digital magazine dicembre 2010 N.74 Bjørn torske Norwegian hauntology Coldcut we love ninja tune The Kinks Non voglio che Clara Giancarlo Onorato Turn On p. 4 Tre Allegri Ragazzi Morti 6 Warpaint 8 Baustelle 10 Dark Star Tune IN p. 11 Non voglio che Clara Giancarlo Onorato 14 Drop Out 18 Sufjan Stevens 30 Napoli Caput Mundi Recensioni 40 A Classic Education, Warpaint, Ebo Taylor, Autumn Defense.... Rearview Mirror 84 The Kinks Rubriche 76 Gimme Some Inches 78 Re-boot 80 China Underground 90 Giant Steps 91 Classic Album SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco. Staff: Giancarlo Turra, , Edoardo Bridda, Marco Braggion, Antonello Comunale, Fabrizio Zampighi, Teresa Greco, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Andrea Napoli, Luca Barachetti, Stefano Gaz, Mauro Crocenzi, Stefano Solventi, Simone Madrau. Guida In 2 spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) Bjørn Torske Turn On Tre Allegri Ragazzi Morti —Futurivismo— Che si tratti di una svolta definitiva o di una semplice toccata e fuga poco importa. I Tre allegri ragazzi morti rimangono esploratori entusiasti del suono anche in versione dub. S crittura, idee, disegni, immaginario. E poi una musica legata al concetto di evoluzione. L'adolescenza che caratterizzava il punk dei Tre allegri Ragazzi Morti fino agli albori de La seconda rivoluzione sessuale trova con Primitivi del futuro e Primitivi del dub una nuova dimensione, allargando il proprio raggio d'azione oltre i Quindici anni già. Dall'alba dell'individuo intesa in senso anagrafico si passa a quella dell'uomo intesa in senso evolutivo (cacciatori, raccoglitori / beoni, spacciatori / contadini, dissidenti/ ballerine, pensatori / puttane felici e giocatori), in un ritorno alle origini che diventa il passaggio essenziale per comprendere – e magari per cambiare – una contemporaneità in cui non ci si riconosce. “La memoria che non è / quello che ricordi della storia passata / è qualcosa di più profondo / che ha a che fare con la memoria del mondo / che può farti capire qualcosa / del processo che possiamo fermare / l'origine dell'alienazione della specie” canta Davide Toffolo in Primitivi del futuro. Ovvero conta quello che siamo e non quello che ci vogliono far credere d'essere, perché non c'è tecnologia che possa gratificare un individuo che abbia perso il contatto con la sua reale essenza. Fuori da un bieco pseudo-naturalismo new age e dentro 4 a una riflessione condivisibile che mira a un'etica del “passo indietro”, a un primitivismo quasi biologico e delle intenzioni. La musica diventa esaltazione delle radici, su un dub/reggae rubato alla Giamaica di Lee Perry che mantiene comunque forti punti di contatto con lo stile dei TARM. Come ci fa capire anche Enrico Molteni - bassista della formazione di Pordenone - in questa breve intervista. Due dischi e un universo capovolto: i Tre Allegri ragazzi Morti nuovi alfieri dei ritmi giamaicani/ africani o gli ultimi capitoli Primitivi del futuro e Primitivi del dub rappresentano solo una deviazione necessaria e fortemente (e)voluta di un percorso artistico coerente? A mio avviso i Tre allegri ragazzi morti sono sempre stati scrittura, a matita o col plettro. Sono idee ed immaginario. In questo senso mi stupisce che il nuovo corso abbia colpito così tanto. È come cambiare abbigliamento ad una persona. La persona è sempre la stessa, anche se con colori e taglie nuove. Tre allegri ragazzi morti rimangono (anti)eroi nemici delle convenzioni anche quando suonano in levare. Quanto il “primitivismo” sottolineato dai suoni e dai titoli dei due ultimi episodi ha a che fare con la personalità della band ? È raro che l’eleganza sostituisca l’emozione. Vivere insieme per due anni nella campagna agricola del nordest ci ha fatto apprezzare Zerzan. I problemi della nostra società arrivano dal neolitico, non da governi attuali o precedenti. Quando l’uomo ha smesso di essere cacciatore e raccoglitore e si è stabilizzato, ha smesso di essere libero. Suono e titoli sono al 100% quello che Tre allegri ragazzi morti sono oggi. Su cosa avete lavorato per affrontare il netto cambio di stile e come è stato farsi forgiare da un esperto del “settore” come Paolo Baldini? Siamo passati da una misteriosa voglia di suonare in levare ad un’istruzione alta a riguardo grazie al maestro Baldini. Ore in sala prove ad ascoltare, ad esercitarsi, ad immaginare un incontro reale fra la Jamaica e Pordenone. Avevamo bisogno di contaminare il nostro suono, perché il pensiero lo era già da tempo. In L'ultima rivolta nel quartiere Villanova non ha fatto feriti cantate: “Stacca la tua connessione / non lo fai”. Che rapporto hanno i Tre Allegri ragazzi morti con la tecnologia e in maniera particolare col mondo di Internet? Internet è stato importante per noi, abbiamo sempre cercato di svilupparne le potenzialità con fantasia. Dall’arrivo del 2.0, tuttavia, siamo rimasti spiazzati e tutt’ora stiamo cercando di svincolarci da quella palu- de che è il social network. Se tutto sembra importante, tutto perde di valore. Tutti sono allenatori della nazionale, tutti sono critici musicali. Conta di più un copricapo bizzarro che una melodia perfetta. Siamo tornati alla predominanza dell’apparenza. E noi ci siamo celati dietro ad una maschera anche per evitare che questo succedesse. Interrogato da SA a proposito del peso che puo' ricoprire la rete nella promozione di una band, Francesco Bianconi dei Baustelle ha sottolineato come il tam tam mediatico di internet sia alla fine una rivoluzione solo di facciata, dal momento che non influisce in maniera rilevante sui dischi venduti né sulla notorietà degli artisti. Michele Bitossi dei Numero 6 ha replicato invece dicendo che se da un lato quello di Bianconi puo' essere un parere condivisibile sulla carta, dall'altro nasce da presupposti un po' snobistici che arrivano dall'alto di una notorietà ormai acquisita e lontana dalla realtà di un gruppo emergente bisognoso di farsi conoscere. Tu cosa ne pensi? Fondamentalmente sono d’accordo con Bianconi e Godano, forse perché, come loro, ricordo bene com’era prima. Compravi un mensile ed imparavi ad avere fiducia in una firma. Ascoltavi alcuni programmi radio ed il giorno dopo ordinavi il disco in America. A scuola ci si passava i dischi sottobanco. Guardavi tanti video in tv alla ricerca di nuovi stimoli. Andavi ai concerti con una curiosità maggiore. C’era una preselezione, è vero, ma mi sembra di ricordare che fosse tutto più bello. La situazione attuale è molto eccitante, c’è una possibilità maggiore di arrivare alla gente, ma non ci sono più regole ed alle volte i nuovi successi sono solo fuochi di paglia. Sono uno di quelli che sostiene che Arctic Monkeys avrebbero comunque avuto successo, anche nel 1987. Fabrizio Zampighi 5 Turn On Warpaint —Le nuove ragazze di città— L'ultima sensazione made in Los Angeles al debutto su Rough Trade. S hannyn Sossamon è la starlette hollywodiana che faceva bella mostra di sé in Le Regole dell’Attrazione di Roger Avary, così come in decine di film dall’appeal commerciale altalenante. Un volto che buca gli schermi e i cuori, al punto che non a caso quel nerd camuffato da pop-rocker di Graham Coxon le dedica il primo singolo tratto da Happiness In Magazines, Spectacular. Shannyn è anche la sorella di Jenny Lee Lindberg e un bel giorno, insieme, decidono di metter su una band rock con le amiche d’infanzia, Emily Kokal e Theresa Wayman. L’embrione di quello che sarebbero diventate di lì a poco le Warpaint, l’ennesima e spavalda formazione “all female” che si trova a muovere i primi passi nel caotico e magmatico universo losangelino della West Coast americana. Non proprio le tipe giuste per il posto giusto se è vero che tutto lo scenario tipico fatto di palme altissime in quel di Beverly Hills e di impronte nel cemento nella walk of fame suonava quanto meno ironico già all’epoca delle prime session: “L’atmosfera della nostra musica riflette solo parzialmente Los Angeles – sostiene Emily – qualcosa del clima, delle persone, delle cose che abbiamo intorno c’è, ma siamo piuttosto come il cuore vero di questa città, ovvero lo sgomento e l’oscurità”. Una visione disillusa e disincantata, che le quattro condividono con altre formazioni del nuovo rock losangelino, quelle del giro Not Not Fun in primis, anche se in un settore del tutto diverso. La band diventa rapidamente trio, perdendo per strada proprio Shannyn che deve star dietro alle cose della settima arte. Di lì in poi il percorso delle tre prende il verso giusto grazie ad una miscela ben calibrata di psichedelica, 6 postpunk e ballad eteree trovando un padre putativo di quelli giusti, nella persona di John Frusciante, che si trova a missare presso i suoi studi i cinque brani dell’ep di debutto, Exquisite Corpse, lavoro spartano ma pieno di una energia grezza e sincera che va di pari passo con la scelta di autoprodursi. La “nuova sensazione” è presto fatta e nei circuiti il nome prende a circolare con sempre più insistenza fino all’hype vero e proprio che esplode in questi giorni, in occasione della pubblicazione del disco di debutto, The Fool, distribuito da una griffe influente come Rough Trade che si invaghisce della band dopo averla sentita su Myspace. E’ la stessa Emily ha ricordare come è andata, non senza una punta di sorpresa: “Quelli della Rough Trade ci hanno visto su Myspace e ci hanno chiesto di spedirli il nostro disco, quando ancora non avevamo un batterista. Poi siamo andati in tour negli USA e un giorno mentre stavamo suonando a Portland ed eravamo in procinto di firmare con un’altra label, piomba Scott McQueen dicendoci di non firmare con nessuno. Abbiamo accettato eppure a guardare indietro com’è andata c’è da dire che siamo state scritturate senza che nessuno di loro ci avesse visto suonare una volta e senza avere nemmeno un batterista fisso!”. Con un suono come quello delle quattro (al trio storico si aggiunge ufficialmente, poco prima delle registrazioni di The Fool, Stella Mozgawa) è facile andare incontro ai gusti più eterogenei. Ma innanzitutto l’immagine, che è austera ma retrò. Le Warpaint fanno le cose come si facevano un tempo: singoli, video, session fotografiche, tutto come se si fosse tornati agli anni novanta, così come una neppure tanto velata fierezza femminile che se proprio non le porta dalle parti del “foxycore” anni’90 (quello di Bikini Kill e derivati per intenderci…) le allinea a formazioni come Sleater Kinney ed Electrelane, che non hanno mai messo l’accento su un femminismo di battaglia, ma neppure ci hanno glissato sopra. “Alla fine è stato un elemento positivo. Non abbiamo mai avuto l’impressione che fossimo etichettate come una band di donne – precisa Emily – e in fin dei conti le persone hanno capito che non era una faccenda determinante per poter venire ai nostri show o ascoltare le nostre canzoni. Certo a volte ti capita lo scemo che si mette a parlare delle nostre caratteristiche fisiche… Del resto equilibrio e misura sono i tratti distintivi della band. Musicalmente parlando evocano evidenti assonanze con il pop rock scuro di marca Tanya Donnelly. In particolare, le doppie voci di Emily e Theresa risentono del fascino di gruppi come Throwing Muses e Raincoats. In mancanza di un aggettivo che calzasse per tutti i brani, sono state spesso descritte con un termine omnicomprensivo quale “psichedelia”, che è un po’ come dire che c’è la crisi economica e la disoccupazione non accenna a diminuire… per descrivere Exquisite Corpe i termini più usati nelle webzine di mezzo mondo sono stati: “dreamy”, “psychedelic”, “hypnotic”, “soundscapes”, “intimacy” a cui si aggiunge con The Fool l’accento su una produzione più professionale e meno grezza e rabbiosa. Andando più a fondo nel suono delle quattro, impossibile innanzitutto non scomodare i padri del post-punk inglese, Joy Division o Fall o tutta la new wave anni Ottanta, al primo sussulto ritmico tra basso e batteria (Bees pare in questo senso un omaggio ironico e devoto). Il taglio delle chitarre non a caso ricorda quello ascoltato qualche anno fa nel debutto dei The Organ, ma è una similitudine che può andar bene solo per i brani più tirati, perché per il resto del programma Warpaint diventa sinonimo di meditazione malinconica, di gorgheggi eterei e di chitarre trattate in direzione del sogno. Sarà pur sempre il vecchio retaggio della prima 4AD, ma quando prendono il pendio delle melodie più scure (Shadows, Majesty, Warpaint) le Warpaint riescono a somigliare alle Spires That in The Sunset Rise, in una maniera però molto più diretta e pop. Le stregonerie rock e sperimentali sono costantemente tenute a bada e questo da un lato fa perdere punti sul piano della ricerca, dall’altro le rende immediatamente riconoscibili. Un “easy listening” che è tutto fuorché un difetto in questo caso. Alla fin fine importa davvero poco se le Warpaint siano l’ennesimo gruppo destinato a sfornare si e no un paio di dischi, impegnate con la grammatica di sempre, quella di un rock che si riproduce costantemente dalle proprie ceneri. Il progetto è serio, i riconoscimenti arrivano puntualmente e The Fool è lavoro capace di conquistarsi il proprio spazio nel caotico maelstrom della comunicazione globale. In tutto e per tutto la storia di un successo, ma l’aria di Emily e delle altre è quella di quattro ragazze che non potrebbero fare nient’altro che suonare la propria musica e le proprie canzoni. Ovvero, nessun tentativo di sovvertire il mondo e portare la rivoluzione delle idee. Solo il vecchio e sano rock’n’roll. That’s all, folks… e se avete la curiosità di sapere da dove venga il nome Warpaint e cosa significhi davvero, andate pure su Urban Dictionary, scoprirete che può indicare tanto un make-up esagerato e di cattivo gusto quanto una serie di pratiche sessuali a base di tamponi vaginali e altro… del resto l’ironia è donna. Antonello Comunale 7 Turn On Baustelle — Apocalittico integrato— Il decennale del Sussidiario, con relativa succosa ristampa, è l'occasione per tracciare bilanci sullo stato delle cose. Non proprio idilliaci. 8 U n decennale è un decennale, ok, ma qui la trama s'infittisce. Cerchi su cerchi che si chiudono. Evoluzioni particolari e generali. Dieci anni fa si aprivano gli anni zero (enigmatici, volatili, tenaci, lividi, controversi...) e con essi, tra le altre cose, s'inaugurava la carriera discografica dei Baustelle. Disco che colpì non poco pubblico e critica, quel Sussidiario illustrato della giovinezza co-prodotto da Amerigo Verardi. Il premio come miglior esordio elargito dal Mucchio Selvaggio non fu che il suggello di una cavalcata vincente nell'immaginario indie, malgrado una distribuzione che ancora oggi Francesco Bianconi definisce "non adeguata". Pop-wave inzuppato d'innocenza e ormoni, echi di colonne sonore e brume da chansonnier, il dandismo nostalgico e spiegazzato dei Pulp tra spasmi marionettistici Alberto Camerini, soprattuto quel senso di precarietà periferica ma illuminata, non troppo distante da come si presentarono al mondo, incantandolo, i Belle And Sebastian. E poi la disarmante franchezza dei testi, sospesi tra parafrasi colte e minimi termini da fotoromanzo neorealista. Il tutto affidato all'intepretazione languida e disincantata della coppia BastreghiBianconi: ingredienti di una ricetta che sfornò gemme tarslucide come Canzone del parco e potenziali craque da superclassifica come Gomma o Le vacanze dell'83. "Piacque di noi forse il fatto che avevamo un'incosciente sfrontatezza nel fare un tipo di musica italiana strana, con molti riferimenti alle colonne sonore, ai cantautori italiani e francesi, all'elettronica e alla new wave". Francesco Bianconi rievoca senza ostentare nostalgia, se non per quell'etichetta - la Baracca e Burattini di Paolo Bedini - che li lanciò e non c'è più. "Bedini lasciava molto fare, non interferì assolutamente dal punto di vista artistico. Ebbe da ridire solo sul titolo, che gli sembrava troppo pretenzioso. Ma a me piaceva, e la spuntai". Da allora i Baustelle sono diventati altro, persino tutt'altro potremmo dire. Questione di mezzi a disposizione o inevitabile espansione artistica. Probabilmente entrambe le cose. In ogni caso, se la ristampa era un'eventualità sacrosanta considerato che da tempo il disco risultava introvabile, stupisce un po' la ricchezza del formato (cd, vinile, 45 giri e booklet) ed il tour apposito (Il tour del sussidiario) messo in piedi come una vera e propria celebrazione. Anzi, di più: somiglia ad una dichiarazione d'appartenenza, un rivendicare radici che in molti rimproverano alla band d'avere smarrito (non certo chi scrive). Cerchi che si chiudono, dicevamo. Occasione per bilanci che somigliano più ad accuse nei confronti del presente che a rimpianti del passato. "Era un altro mondo. Si vendevano più dischi. All'epoca le mie speranze erano di vivere con la musica e arrivare a più gente possibile. Questo non significa calare le braghe, sputtanarsi. Significa non considerare la propria musica come qualcosa che debba essere ascoltata solo da quelli che la possono capire. Non volevamo considerarci di nicchia". Già. Ma oggi le nicchie sono esplose, è un mondo di nicchie espanse, accessibili e simultanee. Potenza della neo-socialità internettara. "Uso con molta parsimonia il mio profilo Facebook, ma sono curioso dei nuovi mezzi di comunicazione quindi ce l'ho. Non lo uso per testare la reazione del pubblico dei Baustelle, non credo che un musicista debba basarsi su questo". Opinione del tutto condivisibile. Però va messo in conto che in molti lo fanno più per necessità che per opportunismo. E comunque il tam tam battente della rete ci ha regalato qualche bella sorpresa che, se fosse stato per i canali ufficiali, forse