modo semplice, per dare valore cristiano a un qualunque atteggiamento spirituale contro il peccato (per qualunque motivazione e con qualunque forza interiore) e per dichiararla sufficiente in riferimento al
sacramento della penitenza (salvandone la verità minimale). Trento, poi, difende il carattere libero
della contrizione come della attrizione, contro la posizione protestante che qualificava il sacramento
della penitenza come una sovrastruttura che si ritorceva contro la libertà dei figli di Dio. Trento afferma che l’uso della confessione dei peccati all’interno della penitenza cristiana è di diritto divino.
Questo nasce dalle esigenze dello stesso istituto penitenziale e dell’esercizio del potere delle chiavi.
Trento difende la concezione cattolica che lega la validità del sacramento della penitenza
all’esistenza della necessaria giurisdizione. Per il suo carattere giudiziario il ministro del sacramento non può assolvere chi non si configura come suo ‘suddito’. Obiettivo principale di Trento è la difesa della legittimità della riserva dei casi.
III
Riflessioni conclusive
Una sintesi sistematica degli aspetti più attinenti alla teologia sacramentaria per quanto concerne
il sacramento della penitenza dovrà essere integrata con il corso sugli aspetti morali e pastorali dello
stesso sacramento. Limitandosi alla nostra prospettiva, la sintesi dovrà tenere conto delle varie sottolineature offerte dalla riflessione della chiesa lungo i secoli: la chiesa dei padri e dei secoli successivi non sono in contraddizione, ma hanno portato contributi diversi alla comprensione dei dati del
NT. Dalla riflessione patristica abbiamo che l’esistenza di una penitenza cristiana (conversione
post-battesimale) è intelligibile all’interno del mistero della riconciliazione. La teologia seguente ha
formalizzato in che modo la penitenza cristiana si verifichi nella comunità cristiana, precisamente
come espressione sacramentale del mistero della riconciliazione nella chiesa.
III.A
Esistenza e «legittimità evangelica» di una penitenza cristiana
In sede storica non si può mettere in discussione l’esistenza di una penitenza cristiana, intesa
come conversione dai peccati commessi dai credenti, una metanoia post-battesimale che si esprime
a livello ecclesiologico. Questo è un fatto evidente nella storia della comunità cristiana, fin dalla sua
nascita. Non si può indicare alcun periodo storico dove non fosse previsto oppure organizzato dalla
chiesa un qualche rito penitenziale. Vivendo questa penitenza la chiesa obbedisce alla volontà di
Cristo. L’espressione scolastica e poi tridentina di questa realtà ecclesiale pone l’accento sul potere
permanente della chiesa di legare e sciogliere, cioè perdonare i peccati. La santità della chiesa è stata messa in questione dal peccato dei cristiani fin dai primi tempi della chiesa apostolica (cf At 5,
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1Cor). Ma di per sé, nessun peccato esclude irrevocabilmente dalla chiesa, cioè senza alcuna possibilità di riconciliazione: neanche l’idolatria o l’eresia. Ogni cristiano è un peccatore nonostante la
purificazione battesimale. La visione biblica che distingue i peccati fra volontari e involontari si trasforma attraverso la riflessione patristica nella distinzione fra peccati capitali (gravi, mortiferi o
crimini) e lievi (non capitali, quotidiani). La chiesa elabora liste e cataloghi dei peccati. Tuttavia,
solo i peccati capitali pongono in una situazione spirituale incompatibile con la santità della chiesa.
Questo duplice convincimento e la prassi conseguente hanno fin dall’inizio un riferimento singolare
con l’eucaristia: l’eucaristia coincide con la comunione ecclesiale, l’esclusione dalla comunione ecclesiale coincide con l’esclusione dall’eucaristia.
