Diritti e rovesci del detenuto in Italia tra normative

Crimen et Delictum, IV (November 2012)
International Journal of Criminological and Investigative Sciences
14
Diritti e rovesci del detenuto in
Italia tra normative, effettività e
tutela.
Marzia Tosi1
Abstract
Il presente elaborato si apre delineando le
evoluzioni
nazionali
e
sovranazionali
dell’impianto normativo che sancisce i diritti
dei soggetti privati della libertà personale, per
poi concentrarsi sul tema problematico del
grado di effettività dell’attuazione normativa.
Infine, verranno delineati gli strumenti di cui
il soggetto privato della libertà personale
dispone per far valere i propri diritti, tra cui
anche il ricorso alla Corte di Strasburgo.
Parole
chiave:
Detenzione,
penitenziario, diritti umani.
trattamento
scrive, il modo in cui uno Stato decide di
trattare chi pone in essere comportamenti
devianti rispetto alla norma molto ci dice del
suo grado di civiltà giuridica. Parlando di
carcere ci muoviamo su un terreno piuttosto
complesso: con la detenzione, che in qualche
modo è tuttora purtroppo volta ad
estromettere il reo dalla società, si tratta di
contemperare le esigenze di sicurezza della
collettività con quelle del rispetto dei diritti
umani fondamentali, il tutto passando per la
rieducazione, processo che deve essere il fine
ultimo della pena e che deve portare al
reinserimento del reo nella società; quella
stessa società che fatica, però, a parlare di
carcere e che senz’altro dovrebbe essere
sensibilizzata a riguardo. Inoltre bisogna
tenere ben presente l’impatto che hanno le
scelte di politica criminale di volta in volta
operate dal legislatore, il cui andamento
ondivago rappresenta la spia dell’incertezza
in cui ci muoviamo nel tentativo di dare una
risposta facile ad un problema difficile.
1. Diritti
Introduzione
Le problematiche relative alla realtà
penitenziaria italiana non possono essere più
ignorate, non solo perché il carcere finisce per
essere – piuttosto che luogo di pena – luogo di
sofferenza2, ma anche perché, a parere di chi
Al termine della seconda guerra
mondiale, le tematiche relative ai diritti umani
sono emerse con rinnovato vigore3. Il 1948
deve senza dubbio essere riconosciuto come
un anno di fondamentale importanza, in cui
sono state poste alcune delle pietre miliari del
processo di affermazione dei diritti umani: ci
si riferisce alla Dichiarazione universale dei
1
Laureata in Giurisprudenza, Università degli Studi di Brescia.
Praticante forense e specializzanda in Criminologia, Scuola di
Alta Formazione in Scienze Criminologiche | CRINVE, Istituto
FDE Mantova. Collabora presso il Centro di Supporto alle
Vittime di Reato di Mantova, LIBRA.
2 Ci si riferisce qui non alla sofferenza in qualche modo
fisiologica e implicita nella privazione della libertà personale,
unico diritto su cui la detenzione dovrebbe incidere, ma a
quella che più avanti definiremo come violenza addizionale,
ovvero quella che eccede la lettera legislativa. Si veda L.
MANCONI, V. CALDERONE, Quando hanno aperto la cella. Stefano
Cucchi e gli altri, Milano 2011.
3 L’interesse per le tematiche di cui ci stiamo occupando non è
peculiarità del secolo XIX: si pensi alla Dichiarazione di
Indipendenza proclamata dagli Stati Uniti d’America nel 1776,
alla Costituzione di Filadelfia del 1787 o, ancora, all’operato
dell’Assemblea Costituente francese, che varò il testo della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la quale
conteneva l’elenco dei diritti fondamentali inviolabili. Così G.
DI GENNARO, I diritti umani ieri e oggi, in Rassegna penitenziaria e
criminologica,
1,
2007,
pp.
11-13,
in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/5121.pdf.
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
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diritti dell’uomo4 e alla nascita della nostra
Carta costituzionale. L’importanza della
dicotomia tra law, diritto in senso oggettivo in
cui si sostanzia ogni ordinamento giuridico, e
right,
diritto
in
senso
soggettivo,
nell’immediato dopoguerra conosce maggiore
problematizzazione e trova grande sensibilità
nel mondo politico e civile. Lo spirito
dell’epoca si riflette nel riconoscimento di
«diritti,
uguali
e
inalienabili»
come
«fondamento della libertà, della giustizia e
della pace nel mondo», e nella proclamazione
dell’impegno degli Stati membri – insieme
con le Nazioni Unite – a perseguire «il rispetto
e l’osservanza universale dei diritti umani e
delle libertà fondamentali». La Dichiarazione
afferma che «nessun individuo potrà essere
sottoposto a tortura o a trattamento o a
punizione crudeli, inumani o degradanti». Si
stabiliscono principi come la presunzione di
non colpevolezza, la tassatività della legge
penale e la pubblicità dell’udienza; si
riconoscono la libertà di opinione e di
espressione, il diritto al lavoro e all’istruzione.
Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la
Costituzione della Repubblica italiana: se,
come afferma l’articolo 2, è vero che «La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo», da tale riconoscimento
non dev’essere escluso il detenuto. Si
affermano qui principi di importanza
fondamentale:
si
pensi
–
a
titolo
esemplificativo – a quello di uguaglianza,
all’habeas corpus, al diritto di difesa e alla
libertà
pensiero
e
di
religione,
all’enunciazione della tutela della famiglia, al
diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro. Un
ruolo di spicco deve riconoscersi – nell’ambito
ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE, Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, Parigi, 10 dicembre 1948, da cui
sono tratte le citazioni nel testo, consultabile in
http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Tran
slations/itn.pdf.
4
della presente trattazione – all’articolo 27, che,
dopo aver enunciato il principio della
presunzione di non colpevolezza, al terzo
comma stabilisce che «le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione
del condannato»5.
Altra
importante
fonte
è
la
Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
del 19506, che ha – fra l’altro – palesato la
volontà di offrire maggiore garanzia ai
principi qui affermati, apprestando una forma
di tutela giurisdizionale che trova il suo
baricentro nella Corte europea dei diritti
dell’uomo. Si parla del diritto alla vita, si
torna sul divieto di tortura, su quello di
lavoro forzato od obbligatorio e sull’habeas
corpus; viene poi introdotta una serie di
garanzie nei confronti della persona privata
della
libertà
personale.
Ove
queste
disposizioni vengano violate, la persona
interessata avrà diritto a una riparazione.
Dobbiamo attendere il 1955 perché il tema del
trattamento
penitenziario,
in
ambito
internazionale, venga affrontato in modo
organico e specifico con le Standard minimum
rules for the treatment of prisoners7. Tale
documento afferma che le regole in esso
contenute non sono tanto orientate a
descrivere dettagliatamente un modello di
istituzione
penitenziaria,
ma
tendono
piuttosto a porre in rilievo una serie di
5
Sulla genesi del terzo comma dell’articolo 27 della
Costituzione si veda C.G. DE VITO, Camosci e girachiavi. Storia del
carcere in Italia 1943-2007, Bari 2009, pp. 20-22.
6 CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma, 4 novembre
1950, in http://www.echr.coe.int/NR/rdonlyres/0D3304D1F396-414A-A6C1-97B316F9753A/0/ITA_CONV.pdf.