non avremmo mai conosciuto. Bianconi sbotta, più apocalittico che integrato: "Negli anni novanta, prima che esistessero i nuovi mezzi di comunicazione, band come i Non Voglio Che Clara o Vasco Brondi sarebbero forse anche più famosi di adesso, anche senza il tam tam mediatico di internet. Voglio dire che tutto questo gran parlarne, questo circolare di informazioni serve, fa bene, ma non agli artisti. I dischi venduti sono pari allo zero. Le etichette indipendenti chiudono. Sui blog e sui social network si parla molto di una band, ma questa, se vuole far uscire un disco, deve pagarselo coi propri soldi. Nel 2000 il Sussidiario magari non fu promosso adeguatamente, ma Baracca e Burattini finanziò interamente la produzione. In questo senso la rivoluzione del web è di facciata perché non aiuta realmente la musica indipendente, che ha vita più dura". Già che siamo in vena di analisi, e visto che siamo qui a celebrare un decennale, spendiamo due parole su questi cazzo di anni zero. "Credo sia troppo presto per parlare musicalmente degli anni zero. Semmai possiamo dire che politicamente e culturalmente non stiamo passando un bel momento in Italia, la musica è concepita come un sottofondo divertente e gratis, è un valore senza valore, e tutto questo non è bene perché la musica ha il diritto d'essere considerata una cosa importante come i romanzi o le opere d'arte. Questa è una cosa che mi dispiace degli anni zero ed il nostro governo attuale non aiuta a migliorare la situazione". E il futuro, invece? "Se dovessi fare un disco domani lo farei acustico, con un quartetto d'archi e senza batteria. Ma faccio già fatica a pensare al presente, non riesco ad immaginare come sarà un disco dei Baustelle che uscirà fra un anno, un anno e mezzo..." Stefano Solventi 9 Darkstar Turn On Tune-In Non Voglio Che Clara —Twinkle Twinkle Darker Star— —Il Tempo e i cani— La nuova scommessa di Kode9 L a stella che segna il nord nel mondo post-dubstep spariglia il gioco e si toglie di dosso le lugubri atmosfere di East/South London, puntando direttamente al vocal pop. I Darkstar sono la nuova ed eccitante scommessa dell’etichetta di Kode9: il lungimirante produttore e burattinaio del mondo elettronico del suburbio londinese, capisce come i tempi siano maturi per un ripensamento dell’ultima e nuova sensation UK. Ci mette poco a tentare nuovamente il botto, come aveva fatto con Burial. Ricetta: guardare alla tradizione synth UK e utilizzare la lezione di questi ultimi dieci anni, che con il dubstep in fatto di darkness hanno costruito un’estetica prolifica e - mano a mano che è passato il tempo - più aperta e accogliente. Il dubstep, dicevamo. Oggi anche questa catalogazione tende a sfaldarsi e nei prodotti più avant si sente l’urgenza di rimettersi in gioco. Vedi la techno che spinge sul lato dancefloor, le derive commerciali di Magnetic Man o gli ostinati in levare ragga di Ramadanman e affini. James Young ed Aiden Whalley partono invece con una classica formazione da nerd dello smanettamento, ma ben presto si accorgono che i loro singoli non sono propriamente come quelli dei giovani amici che li circondano. Per capire cosa fare e come proseguire cercano allora la voce di un cantante. Nell’impegno di James Buttery trovano il punto di svolta: “non era più come usare un semplice vocoder. Nell’album abbiamo prodotto una voce vera. Da un punto di vista di scrittura abbiamo delineato le melodie che James avreb10 be cantato invece che pensare a tracce per il dancefloor. Questo ci ha modificato il suono, che è diventato subito qualcos’altro, quello che potete ascoltare in North”. Il nord dell’album è la parafrasi delle periferie aliene alla capitale. La premiata ditta Whalley & Young ha sede infatti a Manchester: ritorna perciò lo spettro dell’elettronica ‘nordista’ della Warp e degli isolamenti eremitici di Aphex Twin. Le coordinate geografiche imputano un distacco che si rinsalda comunque alla tradizione melodica (vedi tra l’altro la citazione degli Human League nella cover di Gold), che i tre perseguono già dagli esordi: “I nostri primi singoli suggerivano una forma canzone più convenzionale. L’album è stato la continuazione di quel percorso con le voci”. Le voci non sono il soul di Burial, bensì le bianchissime e melanconiche paranoie pop che intristiscono e alimentano l’hype di smanettoni stanchi del sudore da balera. I riferimenti d’ascolto (ci dicono via e-mail) sono guardcaso la commerciabilissima epopea di Kanye West, il wonky di Actress, il sempreverde universo Beatles, e per chiudere i principi del synth New Order. Senza pensare troppo alle conseguenze, questi tre ragazzi hanno gettato le basi per un nuovo modo di fare dubstep. Basta colate di lava nera dal cuore. Oggi si punta al melò pop. They call it sadstep. Marco Braggion Testo: Luca Barachetti La canzone d'autore anni Sessanta, l'amore, le colpe: l'apice dei Non Voglio Che Clara un passo prima di una svolta necessaria. 11 “Personalmente avevo voglia di una pausa, mi sono dedicato a lavori altrui (Valentina Dorme, Public), ho sperimentato qualche soluzione inedita per la band come la serie di concerti a formazione ridotta contestuali all’uscita di Bene, ma soprattutto ho scritto un discreto numero di canzoni nuove, alcune delle quali sono finite in Dei cani. C’è anche da dire che la formazione nel frattempo è mutata per i due quarti e questo ha sicuramente portato un certo ritardo nella pubblicazione del disco”. Ecco spiegato il perché del quadriennio di (quasi) silenzio dei Non Voglio Che Clara. Come a dire che qui il tempo conta, e non solo perché si torna a quel Tempo, lo si recupera, rimescola con il dopo, quel tanto che basta. Ma anche perché c'è voluto del tempo per scrivere il disco che, molto probabilmente, l'innamoramento per quel Tempo e relative filiazioni li chiude. Parliamoci chiaro: è dagli inizi degli anni zero che si è tornati ad ascoltare la leva cantautorale dei sessanta. Bindi, Tenco, Paoli, Endrigo. E poi ancora Endrigo, Paoli, Tenco, Bindi. Vigoroso gesto postmoderno al limite della strangolatura, un passo più in là e siamo al calco soffocante, vedasi chi quel passo l'ha fatto. Non gli splendidi Amor Fou, non i Perturbazione del siderale apice antiestivo (Agosto come la Mi sono innamorato di te del nuovo millennio). Non un Paolo Benvegnù a debita e viscerale distanza o un Alessandro Grazian che ancora non ci ha detto tutto. Ma pensate al Morgan perennemente nostalgico e perennemente involuto su sé stesso o a quello spirito camerettardo, da tutto il dolore del mondo qui fra la mia scrivania e la mensola coi libri di Murakami, di tante altre produzioni, magari minori, magari no. Non ce ne voglia il nipponico tirato in ballo più da questi imbronciati perennemente pallidi che da noi, ma serviva un colpo di mano. Come nella fotografia, il bianco e nero stava diventando la coloratura photoshop di scatti mediocri e ripetitivi, dunque ripetitivo anch'esso, e per giunta in un'epoca così istantanea come gli anni zero. E allora un disco come Dei cani, produzione ad hoc di Giulio Ragno Favero, è quello che ci voleva. Dopo due uscite inaspettate e succulente come Hotel Tivoli (2004) e l'omonimo del 2006, fondamentali per capire un innamoramento generazionale, la nostalgia di un passato non vissuto, fors'anche l'esigenza di ritornare ad una dimensione più genuina nel raccontare i rapporti tra le persone – cui ha corrisposto, purtroppo, anche una certa chiusura verso il brutto mondo esterno – il nuovo lavoro dei Non Voglio Che Clara dice una cosa molto semplice. Cioè che meglio di così, per quanto riguarda il recupero di quella stagione fondativa, è assai difficile fare, perché se è vero come ci dice 12 Fabio De Min, leader e mente scrivente dei bellunesi, che la ripresa dei Sessanta è avvenuta perché Tenco e compagnia “sono grandi autori e il paradosso è che contemporaneamente non interessano più ai discografici, al mondo dell’industria musicale, se non per farne qualche stucchevole special televisivo” è altrettanto vero che stucchevole sta diventando l'insistito ricorrere a quelle atmosfere, ultimamente magari rimescolate a qualche ironica pruderia d'oltralpe (che Serge Gainsbourg fortunatamente è anche molto altro) o alle luci da gran varietà del sabato sera. I Non Voglio Che Clara invece hanno fatto quello che prima di loro e insieme a loro avevano fatto in tanti, ovvero far convogliare due alvei in un unico fiume: la tradizione italica da una parte e gli ascolti più o meno giovanili dall'altra, soprattutto quelli d'oltreconfine, ciascuno la propria destinazione quali viaggiatori della provincia ai margini dell'impero musicale poi scopertasi intrisa di parabole importanti. E questa cosa in Dei cani l'hanno fatta ad un livello alto, molto alto, e con deviazioni tanto brevi quanto decisive seppur in un'omogeneità straordinaria. C'è il mood spectoriano in Dei cani, comune a tante recenti uscite e che per La mareggiata del '66 li porterà ad un fin troppo facile accostamento ai Baustelle, paragone che a De Min “sembra un po’ forzato, e del resto si cita Spector, quindi finiamo col riferirci al 'suono spectoriano dei Baustelle' e mi sembra un po’ un non-sense”. Ma ci sono anche gli Smiths e soprattutto i Flaming Lips e Brian Wilson in Secoli, un Morricone quantomai fantasmatico ne Gli anni de l'università e ancora l'elettronica, non tantissima ma determinante in un brano come Il tuo carattere e il mio che per i Clara è ora fregola da approfondire e motivo di ospitate inattese: “Abbiamo cominciato a lavorare con l’elettronica fin da subito ma con un approccio analogico, penso a Tu, la ragazza l’ami? (brano poi non inserito nel disco ma consegnato alla rete come succulento antipasto, ndr) dove utilizzo uno stratagemma per il suono del pianoforte a la maniera di John Cale, o La stagione buona dove suono dei vecchi sintetizzatori e applico i loop su strumenti acustici. E ad un certo punto ci è venuta voglia di coinvolgere Port Royal e Giulio (Favero, ndr) che hanno messo del proprio. Sintetizzatori e samplers compaiono ora anche dal vivo e per un po’ siamo sicuramente intenzionati ad utilizzarli”. Certo, non si fa tutto questo se alla base non c'è la scrittura di canzoni che è retorico ma veritiero definire da brivido, una serie di tracce meritevoli ereditiere dei loro padri putativi, per asciuttezza linguistica, concisione e densità emozionale, in ultimo ma non per ultimo afflato melodico tradizionalista eppure ancora sottocuta- neo: “Quando si è trattato di scegliere i brani da portare in studio mi sono accorto che questi potevano rientrare in un unico corpo narrativo, formando una storia che poi ho frammentato scomponendo la scaletta. La narrazione in prima persona fa pensare ad un diario, così come il fatto di svilupparsi in un arco di tempo definito”. A De Min e compagni potrebbe essere rivolta la stessa accusa di piagnisteo di cui sopra, l'obbligarsi a cantare quasi sempre sottovoce, se però non fossimo di fronte a liriche che hanno la forza universale e al contempo individualista del vero rancore, del vero dolore, della vera (livida) speranza. Ne risulta un profilo di straordinaria coerenza che diventa vera e propria narrazione, il diario di una stagione della vita tra biografismo e invenzione. Un amore che finisce male, molto male, la vita che ricomincia, le colpe che per questioni di educazione e cultura diventano le uniche lenti attraverso cui guardare il mondo mentre il mondo là fuori entra nelle case, nei letti, li invade e li soffoca. «Ma se mi chiederanno / se ti verrò a cercare / io con parole nuove / gli saprò spiegare / che ognuno corre per sé / e che la fatica per riaverti qui / non conta niente / io amo la terra / e ho da correre fino a stancarmi / per dormire bene» . Oppure: «A luglio diedi il cane ad un canile / in cambio di una libertà maggiore / e ad agosto fra botte e sassaiole / per via della rivolta sindacale / restai solo senza cane e lavoro / restai solo con in bocca un gusto amaro». Facile a questo punto capire il significato di una citazione da Garibaldi contenuta nel booklet, ferma nel prendere posizione seppur in toni che dai Clara non ti aspetteresti e sfondo perfetto di una storia che è ambientata nell'oggi sciagurato del nostro Paese (“Non voglio accettare in nessun tempo il ministero odioso, disprezzevole e scellerato di un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell'Italia in particolare”): “Il fatto che Dei cani sia stato pensato, scritto e realizzato in un tempo piuttosto lungo ha fatto si che durante le lavorazioni la mia attenzione si focalizzasse su piani e prospettive di volta in volta diverse, alcune sono finite in primo piano, altre sono rimaste a fare da sfondo alla storia che racconto. Ma il rapporto del protagonista con la società circostante, l’etica e la morale imperanti li ho voluti ricercare in più di un episodio. Riguardo l’espressione in sé, non credo ci sia molto da aggiungere se non sottolinearne la grandissima attualità”. E a questo punto? A parte l'inevitabile e atteso tour, dove l'impianto orchestrale delle canzoni vivrà un'importante verifica (“Fin dalla stesura dei brani abbiamo cercato di porre maggiore attenzione alla loro resa dal vivo di quanto non avessimo fatto in passato“) è già interessante da ora capire cosa saranno i Non Voglio Che Clara da qui in poi. Alcuni segnali, succulenti, ci sono già (l'elettronica, l'apertura al “politico”). Sarà comunque inevitabile da qui in poi staccarsi da un immaginario sonoro che hanno contribuito a recuperare e rivitalizzare, perché il tempo lo richiede e quel rinnovamento della nostra canzone d'autore di cui da anni si va discorrendo anche. Chissà se un giorno vedremo questa prima parte del percorso dei Non Voglio Che Clara come una fase interlocutoria verso un qualcosa di ancora migliore, più personale e dunque ancor più definitivo. Da parte nostra, presa conferma dell'enorme talento, saremo gli ultimi a fare sconti. 13 Tune-In Giancarlo Onorato —Non chiamatelo cantautore— Testo: Fabrizio Zampighi 14 Non ci siamo fatti sfuggire l'occasione di intervistare Giancarlo Onorato, anche alla luce di un Sangue bianco ennesima dimostrazione della classe di un profilo artistico quasi unico L 'opera per il suo autore: Sangue bianco, recita il titolo del quarto disco di Giancarlo Onorato. Tanto per rimarcare che la musica è parto corporeo e sofferto di chi la compone, ma anche entità a sé stante capace di abbandonare i limiti fisici per darsi in pasto. In un dibattere di note e parole a volte descrittivo, a volte – è il caso dell'ultima opera del cantautore milanese – spinto sui crinali di un sentire evocativo e lontano dai facili dualismi da cantautore classico. Ha un che di vagamente oracolare il discorso di Onorato. Lo status di “classico” per un autore che invece classico non si ritiene. Risultato di un approccio alla materia serissimo ma non accademico, in cui si respirano vent'anni di onorata carriera nell'underground musicale e letterario di casa nostra ma anche la voglia di restare umile. Oltre alle esigenze di un profilo poco propenso a farsi catalogare, borderline come sa esserlo chi la propria arte non la delega a nessuno: non ai presenzialismi gratuiti, non ai fuochi fatui delle tendenze, non alle sirene di una notorietà effimera. E pazienza se un disco come il qui presente o magari come il precedente – bellissimo - Falene rimarrà materia per pochi: è il prezzo da pagare per restare liberi di ascoltarsi e di forgiarsi. In una contemporaneità che parla un'altra lingua e da cui magari ci si sente anche un po' fuori, pur con la voglia di non lasciarsi sfuggire occasioni di confronto e di crescita personale. Sono passati cinque anni da Falene, un disco riconosciuto dai più come il punto più alto della tua produzione musicale. In cosa Sangue bianco rappresenta un passo in avanti rispetto a quell'opera? Sangue bianco è principalmente un disco di musica. Un disco in cui anche le parole vogliono essere parte della musica. Questo lo distanzia da tutto quanto io abbia sinora prodotto, per il semplice fatto che non si tratta di un'opera narrativa come era Falene bensì essenzialmente musicale. Le parole di Sangue bianco non sono meno importanti di quelle degli altri miei dischi, ma sono incarnate nelle composizioni e vivono della musica di cui fanno parte. Una simbiosi che non vuole più essere canzone nel senso solito. Io sono al contempo regista e autore della colonna sonora di un'opera la cui visione scorra nella mente di chi ascolti. Cinque studi di registrazione, venticinque musicisti coinvolti e un'attenzione particolare per il suono e gli arrangiamenti. L'idea che ci si fa è quella di aver di fronte un disco importante e su cui si è ampiamente riflettuto. Insomma, un prodotto slegato dalla contemporaneità musicale da fast-food a cui siamo abituati... Il passare del tempo tra una pubblicazione e l'altra è dato dalla necessità di un rapporto intenso con la disciplina musicale, dopo anni di autentico apprendistato. Ci sono alcuni aspetti del mio operato che differiscono profondamente da quello di molti altri autori, uno di questi è l'assoluta indifferenza per le “esigenze di mercato”. Questa posizione, lungi dall'essere una questione di superiorità, risiede in due punti essenziali: il primo è che per pubblicare è necessario avere qualcosa da dire, individuando il modo migliore per dirlo. Ci vuole tempo e lavoro. Molto lavoro. Da ciò consegue il secondo punto: solo con la massima serietà nella produzione si può contribuire a limitare l'esagerato proliferare di musica non esattamente imperdibile di cui soffre il settore. Pubblicare meno dischi ma di più alto valore sarebbe un buon traguardo. Sul tuo sito internet, nelle note allegate all'opera, si