III.A.1
Vangeli e lettere paoline
Le redazioni evangeliche di Lc e soprattutto quella di Mt presentano una chiesa che ha già affrontato il problema dei cristiani peccatori. A essi viene rivolto l’invito alla penitenza, nella coscienza di essere in armonia col messaggio di Cristo. Lc 15 potrebbe essere un commento di passi
precedenti come Lc 5,32; 17,3s. In realtà Lc mostra una certa predilezione verso la penitenza e la
conversione, ma si muove sempre in un contesto di “prima accoglienza” del regno, per quanto il regno in Lc non sia mai una realtà solo escatologica, ma si attualizzi nella chiesa. Per Mt la vita della
chiesa è riferita alla presenza di Gesù risorto in mezzo ai suoi (Mt 28,18-20). In quest’ottica devono
essere letti i passi di Mt 9,1-8; 16,13-20; 18,12-20. Rispetto ai passi paralleli di Lc 5 e Mc 2, Mt 9
legge l’episodio della guarigione del paralitico e del potere di Gesù di perdonare i peccati in funzione del potere concesso agli apostoli e alla chiesa: “la folla… rese gloria a Dio che aveva dato un tale
potere agli uomini” (Mt 9,8), anticipando lo stesso tema trattato in Mt 16; 18. Scrivendo a cristiani,
Mt sottolinea come l’autorità del Figlio sia presente nella chiesa attraverso gli apostoli. I versetti
quasi identici di Mt 16,19 e Mt 18,18 indicano nella chiesa un potere in rapporto al peccato dei
membri della comunità:
Mt 16,19: “[Gesù a Pietro:] «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Mt 18,18: “[Gesù ai discepoli] In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in
cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.”
E’ legittimo pensare che Mt 18 pensi alla funzione apostolica, per estensione di Mt 16, e non alla comunità intera? Sembra di sì per vari indizi. Il loghion è diretto ai discepoli (i dodici), cf il “tu”
dei vv. 15-17 e il “voi” del v. 18. Mt 18 appartiene a un contesto di giudeo-cristianesimo, dove la
comunità è gerarchizzata, certamente in modo diverso dai capi giudei (Mt 23,1-12). Ma niente induce a pensare che la novità della comunità cristiana sia nel porre essa stessa atti autoritativi a pre-
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scindere da una autorità al suo interno. Il brano di Mt 18 è su quella che verrà detta la “penitenza
seconda”: verso i fratelli che peccano si incentra l’azione degli apostoli, ai quali è stato affidato il
potere di legare e sciogliere. I due termini nel contesto giudaico sono in rapporto all’interpretazione
autentica della legge mosaica: aprire indica permettere un comportamento; chiudere indica proibirlo. Chi ha il potere d’interpretazione, è in grado di giudicare sui comportamenti e decidere sulle persone, fino alla loro scomunica. Ma tutto questo sempre in relazione alla salvezza, misurata sulla misericordia del Padre. Di fatto non esistono che due luoghi spirituali per il cristiano, che passa
dall’uno all’altro: la chiesa, comunione con Dio in Cristo, e il mondo, sotto il dominio del maligno,
ma che non coincide in assoluto con l’esclusione dalla salvezza. La chiesa si avvia verso una comprensione del potere apostolico (reale nei confronti dei peccati e dei peccatori) e della situazione del
cristiano peccatore (posto in una situazione incompatibile con la comunità ecclesiale).
A questo punto possiamo fare una lettura del passo fondamentale di Gv 20,21-23 alla luce di una
sintesi già possibile. Il necessario riferimento è la coscienza della chiesa apostolica del suo rapporto
con il Cristo risorto (1Gv 1,2s). Questa «continuità della chiesa con Cristo», secondo il NT implica i
seguenti aspetti: presenza di Cristo risorto e realtà del tempo della chiesa. La presenza del Cristo risorto «crea» gli apostoli e articola la nuova comunità (la pentecoste giovannea in Gv 20,22 con
l’insinuazione di una nuova creazione attraverso l’alitare di Gesù). Pertanto, il tempo della chiesa
appare come il tempo della remissione dei peccati (At 2; Eb 7-10) e insieme come il tempo dove si
rivela l’exousia del Figlio sul peccato, dopo avere offerto se stesso come espiazione (Eb), propiziazione (Rm 3; 1Gv 2), riscatto (Mt 20,25-28). L’exousia del risorto coincide con il dono dello Spirito; si esprime e opera nell’annuncio che conduce alla conversione e al battesimo, ma non si limita a
questi gesti (cf, p. es., l’aspetto di Gesù medico con un chiaro riferimento ecclesiologico in Mt 9,18; Lc 10,25-37).