7 NAZIONI UNITE, Standard Minimum Rules for the Treatment of
Prisoners,
Geneva
1955,
in
http://www2.ohchr.org/english/law/pdf/treatmentprisoners
.pdf
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
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principi trattamentali che godono di un
generale consenso e si trovano senz’altro sulla
linea delle correnti di pensiero affermatesi nel
dopoguerra8. Sono qui sanciti alcuni principi
di fondamentale importanza, come quello
della separazione dei detenuti secondo il
sesso, l’età, la pericolosità sociale e le esigenze
trattamentali; vengono dettate disposizioni
concernenti i locali di detenzione; ci si
concentra sull’aspetto sanitario; si comincia ed
enfatizzare il ruolo dei legami sociali. Grande
importanza riveste poi l’articolo 31, che pone
il divieto di pene corporali e, in ogni caso, che
siano crudeli, inumane o degradanti.
Se con l’avvento del periodo repubblicano
assistiamo ad un’inversione di tendenza, è
negli anni della legislazione sociale che nasce
il più importante punto di riferimento
normativo per la realtà penitenziaria italiana,
ovvero la Legge 26 luglio 1975, n. 354, recante
«Norme sull’ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e
limitative della libertà», c.d. Ordinamento
Penitenziario (d’ora in avanti O.P.)9. Esso, che
ha visto la luce dopo un iter molto travagliato,
rappresenta
la
presa
di
coscienza
dell’inadeguatezza del Regolamento del 1931
e la volontà di porsi in una linea di continuità
con le tendenze delineate dalle fonti
sovranazionali e dalla Costituzione del 1948.
Il R.D. 18 giugno 1931, n. 787 optava, infatti,
per una logica afflittiva secondo la quale le
sofferenze fisiche e le privazioni sarebbero
mezzi correzionali del reo, utilizzabili al fine
di provocare un suo ravvedimento. In carcere
erano possibili solo pratiche religiose,
istruzione e lavoro; nonostante si riconoscesse
il potere rieducativo anche di altri strumenti –
si pensi alla musica – si riteneva che essi
dovessero rimanere nel mondo libero, così da
evidenziare la funzione afflittiva della pena10.
In carcere i canti, i giochi e ogni altra
occupazione non espressamente consentita
erano vietati11. I condannati erano sottoposti
al
potere
rigidamente
verticistico
dell’amministrazione
penitenziaria
e
«dovevano essere chiamati col numero delle
loro matricole, subire il taglio dei capelli,
indossare l’abito uniforme a strisce,
camminare durante il passaggio soli o a tre a
tre, parlare a voce bassa, non uscire dalla fila
né fermarsi o sedersi senza aver ottenuto il
permesso dagli agenti di custodia»12. Evidenti
sono le differenze con l’impianto dell’O.P., ma
bisognerà
attendere
ancora
un
venticinquennio dall’adozione di questo per
assistere alla nascita del c.d. Regolamento
Penitenziario, D.P.R. 230/200013. Esso,
animato dalla volontà di offrire maggiore
concretezza a quel trattamento penitenziario
individualizzato
e
finalizzato
alla
rieducazione di cui alla Legge 354/75, intende
È stato però rilevato che, nonostante l’esplicitazione contenuta
in apertura alle osservazioni preliminari, i redattori hanno in
qualche modo codificato una serie di principi caratterizzanti i
modelli penitenziari che andavano affermandosi nei Paesi
democratici occidentali nel periodo post-bellico, «la cui
genealogia è stata descritta da Michel Foucault in Sorvegliare e
Punire». Così G. CAPUTO, Carcere e diritti sociali, marzo 2010.
http://www.cesvot.it/repository/cont_schedemm/5636_docu
mento.pdf, p. 21.
9 Legge 26 luglio 1975, n. 354. Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della
libertà,
in
http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/FDF48DF0-FB7D4D75-AD02-E95E2142DDF3/0/34_Legge26luglio1975n354.pdf
10 D. VALIA, I diritti del recluso tra legge 354/1975, Costituzione e
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in Rassegna
penitenziaria e criminologica, 2, 3, 1999, pp. 9-10, in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/21946.pdf.
11
F.S. FORTUNA, Il carcere duro, negazione dell’ideologia
penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1, 2004, p.
64, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/64391.pdf.
12 G. RAGNO, Le posizioni subiettive del condannato, in Iustitia, pp.
231 ss., citato in VALIA, I diritti del recluso, cit., p. 8.
13 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230. Regolamento recante norme
sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative
della libertà.
http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/as
sets/files/14/0851_2007_07_09_DPR_230_2000_religioni.pdf.
8
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
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17
agevolare l’esercizio di tutte le libertà che non
siano elise o compresse da esigenze di ordine
e sicurezza e fissa degli standard che siano
maggiormente rispettosi dell’integrità psicofisica del detenuto, così da creare degli spazi
effettivi all’interno dei quali possa aver luogo
l’offerta trattamentale dell’amministrazione
penitenziaria.
Che il detenuto venga ora visto come il centro
dell’impianto normativo penitenziario emerge
già dall’articolo 1 O.P., il quale recepisce
quanto già stabilito in ambito internazionale e
dall’articolo
27
della
Costituzione,
sottolineando al primo comma che «il
trattamento
penitenziario
deve
essere
conforme ad umanità e deve assicurare il
rispetto della dignità della persona» e al terzo
che il trattamento degli imputati dev’essere
informato al principio di non colpevolezza. Il
secondo comma sancisce l’imparzialità del
trattamento, riprendendo il principio di
uguaglianza di cui all’articolo 3 della
Costituzione. In aperta soluzione di continuità
col Regolamento del 1931, sotto la vigenza del
quale veniva utilizzato il numero di matricola
per riferirsi ai carcerati, il quarto comma
dell’articolo 1 O.P. si è preoccupato di
esplicitare che ora i soggetti reclusi devono
essere indicati o chiamati col proprio nome.
Se, come si legge nell’ultimo comma, «nei
confronti dei condannati e degli internati deve
essere attuato un trattamento rieducativo che
tenda, anche attraverso i contatti con
l’ambiente esterno, al reinserimento sociale
degli stessi», è evidente che il legislatore del
1975 ha stabilito un rapporto di mezzo a fine
tra trattamento e rieducazione, e che se il
primo è ispirato ad un «criterio di
individualizzazione in rapporto alle specifiche
condizioni dei soggetti» la logica della
depersonalizzazione è stata abbandonata. Il
trattamento non ha carattere impositivo (la
norma comprende in sé anche il diritto a non
essere trattato), ma postula l’adesione
volontaria allo stesso da parte dei soggetti cui
è destinato, ovvero da detenuti e internati.
