Teologia e prassi del sacramento della penitenza Angelo Maffeis I sintomi di un disagio La maggior parte dei discorsi sul sacramento della penitenza prendono avvio dalla constatazione di una crisi profonda che esso sta attraversando e che è documentata dalla diminuzione della frequenza con cui i fedeli ricorrono a questo sacramento. Questo dato di fatto interessa anche la teologia. Se infatti vuole essere fedele al suo compito di accompagnamento della vita ecclesiale, la riflessione teologica non può limitarsi a costruire una sintesi dottrinale completa e coerente, ignorando la concretezza della realtà vissuta dai cristiani e dalle comunità. Un primo compito al quale la teologia non può sottrarsi è quindi quello di cercare di individuare le ragioni di tale crisi e i motivi per cui questo sacramento sembra aver perso la sua plausibilità per molti che pure continuano a dichiararsi cristiani. Il fenomeno non ha una spiegazione semplice e univoca; sono piuttosto molteplici e intrecciate tra di loro le ragioni che stanno all’origine della difficoltà attuale. Le spiegazioni si possono raggruppare in due orientamenti. Per alcuni l’allontanamento dalla frequenza del sacramento della penitenza è il segno del disagio nei confronti dell’attuale forma celebrativa, risultato di un complesso sviluppo storico sul quale neppure la riforma liturgica del Vaticano II sembra essere riuscita a incidere in modo profondo. Per altri, più radicalmente, le cause della crisi devono essere cercate a monte rispetto alla forma in cui il sacramento è celebrato e hanno a che vedere con il modo in cui le persone concepiscono la colpa e il peccato e ne diventano consapevoli, processi che hanno subito profonde trasformazioni nel nostro tempo. A questo ci si riferisce quando si parla di crisi del senso del peccato. Una riflessione adeguata su quest’ultimo aspetto della questione ci porterebbe lontano perché esigerebbe un’analisi non superficiale di alcuni orientamenti della cultura contemporanea, segnata dalla contraddizione tra l’enfasi posta sul soggetto e sulla sua libertà e la coscienza dell’intreccio di condizionamenti che impediscono l’espressione libera della persona, fino a negare completamente la sua responsabilità. È evidente però che per poter fare un discorso sensato sulla penitenza si deve presupporre una visione antropologica che, conformemente all’antropologia biblica, comprenda l’uomo come essere libero, responsabile dei suoi atti, capace di fare il male, ma anche di convertirsi. E per motivare una corretta pratica della penitenza è necessario che questa base antropologica sia data; in caso contrario la penitenza propone un cammino che difficilmente può risultare comprensibile e significativo all’interno del progetto della propria esistenza che la persona cerca di realizzare. Non sempre la perdita di plausibilità del sacramento ha come conseguenza l’abbandono e la rinuncia completa a tale pratica: se infatti, dal punto di vista della fede cristiana, è in crisi una corretta concezione del peccato, rimane la necessità di liberarsi dal senso di colpa così che la penitenza può rappresentare una risorsa utile al fine di superare il disagio interiore che la persona avverte e da cui non è in grado di liberarsi da sé. Assistiamo perciò anche a una persistenza del sacramento che tuttavia è celebrato in modi inadeguati e distanti dalla comprensione che la chiesa ha di esso. Per questa via il sacramento della penitenza per molti tende a trasformarsi in un colloquio con una forte sottolineatura psicologica oppure in un “rituale” che mira a offrire sicurezza e a dare risposta a una coscienza ossessionata dal peccato, ma incapace di giudicare le azioni. Il disagio nei confronti del sacramento della penitenza ha anche una seconda radice che riguarda la forma in cui attualmente esso viene celebrato: tale forma è il frutto di un lungo e complesso sviluppo storico e ha portato a dare al sacramento la struttura che noi attualmente conosciamo la quale trova il suo centro nell’atto di confessare il peccato. Proprio nel compimento di questo atto di dire il proprio peccato in forma conveniente, sul quale la tradizione degli ultimi secoli ha posto l’accento, oggi si manifesta un disagio che spesso trova espressione nella affermazione “non so cosa dire”. E’ comprensibile che questa formula possa suscitare un certo fastidio nel confessore (che potrebbe essere tentato di rispondere: “che cosa