san lorenzo in silvis all`alba dell`anno mille

SAN LORENZO IN SILVIS ALL’ALBA
DELL’ANNO MILLE
A cura di Francesca Ceresani
Il momento storico più importante per San Lorenzo in
Silvis, ora in Campo, è senza dubbio quello che vede
la nascita dell’Abbazia benedettina, ossia l’VIII-IX
secolo.
In questa terra apparvero i primi monaci, che
inseguivano la sublime esperienza di Dio vivendo una
vita nella perfezione spirituale, conducendo una vita
solitaria sotto la direzione di un abate, e realizzando
l’autentico cammino verso l’essenza divina tramite la
rinuncia al mondo.
L’Abbazia è stata edificata in stile romanico,
splendida costruzione che racchiude frammenti
architettonici appartenenti alla città di Suasa, con le
sue colonne egizie, l’aquila pretoria e reimpieghi
romani vari. Si nota un’acquasantiera di notevole
fattura dinanzi al portone d’accesso. (NOTA Suasa,
secondo la tradizione, viene ricordata per la sua
devastazione avvenuta per mano di Alarico nel 409,
ma da notizie risalenti al VI e VIII secolo si può
capire come la sua grandezza fosse in realtà intatta,
restituita alla memoria nell’anno 754 nel Liber
pontificalis, cit., pag 47)
Durante la guerra bizantina avvenuta tra il 535 e il
553, vi fu l’assalto degli Alamanni e Franchi di
Leutari, sconfitto poi da Narsete a Pesaro nell’anno
554.
Durante la guerra tra goti e bizantini, la rovina si
propagò per l’intera provincia Flaminia e il Picenum
annonarium, luoghi in cui il re Vitige abbatté Fano e
Pesaro, successivamente nell’anno 545 Belisario
ricostruì la città di Pesaro e la sua struttura muraria.
L’uso dell’acquasantiera all’entrata delle chiese
abbaziali ebbe inizio tra la fine del IX secolo fino al X
secolo circa, in un periodo in cui si impartiva la
benedizione ai credenti in un cerimoniale collettivo
che
avveniva
ogni
domenica.
L’utilizzo
dell’acquasantiera incisa inizia nel Mille ed è spesso
frutto di un riuso di materiale architettonico classico.
Due esempi di acquasantiera reimpiegata con frammenti di origine romana (Spello)
Il riuso di frammenti romani è pratica comune dal
periodo post-classico al Medioevo avanzato, per la
costruzione di chiese e abbazie si asportavano i
manufatti recuperabili dalle rovine di città antiche,
oramai abbandonate o distrutte.
Per San Lorenzo in Campo furono indispensabili i
resti della città di Suasa.
Nell’Abbazia si possono ammirare capitelli, colonne,
pietre e molto altro materiale proveniente da Suasa,
qui il classico si coniuga perfettamente all’architettura
romanica.
Capitello Abbazia San Lorenzo in Campo a motivi vegetali
I capitelli sono decorati con motivi zoo-antropomorfi
e vegetali, ma ciò che è particolarmente interessante
pare, a mio avviso, essere una pietra scolpita posta nei
pressi della navata destra, in cui è incisa un’aquila ad
ali
schiuse
in
posizione
frontale,
tipica
rappresentazione romana utilizzata per i vessilli
imperiali, negli emblemi funerari e sulle monete.
Dobbiamo tenere presente che la stessa aquila pretoria
venne successivamente utilizzata, anche, come
soggetto iconografico bizantino, carolingio e
ottoniano e ancora in periodo romanico.
Simbologia cristiana del pesce, o allegoria della resurrezione, in una chiesa del XII sec. a
Macerata Feltria
Un capitello perfettamente conservato e decorato con
figure umane e animali o mostri, raffigura un drago al
fianco di un uomo che è posto al centro della
figurazione
(angolo
del
capitello)
e
un
drago/grifone/viverna(?) al lato esterno, inoltre una
figura umana angolare scolpito nell’altro spigolo. In
questo caso, si potrebbe pensare, che i due animali
mitologici con le bocche aperte rivolte al volto
dell’uomo, siano simboli appartenenti al tema
catastrofico e del Nuovo Testamento nell’Apocalisse,
oppure
direttamente
attinenti
a concezioni
cosmologiche e/o mistiche, ma anche riconducibili a
testi gnostici; con maggior precisione si può indicare
un’iconografia cristiana che potrebbe ancora
ricondurre ad una riflessione circa il tema
dell’idolatria come male da sconfiggere. Ogni indizio
artistico riporta, comunque, al periodo romanico.
Circa la presenza bizantina nei nostri territori si può
solo che accertarne la presenza, infatti dopo che i
bizantini hanno compiuto il loro attraversamento della
Pentapoli e dei nostri territori, specialmente alla
sinistra del Cesano, si sono manifestati segni del loro
passaggio nelle epigrafi latine scritte in caratteri greci.
(NOTA: (Ne è esempio, forse, l’epigrafe riportata
nell’opera di Antonio Bradimarte “Gallia Senonia
illustrata” pag. 113-114, che pare fosse presente sulla
facciata della Chiesa del SS. Crocifisso “situata quasi
nel mezzo dell’antica Suasa” ma attribuita ad altre
epoche)
La Pentapoli era l’istituzione massima di una
provincia di amministrazione esarcale d’Italia.
