SAN LORENZO IN SILVIS ALL’ALBA DELL’ANNO MILLE A cura di Francesca Ceresani Il momento storico più importante per San Lorenzo in Silvis, ora in Campo, è senza dubbio quello che vede la nascita dell’Abbazia benedettina, ossia l’VIII-IX secolo. In questa terra apparvero i primi monaci, che inseguivano la sublime esperienza di Dio vivendo una vita nella perfezione spirituale, conducendo una vita solitaria sotto la direzione di un abate, e realizzando l’autentico cammino verso l’essenza divina tramite la rinuncia al mondo. L’Abbazia è stata edificata in stile romanico, splendida costruzione che racchiude frammenti architettonici appartenenti alla città di Suasa, con le sue colonne egizie, l’aquila pretoria e reimpieghi romani vari. Si nota un’acquasantiera di notevole fattura dinanzi al portone d’accesso. (NOTA Suasa, secondo la tradizione, viene ricordata per la sua devastazione avvenuta per mano di Alarico nel 409, ma da notizie risalenti al VI e VIII secolo si può capire come la sua grandezza fosse in realtà intatta, restituita alla memoria nell’anno 754 nel Liber pontificalis, cit., pag 47) Durante la guerra bizantina avvenuta tra il 535 e il 553, vi fu l’assalto degli Alamanni e Franchi di Leutari, sconfitto poi da Narsete a Pesaro nell’anno 554. Durante la guerra tra goti e bizantini, la rovina si propagò per l’intera provincia Flaminia e il Picenum annonarium, luoghi in cui il re Vitige abbatté Fano e Pesaro, successivamente nell’anno 545 Belisario ricostruì la città di Pesaro e la sua struttura muraria. L’uso dell’acquasantiera all’entrata delle chiese abbaziali ebbe inizio tra la fine del IX secolo fino al X secolo circa, in un periodo in cui si impartiva la benedizione ai credenti in un cerimoniale collettivo che avveniva ogni domenica. L’utilizzo dell’acquasantiera incisa inizia nel Mille ed è spesso frutto di un riuso di materiale architettonico classico. Due esempi di acquasantiera reimpiegata con frammenti di origine romana (Spello) Il riuso di frammenti romani è pratica comune dal periodo post-classico al Medioevo avanzato, per la costruzione di chiese e abbazie si asportavano i manufatti recuperabili dalle rovine di città antiche, oramai abbandonate o distrutte. Per San Lorenzo in Campo furono indispensabili i resti della città di Suasa. Nell’Abbazia si possono ammirare capitelli, colonne, pietre e molto altro materiale proveniente da Suasa, qui il classico si coniuga perfettamente all’architettura romanica. Capitello Abbazia San Lorenzo in Campo a motivi vegetali I capitelli sono decorati con motivi zoo-antropomorfi e vegetali, ma ciò che è particolarmente interessante pare, a mio avviso, essere una pietra scolpita posta nei pressi della navata destra, in cui è incisa un’aquila ad ali schiuse in posizione frontale, tipica rappresentazione romana utilizzata per i vessilli imperiali, negli emblemi funerari e sulle monete. Dobbiamo tenere presente che la stessa aquila pretoria venne successivamente utilizzata, anche, come soggetto iconografico bizantino, carolingio e ottoniano e ancora in periodo romanico. Simbologia cristiana del pesce, o allegoria della resurrezione, in una chiesa del XII sec. a Macerata Feltria Un capitello perfettamente conservato e decorato con figure umane e animali o mostri, raffigura un drago al fianco di un uomo che è posto al centro della figurazione (angolo del capitello) e un drago/grifone/viverna(?) al lato esterno, inoltre una figura umana angolare scolpito nell’altro spigolo. In questo caso, si potrebbe pensare, che i due animali mitologici con le bocche aperte rivolte al volto dell’uomo, siano simboli appartenenti al tema catastrofico e del Nuovo Testamento nell’Apocalisse, oppure direttamente attinenti a concezioni cosmologiche e/o mistiche, ma anche riconducibili a testi gnostici; con maggior precisione si può indicare un’iconografia cristiana che potrebbe ancora ricondurre ad una riflessione circa il tema dell’idolatria come male da sconfiggere. Ogni indizio artistico riporta, comunque, al periodo romanico. Circa la presenza bizantina nei nostri territori si può solo che accertarne la presenza, infatti dopo che i bizantini hanno compiuto il loro attraversamento della Pentapoli e dei nostri territori, specialmente alla sinistra del Cesano, si sono manifestati segni del loro passaggio nelle epigrafi latine scritte in caratteri greci. (NOTA: (Ne è esempio, forse, l’epigrafe riportata nell’opera di Antonio Bradimarte “Gallia Senonia illustrata” pag. 113-114, che pare fosse presente sulla facciata della Chiesa del SS. Crocifisso “situata quasi nel mezzo dell’antica Suasa” ma attribuita ad altre epoche) La Pentapoli era l’istituzione massima di una provincia di amministrazione esarcale d’Italia. Inoltre, grazie all’analisi dei documenti originali provenienti da Fonte Avellana e dall’Abbazia di San Lorenzo in Campo, poi raccolti nei Regesti Senigalliesi, dalle carte appartenenti alla Curia ravennate che era