Giornate Formative 2009 - Relazione don Luciano Ruga

Silenziosi Operai della Croce
giornate di formazione permanente 2009
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SEGNATI DAL DOLORE - CONTRASSEGNATI DALL’AMORE
luciano ruga
Nel messaggio confidato ai veggenti dalla Vergine Santa a Lourdes e a Fatima, il richiamo alla
conversione ci è molto familiare, e vi è forse il rischio che resti confinato nello spazio di uno
stereotipo. Certamente possiamo ripetere: “preghiera e penitenza” molte volte, senza che dal
ritornello escano, come frutti importanti, i respiri di una fede adulta. Accostandoci alla riflessione
sulla “penitenza”, cerchiamo di trovare elementi che ci permettano di approfondire tale aspetto del
nostro carisma. Intendiamo così, possibilmente, renderne più vivace la nostra comprensione e gli
atteggiamenti che vi possano corrispondere.
In un testo del 1966, il nostro fondatore scriveva che “le parole della Madonna acquistano la
propria e vera luce soltanto se le poniamo nel quadro che Ella stessa ha indicato, nella sua prima
apparizione, alla piccola Bernardetta: un grande segno di Croce tracciato sulla propria persona
come tema di quanto avrebbe poi, volta per volta, indicato. Il che significa, sono venuta a
richiamare Cristo e Cristo crocifisso (L. Novarese, L’Ancora - N. 7 - luglio 1966 - pag. 1-5). È un
testo particolarmente interessante perché offre un criterio aperto alla lettura di molte situazioni. La
Madonna stessa, secondo mons. Novarese, avrebbe affidato a tale criterio il suo messaggio,
applicato poi da Bernardetta, dal fondatore stesso e offerto anche a noi e ai nostri cammini futuri.
L’indicazione ripetuta “Cristo e Cristo crocifisso” ha un sapore familiare e ci ricorda un’espressione
della 1Cor 2,2: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi
crocifisso”. Non intendiamo forzare la lettura di quanto scritto dal fondatore, nondimeno la
suggestione è forte e la lettura del testo paolino illuminante. Iniziando dal capitolo 1 verso 23 della
medesima lettera, troviamo riferiti alla menzione di Cristo crocifisso diversi elementi “contrapposti”:
scandalo - potenza; stoltezza - sapienza. Accostiamo ora questi elementi a quelli già espressi dal
titolo: “Segnati dal dolore - contrassegnati dall’amore”. Intendiamo riflettere proprio muovendoci
all’interno di questi punti “estremi”. Quello che vogliamo cogliere dentro queste indicazioni è
l’esistenza di un passaggio naturale e necessario. Il dolore ci segna e ne facciamo esperienza in
molti modi. L’amore ci “contrassegna” e in questo riconosciamo un esigenza nuova, un qualcosa in
più. Non accade, infatti, di essere contrassegnati dall’amore solo in virtù delle circostanze esteriori.
Trattandosi di amore è necessario che vi sia implicata la libertà, la responsabilità, la risposta della
creatura umana. Saremo contrassegnati dall’amore solo se lo “vogliamo”, nel senso che anche il
nome “volontari della sofferenza” ci indica. Un passaggio voluto, ricercato, scelto, tra il dolore e
l’amore, tra il subire e il donare, tra la morte e la vita.
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L’espressione del titolo, come molti ricordano, è tratta dall’omelia di Paolo VI del 26 maggio 1968,
rivolta al Centro Volontari della Sofferenza, riunito nella basilica di San Pietro. Cercheremo di
leggere il passaggio dal dolore all’amore come espressione del nostro cammino penitenziale. Lo
faremo mantenendo chiaro il riferimento alla croce, che ci permette di comprendere a fondo
l’amore stesso e il dono della vita. Tale partecipazione al mistero pasquale è sorgente di forza
vivificante, crescita della vita in noi, aumento di bellezza e di senso. La partecipazione alla croce di
Cristo è vivificante. Anche la nostra penitenza lo deve essere. La comunione con la vita nuova,
dono del crocifisso risorto, esige da ciascuno di noi la dedizione dell’amore e la generosità del
servizio. Facendo esperienza di ciò che ostacola la nostra risposta di amore a Dio, comprendiamo
la penitenza come occasione propizia per attuare gesti e comportamenti che favoriscano una
liberazione autentica e gioiosa: un passo in più, uscendo da se stessi, verso un ingresso più
convinto nella vita nuova, dono del risorto. La materna esortazione dell’Immacolata nei suoi
messaggi a Lourdes e a Fatima, si realizza proprio dentro la testimonianza di una vita “penitente”,
perché vissuta in comunione con Dio, animata dalla preghiera e avvalorata da un comportamento
coerente, frutto di una continua conversione.