Inoltre, grazie all’analisi dei documenti originali
provenienti da Fonte Avellana e dall’Abbazia di San
Lorenzo in Campo, poi raccolti nei Regesti
Senigalliesi, dalle carte appartenenti alla Curia
ravennate che era alla guida dell’Esarcato, si può
affermare che la presenza dei longobardi (NOTA:
Ricordiamo che la Prof.ssa Fasoli ha trovato tracce
evidenti della presenza longobalda nell’Esarcato) nel
nostro territorio era reale, così come nell’intera
Pentapoli, ossia il complesso di cinque città Rimini,
Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona.
Dalle sottoscrizioni dei vescovi agli atti del Concilio
romano del 680 si evince che nella Pentapoli facevano
parte: Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Numana e
Osimo poi Senigallia. (NOTA Gregorii I Papae
Registrum epsitolarum IX, 66-67; ediz., Berolini
1957, pp 85-88; inoltre Pauli (Diaconi) Historia
Langobardorum IV 8-9-12, ediz. L. Berthmann e G.
Waitz, Script. Reg. Lang. Et Ital., Hannoverae 1878,
pp. 118-121)
Nel 727 circa, Liutprando avviò una battaglia di
espansione lungo l’intera penisola, irrompendo nella
Pentapoli e passando da Rimini alla direzione di Fano,
poi verso Ancona e Osimo.
Fano aveva dilatato la propria autorità nella Valle del
Cesano, esattamente nel territorio di Suasa, il fatto
viene illustrato in un documento o privilegio siglato
da Adriano I nel 782 in cui vengono anche menzionati
i beni appartenenti al monastero di Sant’Apollinare in
Classe, dove il confine territoriale è segnato dal
fiume. (NOTA G.B. Mittarelli – A. Costadoni,
Annales Camaldulenses ordinis Sancti Benedicti, I,
Venetii 1755, Appendix, coll. 10-12 n° III)
Nella metà del VIII secolo la condizione che si viene
a delineare circa la frammentazione territoriale, vede
la salda egemonia bizantina che, in realtà, non aveva
affatto contrastato una penetrazione longobarda nei
territori, svoltasi precedentemente al 680, ed è
importante notare, inoltre, che se in principio sia
trattava di una vera e propria invasione,
successivamente si è assistito ad una loro presenza
tipicamente stanziale. (NOTA Si veda la parte
riguardante la zona del Cesano in A. Polverari, Una
Bulgaria, cit., L. Grazzi, Catalogo dei rinvenimenti
archeologici, in Suasa Senonum di Gello Giorgi, pag.
127 ss. Parma, 1953)
Nel Codice Bavaro il territorio include le città di
Ostra e Suasa, ossia le zone comprendenti la valle del
Misa e del Cesano, e proprio nella città di Ostra,
nell’anno 502, vi era la presenza del vescovo
Martinianus. (NOTA Si veda Lanzoni, Le diocesi
d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (a.
604), Faenza, I, 1927, pag 493) Si parlerà di comitati
a partire dal IX secolo, infatti, in tutto il territorio
italiano definito “Regnum Italiae” si compose un
apparato amministrativo frazionato in Marche e
Comitati, (NOTA I Comitati pentapolitani furono
motivo di disaccordo tra potenti, ma la situazione si
concluse con la cessione dei territori da parte di
Ottone II a Silvestro II) in cui, successivamente si
assistette ad uno straordinario sviluppo attraverso
l’attuazione di un modello “curtense”.
“Intorno al secolo XI l’ambito circoscrizionale del
comitatus era compreso tra il comitato di Fano a
nord, quello di Fossombrone (costeggiando il fiume
Cesano) a nord ovest e quello di Nocera Umbra ad
ovest”. (NOTA Emilia Saracco Previdi, Convivere
nella Marchia durante il Medioevo: indagini e spunti
di ricerca, Ancona, 1986, pag. 156-157)
Il distretto viene definito Territorium, termine di
origine romano-bizantina, poi Comitatus come
accezione di origine franca, successiva al XI secolo.
A seguito della dominazione franca, intrapresa nel
789 con l’investimento nel dicato di Spoleto del
franco Giunigiso, si impose l’autorità del Conte, un
“funzionario” incaricato dal sovrano che poteva
disporre della facoltà militari, giuridici e di governo
su un dato territorio chiamato Comitato o anche
Contea.
Un’ulteriore evoluzione portò, nel X secolo, alla
pratica dell’incastellamento con il suo signore.
Comitato di Senigallia intorno all’anno Mille
In generale, si può affermare, che il sistema curtense
riguardasse un gruppo di piccole unità agricole
(mansi) che venivano lavorate da uomini posti in
posizione subalterna e in condizione di rigida
dipendenza da un possidente, questi servi venivano
chiamati “rustici”. Le curtes ed il sistema che le
regolava sono rintracciabili in molti documenti del IX
secolo, ne è esempio il Capitulare de Villis.
Il monastero di San Lorenzo in Campo è di
sostanziale importanza, e lo studio dei territori da
questo posseduti possono darci una visione d’insieme
riguardo l’insediamento in questa zona.
Se il monastero aveva posseduto rilevante estensione
terriera, questa era suddivisa in mansi, collocati
appunto nella ripartizione del “castrum”, ossia il
luogo abitato fortificato. Nell’ambiente circostante si
deve supporre l’esistenza di un insediamento di cui
facevano parte case di più alto valore, abitate da un
“dominus”. Sempre nei dintorni, si può ipotizzare,
fossero posti degli alloggi in legno o terra. In effetti, il
dominus aveva facoltà di imporre condizioni, essere
investito di autorità giudiziaria e nello stesso tempo
assicurare protezione. In una prima fase, intorno al XI
secolo, un insediamento si presentava con connotati
estremamente articolati, “castra”, “ville” e “vici”, ma
si ricorda che questi termini sono diventati, sin dal IX
secolo, sinonimi.