alla guida dell’Esarcato, si può affermare che la presenza dei longobardi (NOTA: Ricordiamo che la Prof.ssa Fasoli ha trovato tracce evidenti della presenza longobalda nell’Esarcato) nel nostro territorio era reale, così come nell’intera Pentapoli, ossia il complesso di cinque città Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona. Dalle sottoscrizioni dei vescovi agli atti del Concilio romano del 680 si evince che nella Pentapoli facevano parte: Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Numana e Osimo poi Senigallia. (NOTA Gregorii I Papae Registrum epsitolarum IX, 66-67; ediz., Berolini 1957, pp 85-88; inoltre Pauli (Diaconi) Historia Langobardorum IV 8-9-12, ediz. L. Berthmann e G. Waitz, Script. Reg. Lang. Et Ital., Hannoverae 1878, pp. 118-121) Nel 727 circa, Liutprando avviò una battaglia di espansione lungo l’intera penisola, irrompendo nella Pentapoli e passando da Rimini alla direzione di Fano, poi verso Ancona e Osimo. Fano aveva dilatato la propria autorità nella Valle del Cesano, esattamente nel territorio di Suasa, il fatto viene illustrato in un documento o privilegio siglato da Adriano I nel 782 in cui vengono anche menzionati i beni appartenenti al monastero di Sant’Apollinare in Classe, dove il confine territoriale è segnato dal fiume. (NOTA G.B. Mittarelli – A. Costadoni, Annales Camaldulenses ordinis Sancti Benedicti, I, Venetii 1755, Appendix, coll. 10-12 n° III) Nella metà del VIII secolo la condizione che si viene a delineare circa la frammentazione territoriale, vede la salda egemonia bizantina che, in realtà, non aveva affatto contrastato una penetrazione longobarda nei territori, svoltasi precedentemente al 680, ed è importante notare, inoltre, che se in principio sia trattava di una vera e propria invasione, successivamente si è assistito ad una loro presenza tipicamente stanziale. (NOTA Si veda la parte riguardante la zona del Cesano in A. Polverari, Una Bulgaria, cit., L. Grazzi, Catalogo dei rinvenimenti archeologici, in Suasa Senonum di Gello Giorgi, pag. 127 ss. Parma, 1953) Nel Codice Bavaro il territorio include le città di Ostra e Suasa, ossia le zone comprendenti la valle del Misa e del Cesano, e proprio nella città di Ostra, nell’anno 502, vi era la presenza del vescovo Martinianus. (NOTA Si veda Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (a. 604), Faenza, I, 1927, pag 493) Si parlerà di comitati a partire dal IX secolo, infatti, in tutto il territorio italiano definito “Regnum Italiae” si compose un apparato amministrativo frazionato in Marche e Comitati, (NOTA I Comitati pentapolitani furono motivo di disaccordo tra potenti, ma la situazione si concluse con la cessione dei territori da parte di Ottone II a Silvestro II) in cui, successivamente si assistette ad uno straordinario sviluppo attraverso l’attuazione di un modello “curtense”. “Intorno al secolo XI l’ambito circoscrizionale del comitatus era compreso tra il comitato di Fano a nord, quello di Fossombrone (costeggiando il fiume Cesano) a nord ovest e quello di Nocera Umbra ad ovest”. (NOTA Emilia Saracco Previdi, Convivere nella Marchia durante il Medioevo: indagini e spunti di ricerca, Ancona, 1986, pag. 156-157) Il distretto viene definito Territorium, termine di origine romano-bizantina, poi Comitatus come accezione di origine franca, successiva al XI secolo. A seguito della dominazione franca, intrapresa nel 789 con l’investimento nel dicato di Spoleto del franco Giunigiso, si impose l’autorità del Conte, un “funzionario” incaricato dal sovrano che poteva disporre della facoltà militari, giuridici e di governo su un dato territorio chiamato Comitato o anche Contea. Un’ulteriore evoluzione portò, nel X secolo, alla pratica dell’incastellamento con il suo signore. Comitato di Senigallia intorno all’anno Mille In generale, si può affermare, che il sistema curtense riguardasse un gruppo di piccole unità agricole (mansi) che venivano lavorate da uomini posti in posizione subalterna e in condizione di rigida dipendenza da un possidente, questi servi venivano chiamati “rustici”. Le curtes ed il sistema che le regolava sono rintracciabili in molti documenti del IX secolo, ne è esempio il Capitulare de Villis. Il monastero di San Lorenzo in Campo è di sostanziale importanza, e lo studio dei territori da questo posseduti possono darci una visione d’insieme riguardo l’insediamento in questa zona. Se il monastero aveva posseduto rilevante estensione terriera, questa era suddivisa in mansi, collocati appunto nella ripartizione del “castrum”, ossia il luogo abitato fortificato. Nell’ambiente circostante si deve supporre l’esistenza di un insediamento di cui facevano parte case di più alto valore, abitate da un “dominus”. Sempre nei dintorni, si può ipotizzare, fossero posti degli alloggi in legno o terra. In effetti, il dominus aveva facoltà di imporre condizioni, essere investito di autorità giudiziaria e nello stesso tempo assicurare