Gv 20,21-23
Questo brano ha ricevuto dal concilio di Trento un’attenzione particolare che riassumiamo: per
la fede cattolica non si può escludere da questi versetti un’interpretazione penitenziale (DS 1703).
L’obbligo è “negativo”: il concilio non fornisce un’interpretazione normativa, ma condanna chi escludesse la possibilità di riferire questo brano anche a un qualche rito penitenziale per i battezzati.
Siamo in quella che viene chiamata la “pentecoste giovannea”. Gesù si rivela ai discepoli come il
Signore dello Spirito e costituisce gli apostoli come “una nuova creazione” (“alitò su di loro” al v.
22 in parallelo a Gn 1,2; 2,7) rendendoli partecipi della sua missione (v. 21). Il dono dello Spirito è
espressione della presenza di Gesù.
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Il dono dello Spirito e la missione affidata ai discepoli sono in relazione al perdono e alla ritenzione dei peccati. Una corrente esegetica, nata con la riforma, interpreta il versetto v. 23 come un
puro «annuncio del Vangelo» (cf in questo senso Lc 24,47-49). Ma questa posizione sembra difficile da essere sostenuta allo stesso livello esegetico per vari motivi. La predicazione della conversione
“scioglie” o “restringe” in misura dell’accoglienza della fede e solamente in senso traslato la si può
riferire agli apostoli in quanto tali. In realtà la predicazione apostolica annuncia la parola di Dio,
cioè la persona di Gesù Cristo, efficace in quanto crea e giudica. Il giudizio sul mondo che nello
Spirito santo la testimonianza apostolica oggettivamente opera (è la linea della teologia giovannea),
va misurata con il rapporto intrinseco, secondo la stessa teologia giovannea, fra parola e segno. Ora
la domanda da porre è la seguente: a quale segno si riferisca questo annuncio? Molti autori protestanti si pronunciano per il battesimo. Ma esiste una reale ragione esegetica per questa affermazione
oppure la risposta nasce da una valore dato in precedenza alla comunità apostolica? Esistono, al
contrario, alcune ragioni esegetiche per precisare in modo diverso le parole di Cristo.
Gv 20 è in rapporto evidente con Mt 18,18: i versetti contengono lo stesso loghion del Signore.
Il Figlio dell’uomo è costituito giudice e con la sua vita l’evangelo annunciato introduce lo scisma
nel mondo (Gv 9,39). I discepoli sono dichiarati competenti a giudicare se qualcun corrisponde al
messaggio, prima e dopo il battesimo. Il vero giudizio sul peccato è la vittoria su di esso (Gv
12,31s). Il Figlio è inviato per la salvezza (Gv 3,16). La partecipazione apostolica al giudizio del
Figlio dell’uomo è attuale, in quanto gli apostoli giudicano il peccato. Cristo per mezzo di loro vince il peccato nell’uomo peccatore, cioè lo perdona. Allora, Mt 18 e Gv 20 mettono in rilievo un aspetto della missione apostolica: la pienezza del potere e della missione di Cristo affidata agli apostoli riguarda anche il peccato e i peccatori nella chiesa! Cioè il potere di “sciogliere / legare” (Mt),
“perdonare / ritenere” (Gv) non si riferisce solo all’ammissione / non ammissione nella chiesa, verificando la verità della conversione battesimale, ma anche in rapporto a chi si è già aggiunto alla
comunità dei credenti: Mt presenta un evidente contesto ecclesiologico, Gv fornisce
un’interpretazione penitenziale di Gv 13. La coppia “legare / ritenere” in concreto presenta verbi
equivalenti nel giudicare incompatibile con la novità della comunità cristiana un determinato comportamento peccaminoso, a tal punto da espellere il responsabile dalla stessa comunità. La coppia
“sciogliere / perdonare” in concreto vuole dire riconoscere l’autenticità della conversione per la
quale ci si è adoperati con il consiglio, la correzione, la preghiera. Ma tutto questo si compie nello
Spirito. La comunità si accresce solo nella potenza dello Spirito di Cristo (At e la conversione battesimale). Così solo nello Spirito si opera un tale giudizio (Gv 20), perché il giudizio escatologico del
Figlio dell’uomo si attua per tutti, verso quelli “di fuori” e i cristiani (2Pt; Gc; Gd; Ap). In questo
senso abbiamo per Mt e Gv una corrispondenza, solidarietà fra l’agire umano e divino: nell’azione
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apostolica nei confronti del cristiano peccatore si esprime un aspetto dell’azione dello Spirito di
Cristo che edifica la chiesa e perciò la giudica e la salva. Tutto questo implica necessariamente una
valutazione corretta del «giudizio» divino.
