Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 14 Diritti e rovesci del detenuto in Italia tra normative, effettività e tutela. Marzia Tosi1 Abstract Il presente elaborato si apre delineando le evoluzioni nazionali e sovranazionali dell’impianto normativo che sancisce i diritti dei soggetti privati della libertà personale, per poi concentrarsi sul tema problematico del grado di effettività dell’attuazione normativa. Infine, verranno delineati gli strumenti di cui il soggetto privato della libertà personale dispone per far valere i propri diritti, tra cui anche il ricorso alla Corte di Strasburgo. Parole chiave: Detenzione, penitenziario, diritti umani. trattamento scrive, il modo in cui uno Stato decide di trattare chi pone in essere comportamenti devianti rispetto alla norma molto ci dice del suo grado di civiltà giuridica. Parlando di carcere ci muoviamo su un terreno piuttosto complesso: con la detenzione, che in qualche modo è tuttora purtroppo volta ad estromettere il reo dalla società, si tratta di contemperare le esigenze di sicurezza della collettività con quelle del rispetto dei diritti umani fondamentali, il tutto passando per la rieducazione, processo che deve essere il fine ultimo della pena e che deve portare al reinserimento del reo nella società; quella stessa società che fatica, però, a parlare di carcere e che senz’altro dovrebbe essere sensibilizzata a riguardo. Inoltre bisogna tenere ben presente l’impatto che hanno le scelte di politica criminale di volta in volta operate dal legislatore, il cui andamento ondivago rappresenta la spia dell’incertezza in cui ci muoviamo nel tentativo di dare una risposta facile ad un problema difficile. 1. Diritti Introduzione Le problematiche relative alla realtà penitenziaria italiana non possono essere più ignorate, non solo perché il carcere finisce per essere – piuttosto che luogo di pena – luogo di sofferenza2, ma anche perché, a parere di chi Al termine della seconda guerra mondiale, le tematiche relative ai diritti umani sono emerse con rinnovato vigore3. Il 1948 deve senza dubbio essere riconosciuto come un anno di fondamentale importanza, in cui sono state poste alcune delle pietre miliari del processo di affermazione dei diritti umani: ci si riferisce alla Dichiarazione universale dei 1 Laureata in Giurisprudenza, Università degli Studi di Brescia. Praticante forense e specializzanda in Criminologia, Scuola di Alta Formazione in Scienze Criminologiche | CRINVE, Istituto FDE Mantova. Collabora presso il Centro di Supporto alle Vittime di Reato di Mantova, LIBRA. 2 Ci si riferisce qui non alla sofferenza in qualche modo fisiologica e implicita nella privazione della libertà personale, unico diritto su cui la detenzione dovrebbe incidere, ma a quella che più avanti definiremo come violenza addizionale, ovvero quella che eccede la lettera legislativa. Si veda L. MANCONI, V. CALDERONE, Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri, Milano 2011. 3 L’interesse per le tematiche di cui ci stiamo occupando non è peculiarità del secolo XIX: si pensi alla Dichiarazione di Indipendenza proclamata dagli Stati Uniti d’America nel 1776, alla Costituzione di Filadelfia del 1787 o, ancora, all’operato dell’Assemblea Costituente francese, che varò il testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la quale conteneva l’elenco dei diritti fondamentali inviolabili. Così G. DI GENNARO, I diritti umani ieri e oggi, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1, 2007, pp. 11-13, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/5121.pdf. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 15 diritti dell’uomo4 e alla nascita della nostra Carta costituzionale. L’importanza della dicotomia tra law, diritto in senso oggettivo in cui si sostanzia ogni ordinamento giuridico, e right, diritto in senso soggettivo, nell’immediato dopoguerra conosce maggiore problematizzazione e trova grande sensibilità nel mondo politico e civile. Lo spirito dell’epoca si riflette nel riconoscimento di «diritti, uguali e inalienabili» come «fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo», e nella proclamazione dell’impegno degli Stati membri – insieme con le Nazioni Unite – a perseguire «il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali». La Dichiarazione afferma che «nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti». Si stabiliscono principi come la presunzione di non colpevolezza, la tassatività della legge penale e la pubblicità dell’udienza; si riconoscono la libertà di opinione e di espressione, il diritto al lavoro e all’istruzione. Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica italiana: se, come afferma l’articolo 2, è vero che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», da tale riconoscimento non dev’essere escluso il detenuto. Si affermano qui principi di importanza fondamentale: si pensi – a titolo esemplificativo – a quello di uguaglianza, all’habeas corpus, al diritto di difesa e alla libertà pensiero e di religione, all’enunciazione della tutela della famiglia, al diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro. Un ruolo di spicco deve riconoscersi – nell’ambito ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Parigi, 10 dicembre 1948, da cui sono tratte le citazioni nel testo, consultabile in http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Tran slations/itn.pdf. 4 della presente trattazione – all’articolo 27, che, dopo aver enunciato il principio della presunzione di non colpevolezza, al terzo comma stabilisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»5. Altra importante fonte è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 19506, che ha – fra l’altro – palesato la volontà di offrire maggiore garanzia ai principi qui affermati, apprestando una forma di tutela giurisdizionale che trova il suo baricentro nella Corte europea dei diritti dell’uomo. Si parla del diritto alla vita, si torna sul divieto di tortura, su quello di lavoro forzato od obbligatorio e sull’habeas corpus; viene poi introdotta una serie di garanzie nei confronti della persona privata della libertà personale. Ove queste disposizioni vengano violate, la persona interessata avrà diritto a una riparazione. Dobbiamo attendere il 1955 perché il tema del trattamento penitenziario, in ambito internazionale, venga affrontato in modo organico e specifico con le Standard minimum rules for the treatment of prisoners7. Tale documento afferma che le regole in esso contenute non sono tanto orientate a descrivere dettagliatamente un modello di istituzione penitenziaria, ma tendono piuttosto a porre in rilievo una serie di 5 Sulla genesi del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione si veda C.G. DE VITO, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007, Bari 2009, pp. 20-22. 