protezione. In una prima fase, intorno al XI secolo, un insediamento si presentava con connotati estremamente articolati, “castra”, “ville” e “vici”, ma si ricorda che questi termini sono diventati, sin dal IX secolo, sinonimi. Interessante chiosa va fatta riguardo l’Abbazia di San Lorenzo in Campo, che godeva di ben cinque curtes lungo la Valle del Cesano e del Metauro, di fatto, ottenere possedimenti curtensi era comune per monasteri e abbazie; l’organizzazione territoriale era contraddistinta da curtes e massariciæ, fondate attorno al monastero, al cui interno si riuniva la popolazione nelle situazioni di pericolo, le massæ hanno avuto origine in epoca romana e in età altomedievale la pratica venne riadattata, successivamente, in epoca medievale, il vocabolo venne a scomparire. (x NOTA: Si legga riguardo la continuità e la discontinuità nel termine “massa” o “massariciæ” e nella situazione organizzativa agraria: “fundus” e “casale” nei documenti ravennati in periodo altomedievale, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a cura di Vito Fumagalli e Gabriella Rossetti, Bologna 1980, pag. 201-219) (NOTA Vedere B. Andreolli, M. Montanari, L’azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-IX, Bologna 1983) Dal IX secolo l’amministrazione dei feudi appartenne alla Chiesa, l’obolo ceduto dai fedeli e le offerte donate dai pellegrini incrementavano le casse dei monasteri e delle chiese, al punto che, i religiosi potevano concedere un prestito a chi fosse in stato di bisogno. Sarà con Ottone III durante il periodo denominato della “Renovatio imperii” che si avrà l’unificazione della Marca Fermana e della Marca di Camerino, e sarà così possibile la nascita della Marca Anconitana con Innocenzo III; si registrò questo termine per la prima volta in un Diploma dell’anno 983. Evangeliario di Ottone III. Scuola di Reichenau, sec. X. Monaco, Bayerische Staatsbibliotek, Ms. Lat. 4453, c. 23 v. Le Nazioni si inchinano dinanzi all’imperatore Ottone III. Viene rappresentata la nazione slava, germanica, gallica e romana. NOTA: Riguardo alle vicende del periodo ottoniano rammentiamo che Papa Leone III innalzò al trono Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero, dando avvio alla rinascenza carolingia, successivamente l’impero si infranse per rigenerarsi poi nel X secolo con la stirpe degli Ottoni. Verso la fine 900, precisamente nel 960, in Europa è presente la figura di Ottone I di Sassonia, che percorrerà le strade marchigiane per scopi politici, (NOTA: Si consiglia la consultazione del testo di P.Foschi, Itinerari degli imperatori sassoni (Ottone I, II, III) nelle Marche durante il X secolo, in Le strade nelle Marche. Il problema del tempo, II “Atti e Memorie della Deputazione di Storia patria per le Marche”, 89-91, anni 1984-1986, pp. 699-730) questo periodo sarà anche determinato da una rigenerazione culturale dell’Occidente cristiano, in antitesi al diffondersi di superstizioni e credenze popolari a sfondo diabolico e di terrore, infatti, il X secolo venne definito saeculum pessimum o obscurum ma per verranno rappresentati i motivi per cui tale definizione non deve essere considerata verosimile. Dal IX secolo, inoltre, i rapporti vescovili furono operati direttamente dal sovrano regnante e la popolazione non poteva far altro che applaudire il prelato eletto dal re, fino almeno al X secolo, in cui sarà il sovrano ad eleggere i vescovi, in questo lasso di tempo, quindi, l’influenza laica era ordinaria. Si descrive un primato importante relativo a San Lorenzo in Campo nei primi anni del Mille: “Avea questa terra acquistato il dominio di quindici luoghi, che si trovano descritti di un Diploma dell’Imperatore Ottone in data di Perugia dell’anno 1001 nel quale confermandole questo dominio medesimo la dichiara immediatamente soggetta alla sola Chiesa in perpetuo. Alla Giurisdizione sopra i detti quindici luoghi aggiunsero quella sopra altri ventisette i Sommi Pontefici Leone ed Alessandro confermata poi da Papa Pasquale II, che diede inoltre a San Lorenzo in Campo il Privilegio di scegliere quel Vescovo che più le piacesse per esercitar la Spirituale Giurisdizione; il che si ha da una Bolla di questo Pontefice dell’anno 1113” (Nuova geografia, tradotta in lingua toscana da Gaudioso Jagermann, Vol. 26, di Anton-friedrich Büsching, Antonio Zatta, al Tomo XXIV, pag. 68, anno 1780) In Italia verso la fine del X secolo sopraggiungevano fatti importanti “Frattanto che l’Italia aspettava, che Ottone venisse a farsi riconoscere sovrano, ci dice Sicardo, che il terremoto si fece sentire assai impetuoso in Lombardia, per il quale le Città ed i Paesi tutti si misero nel 994 in grande apprensione, non sapendosi per altro se facesse del male, o si risolvesse in pure scosse. Dopo la partenza di Teofania da Roma, e dall’Italia, non vedendosi mai Ottone a giungere, tornarono i cattivi umori a mettersi in fermento, ed i potenti infra gli altri si misero