La prassi penitenziale del NT presenta una profonda consonanza tra i responsabili della comunità e la comunità stessa: la riconciliazione dei cristiani peccatori interessa tutti, ma particolarmente i
responsabili della comunità. Allora, la partecipazione apostolica dell’exousia di Cristo verso i cristiani peccatori è stata trasmessa a tutta la chiesa? Il problema in gioco è l’apostolicità della chiesa.
Dal punto di vista cattolico non sembra rinunciabile l’affermazione della necessità del riferimento
della comunità e dei suoi membri che riconciliano il peccatore a una «presidenza della riconciliazione». Questa presidenza della riconciliazione è un aspetto della funzione di guida della comunità
da parte dei suoi responsabili. Nel linguaggio tradizionale della teologica cattolica è quanto viene
assicurato dalla trasmissione del sacramento dell’ordine. A livello istituzionale, questa convinzione
viene espressa con l’esclusione, accettata volontariamente o imposta, dalla vita della comunità: una
penitenza cristiana è globalmente presente fin dalle origini della chiesa, sia pure in forme diversamente istituzionalizzare (cf NT e Pastore di Erma). I testi di Mt 18 e Lc indicano nella chiesa apostolica la coscienza di una legittima penitenza cristiana. Le tentazioni rigoriste sono state eliminate
fin dalle crisi dovute all’idea di chiesa portata avanti da novaziani e i montanisti. Dal NT abbiamo
un dato certo: il Padre del Signore Gesù Cristo continua a chiamare a conversione il popolo della
nuova alleanza e non solo attraverso il kerygma e il battesimo. Questo dato irrinunciabile della rivelazione viene dall’insieme di testi come 2Cor 5, Mt 18 e Gv 20 (l’intenzione penitenziale contenuta
in Gv 20 è definita da Trento), dove la riconciliazione dei cristiani è un aspetto della missione apostolica. Pertanto la penitenza cristiana è legittimata dal NT: Dio Padre chiama anche il cristiano al
pentimento; il ministero della penitenza cristiana appartiene alla missione apostolica, che ricalca
l’atteggiamento misericordioso del Padre. Certamente con la scolastica il discorso ha avuto una riduzione alla sola potestà delle chiavi. Ma una chiara «legittimità evangelica» soggiace alle definizioni tridentine sul sacramento della penitenza: appartengono alla fede cattolica l’esistenza di un
potere delle chiavi che si estende alla remissione dei peccati dei cristiani e la pertinenza della confessione dei peccati alla penitenza cristiana.
III.B
Mistero di riconciliazione e penitenza
Se la penitenza cristiana è un fatto, la sua piena comprensione avviene all’interno del mistero di
riconciliazione, pur non essendone l’unica espressione. Il passaggio esposto è dalla realtà fattuale
alla sua piena intelligibilità. Dal momento originario con cui l’uomo è inserito nella chiesa (batte-
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simo) ogni successiva riconciliazione avviene nella chiesa e con la chiesa (“comunità riconciliata”).