6 CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma, 4 novembre 1950, in http://www.echr.coe.int/NR/rdonlyres/0D3304D1F396-414A-A6C1-97B316F9753A/0/ITA_CONV.pdf. 7 NAZIONI UNITE, Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners, Geneva 1955, in http://www2.ohchr.org/english/law/pdf/treatmentprisoners .pdf Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 16 principi trattamentali che godono di un generale consenso e si trovano senz’altro sulla linea delle correnti di pensiero affermatesi nel dopoguerra8. Sono qui sanciti alcuni principi di fondamentale importanza, come quello della separazione dei detenuti secondo il sesso, l’età, la pericolosità sociale e le esigenze trattamentali; vengono dettate disposizioni concernenti i locali di detenzione; ci si concentra sull’aspetto sanitario; si comincia ed enfatizzare il ruolo dei legami sociali. Grande importanza riveste poi l’articolo 31, che pone il divieto di pene corporali e, in ogni caso, che siano crudeli, inumane o degradanti. Se con l’avvento del periodo repubblicano assistiamo ad un’inversione di tendenza, è negli anni della legislazione sociale che nasce il più importante punto di riferimento normativo per la realtà penitenziaria italiana, ovvero la Legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», c.d. Ordinamento Penitenziario (d’ora in avanti O.P.)9. Esso, che ha visto la luce dopo un iter molto travagliato, rappresenta la presa di coscienza dell’inadeguatezza del Regolamento del 1931 e la volontà di porsi in una linea di continuità con le tendenze delineate dalle fonti sovranazionali e dalla Costituzione del 1948. Il R.D. 18 giugno 1931, n. 787 optava, infatti, per una logica afflittiva secondo la quale le sofferenze fisiche e le privazioni sarebbero mezzi correzionali del reo, utilizzabili al fine di provocare un suo ravvedimento. In carcere erano possibili solo pratiche religiose, istruzione e lavoro; nonostante si riconoscesse il potere rieducativo anche di altri strumenti – si pensi alla musica – si riteneva che essi dovessero rimanere nel mondo libero, così da evidenziare la funzione afflittiva della pena10. In carcere i canti, i giochi e ogni altra occupazione non espressamente consentita erano vietati11. I condannati erano sottoposti al potere rigidamente verticistico dell’amministrazione penitenziaria e «dovevano essere chiamati col numero delle loro matricole, subire il taglio dei capelli, indossare l’abito uniforme a strisce, camminare durante il passaggio soli o a tre a tre, parlare a voce bassa, non uscire dalla fila né fermarsi o sedersi senza aver ottenuto il permesso dagli agenti di custodia»12. Evidenti sono le differenze con l’impianto dell’O.P., ma bisognerà attendere ancora un venticinquennio dall’adozione di questo per assistere alla nascita del c.d. Regolamento Penitenziario, D.P.R. 230/200013. Esso, animato dalla volontà di offrire maggiore concretezza a quel trattamento penitenziario individualizzato e finalizzato alla rieducazione di cui alla Legge 354/75, intende È stato però rilevato che, nonostante l’esplicitazione contenuta in apertura alle osservazioni preliminari, i redattori hanno in qualche modo codificato una serie di principi caratterizzanti i modelli penitenziari che andavano affermandosi nei Paesi democratici occidentali nel periodo post-bellico, «la cui genealogia è stata descritta da Michel Foucault in Sorvegliare e Punire». Così G. CAPUTO, Carcere e diritti sociali, marzo 2010. http://www.cesvot.it/repository/cont_schedemm/5636_docu mento.pdf, p. 21. 9 Legge 26 luglio 1975, n. 354. Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/FDF48DF0-FB7D4D75-AD02-E95E2142DDF3/0/34_Legge26luglio1975n354.pdf 10 D. VALIA, I diritti del recluso tra legge 354/1975, Costituzione e Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, 3, 1999, pp. 9-10, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/21946.pdf. 11 F.S. FORTUNA, Il carcere duro, negazione dell’ideologia penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1, 2004, p. 64, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/64391.pdf. 12 G. RAGNO, Le posizioni subiettive del condannato, in Iustitia, pp. 231 ss., citato in VALIA, I diritti del recluso, cit., p. 8. 13 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230. Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà. http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/as sets/files/14/0851_2007_07_09_DPR_230_2000_religioni.pdf. 8 Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 17 agevolare l’esercizio di tutte le libertà che non siano elise o compresse da esigenze di ordine e sicurezza e fissa degli standard che siano maggiormente rispettosi dell’integrità psicofisica del detenuto, così da creare degli spazi effettivi all’interno dei quali possa aver luogo l’offerta trattamentale dell’amministrazione penitenziaria. Che il detenuto venga ora visto come il centro dell’impianto normativo penitenziario emerge già dall’articolo 1 O.P., il quale recepisce quanto già stabilito in ambito internazionale e dall’articolo 27 della Costituzione, sottolineando al primo comma che «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona» e al terzo che il trattamento degli imputati dev’essere informato al principio di non colpevolezza. Il secondo comma sancisce l’imparzialità del trattamento, riprendendo il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione. In aperta soluzione di continuità col Regolamento del 1931, sotto la vigenza del quale veniva utilizzato il numero di matricola per riferirsi ai carcerati, il quarto comma dell’articolo 1 O.P. si è preoccupato di esplicitare che ora i soggetti reclusi devono essere indicati o chiamati col proprio nome. Se, come si legge nell’ultimo comma, «nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi», è evidente che il legislatore del 1975 ha stabilito un rapporto di mezzo a fine tra trattamento e rieducazione, e che se il primo è ispirato ad un «criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti» la logica della depersonalizzazione è stata abbandonata. Il trattamento non ha carattere impositivo (la norma comprende in sé anche il diritto a non essere trattato), ma postula l’adesione volontaria allo stesso da parte dei soggetti cui è destinato, ovvero da detenuti e internati. Occorre però tenere presente che mentre gli imputati hanno facoltà di aderire all’offerta trattamentale posta in essere dall’amministrazione penitenziaria, in capo ai condannati sussiste un vero diritto al trattamento14. Se l’articolo 1 O.P. parla di un trattamento individualizzato, in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti, il secondo comma dell’articolo 13 stabilisce che all’inizio dell’esecuzione e nel corso di essa è predisposta l’osservazione scientifica della personalità, per l’espletamento della quale si raccolgono dati giudiziari, biografici e sanitari. Ai sensi dell’articolo 27 del Regolamento 230/2000 l’osservazione è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze psico-fisiche, affettive, educative e sociali che sono state di pregiudizio alla normale vita di relazione, ed è rivolta a desumere elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento nonché, in una fase successiva, ad assumere le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione dello stesso. Sulla base delle risultanze dell’osservazione viene elaborato un programma trattamentale specifico e individualizzato. Ma quali sono gli elementi su cui deve