è venuto a fare?”). Eppure essa può essere interpretata come il sintomo delle difficoltà che il penitente incontra nel formarsi una coscienza chiara del peccato e nel dare una forma ecclesiale al cammino di conversione. Quando si cerca di portare alla luce quello che si cela, o potrebbe celarsi, dietro l’espressione “non so cosa dire”, alcuni aspetti si segnalano come particolarmente significativi. La fatica nel dire il peccato riflette spesso l’incertezza sui contenuti materiali della norma morale. La difficoltà nel dare un nome al peccato è infatti in molti casi il risultato del modo in cui è definita la norma morale. In questo ambito due aspetti appaiono problematici: da un lato la legge morale è presentata nella sua pretesa normativa senza che sia illustrato il suo legame diretto con Dio, dall’altro il rapporto con Dio è descritto senza prestare particolare attenzione al valore morale in esso contenuto o, meglio, riferendosi a figure così generali dell’agire morale che non sono capaci di suggerire alla coscienza del credente che cosa sia effettivamente comportamento buono nella concretezza della sua situazione e in quali forme il bene sia effettivamente praticabile. Le ragioni che determinano questa situazione sono diverse. Si può osservare anzitutto la perdita della rilevanza etica delle norme sociali di comportamento, anche in conseguenza del fatto che la persona si trova a vivere in contesti assai diversi (famiglia, lavoro, divertimento, ecc.) nei quali si adegua di volta in volta a norme di comportamento diverse. Da questa frammentazione degli ambienti vitali deriva una grande difficoltà a costruire una sintesi unitaria e a percepire il valore morale delle norme in rapporto ai significati decisivi per la vita; esse tendono piuttosto ad essere viste nella loro contingenza e nella loro finalità limitata di regolazione dei rapporti in un particolare ambito. A questo si aggiunge il fatto che la predicazione (morale) corre a volte il rischio di essere generica, richiamando a valori come l’amore del prossimo, il servizio agli ultimi, la solidarietà, il perdono, la giustizia, senza però prestare attenzione al contesto reale in cui la realizzazione di questi valori deve compiersi. La formula “non so che cosa dire” può dunque essere rivelatrice di superficialità, ma non necessariamente esprime la consapevolezza di essere senza peccato. Essa, al contrario, potrebbe nascondere la difficoltà a dire in modo adeguato la propria situazione spirituale e di conseguenza rappresentare una richiesta di aiuto per celebrare in modo adeguato il sacramento della penitenza. L’incertezza nel riconoscimento della colpa rappresenta perciò una richiesta da interpretare piuttosto che una dichiarazione di innocenza. Le osservazioni presentate mostrano che sono due i principali nodi problematici della pratica attuale della penitenza, cioè l’aspetto antropologico legato alla coscienza del peccato e alla realizzazione di un cammino di conversione dopo che si è raggiunta questa consapevolezza, e l’aspetto ecclesiale, legato alla forma in cui questa conversione si realizza con la partecipazione decisiva della comunità cristiana. Su questo secondo versante, la domanda oggi ricorrente è la seguente: perché è necessaria la mediazione della chiesa per poter ottenere il perdono di Dio? Non è possibile ottenere lo stesso risultato anche chiedendo perdono direttamente a Dio? La chiesa primitiva Il Nuovo Testamento rivela che fin dalle origini le comunità ecclesiali si sono trovate a fare i conti con la presenza del peccato al proprio interno e hanno cercato di dare risposta ai problemi che tale situazione poneva e di offrire vie percorribili per la conversione del peccatore. Questo non è affatto un esito scontato, dato che per la chiesa primitiva il sacramento per eccellenza della conversione è costituito dal battesimo, che segna una rottura netta con il passato e l’ingresso in una vita nuova. In linea di principio, per chi è stato inserito definitivamente in Cristo mediante il battesimo e appartiene alla chiesa non ci dovrebbe essere un ritorno al peccato. Di fatto però la comunità sperimenta che questo accade anche al proprio interno e che vi sono battezzati che, pur vivendo nel popolo dell’alleanza, con il loro agire rifiutano la comunione con Cristo in cui sono costituiti e si pongono quindi in contraddizione con la vocazione del popolo di Dio del quale continuano a far parte. Come