Interessante chiosa va fatta riguardo l’Abbazia di San
Lorenzo in Campo, che godeva di ben cinque curtes
lungo la Valle del Cesano e del Metauro, di fatto,
ottenere possedimenti curtensi era comune per
monasteri e abbazie; l’organizzazione territoriale era
contraddistinta da curtes e massariciæ, fondate
attorno al monastero, al cui interno si riuniva la
popolazione nelle situazioni di pericolo, le massæ
hanno avuto origine in epoca romana e in età
altomedievale
la
pratica
venne
riadattata,
successivamente, in epoca medievale, il vocabolo
venne a scomparire. (x NOTA: Si legga riguardo la
continuità e la discontinuità nel termine “massa” o
“massariciæ” e nella situazione organizzativa agraria:
“fundus” e “casale” nei documenti ravennati in
periodo altomedievale, in Medioevo rurale. Sulle
tracce della civiltà contadina, a cura di Vito
Fumagalli e Gabriella Rossetti, Bologna 1980, pag.
201-219)
(NOTA Vedere B. Andreolli, M.
Montanari, L’azienda curtense in Italia. Proprietà
della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-IX,
Bologna 1983)
Dal IX secolo l’amministrazione dei feudi appartenne
alla Chiesa, l’obolo ceduto dai fedeli e le offerte
donate dai pellegrini incrementavano le casse dei
monasteri e delle chiese, al punto che, i religiosi
potevano concedere un prestito a chi fosse in stato di
bisogno.
Sarà con Ottone III durante il periodo denominato
della “Renovatio imperii” che si avrà l’unificazione
della Marca Fermana e della Marca di Camerino, e
sarà così possibile la nascita della Marca Anconitana
con Innocenzo III; si registrò questo termine per la
prima volta in un Diploma dell’anno 983.
Evangeliario di Ottone III. Scuola di Reichenau, sec. X. Monaco, Bayerische Staatsbibliotek,
Ms. Lat. 4453, c. 23 v.
Le Nazioni si inchinano dinanzi all’imperatore Ottone III. Viene rappresentata la nazione slava,
germanica, gallica e romana.
NOTA: Riguardo alle vicende del periodo ottoniano
rammentiamo che Papa Leone III innalzò al trono
Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero,
dando
avvio
alla
rinascenza
carolingia,
successivamente l’impero si infranse per rigenerarsi
poi nel X secolo con la stirpe degli Ottoni. Verso la
fine 900, precisamente nel 960, in Europa è presente
la figura di Ottone I di Sassonia, che percorrerà le
strade marchigiane per scopi politici, (NOTA: Si
consiglia la consultazione del testo di P.Foschi,
Itinerari degli imperatori sassoni (Ottone I, II, III)
nelle Marche durante il X secolo, in Le strade nelle
Marche. Il problema del tempo, II “Atti e Memorie
della Deputazione di Storia patria per le Marche”,
89-91, anni 1984-1986, pp. 699-730) questo periodo
sarà anche determinato da una rigenerazione
culturale dell’Occidente cristiano, in antitesi al
diffondersi di superstizioni e credenze popolari a
sfondo diabolico e di terrore, infatti, il X secolo venne
definito saeculum pessimum o obscurum ma per
verranno rappresentati i motivi per cui tale
definizione non deve essere considerata verosimile.
Dal IX secolo, inoltre, i rapporti vescovili furono
operati direttamente dal sovrano regnante e la
popolazione non poteva far altro che applaudire il
prelato eletto dal re, fino almeno al X secolo, in cui
sarà il sovrano ad eleggere i vescovi, in questo lasso
di tempo, quindi, l’influenza laica era ordinaria. Si
descrive un primato importante relativo a San Lorenzo
in Campo nei primi anni del Mille:
“Avea questa terra acquistato il dominio di quindici
luoghi, che si trovano descritti di un Diploma
dell’Imperatore Ottone in data di Perugia dell’anno
1001 nel quale confermandole questo dominio
medesimo la dichiara immediatamente soggetta alla
sola Chiesa in perpetuo. Alla Giurisdizione sopra i
detti quindici luoghi aggiunsero quella sopra altri
ventisette i Sommi Pontefici Leone ed Alessandro
confermata poi da Papa Pasquale II, che diede inoltre
a San Lorenzo in Campo il Privilegio di scegliere quel
Vescovo che più le piacesse per esercitar la Spirituale
Giurisdizione; il che si ha da una Bolla di questo
Pontefice dell’anno 1113” (Nuova geografia, tradotta
in lingua toscana da Gaudioso Jagermann, Vol. 26, di
Anton-friedrich Büsching, Antonio Zatta, al Tomo
XXIV, pag. 68, anno 1780)
In Italia verso la fine del X secolo sopraggiungevano
fatti importanti “Frattanto che l’Italia aspettava, che
Ottone venisse a farsi riconoscere sovrano, ci dice
Sicardo, che il terremoto si fece sentire assai
impetuoso in Lombardia, per il quale le Città ed i
Paesi tutti si misero nel 994 in grande apprensione,
non sapendosi per altro se facesse del male, o si
risolvesse in pure scosse. Dopo la partenza di
Teofania da Roma, e dall’Italia, non vedendosi mai
Ottone a giungere, tornarono i cattivi umori a
mettersi in fermento, ed i potenti infra gli altri si
misero ad usurpare i beni degli Ecclesiastici, cosa che
era molto prima divenuta alla moda, come si vede. Le
querele de’ Monaci e de’ Vescovi, e i danni, che il
Papa istesso forse soffriva né patrimonj della Chiesa,
indussero Giovanni XV a spedire nel 995 i suoi Legati
al Re Ottone, i quali susseguiti da buona porzion di
Romani e di Lombardi, passarono tutti ad invitarlo,
perché venisse a farsi incoronare in Italia”.