La croce, mistero di morte e di vita, si presenta a noi con caratteri “opposti”. È possibile, infatti,
riconoscere nel segno della croce la presenza di due aspetti, uno “mortificante” e uno “vivificante”.
Crediamo di dover prediligere senza indugio quello vivificante, come espressione coerente della
nostra fede cristiana. Questo senza dimenticare che non vi è risurrezione senza attraversare la
morte. Inoltre, non intendiamo escludere la “mortificazione” intesa come sobrietà, capacità di
autocontrollo e di educazione ad un piacere non egoista. Non stiamo elaborando un atteggiamento
opposto alla mortificazione, nel senso che preveda una vita lasciva e viziosa, smodata ed
egocentrica. Stiamo collocando decisamente tutte le cose a cui attribuiamo il nome di “penitenza”,
nello spazio di una partecipazione necessaria alla vita nuova, donata dal risorto ed espressa nel
mistero pasquale di morte e risurrezione, di cui la croce è segno eloquente. In tal senso prendiamo
le distanze da atteggiamenti “penitenziali” che si presentassero come fine a se stessi, quasi
espressione di un valore in sé e per sé, a prescindere da cosa comportino interiormente e da dove
ci conducano. Intendiamo leggere questo cammino penitenziale da morte a vita utilizzando
l’esperienza, fondamentale per l’identità del popolo di Dio, definita dal libro dell’Esodo. Si tratta di
un cammino vivificante e liberante di cui sottolineiamo tre aspetti, due di passaggio: dalla schiavitù
alla libertà, dalle tenebre alla luce; uno di relazione, intesa come dialogo tra Dio e l’uomo, aperta
verso un futuro che sarà determinato insieme.
Il passaggio da schiavitù e libertà è quello più evidente nel cammino dell’esodo. Notiamo che non
si tratta di cambiare padrone, ma di raggiungere una vera libertà. L’esodo non fa passare il popolo
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da una prima schiavitù, nei confronti del faraone, ad una altra riferibile a Dio stesso. Il passaggio
dell’Esodo offre al popolo una realtà nuova, rende le persone capaci di vivere nella libertà il
servizio reso al Signore, assumendo caratteri in tutto alternativi alla precedente situazione di
schiavitù (cf. Lv 25,39-43; Gs 24,1-28). Vi è però anche il rischio di ricadere nella prigionia (Dt
28,47-68), cedendo a nuovi padroni.
La conquista della libertà comporta nondimeno delle difficoltà da superare, ostacoli che si
frappongono nell’itinerario verso una situazione migliore (Es 1,8-22; 5,1-23; 14,1-31). È la
medesima considerazione che possiamo riconoscere in Mt 7,13, definendo il cammino del
discepolo in rapporto alle immagini eloquenti di una porta stretta e di una via angusta. La tensione
verso la meta comporta anche degli strappi da se stessi, esponendosi fuori di sé a favore di altri
(2Cor 4,10).
Il secondo elemento del passaggio, quello da tenebre a luce, ha in sé i caratteri della rivelazione.
Nell’ultima “piaga”, prima della morte dei primogeniti durante la notte di uscita dall’Egitto, il luogo
della schiavitù è colpito da una tenebra impenetrabile (Es 10,21-23). L’assenza di luce impedisce
ogni movimento, non c’è possibilità di relazione, di incontro, di conoscenza degli altri e di sé. È
invece necessario per la nostra vita che vi sia l’accadimento della “rivelazione”: una “luce” che
renda visibile e vivibile il mondo, e se stessi in esso.
L’aspetto della relazione tra Dio e l’uomo, che intendiamo considerare nelle lettura della penitenza
come percorso di esodo, riguarda la determinazione stessa dell’esito del cammino. Il dialogo, nel
libro dell’Esodo, segna fortemente l’alternarsi di fedeltà e infedeltà, con differenti conseguenze.