Molti gesti ecclesiali sono gesti di riconciliazione: ascolto della parola, celebrazione eucaristica, opere di carità, spirituali e corporali, ascesi varie. La penitenza cristiana è una partecipazione singolare al mistero della riconciliazione; la teologia ne ha messo in evidenza il carattere «giudiziale», da
intendersi in senso biblico: scopo intrinseco al giudizio divino è la salvezza dell’uomo.
La nuova alleanza è un mistero di remissione dei peccati, di riconciliazione e di pace. Non si
tratta di doni che si aggiungono all’alleanza nuova, ma coincidono con essa (Ef 2). La stessa alleanza non è che il popolo costituito nella pace, la chiesa, comunità riconciliata da Dio (cf 2Cor 5).
L’azione divina che riconcilia e perdona il peccato è indicata dalla Scrittura come un «giudizio».
Soprattutto in Gv la morte e la glorificazione di Gesù sono il giudizio (Gv 12): in esse appare la natura del peccato, la sua radicale impotenza e falsità. Il peccato che viene giudicato è la negazione
del Figlio di Dio, della carità di Dio (1Gv 3s). Questo giudizio avviene con il dono dello Spirito (Gv
20 e Gv 3). La presenza dello Spirito perdona i peccati e crea i figli di Dio. Al tempo stesso qualifica il tempo della chiesa, dei testimoni e discepoli di Cristo (Gv 12 ne indica la presenza nel mondo).
Ma esiste anche una testimonianza dello Spirito che accusa nell’intimo ogni credente e attraverso la
voce apostolica li chiama a conversione (Ap 1-3; 1Gv 4,3).
La santità della chiesa ha un preciso rapporto con la remissione dei peccati. Nella chiesa si esprime la missione dello Spirito santo. La chiesa è cresciuta sempre più nella consapevolezza di essere ordinata alla remissione dei peccati. Per questo li perdona, non solo attraverso il battesimo, ma
anche attraverso un gesto di perdono verso i peccati dei battezzati, espressione della missione dello
Spirito santo (esegesi di Mt 16 per Origene e Agostino). Se l’incompatibilità fra peccato e santità
della chiesa, porta nel peccatore alla sua esclusione dalla comunione ecclesiale, nella chiesa conduce a una fondamentale «intenzione» salvifica nei suoi confronti, perché tenda alla pace. La stessa
esclusione dalla comunione deve essere interpretata in questa direzione. La missione dello Spirito si
esprime nell’unica chiesa che esclude e riconcilia. Il gesto del vescovo è per sua natura un gesto
pienamente ecclesiologico, che si esprime nella struttura normalmente comunitaria del processo penitenziale, dalla separazione alla riconciliazione. A livello liturgico tutta la comunità afferma la separazione dal peccatore, fa corpo con la correzione del vescovo e la sua preghiera d’intercessione,
prende parte alla preghiera di riconciliazione, fino all’imposizione delle mani da parte del vescovo.
Esistono ragioni teologiche per dare specificità al sacramento della penitenza come gesto che attua
una relazione intra-ecclesiale di giudizio e riconciliazione. Il NT (soprattutto Mt 18) presenta continuità e rottura con le tradizioni giudaiche (prefigurazioni di quelle cristiane). La continuità è nella
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visione della salvezza come comunione con Dio all’interno del popolo che Lui si costituisce;3 la
novità e pienezza cristiana sono nel riferimento a Cristo della salvezza e del popolo.
Non esiste perciò un discorso di grazia che non sia un discorso di chiesa e non esiste un discorso
di peccato che non sia un rifiuto della dimensione ecclesiale della salvezza. Di conseguenza non esiste recupero della salvezza che non sia recupero di riconciliazione e pace con la chiesa: la comunità cristiana è espressione propria e non facoltativa del mistero dell’alleanza, cioè del popolo di Dio.