legge che la musica contenuta in Sangue bianco “prende del tutto le distanze dalla cosiddetta canzone d'autore”. Eppure tu vieni universalmente riconosciuto come un cantautore. Da dove nasce, dunque, questa contrapposizione? Oltre a non apprezzare il termine, so di essere quanto di più distante vi possa essere in questo paese da un “cantautore”. Lo dimostrano il senso, la direzione e il contenuto delle mie composizioni. E Sangue bianco, per la sua natura intrinsecamente trasgressiva fuori dalle consuetudini, dai modi, dagli stili, funge da ulteriore separatore da quel tipo di identificazione. Il termine “cantautore” è nato per definire una produzione che non ha niente a che vedere col sentire libero da generi e cliché della musica moderna. Molti tra i dischi più potenti, trasgressivi e “rock” della storia sono dischi realizzati voce e chitarra o voce e pianoforte. Talvolta sussurrati. Io cerco la potenza nel rapporto tra la musica e il suo mescolarsi simbiotico con parole che diventano 15 sostanza sonora e significante. Non conosco nessuno che lavori alla mia maniera. Il più delle volte ascolto testi incollati ad una struttura precostituita, scatole di montaggio. La musica per me è un'altra cosa. Probabilmente prima o poi farò opere di sola musica o magari opere di sola parola suonante. Questo Sangue bianco è già un passo verso la colonna sonora delle cose che ci toccano dentro. Oltre ad essere un musicista sei anche un romanziere (Il più dolce delitto, Filosofia dell'aria). Quanto l'emotività immediata che un disco porta con sé può replicare l'immaginario narrativo di un romanzo? E in che maniera l'essere scrittore influenza il lavoro del musicista? La musica può ispirare e influenzare la produzione letteraria, ma credo che non vi sia contatto più di tanto tra le due discipline. Un romanzo, nel migliore dei casi, è un sentimento esteso e meditato; la canzone è qualcosa che vive in un mondo a sé. Tutta la musica si basa su altri fattori. E' il modo in cui ci arriva a renderla altro e tale da non potersi replicare. Cerco di allontanare i due momenti creativi - musica e narrativa - perché pur essendo dimensioni complementari suonerebbe retorico e inutile forzarne il bacio. Tuttavia, siccome il mio immaginario è lo stesso quando scrivo canzoni così come quando affronto un romanzo, accade che ci siano passaggi di significato tra una forma e l'altra. E' anche vero che i miei romanzi non sono storie nel senso ordinario, ma piuttosto una sequenza di momenti interiori. La mia narrativa è psichica, dunque assai più vicina ad una composizione musicale che ad una storia con precisi personaggi e avvenimenti. Si potrebbe dire che nella mia produzione una forma è la continuazione dell'altra. Nella poetica che contraddistingue il tuo immaginario ricopre una grande importanza la materialità dei corpi, la sessualità. Penso al tuo ultimo romanzo, a opere pittoriche autografe come Dio distribuisce e Etica ed estetica – per citarne solo un paio - o ai frequenti riferimenti alla dimensione corporea che si ritrovano nei tuoi testi. Come lo spieghi? Se ciò che ci ha generati non è l'argomento degli argomenti, non ne vedo altri. Io sono un astronauta delle carni, l'universo a portata di mano. In una vecchia intervista ai tempi di Io sono l'angelo parlavi della tua canzone come della “canzone del dubbio”. Che cosa intendevi sottolineare con quella definizione? Probabilmente che l'opera vuole essere un concetto aperto a diverse soluzioni, imprevedibile e anche imprecisa, come la vita. Le cose più belle sono imprecise. 16 Hai all'attivo varie produzioni di altri musicisti. Cito, tra i tanti, l'esordio di Davide Tosches o Tutta la dolcezza ai vermi di Pane. Quanto è difficile per l'Onorato solista – con l'immaginario fortissimo che si porta appresso – scendere a patti con la musica di altri artisti? Meno difficile di quanto possa sembrare dall'esterno. Produrre un altro artista vuol dire capirne la dimensione, visto che il tipo di collaborazione che metto in atto non è mai prettamente tecnica ma soltanto di pura regìa. Io non faccio che entrare il più possibile in sintonia con la persona, preoccupandomi di capire chi è e di far intendere chi sono io. Quali sono le mie ansie, cosa voglio, cosa mi manca. Questo genera lentamente un'apertura e un abbandono delle resistenze da parte di chi collabora con me ed è il modo migliore per entrare in contatto, parlare la stessa lingua. Ma ci sono persone e persone, quindi una produzione artistica è come un percorso di psicoterapia in cui il soggetto è chiamato ad essere fortemente sè stesso con tutti i propri contenuti, buoni e cattivi, Ogni disco produce un nuova situazione con cui fare i conti. Per questo posso permettermi di produrre artisti - purché inclini al confronto – stilisticamente diversissimi tra loro. Stiamo vivendo un momento di riscoperta della canzone d'autore. Nuove leve si affiancano a nomi storici. Pensiamo a 33 Ore, Dente, Baustelle, Amor Fou, Lele Battista, Non voglio che Clara, ma anche l'ultimo Iosonouncane o quel Vasco Brondi de Le luci della centrale elettrica che – volente o nolente – ha segnato col suo Premio Tenco un punto a favore di tale riscoperta, quantomeno catalizzando l'attenzione dei media sulla “scena”. Come coabita con l'attualità uno come te che nell'ambiente circola ormai da vent'anni? Quale giudizio hai maturato su questa “new wave” del cantautorato italiano? Io sono e resterò sempre un neofita. Uno che ogni mattina ricomincia a vivere da capo. Non mi accorgo del tempo che passa perché sono concentrato sui miei traguardi. Ogni tanto, però, esco dalle mie cose e vado incontro agli altri. Ammetto di sentirmi più a mio agio accanto alle nuove leve, piuttosto che in compagnia di chi spernacchia da anni le stesse cose. Inoltre sono chiamato spesso a curare la direzione artistica di eventi in cui gravitano buona parte delle personalità che si distinguono negli anni. Quindi ho condiviso di frequente serate con diversi dei nuovi compagni di settore. Con Vasco Brondi, ad esempio, c'è stato uno scambio molto utile per entrambi e ci siamo piaciuti. La stessa cosa è successa con Beatrice Antolini. In linea generale, più che farne una questione di categoria, direi che sono portato a prestare attenzione a quelle proposte che hanno più coraggio. Più di altri mi convince Samuel Katarro, anche se penso che lui non si ponga il problema del coraggio ma faccia semplicemente ciò che gli viene di fare. Ascoltiamo poco il lavoro altrui e io non voglio più cadere in questo errore. Se c'è un artista che mi incuriosisce, cerco di andare a sentirlo in concerto. Sento il bisogno di mettere la mia mente in contatto con quella degli altri, anche per capire chi sono io. Mi piace chi è innovativo, non chi si crogiola negli errori di chi l'ha preceduto senza alcun senso della storia. Non mi piacciono gli opportunisti, i presenzialisti o quelli che escono con un disco all'anno. Nessuno ha cose interessanti da dire in ogni momento e se non ti fermi a nutrirti di ciò che accade intorno non puoi proseguire nel tuo lavoro. Esprimersi è tutto in questo saper misurare il proprio rapporto col resto del mondo. 17 Bjørn Torske —Norwegian hauntology— Drop Out Precursore space disco, artefice della skrangle house e divulgatore di tutti i verbi post E, infine musicista elettroacustico a raccontarci gli 80 come non li sentirete mai da nessuna altra parte Testo: Edoardo Bridda 18 S i è fatto un gran parlare della stagione ’90 ’92 ultimamente. Con gli Orb, e il loro dignitoso Metallic Spheres in compagnia di David Gilmour per l’ambient house, ma anche per quel Where Were You In ’92, album manifesto di un certo revival ’ardkore ai tempi del wonky. Inoltre si è parlato - e si continua a parlare - di Daniele Baldelli, della riscoperta della cosmic disco e della tribale della Baia degli Angeli, della space disco nordica, la disco music con Hot Chip e Scissor Sisters. Recentemente poi, gente come Francesco Tristano ha dato nuova linfa all’house “suonata” di gente come Claudio Coccoluto e Carl Craig portando studi classici e jazz nei groove e nella cassa in quattro, dentro e fuori la deepness dell’anima. E non dimentichiamo il cavallone glo-fi che ha inondato le orecchie di migliaia con quei ricordi Ottanta che con i primi Novanta, vedi alla voce chill - 808 State e l’ultimo A Guy Called Gerald e compagnia balearica - si sono sposati alla perfezione. Proprio da questi stereo sulla piaggia, bpm rallentati, synth alla salsedine ripartiamo. Fanno parte del DNA di Bjørn Torske la cui storia, dal 1991 in poi, ripercorre praticamente tutti i crocevia indicati, intersecando mode e subculture che in quest’ultimo lustro e più sono ritornate sotto forma di citazione o come pura cornucopia. Torske, originario di Tromsø, presentatore radio fin dal 1987, e dj da allora, è stato il divulgatore, molto prima dei compaesani Röyksopp, di tutto il buzz balearico, chill e synth vintagista di marca nordica, ma anche di tutti i verbi che la rivoluzione E ha portato con 19 sé a partire, appunto, dalla mai dimenticata ambient, passando per l’ardkore che genererà la jungle, la techno ambientale pre e post Biosphere, il revival Ottanta del padrino Per Martinsen/Mental Overdrive e prima la sua techno di marca belga, l’idm ancora detroitiana di LFO e quella classica warp-iana con i Boards Of Canada. Il cuore di Bjorn Torske ha battuto molteplici ritmi: techno, house, disco, dub. Generi che, sposandosi alla cosmica di Daniele Baldelli, hanno creato un nuovo mix in 4/4, la skrangle-house, stile ibrido a base di percussioni di cui il dj è stato capofila, nonché cordone ombelicale, di una seconda generazione di dj producer che a metà Duemila si sono proclamati Space Disco. Parliamo di Prince Thomas, Lindstrøm, ragazzi che devono tanto e forse tutto a questo pallido eroe, lui che oggi è già oltre la dance, oltre Cortina, una strana bestia che negli anni zero si è cimentato in un sound incatalogabile che sa tanto di folktronica e avant folk, neo (neo neo) kraut, post-punk, easy listening, hauntology house, 8 bit, e concretismi oramai spezia fissa del menù. Poche storie. La vicenda musicale di questo appartato ragazzo classe ’71 è un esaltante percorso per comprendere il suono norvegese (e non solo) degli ultimi vent’anni. Precursore e anomalia all’interno di esso, Bjorn è già un pezzo importante di storia, di tante storie dentro e fuori i Club, di generi e stili assorbiti e diffusi. Non di meno, la sua storia s’accompagna a una scenografia/produzione qualitativamente invidiabile, uno di quei film con il lieto fine che è, appunto Kokning, il miglior album del Norvegese fino ad oggi. L’ottimo snodo per le sonorità post-chill a venire nonché l’avamposto con base fissa a Tromsø dove il creativo dj può narrare una perfetta trama retro futurista infilandoci dentro di tutto dal progressive in poi, facendo tappa fissa in quegli Ottanta che videro nascere l’hip hop e quelle fondamentali tecniche di campionamento, frammento e loop. Le radio indipendenti e l ’ambient house La storia di Bjørn Torske inizia molto prima degli album a suo nome. Negli anni ’80, l’allora quattordicenne Bjorn s’appassiona alle radio indipendenti (“ci potevi sentire gli Yello, i Kraftwerk, Art Of Noise ecc.” ci racconta al telefono) e presto inizia ad acquistare album e strani 12’’. Soltanto due anni più tardi, il ragazzo è già protagonista dell’etere, trasmette news e musica e poco più tardi - è il 1988 - assieme ad un amico, registra su nastro a bobine dei mix di due ore che vengono trasmessi ogni sabato in differita. Il programma non è il solo che il giovane Bjørn conduce. La domenica, con Geir Janssen (Biosphere), va in onda un ambient show con una selezione che comprende, tra gli altri, anche gli Orb. Contemporaneamente, Torske e alcuni amici si divertono a re-editare, sempre su nastro, i loro brani techno preferiti. Facevamo un sacco di remix, ricorda appassionato, e mi ero fatto anche prestare dei synth e drum machine così potevamo creare qualcosa di nostro. Quel qualcosa di nuovo sono delle tracce atmosferiche su basi technoidi filiate dagli ascolti che il ragazzo, non appena si sente sicuro, passa al buon Janssen, di qualche anno più vecchio, e già in contatto con alcune etichette discografiche nazionali e straniere. A Bjorn consiglia la SSR, etichetta belga che, dal 1988, produce roba hip-hop ma anche techno e house. Come molti artisti dance, l’allora ventenne si presenta sotto alias pensando già di utilizzarne altri per differenziare la produzione e ottenere così altri 20 contratti discografici. Una pratica comunissima nell’elettronica anche soltanto per sopravvivenza economica e sotto l’alias di Alegria, Bjorn sforna l’ambient house che da mesi stava producendo su nastro. Danger (It’s For Real) è un prezioso contributo a una scena che l’anno successivo, il 1992, compirà la sua parabola, e che ora è caldissima. La traccia suona fresca anche oggi, in equilibrio com’è tra Roland tecnoidi sotto sedativo e una tastiera da sogno ipno, albe e spiaggie desolate. Finirà in una compilation commissionata dalla label belga chiamata T.O.S EP assieme a un’altra, Hipnotize, giocata su breakbeat Ottanta e scimmiotti Orbital sotto il nome di Radikal Buzz. Il moniker, identificava questa volta un lavoro di coppia con l’amico Ole Johan Mjøs, ma questo, come l’altro alias, durano giusto il lasso delle citate incisioni. I smistik . L’emancipazione filo - warp del verbo techno La mossa successiva è un progetto più solido e duraturo. Sempre con Mjøs, Bjorn intaglia groove ibizenchi in ritmi detroitiani, stampo imprescindibile dal quale l’Europa e la scandinavia tutta cercano d’emanciparsi e, ancor prima, di professare. Nascono gli Ismistik che in fatto di motori ritmici sono tanto spartani quanto decisi. La coppia trova immediatamente casa presso la Djax-Up-Beats, una label olandese che ha in mano gente come Terrace, Trance Induction, Board Of Wisdom. E’ un bel colpo per questi ragazzi del Circolo Polare cresciuti sotto l’ala del citato Geir Jennsen (Biosphere) e soprattutto di Per 21 to di emancipazione più interessante dei due però è un altro: l’influenza maggiore - già pienamente assimilata - viene dal catalogo Warp dell’anno precedente. Mentre Martinsen macina riff di piombo, in Feel The Drumbox (Bounce!!) riff e tastiera sono le stesse utilizzate degli LFO e Tricky Disco, bleep’n’bass levigata dalla ditta Torske/Mjøs che al fascino del phuturo trasforma il tocco Biosphere in ambiente chill e sguardo all’orizzonte verso quel sole di mezzanotte per cui Trømso è famosa in tutto il mondo. La seconda prova degli Ismistik si dimostra già un passo oltre. Suono e produzione sono più compatti e l’immaginario ibizenco, piegato su ritmi maggiormente pieni, quadra a dovere: Oasis suona già come un piccolo classico: tribal-house con groove giocato ai filtri sul principio, piccolo assolo di piano e vibrafono e tocco ipnagogico à la Derrick May mezzo e, ciliegina, la tipica nota sospesa che fa orchestra d’archi in provetta. Se non lo avete capito, è tutto ciò di cui si innamorerà il citato Tristano parecchi anni più tardi, e i nostri all’epoca, proprio come lui oggi, sono abilissimi nel guardare oltre il dancefloor in una zona che la gente comincia a riconoscere come IDM, un campo d’azione che va dagli adorati Orbital (che ritornano in Object Code) all’Aphex Twin di Flow Charts passando per i flavour dell’imprescindibile compila brit Artificial Intelligence. R ide Martinsen noto come Mental Overdrive, pioniere assoluto dell’intera scena norvegese, nonché promulgatore dell’ambient (che diventerà chill) a tutto campo che di lì a poco condizionerà tantissimo le sorti della musica del Paese. Prendendo spunto dagli Orb e 808 State, gli zii Geir e Per, con i Biosphere del primo a fare da caparra e garanzia di qualità, e gli Illumination e Chilluminati del secondo a diffondere a macchia d’olio la febbre chill, influenzeranno in maniera decisiva i trend e il business elettronico scandinavo. Si arriverà al punto che in Greetings From Oslo, una compilation edita da Universal nel 2001, troveranno posto praticamente tutti artisti stranieri (Groove Armada, Jazzanova e un giovane Matthew Herbert). Questo disco metterà la parola fine all’epopea commerciale che la chill pre-millennium scandinava aveva coltivato in quegli anni (aprendone un’altra come vedremo più avanti), ma nel 1992, naturalmente, questo futuro ancora non è stato scritto e non è nemmeno prevedibile. Techno e house sono materia pulsante per le passioni e non sono certo affari di palazzo. Bjorn, cresciuto nello stesso negozio di dischi della cittadina frequentato dalla cricca, è infatti nella classica fase d’ortodossia techno dei diciotto/ ventenni che Per, a mo di Aphex Twin locale, cavalca da un paio di anni sotto il nome di Mental Overdrive, con un taglio metallizzato tutto belga (12000 AD e The Second Coming, 1991, 1992). Lui, non a caso, pubblica per la mitologica R&S, mentre Torske e Mjøs, sull’olandese Djax giocano su computazioni 8 bit, smalti etno e progressioni tipicamente house se non quasi italo (Slight Interrupt) sull’eppì d’esordio Bonus Bouncers. L’aspet22 on time . I nizio e fine del futuro dance ‘90 Nel frattempo, e siamo sempre nel fatidico 1992, Torske e Mjøs s’aggregano a Rune Lindbæk e formano due progetti commerciali, anch’essi fuori dallo sguardo degli zii: il primo, Open Skies, si occupa di ’ardkore 100% tagliato per i rave, il secondo, Volcano, parla la lingua dell’house cantata che poco più tardi diventerà standard dance per i club di tutto il mondo con destinazione chiaramente Club. Sono due operazioni molto volatili, specie per un Torske più incline a cercarsi le proprie vie piuttosto che battere