Occorre però tenere presente che mentre gli
imputati hanno facoltà di aderire all’offerta
trattamentale
posta
in
essere
dall’amministrazione penitenziaria, in capo ai
condannati sussiste un vero diritto al
trattamento14. Se l’articolo 1 O.P. parla di un
trattamento individualizzato, in rapporto alle
specifiche condizioni dei soggetti, il secondo
comma dell’articolo 13 stabilisce che all’inizio
dell’esecuzione e nel corso di essa è
predisposta l’osservazione scientifica della
personalità, per l’espletamento della quale si
raccolgono dati giudiziari, biografici e
sanitari. Ai sensi dell’articolo 27 del
Regolamento 230/2000 l’osservazione è
diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun
soggetto, connessi alle eventuali carenze
psico-fisiche, affettive, educative e sociali che
sono state di pregiudizio alla normale vita di
relazione, ed è rivolta a desumere elementi
per la formulazione del programma
individualizzato di trattamento nonché, in
una fase successiva, ad assumere le eventuali
nuove esigenze che richiedono una variazione
dello stesso. Sulla base delle risultanze
dell’osservazione
viene
elaborato
un
programma
trattamentale
specifico
e
individualizzato. Ma quali sono gli elementi
su cui deve fondarsi il trattamento? A quelli
classici, ovvero istruzione, lavoro e religione,
sono stati esplicitamente affiancati altri: si
parla di attività ricreative e sportive e di
contatti con il mondo esterno e con la
famiglia. Alcune brevi battute sul tema del
lavoro: è evidente la necessità sentita dal
legislatore di palesare quale debba essere la
natura dello stesso, tanto che al secondo
14
Si esprime in tal senso VALIA, I diritti del recluso, cit., pp. 22-23
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comma dell’articolo 20 leggiamo che «il
lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo
ed è remunerato». Dev’essere favorita la
destinazione dei detenuti e degli internati al
lavoro e la loro partecipazione a corsi di
formazione professionale (primo comma);
inoltre il compimento di tali attività
dev’essere strutturato in modo affine a quanto
avviene extra moenia, cosicché il soggetto
possa acquisire un certo grado di
professionalità
che
agevoli
il
suo
reinserimento (quinto comma). La condizione
preferibile è senz’altro quella che si sostanzia
nella dipendenza da un datore di lavoro
esterno: a tal fine le amministrazioni
penitenziarie stipulano apposite convenzioni
con soggetti pubblici o privati o cooperative
sociali. Per quanto invece attiene alla
religione, non solo l’articolo 26 O.P. riconosce
alle persone private della libertà personale la
«libertà di professare la propria fede religiosa,
di istruirsi in essa e di praticarne il culto», ma
assicura anche la celebrazione del culto
cattolico e la presenza di un cappellano e
stabilisce che gli appartenenti ad una diversa
religione «hanno diritto di ricevere, su loro
richiesta, la assistenza dei ministri del proprio
culto e di celebrarne i riti».
Nel frattempo la nuova concezione del
trattamento penitenziario affermatasi in
ambito europeo ha imposto di riconsiderare le
Standard minimum rules for the treatment of
prisoners, dando così vita alle European prison
rules R(87)315 Trattandosi di raccomandazioni,
non ci troviamo di fronte a documenti
vincolanti, ma sicuramente di grande valore:
in proposito non è mancato chi ha parlato di
un «codice penitenziario europeo»16 che si
15 COUNCIL OF EUROPE, European Prison Rules, Recommendation
No.
R(87)3,
Strasburgo,
12
febbraio
1987,
in
http://www.medekspert.az/pt/chapter1/resources/EUROPE
AN_PRISON_RULES.pdf.
16 L. DAGA (a cura di), Le nuove regole penitenziarie europee
occupa dei diversi aspetti della vita dei
detenuti: dall’adeguatezza dei locali al
servizio sanitario, dall’istruzione alla gestione
del tempo libero. La raccomandazione fa
riferimento al fatto che la privazione della
libertà deve eseguirsi in condizioni materiali e
morali rispettose della dignità umana, al
divieto di qualsivoglia discriminazione e al
dovere di riconoscere i diritti individuali del
detenuto. Al trattamento, la cui finalità è
quella di salvaguardare la salute e dignità del
detenuto, di sviluppare un suo senso di
responsabilità e di incoraggiare le attitudini e
competenze che potranno aiutarlo nel mondo
esterno, è dedicata un’intera Parte del
documento. Bisogna assicurare condizioni di
vita che siano compatibili con la dignità
umana, ridurre al minimo gli effetti della
detenzione e le differenze tra la vita infra ed
extramuraria, mantenere e – ove possibile –
migliorare i rapporti del detenuto con la
famiglia e con la comunità esterna e puntare
sulle possibilità di reinserimento del soggetto.
Gli elementi fondanti del trattamento
individualizzato vanno pertanto individuati
in quelli già visti con riferimento al nostro
O.P. L’interessato andrebbe incoraggiato a
cooperare
al
programma
riabilitativo
predisposto in vista della sua liberazione, la
quale dev’essere in qualche modo preparata,
facendo leva anche sull’operato dei servizi
sociali e degli organismi che coadiuvano i
detenuti nel loro reinserimento nella società.
Quanto osservato sin qui avrà consentito al
lettore di notare che uno dei nuclei tematici
cui si deve riconoscere un certo rilievo è
rappresentato dalla condanna della tortura: se
già la Dichiarazione del 1948 se ne
interessava, la prima risoluzione ad essa
(raccomandazioni 3 n. R(87)3), in Rassegna penitenziaria e
criminologica, 1, 3, 1986, pp. 445-446, consultabile in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/37658.pdf.
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
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19
interamente dedicata è stata adottata dalle
Nazioni Unite nel 1973 ed è stata seguita dalla
Dichiarazione sulla protezione di tutte le
persone sottoposte a forme di tortura e altre
pene o trattamenti inumani, crudeli,
degradanti17. Il maggiore rilievo deve però
essere riconosciuto alla Convenzione contro la
tortura ed altre pene o trattamenti crudeli,
disumani o degradanti, adottata nel 1984 ed
entrata in vigore il 26 giugno 198718. Ma cosa
si deve intendere per tortura? Ad offrirci una
risposta in tal senso è l’articolo 1 della
Convenzione, che recita quanto segue:
Ai fini della presente Convenzione, il termine
«tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono
inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute,
fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere
da questa o da una terza persona informazioni o
confessioni, di punirla per un atto che ella o una
terza persona ha commesso o è sospettata di aver
commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su
di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una
terza persona, o per qualunque altro motivo basato
su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora
tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un
funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona
che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione,
oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale
termine non si estende al dolore o alle sofferenze
17 Per un approfondimento sui documenti che hanno delineato
il concetto di tortura e che hanno contribuito alla sua condanna
si veda C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa
internazionale
dei
diritti
dell’uomo,
s.d.,
in
http://www.diritto.it/pdf/28401.pdf.
18 Si veda ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE,
Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli,
disumani o degradanti, New York, 10 dicembre 1984, in
http://www.unhcr.it/news/pdf/377/15/convenzione-controla-tortura-ed-altre-pene-o-trattamenti-crudeli-disumani-odegradanti.html. Per approfondimenti sul tema si veda
CONSIGLIO D’EUROPA, COMITATO EUROPEO PER LA PREVENZIONE
DELLA TORTURA E DELLE PENE O TRATTAMENTI INUMANI O
(CPT). Convenzione europea per la prevenzione della
tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Testo della
Convenzione e Rapporto esplicativo CPT/Inf/C (2002),1, s.d., pp. 1517, in http://www.cpt.coe.int/lang/ita/ita-convention.pdf.
DEGRADANTI
derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse
inerenti o da esse provocate.
Il presente articolo lascia impregiudicato ogni
strumento internazionale ed ogni legge nazionale
che contiene o può contenere disposizioni di
portata più ampia.