reagisce la comunità cristiana a tale situazione? Nel contesto del discorso ecclesiale del vangelo di Matteo (Mt 18), che per gran parte si occupa del modo in cui la comunità deve affrontare il peccato che scopre presente al suo interno, troviamo alcune indicazioni che si riferiscono probabilmente a un processo disciplinare che veniva messo in atto nei confronti di un membro che si era reso colpevole di peccati gravi. Il testo che abitualmente viene interpretato come riferito alla correzione fraterna (Mt 18, 15-17) riflette proprio questo procedimento graduale che mira a far prendere coscienza della situazione in cui il peccatore si è posto con la propria colpa e a suscitare la sua conversione. Tanto le indicazioni circa il modo di procedere, come il detto di Gesù su potere di legare e sciogliere (Mt 18, 18) si comprendono sullo sfondo della prassi vigente nelle comunità giudaiche nelle quali, per determinate colpe, era prevista l’espulsione temporanea dalla comunità (legare) e la riammissione (sciogliere) dopo un periodo di tempo. La novità della ripresa neotestamentaria di questa prassi disciplinare, più che dalle concrete modalità di esercizio, è data dalla comprensione specificamente cristiana della natura della comunità dalla quale si è espulsi e nella quale si è riammessi: si tratta della comunità che è chiamata a partecipare alla salvezza escatologica del regno di Dio (si dovrebbe richiamare qui la stretta connessione esistente tra il regno di Dio annunciato da Gesù e il popolo di Dio al quale l’annuncio è rivolto e che Gesù raccoglie attorno a sé). Nell’interruzione della comunione con la chiesa quindi è implicata anche la possibilità per l’uomo di accedere alla salvezza. Un analogo modo di procedere è attestato dalla lettere paoline. Dalla testimonianza del Nuovo Testamento risulta che le comunità ecclesiali si sono trovate molto presto di fronte alla situazione di cristiani che commettevano peccati, anche molto gravi (cfr. p.es. le lettere di Paolo). Per il cristiano si tratta di una condizione paradossale, che contraddice apertamente la novità battesimale e la santità che dovrebbe contrassegnare la vita di coloro che sono entrati a far parte del popolo di Dio. Di fronte a tale situazione la chiesa non assume però un atteggiamento rigorista e non abbandona questi fedeli al proprio destino. Essa mette invece in atto una serie di interventi con la finalità di indurre i peccatori alla conversione. Non meno importante è la consapevolezza, fondata sulla promessa di Gesù (cfr. oltre a Mt 18, 18 anche Gv 20, 23), che la chiesa ha di disporre dell’autorità necessaria per riammettere i peccatori, reintegrandoli nella comunità della salvezza, e la convinzione che tale azione non ha un effetto limitato all’ambito della disciplina ecclesiale ma ha una profondità tale da coinvolgere il rapporto con Dio, operando efficacemente il perdono del peccato. In questo modo la chiesa si manifesta come segno efficace della misericordia di Dio. L’evoluzione storica della penitenza La penitenza canonica (chiamata in questo modo perché era regolata dai canoni dei concili e dagli scritti di alcuni vescovi ai quali si riconosce un valore normativo) della chiesa antica rappresenta sostanzialmente uno sviluppo che si colloca nella linea della disciplina ecclesiale già attestata nel Nuovo Testamento. Con il diffondersi del cristianesimo il livello morale delle comunità si abbassa e si pone in modo sempre più urgente il problema di una risposta pastorale adeguata. La penitenza canonica, che riceve la sua strutturazione dal IV al VI secolo, è una istituzione complessa, che comporta aspetti giuridici, liturgici e pastorali. I fedeli che si sono resi colpevoli di peccati gravi sono esclusi dalla comunità ecclesiale con un intervento del vescovo e questa condizione di separazione si manifesta nell’impossibilità di partecipare all’eucaristia, che costituisce il centro della vita comunitaria. Al vescovo spetta il compito di suscitare la volontà di conversione e di guidare l’itinerario penitenziale. Quando il peccatore si presenta per chiedere il perdono, egli viene aggregato all’ordine dei penitenti e dovrà svolgere per un certo periodo le opere penitenziali che gli sono assegnate (preghiera e digiuno). Al termine del periodo di penitenza avviene la riconciliazione ad opera del vescovo e la riammissione alla comunione eucaristica. Tra i problemi che determinano la crisi