quelle degli altri. Del resto, è un periodo veramente magico e troviamo soddisfazioni anche qui, soprattutto con gli Open Skies, autori di due discreti 12’’ Ozone Nights e Deep In Your Eyes pubblicati non a caso sulla prestigiosa Reinforced, l’etichetta dei 4 Hero. Le rispettive title track sono tipici pezzi ’ardkore (battuta jungle, voci in elio, pianola che più italo non si può), roba che Zomby, vi dicevamo, ha cannibalizzato, e che il trio plasma con colori e complicazioni da annali del genere. Soprattutto da queste parti c’è Mellow Flow, un episodio cruciale per capire la provenienza del sound di altre due personalità importantissime della vicenda di Tromso, Svein Berge e Torbjørn Brundtland in arte Röyksopp, due pargoli protetti di Per già da questi anni che il motivetto sintetico di questo brano lo devono aver imparato a dovere dato che nel riascoltarlo oggi ci ritroviamo già un buon 60% del loro marchio di fabbrica. Bravo Bjorn, deus ex machina di tantissime fila del suono scandinavo e meno bravi sicuramente i Volcano, invecchiati male e dediti allora a un’house cantata su tre pubblicazioni (per Olympic, Deconstruction e Exp) dai titoli emblematici Let Your Body Be Free, More To Love e That’s The Way Love Is di cui la seconda diventa una hit negli UK l’anno seguente. Torske, del resto, già nell’ultima di queste pubblicazioni, una cover di Ten City By The Way, con Sam Cartwright al canto, lascia il progetto ai soli Mjøs e Lindbæk e fa benissimo. È un periodo in cui il biondissimo dj sta con il cuore e con la testa da un’altra parte e questo è chiaro fin da 3rd Trace, l’ultimo lascito di Ismistik datato 1993, un anno chiave per le evoluzioni del 23 mondo dance in cui la jungle spicca il volo e la scena inizia rapidamente a frammentarsi in sottogeneri rompendo per sempre il sogno comunitario e unitario - tanto decantato dal coetaneo di Torske, Matthew Herbert. Da lì in poi i ritmi s’accelereranno, i groove s’incupiranno e quello che i raver vivranno sarà un vero e proprio incubo, anche sonicamente. Il sogno s’era infranto e sul modo di interpretarlo forse Torske e Mjøs cominciano divergere: il primo vuole un sound now on (Linked Modules), il secondo preferisce concentrarsi sul cuore ambient, e anzi, spinge dove può sulla narrazione in note (Resynch). Passa un altro anno e gli Ismistik diventano un progetto in solitaria di Torske che, nel frattempo, si è spostato a Bergen ed è pronto a pubblicare un primo album lungo di quella che comincia a diventare una poetica personale, l’arctic techno (come l’hanno chiamata su discogs.com). Remain, questo il titolo dell’ellepì, viene registrato in completo isolamento nell’agosto del 1994 e rappresenta una sintesi tardiva eppure affascinante della prima ondata post-techno europea in bilico tra l’eleganza Derrick May e il calore diffuso house del discepolo di lui Carl Craig, uno che all’house suonata - e alla scena tutta - darà tantissimo. L’aspetto più importante dell’album è comunque un altro: l’aria fredda che lo attraversa è quella norvegese e diventa protagonista di un suo disco di visioni ipnagogiche e psicologie ambient, allunaggi e nevicate. La tracklist, infine, continua le linee tangenti agli LFO più meditativi. Il disco che chiude idealmente il cerchio con la techno merita inoltre un sacrosanto ricollocamento negli archivi. Ismistik terminerà qui. The B ergen buzz . Il (Smoke Detector Song) - momenti lounge e da spy movie (Lumb fu) e ancora, la migliore sci-fi di casa Warp (Eight Years). Il filo conduttore sembra un’estasi cosmica da E ingoiati in campagna, lontano da tutto e tutti e la cover dell’album, con Bjorn barbuto e tra i cespugli di uno scatto virato sepia, a sintetizzarne perfettamente il mood. Del resto, il biennio 1998-2000 è un periodo irripetibile per Bergen e il nuovo Bjorn: i seguenti singoli sono bombe per la nu disco Norvegese che nel frattempo cresce a dismisura facendo quadrato attorno alla Tellé il cui primo singolo è anche un emblematico ritratto di famiglia. In Disco / Song For Annie è Torkse, Erot e The Mundal Explosion ovvero Anders Moe e lo stesso Torske, mentre l’anno seguente il singolo So Easy, è il prodromo della super bomba che saranno i Röyksopp. Nel frattempo, Bjorn studia da vicino le produzioni di Daniele Baldelli, una lezione fondamentale per comprendere tutta la nuova dance norvegese e il singolo Sexy Disco ne è una testimonianza inconfutabile: il dj taglia un’ottima funk house a basso bpm che, se da un lato, filtra sui bassi come da scuola Daft, dall’altro richiama massicce dosi di cosmic disco e tribale da Baia degli Angeli. L’era della disco non ha mai smesso da parte mia. Si è soltanto trasformata in differenti generi di club music. Se ascolti la musica degli ultimi vent’anni e la paragoni ai quella dei 70s ti accorgi che è la stessa formula, soltanto divisa in numerosi frammenti…. …Vedo la scena norvegese come una parte giovane e vitale delle sonorità euro disco, specie se osservata da un angolo molto Giorgio Moroder-esco. (Family-house.net, 2007) sogno norvegese Trasferitosi nel piovoso capoluogo universitario di Bergen, cittadina alle porte di una rivoluzione di cui ancora non sa (e tanto meno conosce la portata), Bjorn è pronto a rifarsi una vita. La città brulica di talenti, energie e delle perfette sinergie. Una di queste s’attiverà portando in town Torbjørn e Svein, nel frattempo diventati Röyksopp, l’altra conoscere Andreas Kroknes ovvero Erot, un attivissimo dj, e la sua ragazza Annie, nonché un giovane, Mikal Telle, che sta già pensando di aprire un negozio di dischi/label, proprio come aveva fatto a suo tempo la Warp al FON di Sheffield. Passano altri due anni e il producer sfoga gli ultimi pruriti del passato unendosi a Per Martinsen in un progetto ambient-techno: Anon (2), la cui Moods compare nella pregevole compila Arctic Circles: A Selection Of Sub Zero Soundscapes. E’ l’ultima parentesi. Bjorn Torske debutterà ufficialmente come se stesso l’anno seguente e il 1998, sarà anche, oltre che il suo, l’anno della Tellé, l’etichetta chiave per lo sviluppo della scena dance norvegese. Sotto la label inoltre esce l’ottimo Nedi Myra: un lavoro che ha un altro passo rispetto a quanto fatto fin’ora, immerge il pallido sound scifi del passato in un’africa di percussioni e ritmi funk. Dall’ambient house degli Alegria, il dj punta a un mix di synth ghiaccio e caldi Korg, percussioni etno e cassa non sempre in quattro. Soprattutto meticcia un mix parecchio suonato e 70s che è poi anche il suono now on degli illuminati della scena su FBU Recollection in Rare Altitude, necessaria compila con Erot, Mental Overdrive e altri. Ricordiamolo, il 1998 è anche l’anno di Music Sounds Better With You. Si tagliano funk ’70 à la Daft Punk, o meglio Stardust (Expresso), si mescolano breakbeat firmati Boards Of Canada - ma anche Röyksopp prossimi venturi 24 25 S krangle - house La calda febbre disco delle produzioni di Bjorn e Erot contagia non solo Bergen ma l’intera Norvegia. A Oslo nella venue Skansen, animata dal giro The Idjut Boys, nasce il termine “skrangle-house” che viene presto affibbiato alla magica coppia che risponde con singoli come Søppelmann, Aerosoles (sulla svedese Svek) e Disco Members (su Tellé) che saranno le hit del movimento e la base per la next generation di producer space disco scandinavi. La Skrangle house è una specie di inside joke, ammette Torske a The Wire. Si riferisce a tutti quei suoni sciolti e vellutati della nu disco. E’ house music composta quasi come se fosse stata fatta nei 70s. Per me è una versione più dub e unicamente strumentale dei suoni della disco sommersa di quel periodo rivitalizzata attraverso strumenti moderni… […] Più che cosmica è spaced-out e emerge dall’incrocio di generi funk, jazz e rock che il progressive introdusse negli anni Settanta, anche se forse tutto potrebbe essere iniziato con la nascita della Roland Space Echo… (Family-house.net, 2007) E la skrangle diventa quindi il sommerso/emerso delle star norvegesi del mainstream europeo. E’ il 2001, l’anno di tanti cambiamenti belli (e dolorosi). Melody A.M. dei Röyksopp e Quiet Is the New Loud dei Kings Of Convenience fanno due botti contemporaneamente: uno perché è il riassunto di quanto vi abbiamo detto finora sotto la chiave del pop; l’altro per il cosiddetto NAM, il New Acoustic Movement, etichetta inventata dalla stampa per raggruppare le nuove voglie folk del sottobosco europeo. Sono esplosioni fragorose. Ed è pure l’anno della scoperta da parte della stampa estera specializzata della Smallsound supersound di Oslo, dei lavori di Kim Hiorthøy, e del lutto improvviso di Erot per un difetto al cuore congenito. Se ascoltate Haribo di Erot nella compila FBU capirete perché quella morte traccia inevitabilmente per tutti i protagonisti della scena una demarcazione definitiva. Il segno che le cose non potranno più essere le stesse. Il secondo grande spartiacque di questa storia. La lo - fi disco, concretamente 80 s Trøbbel (Tellé 2001) è il post per Bjorn, la sua risposta come autore, un mondo nuovo. Il disco dell’oltre Bergen. E’ il primo album ad utilizzare field recording come pure quello che preconizza il ritorno degli anni Ottanta. Per la prima volta, il ragazzo di Trømso inizia a navigare in una terra di nessuno, a fare quello che gli pare e nel farlo procedere in linea parallela con la nascente scena folktronica di Books, Four Tet e non ultimo l’amico Hiorthøy, personaggio che lo influenzerà sempre di più nel corso degli anni proprio per la microfonazione del frammento sonoro e per quel modo nordico leggi riverberato - di utilizzarlo. Trøbbel è il primo lavoro di una mentalità nuova e rappresenta l’inizio di lavori apparentemente svagati e easy listening, in realtà mossi da jam improvvisate e lunghi lavori in studio dove l’house è cucinata in casa (Brus) ed è soltanto una piccola parte della proposta. La mentalità laboratoriale e imprevedibile che sottende Bjorn ora prevede già da ora paiette e leggerezza ’80 come l’abbiamo intesa negli ultimi quattro anni (Don’t Push Me), certo post-punk elettronico trattato con il consueto sguardo felpato (Hard Trafikk), bassi dub e levare reggae/dance hall (Bobla) nonché giochetti in bassa fedeltà (la techno sotto formalina di Knas e Knekkebrød che fanno molto Mille Plateaux). Non ho studiato - ci dice - e creare musica è per me come scolpire suoni oppure 26 come farsi un piatto di pasta. La mia preferita sono le penne all’arrabbiata. Fai il soffritto, metti il sugo, aggiungi le spezie e mescoli. Allo stesso modo una mia traccia nasce da un ritmo, dai claps, oppure da qualche suono catturato strutturato in loop a cui aggiungo un sacco di delay… I l gap e la seconda L a space disco ondata cosmica norvegese . In pratica, quella dell’album è una tracklist in sintonia con la Smalltown Supersound, l’etichetta per la quale l’amico Kim disegna anche le copertine (quella di Kokning è sua) e dove Bjorn si accaserà sei anni dopo. Il motivo del gap, il biondo, stando a quanto ci ha raccontato al telefono, lo attribuisce alla quasi banca rotta di Tellé, ma è molto più probabile che ci sia dell’altro che non è dato sapere. La pausa di riflessione è tuttavia soltanto a livello compositivo. Bjorn infatti compare in un’ottima compila come dj curator. L’album s’intitola senza troppa fantasia Nordic Chill ed esce per la serie World di Dj Magazine e, oltre ai consueti tocchi cosmic, troviamo un interessante e piuttosto inedito taglio black (percussioni scure, hip hop) che Torske ama fin dagli Ottanta. Ottanta vissuti veramente e a tutto campo i suoi, la cui riscoperta sta diventando la base per un giovane Prins Thomas le cui tracce qui presenti sono tra le prime da lui composte. Bjorn è stato il primo talent scout della nuova, autoproclamata, scena space disco che avrà in Lindstrøm, lo stesso Thomas, Todd Terje e Fenomenon il proprio epicentro. E basta sentirli quei dischi, quell’onda di felpata dance è senz’altro figlia di Torske e si farà conoscere e riconoscere a livello internazionale molto di più di quanto lui ed Erot erano riusciti a fare con la skrangle. Nel 2005, i producer Space Disco sforneranno una compila manifesto Prima Norsk 3 - The Space Disco Edition e un primo long playing firmato dagli autori della situazione Lindstrøm e Prins Thomas con il primo, su un piano propriamente dancefloor, a diventare il più richiesto remixer del biennio 2005-2006 - M.A.N.D.Y. (I Feel Space, 2005 su Body Language Vol.1), LCD Soundsystem (Tribulations, 12” su DFA, 2005) e Franz Ferdinand (I’m Your Villain 12” su Domino, 2006). In quel biennio Bjorn è assente, pubblica un 12” con Crystal Bois, As’besto (Sex Tags Mania, 2006) ma è praticamente introvabile e una dichiarazione di Prins Thomas apparsa su Fact Magazine in quel periodo riassume come meglio non si potrebbe la situazione: “Se potessi cavarlo fuori dalla caverna per un secondo, non ci penserei due volte a fargli pubblicare della nuova musica”. H omebaked house Smalltown Supersound ha sempre avuto a cuore i talenti del suo Paese e offre un contratto a Bjorn nel 2006. L’agognato seguito di Trøbbel, Feil Knapp, esce l’anno seguente e quel trentenne che ha mancato di proposito l’intercity della space disco continua da dove lo abbiamo lasciato, da un percorso personale fuori dalle mode e dagli schemi, eppure così tangente ad essi; con un sound che tende ancor più alla soundtrack immaginaria di Eno-iana memoria, ma invece di cercare la catarsi si fa collettivo. L’opener del disco, Hemmeling Orkester, è pura glassa all’ananas (Synphonie) tra Kraftwerk e Michael Rother, lo stesso terreno in cui Be Invisible Now, Jonas Reinhardt e Expo ’70 si muoveranno di lì a poco, lo stesso 27 krautismo virato cosmic parente di quell’altro che così tanto ha ispirato la cricca DFA a inizio Duemila, quella stessa mentalità che Bjorn è pronto a non trasformare in ortodossia. Quando compongo spesso immagino dei personaggi immaginari di una band suonare gli strumenti, e di ognuno creo le personalità a seconda degli strumenti che utilizzano. Può suonare un po’ schizofrenico, ma penso sia una buona idea per la dinamica della composizione. Essere soli nel processo creativo è limitante, spesso mi rende cieco su quello che vorrei invece realizzare (The Wire #321). Come nel precedente lavoro, la tracklist è varia come non mai, spazia avanti e indietro negli archivi della memoria, soprattutto ci si respira maggiore organicità e spettro strumentale più variegato. Bjorn suona tutto da solo ma si fa anche aiutare da alcuni amici come i Kaptein Kaliber (John Hegre, David Aasheim) e Jørgen Træen (ovvero Sir Dupermann, Toy). E’ come ‘aspetta un attimo sto registrando…’ e poi loro bussano di nuovo dicendomi ‘ho portato un banjo posso unirmi?’ e io ‘ma certo!’ Lo spirito rilassato da comune hippie di flat mates è evidente negli amati tagli dub di due tracce dal sapore hauntologico: la prima ironica e basata su un videogame per Commodore 64 (Spelunker), l’altra ancor meglio - veramente eccellente - nel mescolare umori Ghost Town marca Specials sciogliendoli in un motivetto soundtrack nostrano, piano, tromba, pizzichi di corde e oculatissimi riverberi lunari (Kapteinens Skjegg). Grace Jones fondeva dub e disco come pochi negli Ottanta, ci dice Bjørn senza remore. E lo scivolo spaziale? C’è ancora, ma è subliminale: Hatten Passer, sotto una struttura Roland pop à la Inner City, nasconde l’exotica spaced out di Piero Umiliani immersa in calde, concrete, percussioni post-Can. In questa traccia, in particolare, degno di nota è pure l’elemento kitsch, un liet motiv per fischiettio da boyscout parente dei recuperi che Luke Vibert sta (ri)riportando alla ribalta nella scena elettronica proprio nello stesso periodo. Poi c’è tutta la corrente summery e post-lounge novanta: Loe Bar, è pre-glo a tutti gli effetti (ma perché è ambient house 92), Moliekalas, assaggia tropicalismi che diresti Vampire Weekend, God Kveld, si muove tra disco music e svago eighties, Fembussen Hjem punta ancora sui sixties italiani. Feil Knapp non è un album elettronico, sono soltanto due le tracce che suonano tali e a ben vedere sono costruite su campionamenti e loop riconducibili alla folktronica (Tur I Maskinparken e Orkenrotta) o al sound di Toy, il progetto dell’amico Træen. E’ sicuramente un album di vintagismo tasti eristico, ma non è un’operazione citazionista come se ne sono viste tante nei ’00, compresa l’ultima, deludente, fase di Mental Overdrive di Per Martinsen. E’ hauntology e lo sarà sempre più. H aunted quale l’elemento acustico e il suo riverbero diventano fondanti, dove c’è, se vogliamo, più chitarra e l’essenzialità rappresenta il vero valore. Più che negli album sono legato al suono dei 12’’ e dei vinili. Penso sempre a come potrebbe suonare quello che sto facendo su vinile e Kokning è stato pensato su quattro lati di musica, dunque da due 12’’. Dietro la calzantissima metafora del titolo dell’album - Kokning significa cucinarsi il pesce appena pescato, ovvero farsi le cose da sé, slow food a proprio modo - Bjorn ancora una volta è oltre se stesso, dentro il passato, proiettato in un mondo parallelo che l’etichetta discografica si diverte a catalogare come una versione disco di Moondog (il compositore-barbone cieco che fa capolino negli intarsi della traccia finale Furu). Ugualmente si potrebbe osservare l’album dall’angolazione hauntologica riferendola però all’house, una modalità di rivivere il passato che ci rimanda anche al lavoro di Ariel Pink sempre nell’epoca Reagan. Oppure come una narrazione tangente a certe eteree autorialità wave tipo Durutti Column. Del resto, Torske ora è ancor più libero di pensare a sé, sicuro che le persone che contano si sono accorte di lui. Sunburned