Nonostante nella definizione si faccia
riferimento a condotte commissive o attive
(nel testo dell’articolo 1 si legge infatti
«qualsiasi atto»), è ormai pacifico che le
garanzie coprano anche le omissioni degli
Stati19. Non solo gli Stati devono adoperarsi al
fine di impedire che nei territori sottoposti
alla loro giurisdizione vengano compiuti atti
di tortura, ma si impegnano anche ad
introdurre tale pratica tra le fattispecie
criminose previste dalle legislazioni nazionali,
stabilendo per il compimento di tali reati pene
adeguate, in considerazione della loro
speciale gravità. A giustificazione della
tortura non può essere addotta alcuna
ragione, nemmeno eccezionale, sia che si tratti
di guerra o di instabilità politica, sia che essa
venga adoperata in ottemperanza all’ordine di
un superiore o di un’autorità pubblica. Le
tematiche in oggetto hanno poi trovato
19 Si esprime in tal senso DANISI, Divieto e definizione di tortura,
cit., pp. 6-7. Nel testo della Convenzione europea non troviamo
una definizione di trattamenti inumani o degradanti, né una
linea di confine che ci consenta di distinguere questi dagli atti
di tortura. Ci affidiamo quindi alla giurisprudenza: nel caso
Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978 dinanzi alla Corte
europea è stato stabilito che il displuvio è costituito dalla
«differenza nell’intensità della sofferenza inflitta». Il
trattamento disumano deve consistere «almeno in una intensa
sofferenza fisica e mentale, anche se non in una vera e propria
violenza sul corpo della persona». L’aggettivo degradante fa
invece riferimento al trattamento tale da «ingenerare nelle
vittime sentimenti di paura, angoscia e inferiorità in grado di
umiliarle ed eventualmente di rompere la loro resistenza fisica
e morale». A fornirci un contributo in tal senso è S. PETRINI, Lo
stato delle carceri in Europa, nei rapporti del Comitato per la
prevenzione della tortura (CPT) e nella giurisprudenza della Corte
europea,
s.d.,
in
http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/asylum/petrini/inde
x.htm.
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
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20
considerazione anche in ambito comunitario,
come dimostra l’adozione della Convenzione
europea per la prevenzione della tortura e
delle pene o trattamenti inumani o
degradanti, la quale si è concentrata su di un
«sistema non giudiziario di natura preventiva,
basato su sopralluoghi»20. A dare concretezza
a tale obiettivo è stata l’istituzione di un
organo che ha appunto il compito di
effettuare sopralluoghi ove vi siano persone
private della libertà da un’Autorità pubblica
nell’ambito dei territori sottoposti alla
giurisdizione delle Parti. Esso, composto da
un numero di membri pari a quello delle
Parti, è il Comitato europeo per la
prevenzione della tortura e delle pene o
trattamenti inumani o degradanti (CPT). La
visita ai luoghi di detenzione gli è consentita
in ogni momento e solo in circostanze
eccezionali
potranno
essere
formulate
obiezioni alla ispezione nel momento
prospettato dal Comitato o nel luogo specifico
che questo intende visitare. Una volta che il
sopralluogo sia stato effettuato, il CPT
redigerà un report sui fatti contestati in tale
occasione21.
Certamente
le
valutazioni
scaturite
dall’attività di monitoraggio del CPT e la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti
Si veda CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione europea per la
prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o
degradanti emendata dal Protocollo n. 1 (STE 151) e dal Protocollo n.
2 (STE 152), Strasburgo, 26 novembre 1987, in
http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/126.htm.
21 Nel 2008 il CPT ha visitato il nostro Paese, rilevando episodi
di maltrattamento nelle stazioni di polizia e carabinieri italiane,
anche nella provincia di Brescia. Veniva quindi raccomandata
l’adozione di una direttiva formale che richiamasse l’attenzione
delle forze dell’ordine sul loro dovere di rispettare i diritti e la
dignità dei soggetti in custodia. Per ciò che riguarda il carcere
di Canton Mombello il CPT ha denunciato un eclatante
sovraffollamento, che costituirebbe la causa di alcune gravi
mancanze, basti pensare al fatto che non tutti i letti sono
provvisti di materasso. Tali informazioni sono desunte da C.A.
ROMANO, Sbarre. Le carceri di Brescia viste dai bresciani e
dall’Europa, Brescia 2010, pp. 43-46.
20
dell’uomo hanno svolto un ruolo propulsore
nell’indicare l’opportunità di innovare
l’impianto delle European prison rules,
procedendo ad un’armonizzazione ispirata
alla good practice che andava affermandosi
nell’acquis comunitario22. Nascono così le
Regole penitenziarie europee del 200623: si
ribadisce che le persone private della libertà
devono essere trattate con il rispetto dei diritti
dell’uomo (regola 1); in particolare, tali
soggetti conservano tutti i diritti che non sono
stati loro tolti con la sentenza di condanna o
in conseguenza della custodia cautelare
(regola 2). Viene inoltre stabilito che la
mancanza di sufficienti risorse non può essere
invocata a giustificazione della violazione dei
diritti umani (regola 4). Si pone poi
nuovamente l’accento sulla cooperazione con
i servizi sociali e con la società civile
finalizzata a facilitare il reinserimento del
soggetto una volta uscito dalle mura del luogo
di detenzione (regole 6 e 7). Per quanto
riguarda i locali, viene sostanzialmente
ribadito quanto già si leggeva nelle Regole del
1987, che vengono riprese anche per quanto
attiene alla separazione dei soggetti (maschi
vs femmine; giovani vs adulti; condannati vs
imputati). La regola 23 si occupa della
consulenza legale, diritto di ogni detenuto. I
contatti del mondo esterno devono procedere
secondo i consueti canali: visite e
corrispondenza. Inoltre viene stabilito che
Si veda MINISTERO DELLA GIUSTIZIA – DIPARTIMENTO
PENITENZIARIA – UFFICIO STUDI
RICERCHE LEGISLAZIONE E RAPPORTI INTERNAZIONALI, Le regole
penitenziarie europee – Allegato alla Raccomandazione R(2006)2
adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11
gennaio
2006,
Roma
2007,
p.
8,
in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/92.pdf.
23
COMITATO DEI MINISTRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA,
Raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati
membri sulle Regole penitenziarie europee, Strasburgo, 11 gennaio
2006,
in
http://www.coe.int/t/dghl/standardsetting/prisons/EPR/Re
gole%20Penitenziarie%20Europee%20ITALIANO.pdf.
22
DELL’AMMINISTRAZIONE
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
International Journal of Criminological and Investigative Sciences
21
«ogni volta che le circostanze lo permettono, il
detenuto deve essere autorizzato ad uscire –
scortato o liberamente – per render visita ad
un parente ammalato, assistere ai funerali o
per altre ragioni umanitarie» e che «le autorità
penitenziarie devono assicurarsi che i
detenuti possano partecipare alle elezioni, ai
referendum e agli altri aspetti della vita
pubblica, salvo che l’esercizio di tali diritti
non sia limitato dal diritto interno»24. Anche il
tema del lavoro viene considerato (regola 24),
insieme alle tematiche dell’istruzione e delle
attività ricreative.
2. Effettività
Disponiamo di un corpus normativo definibile
quasi come καλὸ̋ καὶ ἀγαθό̋, che pone una
serie di garanzie e stabilisce un insieme di
diritti per chi sia privato della libertà
personale; ma quanto previsto dalle fonti
nazionali e sovranazionali trova attuazione
nella realtà carceraria del nostro Paese?
A solenni affermazioni di principio e sofferte
elaborazioni giurisprudenziali non segue alcun
passo avanti sotto il profilo della concreta
attuazione di principi costituzionali fondamentali.
Ciò perché tutti i soggetti coinvolti restano
prevalentemente arretrati sul piano della esegesi
della norma formale o della affermazione di
principi generali e rimane completamente
nell’ombra ogni analisi pacata della effettività25.
Basta leggere le tante esperienze di chi vive
quotidianamente il carcere per rendersi conto
che quanto stabilito sul piano normativo
COMITATO DEI MINISTRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA,
Raccomandazione R(2006)2, cit., regola 24.