Vorremmo cogliere, proprio nel dialogo, un elemento importante circa la pratica penitenziale
all’interno di un cammino di libertà. Lo cogliamo in un altro testo biblico, in cui l’elemento
penitenziale è descritto come decisivo per il destino di un popolo. Nel libro di Giona, il profeta è
inviato alla grande città, Ninive, per predicare la conversione. In 3,2 il verbo relativo alla
comunicazione da parte di Dio è espresso al futuro: “Alzati, và a Ninive la grande città e annunzia
loro quanto ti dirò". Non si tratta quindi di riferire i contenuti di una comunicazione già avvenuta,
che riguardi accadimenti ormai determinati e che solo attendano di compiersi dentro un destino. Il
futuro si realizza come frutto di un dialogo vitale tra l’uomo e Dio: ogni parola suscita e determina
una relativa e inedita risposta. Sempre nel capitolo 3, ai versi 8 e 9, il medesimo verbo “ritornare” è
riferito ugualmente al popolo e a Dio. Il ritorno dell’uno potrà determinare il ritorno dell’altro. Vi è
una profonda correlazione tra i due comportamenti che determineranno quanto avverrà per il
popolo di Ninive. Tra Dio e la creatura umana si svolge un incessante dialogo che attraversa
qualunque situazione, identità, comportamento, scelta. Dio si fa sempre coinvolgere dalla libertà
dell’uomo dentro situazioni nuove (cf. E. DREWERMANN, E il pesce vomitò Giona all’asciutto, p.
77-79, Brescia 2003). Anche questo è un “segno di Giona” che ci piace ricordare nel suo valore di
passaggio da morte a vita (cf. Lc 11,29).
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Da quanto detto circa il carattere di esodo che assume il nostro “fare penitenza”, possiamo
riconoscere nell’atteggiamento di chi si converte la presenza di elementi rivelativi e salvifici. Con
una felice immagine mutuata dai padri della Chiesa, possiamo considerare i colori come esito della
“sofferenza” della luce quando si divide, quando incontra la terra. Analogamente è descritto
l’incontro di Cristo-luce con il corpo umano (Cristo è la luce che avendo preso carne è divenuta
colore). Con riferimento a questa immagine accostiamo nella nostra riflessione i caratteri della
rivelazione e della salvezza. Ricordiamo il discorso di Giovanni XXIII al CVS (19.3.1959) con la
menzione “penitenziale” di lavoro e dolore. “Il lavoro e il dolore sono la prima penitenza imposta da
Dio alla umanità caduta nel peccato”. C’è un aspetto importante, a tale riguardo, nel testo di
Genesi 3,23 in cui è menzionata la comminazione del “castigo”. L’uomo viene rimandato alla terra
da cui è stato tratto. Si tratta in effetti di un ritorno alla propria origine, quasi di un essere rinviati
alla propria identità iniziale, riscoprendo i propri colori. All’uomo, che si era voluto mettere al centro
del giardino, prendendo il posto di Dio, è offerta la condizione di riscoprire se stesso, la propria
identità autentica.
L’esperienza del limite, che appartiene al lavoro e al dolore, è un evento che rivela l’identità. Fa
toccare con mano chi siamo realmente. Essere rinviati alla terra con un lavoro da compiere, è via
concreta per riacquisire la libertà perduta. Schiavo del peccato, l’uomo perde il suo volto autentico,
la libertà, la dignità di creatura amata da Dio. Il lavoro e il dolore possono invece ricondurre l’uomo
alla determinazione di non essere uno schiavo. La sofferenza come normale risultato della fragilità
fisica e morale dell’umanità e del mondo, il lavoro come partecipazione dell’uomo all’opera
creatrice e trasformatrice di Dio stesso, sono sentieri per il nostro esodo verso una libertà autentica
e sempre nuova.
Momento di rivelazione, il cammino penitenziale verso la libertà è anche incontro concreto con la
salvezza in Cristo Gesù. Ogni situazione della vita, ogni colore che caratterizza la nostra umana
esperienza, può esprimersi nella comunione con tutti i colori che il Figlio di Dio ha assunto nella
natura umana, esito della sofferenza della “luce” che ha incontrato la terra. È in particolare il
sacramento dell’eucaristia a realizzare e fortificare tale unione. Dentro le realtà sacramentali, a
partire dal battesimo, si compie un progresso continuo di assimilazione a Cristo, al suo passaggio
pasquale da morte a vita. Assimilazione e trasformazione sono caratteri tipici sia del cammino, sia
del nutrimento. Così, pensando all’esodo, possiamo definire l’eucaristia come un cibo che “fa
passare”, da schiavitù a libertà, da tenebre a luce, da morte a vita.