fondarsi il trattamento? A quelli classici, ovvero istruzione, lavoro e religione, sono stati esplicitamente affiancati altri: si parla di attività ricreative e sportive e di contatti con il mondo esterno e con la famiglia. Alcune brevi battute sul tema del lavoro: è evidente la necessità sentita dal legislatore di palesare quale debba essere la natura dello stesso, tanto che al secondo 14 Si esprime in tal senso VALIA, I diritti del recluso, cit., pp. 22-23 Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 18 comma dell’articolo 20 leggiamo che «il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato». Dev’essere favorita la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale (primo comma); inoltre il compimento di tali attività dev’essere strutturato in modo affine a quanto avviene extra moenia, cosicché il soggetto possa acquisire un certo grado di professionalità che agevoli il suo reinserimento (quinto comma). La condizione preferibile è senz’altro quella che si sostanzia nella dipendenza da un datore di lavoro esterno: a tal fine le amministrazioni penitenziarie stipulano apposite convenzioni con soggetti pubblici o privati o cooperative sociali. Per quanto invece attiene alla religione, non solo l’articolo 26 O.P. riconosce alle persone private della libertà personale la «libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto», ma assicura anche la celebrazione del culto cattolico e la presenza di un cappellano e stabilisce che gli appartenenti ad una diversa religione «hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, la assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti». Nel frattempo la nuova concezione del trattamento penitenziario affermatasi in ambito europeo ha imposto di riconsiderare le Standard minimum rules for the treatment of prisoners, dando così vita alle European prison rules R(87)315 Trattandosi di raccomandazioni, non ci troviamo di fronte a documenti vincolanti, ma sicuramente di grande valore: in proposito non è mancato chi ha parlato di un «codice penitenziario europeo»16 che si 15 COUNCIL OF EUROPE, European Prison Rules, Recommendation No. R(87)3, Strasburgo, 12 febbraio 1987, in http://www.medekspert.az/pt/chapter1/resources/EUROPE AN_PRISON_RULES.pdf. 16 L. DAGA (a cura di), Le nuove regole penitenziarie europee occupa dei diversi aspetti della vita dei detenuti: dall’adeguatezza dei locali al servizio sanitario, dall’istruzione alla gestione del tempo libero. La raccomandazione fa riferimento al fatto che la privazione della libertà deve eseguirsi in condizioni materiali e morali rispettose della dignità umana, al divieto di qualsivoglia discriminazione e al dovere di riconoscere i diritti individuali del detenuto. Al trattamento, la cui finalità è quella di salvaguardare la salute e dignità del detenuto, di sviluppare un suo senso di responsabilità e di incoraggiare le attitudini e competenze che potranno aiutarlo nel mondo esterno, è dedicata un’intera Parte del documento. Bisogna assicurare condizioni di vita che siano compatibili con la dignità umana, ridurre al minimo gli effetti della detenzione e le differenze tra la vita infra ed extramuraria, mantenere e – ove possibile – migliorare i rapporti del detenuto con la famiglia e con la comunità esterna e puntare sulle possibilità di reinserimento del soggetto. Gli elementi fondanti del trattamento individualizzato vanno pertanto individuati in quelli già visti con riferimento al nostro O.P. L’interessato andrebbe incoraggiato a cooperare al programma riabilitativo predisposto in vista della sua liberazione, la quale dev’essere in qualche modo preparata, facendo leva anche sull’operato dei servizi sociali e degli organismi che coadiuvano i detenuti nel loro reinserimento nella società. Quanto osservato sin qui avrà consentito al lettore di notare che uno dei nuclei tematici cui si deve riconoscere un certo rilievo è rappresentato dalla condanna della tortura: se già la Dichiarazione del 1948 se ne interessava, la prima risoluzione ad essa (raccomandazioni 3 n. R(87)3), in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1, 3, 1986, pp. 445-446, consultabile in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/37658.pdf. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 19 interamente dedicata è stata adottata dalle Nazioni Unite nel 1973 ed è stata seguita dalla Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli, degradanti17. Il maggiore rilievo deve però essere riconosciuto alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata nel 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 198718. Ma cosa si deve intendere per tortura? Ad offrirci una risposta in tal senso è l’articolo 1 della Convenzione, che recita quanto segue: Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze 17 Per un approfondimento sui documenti che hanno delineato il concetto di tortura e che hanno contribuito alla sua condanna si veda C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, s.d., in http://www.diritto.it/pdf/28401.pdf. 18 Si veda ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE, Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, New York, 10 dicembre 1984, in http://www.unhcr.it/news/pdf/377/15/convenzione-controla-tortura-ed-altre-pene-o-trattamenti-crudeli-disumani-odegradanti.html. Per approfondimenti sul tema si veda CONSIGLIO D’EUROPA, COMITATO EUROPEO PER LA PREVENZIONE DELLA TORTURA E DELLE PENE O TRATTAMENTI INUMANI O (CPT). Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Testo della Convenzione e Rapporto esplicativo CPT/Inf/C (2002),1, s.d., pp. 1517, in http://www.cpt.coe.int/lang/ita/ita-convention.pdf. DEGRADANTI derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate. Il presente articolo lascia impregiudicato ogni strumento internazionale ed ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia. Nonostante nella definizione si faccia riferimento a condotte commissive o attive (nel testo dell’articolo 1 si legge infatti «qualsiasi atto»), è ormai pacifico che le garanzie coprano anche le omissioni degli Stati19. Non solo gli Stati devono adoperarsi al fine di impedire che nei territori sottoposti alla loro giurisdizione vengano compiuti atti di tortura, ma si impegnano anche ad introdurre tale pratica tra le fattispecie criminose previste dalle legislazioni nazionali, stabilendo per il compimento di tali reati pene adeguate, in considerazione della loro speciale gravità. A giustificazione della tortura non può essere addotta alcuna ragione, nemmeno eccezionale, sia che si tratti di guerra o di instabilità politica, sia che essa venga adoperata in ottemperanza all’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica. Le tematiche in oggetto hanno poi trovato 19 Si esprime in tal senso DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., pp. 6-7. Nel testo della Convenzione europea non troviamo una definizione di trattamenti inumani o degradanti, né una linea di confine che ci consenta di distinguere questi dagli atti di tortura. Ci affidiamo quindi alla giurisprudenza: nel caso Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978 dinanzi alla Corte europea è stato stabilito che il displuvio è costituito dalla «differenza nell’intensità della sofferenza inflitta». Il trattamento disumano deve consistere «almeno in una intensa sofferenza fisica e mentale, anche se non in una vera e propria violenza sul corpo della persona». L’aggettivo degradante fa invece riferimento al trattamento tale da «ingenerare nelle vittime sentimenti di paura, angoscia e inferiorità in grado di umiliarle ed eventualmente di rompere la loro resistenza fisica e morale». A fornirci un contributo in tal senso è S. PETRINI, Lo stato delle carceri in Europa, nei rapporti del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) e nella giurisprudenza della Corte europea, s.d., in http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/asylum/petrini/inde x.htm. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 20 considerazione anche in ambito comunitario, come dimostra l’adozione della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, la quale si è concentrata su di un «sistema non giudiziario di natura preventiva, basato su sopralluoghi»20. A dare concretezza a tale obiettivo è stata l’istituzione di un organo che ha appunto il compito di effettuare sopralluoghi ove vi siano persone private della libertà da un’Autorità pubblica nell’ambito dei territori sottoposti alla giurisdizione delle Parti. Esso, composto da un numero di membri pari a quello delle Parti, è il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT). La visita ai luoghi di detenzione gli è consentita in ogni momento e solo in circostanze eccezionali potranno essere formulate obiezioni alla ispezione nel momento prospettato dal Comitato o nel luogo specifico che questo intende visitare. Una volta che il sopralluogo sia stato effettuato, il CPT redigerà un report sui fatti contestati in tale occasione21. Certamente le valutazioni scaturite dall’attività di monitoraggio del CPT e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti Si veda CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti emendata dal Protocollo n. 1 (STE 151) e dal Protocollo n. 2 (STE 152), Strasburgo, 26 novembre 1987, in http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/126.htm. 21 Nel 2008 il CPT ha visitato il nostro Paese, rilevando episodi di maltrattamento nelle stazioni di polizia e carabinieri italiane, anche nella provincia di Brescia. Veniva quindi raccomandata l’adozione di una direttiva formale che richiamasse l’attenzione delle forze dell’ordine sul loro dovere di rispettare i diritti e la dignità dei soggetti in custodia. Per ciò che riguarda il carcere di Canton Mombello il CPT ha denunciato un eclatante sovraffollamento, che costituirebbe la causa di alcune gravi mancanze, basti pensare al fatto che non tutti i letti sono provvisti di materasso. Tali informazioni sono desunte da C.A. ROMANO, Sbarre. Le carceri di Brescia viste dai bresciani e dall’Europa, Brescia 2010, pp. 43-46. 20 dell’uomo hanno svolto un ruolo propulsore nell’indicare l’opportunità di innovare l’impianto delle European prison rules, procedendo ad un’armonizzazione ispirata alla good practice che andava affermandosi nell’acquis comunitario22. Nascono così le Regole penitenziarie europee del 200623: si ribadisce che le persone private della libertà devono essere trattate con il rispetto dei diritti dell’uomo (regola 1); in particolare, tali soggetti conservano tutti i diritti che non sono stati loro tolti con la sentenza di condanna o in conseguenza della custodia cautelare (regola 2). Viene inoltre stabilito che la mancanza di sufficienti risorse non può essere invocata a giustificazione della violazione dei diritti umani (regola 4). Si pone poi nuovamente l’accento sulla cooperazione con i servizi sociali e con la società civile finalizzata a facilitare il reinserimento del soggetto una volta uscito dalle mura del luogo di detenzione (regole 6 e 7). Per quanto riguarda i locali, viene sostanzialmente ribadito quanto già si leggeva nelle Regole del 1987, che vengono riprese anche per quanto attiene alla separazione dei soggetti (maschi vs femmine; giovani vs adulti; condannati vs imputati). La regola 23 si occupa della consulenza legale, diritto di ogni detenuto. I contatti del mondo esterno devono procedere secondo i consueti canali: visite e corrispondenza. Inoltre viene stabilito che Si veda MINISTERO DELLA GIUSTIZIA – DIPARTIMENTO PENITENZIARIA – UFFICIO STUDI RICERCHE LEGISLAZIONE E RAPPORTI INTERNAZIONALI, Le regole penitenziarie europee – Allegato alla Raccomandazione R(2006)2 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11 gennaio 2006, Roma 2007, p. 8, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/92.pdf. 23 COMITATO DEI MINISTRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA, Raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee, Strasburgo, 11 gennaio 2006, in http://www.coe.int/t/dghl/standardsetting/prisons/EPR/Re gole%20Penitenziarie%20Europee%20ITALIANO.pdf. 22 DELL’AMMINISTRAZIONE Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 21 «ogni volta che le circostanze lo permettono, il detenuto deve essere autorizzato ad uscire – scortato o liberamente – per render visita ad un parente ammalato, assistere ai funerali o per altre ragioni umanitarie» e che «le autorità penitenziarie devono assicurarsi che i detenuti possano partecipare alle elezioni, ai referendum e agli altri aspetti della vita pubblica, salvo che l’esercizio di tali diritti non sia limitato dal diritto interno»24. Anche il tema del lavoro viene considerato (regola 24), insieme alle tematiche dell’istruzione e delle attività ricreative. 2. Effettività Disponiamo di un corpus normativo definibile quasi come καλὸ̋ καὶ ἀγαθό̋, che pone una serie di garanzie e stabilisce un insieme di diritti per chi sia privato della libertà personale; ma quanto previsto dalle fonti nazionali e sovranazionali trova attuazione nella realtà carceraria del nostro Paese? A solenni affermazioni di principio e sofferte elaborazioni giurisprudenziali non segue alcun passo avanti sotto il profilo della concreta attuazione di principi costituzionali fondamentali. Ciò perché tutti i soggetti coinvolti restano prevalentemente arretrati sul piano della esegesi della norma formale o della affermazione di principi generali e rimane completamente nell’ombra ogni analisi pacata della effettività25. Basta leggere le tante esperienze di chi vive quotidianamente il carcere per rendersi conto che quanto stabilito sul piano normativo COMITATO DEI MINISTRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA, Raccomandazione R(2006)2, cit., regola 24. 