25 A. MARCHESELLI, La tutela dei diritti dei detenuti alla ricerca della
effettività. Una ordinanza “rivoluzionaria” della Corte costituzionale,
in Rassegna penitenziaria e criminologica, 3, 2010, pp. 95-106, in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/712117.pdf.
24
rimane spesso lettera morta, anche a causa
delle difficoltà economiche e strutturali. Si
parla infatti di gravi condizioni igieniche e di
vivibilità26, acuite dalla vetustà degli istituti
penitenziari,
i
quali
finiscono
così,
inevitabilmente, per essere fuorilegge.
Uno dei più scottanti ed irrisolti problemi in
cui versa l’istituzione carceraria è senza
dubbio costituito dal sovraffollamento. Se si
rispettassero gli standard minimi fissati dalle
normative internazionali in tema di diritti
umani, nelle 206 prigioni italiane non
sarebbero presenti più di 45˙742 persone; alla
fine
degli
anni
novanta,
però,
l’Amministrazione penitenziaria, incapace di
rispettare tale indicatore, elaborò quello della
«capienza tollerabile», che rappresenta il
numero massimo di soggetti che ogni istituto
può contenere27. A prescindere da quale dei
due parametri si utilizzi, appare chiara
l’insostenibile situazione in cui versano le
prigioni italiane, che faticano a reggere
continue ondate di ingressi: nel marzo 2010 la
consistenza numerica della popolazione
penitenziaria nel nostro Paese ha superato le
66˙000 unità28; al 29 febbraio 2012 in carcere
c’erano 66.632 soggetti29. Come non bastasse,
a fronte di un aumento dei detenuti, si assiste
ad una riduzione del budget destinato al
penitenziario30.
Nel tentativo di migliorare la
situazione, il legislatore ha fatto ricorso a
strumenti come l’indultino, l’indulto del 2006
26 L. CASTELLANO, D. STASIO, Diritti e castighi. Storie di umanità
cancellata in carcere, Milano 2009, pp. 14 e 35.
27 S. VERDE, Il carcere manicomio. Le carceri in Italia fra violenza,
pietà, affari e camicie di forza, Sensibili alle foglie, s.l., 2011, pp. 1112.
28 S. DI PERSIO, La pena di morte italiana. Violenze e crimini senza
colpevoli nel buio delle carceri, Milano 2011, p. 177.
29 ASCA, Carceri: in istituti 66.632 detenuti contro una capienza di
45.742,
2
marzo
2012,
in
http://www.altalex.com/index.php?idnot=17427.
30 VERDE, Il carcere manicomio, cit., pp. 19-20.
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
International Journal of Criminological and Investigative Sciences
22
e – da ultimo – la legge c.d. svuota carceri31.
Dei primi due possiamo senz’altro dire che –
lungi dall’essere risolutivi – si sono limitati ad
aggirare il problema, che si è puntualmente
riproposto; della seconda non è ancora
possibile tracciare compiutamente un bilancio,
anche se sembra che non molti detenuti
potranno beneficiarne, non possedendo i
requisiti previsti dalla legge stessa; pur
apprezzandosi la volontà e il merito del
legislatore di aver dimostrato la presa di
coscienza di un grave problema, si dubita che
possa avere un forte impatto.
Che spesso, purtroppo, il nostro Paese abbia
posto in essere condotte difformi da quelle
auspicabili appare confermato da alcune
decisioni della Corte europea. Nel 2000 essa si
è pronunciata in merito al ricorso proposto
dal sig. Labita, che lamentava di aver subito,
durante l’arco temporale compreso tra luglio e
settembre
1992,
numerose
«violenze,
umiliazioni, vessazioni, intimidazioni ed altre
forme di tortura, sia fisiche sia psicologiche»32.
Le indagini italiane non condussero
all’individuazione dei colpevoli, e la Corte
concluse che l’Italia avesse violato l’obbligo
procedurale di un’indagine strutturalmente
approfondita33. Inoltre si ritenne che il
carattere
eccessivo
della
detenzione
provvisoria, non essendo – esplicitamente o
implicitamente – riconosciuto dal giudice di
secondo grado, fosse sufficiente a considerare
il soggetto quale vittima di violazione
dell’articolo 5 della Convenzione: non rilevò
l’offerta al ricorrente, da parte della Corte
d’appello di Palermo, di una somma a titolo
di risarcimento per la detenzione provvisoria
subita, poiché «una decisione o una misura
favorevole al ricorrente è sufficiente in via di
principio a togliergli la qualifica di vittima
solo se le autorità nazionali hanno
riconosciuto, esplicitamente o in sostanza, e
poi
riparato
la
violazione
della
Convenzione»34. Costituirebbe poi violazione
dell’articolo 5.1 il fatto che il sig. Labita sia
stato liberato solo dodici ore dopo la sentenza
di proscioglimento, a nulla rilevando che
l’accaduto fosse imputabile alla necessità di
svolgere
pratiche
amministrative
e
burocratiche. Ulteriore violazione del dettato
normativo internazionale si sarebbe verificata
con
riferimento
all’articolo
8
della
Convenzione, concernente la corrispondenza,
il controllo della quale non deve concretarsi in
ingerenze della pubblica autorità non previste
dalla legge35. In conformità al disposto
31 Il c.d. decreto ‘legge svuota carceri’, D.L. 211/2011, è stato
convertito nella Legge 17 febbraio 2012, n. 9, Interventi urgenti
per il contrasto della tensione detentiva determinata dal
sovraffollamento
delle
carceri,
in
http://www.altalex.com/index.php?idnot=17293.
32 Nello specifico il soggetto «sarebbe stato spesso picchiato e
malmenato, sarebbe stato colpito alle dita, alle ginocchia ed ai
testicoli. Avrebbe dovuto subire perquisizioni corporali
durante la doccia e sarebbe rimasto ammanettato durante le
visite mediche». CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI
DIRITTI DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, Strasburgo 6 aprile
2000, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, 3, 1999, p. 177212,
p.
178,
in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/22546.pdf.
33 C. MINNELLA, La giurisprudenza sulla Corte europea dei diritti
dell’uomo sul regime carcerario ex art. 41–bis Ord. Penit. e la sua
applicazione nell’ordinamento italiano, in Rassegna penitenziaria e
criminologica, 3, 2004, pp. 197-235, a p. 198, in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/20743.pdf.
In
particolare il sig. Labita affermava di non essere in grado di
riconoscere gli agenti responsabili delle violazioni per le quali
presentava ricorso a causa della pessima qualità delle fotocopie
delle foto che gli erano state fornite, ritenendo di poter
identificare gli stessi nell’ambito di una ricognizione personale,
la quale però non venne mai disposta.
34
CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI DIRITTI
DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, cit., pp. 186-187.
35
CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI DIRITTI
DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, cit., pp. 194-199. Sul tema
della corrispondenza la Corte di Strasburgo aveva già avuto
occasione di esprimere la propria posizione nel 1996, con le
sentenze Calogero Diana e Dominichini, nelle quali censurava –
sia per l’aspetto sostanziale, sia per quello relativo alla
mancanza della tutela giurisdizionale – l’articolo 18, comma 7,
O.P. ove disciplina il visto di controllo sulla corrispondenza dei
detenuti. Si veda in proposito C. MINNELLA, Il prezioso
contributo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di diritti
del detenuto e tutela giurisdizionale, in Rassegna penitenziaria e
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
International Journal of Criminological and Investigative Sciences
23
dell’articolo 41 della Convenzione europea –
che stabilisce che, nel caso vi siano violazioni
delle norme in essa contenute che possano
essere riparate solo in modo imperfetto dalla
Parte contraente, il soggetto leso ha diritto ad
un equo risarcimento – l’Italia è stata
condannata a versare in favore del sig. Labita
settantacinque milioni di lire per torto morale,
oltre alle spese di rito36.