della penitenza canonica, il principale è rappresentato dal suo carattere irripetibile: ad essa si poteva essere ammessi soltanto una volta durante la vita. Sulla questione del carattere originario o meno del principio dell’unica penitenza, la discussione è stata assai accesa negli ultimi secoli. Le ragioni dell’unicità della penitenza sono diverse. Probabilmente un peso rilevante l’ha avuto la prospettiva escatologica del Pastore di Erma, che rivolge un invito pressante alla conversione; poiché la fine del mondo si avvicina, non è possibile indugiare ma ci si deve affrettare ad approfittare della unica (perché ultima) possibilità di ottenere il perdono che è data. Il principio dell’unicità della penitenza sopravvive anche quando la prospettiva della fine del mondo si allontana e diviene funzionale a far comprendere che non c’è seria conversione che non sia anche definitiva (e quindi è incompatibile con una ricaduta nel peccato). Coloro che erano passati attraverso la penitenza rimanevano inoltre soggetti, anche dopo la riconciliazione, a numerose limitazioni. Tutto ciò determina la tendenza a rimandare la penitenza alla fine della vita e porta in definitiva a uno snaturamento del suo significato perché diviene di fatto non più accessibile nelle condizioni normali della vita cristiana. Il vuoto lasciato da questa trasformazione della penitenza in sacramento dei morenti costituisce il terreno favorevole per lo sviluppo di una forma alternativa di penitenza. Tra il VI e l’VIII secolo i monaci irlandesi introducono in Europa un nuovo modo di celebrare la penitenza che ha origine dalla pratica della confessione monastica, simile alla direzione spirituale. La penitenza “privata” prevede la confessione dei peccati fatta a un sacerdote il quale impone delle opere penitenziali da compiere per un tempo determinato, trascorso il quale si ritorna per ricevere l’assoluzione. Il vantaggio principale di questa nuova forma rispetto alla penitenza canonica era dato dalla possibilità di accedere ad essa più volte nella vita; oltre a questo la nuova prassi si rivela meno complessa della precedente e, gradualmente, si verifica un’estensione dell’uso del sacramento al quale ormai si ricorre non più soltanto per ottenere il perdono dei peccati gravi ma anche per i peccati quotidiani o veniali. La confessione individuale nasce dunque come risposta alla necessità di adeguare la forma celebrativa a una mutata situazione storica in cui la penitenza canonica diventava di fatto inaccessibile per i fedeli. Tale evoluzione comporta però che si paghi un prezzo: l’individualizzazione della penitenza con il conseguente oscuramento della sua dimensione comunitaria ed ecclesiale, tanto nella celebrazione come nella riflessione teologica. In questa prospettiva la situazione del peccatore e del penitente non viene più percepita in relazione alla vita della comunità ecclesiale e al suo centro rappresentato dalla celebrazione dell’eucaristia, ma quasi esclusivamente in riferimento alla condizione morale del peccatore e all’azione della grazia di Dio che lo giustifica. La chiesa santa e i peccatori L’elemento primario che fonda la dimensione ecclesiale della penitenza è rappresentato dal fatto che essa non è il sacramento della conversione in senso generico, ma è il sacramento della conversione del battezzato peccatore. Nel soggetto che si converte e chiede la remissione del peccato è presente dunque un dato permanente, che lo qualifica in modo irreversibile, e che implica un legame con la chiesa stabilito dal battesimo. Se la relazione con la chiesa per il battezzato non è un elemento accessorio nel suo rapporto con Dio ma costituisce il luogo concreto dell’alleanza e della comunione con Dio, allora, quando il peccato compromette la verità di questo rapporto con Dio anche la sua appartenenza alla chiesa soffre una diminuzione poiché il battezzato viene a trovarsi in contraddizione con il mistero di santità che la costituisce. Da questo punto di vista è assai significativo il modo in cui la Costituzione Lumen gentium tratta il tema dell’appartenenza alla chiesa. Su tale questione vi sono state lunghe discussioni che vertevano principalmente sul rapporto tra i criteri esterni di appartenenza (triplice vincolo della professione di fede, dei sacramenti e della obbedienza alla gerarchia) e i criteri interni (la vita di grazia), con la problematica connessa dell’appartenenza o meno dei peccatori