25 A. MARCHESELLI, La tutela dei diritti dei detenuti alla ricerca della effettività. Una ordinanza “rivoluzionaria” della Corte costituzionale, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 3, 2010, pp. 95-106, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/712117.pdf. 24 rimane spesso lettera morta, anche a causa delle difficoltà economiche e strutturali. Si parla infatti di gravi condizioni igieniche e di vivibilità26, acuite dalla vetustà degli istituti penitenziari, i quali finiscono così, inevitabilmente, per essere fuorilegge. Uno dei più scottanti ed irrisolti problemi in cui versa l’istituzione carceraria è senza dubbio costituito dal sovraffollamento. Se si rispettassero gli standard minimi fissati dalle normative internazionali in tema di diritti umani, nelle 206 prigioni italiane non sarebbero presenti più di 45˙742 persone; alla fine degli anni novanta, però, l’Amministrazione penitenziaria, incapace di rispettare tale indicatore, elaborò quello della «capienza tollerabile», che rappresenta il numero massimo di soggetti che ogni istituto può contenere27. A prescindere da quale dei due parametri si utilizzi, appare chiara l’insostenibile situazione in cui versano le prigioni italiane, che faticano a reggere continue ondate di ingressi: nel marzo 2010 la consistenza numerica della popolazione penitenziaria nel nostro Paese ha superato le 66˙000 unità28; al 29 febbraio 2012 in carcere c’erano 66.632 soggetti29. Come non bastasse, a fronte di un aumento dei detenuti, si assiste ad una riduzione del budget destinato al penitenziario30. Nel tentativo di migliorare la situazione, il legislatore ha fatto ricorso a strumenti come l’indultino, l’indulto del 2006 26 L. CASTELLANO, D. STASIO, Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, Milano 2009, pp. 14 e 35. 27 S. VERDE, Il carcere manicomio. Le carceri in Italia fra violenza, pietà, affari e camicie di forza, Sensibili alle foglie, s.l., 2011, pp. 1112. 28 S. DI PERSIO, La pena di morte italiana. Violenze e crimini senza colpevoli nel buio delle carceri, Milano 2011, p. 177. 29 ASCA, Carceri: in istituti 66.632 detenuti contro una capienza di 45.742, 2 marzo 2012, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=17427. 30 VERDE, Il carcere manicomio, cit., pp. 19-20. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 22 e – da ultimo – la legge c.d. svuota carceri31. Dei primi due possiamo senz’altro dire che – lungi dall’essere risolutivi – si sono limitati ad aggirare il problema, che si è puntualmente riproposto; della seconda non è ancora possibile tracciare compiutamente un bilancio, anche se sembra che non molti detenuti potranno beneficiarne, non possedendo i requisiti previsti dalla legge stessa; pur apprezzandosi la volontà e il merito del legislatore di aver dimostrato la presa di coscienza di un grave problema, si dubita che possa avere un forte impatto. Che spesso, purtroppo, il nostro Paese abbia posto in essere condotte difformi da quelle auspicabili appare confermato da alcune decisioni della Corte europea. Nel 2000 essa si è pronunciata in merito al ricorso proposto dal sig. Labita, che lamentava di aver subito, durante l’arco temporale compreso tra luglio e settembre 1992, numerose «violenze, umiliazioni, vessazioni, intimidazioni ed altre forme di tortura, sia fisiche sia psicologiche»32. Le indagini italiane non condussero all’individuazione dei colpevoli, e la Corte concluse che l’Italia avesse violato l’obbligo procedurale di un’indagine strutturalmente approfondita33. Inoltre si ritenne che il carattere eccessivo della detenzione provvisoria, non essendo – esplicitamente o implicitamente – riconosciuto dal giudice di secondo grado, fosse sufficiente a considerare il soggetto quale vittima di violazione dell’articolo 5 della Convenzione: non rilevò l’offerta al ricorrente, da parte della Corte d’appello di Palermo, di una somma a titolo di risarcimento per la detenzione provvisoria subita, poiché «una decisione o una misura favorevole al ricorrente è sufficiente in via di principio a togliergli la qualifica di vittima solo se le autorità nazionali hanno riconosciuto, esplicitamente o in sostanza, e poi riparato la violazione della Convenzione»34. Costituirebbe poi violazione dell’articolo 5.1 il fatto che il sig. Labita sia stato liberato solo dodici ore dopo la sentenza di proscioglimento, a nulla rilevando che l’accaduto fosse imputabile alla necessità di svolgere pratiche amministrative e burocratiche. Ulteriore violazione del dettato normativo internazionale si sarebbe verificata con riferimento all’articolo 8 della Convenzione, concernente la corrispondenza, il controllo della quale non deve concretarsi in ingerenze della pubblica autorità non previste dalla legge35. In conformità al disposto 31 Il c.d. decreto ‘legge svuota carceri’, D.L. 211/2011, è stato convertito nella Legge 17 febbraio 2012, n. 9, Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=17293. 32 Nello specifico il soggetto «sarebbe stato spesso picchiato e malmenato, sarebbe stato colpito alle dita, alle ginocchia ed ai testicoli. Avrebbe dovuto subire perquisizioni corporali durante la doccia e sarebbe rimasto ammanettato durante le visite mediche». CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, Strasburgo 6 aprile 2000, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, 3, 1999, p. 177212, p. 178, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/22546.pdf. 33 C. MINNELLA, La giurisprudenza sulla Corte europea dei diritti dell’uomo sul regime carcerario ex art. 41–bis Ord. Penit. e la sua applicazione nell’ordinamento italiano, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 3, 2004, pp. 197-235, a p. 198, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/20743.pdf. In particolare il sig. Labita affermava di non essere in grado di riconoscere gli agenti responsabili delle violazioni per le quali presentava ricorso a causa della pessima qualità delle fotocopie delle foto che gli erano state fornite, ritenendo di poter identificare gli stessi nell’ambito di una ricognizione personale, la quale però non venne mai disposta. 34 CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, cit., pp. 186-187. 35 CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, cit., pp. 194-199. Sul tema della corrispondenza la Corte di Strasburgo aveva già avuto occasione di esprimere la propria posizione nel 1996, con le sentenze Calogero Diana e Dominichini, nelle quali censurava – sia per l’aspetto sostanziale, sia per quello relativo alla mancanza della tutela giurisdizionale – l’articolo 18, comma 7, O.P. ove disciplina il visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti. Si veda in proposito C. MINNELLA, Il prezioso contributo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, in Rassegna penitenziaria e Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 23 dell’articolo 41 della Convenzione europea – che stabilisce che, nel caso vi siano violazioni delle norme in essa contenute che possano essere riparate solo in modo imperfetto dalla Parte contraente, il soggetto leso ha diritto ad un equo risarcimento – l’Italia è stata condannata a versare in favore del sig. Labita settantacinque milioni di lire per torto morale, oltre alle spese di rito36. Forse più noto è il caso del sig. Sulejmanovic, il quale ha adito la Corte europea lamentando condizioni detentive contrarie all’articolo 3 della Convenzione37. Il ricorrente era stato arrestato nel 2002 e incarcerato a Rebibbia per furto aggravato, tentato furto, ricettazione e falsità in atti; e la pena da espiare veniva fissata dal Tribunale di Cagliari in funzione di giudice dell’esecuzione in un anno, nove mesi e cinque giorni di reclusione. Il sig. Sulejmanovic affermava di aver diviso – fino alla data del 15 aprile 2003 – una cella della dimensione di 16,20 metri quadri con altri cinque soggetti, cosicché ciascuno di essi disponeva di uno spazio medio di 2,70 metri quadrati; in un periodo successivo – dal 15 aprile al 20 ottobre 2003, data in cui fu scarcerato grazie all’indulto – era stato assegnato ad una cella con altre quattro persone, per cui la superficie media a disposizione di ogni detenuto era di 3,40 metri quadri38. Il soggetto rimaneva chiuso in cella per diciotto ore e trenta minuti al giorno, oltre all’ora destinata alla consumazione dei criminologica, 3, 2003, pp. 137-164, p. 139, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/21644.pdf. 36 CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, cit., p. 209. 