Il peccato di chi appartiene all’espressione storica, visibile, richiede una vera riammissione nella
comunità, attraverso un gesto umano di pace e riconciliazione. La riconciliazione fra comunità e
peccatore come derivazione (anche se non l’unica) del mistero di riconciliazione lo esprime a titolo
proprio. Il rapporto fra azione riconciliatrice della chiesa e la missione dello Spirito santo ha portato
a considerare il giudizio sul peccatore e sul suo pentimento e la riconciliazione come tale in una
prospettiva «spirituale». Vi è una tendenza ad assegnare il potere di rimettere i peccati dei battezzati
solo ai membri spirituali della chiesa. In Oriente una lettura unilaterale di Origene condusse Simeone il nuovo teologo a teorizzare questo discorso; in Occidente vengono messi in evidenza prima i
confessori (Cipriano), poi i monaci. La tradizione monastica, soprattutto orientale, affida al padre
spirituale un compito terapeutico-spirituale per la purificazione dal peccato e dalle impronte che lascia nel cuore dell’uomo.
III.C
Penitenza in una comunità ordinata gerarchicamente
Il rito della penitenza cristiana si verifica all’interno della comunità cristiana, dove esige oggettivamente una presidenza della riconciliazione. Oggettivamente, cioè in relazione al fondamento
della parola di Gesù, che si pone al di sopra di ogni realizzazione storica ecclesiale. La presidenza
della penitenza cristiana implica due presupposti: l’affidamento della presidenza a coloro che hanno
ricevuto il sacramento dell’ordine e il concetto di “giurisdizione”, collegato all’aspetto giudiziale
esaminato nel punto precedente. Nel peccatore, condotto a conversione, il mistero della riconciliazione si esprime nella virtù (atteggiamento) della penitenza, che all’interno del rito della penitenza
si distingue in contrizione, confessione, soddisfazione. La chiesa è una realtà dell’economia trinitaria (LG 4). In un certo senso ne è immagine, anche attraverso l’imperfezione che verifica il valore
dell’immagine e la fa tendere al superamento verso il pieno compimento di se stessa. Staccarsi dalla
chiesa è immagine di un distacco dalla stessa economia, come essere riammessi nella chiesa è partecipare alla pacificazione. La teologia (Ambrogio, Agostino) ha elaborato una visione unitaria che
3
Non si pecca contro la salvezza, senza escludersi da un popolo e non si accoglie la salvezza senza accettare di
appartenere a un popolo, esserne aggregati di fatto, esserne accolti.
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ingloba i riti sacramentali del battesimo e della penitenza. Il mistero della remissione dei peccati è
unico, come uno solo è lo Spirito che suscita la conversione nel peccatore fino a fargli chiedere il
battesimo o la riconciliazione nella chiesa. In modo parallelo, nella chiesa il ministero del perdono
attraverso lo Spirito santo è sostanzialmente unico, ma reso esplicito in modi diversi (battesimo e
penitenza, per Ambrogio; battesimo, penitenza più grave e penitenza quotidiana per Agostino). La
distinzione specifica fra battesimo e penitenza sta nel fatto che il primo sacramento viene dato al
non-cristiano, il secondo a chi è già stato battezzato.
III.C.1
La presidenza della penitenza
Il mistero della riconciliazione si esprime nell’intera comunità (NT e padri). La chiesa è il luogo
della remissione dei peccati, dove lo Spirito opera la remissione. Concretamente si tratta della chiesa locale, il cui vescovo è moderatore della penitenza in rapporto con la propria comunità (LG 26).