alla chiesa. Il Vaticano II avverte l’insufficienza di una determinazione puramente giuridica dei criteri di appartenenza alla chiesa, pensata come realtà che o esiste pienamente o non c’è affatto (dentro o fuori) e in LG 14-16 opta per l’assunzione di un modello di pienezza oppure realizzazione imperfetta, ma pure esistente, dell’appartenenza al popolo di Dio. Quando parla della «piena incorporazione» al popolo di Dio (LG 14) dispone i criteri su due livelli: quello interiore è dato dal possesso dello Spirito di Cristo, quello esteriore è dato dalla «sua struttura e i mezzi di salvezza in essa istituiti». Il peccatore continua a far parte della chiesa secondo i criteri visibili (e anche per l’irrevocabilità del battesimo), ma il suo peccato lo pone in contraddizione con la vocazione alla santità che egli è chiamato a vivere come membro della chiesa e che costituisce l’elemento decisivo perché si possa dire che egli ne fa pienamente parte. Quanto si afferma in nel II capitolo della Lumen gentium sui criteri di appartenenza al popolo di Dio trova conferma nella trattazione del tema della universale vocazione alla santità nella chiesa nel capitolo V della LG. In esso la santità non è descritta come una sorta di perfezione che la chiesa possederebbe per se stessa; essa è santa in forza della sua unione con Cristo suo sposo che continuamente le comunica la santità ricevuta da Dio (cfr. Ef 5, 25-26). Il Vaticano II dunque riprende la nozione biblica di santità, intesa come caratteristica che appartiene originariamente a Dio, e che viene comunicata all’uomo. In questo contesto l’idea della comunicazione della santità divina non fa altro che esprimere in termini diversi quanto l’inizio della Lumen gentium afferma circa l’origine della chiesa dalla Trinità. La comunicazione della santità divina è in ultima analisi la salvezza operata dal Padre in Cristo e nello Spirito che riunisce il popolo della nuova alleanza, anche se l’uso di questo concetto sottolinea come tratto peculiare l’esigenza di risposta a questo dono da parte del popolo, risposta che si traduce in una vita conforme al dono ricevuto. La santità della chiesa non è dunque soltanto un dato oggettivo, essa esige anche una risposta personale, una realizzazione nella vita cristiana concretamente vissuta. A ben vedere è proprio verso quest’ultimo aspetto della santità che tende tutto il discorso: infatti gli elementi costitutivi della chiesa, che costituiscono la sorgente della sua santità, sono orientati a costituire l’identità fondamentale del cristiano nel popolo di Dio, ma questo dato oggettivo esige a sua volta quella che potremmo chiamare una appropriazione personale o esistenziale. Nel V capitolo la LG recupera quindi alcuni elementi centrali della antropologia cristiana e li integra nella sua concezione ecclesiologica. Ciò significa che tutto quanto appartiene alla istituzione ecclesiale non ha altro fine che essere a servizio della appropriazione personale del dono della grazia, per mezzo della quale soltanto la persona umana diventa ciò che è chiamata ad essere in forza della sua vocazione. Tutta la realtà della chiesa è a servizio di questo incontro personale tra la grazia di Dio e la libertà della persona umana che è chiamata ad accoglierla. D’altra parte però questa accoglienza, che rappresenta la realtà più intima e personale che possa esistere, contribuisce al tempo stesso a rendere la chiesa luogo della santità e ambiente nel quale anche ad altri diviene possibile realizzare questo incontro. In questo modo il dinamismo della grazia non ha come obiettivo solo la salvezza e l’esistenza cristiana personale dei fedeli, ma anche l’edificazione della chiesa. Riconciliazione con Dio e riconciliazione con la chiesa Questa struttura della vocazione cristiana e l’inseparabile legame che essa ha con l’appartenenza alla comunità ecclesiale determina anche il processo attraverso il quale è possibile il superamento del peccato: l’alleanza con Dio non può essere recuperata che insieme e attraverso il recupero della piena verità della propria appartenenza alla chiesa. Il cammino di conversione attraverso il quale il battezzato peccatore cerca la riconciliazione con Dio non può perciò non avere un carattere ecclesiale. Sull’altro versante, la chiesa riaccoglie il peccatore ed è cosciente di adempiere in questo modo la sua vocazione di essere testimone della misericordia di Dio. Nell’atto di