Hand of the Man, Crimea X, Big Robot gli chiedono remix. Lindstrøm pure e lo tratta come un maestro. La sua musica è cercata per installazioni sonore e lui stesso si cimenta con una band per suonare dal vivo e non più soltanto come dj. Bjorn Torkse è un patrimonio indispensabile per chi ama la musica di confine. Quella che non cerca clamori. Che si presentata in spoglie casual per scremare gli avventori e non pensa di farti vedere una luna che, a ben vedere, da lassù si vede eccome. graffitti L’aspetto più affascinante di Bjørn Torske è il lavoro di sintesi, quel distillare fascinazioni in maniera apparentemente svagata che da soundtrack finiscono per diventare narrazione post-moderna, in pratica folk. Un unico linguaggio dove tutti i nati a partire dai Settanta possono sentirsi a casa, tanto al Nord quanto a al Sud del mondo, come fu per il rock per i loro padri. Un mondo ascritto e vissuto fin dalla nascita di suoni analogici e primi videogame. Il lavoro di ripresa delle sonorità con cui lo stesso Torske è cresciuto sublima nel recente Kokning, album registrato in un seminterrato senza finestre nel 28 29 Coldcut —We Love Ninja Tune— Drop Out Venti candeline da spegnere sulla torta per i Coldcut, fondatori e PR della bisnonna del panorama underground-electro-hop UK Testo: Marco Braggion T empo di anniversari, tempo di compleanno ventennale in casa Ninja Tune. L’etichetta simbolo del downtempo e dell’hip-hop underground britannico da mesi posta e-mail con link a dischi, EP, singoli e paraphernalia per i fan più incalliti, ma anche solo per i curiosi dell’ultima ora. In più, da qualche mese circola un box commemorativo che non guarda al passato con inutili ristampe e lacrimucce di coccodrillo e fa il punto della situazione now, presentando i nomi più innovativi della scena. Sdoganata dal suo passato chill-out, la Ninja con la Warp (che guardacaso proprio l’anno scorso ha celebrato pure il suo ventennale) rimane uno dei punti di riferimento per l’underground britannico che innova sul continuum del bbreaking. Sia esso hip-hop, mesh, electro o techno. Abbiamo inseguito i Coldcut - fondatori e padri nobili dell’etichetta - per un mese. Tra ritardi, misunderstandings e contrattempi, siamo riusciti a sentire via telefono Matt Black (che divide la paternità della label con Jonathan More) solo qualche giorno fa. Partiamo con l’intervista fiume in esclusiva... Mi piacerebbe partire dall’inizio. Ho letto che il nome Ninja è stato inventato durante un tour in Giappone. E' vero? Sì. Era il 1990. Eravamo in tour con Norman Cook, 30 31 che sarebbe diventato di lì a poco Fatboy Slim. In Giappone è stato uno shock per noi: abbiamo raccolto input e con il tour ci siamo fatti molta esperienza. Una sera abbiamo visto alla TV un film di serie B pieno di stereotipi sui ninja. Non capivamo nulla, guardavamo solo le immagini e ascoltavamo la musica. Poi abbiamo visto i ninja anche su una rivista, così io e John abbiamo pensato di utilizzarlo come personaggio e simbolo. In seguito ci ha dato l’ispirazione per iniziare con la label. Mr Scruff Com’era lavorare in quegli anni? Era più difficile o più facile di oggi? Ci si divertiva di più? È una domanda impossibile (ride)! In qualche modo era più facile quando eravamo ragazzi. D’altra parte va bene anche essere adulti. Penso che nella mia vita le cose si siano sistemate per il meglio quando sono cresciuto... In quei giorni la vita era più facile. Quando abbiamo iniziato a fare dischi come Coldcut non avevamo tastiere o computers. Avevamo solo un mixer, due piatti, dei vecchi vinili e un registratore a cassette. Quello era l’approccio minimalista dell’inizio degli anni Novanta. Sì, ma già a quel tempo facevate anche dei bei video. Era strano fare dei video basandosi sul break dell’hip-hop e sui pezzi di turntablizm (penso al classico video con gli insetti di Natural Rhythm). Perché avete iniziato a produrre clip? ©emma gutterdige Era un settore nuovo ed eccitante per sperimentare. Abbiamo capito da subito che potevamo utilizzare le stesse tecniche che usavamo per creare i suoni e applicarle al video. L’esperimento era tutto lì: vedere quello che succedeva qualdo campionavi spezzoni televisivi, quando mettevi in loop pezzi di video, quando li processavi e ci mettevi degli effetti. Quando mettevi più piani uno sopra l’altro, quando facevi il mix di diversi video in multilayer e quando poi alla fine ci mettevi il suono. Credo che potesse essere definito come hip-hop visivo. Una delle cose che ci faceva andare avanti era appunto provare nuove soluzioni, sperimentare con nuovi media. Tutti quei video sono stati fatti con un computer Amiga, che era l’unica macchina a quel tempo che ti permetteva di giocare con i video sul desktop. Io avevo un background informatico: negli anni Ottanta lavora- vo come sistemista di computer graphics e ho programmato anche dei semplici videogiochi. Il video di Atomic Dog di George Clinton in questo senso mi ha influenzato molto, perché mescolava riprese dal vivo con la grafica dei computer, ma non erano effetti speciali super costosi, erano grafiche che sembravano venir fuori da un gioco elettronico (la traccia sarà alla base anche del successo gangsta di Snoop Doggy Dogg Doggystyle, una hit anni Novanta per chi è cresciuto con l’hiphop americano sparato in cuffia. ndSA). Mi piaceva molto l’idea di poter produrre i video con un personal computer casalingo. The Bug @ Ninja Tune XX ©emma catlady Avete sempre avuto anche un approccio alle grafiche eccellente. Non solo per i video, ma anche per il packaging dei vinili e dei CD (ad esempio le grafiche nei dischi di Amon Tobin o nello stesso Box commemorativo). Pensi che per promuovere la musica è importante anche curare la parte grafica? 32 Penso che sia fondamentale. La copertina del vinile è come una tela, grande abbastanza per disegnarci delle visuals. Anche se ora è cambiato tutto con il CD e il downloading, noi veniamo da quel periodo, quando la copertina e anche la stessa label erano delle superfici con cui potevi giocare per esprimere la parte visuale. Molti degli artisti che ci piacevano avevano un’identità forte. Penso in particolare alla On-U Sound, l’etichetta di Adrian Sherwood (il leggendario produttore dub inglese, ndSA) che aveva un fortissimo look grafico in bianco e nero e un forte appealing per i collezionisti, con tutte quelle edizioni limitate di singoli dubplate. La On-U Sound è stata un precursore della Ninja Tune per quanto riguarda il suo stile e identità. Io e John avevamo entrambi un passato come visual artists, è stato naturale combinare questo con la musica. Gran parte del successo della Ninja Tune l’abbiamo ottenuto promuovendo un’identità visuale forte. All’inizio uno dei miei migliori amici del college, Mark Porter ha disegnato i font della Ninja, poi Strictly 33 Kev (aka DJ Food) negli ultimi 15 anni ha curato l’immagine della nostra etichetta. Lui ci ha dato la direzione e la visione per la grafica dello stesso ninja, che è mutata negli anni in diverse forme e stili. Dj Food @ Ninja Tune XX Sono d’accordo. Guardare al futuro è più bello e divertente. Naturalmente siamo ancora orgogliosi del nostro passato. Di artisti come Amon Tobin e Cinematic Orchestra oggi puoi vedere ad esempio l’evoluzione della loro proposta. Ci siamo esaltati per la new wave di suoni elettronici inglesi di gente come Dorian Concept, Flying Lotus, Floating Points, Zomby (4 dei miei preferiti). Vogliamo promuoverli, appoggiarli e creare associazioni con altri artisti. La Ninja è sempre stata una label che ha guardato al futuro e si è presa i suoi rischi. Ha supportato suoni nuovi, rudi, non raffinati, inesperti, alternativi e undergound. Penso che il Box sia una delle migliori compilation che la Ninja abbia mai pubblicato fino ad oggi. Siamo riusciti a prendere al volo questa nuova onda di brutalità che combina bellezza e asprezza: un approccio nuovo, utile e popolare. Personalmente mi piace qualsiasi cosa di questi nuovi suoni, basta che non diventi una formula. Lo scorso weekend sono andato a suonare a un festival in Polonia; parlavo con una ragazza e mi diceva che ascolta molto funk. Mi sono sorpreso, perché ho pensato che quella musica è così distante dal mio mondo. Quello che conta è che è stata fatta da gente nera. In questo senso anche noi paghiamo un grosso contributo all’eredità della black music. Sono diventato un maniaco di quelle sonorità quando ero studente. Era qualcosa in cui mi ritrovavo: la soulfulness. la ribellione, la bravura tecnica, e i sentimenti che che sono espressi dalla musica soul funk e reggae. Ninja Tune e Coldcut non potrebbero esistere senza quelle musiche. Poco tempo fa abbiamo intervistato Andreya Triana. Lei è una delle promesse della vostra label e ci piace il modo in cui connette il soul alle nuove sonorità dubstep (il remix di Mount Kimbie per A Town Called Obsolete) o wonky. Ti piacciono il dubstep o il wonky? Sì sì mi piacciono molto entrambi. Per me non sono stili che si escludono l’uno con l’altro. Non sono qualcosa di limitato: dipendono molto dai loro riferimenti, così un album può essere techno dubstep reggae; è possibile combinarli, dato che sono strettamente correlati l’uno con l’altro. Non mi fanno paura tutte queste tag, non sono limitanti. Il dubstep è stato eccitante negli ultimi anni: quel suono ‘wah wah wah’ è già diventato una formula, probabilmente verrà riciclato e riusandolo verrà reinventato ancora una volta come tutti gli altri geni. Penso che i generi subiscano un’evoluzione genetica, che comprende sopravvivenza e mutazioni. Anche per il wonk è così. Il dubstep è una reazione alla musica house, mentre il wonk è una reazione all’hip-hop: entrambi usano heavy bass e produzioni massive, più libertà nella costruzione del suono e del ritmo in particolare. Quello che fa Flying Lotus con i beats una volta pensavamo fosse troppo fuori di testa. Oggi niente è troppo fuori di testa per non essere considerato musicale. Il dubstep e il wonk hanno portato un po’ di apertura verso la sperimentazione. Tutto ciò si mette in relazione anche con Andreya Triana: quando riesce a mettere sullo stesso piano umano e macchinico. La musica elettronica astratta e strana può essere sterile, ma quando ci aggiungi la voce - che è il primo strumento - e le parole, 34 ©emma catlady Parliamo un po’ del box per l’anniversario. Mi è piaciuto molto, perché non mi sembra che sia tanto una celebrazione delle glorie passate, quanto una cosa che punta al futuro. Avete inserito una valanga di nuovi artisti come Zomby, remix di nuove persone che stanno emergendo dalla nuova scuola elettronica UK. State spingendo i limiti dell’hip-hop e dell’elettronica? allora porti la tutto su un altro livello. Mi hai detto che ti piace Zomby. Il suo approccio ricorda anche la scena rave dei primi Novanta inglesi. Negli anni Novanta andavate ai raves? Te lo chiedo perché il critico musicale Simon Reynolds dice che voi eravate la risposta chill-out alla generazione rave che si strafaceva di ecstasy. È vero? Puoi vedere l’intera storia della Ninja Tune come una guerra alla house music. Quando la gente ha iniziato a parlare di super clubs e ‘super star DJs’ la musica che seguiva questi slogan era tipo Mc Don’s . Mi spiego: se voglio mangiare bene non vado da Mc Donald’s e se voglio buona musica non vado da Mc Don’s, perché quello che mi darà sarà merce industrializzata, una versione debole della ‘real thing’. Allo stesso modo noi ci siamo ribellati. La musica house è una grande forza piena di potere e io la amo ancor oggi, come amo James Brown. Sono diventato allergico però al pagckaging con cui la confezionano. Ho sempre preferito la chill out room alla main room, perché mi piace parlare con la gente, mi piace prendere una tazza di chai, farmi una canna, guardare la gente e sedermi, guardare i video. È un ambiente in cui mi trovo meglio. Quando vado nella main room e ballo, dopo un po’ mi annoio se è sempre “dum dum dum”. Ninja Tune si ribella a quella ripetizione e mette in discussione la monocultura nell’intrattenimento musicale. Facciamo una resistenza come l’Underground Resistance di Detroit che si oppone al mainstream. Considero la Ninja come un’alternativa al mainstream. Non siamo separati dal mercato, siamo anche noi parte del tutto, ma è bene sapere che ci sono buone alternative. L’anno scorso la Warp ha fatto il ventennale. Quest’anno tocca a voi. Penso che siate le due etichette più importanti dell’underground elettronico inglese. Nei Novanta, Warp ha preso la strada dell'IDM, voi 35 quella del chill ambience. Nel Box c’è pure un remix degli Autechre. C’è qualche connessione con i ragazzi di Sheffield? Ho descritto la Warp come ‘la sorella cattiva’ della Ninja. Noi amiamo la Warp, e pensiamo che queste due etichette siano i due attori principali nella scena elettronica inglese. Mi piacciono molto gli Autechre, e li conosco di persona. La scena non è poi così grande, bene o male ci conosciamo tutti, quindi è facile passare da un universo all’altro. Un altro artista che conosco personalmente è Aphex Twin. Gli ho venduto dei sintetizzatori qualche anno fa. L’ho visto da poco a un party con Stictly Kev e Mixmaster Morris. Alla fine ci troviamo negli stessi posti con la stessa gente ed è bello condividere quei momenti insieme. Oltre a ciò, c’è anche un po’ di competizione. La Ninja non ha mai fatto il successo della Warp, ci prendiamo meno sul serio. Se fai un confronto tra i due ventennali, penso che noi siamo riusciti però ad organizzare i party più belli. Stiamo guardando al futuro in modo sexy, rude e forte come la Warp: entrambe le etichette stanno facendo musica nuova, quindi la competizione ci sta. Una sorta di amore/odio salutare. Cosa stai ascoltando adesso? Low Limit sulla Numbers di Glasgow, Teebs su Brainfeeder (la label di Flying Lotus), e la traccia dei Detroit Grand PuBahs Sandwiches. Verrete in Italia come Coldcut o come Ninja Tune? L’Italia non è mai stata un grande terriorio per la Ninja. Penso sia un peccato perché amiamo l’Italia. Le donne sono bellissime, il cibo è ottimo e sappiamo che c’è molta gente che ascolta musica. Mandateci degli inviti, comprate la nostra musica e verremo di sicuro! Roots Manuva @ Ninja Tune XX Ninja Pills 10 (+1) dischi imperdibili dal catalogo dei guerrieri del break Bogus Order - Zen Brakes Vol. 1 (1990) L’inizio di tutto. Dopo essere stati in tour in Giappone ed aver pubblicato alcuni remix in white label, i futuri Coldcut fanno uscire un vinile a nome Bogus Order. Parte così l’avventura immersa nel breakbeat UK, vicina alle sperimentazioni da club in ossessione electro ma aperta ad esperienze su altri pianeti. Molti cuts non sono ancora orientati verso il chill-out che caratterizzerà il suono Ninja degli anni Novanta. Qui si possono invece respirare venti tribali (Zen In Africa), sonorità da visionari in acido (il mito Goa in One More Summer Of Zen) e uptempo reggae che ci saluta con il sorriso dei tramonti ibizenchi (Granny Zen). Un miscuglio che oggi sembra una polaroid adolescenziale, scattata in velocità, senza troppo preoccuparsi della definizione dell’immagine. Il big bang da cui attingere in seguito è tutto in questi scazzatissimi 27 minuti. Keep it going, guys! DJ Food - Jazz Brakes Vol. 1 (1990) Primo di una lunga serie di album (arriverà fino al quinto volume) costruiti apposta per i DJ e i maniaci del turntablizm. DJ Food sfoggia loop sciccosissimi, grondanti funkytudine e fascino acid-jazz: sonorità che in quegli anni avrebbero portato al successo internazionale di meteore del calibro di Incognito e US Tree. In Inghilterra la Ninja apre una stagione per chi non si riconosce più nell’ecstasy e guarda con ammirazione alla difficile arte del mescolare i dischi sballando più comodamente con la beneamata cannabis. DJ Shadow, la scuola illbient americana, il ritorno di fiamma del downtempo di Thievery Corporation e centinaia di altri illustri sconosciuti si sono fatti i calli nel mixare le tracce strumentali del progetto Food (l’artista non è infatti un singolo uomo, bensì incarna le anime dei Coldcut prima, di Patrick Carpenter e di Strictly Kev poi). Più che un disco, una palestra e una fonte inesauribile di tattiche ritmiche (Beats & Pieces, appunto resterà il motto dei Coldcut). L’ortodossia dei nerd parte anche da qui. Up, Bustle and Out - The Breeze Was Mellow (As The Guns Cooled In The Cellar) (1994) Le prime incursioni nei suoni world le sperimentano DJ Ein, Rupert Mould, Senor Cuffy e Dave Cridge. Il loro è un jazz influenzato dall’atmosfera che circolava nei locali più cool dei Novanta, cioè quel gusto finto chic tramutato senza volere in kitsch modaiolo ed effimero, le atmosfere da clubbino indipendente con il bravo DJ che mette la musica per pochi adepti. Per la prima volta in casa Ninja (anche se solo sussurrando rispetto agli altri album) gli UBO sembrano essere una nota fuori dal coro, e invece portano tra le altre cose il primo pezzo tratto dal canone cubano che con il passare del tempo evolverà in una scoperta a tutto tondo di sonorità inesplorate, preferendo sempre e comunque il catalogo di ritmi sudamericani. Ancora oggi (proprio quest’anno è uscito il loro undicesimo album Soliloquy) Ein e Mould non appendono gli strumenti al chiodo. La loro proposta è la prima sfida off che la Ninja propone ai suoi fan. Uscendo dai binari monomaniacali della street culture. Ethnohop come ulteriore ago della bussola. Funki Porcini - Hed Phone Sex (1995) Il primo grossissimo colpo al cuore. Un disco che scardina gli argini del dub e che promette mondi di puro godimento sonico. Funki Porcini è James Braddell, il re del downtempo. Con questo disco porta il dub nello studio, lo pulisce, lo fa suo e scatena una cosa che