37 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE, Caso Sulejmanovic c/Italia (Ricorso n. 22635/03) - Sentenza, Strasburgo, 16 luglio 2009, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, 2009, pp. 175-204, pp. 175-176, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/684112.pdf. 38 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE, Caso Sulejmanovic c/Italia, cit., pp. 176-177. pasti, nonostante la normativa vigente stabilisca espressamente che tale attività deve avvenire in spazi ad hoc, come mense e refettori. La Corte, precisando che in conformità all’articolo 3 della Convenzione i detenuti devono essere custoditi in modo che non si superi il livello di sofferenza già implicito nella stessa privazione della libertà personale, ha ricordato che il CPT ha fissato la superficie minima di una cella per una persona a 7 metri quadri e che il sovraffollamento pone una serie di problemi in correlazione con l’articolo 3 della Convenzione: pur trattandosi di indicazioni «auspicabili», vi sarebbero casi in cui il conclamato sovraffollamento avrebbe consistenza tale da integrare fattispecie contrassegnate dalla contrarietà all’articolo in questione; ciò è stato affermato dalla Corte in una serie di pronunce giurisprudenziali. Non si deve dimenticare infatti che il sovrannumero dei carcerati pone anche una serie di problemi in relazione alla tutela del rispetto dei diritti umani dei soggetti che soffrono l’invivibilità del penitenziario39. In brevis verbis, la mancanza di spazio personale subìta dal ricorrente costituirebbe di per sé trattamento inumano e degradante, sebbene nel corso del tempo la condizione detentiva del sig. Sulejmanovic fosse interessata da un miglioramento, potendo i detenuti disporre di una superficie media di maggiore estensione. Nel caso di specie il punto di displuvio viene quindi individuato nella data del 15 aprile 2003: precedentemente, il sovraffollamento era tale da integrare fattispecie contrarie all’articolo 3 della Convenzione, successivamente no, dato il maggiore spazio pro capite di cui i soggetti potevano godere. 39 A. LANZARO, Il sovraffollamento delle carceri in violazione dei diritti umani e il caso Sulejmanovic, p. 2, in http://www.innovazionediritto.unina.it/archivionumeri/1003 /lanzaro.pdf. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 24 Tali motivazioni hanno indotto la Corte a riconoscere al ricorrente un risarcimento di euro mille per il danno morale subito40. Da questa decisione, che in un certo senso costituisce un precedente gravido di pericolosità per il nostro Paese, ha preso le mosse una serie di denunce dei detenuti alla Corte di Strasburgo. Allora viene da chiedersi: cosa potrebbe accadere se l’Italia si trovasse a dover risarcire tutti i detenuti che vivono le condizioni di sovraffollamento delle nostre carceri con mille euro ciascuno41? 3. Tutela La tutela dei diritti del detenuto rappresenta essa stessa un diritto di tali soggetti, che trova riconoscimento sia in ambito nazionale che comunitario. All’interno di quest’ultimo importanza centrale riveste la Corte di Strasburgo, cui possono rivolgersi sia gli Stati che i singoli individui che si ritengano vittime di violazioni, in conformità a quanto stabilito dalla stessa CEDU. Per poter adire la Corte devono essere esaurite le ipotesi di ricorso interne per la tutela dei diritti enumerati nella stessa CEDU e nei suoi Protocolli e le doglianze devono essere elevate a carico di 40 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE, Caso Sulejmanovic c/Italia, cit., pp. 187-189. 41 Al 18 settembre 2009, Stefano Anastasia, Difensore civico dell’Associazione Antigone, affermava che oltre duecento detenuti avevano contattato l’associazione chiedendo assistenza per il ricorso alla Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Secondo le parole di Ornella Favero, direttrice del giornale del carcere di Padova Ristretti Orizzonti, «pare sia giunta una missiva dal Ministero in cui si richiede di controllare bene che ci siano i presupposti per i detenuti della metratura vivibile che segua i canoni di legge e soprattutto che rispetti il già citato articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. E non si capisce come faranno a farlo, forse con una bacchetta magica?». Si veda in proposito D. PELANDA, Mondo recluso. Vivere in carcere in Italia oggi, Cantalupa 2010, p. 21. pubbliche autorità42. Il ricorrente può adire la Corte di Strasburgo entro sei mesi decorrenti dalla notifica o dal deposito della decisione definitiva pronunciata nell’ambito dei mezzi di impugnazione ordinari, inoltrando una prima missiva recante l’oggetto delle doglianze che fondano il ricorso: è evidente la volontà di avvicinare quanto più possibile l’individuo all’istituzione, dato che non sono richieste particolari formalità per la proposizione del ricorso, bastando l’invio di una semplice lettera per posta ordinaria43. Una volta che l’istanza giunga all’attenzione della Corte, si aprirà il giudizio riguardante la ricevibilità dello stesso, che se avrà esito positivo condurrà al procedimento (di regola pubblico) nel merito, che potrà trovare conclusione in un’assoluzione o in una condanna; in quest’ultimo caso vi sarà l’obbligo a carico della Parte condannata di eliminare le conseguenze della violazione e, solo in via eventuale, il risarcimento dei danni subiti dalla vittima44. Per quanto attiene le forme di tutela interne, possiamo osservare come la Legge del 1975 avesse optato per una sostanziale tripartizione: in primo luogo, quelli che sono i diritti delle persone private della libertà personale e che non vengono incisi dalla detenzione sono configurati alla stessa stregua di quelli delle persone libere e troveranno le stesse forme di tutela (ordinarie); in secondo luogo, il legislatore aveva configurato forme di tutela c.d. semplificata, intermedia tra le forme ordinarie e il reclamo ex art. 35 O.P.: si tratta della procedura di cui agli articoli 14-ter 42 CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., p. 23. 43 Si veda C. NIGRO, Guida alla Corte europea dei diritti dell’uomo, pp. 5-6, in http://www.ristretti.it/areestudio/estero/generale/guida_ced u.pdf. 44 NIGRO, Guida alla Corte europea, cit. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 25 e 71 della L. 354/75, per le materie indicate nell’articolo 69 O.P., che merita appunto l’aggettivo ‘semplificata’ in quanto vede la sua conclusione con un’ordinanza del magistrato di sorveglianza ricorribile per cassazione, e in quanto nella procedura de qua il contraddittorio si attua mediante il deposito di memorie ed è esclusa la partecipazione fisica dell’interessato; infine, bisogna considerare il reclamo generico previsto dall’articolo 35 O.P , che prevede una segnalazione da farsi al magistrato di sorveglianza (o ad altri soggetti indicati nella norma stessa), la quale condurrà non a forme di tutela giurisdizionale, ma ad iniziative amministrative (poteri di sollecitazione, revisione e intervento). Le posizioni giuridiche sostanziali tutelabili del soggetto privato della libertà personale si sostanziano, da un lato, in quelle previste dalle norme penitenziarie, dall’altro, in tutte quelle riconoscibili ad un soggetto libero45. La magistratura di sorveglianza consta di due livelli di giurisdizione: il magistrato e il tribunale di sorveglianza, quest’ultimo composto da membri togati e laici scelti tra esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, nonché tra docenti di scienze criminalistiche. Vale la pena di precisare che esistono due ceppi di norme che rendono possibile l’operare della magistratura di sorveglianza all’interno del nostro ordinamento. Su di un versante troviamo le funzioni di vigilanza sull’esecuzione della pena, che discendono dai primi due commi dell’articolo 69 O.P. e che conducono ad un generale potere di intervento del magistrato teso al rispetto della legge penitenziaria in conformità allo scopo costituzionalmente previsto; sull’altro si 45 MARCHESELLI, La tutela dei diritti dei detenuti alla ricerca della effettività, cit. dipanano le funzioni puramente giurisdizionali dell’organo monocratico e di quello collegiale, che prendono vita con le modalità e per le materie normativamente determinate (si pensi agli articoli 30 e 30-ter O.P. in tema di permessi, o ancora all’articolo 47 concernente l’affidamento in prova al servizio sociale)46. Il procedimento di sorveglianza può essere instaurato sia d’ufficio che su richiesta del PM, dell’interessato e del difensore. Il presidente del tribunale di sorveglianza fissa la data dell’udienza, la quale si svolgerà in camera di consiglio, e che vedrà – a pena di nullità – la presenza del P.M. e del difensore dell’interessato; l’interessato che ne faccia richiesta è sentito personalmente. La decisione viene adottata con ordinanza motivata, che ha sostanzialmente la natura di una sentenza e, una volta divenuta irrevocabile, produce il consueto effetto del giudicato47. Come già si è osservato, la possibilità di appello dinanzi al tribunale di sorveglianza si ha nel caso di ordinanze emesse dal magistrato di sorveglianza in sede di riesame della pericolosità nonché di applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca delle misure di sicurezza ovvero di revoca della dichiarazione di delinquenza, come anche per i casi di decisione con procedura sommaria. Per la totalità delle ordinanze è esperibile il ricorso per cassazione. Per ciò che concerne i reclami, da un lato troviamo quelli con procedimento giurisdizionalizzato, dall’altro quelli con procedimento de plano. Ipotesi rientranti nel 46 S. ARDITA, Le questioni controverse in materia di esecuzione della pena. La funzione di vigilanza del magistrato di sorveglianza. I reclami ex art. 35 e 69 o.p. I rapporti con l’amministrazione penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, 2006, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/8229.pdf. 47 M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi, le modalità dell’esecuzione delle sanzioni penali, Milano 2010, pp. 591-592. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 26 primo gruppo, con riferimento alle quali sono quindi dettate specifiche regole procedurali, sono quelle riguardanti i provvedimenti del magistrato di sorveglianza che disponga limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; il controllo delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima; il lavoro penitenziario e la costituzione dell’organo di disciplina. Il secondo gruppo è invece quello per il quale non sono previste particolari formalità, ed è identificabile nelle ipotesi ex articolo 35 O.P., riguardante il generico diritto di doglianza. La sentenza della Corte costituzionale 212/1997 ha stabilito che «poiché nell’ordinamento, secondo il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 e 113 Cost.), non v’è posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere, è inevitabile riconoscere carattere giurisdizionale al reclamo al magistrato di sorveglianza che l’ordinamento appresta a tale scopo»48. A questo punto vale la pena di soffermarsi sulla sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 35 e 69 O.P. nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale: in brevis verbis, ad ogni posizione giuridica meritevole di tutela deve corrispondere una tutela giurisdizionale49. CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza 3 luglio 1997, n. 212, Roma, 3 luglio 1997, in http://bdprof.ilsole24ore.com/MGR/Default.aspx#56 49 Si veda MARCHESELLI, La tutela dei diritti dei detenuti alla ricerca della effettività, cit., p. 99. La citata decisione 26/1999 ha quindi 48 Ci sono due ipotesi di reclamo al magistrato di sorveglianza. Una prima ipotesi è quella sancita dal sesto comma dell’articolo 69 O.P., che prevede che egli si esprima con ordinanza impugnabile solo per cassazione secondo un procedimento semplificato ex articolo 14-ter O.P., su reclami concernenti l’osservanza delle norme riguardanti: l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa. Una seconda ipotesi è quella configurata dall’articolo 35 O.P., consistente nel c.d. reclamo generico, in relazione al quale il legislatore non ha dettato regole specifiche. Per il vero, tali doglianze possono essere proposte non solo al magistrato di sorveglianza, ma anche ad altri soggetti indicati dalla norma stessa: al direttore dell’istituto, agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena e al Ministro della giustizia; alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto; al presidente della giunta regionale e – infine – al Capo dello Stato. Bisogna poi osservare che esistono anche casi in cui i detenuti e gli internati sono ammessi a proporre reclami dinanzi al tribunale di sorveglianza. Da un punto di vista procedimentale, siamo di fronte ad un meccanismo giurisdizionale semplificato: la legge dispone qui la evidenziato che il rimedio previsto dagli articoli 35 e 69 O.P. avverso i provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria potenzialmente lesivi dei diritti dei soggetti privati della libertà personale dev’essere trattato con le forme dei procedimenti giurisdizionali. Per approfondimenti si veda F. FALZONE, La sentenza n. 266/2009 della Corte costituzionale: è innovativa dell’attuale sistema di tutela dei diritti dei detenuti?, pp. 107-123, p. 109, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/713117.pdf. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 27 necessaria presenza del P.M. e del difensore, oltre alla facoltà per l’interessato e l’Amministrazione penitenziaria di presentare memorie. Ai sensi dell’articolo 14-ter O.P. l’ordinanza decisoria dev’essere emessa, nell’ambito di un procedimento svolto con le forme del rito in camera di consiglio, entro il termine di dieci giorni decorrenti dalla ricezione del reclamo50. In materia di reclamo, sono soggette a ricorso per cassazione le ordinanze del magistrato di sorveglianza in tema di lavoro penitenziario e di disciplina. Infine, è d’obbligo un cenno alla figura del garante dei diritti dei detenuti, che è organo di garanzia, rivestendo funzioni di tutela delle persone private della libertà personale. Nel nostro Paese non esiste un garante che operi in modo accentrato, ma piuttosto operano garanti regionali, provinciali e comunali, le funzioni dei quali sono definite dai relativi atti costitutivi. Si tratta di un soggetto che può svolgere un ruolo di vigilanza e di verifica delle condizioni di detenzione, avendo una posizione di effettiva terzietà ed indipendenza nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria, ciò che, indubbiamente, si rivela importantissimo in un ambiente peculiare come quello che qui esaminiamo, nel quale non si può certo negare che i rapporti siano spesso tesi: funzione del garante dei diritti dei detenuti sarebbe quindi quella di mediatore51. Potremmo dire che la volontà di istituire un siffatto organo sia in qualche modo identificabile con la logica di apprestare sì una certa tutela ai diritti del detenuto, tutela che non può però qualificarsi come giurisdizionale, ma che piuttosto Da parte di CANEPA-MERLO, Manuale di diritto penitenziario, cit., pp. 609-110. 51 L. MANCONI, Un garante a tutela dei detenuti, Repubblica, 22 maggio 2003, in http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/garante/manconi 2.htm. 50 potrebbe giovarsi del fatto di essere imperniata su di un soggetto i cui compiti hanno a che fare con l’individuazione delle carenze dell’Amministrazione penitenziaria, finalizzata a promuovere i diritti dei reclusi. Conclusioni Se davvero si riuscisse a mettere in pratica tutto ciò che è sancito a livello normativo, sicuramente la situazione delle nostre carceri sarebbe ben più rosea. E se si rispettassero gli standard elaborati dai legislatori sovranazionale e nazionale, si eviterebbero i risarcimenti che il nostro Paese si trova a dover porre in essere a fronte delle decisioni della Corte di Strasburgo. Ci siamo occupati di normative, effettività e tutela: i diritti dei detenuti vengono ad esistere perché consacrati nelle Convenzioni internazionali, nella Costituzione, nell’Ordinamento Penitenziario e nelle leggi speciali che di volta in volta sono intervenute a modificare quest’ultimo. Tra questi diritti, vi è anche la stessa tutela, che occupa una posizione particolare se non altro per il carattere strumentale che la colora, rappresentando la stessa un meccanismo che l’ordinamento appresta nel caso che la norma sostanziale venga violata. È evidente che la volontà di stabilire una procedura piuttosto semplice per adire la Corte Europea risponde alla logica di voler offrire una possibilità effettiva a soggetti che, spesso, sono senza voce. E l’effettività? A parere di chi scrive è questo l’ambito dove sorgono i maggiori problemi, tanto che (mancanza di) effettività e rovesci del detenuto finiscono tristemente per coincidere. Talvolta avvengono violazioni del diritto all’integrità fisica e morale; talaltra sono il diritto alla salute o alla corrispondenza Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 28 ad essere lesi; altre volte ancora al trattamento non viene dedicata sufficiente attenzione. Anche guardando il problema dal punto di vista delle istituzioni, non possiamo dimenticare che ad ogni diritto deve corrispondere un dovere e non, come spesso accade, un rovescio consistente nella mancata attuazione della norma stessa. Quindi, se lo Stato ha il diritto di privare della libertà personale chi abbia violato la legge penale, ha anche il dovere di far sì che l’espiazione della pena detentiva avvenga all’interno di un quadro rispettoso dei diritti umani, come ci richiedono la Costituzione e le Convenzioni internazionali. Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato: questa è lettera legislativa, e precisamente costituzionale. Ma come si può attuare tale rieducazione con l’espiazione di pene in carceri che scoppiano, che sovente fungono da scuole di delinquenza e che portano spesso alla recidiva? Proprio quest’ultima rappresenta, a parare di chi scrive, il fallimento dell’istituzione carceraria. Quindi un primo punto su cui discutere sarebbe proprio quello relativo alla persistente centralità della pena detentiva nell’ordinamento italiano, che riteniamo debba essere in qualche modo affievolita da un maggior ruolo da riconoscersi alla misure alternative, come l’affidamento in prova al servizio sociale. Dovremmo riflettere sulla funzione della pena, ricordare che si punisce il reato e non la persona, e pensare a percorsi di giustizia ripartitiva che possano riempire di contenuti quel trattamento che va attuato anche secondo la linea direttrice di un’ottica di risocializzazione. Per perseguire finalità di reinserimento potrebbe rivelarsi utile anche enfatizzare il ruolo di psicologi, educatori e mediatori culturali; l’importanza di quest’ultima figura risulta ben comprensibile se si considera la grande percentuale di stranieri che occupa le carceri italiane. Se la tendenza normativa è quella di rendere il carcere un luogo sempre meno impermeabile, favorendovi l’ingresso della società attraverso la forma del volontariato, di questo dobbiamo prendere atto. I contatti col mondo esterno infatti esplicano senz’altro un effetto benefico lungo due direzioni: se il volontario può essere un punto di riferimento in ambito inframurario, egli è anche colui che facendo conoscere il suo operato può in qualche modo sensibilizzare la società che ancora non manifesta particolare interesse per le tematiche relative al carcere. Crimen et Delictum, IV (November 2012) International Journal of Criminological and Investigative Sciences 29 Bibliografia ARDITA S., Le questioni controverse in materia di esecuzione della pena. La funzione di vigilanza del magistrato di sorveglianza. I reclami ex art. 35 e 69 o.p. I rapporti con l’amministrazione penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, 2006. http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/82 29.pdf. ASCA, Carceri: in istituti 66.632 detenuti contro una capienza di 45.742, 2 marzo 2012. http://www.altalex.com/index.php?idnot=1 7427. CANEPA M.-MERLO S., Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi, le modalità dell’esecuzione delle sanzioni penali, Milano 2010. CAPUTO G., Carcere e diritti sociali, marzo 2010. http://www.cesvot.it/repository/cont_sched emm/5636_documento.pdf. CASTELLANO L., STASIO D., Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, Milano 2009. DAGA L. 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