ad usurpare i beni degli Ecclesiastici, cosa che era molto prima divenuta alla moda, come si vede. Le querele de’ Monaci e de’ Vescovi, e i danni, che il Papa istesso forse soffriva né patrimonj della Chiesa, indussero Giovanni XV a spedire nel 995 i suoi Legati al Re Ottone, i quali susseguiti da buona porzion di Romani e di Lombardi, passarono tutti ad invitarlo, perché venisse a farsi incoronare in Italia”. (Giovanni Battista Visi, Dall’anno di Cristo 990 sino all’anno 1183, Volume 2, Ed. Pazzoni, 1782 pag 2) SOLI DEO VIVERE Preghiera e solitudine in Abbazia L’alto medioevo vede un habitat sparso, disseminato per lo più di numerosi “castra”, monasteri e pievi, San Lorenzo in Campo era dotata di un’Abbazia fondata da monaci benedettini che applicavano la “Regula monachorum”. (NOTA Si veda Arno Borst, "Monumenti religiosi e spirituali nell'Alto Medioevo" in "I Propilei", Milano 1968) La Regola è una dottrina monastica risalente all’anno 534 d.C., in cui oltre alla preghiera ed al rispetto venivano imposti principi di vita di vario genere. Nella Regola venivano disciplinate sia la coltivazione di un orto che di piante officinali, oltre alla pratica della cura degli infermi quale principio imprescindibile, possibile grazie al trattamento tramite erbe, inoltre venivano rivelati rudimenti di erboristeria al fine di applicare e trasmettere le conoscenze ricevute sui rimedi fitoterapici e la trasformazione di piante medicamentose. L’orto era indispensabile per il sostentamento dei monaci, poiché, la loro alimentazione era basata su zuppe di pane e verdure, la carne era assolutamente proibita. Nella Regola veniva deciso cosa e quando mangiare all’interno del monastero: Traduzione dal latino XXXIX – “La misura del cibo” Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell'altra. Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza. Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena. In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena. Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall'ingordigia. Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore: State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo. Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà. Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli. Latino XXXIX – “De mensura cibus” Sufficere credimus ad refectionem cotidianam tam sextae quam nonae, omnibus mensis, cocta duo pulmentaria, propter diversorum infirmitatibus, ut forte qui ex illo non potuerit edere ex alio reficiatur. Ergo duo pulmentaria cocta fratribus omnibus sufficiant et, si fuerit unde poma aut nascentia leguminum, addatur et tertium. Panis libra una propensa sufficiat in die, sive una sit refectio sive prandii et cenae: quod si cenaturi sunt, de eadem libra tertia pars a cellarario servetur reddenda cenandis. Quod si labor forte factus fuerit maior, in arbitrio et potestate abbatis erit, si expediat, aliquid augere, remota prae omnibus crapula et ut numquam surripiat monacho indigeries, quia nihil sic contrarium est omni christiano quomodo crapula, sicut ait Dominus noster: Videte ne graventur corda vestra crapula. Pueris vero minori aetate non eadem servetur quantitas, sed minor quam maioribus, servata in omnibus parcitate. Carnium vero quadrupedum omnimodo ab omnibus abstineatur comestio, praeter omnino debiles aegrotos. Successivamente alla diffusione della Regola benedettina, Carlo Magno emanò tra il 770 e l’anno 800 il “Capitulare de Villis”, con cui si ordinava alla popolazione: “Vogliamo che nell'orto sia coltivata ogni possibile pianta: il giglio, le rose, la trigonella, la balsarnita, la salvia, la ruta, l'abrotano, i cetrioli, i meloni, le zucche, il fagiolo, il cumino, il rosmarino, il careium, il cece, la scilla, il gladiolo, l'artemisia, l'anice, le coloquentidi, l'indivia, la visnaga, l'antrisco, la lattuga, la nigella, la rughetta, il nasturzio, la bardana, la pulicaria, lo snúmio, il prezzemolo, il sedano, il levistico, il ginepro, l'aneto, il finocchio, la cicoria, il dittamo, la senape, la satureja, il sisimbrio, la menta, il mentastro, il tanaceto, l'erba gattaia, l'eritrea, il papavero, la bieta, la vulvagine, l'altea, la malva, la carota, la pastinaca, il bietolone, gli amaranti, il cavolo-rapa, i cavoli, le cipolle, l'erba cipollina, i porri, il rafano, lo scalogno, l'aglio, la robbia, i cardi, le fave, i piselli, il coriandolo, il cerfoglio, l'euforbia, la selarcia. E l'ortolano faccia crescere sul tetto della sua abitazione la barba di Giove. Quanto agli alberi, vogliamo ci siano frutteti di vario genere: meli cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi, noci, ciliegi di vari tipi. Nomi di mela: gozmaringa, geroldinga, crevedella, spiranca, dolci, acri, tutte quelle di lunga durata e quelle da consumare subito e le primaticce. Tre o quattro tipi di pere a lunga durata, quelle dolci, quelle da cuocere, le tardive.” Nell’alto medioevo un monastero o