accoglienza del peccatore la chiesa manifesta la propria obbedienza a Gesù e insieme la consapevolezza di essere comunità che è segno efficace della riconciliazione che Dio offre al mondo. K. Rahner riflette in modo suggestivo sul carattere ecclesiale della riconciliazione del peccatore chiedendosi quale sia il significato del potere di “legare” e di “sciogliere” di cui si parla in Mt 16, 19 e 18, 18. I manuali di teologia spiegavano il legare come rifiuto di dare l’assoluzione; questa interpretazione riduce il legare all’astensione dal compiere un atto, cioè l’assoluzione, che rappresenta il fine cui propriamente mira la penitenza. In realtà, nel linguaggio del Nuovo Testamento legare significa qualcosa di più, cioè escludere dalla comunità, mettere al bando. Il battezzato che ha peccato appartiene ancora alla chiesa, ma la sua appartenenza incancellabile è privata del suo vero e intimo senso. Il peccatore infatti continua ad appartenere alla chiesa secondo le dimensioni visibili, ma a questo non corrisponde più il possesso della grazia. Per salvare il peccatore la chiesa come primo atto svela nella dimensione visibile lo stato menzognero in cui il peccatore si è posto con la sua colpa. La chiesa dice: tu membro della chiesa non sei ciò che sembri essere per la tua appartenenza visibile. Legare e sciogliere non sono quindi da intendere come due possibilità alternative tra cui la chiesa potrebbe scegliere nel suo modo di procedere contro il peccatore, ma due momenti di un unico atto, cioè della sua reazione contro il peccato. Se il legare significa rendere visibile la situazione in cui il peccatore si trova nei confronti della chiesa la stessa azione fa percepire anche la distanza del peccatore da Dio. Qui si può vedere un aspetto significativo del sacramento della penitenza anche in rapporto alla coscienza del peccato, che spesso affermiamo essere carente nei fedeli e da cui dipende una celebrazione difficoltosa del sacramento della penitenza. Se è vero che chi si accosta al sacramento della penitenza deve avere già una percezione del peccato alla luce della parola di Dio, è vero anche che il momento della celebrazione del sacramento diventa quello in cui il penitente comprende veramente che cosa significa il peccato. Esso infatti è percepito in tutta la sua realtà non semplicemente attraverso un movimento di introspezione che la persona potrebbe compiere in modo autonomo, ma solamente nel confronto con la parola di Dio. Ora, l’annuncio in forma personale della parola di Dio nella celebrazione del sacramento della penitenza rappresenta la modalità attraverso la quale la chiesa aiuta il battezzato a fare la necessaria chiarezza sul peccato e a fare maturare gli atteggiamenti che sono necessari per la conversione. In questo senso il “dire il peccato” è la manifestazione di questa chiarezza raggiunta e assume il carattere di vera e propria “confessione”. Questo processo che ha come obiettivo il raggiungimento di una consapevolezza e di una chiarezza circa il proprio peccato, poi, non opprime la persona con un senso di colpa insopportabile perché il momento della comprensione autentica del peccato coincide con il momento in cui si riceve perdono. La parola con cui il penitente dice il suo peccato è strettamente legata a quella con cui la chiesa dona il perdono. Il cuore dell’evento sacramentale della penitenza è dunque costituito dal convergere di due movimenti: la conversione del peccatore che confessa la propria colpa e chiede insieme al perdono di Dio di ritrovare la piena verità della propria appartenenza alla chiesa e l’azione della chiesa che riaccoglie il penitente e lo restituisce alla comunione con sé e con Dio. Questo duplice movimento e l’incontro che si realizza dovrebbe essere percepibile anche nella forma in cui la penitenza vine celebrata. Se vale quanto abbiamo detto, la celebrazione della penitenza diviene un evento spirituale non solo per il fedele, ma anche per il confessore. Sono decisivi da questo punto di vista alcuni atteggiamenti ministeriali da assumere. Compiendo il gesto della riconciliazione il ministro non è affatto strumento neutro e impersonale, esecutore di una funzione che la chiesa gli ha affidato, ma deve lasciarsi plasmare in un atteggiamento di obbedienza all’azione che Dio Padre compie mediante lo Spirito di Cristo. La partecipazione personale del ministero all’evento spirituale che si compie nella celebrazione del