(Giovanni Battista Visi, Dall’anno di Cristo 990 sino
all’anno 1183, Volume 2, Ed. Pazzoni, 1782 pag 2)
SOLI DEO VIVERE
Preghiera e solitudine in Abbazia
L’alto medioevo vede un habitat sparso, disseminato
per lo più di numerosi “castra”, monasteri e pievi, San
Lorenzo in Campo era dotata di un’Abbazia fondata
da monaci benedettini che applicavano la “Regula
monachorum”. (NOTA Si veda Arno Borst,
"Monumenti religiosi e spirituali nell'Alto Medioevo"
in "I Propilei", Milano 1968) La Regola è una dottrina
monastica risalente all’anno 534 d.C., in cui oltre alla
preghiera ed al rispetto venivano imposti principi di
vita di vario genere. Nella Regola venivano
disciplinate sia la coltivazione di un orto che di piante
officinali, oltre alla pratica della cura degli infermi
quale principio imprescindibile, possibile grazie al
trattamento tramite erbe, inoltre venivano rivelati
rudimenti di erboristeria al fine di applicare e
trasmettere le conoscenze ricevute sui rimedi
fitoterapici e la trasformazione di piante
medicamentose.
L’orto era indispensabile per il sostentamento dei
monaci, poiché, la loro alimentazione era basata su
zuppe di pane e verdure, la carne era assolutamente
proibita.
Nella Regola veniva deciso cosa e quando mangiare
all’interno del monastero:
Traduzione dal latino XXXIX – “La misura del
cibo”
Volendo tenere il debito conto delle necessità
individuali, riteniamo che per il pranzo
quotidiano fissato - a seconda delle stagioni dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due
pietanze cotte, in modo che chi eventualmente
non fosse in condizioni di prenderne una, possa
servirsi dell'altra.
Dunque a tutti i fratelli devono bastare due
pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di
procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se
ne aggiunga una terza.
Quanto al pane penso che basti un chilo
abbondante al giorno, sia quando c'è un solo
pasto, che quando c'è pranzo e cena.
In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da
parte un terzo per distribuirlo a cena.
Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più
gravoso del solito, se l'abate lo riterrà
opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un
piccolo supplemento,
purché si eviti assolutamente ogni abuso e il
monaco si guardi dall'ingordigia.
Perché nulla è tanto sconveniente per un
cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come
dice lo stesso nostro Signore: State attenti che
il vostro cuore non sia appesantito dal troppo
cibo.
Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva
loro la medesima porzione, ma una quantità
minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.
Tutti infine si astengano assolutamente dalla
carne di quadrupedi, a eccezione dei malati
molto deboli.
Latino XXXIX – “De mensura cibus”
Sufficere credimus ad refectionem cotidianam tam sextae
quam nonae, omnibus mensis, cocta duo pulmentaria,
propter diversorum infirmitatibus,
ut forte qui ex illo non potuerit edere ex alio reficiatur.
Ergo duo pulmentaria cocta fratribus omnibus sufficiant et,
si fuerit unde poma aut nascentia leguminum, addatur et
tertium.
Panis libra una propensa sufficiat in die, sive una sit refectio
sive prandii et cenae:
quod si cenaturi sunt, de eadem libra tertia pars a cellarario
servetur reddenda cenandis.
Quod si labor forte factus fuerit maior, in arbitrio et
potestate abbatis erit, si expediat, aliquid augere, remota
prae omnibus crapula et ut numquam surripiat monacho
indigeries, quia nihil sic contrarium est omni christiano
quomodo crapula, sicut ait Dominus noster: Videte ne
graventur corda vestra crapula.
Pueris vero minori aetate non eadem servetur quantitas, sed
minor quam maioribus, servata in omnibus parcitate.
Carnium vero quadrupedum omnimodo ab omnibus
abstineatur comestio, praeter omnino debiles aegrotos.
Successivamente alla diffusione della Regola
benedettina, Carlo Magno emanò tra il 770 e l’anno
800 il “Capitulare de Villis”, con cui si ordinava alla
popolazione: “Vogliamo che nell'orto sia coltivata
ogni possibile pianta: il giglio, le rose, la trigonella,
la balsarnita, la salvia, la ruta, l'abrotano, i cetrioli, i
meloni, le zucche, il fagiolo, il cumino, il rosmarino, il
careium, il cece, la scilla, il gladiolo, l'artemisia,
l'anice, le coloquentidi, l'indivia, la visnaga,
l'antrisco, la lattuga, la nigella, la rughetta, il
nasturzio, la bardana, la pulicaria, lo snúmio, il
prezzemolo, il sedano, il levistico, il ginepro, l'aneto,
il finocchio, la cicoria, il dittamo, la senape, la
satureja, il sisimbrio, la menta, il mentastro, il
tanaceto, l'erba gattaia, l'eritrea, il papavero, la
bieta, la vulvagine, l'altea, la malva, la carota, la
pastinaca, il bietolone, gli amaranti, il cavolo-rapa, i
cavoli, le cipolle, l'erba cipollina, i porri, il rafano, lo
scalogno, l'aglio, la robbia, i cardi, le fave, i piselli, il
coriandolo, il cerfoglio, l'euforbia, la selarcia. E
l'ortolano faccia crescere sul tetto della sua
abitazione la barba di Giove. Quanto agli alberi,
vogliamo ci siano frutteti di vario genere: meli
cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi,
noci, ciliegi di vari tipi. Nomi di mela: gozmaringa,
geroldinga, crevedella, spiranca, dolci, acri, tutte
quelle di lunga durata e quelle da consumare subito e
le primaticce. Tre o quattro tipi di pere a lunga
durata, quelle dolci, quelle da cuocere, le tardive.”