non si sentirà più. Perché il dub a seguire sarà magari più minimale, più sporco, più contaminato, più techno, ma non così intimo: il suono di quest’uomo - che non ama apparire in pubblico e che ancor oggi manda in giro per gli uffici stampa una sua foto in bianco e nero degli anni Novanta - è una cosa unica, che in quell’anno travolge e fa proseliti, consegnando alla Ninja (grazie alla hit King Ashabanapal, edita anche in un singolo a parte) un piccolo grande classico. James tenterà poi di cambiare strada (con il caos break-junglistico di Love, Pussycats & Carwrecks) o di ricostruire il capolavoro (con l’onirico Fast Asleep), ma l’ironia e la precisione sonica del würstel bruciacchiato in copertina saranno impossibili da bissare. Over the top. 36 37 Amon Tobin - Bricolage (1997) Jaga Jazzist - A Livingroom Hush (2002) Il visionario che viene dal Brasile e per questo inserisce delle patch di suoni caldi nel continuum inglese. Ma non è il solito downtempista da strapazzo. Amon Tobin piazza delle bordate break che da qui in poi esploderanno in visioni sempre più arzigogolate, ereditate dalle sue prime mosse nella diaspora post-pseudo-d’n’b col moniker di Cujo. Il basso di questo Bricolage è una cosa da quintetto di Miles Davis tagliato in consolle, caldissimo, con gli scratch al posto giusto e con quell’aria da fumo di sigaro che proviene dalla seconda patria inglese (Brighton) dell’uomo. Il downtempo che trascina e che fa di questo esordio un biglietto da visita per le sue numerose fuoriuscite dall’underground (una su tutte la colonna sonora del videogioco Splinter Cell). Sampling all’ennesima potenza per Amon Adonai Santos de Araújo Tobin. Obrigado. Ristampa acquisita dalla più piccola ma non meno importante Smalltown Supersound, il disco di esordio del gruppo norvegese esplode come caso internazionale quando la BBC lo segnala come album dell’anno. Preludio e conferma di una tendenza che da lì a poco scoprirà una miniera di accostamenti interessanti e prolifici nel cosiddetto boom elettroacustico nordico: Kings Of Convenience, Röyksopp e Bjørn Torske. Un disco che ci fa capire come il fiuto dei Ninja non perda mai la sensibilità necessaria per resistere al logorìo del tempo. Sempre pronti a tirar fuori dall’underground personaggi e sonorità di classe. Un miscuglio di bossa, cool jazz, chitarre à la Tortoise, fiati e assoli bop che ricordano tra gli altri gli sciccosissimi Morphine (Airborne) e un calore che affascinerà subito le platee di mezzo mondo. Il savoir faire che importa secoli di storia black e la filtra con un bianchissimo tocco polar lounge. The Cinematic Orchestra - Motion (1999) La big band condotta da Jason Swinscoe e da Patrick ‘PC’ Carpenter (già membro del collettivo DJ Food) con questo disco d’esordio fa il botto e da qui in poi diventa il nome di punta della label, tanto che i suoi pezzi verranno pure suonati in numerosi spot e suonati in passerella. Anche se il successo irride al combo mutevole, la qualità della proposta e la dedizione alla sperimentazione non verranno mai meno con gli anni. Motion è l’esempio di come si possa fare dell’improvvisazione una pratica condivisibile anche dal grande pubblico. Un preludio a quello che in questi giorni stanno facendo i Cobblestone Jazz con la techno. Kid Koala - Carpal Tunnel Syndrome (2000) The Bug - London Zoo (2008) Per chiudere degnamente la parziale carrellata non potevamo che scegliere il disco del pazzo Kevin Martin. L’uomo dai milioni di alias (tra gli altri God, Techno Animal, Ice, Curse of the Golden Vampire e Pressure) anticipa la moda mesh che pochi anni fa covava il botto imminente di M.I.A., Santigold e Major Lazer, oggi personaggi da copertina patinata più che da palco di festivalini per iniziati. Dubstep mescolato al dancehall cupo e strafatto della Londra capitale delle sonorità sempre e comunque avant. Un degno proseguio per le teorie millenaristiche di Tricky invasato di techno e di sporcizia dissacrante. Disco del 2008 per l’influente rivista Wire. Segnatempo in divenire: da ballare, da sballare, per grandi e per piccini. La lesson dei paparini Double Dee e Steinski nelle vene di Kid Koala. Lui è il nerd che accosta sample inconsueti a una tecnica sorprendente (famoso per questo è il pezzo Drunk Trumpet, che riesce a coniugare il suono melodico della tromba con le possibilità di modulazione ritmica del giradischi). Eccellente video artist, cura le copertine dei suoi dischi con fumetti e video autoprodotti. Eric San prelude la cartoonizzazione dei Gorillaz dietro la sua mastodontica capacità di utilizzare i samples e di alzare il giradischi a status di strumento musicale tout court. Non solo mix, ma tool per creare nuovi suoni. Il degno erede di DJ Shadow e Cut Chemist. Maximum respect. Wagon Christ - Musipal (2001) Tra le altre cose, Luke Vibert è passato anche per la Ninja. Con questo suo moniker sconsacrato e irriverente esplora la dance con strumenti analogici, facendo del divertimento un imperativo morale, vedi la dichiarazione d’intenti nell’intro The Premise: “I’m gonna fuck the whole world up!”. Il miscuglio che solo in apparenza salta fra generi in modo spastico, lo consegna a un modo di vedere la musica che anticipa la grazia del frullato ‘00 wonky. Il suo mondo è quello dell’elettronica che rende omaggio ai break di Squarepusher e Aphex Twin (suoi amici e conoscenti), alle visioni Global Communication di Tom Middleton, alla sapiente arte del sampling, al drum’n’bass e alla jungle - in quell’anno ormai solo un bel ricordo. Per molti non sarà un capolavoro, ma riascoltandolo oggi non ha niente da invidiare a chi cerca di costruire il beat perfetto con la più nuova release dell’ennesimo software di sound engineering. Luke trova un modo intelligente di rimescolare l’hip-hop con atmosfere color pastello illuminate da valvole e da calore soul. Anche lui per un attimo lunghissimo è human after all... AA. VV. / Coldcut - Journeys By DJ - 70 Minutes Of Madness (2002) Considerato da molti DJ e addetti ai lavori di musica elettronica come la più bella compilation di tutti i tempi, questo disco riassume l’estetica di gusto sopraffino dell’etichetta e dei suoi fondatori. Difficile scegliere fra la sterminata produzione di Matt Black e Jonathan More, ma questo capolavoro batte gli esperimenti visuali, i remix e le escursioni oltre i confini del break che i due DJ hanno perseguito prima e dopo la pietra miliare. Settanta minuti che scappano velocissimi tra amici ninja (Funki Porcini, Wagon Christ), mostri sacri dell’elettronica di ogni tempo (Mantronix, Masters At Work, Plastikman e Photek) e le loro stesse rivisitazioni e remix. Senza tempo. 38 39 Recensioni — cd&lp highlight AA. VV./Diplo - Blow Your Head Vol. 1: Diplo Presents Dubstep (Mad Decent, Novembre 2010) Genere: dubstep mesh Diplo è il Dr. Dre degli anni ‘00. Nei Novanta era il rap a farla da padrone, con tutta la sua pletora di catene e dentoni dorati. Oggi, dopo quasi una decina d’anni di underground, è proprio il dubstep che sbanca sulle piste e sulle frequenze di mezzo mondo, sostituendosi - per lo meno in Inghilterra - alla cultura americana da strada. Diplo ci va di azione di ubermarketing massivo producendo M.I.A., trasformandosi in cartone animato con il suo progetto Major Lazer e tornando in solitaria - sulla sua etichetta personale - per selezionare i nomi più interessanti del panorama dubstep. Tra i grandi: Zomby (con una Strange Fruit in visibilio 8-bit technoide) e Benga (con quel classico di basso pesantissimo e laserato che è 26 Basslines); tra le nuove promesse Joker, Ginz e James Blake (già sentito in numerosi EP e qui con degli stab da urlo su Sparing The Horse). Non possono mancare poi le tamarrate di Rusko (il featuring da discotechina teen’n’bass di Amber Coffman su Hold On ricorda tanto i Magnetic Man), di Starkey (il vocoder nel remix per Rudy Zygadlo) e dello stesso Diplo. Un prodotto che fa il punto senza mix supertecnici o figatine di produzione. Deciso a sbancare, Diplo ci convince che è meglio battere il ferro quando è caldo. Le direzioni, i teoremi e le tesi di estetica le lascia a qualcun’altro. Lui pensa a sfornare dischi e a farci ballare. E ci riesce di brutto. Se non l'avete ancora capito, è uno dei personaggi chiave del suono now. Tenetelo d'occhio. (7/10) Marco Braggion Aedi - Aedi Met Heidi (Seahorse Recordings, Novembre 2010) Genere: folk rock Dopo l'autoprodotto The Adventures Of Yellow del 2008 e l'apprezzato Polish EP dello scorso anno, gli Aedi - un nome come minimo evocativo... - si accasano presso Seahorse e sfornano questo Aedi Met Heidi 40 A Classic Education - Hey There Stranger (Lefse, Settembre 2010) Genere: psych pop che in sostanza è il loro debutto ufficiale (se tale categorizzazione ha ancora un senso). Approccio fiabesco e turbe indie, memorie punk che si sono fatte un giro tra cartoon preadolescenziali, particelle art-folk sbocciate su praticelli spazzati da brezze wave, tutto un giocherellare nel giardino di Kate Bush con balocchi Cranberries e Mùm, ma con la serietà di chi a certi sogni ci crede. Mantenendosi in equilibrio sul crinale tra affabilità e bizzarria, tra delicatezza e veemenza (vi basti sentire Geometric Plane e On The Second Floor), mescolando carte con disinvoltura bjorkiana però addomesticata Delgados, questo quintetto da Macerata prova a dire la sua in un ambito relativamente inesplorato alle nostre latitudini (quali compagni di avventura ideali mi vengono in mente solo i Grimoon). In bocca al lupo. (7/10) Un canadese - chitarrista e cantante - più cinque italiani, col nido a Bologna ed il cuore sperso da qualche parte tra Londra e l'iperuranio pop che da sempre la circonda, dagli Zombies ai Clientele. Epperò aperto a tutto un sentire british che aleggia sulle brume pazzarelle di Manchester e tra le fatamorgane del Merseyside, con particelle Smiths e Teardrop Explodes a rendere cremosa la caligine extratemporale. Si chiamano A Classic Education e Hey There Stranger, il loro secondo EP, ci racconta un immaginario pop fatto di trepidazione e sussulti, di mistero sonnolento annidato tra i sogni, d'inquietudine variegata dolcezza. Il campionario semantico procede sul piano inclinato del vintage, ma non si compiace anzi cavalca una bestiolina irrequieta che imbottisce d'urgenza le pur leggiadre I Lost Time e Gone To Sea, così come - per converso c'è pensosità obliqua nella post-wave trafelata di What My Life Could Have Been. E perché non concedersi un goccio di french touch con la cover di Toi, dal repertorio di Gilbert Becaud? Gli A Classic Education possiedono una fragilità fiera e illuminata che per il momento significa stato di grazia. (7.5/10) Stefano Solventi Stefano Solventi Alex Cambise - Tre vie per un respiro (Aipm, Novembre 2010) Genere: rock melodico Nasci a metà anni Settanta. Cresci negli Ottanta. Nei Novanta ti appassioni alla chitarra elettrica e ti tocca fare i conti con Yngwie Malmsteen, Kirk Hammett e tutta una pletora di musicisti tecnici fino all'inverosimile. Percorso obbligato e questione di DNA. Come di DNA si parla quando comincia a fare capolino tra i tuoi ascolti quella tradizione italiana che fino al giorno prima magari bistrattavi. Ruggeri, Finardi, Renga, senza distinzioni. E poi il Ligabue che tutti conosciamo, quello capace di sdoganare il rock da stadio politically correct nel Belpaese - con Vasco Rossi, si intende - e al tempo stesso di far credere a miriadi di musicisti nostrani che il massimo dell'azzardo in musica sia far quello che fa lui. Se poi cominci a collaborare con personaggi dell'area overground (gente vicina a Tozzi, Alice, Paola Turci, Marco Ferradini) seguendoli sul loro terreno, il cerchio si chiude e tu non puoi far altro che partorire un esordio solista come Tre vie per un respiro. Un disco che assomiglia al lavoro di routine di un ufficio postale. Il materiale è suonato in maniera impeccabile e ben prodotto, in bilico com'è tra folk irlandese (La ragazza di Longarone) e air guitar anni Ottanta (Fiori d'acciaio), impennate vocali tipiche dell'ex front-man dei Timoria (Oltre il tempo) e certi sogni di rock'n'roll in copia carbone (S.r.l.). Radiofonico come lo vorrebbero ai piani alti della discografia e melodico come richiede il popolo sovrano, con tanto di power drums e refrains al posto giusto. Il problema vero, tuttavia, è che nei quaranta minuti di programma non c'è una sola nota che non suoni prevedibile, rassicurante, istituzionale, conservatrice, paracadutata, standardizzata. In una parola, italiana. Occhi chiusi sul mondo, testa bassa e nulla di più. (4.5/10) Fabrizio Zampighi Amaury Cambuzat - The Sorcerer (Acid Cobra, Settembre 2010) Genere: kraut-elettronica L'espressionismo muto di Friedrich Wilhelm Murnau - chi si ricorda di Nosferatu il vampiro? - sembra essere particolarmente adatto alle sonorizzazioni postume. E se qualche mese fa si parlava di una L'ultima risata dei nostrani Drunken Butterfly soundtrack ipoteti- ca dell'omonima pellicola murnauiana, ora tocca ad Amaury Cambuzat (Faust, Ulan Bator) con The Sorcerer omaggiare il regista tedesco. Il soggetto questa volta è Tabù, film datato 1931 - nonché ultima produzione del cineasta - e ambientato in Polinesia. Una riflessione amara sul contrasto tra usanze tribali e sentimenti individuali nelle comunità arcaiche che in realtà diventa metafora del peso che la società ricopre nell'influenzare i rapporti affettivi e la morale comune. Cambuzat non esita un momento a liberare la propria vena evocativo-inquietante, collezionando nei quarantasette minuti del disco aperture strumentali che simulano lo shoegaze (South-Seas), citano il kraut sfilacciato dei primi Faust (Palm Trees), abbracciano un ambient onomatopeica ai confini con la psichedelia (Tropical Waves, La nuit), cedono alle inevitabili fascinazioni percussive (Voodoo Doll). Un lavoro da certosino che più che seguire pedissequamente le immagini a loro si ispira, compenetrando nella giusta maniera audio e video. (7.1/10) Fabrizio Zampighi 41 Andrea Belfi/Stefano Pilia/David Grubbs Onrushing Cloud (Drag City, Ottobre 2010) Genere: post-rock Fatto della pasta inequivocabilmente post-rock degli indimenticati For Carnation (City Rats On A Mountain Pass), umbratile come certi Gastr Del Sol e con quell’espressione del viso stabile e concentrata, Onrushing Cloud è un disco fuori dal tempo, che catturerebbe anche i distratti. Belfi / Grubbs / Pilia. Un trittico di nomi sinonimo di qualità. Nel mezzo, uno dei principali traghettatori del dopo hardcore verso le avanguardie, ai lati, forse i casi più eccellenti del proseguimento di quella missione. Epperò, lungi dall’essere eclatante, l’intersezione del trio resta piacevolmente co-firmata e sospesa. Si sente Andrea Belfi nei ticchettii (delle dita sul tavolo in Nitrated Out), l’inconfondibile melodia vocale di David Grubbs nella title-track, la chitarra di Stefano Pilia (Lightning Vault). Onrushing Cloud non porta prigionieri, né conserva conti aperti (da chiudere?) con il passato. Innegabile che la sensibilità, espressa da due dei tre anche in altre forme e mosse musicali, non sia sostanzialmente cambiata. Eppure, altrettanto evidente è il morbido passaggio di consegne siglato da un disco che ci permette di guardare al genere che fu degli Slint non più con gli occhi che vengono dal post-hc, ma con i filtri dell’elettroacustica. Un cambio di prospettiva creato negli anni, per iniziativa anche e soprattutto del trio protagonista dell'album. (7/10) Gaspare Caliri Apart - Digital Frame (Krysalisound, Novembre 2010) Genere: ambient Francis M. Gri è un veterano della scena dark-ambient internazionale ed è almeno noto per essere uno dei membri fondatori del combo All My Faith Lost. Affrancatosi da quell'esperienza, che a giudicare da quello che si legge in Rete è ben presente nella memoria dei seguaci, il musicista italiano ha continuato il proprio percorso affidando le proprie composizioni a due progetti: Revglow, in collaborazione con la vocalist Lilium, e, appunto, Apart, che qui aggiunge un nuovo tassello alla propria discografia dopo il doppio dello scorso anno, Winter fragments, e lo fa sotto l'egida della neonata KrysaliSound, etichetta anch'essa totalmente gestita da Francis M. Gri. Le cornici digitali del titolo sono sussurri elettronici, parchi tappeti di tastiere e timide percussioni che fanno da culla a nove brani pianistici 42 di forte atmosfera malinconica. Tranne un'intrusione di violoncello (Gate 12) e della voce della sodale Lilium (per l'eccellente crescendo di New Day ed Exit Dream) il disco è tutto qua. Vi si ritrovano le atmosfere eteree della scena dark primeva, ma anche una certa ricerca di immobilità e di prolungamento del sogno in sfumature di grigio che ricordano anche alcuni brani dei primi Sigur Rós. Sul fronte pianistico, il cuore di tutte le composizioni di Francis M. Gri, siamo di fronte a un equilibrio elegante, fatto di minimalismo, i riferimenti agli aeroporti di enoiana memoria e a una certa ricorsività sonora che fa pensare anche al kraut-ambient inventato sempre da Eno con i Cluster. Al termine dell'ascolto di Digital Frame si rimane avvolti da un languore sincero, segno che l'obiettivo di Francis M. Gri è raggiunto in pieno e ci fa salutare con piacere l'avvio della sua etichetta. (7/10) Marco Boscolo Ash - A-Z Series Vol.2 (Atomic Heart Records, Novembre 2010) Genere: Indie rock A questo punto abbiamo il quadro completo del progetto con cui, Tim Wheeler e compagni, hanno tentato la loro faticosa operazione di rilancio. Dopo un primo capitolo caratterizzato da felici anthem a presa rapida (cosa che dimostrano di padroneggiare ancora con maestria), gli Ash utilizzano questa seconda tranche per concentrarsi su brani dal respiro più ampio e