Lungo la storia la chiesa ha dovuto confrontarsi con due tendenze: la volontà di condizionare il ministero della riconciliazione (ma non solo questo) alla santità dei ministri e l’estensione o riserva
dello stesso ministero a uomini spirituali. La chiesa ha reagito con forza contro la prima tendenza:
non esistono due chiese, la chiesa istituzionale e quella dello Spirito. Verso la seconda la posizione
è stata più sfumata, specie in Oriente, dove si ammette la guarigione spirituale per intervento dei
monaci (forse abbiamo l’estensione del ministero penitenziale a livelli istituzionali non formalmente gerarchici). Certamente l’aspetto gerarchico del ministero penitenziale divenne sempre più chiaro
e unilaterale sia in occidente che in oriente (pseudo-Dionigi) per motivi ecclesiologici (lotta contro
le eresie) e per l’evoluzione dell’istituto penitenziale (perdita del senso comunitario). La concezione
cattolica del ministero gerarchico nel popolo di Dio suppone il sacramento dell’ordine (cf l’offerta
eucaristica presentata in persona o in nomine Ecclesiæ). Eucaristia e penitenza sono sempre gesti
rituali di natura ecclesiale, cioè comunitaria. Tuttavia, non sembra accettabile la posizione radicale
per cui solo una loro “espressione” esplicitamente comunitaria della loro propria natura comunitaria
assicurerebbe la validità dei riti (p. es. invalidando la Messa celebrata dal solo sacerdote, cf Paolo
VI, Mysterium fidei ). Invece, dalla fede della chiesa abbiamo due requisiti per la validità del rito
penitenziale cristiano: la necessità del secondo grado del sacramento dell’ordine per il ministro e la
debita giurisdizione. Il concilio di Trento definisce di fede il potere di legare e sciogliere proprio di
vescovi e presbiteri. Invece, per la giurisdizione l’intervento nel cap. 7 precisa unicamente l’oggetto
formale della riserva dei casi (DS 1686-1688). La potestà di giurisdizione è considerata determinante per il sacramento, perché si stabilisce di diritto un rapporto effettivo con la comunità cristiana
(Trento accosta le due affermazioni). Il ministero pastorale è ordinato alla comunità cristiana, originata e strutturata dall’eucaristia. La penitenza cristiana, riconciliazione con Dio nella chiesa, si e-
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sprime come pace in una comunità ecclesiale storica. Sta qui il fondamento teologico dell’invalidità
dell’assoluzione sacramentale in mancanza della debita giurisdizione (CJC 966).
III.D
Il sacramento della Penitenza
Infine, la penitenza cristiana, particolare espressione nella storia del mistero della riconciliazione
nella chiesa, è un sacramento. La fede della chiesa ha scoperto in questo rito di riconciliazione per i
cristiani penitenti la categoria teologica di “sacramento istituito da nostro Signore Gesù Cristo”.
Come azione di Cristo e del suo Spirito la penitenza cristiana è un rito sacramentale costitutivo della
chiesa:
quelli che [vi] si accostano ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la
carità l’esempio e la preghiera. (LG 11)
Sacramento della penitenza o della riconciliazione indica che la penitenza e la riconciliazione
hanno altre forme per essere vissute, all’interno dell’unico mistero di riconciliazione (cf CCC 14341439). La forza e l’efficacia di queste forme risiede nell’essere poste all’interno di quella «comunità
riconciliata» che è la chiesa. La tradizione della chiesa ha precisato che alcuni peccati “separano”
dalla comunione con la chiesa, comunità riconciliata, e pertanto si rende necessario un gesto ecclesiale e sacramentale perché il cristiano peccatore e convertito ritorni alla piena “pace con Dio” e
“pace ecclesiale”. M. Xiberta ha avanzato l’ipotesi di una pax cum ecclesia che precederebbe la pax
cum Deo: in termini scolastici, la prima sarebbe quasi la res et sacramentum del rito e la seconda la
res. Ma l’ipotesi presenta dei limiti che non la fanno preferire alla visione tradizionale dei padri,
per cui pace con la chiesa e pace con Dio vengono a identificarsi (per quanto competa al giudizio
umano). Infatti, la pace con la chiesa non è ancora la remissione dei peccati, che nel cristiano peccatore viene a coincidere con l’essere pienamente ricostituito nell’alleanza, ridiventando pienamente
«chiesa». Inoltre, ed è un’obiezione più grossa, la chiesa sembra diventare una sorta di ipostasi fra
Dio e il cristiano peccatore. La realizzazione storica del mystêrion invece, la pone su un altro piano,
quello sacramentale: il mystêrion divino si realizza nella storia attraverso segni e riti ecclesiali.