Nell’alto medioevo un monastero o un’abbazia
forniva soccorso ai malati, agli orfani, ai poveri e ai
pellegrini, infatti in un monastero era incluso un
ospedale a tutti gli effetti che aveva il nome di
“xenodochio”, almeno fino al X secolo, ma va anche
considerato che un monastero, un’abbazia o una
chiesa poteva non necessariamente contenere una
struttura xenodochia, ma offrire comunque aiuto. (Si
veda Peyer H.C., Viaggiare nel Medioevo.
Dall’ospitalità alla locanda, Roma 2005)
L’alloggio in xenodochia ha, forse, genesi da monaci
orientale perpetuato poi in Gallia ed Italia, si è
trasformato in domus hospitales per mendicanti e
pellegrini, e ricordiamo che sotto Benedetto II (684)
veniva redatto un inventario dei poveri che quindi
comparivano come appartenenti ad una corporazione
sotto il nome di matricularii.
L’Abbazia di San Lorenzo in Campo doveva aver
contenuto una struttura d’assistenza, poiché in tutto
l’alto medioevo l’ospedale era l’unica forma di cura
possibile, a partire dalla caduta dell’Impero romano.
Sarebbe importante ricercare l’esistenza di questa
struttura monastica che, se esistente, avrebbe coperto
con le sue cure e soccorsi, tutto il territorio rurale
laurentino.
Tuttavia, l’Abbazia era certamente un centro di
ospitalità che possedeva una grande influenza sui
territori vicini, questo si evince dai documenti del XII
secolo includenti le proprietà di sua pertinenza, per
meglio dire terre e beni donati da Tebaldo il Saraceno
e successivamente ceduti all’Abbazia di Fonte
Avellana; inoltre venne registrato il castello di Mons
Guidonis che, nell’anno 1163 circa, compariva nel
registro dei possedimenti di San Lorenzo in Campo;
in quest’epoca le donazioni ai monasteri, i relativi
diritti sulle proprietà e la vendita di beni ecclesiastici
dipendevano da imperatori e notabili, così come la
pratica d’investitura feudale era una consuetudine
nelle abbazie benedettine, molti abati infatti venivano
investiti del feudo dall’Imperatore dominante.
“[…] la normativa sia canonica che imperiale aveva
elaborato un chiaro principio di inalienabilità dei
beni ecclesiastici, con la previsione di alcune
eccezioni, in genere giustificate da motivi di utilità e
necessità per la Chiesa stessa e garantite dal
necessario consenso del vescovo o dell’abate e del
clero diocesano o del capitolo, se si trattava di
monasteri. Questa disciplina venne ben presto a
confrontarsi con il fenomeno feudale, che coinvolse
anche la Chiesa, fin dal IX-X secolo; significativo a
questo proposito l’atteggiamento, segnalato dal
Bloch, di papa Silvestro II, che, rendendosi conto
delle importanti novità che il nuovo istituto apportava
rispetto ai vecchi contratti di origine romanistica,
quali l’enfiteusi, decise di introdurre il sistema
feudale come nuovo strumento di gestione del
territorio papale”. (NOTA: Federico Alessandro
Goria “Fra rinnovamento e tradizione: lo Speculum
feudorum di Claude de Seyssel”, Giuffrè Editore,
2010, pag. 165)
Eppure le cronache storiche ci tramandano notizie
discordanti riguardo la vita monastica nel periodo
esaminato “Era allora il Monachesimo in Italia in
somma depressione. Pochi Monisterj si contavano,
dove fiorisse la regolar disciplina. Nella maggior
parte de’ Monaci, massimamente se i lor Monasterj
erano piccioli, o se grandi, ridotti in Commenda,
compariva una deplorabile depravazion di costumi.
Trovavansi talvolta de’ piissimi Abbati, e de’
religiosissimi Monaci; ma noi poco sappiamo delle
loro virtù e meno delle opere loro in servigio e
profitto spirituale de’ Popoli. Si vede bensì dalle
memorie, che restano, essere stato l’ordinario e
comune studio de gli Abbati e Monaci d’allora di
acquistar tutto dì de i nuovi stabili, & anche degli
Stati, cioè delle Castella e Ville, che andavano poi a
finire nel Sic vos non vobis di Virgilio. Ingegnavasi
ancora cadauno de’ potenti Monisterj di avere per
quanto porea de gli altri Monisterj subordinati a sé
per tutta l’Italia; o almen delle Celle, o sia de’
Priorati nelle varie Città, o ne’ lor Contadi, dove poi
teneano un Priore, e talvolta alcuni pochi Monaci, i
quali se ne stavano in gaudeamus, perché disobbligati
dal rigore della Disciplina. Giovò non poco la venuta
del santo Abbate Maiolo, perciocchè oltre all’aver
egli
riformato
alquanti
vecchi
Monisterj,
s’invogliarono molti di fabbricarne de i nuovi, né
principj de’ quali certo è, che fioriva la Pietà e il
buon esempio”. (Lodovico Antonio Muratori,
Giuseppe Catalani, Annali d’Italia: Dall’anno 841
all’era volgare fino all’anno 1000, pag 481-482, anno
1762) (Abbate Maiolo 954-994)
E ancora ritroviamo le parole di Rodolfo il Glabro
"come
scrollandosi
e
liberandosi
dalla
vecchiaia[…]si riveste di un fulgido manto di chiese".