dagli più obiettivi decisamente più ambiziosi. Purtroppo dimenticano che, storicamente, magniloquenza e pathos mal si coniugano il loro sound eternamente teenageriale e che la loro forza sta nello sciorinare un pop punk fresco e senza pretese. La maggior parte dei brani di Vol. 2 si ricollegano al brit sound metallizzato del periodo Meltdown, con qualche pericoloso scivolone in zona Muse (Spheres). I tre irlandesi sanno di aver già portato a casa il risultato col precedente volume, così provano a battere nuove strade con risultati alterni. Nei dieci minuti della suite strumentale Sky Burial, danno vita ad un interessante psycho pop rock che guarda allo spazio, ma è con gli spasmi elettrici della febbricitante Embers che appaiono nelle loro vesti più consone. Nel complesso la missione può dirsi compiuta, anche se rimango convinto che, con una cernita oculata, da tutti questi brani si sarebbe potuto tirare fuori un album singolo stellare. (6/10) Diego Ballani Asmara All Stars - Eritrea's Got Soul (Outhere, Ottobre 2010) Genere: Africana Dura incidere un disco in Eritrea. Stato autonomo da un ventennio scarso e, dopo una guerra sanguinosa con i vicini etiopi, s'era in precedenza visto dominare da Mussolini e dagli inglesi. Oggi, un’indipendenza figlia di un referendum popolare è scivolata in dittatura, nella quale ci si può però informare e scolarizzazione e sanità sono garantite. Sotto la quale vive un popolo anagraficamente tra i più giovani del globo e pervaso da enorme ottimismo. In tale contesto nasceva nel 2008 il progetto Asmara All Stars, organizzato dal produttore francese Bruno Blum (già a fianco del Serge Gainsbourg infatuato della battuta in levare), recatosi ad Asmara per collocare sotto i riflettori una scena locale d’antico retaggio. Vi ricorda un certo Ry Cooder in trasferta cubana? Anche a noi, specie per l’entusiasmo palpabile che emerge dalle registrazioni e per l’alternanza tra giovani leve - Faytinga, Temasgen Yared, Sara Teklesenbet - e i padri spirituali Brkti Weldeslassie e Ibrahim Goret (la sua scarna Safir Hilet apice del programma, con la sinuosa Inedir cantata dalla più verde ugola di Adam Hamid). Riuniti in un panorama che mescola la tradizione con abbondanti dosi di reggae, soul e funk e che già ha fatto parlare di eri-jazz. Noi lasciamo umilmente perdere, ritenendo i paragoni fuorvianti - ingiusti, anzi - laddove le radici si spingono fin dentro la notte dei tempi; semmai, annotiamo un esito più del lecito “patinato”, lontano dalle imprese degli Ex e dall’epocale Buena Vista Social Club. Diverse sia la vocazione che l’approccio, d’accordo, ma la mano di Blum si sente eccome, e spinge a riferire di un biglietto da visita gradevole per capire cosa c’è a monte. Ad Asmara, probabilmente, non aspettano altro. (7/10) Giancarlo Turra Atlas Sound - Bedroom Databank vol.1, 2, 3 (Self Released, Novembre 2010) Genere: bedroom nuggets Stavolta non lo ha fatto per errore, come successe per la prima versione di Logos. In un anno che ha visto la sua band principale, i Deerhunter, fare un salto in alto ulteriore verso l'empireo dell'indie, e forse qualcosa di più, Bradford Cox non riesce comunque a concentrarsi unicamente su di un progetto. Troppe le idee che gli vengono in mente, troppe le suggestioni e le storie da raccontare in musica. Così scopriamo dal suo blog che mentre usciva Halcyon Digest e per tutto l'autunno, quando avrebbe dovuto essere impegnato a promuoverlo, Cox ha riempito tutti i buchi liberi per chiudersi in cameretta e registrare una serie di brani che ora ci arrivano gratuitamente nel lettore mp3. Il titolo dei volumi, Bedroom Databank, esplicita già il senso dell'operazione: nuggets-delia da cameretta, composta, suonata e registrata completamente in solitaria a nome Atlas Sound, che nel frattempo sembra essere diventato lo spazio dove poter rinchiudere tutto quello che la pressione della band-madre non gli permette di sperimentare. E che cosa troviamo dentro a questi primi tre volumi (ma c'è da scommettere che la storia non finirà qui)? Nel primo, quello che si basa su sintetizzatore e computer, Cox infila le cose più genuinamente d'ambiente, figlie di quell'ambient-pop, com'è stato definito, che determina fin dall'inizio le coordinate del progetto. Vi fanno capolino anche due cover, una di Kurt Vile (Freak Train) e Bob Dylan (These Wheel's On Fire), e brani puramente strumentali che sembrano veri e propri studi (come si dice in ambito classico) sui suoni. Fossimo nell'Ottocento, parleremmo di un taccuino di viaggio, dove gli appunti sono stralunati stralci di psichedelia-folk-gaze e il viaggio è tutto contenuto da quattro mura. Nei seguenti due volumi entrano invece più che altro canzoni vere e proprie, basate su una strumentazione più tradizionale, ma dove il lavoro sugli effetti è determinante per il sound complessivo. A volte si ha l'impressione che la volontà principale di Cox sia quella di catturare l'essenza di un'atmosfera, di uno stato d'animo e di trasmetterla agli altri, in uno stato di bulimia compositiva che riflette un'altrettanto insaziabile necessità di esprimersi costantemente con le note. L'intensa attività ce lo fa immaginare come dominato da un'attitudine tipica del mondo del jazz, in cui le registrazioni sono solamente una fotografia istantanea di un processo che non comincia e non termina mai. Anche con Cox, sottoforma di Atlas Sound e di Deerhunter, siamo di fronte a un flusso ininterrotto di idee e brani che a volte finiscono nei dischi, altre volte finiscono in queste tapes. Non tutto è, ovviamente, a fuoco e all'altezza del resto della produzione di Cox, ma la varietà degli stili raccontano meglio di qualsiasi discorso il piacere onnivoro della musica che lo anima e all'ascoltatore, addetto ai lavori o meno, restituisce un'immagine a tutto tondo di un compositore con il quale bisogna fare i conti. (6.7/10) Marco Boscolo 43 Badly Drawn Boy - It's What I'm Thinking Pt.1 Photographing Snowflakes (Edel, Novembre 2010) Genere: folk pop Ma che bella implosione, Mr. Gough. Che bel ritorno. Dopo i colpi di testa e le fittonate para-prog che facevano inarcare il sopracciglio di sorpresa però accadevano - come dire? - un po' fuori dalla tua giurisdizione. Insomma, qualche pisciatina fuori dal vaso l'hai fatta, caro Damon, condita dalle molte mattane, dai bruschi sbalzi d'umore e quegli scazzi in sede di concerto che ti hanno procurato non la fama di rocker maledetto (e quando mai?) piuttosto quella di capriccioso attaccabrighe più bizze che talento. E sì che di talento hai dimostrato d'averne, tanto tempo fa. Adesso il ritorno all'indipendenza per la One Last Fruit e questo primo capitolo d'una trilogia nientemeno. Alleluja per il ragazzo disegnato male! Ok, a dire il vero la copertina klimtiana surreal/simbolista non fa ben sperare, però poi t'imbatti in un folkpop estoplasmatico/trepido/acustico su quel letto di evanescenze elettrosintetiche, fondale emotivo più che atmosferico, e in quegli approcci cameristici che hanno il merito di ostentare più pensosità che enfasi (vedi What Tomorrow Brings), e ciò vale anche quando metti in piedi una baldanza Morrissey tipo il singolo Too Many Miracles. Massì, devo dirtelo, sono davvero contento. Ti trovo in forma, malgrado tutto. Certo, si sente che ci vai coi piedi di piombo, che prendi la mira con cura. Lontanissimo è l'estro soave di About A Boy (a parer mio il tuo capolavoro) e ancor più l'incontenibile stravagante immediatezza del debutto The Hour Of Bewilderbeast. Tuttavia proprio di quest'ultimo - che poi fu il primo, dieci anni fa cribbio! - il qui presente It's What I'm Thinking Pt.1 - Photographing Snowflakes potrebbe sembrare il figlioletto timido, con l'Elliott Smith obliquo di This Beautiful Idea, con le tenerezze springsteeniane di A Pure Accident, con la fragranza indolenzita vagamente Eels di The Order Of Things, con la folk ballad a giri bassi - e slide contrita - della title track, con l'up-tempo tra Al Stewart e Belle And Sebastian di I Saw You Walk Away. Forse potevi risparmiarci gli esotismi afrocaraibici della piuttosto insulsa This Electric, però non c'è arredamento senza qualche nota stonata, quindi ok, le tue trepidazioni di mezza età mi sembrano buone, deliziosamente depresse e fuori fuoco. Del resto non è facile fotografare fiocchi di neve, vero? (7/10) Stefano Solventi 44 Banana Pill - Watercolor (Jozik Records, Settembre 2010) Genere: psycho drones Duo proveniente dal nord della Russia trapiantato a Helsinki, dove gestiscono una label e organizzano un festival e vari eventi di musica sperimentale, i Banana Pill sono un piccolo microcosmo psycho drone generato da quella scena sperimentale finlandese sempre attiva, sebbene da qualche anno lontana dai riflettori. I punti di riferimento di Watercolor sono piccole sinfonie per synth impazziti, voci trattate e chitarre sghembe e spaziali vicine allo stile della Ikuisuus e in particolare a quello di Uton, con il suo sguardo rivolto verso mondi lontani. A sorprendere è però la scioltezza e la spontaneità con cui drones e melodie vengono fusi in piccole jam semi improvvisate che sembrano quasi invocazioni al pigro sole del nord. I suoni, coloratissimi, si evolvono in delicati mantra dalle tinte pastello, a volte addolciti da malinconiche melodie di violino, altre enfatizzati da corde e piccole percussioni. Non manca un tributo alla terra natale nella splendida reinterpretazione di una folk song tradizionale russa rivestita da un inedito tocco caleidoscopico. (6.8/10) Gemma Ghelardi Banjo Or Freakout - Way Slow Volume One (Lefse, Ottobre 2010) Genere: Indie Quello di Alessio Natalizia è un nome che può suonare sconosciuto ai non addetti ai lavori ma di cui in realtà si è fatto già un bel parlare, dapprima grazie alla fortunata esperienza nei Disco Drive e più recentemente con l'esordio di Walls, già culto presso gli appassionati di chill-wave di tutto il mondo. Tra un gruppo e l'altro c'è stato tempo anche per un side-project oggi a un passo dalla prima uscita ufficiale e in cui sono rintracciabili tutte le sfumature della parola glo. Seguendo il modello reso celebre dai vari Lotus Plaza e Atlas Sound, Banjo Or Freakout prende il via nel 2006 da una serie di registrazioni domestiche condivise gratuitamente su un blog e sporadicamente intervallate da qualche uscita su cd-r e 7". Non stupisce quindi che sia ora la Lefse Records (Neon Indian) a pubblicare questo EP, primo di una serie che si propone di portare alla luce il materiale rimasto nei cassetti degli artisti di volta in volta coinvolti. Nonostante Way Slow Volume 1 sia per sua natura destinato a un'utenza molto ristretta, la qualità complessiva risulta comunque superiore alla media di questo genere di pubblicazioni. I solo-project dei due Deerhunter highlight Autumn Defense - Once Around (Yep Roc, Novembre 2010) Genere: pop, folk rock Andare oltre i Wilco, smarcarsi dal proprio passato e far finalmente quadrare il cerchio: il quarto full lenght dell'ormai decennale side project di John Stirratt e Pat Sansone suona come un disco importante, solido, non come una semplice - e pur legittima - vacanza dal progetto madre. Dove il precedente omonimo del 2007 appariva come un bel divertissement di classe, quasi innocuo nei suoi didascalismi west coast, Once Around ingrana invece la marcia e parte sicuro e deciso: l'incipit decisamente Lennon/Harrison di Back Of My Mind è uno sfoggio di quel carattere che sinora aveva latitato, o meglio covato sotto la cenere in attesa di circostanze favorevoli. Che sono arrivate con la determinante esperienza di Seven Worlds Collide con Neil Finn & friends (2009; giova ricordare che da lì è partito Wilco - The Album, nonché la vicenda solista di Phil Selway), la scintilla da cui è scaturita la rinascita degli Autumn Defense: per quanto le atmosfere si mantengano sempre mellow, c'è un'energia sotterranea e quasi febbrile che le percorre ed elettrizza, un sentimento che gratta via la glassa dalla superficie e arriva dritto a toccare nel profondo. Che si tratti di un lavoro ispirato, oltre che magistralmente realizzato (produzione e arrangiamenti sono, inevitabilmente, al top), lo si avverte a primo ascolto, dalla costruzione dinamica e dalle armonie di Tell Me What You Want, dalla Rickenbacker puramente Smiths di The Swallows Of London Town, dal sentito omaggio ai Big Star di Don't Know eEvery Day, dalle rievocazioni Elliott Smith della title track fino al soul di Allow Me; mentre il folk-rock di Huntington Fair pare rinverdire i fasti di Mermaid Avenue, The Rift scomoda Simon & Garfunkel, Step Easy Neil Young e Jackson Browne e There Will Always Be A Way il reverendo Al Green. Insomma si punta a una formula classica, senza tempo, a una precisa e nobile categoria del pop alla quale Stirratt e Sansone possono, adesso a pieno titolo, dichiarare di appartenere. (7.2/10) Antonio Puglia sopra citati rimangono i paragoni più verosimili ma al tempo stesso rappresentano modelli entro cui circoscrivere un gran numero di influenze, dalle jam psichedeliche degli Animal Collective riassunte nei tre minuti tribali di Over There allo space-rock di scuola Spiritualized omaggiato nei coretti enfatici di Is That All?; fino a una 75 che pur nella sua semplicità tecnica (chitarra acustica + voce in delay) si candida come ballad imprescindibile per l'autunno degli shoegazers in ascolto, forte del suo girare intorno alla parola spleen senza abboccare mai davvero. Degno di elogio anche il criterio di selezione dei brani operato da Alessio, in un equilibrio perfetto fra episodi ancora acerbi ed altri più compiuti: accanto a ritmiche composte da un'unica nota di pianoforte, riff di chitarra distorti e cantati prossimi al mugolio (0156) trovano posto canzoni vere e proprie, voci in primo piano e melodie nitide (Vasto Beach). La natura inevitabilmente sconclusionata dell'insieme rende difficile mettere a fuoco il presente e conseguentemente il futuro di Banjo Or Freakout: sicuramente le carte da giocare sono molte, si tratta di saperle organizzare e sviluppare così una personalità necessaria a distinguersi in un genere ormai inflazionato e in attesa di evoluzione. (6.4/10) Simone Madrau Bellrays - Black Lightning (Fargo, Novembre 2010) Genere: soul-punk Piace dei BellRays l’intensità con cui fondono il genuino sudore di soul e street rock. Il fatto che da vent’anni l’ensemble guidato dalla fenomenale cantante Lisa Kekakula - una Tina Turner giovane, consapevole e incazzata - e dal chitarrista Rob Venunm faccia cosa sola di ciò che consegnò Detroit alla Storia: da un lato la Motown e le decine d’altre etichette indipendenti; dall’altro, gente come MC5, Stooges, Rationals e Mitch Ryder che black lo era dentro e senza nasconderlo. In mezzo, George Clinton metteva ordine e anticipava un’ampia fetta del futuro in cui vivono i BellRays. 45 Giunti con calma e fermezza dal fiero underground (l’esordio su nastro In The Light Of The Sun; svariati 7” ed e.p.; la militanza presso Alternative Tentacles) a tour con Rocket From The Crypt e riconoscimenti sul territorio europeo eleggendo l’integrità a bandiera, donando ogni grammo d’energia sul palco e conservando il proprio stile. Rendendolo anzi più ricco e vibrante sino al maturo vertice del 2007 Have A Little Faith, cui rispondevano l’anno seguente il più ruvido Hard, Sweet And Sticky e oggi dieci composizioni che quadrano il cerchio. E che hanno l’aria dello sforzo di qualità che potrebbe regalare meritate soddisfazioni economiche: parlano chiaro la scuderia di prim’ordine, una produzione puntuale e potenziali successi come Power To Burn, una People Have The Power più tirata che si appaia al calco dell’Iggy Pop anni ’90 Everybody Get Up. Cose passabili e che faranno probabilmente storcere il naso ai fan della prima ora, nondimeno assolvibili alla luce di una The Way dritta dal ‘64, di una strepitosa Sun Comes Down tra Isaac Hayes e Curtis Mayfield e del resto che sposa disinvolto eleganza, foga, solidità (su tutto la fumigante Close Your Eyes, il crescendo di Anymore, l’irruenza della title-track e di Living A Lie). Roba da memorizzare e far ascoltare a chi ancora possiede un’idea provinciale di certa musica. (7.3/10) Giancarlo Turra Breathe Owl Breathe - Magic Central (Hometapes Records, Ottobre 2010) Genere: fantasy fok/pop Immergersi in Magic Central è come tornare piccoli, nascondersi dentro all'armadio della biancheria in una grande casa di campagna mentre all'esterno infuria il temporale e, torcia in mano, coperta sulle spalle, immergersi nella lettura delle Cronache di Narnia o in un libro di Nail Gaiman. C'è tutta quest'urgenza di raccontare storie fantastiche, tipica della letteratura per l'infanzia, in queste dodici tracce di pop zuccheroso e giocoso, che hanno titoli come "La mascella del leone", "Il drago" o "La casa d'oro". Nella perfetta epica indie americana, Micah Middaugh e Andréa MorenoBeals si sono conosciuti in un parcheggio nell'area rurale del Michigan. Con il loro impasto vocale maschile/ femminile, il violoncello di lei e la chitarra di lui, costruiscono intarsi delicati, spesso semplici (Dogwalkers of The New Age) come le filastrocche dell'infanzia (Swimming), in qualche occasione supportate da una visione jazz (Board Games). Il supporto attento e mai invadente delle percussioni di Trevor Hobbs risulta decisivo nel creare e mantenere l'atmosfera incantata (Icy Cave 46 Dancers) e divertente/divertita (Parrots In The Tropical Trees). Magic Central è l'ennesimo capitolo della saga, cominciata nel 2004, ma con questa prova sembrano aver trovato la quadratura del cerchio. (7/10) Marco Boscolo Bryan Ferry - Olympia (EMI, Novembre 2010) Genere: wave pop La cosa migliore di questo disco è l'ostentazione quasi