All’esito di un autentico cammino di conversione, non può mancare l’elemento della missione.
L’idea è espressa con efficacia da Primo Mazzolari, commentando il ritorno del figliol prodigo:
“Ritornare è capire che bisogna uscire di nuovo” (P. MAZZOLARI, La più bella avventura, p. 181,
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Bologna 1978). Nella lettura del celebre brano di Luca 15,11-32, l’esperienza del figlio minore
culmina con una comprensione decisiva del proprio ritorno. Il prodigo non si accontenta dello
scampato pericolo, di essere sopravvissuto al naufragio: “Se si sedesse al focolare, baloccandosi
di piccole cose, giocando all’apostolato, come fa molta brava gente, sarebbe la copia peggiorata
dell’infingardo” (La più bella avventura, p. 181). È un testo crudo che smaschera il rischio di
assumere atteggiamenti di facciata, senza profondità, un po’ ad illudere noi stessi, pensando che
tutto sommato siamo delle persone dedite agli altri: “giocando all’apostolato”. Ci preme sottolineare
che andare verso gli altri, assumere la missione che ci è connaturale in virtù del battesimo, è esito
non prescindibile del nostro cammino di conversione e penitenza. Se non arriviamo a questo
traguardo non stiamo vivendo cristianamente.
Per operare una sintesi conclusiva di queste nostre riflessioni, consideriamo la definizione che
mons. Luigi Novarese ha dato della penitenza. La troviamo in “Idee fondamentali”, un testo che
riconosciamo particolarmente prezioso, essendo stato scritto dal fondatore espressamente per
comunicare gli elementi essenziali nella spiritualità dei Silenziosi Operai della Croce. “Che cosa è
la penitenza? E' lo spazio che nella tenda interiore ciascuno dà - per combattere in se stesso le
inclinazioni al peccato - e stabilire il Regno di Dio, - riparando per sé e per gli altri le
manchevolezze che si commettono e che offendono la divina Maestà".
Consideriamo innanzitutto come la penitenza sia definita con l’immagine dello spazio, elemento
proprio del cammino, che in effetti attraversa degli spazi. Tale luogo di conversione è collocato da
mons. Novarese dentro la tenda interiore. È questo un elemento prezioso per intendere come sia
necessario che la nostra vita penitente abbia una radice profonda, nasca da uno spazio del cuore
e operi una crescita nella capacità di amare. Due sono le indicazioni operative di questo spazio. La
prima è di sapore negativo, come combattimento delle inclinazioni al peccato, la seconda, più
positiva, indica nella costruzione del Regno, il traguardo ampio dei nostri cammini penitenziali. Se
il “combattimento” ha maggiormente il sapore di pratiche penitenziali e di mortificazioni, l’impegno
a stabilire il Regno di Dio si qualifica con quel ritorno, aperto alla missione, che abbiamo colto
come esito autentico di una vita penitente.
Il testo di mons. Novarese si conclude con un riferimento alla “riparazione”. Vi è nell’espressione
un rischio da evitare con cura ed è quello di potersi riconoscere nella seguente descrizione:
“Confesso che non capisco certi discorsi dolenti… certi dolciastri inviti alla riparazione, ove Gesù è
presentato come un deluso e un vinto, reclamante un poco di consolazione a un gruppo di devoti,
che assomigliano a degli scampati da un naufragio” (La più bella avventura, p. 179). Ritorna
l’immagine del naufrago, prima riferita al figliol prodigo ed a una visione mesta dell’esperienza
cristiana, come se Cristo non fosse risorto. Non riteniamo che la definizione di mons. Luigi
Novarese si collochi in questo spazio e comprendiamo invece che, superando le espressioni
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proprie di certi tempi e di certe correnti spirituali, la “riparazione” voglia esprimere la realtà di una
comunione profonda con l’amore di Dio, che in Cristo Gesù accoglie, rinnova, vivifica il mondo.
C’è molta gioia nel ritorno del figlio prodigo. C’è passione per la vita autentica, continuamente
scoperta e annunciata. C’è il desiderio di giungere ad un traguardo davvero concludente, senza
“giocare all’apostolato”. La penitenza è un itinerario di libertà dentro la tenda interiore, dove siamo
chiamati a compiere il nostro esodo, quotidiano e gioioso.