(NOTA Rodolfo il Glabro, Cronache dell'anno mille
(storie), Milano 1991)
Nel monastero si poteva imparare a leggere e a
scrivere, l’insegnamento era affidato ai monaci, se ne
conosce la reale esistenza nell’opera De Gymnasium
del IX secolo, anche se alcuni monasteri rifioriti a
causa di una riforma promossa nel X secolo, hanno
ottenuto l’egemonia nella cultura, ma in seguito
chiuderanno gradualmente le porte al sapere,
riservando la scuola interna al monastero ai soli
novizi. Nel nostro paese la popolazione non doveva
essere stata consistente, e l’analfabetismo era
certamente totale.
ABITARE
Nonostante l’Abbazia rimanga l’unico centro religioso
e culturale di San Lorenzo in Silvis, in questo periodo
la scarsa popolazione risiedeva in case sparse su tutto
il territorio laurentino, probabilmente le abitazioni
consistevano in misere casupole costituite da terra e
paglia, legno e fronde o vere costruzioni in crudo,
comunque costruite utilizzando materiali poveri e
facilmente deteriorabili.
All’interno delle abitazioni non erano presenti arredi,
c’era una tavola ed il cibo era servito in ciotole di
legno (si mangiava con le mani), brocche, pignatte e
ciotole destinate alla cottura dei cibi erano in
terracotta, né smaltata né dipinta. I materassi erano
costituiti da foglie e paglia, le masserizie erano quasi
assenti, ma dal bosco gli uomini del tempo traevano
ogni cosa servisse per la casa e per la propria
sopravvivenza. Le fonti scritte, nel nostro caso, gli
Statuti di San Lorenzo in Campo e di San Vito, non ci
danno informazioni sui corredi da mensa utilizzati,
per il fatto che non sono mai stati scoperti ordinamenti
appartenenti al X secolo.
LE TORRI
“Torre della cotogna” nei pressi di Urbino
COSTUMI
Il guardaroba nell’alto medioevo era semplice ed
essenziale, realizzato con materiale grezzo, una blusa
e delle brache per gli uomini ed una “scarsella”
ovvero un sacchetto allacciato alla cinta; invece per le
donne l’abbigliamento era costituito da un abito
disadorno in fibra naturale, le calzature se utilizzate
erano in canapa o tela greggia, sostituite in estate da
zoccoli in legno.
Calendario (L’aratura), 1000 circa, miniatura, Cotton ms. Tiberius B.V., f3r., Londra, British
Library
Un indumento tipico dell’epoca era il “cucullus” o
“pellegrina”, un mantello con copricapo di lana
grezza, canapa o cenci di tessuto vario, ereditato
dall’Impero romano e in uso in tutto il medioevo.
Prende il nome “pellegrina” dal fatto di venire
indossato dai pellegrini in viaggio e dai monaci,
successivamente venne realizzato il motto: “Cucullus
non facit monachum”, ossia, “il cappuccio non fa il
monaco” poi trasformato in “l’abito non fa il
monaco”.
La trasformazione nei costumi è evidente, soprattutto
se comparata ai raffinati monili appartenenti alla
cultura gallica o romana.
Esempio di bracciale gallico-etrusco in oro con protome di serpente e Orecchino d'oro
rappresentante un cavallo marino, dalla necropoli gallica di Montefortino di Arcevia (Museo
archeologico nazionale delle Marche)
Questo è un esempio di oreficeria dell’alto medioevo presente ad Ascoli Piceno presso il
Museo dell’Alto medioevo
MODUS VIVENDI
Rodolfo il Glabro ci spiega come si viveva in Europa
nel 900 d.C. "Il genere umano è incline fin
dall'origine al male come un cane al vomito, o come
una scrofa che si lava sguazzando nel fango." (NOTA
Rodolfo il Glabro, Cronache dell'anno mille (storie),
Milano 1991)
LA FORESTA DI SANCTI LAURENTIJ IN
SILVIS
Il paesaggio di San Lorenzo in Silvis nei primi secoli
del medioevo è contraddistinto da foreste di querce,
pianure incolte e dallo scorrere del fiume Cesano. Le
terre coltivate coprivano soltanto una piccola porzione
del suolo, come ci viene suggerito dal Salvioli
“mostrano la scarsezza delle persone sulle terre
coltivate e la loro sproporzione all’estensione ossia la
minima densità della popolazione italiana prima del
Mille”(NOTA Salvioli, Storia economica d’Italia
nell’alto Medio Evo, Cap IV”). Il paese era
caratterizzato da un aspetto arcaico dove dominava
quasi completamente il silenzio, infatti nel IX e X
secolo, la popolazione più numerosa era quasi
sicuramente costituita da animali selvatici, comunque
importante fonte di sostentamento per l’abbondanza di
cacciagione.
In tutto l’alto medioevo i cicli di carestia si
riscontravano con estrema frequenza, colpendo quasi
tutto il territorio marchigiano, infatti si hanno notizie
circa atroci circostanze di antropofagia e ferine
esperienze di sostentamento a base di terra o animali
putrefatti, tutto pur di sottrarsi alla fame, a costo di
impiegare ogni mezzo, anche il più ripugnante.