un’abbazia forniva soccorso ai malati, agli orfani, ai poveri e ai pellegrini, infatti in un monastero era incluso un ospedale a tutti gli effetti che aveva il nome di “xenodochio”, almeno fino al X secolo, ma va anche considerato che un monastero, un’abbazia o una chiesa poteva non necessariamente contenere una struttura xenodochia, ma offrire comunque aiuto. (Si veda Peyer H.C., Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Roma 2005) L’alloggio in xenodochia ha, forse, genesi da monaci orientale perpetuato poi in Gallia ed Italia, si è trasformato in domus hospitales per mendicanti e pellegrini, e ricordiamo che sotto Benedetto II (684) veniva redatto un inventario dei poveri che quindi comparivano come appartenenti ad una corporazione sotto il nome di matricularii. L’Abbazia di San Lorenzo in Campo doveva aver contenuto una struttura d’assistenza, poiché in tutto l’alto medioevo l’ospedale era l’unica forma di cura possibile, a partire dalla caduta dell’Impero romano. Sarebbe importante ricercare l’esistenza di questa struttura monastica che, se esistente, avrebbe coperto con le sue cure e soccorsi, tutto il territorio rurale laurentino. Tuttavia, l’Abbazia era certamente un centro di ospitalità che possedeva una grande influenza sui territori vicini, questo si evince dai documenti del XII secolo includenti le proprietà di sua pertinenza, per meglio dire terre e beni donati da Tebaldo il Saraceno e successivamente ceduti all’Abbazia di Fonte Avellana; inoltre venne registrato il castello di Mons Guidonis che, nell’anno 1163 circa, compariva nel registro dei possedimenti di San Lorenzo in Campo; in quest’epoca le donazioni ai monasteri, i relativi diritti sulle proprietà e la vendita di beni ecclesiastici dipendevano da imperatori e notabili, così come la pratica d’investitura feudale era una consuetudine nelle abbazie benedettine, molti abati infatti venivano investiti del feudo dall’Imperatore dominante. “[…] la normativa sia canonica che imperiale aveva elaborato un chiaro principio di inalienabilità dei beni ecclesiastici, con la previsione di alcune eccezioni, in genere giustificate da motivi di utilità e necessità per la Chiesa stessa e garantite dal necessario consenso del vescovo o dell’abate e del clero diocesano o del capitolo, se si trattava di monasteri. Questa disciplina venne ben presto a confrontarsi con il fenomeno feudale, che coinvolse anche la Chiesa, fin dal IX-X secolo; significativo a questo proposito l’atteggiamento, segnalato dal Bloch, di papa Silvestro II, che, rendendosi conto delle importanti novità che il nuovo istituto apportava rispetto ai vecchi contratti di origine romanistica, quali l’enfiteusi, decise di introdurre il sistema feudale come nuovo strumento di gestione del territorio papale”. (NOTA: Federico Alessandro Goria “Fra rinnovamento e tradizione: lo Speculum feudorum di Claude de Seyssel”, Giuffrè Editore, 2010, pag. 165) Eppure le cronache storiche ci tramandano notizie discordanti riguardo la vita monastica nel periodo esaminato “Era allora il Monachesimo in Italia in somma depressione. Pochi Monisterj si contavano, dove fiorisse la regolar disciplina. Nella maggior parte de’ Monaci, massimamente se i lor Monasterj erano piccioli, o se grandi, ridotti in Commenda, compariva una deplorabile depravazion di costumi. Trovavansi talvolta de’ piissimi Abbati, e de’ religiosissimi Monaci; ma noi poco sappiamo delle loro virtù e meno delle opere loro in servigio e profitto spirituale de’ Popoli. Si vede bensì dalle memorie, che restano, essere stato l’ordinario e comune studio de gli Abbati e Monaci d’allora di acquistar tutto dì de i nuovi stabili, & anche degli Stati, cioè delle Castella e Ville, che andavano poi a finire nel Sic vos non vobis di Virgilio. Ingegnavasi ancora cadauno de’ potenti Monisterj di avere per quanto porea de gli altri Monisterj subordinati a sé per tutta l’Italia; o almen delle Celle, o sia de’ Priorati nelle varie Città, o ne’ lor Contadi, dove poi teneano un Priore, e talvolta alcuni pochi Monaci, i quali se ne stavano in gaudeamus, perché disobbligati dal rigore della Disciplina. Giovò non poco la venuta del santo Abbate Maiolo, perciocchè oltre all’aver egli riformato alquanti vecchi Monisterj, s’invogliarono molti di fabbricarne de i nuovi, né principj de’ quali certo è, che fioriva la Pietà e il buon esempio”. (Lodovico Antonio Muratori, Giuseppe Catalani, Annali d’Italia: Dall’anno 841 all’era volgare fino all’anno 1000, pag 481-482, anno 1762) (Abbate Maiolo 954-994) E ancora ritroviamo le parole di Rodolfo il Glabro "come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia[…]si riveste di un fulgido manto di chiese". (NOTA Rodolfo il Glabro, Cronache dell'anno mille (storie), Milano 1991) Nel monastero si poteva imparare a leggere e a scrivere, l’insegnamento era affidato ai monaci, se ne conosce la reale esistenza nell’opera De Gymnasium del IX secolo, anche se alcuni