sacramento non significa in alcun modo indurre a un’interpretazione arbitrariamente soggettivistica dello stesso, come l’attenzione al senso oggettivo del sacramento e ai criteri di giudizio stabiliti dalla chiesa non esclude il coinvolgimento personale. Il ministro deve perciò vivere questo gesto sapendo che dispensa un beneficio altrui, che ha ricevuto dei criteri da colui che gli ha affidato la missione di riaccogliere, che mentre giudica egli viene giudicato, che mentre parla e consiglia egli è un ascoltatore dello Spirito che gli dona di edificare e consolare il cammino dei propri fratelli. Per questo sarà da evitare ogni atteggiamento indagatore, ogni curiosità invadente, ogni durezza gratuita. E’ invece necessario il coraggio per dire ogni cosa in tempo e modo opportuno al fine di risvegliare le coscienze, scuotere dal torpore e dalla pigrizia, lenire le ferite, incoraggiare e aprire la vita cristiana al cammino della virtù. Il sacramento della penitenza nella pastorale della chiesa Da questa concezione della penitenza deriva l’esigenza di superare l’isolamento in cui questo sacramento spesso si è trovato per reimmetterlo nel tessuto complessivo della vita ecclesiale. Questo principio può ispirare anche la ricerca di vie che potrebbero utilmente essere percorse (o almeno tentate) per rinnovare la pratica del sacramento della penitenza. Affrontando questo tema ci si addentra in un ambito difficile e in cui nessuno è in grado di dare preventivamente la certezza dell’efficacia dei rimedi che si propongono. Se infatti la constatazione della crisi del sacramento della penitenza si impone ad ogni osservatore, non è altrettanto facile indicare delle vie che permettano di recuperare il senso della penitenza e quindi restituire una consistenza alla sua pratica all’interno della vita cristiana. Alcune indicazioni schematiche possono suggerire possibili scelte coerenti con la figura teologica del sacramento. 1. La coscienza del peccato, essenziale per la conversione e per la penitenza, si forma solo attraverso il confronto con la parola di Dio. Tale confronto si realizza remotamente attraverso l’evangelizzazione e la catechesi: in esse si deve ricucire il legame essenziale tra la fede e l’etica e offrire criteri evangelici che permettano di giudicare il proprio agire. Ma l’ascolto della parola di Dio deve trovare spazio anche nella celebrazione del sacramento; su questo la riforma liturgica ha insistito, come del resto per gli altri sacramenti, ma nel caso della penitenza assume un rilievo ancora maggiore proprio perché il confronto con la parola di Dio è la condizione per riconoscere la propria verità di peccatori davanti a Dio (senza minimizzarla e senza esagerarla come si tende a fare quando ci si affida solo a criteri psicologici). 2. Tutti riconoscono l’urgenza di valorizzare maggiormente la dimensione ecclesiale e comunitaria della penitenza. Il modo per realizzare questa esigenza è anzitutto quello di inserire la penitenza nella programmazione pastorale ordinaria; l’abitudine già esistente di legare la penitenza alle celebrazioni liturgiche più importante dell’anno liturgico potrebbe essere verificata e rinnovata al fine di offrire alla comunità cristiana un itinerario che preveda anche la penitenza come passaggio significativo e importante, anche attraverso la proposta di celebrazioni comunitarie della penitenza. 3. Infine, è necessario far percepire che il sacramento della penitenza costituisce una risorsa importante per il cammino spirituale personale poiché stimola e sostiene il cammino di conversione che ne costituisce una dimensione fondamentale. Oggi si segnala spesso il limite delle proposte di massa e si insiste sulla necessità di percorsi di fede più attenti all’individuo. Il sacramento della penitenza costituisce uno strumento prezioso per questo cammino personale. In esso infatti la fede, che è quanto di più personale esista, diventa criterio per giudicare l’agire concreto e stimolo per un cammino di conversione che ha come meta la realizzazione della propria chiamata alla santità. Nel sacramento della penitenza il cammino di conversione ha un carattere personale e insieme ecclesiale. Da una parte infatti la tensione dei credenti verso la santità edifica la chiesa nel modo più vero e profondo, dall’altra il credente non è lasciato solo nel suo cammino di conversione, ma è sostenuto dalla chiesa che gli annuncia e dona il perdono di Dio.