Forse più noto è il caso del sig. Sulejmanovic,
il quale ha adito la Corte europea lamentando
condizioni detentive contrarie all’articolo 3
della Convenzione37. Il ricorrente era stato
arrestato nel 2002 e incarcerato a Rebibbia per
furto aggravato, tentato furto, ricettazione e
falsità in atti; e la pena da espiare veniva
fissata dal Tribunale di Cagliari in funzione di
giudice dell’esecuzione in un anno, nove mesi
e cinque giorni di reclusione. Il sig.
Sulejmanovic affermava di aver diviso – fino
alla data del 15 aprile 2003 – una cella della
dimensione di 16,20 metri quadri con altri
cinque soggetti, cosicché ciascuno di essi
disponeva di uno spazio medio di 2,70 metri
quadrati; in un periodo successivo – dal 15
aprile al 20 ottobre 2003, data in cui fu
scarcerato grazie all’indulto – era stato
assegnato ad una cella con altre quattro
persone, per cui la superficie media a
disposizione di ogni detenuto era di 3,40
metri quadri38. Il soggetto rimaneva chiuso in
cella per diciotto ore e trenta minuti al giorno,
oltre all’ora destinata alla consumazione dei
criminologica,
3,
2003,
pp.
137-164,
p.
139,
in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/21644.pdf.
36
CONSIGLIO D’EUROPA - CORTE EUROPEA DEI DIRITTI
DELL’UOMO, Caso Labita contro Italia, cit., p. 209.
37 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE,
Caso Sulejmanovic c/Italia (Ricorso n. 22635/03) - Sentenza,
Strasburgo, 16 luglio 2009, in Rassegna penitenziaria e
criminologica, 2, 2009, pp. 175-204, pp. 175-176, in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/684112.pdf.
38 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE,
Caso Sulejmanovic c/Italia, cit., pp. 176-177.
pasti, nonostante la normativa vigente
stabilisca espressamente che tale attività deve
avvenire in spazi ad hoc, come mense e
refettori. La Corte, precisando che in
conformità all’articolo 3 della Convenzione i
detenuti devono essere custoditi in modo che
non si superi il livello di sofferenza già
implicito nella stessa privazione della libertà
personale, ha ricordato che il CPT ha fissato la
superficie minima di una cella per una
persona a 7 metri quadri e che il
sovraffollamento pone una serie di problemi
in correlazione con l’articolo 3 della
Convenzione: pur trattandosi di indicazioni
«auspicabili», vi sarebbero casi in cui il
conclamato
sovraffollamento
avrebbe
consistenza tale da integrare fattispecie
contrassegnate dalla contrarietà all’articolo in
questione; ciò è stato affermato dalla Corte in
una serie di pronunce giurisprudenziali. Non
si
deve
dimenticare
infatti
che
il
sovrannumero dei carcerati pone anche una
serie di problemi in relazione alla tutela del
rispetto dei diritti umani dei soggetti che
soffrono l’invivibilità del penitenziario39. In
brevis verbis, la mancanza di spazio personale
subìta dal ricorrente costituirebbe di per sé
trattamento inumano e degradante, sebbene
nel corso del tempo la condizione detentiva
del sig. Sulejmanovic fosse interessata da un
miglioramento, potendo i detenuti disporre di
una superficie media di maggiore estensione.
Nel caso di specie il punto di displuvio viene
quindi individuato nella data del 15 aprile
2003: precedentemente, il sovraffollamento
era tale da integrare fattispecie contrarie
all’articolo
3
della
Convenzione,
successivamente no, dato il maggiore spazio
pro capite di cui i soggetti potevano godere.
39 A. LANZARO, Il sovraffollamento delle carceri in violazione dei
diritti
umani
e
il
caso
Sulejmanovic,
p.
2,
in
http://www.innovazionediritto.unina.it/archivionumeri/1003
/lanzaro.pdf.
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
International Journal of Criminological and Investigative Sciences
24
Tali motivazioni hanno indotto la Corte a
riconoscere al ricorrente un risarcimento di
euro mille per il danno morale subito40.
Da questa decisione, che in un certo senso
costituisce un precedente gravido di
pericolosità per il nostro Paese, ha preso le
mosse una serie di denunce dei detenuti alla
Corte di Strasburgo. Allora viene da chiedersi:
cosa potrebbe accadere se l’Italia si trovasse a
dover risarcire tutti i detenuti che vivono le
condizioni di sovraffollamento delle nostre
carceri con mille euro ciascuno41?
3. Tutela
La tutela dei diritti del detenuto rappresenta
essa stessa un diritto di tali soggetti, che trova
riconoscimento sia in ambito nazionale che
comunitario. All’interno di quest’ultimo
importanza centrale riveste la Corte di
Strasburgo, cui possono rivolgersi sia gli Stati
che i singoli individui che si ritengano vittime
di violazioni, in conformità a quanto stabilito
dalla stessa CEDU. Per poter adire la Corte
devono essere esaurite le ipotesi di ricorso
interne per la tutela dei diritti enumerati nella
stessa CEDU e nei suoi Protocolli e le
doglianze devono essere elevate a carico di
40 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE,
Caso Sulejmanovic c/Italia, cit., pp. 187-189.
41 Al 18 settembre 2009, Stefano Anastasia, Difensore civico
dell’Associazione Antigone, affermava che oltre duecento
detenuti avevano contattato l’associazione chiedendo
assistenza per il ricorso alla Corte europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo. Secondo le parole di Ornella Favero,
direttrice del giornale del carcere di Padova Ristretti Orizzonti,
«pare sia giunta una missiva dal Ministero in cui si richiede di
controllare bene che ci siano i presupposti per i detenuti della
metratura vivibile che segua i canoni di legge e soprattutto che
rispetti il già citato articolo 3 della Convenzione Europea per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
Fondamentali. E non si capisce come faranno a farlo, forse con
una bacchetta magica?». Si veda in proposito D. PELANDA,
Mondo recluso. Vivere in carcere in Italia oggi, Cantalupa 2010, p.
21.
pubbliche autorità42. Il ricorrente può adire la
Corte di Strasburgo entro sei mesi decorrenti
dalla notifica o dal deposito della decisione
definitiva pronunciata nell’ambito dei mezzi
di impugnazione ordinari, inoltrando una
prima missiva recante l’oggetto delle
doglianze che fondano il ricorso: è evidente la
volontà di avvicinare quanto più possibile
l’individuo all’istituzione, dato che non sono
richieste particolari formalità per la
proposizione del ricorso, bastando l’invio di
una semplice lettera per posta ordinaria43.
Una volta che l’istanza giunga all’attenzione
della Corte, si aprirà il giudizio riguardante la
ricevibilità dello stesso, che se avrà esito
positivo condurrà al procedimento (di regola
pubblico) nel merito, che potrà trovare
conclusione in un’assoluzione o in una
condanna; in quest’ultimo caso vi sarà
l’obbligo a carico della Parte condannata di
eliminare le conseguenze della violazione e,
solo in via eventuale, il risarcimento dei danni
subiti dalla vittima44.