monasteri rifioriti a causa di una riforma promossa nel X secolo, hanno ottenuto l’egemonia nella cultura, ma in seguito chiuderanno gradualmente le porte al sapere, riservando la scuola interna al monastero ai soli novizi. Nel nostro paese la popolazione non doveva essere stata consistente, e l’analfabetismo era certamente totale. ABITARE Nonostante l’Abbazia rimanga l’unico centro religioso e culturale di San Lorenzo in Silvis, in questo periodo la scarsa popolazione risiedeva in case sparse su tutto il territorio laurentino, probabilmente le abitazioni consistevano in misere casupole costituite da terra e paglia, legno e fronde o vere costruzioni in crudo, comunque costruite utilizzando materiali poveri e facilmente deteriorabili. All’interno delle abitazioni non erano presenti arredi, c’era una tavola ed il cibo era servito in ciotole di legno (si mangiava con le mani), brocche, pignatte e ciotole destinate alla cottura dei cibi erano in terracotta, né smaltata né dipinta. I materassi erano costituiti da foglie e paglia, le masserizie erano quasi assenti, ma dal bosco gli uomini del tempo traevano ogni cosa servisse per la casa e per la propria sopravvivenza. Le fonti scritte, nel nostro caso, gli Statuti di San Lorenzo in Campo e di San Vito, non ci danno informazioni sui corredi da mensa utilizzati, per il fatto che non sono mai stati scoperti ordinamenti appartenenti al X secolo. LE TORRI “Torre della cotogna” nei pressi di Urbino COSTUMI Il guardaroba nell’alto medioevo era semplice ed essenziale, realizzato con materiale grezzo, una blusa e delle brache per gli uomini ed una “scarsella” ovvero un sacchetto allacciato alla cinta; invece per le donne l’abbigliamento era costituito da un abito disadorno in fibra naturale, le calzature se utilizzate erano in canapa o tela greggia, sostituite in estate da zoccoli in legno. Calendario (L’aratura), 1000 circa, miniatura, Cotton ms. Tiberius B.V., f3r., Londra, British Library Un indumento tipico dell’epoca era il “cucullus” o “pellegrina”, un mantello con copricapo di lana grezza, canapa o cenci di tessuto vario, ereditato dall’Impero romano e in uso in tutto il medioevo. Prende il nome “pellegrina” dal fatto di venire indossato dai pellegrini in viaggio e dai monaci, successivamente venne realizzato il motto: “Cucullus non facit monachum”, ossia, “il cappuccio non fa il monaco” poi trasformato in “l’abito non fa il monaco”. La trasformazione nei costumi è evidente, soprattutto se comparata ai raffinati monili appartenenti alla cultura gallica o romana. Esempio di bracciale gallico-etrusco in oro con protome di serpente e Orecchino d'oro rappresentante un cavallo marino, dalla necropoli gallica di Montefortino di Arcevia (Museo archeologico nazionale delle Marche) Questo è un esempio di oreficeria dell’alto medioevo presente ad Ascoli Piceno presso il Museo dell’Alto medioevo MODUS VIVENDI Rodolfo il Glabro ci spiega come si viveva in Europa nel 900 d.C. "Il genere umano è incline fin dall'origine al male come un cane al vomito, o come una scrofa che si lava sguazzando nel fango." (NOTA Rodolfo il Glabro, Cronache dell'anno mille (storie), Milano 1991) LA FORESTA DI SANCTI LAURENTIJ IN SILVIS Il paesaggio di San Lorenzo in Silvis nei primi secoli del medioevo è contraddistinto da foreste di querce, pianure incolte e dallo scorrere del fiume Cesano. Le terre coltivate coprivano soltanto una piccola porzione del suolo, come ci viene suggerito dal Salvioli “mostrano la scarsezza delle persone sulle terre coltivate e la loro sproporzione all’estensione ossia la minima densità della popolazione italiana prima del Mille”(NOTA Salvioli, Storia economica d’Italia nell’alto Medio Evo, Cap IV”). Il paese era caratterizzato da un aspetto arcaico dove dominava quasi completamente il silenzio, infatti nel IX e X secolo, la popolazione più numerosa era quasi sicuramente costituita da animali selvatici, comunque importante fonte di sostentamento per l’abbondanza di cacciagione. In tutto l’alto medioevo i cicli di carestia si riscontravano con estrema frequenza, colpendo quasi tutto il territorio marchigiano, infatti si hanno notizie circa atroci circostanze di antropofagia e ferine esperienze di sostentamento a base di terra o animali putrefatti, tutto pur di sottrarsi alla fame, a costo di impiegare ogni mezzo, anche il più ripugnante. Il bosco era l’unica forma di sostentamento per le persone che abitavano il territorio nel X secolo, nell’alto medioevo la raccolta di erbe spontanee e frutti del bosco era l’unica possibilità di nutrimento, oltre alla pratica della caccia e della pesca, sempre importante, poi, rimaneva il taglio del legname per il riscaldamento e la costruzione delle abitazioni. Il territorio era ricco di meli selvatici, prugnoli, peri selvatici, sorbus domestica, noccioli, le erbe spontanee erano innumerevoli come le bacche e i funghi commestibili. Eppure, un fenomeno inusuale emerge dalle