Il bosco era l’unica forma di sostentamento per le
persone che abitavano il territorio nel X secolo,
nell’alto medioevo la raccolta di erbe spontanee e
frutti del bosco era l’unica possibilità di nutrimento,
oltre alla pratica della caccia e della pesca, sempre
importante, poi, rimaneva il taglio del legname per il
riscaldamento e la costruzione delle abitazioni.
Il territorio era ricco di meli selvatici, prugnoli, peri
selvatici, sorbus domestica, noccioli, le erbe
spontanee erano innumerevoli come le bacche e i
funghi commestibili.
Eppure, un fenomeno inusuale emerge dalle Carte di
Fonte Avellana, (NOTA: Carte di Fonte Avellana, 1,
Doc. 23, 56, 112, 154, 160) in cui si svelano
possedimenti destinati a vigneto presso Cagli e San
Lorenzo in Campo, per di più terræ arativæ e altre
sono riscontrate nel 1066 e ulteriormente in carte
dell’anno 1127, si nominano in seguito “terre culte e
vinee” come suoli maggiormente estesi rispetto alle
aree selvatiche a campi e foresta.
(Sarà dal 1200 circa, con lo sviluppo di fondi
coltivabili, che il bosco perderà rapidamente
estensione, lasciando spazio a campi ed orti che
servivano alla popolazione per il sostentamento delle
numerose famiglie di cui facevano parte, anche a
scapito della selvaggina che verrà drasticamente
ridotta a causa del restringimento delle aree boschive
circostanti)
La malnutrizione unita alle pessime condizioni
igieniche, davano vita ad epidemie di peste, colera,
tifo, febbre ed altre pestilenze, per questo motivo
l’aspettativa di vita di una persona del X secolo era
estremamente bassa.
RELIGIONE E SUPERSTIZIONE
La popolazione del X secolo era analfabeta e in un
costante bisogno di ricercare la presenza del divino al
fine di placare la cieca paura dell’ignoto e della
sofferenza. A questo pensavano scaltri impostori che
sapevano bene come raggirare la folle, con false
reliquie, miracoli e segni celesti che scuotevano nel
profondo la psicologia delle masse, che era ancora
intimamente radicata in una forma mentis precristiana.
La religione del X secolo era fonte primaria di fede e
speranza, anche se va detto che la messa era officiata
in latino, ma quasi nessun credente comprendeva
questa lingua, pertanto la Bibbia era presentata
attraverso i dipinti e gli affreschi delle chiese e delle
abbazie, inoltre, la celebrazione era seguita recitando
le orazioni a memoria.
MAGIA
Nel periodo barbarico erano presenti intense forme di
superstizione, ma ciò che più di ogni altro ha tentato
l’annichilamento della superstizione fu senz’altro il
Cristianesimo “Il Cristianesimo fu senza dubbio
funesto: dal sincretismo delle varie religioni che lo
formarono gli rimase appiccicato un complesso di
diavolerie gnostiche e manichee”. (NOTA Gabriele
Pepe, Il medio evo barbarico d’Italia, Einaudi, 1973,
pag 167)
I Longobardi, altresì, non avevano
rinunciato affatto a praticare forme di religione
pagana, venerando animali, alberi, fiumi e monti. Ciò
che la Chiesa definiva diabolico, ossia il paganesimo,
era percepito come mera pratica magica e si è tentato
di estirpare queste forme di scaramanzia in ogni modo
e in ogni luogo, al suo punto estremo, si è assistito ad
un vero e proprio martirio inflitto a chiunque fosse
stato ritenuto colpevole di pratiche magiche o
diaboliche. La Chiesa in questo ha avviato un’ostinata
battaglia anche in forza del fatto di essere ritenuta
ricca di quel complesso di pseudo-conoscenze
demonologiche, che le aveva permesso di costruire un
archetipo frammisto di demonologia e teologia.
“Anche se nel III secolo si era giunti a una certa
disciplina nelle credenze diaboliche, in seguito le
eccessive confidenze che i monaci si prendevano col
Diavolo vennero diffondendo su tutta la vita un senso
di incubo, il terrore di un nemico invisibile, ai cui
agguati era assai difficile sfuggire per l’abilità del
Diavolo ad assumere ingannatori aspetti di bontà”
(NOTA Gabriele Pepe, Il medio evo barbarico
d’Italia, Einaudi, 1973, pag 167) Una valida prova
dell’addestramento a cui erano sottoposti gli uomini di
religione al fine di debellare ogni forma di “pratica
perniciosa della divinazione e della magia” è
contenuta nel Canon Episcopi di cui riporto un passo
tradotto dal latino.
"I vescovi e i loro ministri vedano di applicarsi con
tutte le loro energie per sradicare interamente dalla
proprie parrocchie la pratica perniciosa della
divinazione e della magia, che furono inventate dal
diavolo; e se trovano uomini o donne che indulgono a
tal genere di crimini, devono bandirli dalle loro
parrocchie, perché è gente ignobile e malfamata.