Per quanto attiene le forme di tutela interne,
possiamo osservare come la Legge del 1975
avesse
optato
per
una
sostanziale
tripartizione: in primo luogo, quelli che sono i
diritti delle persone private della libertà
personale e che non vengono incisi dalla
detenzione sono configurati alla stessa stregua
di quelli delle persone libere e troveranno le
stesse forme di tutela (ordinarie); in secondo
luogo, il legislatore aveva configurato forme
di tutela c.d. semplificata, intermedia tra le
forme ordinarie e il reclamo ex art. 35 O.P.: si
tratta della procedura di cui agli articoli 14-ter
42 CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., p. 23.
43 Si veda C. NIGRO, Guida alla Corte europea dei diritti dell’uomo,
pp.
5-6,
in
http://www.ristretti.it/areestudio/estero/generale/guida_ced
u.pdf.
44 NIGRO, Guida alla Corte europea, cit.
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
International Journal of Criminological and Investigative Sciences
25
e 71 della L. 354/75, per le materie indicate
nell’articolo 69 O.P., che merita appunto
l’aggettivo ‘semplificata’ in quanto vede la
sua conclusione con un’ordinanza del
magistrato di sorveglianza ricorribile per
cassazione, e in quanto nella procedura de qua
il contraddittorio si attua mediante il deposito
di memorie ed è esclusa la partecipazione
fisica
dell’interessato;
infine,
bisogna
considerare il reclamo generico previsto
dall’articolo 35 O.P , che prevede una
segnalazione da farsi al magistrato di
sorveglianza (o ad altri soggetti indicati nella
norma stessa), la quale condurrà non a forme
di tutela giurisdizionale, ma ad iniziative
amministrative (poteri di sollecitazione,
revisione e intervento). Le posizioni
giuridiche sostanziali tutelabili del soggetto
privato della libertà personale si sostanziano,
da un lato, in quelle previste dalle norme
penitenziarie, dall’altro, in tutte quelle
riconoscibili ad un soggetto libero45.
La magistratura di sorveglianza consta di due
livelli di giurisdizione: il magistrato e il
tribunale di sorveglianza, quest’ultimo
composto da membri togati e laici scelti tra
esperti in psicologia, servizio sociale,
pedagogia, psichiatria e criminologia clinica,
nonché tra docenti di scienze criminalistiche.
Vale la pena di precisare che esistono due
ceppi di norme che rendono possibile
l’operare della magistratura di sorveglianza
all’interno del nostro ordinamento. Su di un
versante troviamo le funzioni di vigilanza
sull’esecuzione della pena, che discendono
dai primi due commi dell’articolo 69 O.P. e
che conducono ad un generale potere di
intervento del magistrato teso al rispetto della
legge penitenziaria in conformità allo scopo
costituzionalmente previsto; sull’altro si
45 MARCHESELLI, La tutela dei diritti dei detenuti alla ricerca della
effettività, cit.
dipanano
le
funzioni
puramente
giurisdizionali dell’organo monocratico e di
quello collegiale, che prendono vita con le
modalità e per le materie normativamente
determinate (si pensi agli articoli 30 e 30-ter
O.P. in tema di permessi, o ancora all’articolo
47 concernente l’affidamento in prova al
servizio sociale)46.
Il procedimento di sorveglianza può essere
instaurato sia d’ufficio che su richiesta del
PM, dell’interessato e del difensore. Il
presidente del tribunale di sorveglianza fissa
la data dell’udienza, la quale si svolgerà in
camera di consiglio, e che vedrà – a pena di
nullità – la presenza del P.M. e del difensore
dell’interessato; l’interessato che ne faccia
richiesta è sentito personalmente. La decisione
viene adottata con ordinanza motivata, che ha
sostanzialmente la natura di una sentenza e,
una volta divenuta irrevocabile, produce il
consueto effetto del giudicato47.
Come già si è osservato, la possibilità di
appello dinanzi al tribunale di sorveglianza si
ha nel caso di ordinanze emesse dal
magistrato di sorveglianza in sede di riesame
della pericolosità nonché di applicazione,
esecuzione, trasformazione o revoca delle
misure di sicurezza ovvero di revoca della
dichiarazione di delinquenza, come anche per
i casi di decisione con procedura sommaria.
Per la totalità delle ordinanze è esperibile il
ricorso per cassazione.
Per ciò che concerne i reclami, da un lato
troviamo
quelli
con
procedimento
giurisdizionalizzato, dall’altro quelli con
procedimento de plano. Ipotesi rientranti nel
46 S. ARDITA, Le questioni controverse in materia di esecuzione della
pena. La funzione di vigilanza del magistrato di sorveglianza. I
reclami ex art. 35 e 69 o.p. I rapporti con l’amministrazione
penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, 2006, in
http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/8229.pdf.
47 M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario. Le
norme, gli organi, le modalità dell’esecuzione delle sanzioni penali,
Milano 2010, pp. 591-592.
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
International Journal of Criminological and Investigative Sciences
26
primo gruppo, con riferimento alle quali sono
quindi dettate specifiche regole procedurali,
sono quelle riguardanti i provvedimenti del
magistrato di sorveglianza che disponga
limitazioni nella corrispondenza epistolare e
telegrafica e nella ricezione della stampa; la
sottoposizione della corrispondenza a visto di
controllo; il controllo delle buste che
racchiudono la corrispondenza, senza lettura
della medesima; il lavoro penitenziario e la
costituzione dell’organo di disciplina. Il
secondo gruppo è invece quello per il quale
non sono previste particolari formalità, ed è
identificabile nelle ipotesi ex articolo 35 O.P.,
riguardante il generico diritto di doglianza. La
sentenza della Corte costituzionale 212/1997
ha stabilito che «poiché nell’ordinamento,
secondo il
principio
di
assolutezza,
inviolabilità e universalità del diritto alla
tutela giurisdizionale (art. 24 e 113 Cost.), non
v’è posizione giuridica tutelata di diritto
sostanziale, senza che vi sia un giudice
davanti al quale essa possa essere fatta valere,
è
inevitabile
riconoscere
carattere
giurisdizionale al reclamo al magistrato di
sorveglianza che l’ordinamento appresta a
tale scopo»48. A questo punto vale la pena di
soffermarsi sulla sentenza 26/1999 della Corte
Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale degli articoli 35 e 69 O.P. nella
parte in cui non prevedono una tutela
giurisdizionale nei confronti degli atti
dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei
diritti di coloro che sono sottoposti a
restrizione della libertà personale: in brevis
verbis, ad ogni posizione giuridica meritevole
di tutela deve corrispondere una tutela
giurisdizionale49.
CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza 3 luglio 1997, n. 212, Roma, 3
luglio
1997,
in
http://bdprof.ilsole24ore.com/MGR/Default.aspx#56
49 Si veda MARCHESELLI, La tutela dei diritti dei detenuti alla ricerca
della effettività, cit., p. 99. La citata decisione 26/1999 ha quindi
48
Ci sono due ipotesi di reclamo al magistrato
di sorveglianza. Una prima ipotesi è quella
sancita dal sesto comma dell’articolo 69 O.P.,
che prevede che egli si esprima con ordinanza
impugnabile solo per cassazione secondo un
procedimento semplificato ex articolo 14-ter
O.P., su reclami concernenti l’osservanza delle
norme riguardanti:
l’attribuzione della qualifica lavorativa, la
mercede e la remunerazione, nonché lo
svolgimento delle attività di tirocinio e di
lavoro e le assicurazioni sociali;
le condizioni di esercizio del potere
disciplinare, la costituzione e la competenza
dell’organo disciplinare, la contestazione
degli addebiti e la facoltà di discolpa.
Una seconda ipotesi è quella configurata
dall’articolo 35 O.P., consistente nel c.d.
reclamo generico, in relazione al quale il
legislatore non ha dettato regole specifiche.