Carte di Fonte Avellana, (NOTA: Carte di Fonte Avellana, 1, Doc. 23, 56, 112, 154, 160) in cui si svelano possedimenti destinati a vigneto presso Cagli e San Lorenzo in Campo, per di più terræ arativæ e altre sono riscontrate nel 1066 e ulteriormente in carte dell’anno 1127, si nominano in seguito “terre culte e vinee” come suoli maggiormente estesi rispetto alle aree selvatiche a campi e foresta. (Sarà dal 1200 circa, con lo sviluppo di fondi coltivabili, che il bosco perderà rapidamente estensione, lasciando spazio a campi ed orti che servivano alla popolazione per il sostentamento delle numerose famiglie di cui facevano parte, anche a scapito della selvaggina che verrà drasticamente ridotta a causa del restringimento delle aree boschive circostanti) La malnutrizione unita alle pessime condizioni igieniche, davano vita ad epidemie di peste, colera, tifo, febbre ed altre pestilenze, per questo motivo l’aspettativa di vita di una persona del X secolo era estremamente bassa. RELIGIONE E SUPERSTIZIONE La popolazione del X secolo era analfabeta e in un costante bisogno di ricercare la presenza del divino al fine di placare la cieca paura dell’ignoto e della sofferenza. A questo pensavano scaltri impostori che sapevano bene come raggirare la folle, con false reliquie, miracoli e segni celesti che scuotevano nel profondo la psicologia delle masse, che era ancora intimamente radicata in una forma mentis precristiana. La religione del X secolo era fonte primaria di fede e speranza, anche se va detto che la messa era officiata in latino, ma quasi nessun credente comprendeva questa lingua, pertanto la Bibbia era presentata attraverso i dipinti e gli affreschi delle chiese e delle abbazie, inoltre, la celebrazione era seguita recitando le orazioni a memoria. MAGIA Nel periodo barbarico erano presenti intense forme di superstizione, ma ciò che più di ogni altro ha tentato l’annichilamento della superstizione fu senz’altro il Cristianesimo “Il Cristianesimo fu senza dubbio funesto: dal sincretismo delle varie religioni che lo formarono gli rimase appiccicato un complesso di diavolerie gnostiche e manichee”. (NOTA Gabriele Pepe, Il medio evo barbarico d’Italia, Einaudi, 1973, pag 167) I Longobardi, altresì, non avevano rinunciato affatto a praticare forme di religione pagana, venerando animali, alberi, fiumi e monti. Ciò che la Chiesa definiva diabolico, ossia il paganesimo, era percepito come mera pratica magica e si è tentato di estirpare queste forme di scaramanzia in ogni modo e in ogni luogo, al suo punto estremo, si è assistito ad un vero e proprio martirio inflitto a chiunque fosse stato ritenuto colpevole di pratiche magiche o diaboliche. La Chiesa in questo ha avviato un’ostinata battaglia anche in forza del fatto di essere ritenuta ricca di quel complesso di pseudo-conoscenze demonologiche, che le aveva permesso di costruire un archetipo frammisto di demonologia e teologia. “Anche se nel III secolo si era giunti a una certa disciplina nelle credenze diaboliche, in seguito le eccessive confidenze che i monaci si prendevano col Diavolo vennero diffondendo su tutta la vita un senso di incubo, il terrore di un nemico invisibile, ai cui agguati era assai difficile sfuggire per l’abilità del Diavolo ad assumere ingannatori aspetti di bontà” (NOTA Gabriele Pepe, Il medio evo barbarico d’Italia, Einaudi, 1973, pag 167) Una valida prova dell’addestramento a cui erano sottoposti gli uomini di religione al fine di debellare ogni forma di “pratica perniciosa della divinazione e della magia” è contenuta nel Canon Episcopi di cui riporto un passo tradotto dal latino. "I vescovi e i loro ministri vedano di applicarsi con tutte le loro energie per sradicare interamente dalla proprie parrocchie la pratica perniciosa della divinazione e della magia, che furono inventate dal diavolo; e se trovano uomini o donne che indulgono a tal genere di crimini, devono bandirli dalle loro parrocchie, perché è gente ignobile e malfamata. Dice, infatti, l’apostolo: "Dopo la prima e la seconda ammonizione evita l’eretico, sapendo che è fuori dalla retta via chi si comporta in tal modo". E sono fuori dalla via e prigionieri del diavolo coloro che abbandonano il loro Creatore per cercare l’aiuto del diavolo; e perciò occorre purificare la santa Chiesa da un tale flagello. Né bisogna dimenticare che certe donne depravate, le quali si sono volte a Satana e si sono lasciate sviare da illusioni e seduzioni diaboliche, credono e affermano di cavalcare la notte certune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani (o di Erodiade), e di una innumerevole moltitudine di donne; di attraversare larghi spazi di terre grazie al silenzio della notte profonda e di ubbidire ai suoi ordini come a loro signora e di essere chiamate certe notti al suo servizio. Ma volesse il cielo che soltanto costoro fossero perite nella loro falsa credenza e non avessero trascinato parecchi altri nella perdizione dell’anima. Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in tal modo si allontanano dalla vera fede e cadono nell’errore dei pagani, credendo che vi siano altri dèi o divinità oltre all’unico Dio. Perciò, nelle chiese a loro assegnate, i preti devono predicare con grande diligenza al popolo di Dio affinché si sappia che queste cose sono completamente false e che tali fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo spirito divino ma dallo spirito malvagio. Infatti, quando Satana, trasformandosi in angelo della luce, prende possesso della mente di ognuna di queste donnicciole e le sottomette a sé a causa della loro infedeltà e incredulità, subito egli assume l’aspetto e le sembianze di diverse persone e durante le ore del sonno inganna la mente che tiene prigioniera, alternando visioni liete a visioni tristi, persone note a persone ignote, e conducendola attraverso cammini mai praticati; e benché la donna infedele esperimenti tutto ciò solo nello spirito, ella crede che avvenga non nella mente ma nel corpo. A chi, infatti, non è accaduto nel sonno o in visioni notturne di essere tratto fuori da sé stesso e di vedere, dormendo, molte cose che, sveglio, non ha mai visto? Ma chi può essere così stupido e ottuso da credere che tutte queste cose che accadono solo nello spirito, avvengano anche nel corpo? Il profeta Ezechiele, infatti, vide il Signore nello spirito e non nel corpo, e l’apostolo Giovanni vide e udì i misteri dell’Apocalisse nello spirito e non nel corpo, come egli stesso dichiara: "Subito fui in spirito". E Paolo non osa dire di essere stato rapito fisicamente in cielo. Tutti, perciò, devono essere pubblicamente informati che chiunque crede a queste simili cose, perde la fede, e chiunque non ha vera fede appartiene non già a Dio ma a colui nel quale crede, vale a dire al diavolo. E’ scritto infatti di nostro Signore: "Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui". Perciò chiunque crede possibile che una creatura cambi in meglio o in peggio, o assuma aspetti o sembianze diverse per opera di qualcuno che non sia il Creatore stesso che ha fatto tutte le cose e per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, è indubbiamente un infedele, e peggiore di un pagano" Nel IX e X secolo l’autorità giudiziaria si fondava sul “metodo accusatorio”, la procedura penale chiamava un giudice che implorava direttamente Dio, al fine di suggerire una sicura manifestazione del crimine di stregoneria al giudice, questo delitto sarebbe stato poi provato tramite l’ordalia, vale a dire costringendo l’incriminato a sottoporsi ad una prova straziante, tramite l’annegamento o impugnando un ferro incandescente, se la sentenza di tali efferatezze era di “colpevolezza” si svolgeva l’esecuzione del prigioniero. Riporto un esempio di rituale e formula magica contenuta nei protocolli notarili di Viterbo “Quod in nocte videas et haud videaris: accipe sanguinem unius nottule et de eo fac signum + in fronte”. (NOTA Si veda A. Porretti “Le ricette delle streghe” Fefè Ed. 2009) Sarà solo nel 1215 nel IV Concilio Laterano che la Chiesa proibirà l’ordalia come unico strumento di amministrazione della prova, ma saranno ancora in migliaia a pagare sul rogo il fio della pratica magica. Anche un evento naturale che, oggi, noi conosciamo come eclissi, poteva essere avvertita come un avvertimento soprannaturale o anche come un segno dell’imminente fine del mondo. Nel giorno di venerdì 29 giugno 1033 venne riportato l’avvenimento dell’eclissi e qui trascritto nella versione tradotta: “Nello stesso millesimo anno dopo la passione di Cristo, il 29 giugno, un venerdì, ventottesimo giorno della luna, si verificò una eclissi o oscuramento del sole che durò dall’ora sesta fino alla ottava di quello stesso giorno e fu un evento terribile. Il disco del sole diventò color zaffiro, e nella sua parte superiore si poteva vedere l’immagine della luna al suo primo quarto. Gli uomini guardandosi vedevano sui loro volti il pallore della morte. Ogni cosa intorno sembrava avvolta da una nube color zafferano. Uno stupore e uno spavento immenso si impossessò del cuore degli uomini, perché la vista di questo spettacolo faceva loro comprendere che presto qualche triste sciagura si sarebbe abbattuta sul genere umano. (NOTA Rodolfo il Glabro, Historiarum libri quinque, ed. Prou, Parigi, 1886) (NOTA E’ opportuno portare alla memoria il testo del Muratori, Antiquitates ci., diss. LIX; inoltre il testo di Nulli, I processi delle streghe) Chi ha pagato disperatamente e con la propria vita l’ingiustizia perpetrata dalla religione cristiana e delle sue turpitudini moralistiche, è stata la figura esecrata della “strega” che veniva citata già in epoca barbarica ma con accenti del tutto diversi “Nessuno ardisca uccidere l’aldia o la serva altrui come strega; menti cristiane non debbono credere che una donna possa divorare un uomo vivo” (NOTA Edictum cit., cap. CCCLXIV, pag. 87)