Dice, infatti, l’apostolo: "Dopo la prima e la seconda
ammonizione evita l’eretico, sapendo che è fuori dalla
retta via chi si comporta in tal modo". E sono fuori
dalla via e prigionieri del diavolo coloro che
abbandonano il loro Creatore per cercare l’aiuto del
diavolo; e perciò occorre purificare la santa Chiesa
da un tale flagello. Né bisogna dimenticare che certe
donne depravate, le quali si sono volte a Satana e si
sono lasciate sviare da illusioni e seduzioni
diaboliche, credono e affermano di cavalcare la notte
certune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani (o
di Erodiade), e di una innumerevole moltitudine di
donne; di attraversare larghi spazi di terre grazie al
silenzio della notte profonda e di ubbidire ai suoi
ordini come a loro signora e di essere chiamate certe
notti al suo servizio. Ma volesse il cielo che soltanto
costoro fossero perite nella loro falsa credenza e non
avessero trascinato parecchi altri nella perdizione
dell’anima. Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere
da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in
tal modo si allontanano dalla vera fede e cadono
nell’errore dei pagani, credendo che vi siano altri dèi
o divinità oltre all’unico Dio. Perciò, nelle chiese a
loro assegnate, i preti devono predicare con grande
diligenza al popolo di Dio affinché si sappia che
queste cose sono completamente false e che tali
fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo
spirito divino ma dallo spirito malvagio. Infatti,
quando Satana, trasformandosi in angelo della luce,
prende possesso della mente di ognuna di queste
donnicciole e le sottomette a sé a causa della loro
infedeltà e incredulità, subito egli assume l’aspetto e
le sembianze di diverse persone e durante le ore del
sonno inganna la mente che tiene prigioniera,
alternando visioni liete a visioni tristi, persone note a
persone ignote, e conducendola attraverso cammini
mai praticati; e benché la donna infedele esperimenti
tutto ciò solo nello spirito, ella crede che avvenga non
nella mente ma nel corpo. A chi, infatti, non è
accaduto nel sonno o in visioni notturne di essere
tratto fuori da sé stesso e di vedere, dormendo, molte
cose che, sveglio, non ha mai visto? Ma chi può
essere così stupido e ottuso da credere che tutte
queste cose che accadono solo nello spirito,
avvengano anche nel corpo? Il profeta Ezechiele,
infatti, vide il Signore nello spirito e non nel corpo, e
l’apostolo Giovanni vide e udì i misteri
dell’Apocalisse nello spirito e non nel corpo, come
egli stesso dichiara: "Subito fui in spirito". E Paolo
non osa dire di essere stato rapito fisicamente in
cielo. Tutti, perciò, devono essere pubblicamente
informati che chiunque crede a queste simili cose,
perde la fede, e chiunque non ha vera fede appartiene
non già a Dio ma a colui nel quale crede, vale a dire
al diavolo. E’ scritto infatti di nostro Signore: "Tutte
le cose sono state fatte per mezzo di Lui". Perciò
chiunque crede possibile che una creatura cambi in
meglio o in peggio, o assuma aspetti o sembianze
diverse per opera di qualcuno che non sia il Creatore
stesso che ha fatto tutte le cose e per mezzo del quale
tutte le cose sono state fatte, è indubbiamente un
infedele, e peggiore di un pagano"
Nel IX e X secolo l’autorità giudiziaria si fondava sul
“metodo accusatorio”, la procedura penale chiamava
un giudice che implorava direttamente Dio, al fine di
suggerire una sicura manifestazione del crimine di
stregoneria al giudice, questo delitto sarebbe stato poi
provato tramite l’ordalia, vale a dire costringendo
l’incriminato a sottoporsi ad una prova straziante,
tramite l’annegamento o impugnando un ferro
incandescente, se la sentenza di tali efferatezze era di
“colpevolezza” si svolgeva l’esecuzione del
prigioniero. Riporto un esempio di rituale e formula
magica contenuta nei protocolli notarili di Viterbo
“Quod in nocte videas et haud videaris: accipe
sanguinem unius nottule et de eo fac signum + in
fronte”. (NOTA Si veda A. Porretti “Le ricette delle
streghe” Fefè Ed. 2009)
Sarà solo nel 1215 nel IV Concilio Laterano che la
Chiesa proibirà l’ordalia come unico strumento di
amministrazione della prova, ma saranno ancora in
migliaia a pagare sul rogo il fio della pratica magica.
Anche un evento naturale che, oggi, noi conosciamo
come eclissi, poteva essere avvertita come un
avvertimento soprannaturale o anche come un segno
dell’imminente fine del mondo.
Nel giorno di venerdì 29 giugno 1033 venne riportato
l’avvenimento dell’eclissi e qui trascritto nella
versione tradotta:
“Nello stesso millesimo anno dopo la passione di
Cristo, il 29 giugno, un venerdì, ventottesimo giorno
della luna, si verificò una eclissi o oscuramento del
sole che durò dall’ora sesta fino alla ottava di quello
stesso giorno e fu un evento terribile. Il disco del sole
diventò color zaffiro, e nella sua parte superiore si
poteva vedere l’immagine della luna al suo primo
quarto. Gli uomini guardandosi vedevano sui loro
volti il pallore della morte. Ogni cosa intorno
sembrava avvolta da una nube color zafferano. Uno
stupore e uno spavento immenso si impossessò del
cuore degli uomini, perché la vista di questo
spettacolo faceva loro comprendere che presto
qualche triste sciagura si sarebbe abbattuta sul
genere umano. (NOTA Rodolfo il Glabro,
Historiarum libri quinque, ed. Prou, Parigi, 1886)
(NOTA E’ opportuno portare alla memoria il testo del
Muratori, Antiquitates ci., diss. LIX; inoltre il testo di
Nulli, I processi delle streghe)
Chi ha pagato disperatamente e con la propria vita
l’ingiustizia perpetrata dalla religione cristiana e delle
sue turpitudini moralistiche, è stata la figura esecrata
della “strega” che veniva citata già in epoca barbarica
ma con accenti del tutto diversi “Nessuno ardisca
uccidere l’aldia o la serva altrui come strega; menti
cristiane non debbono credere che una donna possa
divorare un uomo vivo” (NOTA Edictum cit., cap.
CCCLXIV, pag. 87)