Per il vero, tali doglianze possono essere
proposte non solo al magistrato di
sorveglianza, ma anche ad altri soggetti
indicati dalla norma stessa: al direttore
dell’istituto, agli ispettori, al direttore
generale per gli istituti di prevenzione e di
pena e al Ministro della giustizia; alle autorità
giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto; al
presidente della giunta regionale e – infine –
al Capo dello Stato. Bisogna poi osservare che
esistono anche casi in cui i detenuti e gli
internati sono ammessi a proporre reclami
dinanzi al tribunale di sorveglianza. Da un
punto di vista procedimentale, siamo di fronte
ad
un
meccanismo
giurisdizionale
semplificato: la legge dispone qui la
evidenziato che il rimedio previsto dagli articoli 35 e 69 O.P.
avverso i provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria
potenzialmente lesivi dei diritti dei soggetti privati della libertà
personale dev’essere trattato con le forme dei procedimenti
giurisdizionali. Per approfondimenti si veda F. FALZONE, La
sentenza n. 266/2009 della Corte costituzionale: è innovativa
dell’attuale sistema di tutela dei diritti dei detenuti?, pp. 107-123, p.
109, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/713117.pdf.
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necessaria presenza del P.M. e del difensore,
oltre alla facoltà per l’interessato e
l’Amministrazione penitenziaria di presentare
memorie. Ai sensi dell’articolo 14-ter O.P.
l’ordinanza decisoria dev’essere emessa,
nell’ambito di un procedimento svolto con le
forme del rito in camera di consiglio, entro il
termine di dieci giorni decorrenti dalla
ricezione del reclamo50. In materia di reclamo,
sono soggette a ricorso per cassazione le
ordinanze del magistrato di sorveglianza in
tema di lavoro penitenziario e di disciplina.
Infine, è d’obbligo un cenno alla figura del
garante dei diritti dei detenuti, che è organo
di garanzia, rivestendo funzioni di tutela delle
persone private della libertà personale. Nel
nostro Paese non esiste un garante che operi
in modo accentrato, ma piuttosto operano
garanti regionali, provinciali e comunali, le
funzioni dei quali sono definite dai relativi
atti costitutivi. Si tratta di un soggetto che può
svolgere un ruolo di vigilanza e di verifica
delle condizioni di detenzione, avendo una
posizione di effettiva terzietà ed indipendenza
nei
confronti
dell’Amministrazione
penitenziaria, ciò che, indubbiamente, si
rivela importantissimo in un ambiente
peculiare come quello che qui esaminiamo,
nel quale non si può certo negare che i
rapporti siano spesso tesi: funzione del
garante dei diritti dei detenuti sarebbe quindi
quella di mediatore51. Potremmo dire che la
volontà di istituire un siffatto organo sia in
qualche modo identificabile con la logica di
apprestare sì una certa tutela ai diritti del
detenuto, tutela che non può però qualificarsi
come giurisdizionale, ma che piuttosto
Da parte di CANEPA-MERLO, Manuale di diritto penitenziario,
cit., pp. 609-110.
51 L. MANCONI, Un garante a tutela dei detenuti, Repubblica, 22
maggio
2003,
in
http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/garante/manconi
2.htm.
50
potrebbe giovarsi del fatto di essere
imperniata su di un soggetto i cui compiti
hanno a che fare con l’individuazione delle
carenze dell’Amministrazione penitenziaria,
finalizzata a promuovere i diritti dei reclusi.
Conclusioni
Se davvero si riuscisse a mettere in
pratica tutto ciò che è sancito a livello
normativo, sicuramente la situazione delle
nostre carceri sarebbe ben più rosea. E se si
rispettassero gli standard elaborati dai
legislatori sovranazionale e nazionale, si
eviterebbero i risarcimenti che il nostro Paese
si trova a dover porre in essere a fronte delle
decisioni della Corte di Strasburgo.
Ci siamo occupati di normative,
effettività e tutela: i diritti dei detenuti
vengono ad esistere perché consacrati nelle
Convenzioni
internazionali,
nella
Costituzione, nell’Ordinamento Penitenziario
e nelle leggi speciali che di volta in volta sono
intervenute a modificare quest’ultimo. Tra
questi diritti, vi è anche la stessa tutela, che
occupa una posizione particolare se non altro
per il carattere strumentale che la colora,
rappresentando la stessa un meccanismo che
l’ordinamento appresta nel caso che la norma
sostanziale venga violata. È evidente che la
volontà di stabilire una procedura piuttosto
semplice per adire la Corte Europea risponde
alla logica di voler offrire una possibilità
effettiva a soggetti che, spesso, sono senza
voce.
E l’effettività? A parere di chi scrive è
questo l’ambito dove sorgono i maggiori
problemi, tanto che (mancanza di) effettività e
rovesci del detenuto finiscono tristemente per
coincidere. Talvolta avvengono violazioni del
diritto all’integrità fisica e morale; talaltra
sono il diritto alla salute o alla corrispondenza
Crimen et Delictum, IV (November 2012)
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ad essere lesi; altre volte ancora al trattamento
non viene dedicata sufficiente attenzione.
Anche guardando il problema dal punto di
vista delle istituzioni, non possiamo
dimenticare che ad ogni diritto deve
corrispondere un dovere e non, come spesso
accade, un rovescio consistente nella mancata
attuazione della norma stessa. Quindi, se lo
Stato ha il diritto di privare della libertà
personale chi abbia violato la legge penale, ha
anche il dovere di far sì che l’espiazione della
pena detentiva avvenga all’interno di un
quadro rispettoso dei diritti umani, come ci
richiedono la Costituzione e le Convenzioni
internazionali.
Le pene devono tendere alla rieducazione del
condannato: questa è lettera legislativa, e
precisamente costituzionale. Ma come si può
attuare tale rieducazione con l’espiazione di
pene in carceri che scoppiano, che sovente
fungono da scuole di delinquenza e che
portano spesso alla recidiva? Proprio
quest’ultima rappresenta, a parare di chi
scrive, il fallimento dell’istituzione carceraria.
Quindi un primo punto su cui discutere
sarebbe
proprio quello
relativo alla
persistente centralità della pena detentiva
nell’ordinamento italiano, che riteniamo
debba essere in qualche modo affievolita da
un maggior ruolo da riconoscersi alla misure
alternative, come l’affidamento in prova al
servizio sociale.
Dovremmo riflettere sulla funzione della
pena, ricordare che si punisce il reato e non la
persona, e pensare a percorsi di giustizia
ripartitiva che possano riempire di contenuti
quel trattamento che va attuato anche secondo
la
linea
direttrice
di
un’ottica
di
risocializzazione. Per perseguire finalità di
reinserimento potrebbe rivelarsi utile anche
enfatizzare il ruolo di psicologi, educatori e
mediatori
culturali;
l’importanza
di
quest’ultima figura risulta ben comprensibile
se si considera la grande percentuale di
stranieri che occupa le carceri italiane.
Se la tendenza normativa è quella di rendere il
carcere un luogo sempre meno impermeabile,
favorendovi l’ingresso della società attraverso
la forma del volontariato, di questo dobbiamo
prendere atto. I contatti col mondo esterno
infatti esplicano senz’altro un effetto benefico
lungo due direzioni: se il volontario può
essere un punto di riferimento in ambito
inframurario, egli è anche colui che facendo
conoscere il suo operato può in qualche modo
sensibilizzare la società che ancora non
manifesta particolare interesse per le
tematiche relative al carcere.
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