sfacciata o se preferite narcisistica con cui Brian Ferry mette in scena se stesso, patteggiando senza remore col proprio passato (a partire dal glamour retro-attualizzato della copertina, featuring una patinatissima Kate Moss). Ed è, come è facile immaginare, anche la cosa peggiore. Ha fatto le cose in grande, coinvolgendo nomi altisonanti come David Gilmour e Jonny Greenwood oltre ai vecchi compagni d'avventura Brian Eno, Phil Manzanera e Andy Mackay. Inevitabilmente si è fatto un gran parlare di questa sorta di reunion discografica dei Roxy Music, dopo il pugno di concerti tenuti dall'inizio dell'anno ed il tour annunciato per il prossimo gennaio. Per quanto smentita dai diretti interessati, per quanto di sponda, nei fatti la reunion si è consumata anche in studio. Certo, non era il caso di sperare in un ritorno alle impudenti sperimentazioni post-glam dei primi seventies. No: in Olympia il sound staziona tra i languori patinati di Avalon e le febbricole dance-wave-funk di Manifesto, e in un certo senso è giusto così. Una formula comoda e senz'altro opportuna, o almeno priva di eccessive velleità. Tuttavia, ammetto di aver provato un certo imbarazzo durante l'ascolto, come sempre quando m'imbatto in una nostalgia che rincula in piacionismo giovanilistico. Non è il caso di rimproverare a Brian Ferry di essere Brian Ferry, ma tutto questo dandysmo fireo, a briglie sciolte e fuori tempo massimo se da una parte ci restituisce un'icona rock in ottima forma, dall'altra finisce per creare mostriciattoli come Heartache By Numbers - epica Arcade Fire disinnescata Cock Robin - e una versione di Song To The Siren sdolcinata fino alla nausea. Va un pizzico meglio coi Depeche Mode rifritti di Shameless, mentre Reason Or Rhyme tenta con una certa dignità di riesumare i turgidi languori anni Ottanta. Alla fine, l'unico episodio degno di nota è la conclusiva Tender Is The Night, con la voce che s'immerge e riemerge tra i mesmerismi sintetici. Un po' poco, tenuto conto dello strombazzamento. (4.5/10) Stefano Solventi highlight Daft Punk - Tron Legacy: Original Motion Picture Soundtrack (EMI, Dicembre 2010) Genere: Elettronica Senza aver visto il film è dura parlarne, ma quello che si carpisce ascoltando questa colonna sonora è che probabilmente i due uomini col casco sono stati imbrigliati in percorsi non troppo consoni alla loro potenzialità compositiva. Guy-Man e Thomas applicano infatti i topoi più conosciuti e stereotipati della musica elettronica alla descrizione di immagini, mutandoli con le citazioni che influenzano da sempre il background genetico di chi - come loro - ha fatto dell’elettronica un credo: cavalcate e loop à la Tangerine Dream (The Son Of Flynn), analogica da baffo Moroder (Solar Sailer), il ricordo di JeanMichel Jarre (Nocturne), qualche accenno al minimalismo di Philip Glass negli archi di Outlands e tanto tanto Vangelis. In più (da contratto?) aggiungono una patina pomposa e barocca al tutto, costruita grazie all’aiuto di ottoni, archi e di un’orchestra sinfonica da più di cento elementi che propone un didascalismo pedante e mediamente noioso. Le uscite dallo schema disneyano/hollywoodiano appaiono in poche tracce, fortunatamente vicine al dancefloor: il già apprezzato singolo Derezzed (suoni da deep house in filtraggio espanso che fa gola ai Justice), End Of Line con una lentezza di bpm à la Homework che pesca il suono di basso e di batteria dall’analogica fine Settanta aggiungendo inserti di tastierine glitchate a 8 bit, la prosopopea di filtri di Arena e Rinzler che cita i Chemical Brothers di Push The Button. Il mood di questa ora scarsa di musica è inevitabilmente dark, come sarà il film. Un’oscurità che, per la retrofilia anni Ottanta, si rifà a pietre miliari del calibro di Blade Runner (il synth di Arrival è plagio) o Fuga di mezzanotte. Senza le immagini però la musica non riesce a reggersi bene in piedi ed è difficile ascoltare il disco da cima a fondo con lo skip a portata di mouse. Sono ormai cinque anni che aspettiamo un album dopo il sempreverde Human After All. Il silenzio, riempito comunque dagli impegni con il tour e dalla regia di Electroma, meritava forse qualche hit in più. Tron Legacy è una parentesi che per i fan in visibilio house promette bene con pochi singoli da ballo, ma per gli altri non verrà ricordata come un ennesimo exploit. Peccato. PS: L’album esce anche in Deluxe Edition con un cd aggiuntivo di clip del film ed extra tracks. (6.5/10) Marco Braggion Burns Unit (The) - Side Show (Proper, Agosto 2010) Genere: folk Cresce con gli ascolti l'esordio dei The Burns Unit. E pure inaspettatamente, visto che al primo passaggio mostra un'anima poco equilibrata, con una What Is Life che sembra occhieggiare in maniera inquietante a Shakira, certi richiami ai Low di una Future Pilot A.K.C. decadente a malinconica, il Leonard Cohen gitano di You Need Me To Need This o i Belle & Sebastian di Trouble. E' sufficiente recuperare i crediti del disco, tuttavia, per comprendere che si tratta di un cosciente esperimento di global-folk-pop e non di mera presa per i fondelli. Anzi di più. Di una sociologia da apparta- mento tipo Grande Fratello applicata ai suoni. Con otto musicisti provenienti da Scozia e Canada - oltre che da precedenti esperienze agli antipodi - auto-richiusisi materialmente in una casa a interagire. Dall'ideale brainstorming da supergruppo in gita nasce un disco che rispecchia la diversità di approccio degli artisti coinvolti, nelle molteplici anime che lo compongono ma anche nel pedigree che lo accompagna. Con la voce suadente di Emma Pollok (Delgados), lo spoken word di Mc Soom T (sul dub-afro di Send Them Kids To War e nella già citata What Is Life) e il cantato sognante di Karine Polwart (Helpless To Turn) a guidare una coralità multisfaccettata in cui far convivere basso (Future Pilot A.K.A.), chitarra (Kim Edgar), tastiere 47 (King Creosote), synth, accordion (Michael Johnston) e batteria (Mattie Foulds). Materiale che mette in mostra un gruppo di lavoro appassionato e una scrittura pop cristallina, oltre a un pugno di desinenze tradizionali scozzesi/latine decisamente in linea con l'attuale tendenza al crossover etnico. (7.1/10) Fabrizio Zampighi Buzz Aldrin - Buzz Aldrin (Unhip Records, Novembre 2010) Genere: wave Una storia folgorante, degna dei nostri tempi veloci. Tre trentenni (non è uno scioglilingua) incrociano i loro destini in quel di Bologna ad inizio 2009, scoprendo un'intesa che in breve frutta un pugno di pezzi presto spediti al mondo via myspace. Il resto viene quasi da sé. Si apre la breccia dei concerti, attorno ai quali cova un hype che monta fino all'inevitabile esordio, oggi, per l'occhiuto tandem Unhip/Ghost Records. Album omonimo, nove pezzi tesi, allucinati d'una wave battente che non può non ricordare i Wire via Liars o viceversa, il ghigno PIL nel gorgo nero Bauhaus, l'impeto Killing Joke sclerotizzato da una teatralità Suicide. La scrittura si limita ad essere pretesto di arrangiamenti aggressivi e interpretazioni intense, cogliendo l'apice nella robotica Machine 2999,99 e nella spasmodica White Church. E' evidente quindi l'ossessione wave (e dintorni), ma con meno veemenza che cognizione di causa: il loro sound è progetto e calcolo, equilibrio di perturbazioni soniche al servizio di marce ipnotiche e alienate, di scenografie sinistre e cavalcate visionarie, e questo segna la distanza rispetto ad una moda a pronta presa risalente ormai a qualche stagione fa. Che comunque c'è stata e - a causa dei ritmi vorticosi del presente - stende sulla proposta il suo alone cupo, un senso di revival del revival che ti prefigura la solita sindrome dei ritardatari cronici, il solito cul de sac provinciale. Non è detto che sia così. Magari ai Buzz Aldrin - nome scelto in onore del secondo arrivato per antonomasia, ed è forte la tentazione di argomentarci sopra - interessa solo seguire la propria traiettoria e affanculo le mode e le scene. Personalmente, sono disposto a crederlo. In ogni caso, possono vantare un'idea sonica ragguardevole, con pochi eguali dalle nostre parti. Per dei debuttanti, seppure stagionati, è una specie di prodigio. (7.1/10) Stefano Solventi 48 Crystal Fighters - Star Of Love (Zirkulo, Ottobre 2010) Genere: nu-rave mesh-pop Lo spettro del nu-rave che si aggira per l’Europa musicale l’avevamo intravisto nelle proposte glo dei Delorean. L’affinità geografica e musicale con i barcellonesi ritorna con l’esordio full-lenght di questa nuova band basca (già vista su Kitsuné con il singolo Xtatic Truth, qui riproposto): una cosa che pompa ricordi electro wave dei primi MGMT e li mescola sapientemente con la lezione Animal Collective, tenendo in sordina un pedale ritmico che rispolvera le sudate minimal a nome Soulwax. Come a dire mescoliamo grazia summer-pop con l’acidità da dancefloor e vediamo quello che ne esce. Quando ci fu il boom di Klaxons e CSS, di questi esperimenti ne sentimmo fino allo sfinimento, ma oggi si è finalmente pronti ad andare oltre il floor pacchiano, tagliando tutto con il massimalismo che gli animali collettivi e la summer wave ci hanno implicitamente costretto a percepire in qualsiasi album rock post-00. Ok, citare nuovamente quei mondi musicali è un rischio. Ma val la pena correrlo se si riesce a costruire un ibrido che compone un’inaspettata raffica di singoli promettenti: I Do This Everyday pesca dalla matrice trash Yeah Yeah Yeahs inzuppata nella witch house a 8 bit, At Home gioca con le terze a cappella Ottanta delle Bangles, Swallow deborda nelle acidità dello UK bass, l’opener Solar System è fidget mescolato a tagli balearici lo-fi degni dei migliori Aeroplane, il tribalismo con le schitarrate metal in I Do This Everyday, gli stop and go acustici dei Pixies (band che ha da sempre un seguito esagerato in Spagna) in Plage, la vituperata minimal di Miss Kittin in I Love London, la techno commerciale da stadio con la voce wave dei Pains of Being Pure At Heart in With You e per finire una consapevolezza che ammira la tradizione, utilizzando strumenti della tradizione basca sconosciuti come txalaparta, tabor e txistu. Un piccolo grande colpo al cuore, ricco di sogni, mistero e psichedelia da ballo visionario. I combattenti di cristallo creano degli scompensi ormonali non da poco. Attenzione, potreste innamorarvi. (7.3/10) Marco Braggion Cyclobe - Wounded Galaxies Tap at The Window (Phantomcode, Novembre 2010) Genere: post-industrial L’album precedente, Paraparaparallelogrammatica era nato da una collaborazione con Nurse With Wound e pertanto si discostava anche parecchio dalle produ- zioni del duo verso lande death/concrete/collage tipicamente stapletoniane, Wounded Galaxies Tap at The Window riparte invece da The Visitors (del 2001), portando il suono post-industrial dei Cyclobe oltre la consueta estetica ghostly. Il nuovo corso si nutre quartomondismi, ritualità pagane e preghiere folk all'interno delle quali la percussività etno diventa la base tanto delle pennate psych quanto di orchestralità (chiesiastiche/classiche) fantasma. La terra è sia quella di un Jon Hassell virato al male (i quartomondismi) sia quella del Peter Chistopherson dei Throbbing Gristle attuali (l'etnica esoterica) o dei Coil del passato (formazione, ricordiamolo, alla quale il duo fu legato per un breve periodo). The Woods Are Alive With the Smell of His Coming, 17 minuti di savana notturna tra droni, squarci cosmici e cabala è senz'altro la traccia simbolo dell'album. E' stata esiguita in in sestetto con Thighpaulsandra ai synth e al piano, John Contreras al violoncello, Cliff Stapleton all’hurdy-gurdy e Michael J. York ai Duduk (e ai “tubi”) e ha inoltre fatto parte della performance The Dark Monarch: Magick and Modernity in British Art, premiata meritatamente al Tate Gallery St. Ives. Del resto, anche i sussurri dreamy in francese di Sleeper, immersi nelle note di piano atmosferico e glitch; o l'avvolegente (noise) cosmic trip spiraloide per synth analogici della traccia omonima sono ottime testimonianze della maturità e personalità raggiunta dal duo. Davvero un ritorno di peso nel circuito post-industrial orfano dei Throbbing Gristle. (7.2/10) Edoardo Bridda Dance For Burgess - SSA (Mashhh!, Ottobre 2010) Genere: post-punk Dance For Burgess significa un duo (Iacopo Bigagli e Marco Da Collina) fortemente influenzato dal passaggio tra anni Settanta e Ottanta, dalle wave e dal superamento del punk. In SSA ci sono tutti i tasselli di quel mosaico che abbiamo visto ricomporsi qualche anno fa, grazie all’opera di Simon Reynolds e, ovviamente, al revival impetuoso di nuove band, ristampe, temi. Un’onda oggi al riflusso, è vero, ma anche ancora abbastanza fresca per dare ancora segni di vitalità e collegamenti vivi. Bigagli e Da Collina ci offrono dieci tracce, molte delle quali punk funk allo stato puro, di stampo post-no-wave, evidentemente modello Liars (I’m Wired, e il titolo non può che far pensare all’ultima fatica dello stesso Reynolds, oltre che al leggendario singolo dei The Fall). In evidenza strategie no- e bad trip, atmosfere che ricreano ambienti di quegli anni, chitarre scordate e basso da manuale Rockerilla primi Ottanta, così come funk da contorsionisti ma taglio diritto degli obiettivi: andare dritto alla tensione psichica, non al corpo. E così non può che essere cerebrale il dialogo tra drum machine, voce-basso e chitarre in Omgmj!, probabilmente una delle migliori del lotto. Funziona meno il ricordo Wire (Toxshop), forse a causa delle peculiarità dei protagonisti di quel cassetto della memoria, forse - e con ciò pensiamo al design delle armonie e alla capacità di creare colpi di scena nello stesso brano che in pochi riescono a replicare. Fatto dieci l’originale, la citazione non fa zero. Nel genere, e nel contesto dell’offerta italiana - di oggi come di allora - Dance For Burgess superano la media, pur insistendo su un seminato in cui certamente non è facile emergere. (6.5/10) Gaspare Caliri Die Antwoord - $O$ (Cherrytree Records, Ottobre 2010) Genere: mesh/rave La faccenda Die Antwoord è molto interessante e articolata, e per questo la svisceriamo a fondo in uno spazio dedicato. Qui ci concentriamo su quello che ne è l'output più tangibile, e forse anche quello meno importante. L'album dei Die Antwoord esce solo adesso sulla sussidiaria della Interscope orientata alle nuove forme di crossover, dopo un incredibile hype sul web portato avanti con tattiche virali, dopo i primi concerti in Europa e Stati Uniti sotto l'ala protettrice del mesh che conta (M.I.A., dopo un inutile EP di cinque pezzi pubblicato a luglio. Inutile perché il disco tutto lo conoscevamo già da mesi, essendo stato messo in free download sul loro sito ufficiale e reso disponibile per tutto il 2009. In effetti, per questo $O$ "edizione definitiva", i Die rimaneggiano un po' la tracklist, tagliano via alcuni pezzi troppo cazzoni (in uno la base era Orinoco Flow di Enya), ne inseriscono tre nuovi, affidandone uno alla produzione di una firma sicura come Diplo. La sostanza però non cambia. Yolandi e la sua vocina "twetty", Ninja e la sua valanga rap egotripica, le basi che pescano tra urban UK, electro commerciale virata underground (via residui industrial) e nu-rave, guidate da motivetti-tormentone facili facili, spesso al limite della filastrocca. Il pezzo con Diplo, Evil Boy, in salsa videogame/epica mesh, è roba buona, e scopre una volta per tutte, specialmente nella versione video, gli 49 intenti (auto)parodistici di questi specie di Rammstein dell'hip hop sudafricano. Il progetto nella sua interezza però, tenendo conto di tutte le componenti (intenti supposti, visual, viral marketing, exploit fuori patria, concerti, ecc.), ci sembra troppo comodamente ambiguo. E la musica, coerentemente, la vediamo come un mesh - a seconda della prospettiva - troppo poco aggressivo, divertente, parodistico, cattivo, comunque troppo poco forte per convincere. Aspettiamoci a breve il film dei/sui Die Antwoord e un secondo disco, titolo Ten$ion, nel quale "vogliamo rappare usando la lingua che parlano le guide turistiche, mantenendo così il nostro sapore tutto sudafricano ma cercando allo stesso tempo di farci capire di più. Diciamo che sarà per un 95% inglese, con giusto un pizzico di Afrikaans". (5.8/10) Gabriele Marino Dirty Projectors - Bitte Orca Expanded Edition (Domino, Novembre 2010) Genere: Prog-pop A distanza di poco più di un anno dall'uscita del disco, tra le uscite più apprezzate dalla stampa nel corso del 2009, Bitte Orca ritorna disponibile sugli scaffali dei negozi in una versione arricchita di alcune rarità. Evidentemente è un periodo di grande raccolto per la band di Dave Longstreth, che già nel giugno scorso si era concesso il lusso di uscire con un'autoproduzione assieme a Bjork, per quel Mount Wittnberg Orca i cui proventi erano destinati alla National Geographical Society americana. In questa versione espansa del loro quinto lavoro di studio, Longstreth e soci offrono un intero secondo cd di memorabilie. Ci si ritrova un mini-live di cinque brani indicati come "Live at Other Music", con l'equilibrio delicato di intrecci vocali sostenuti quasi esclusivamente da chitarra e basso. Si passa poi alla seconda parte della scaletta che comprende i brani già presenti sul loro ultimo 7 pollici (e scaricabili gratuitamente dal loro sito): Ascending Melody è un brano allegro che sottolinea ancora di più gli accenti africani della musica dei Dirty Progectors; Emblem of the World è un tipico brano di Longstreth. A un remix tribalista (Stilness Is The Move, curato da Lucky Dragon) fa coppia una cover di Bob Dylan (As I Went Out One Morning, da John Wesley Harley del 1967). A condire il tutto una manciata di b-sides dell'ultimo periodo, quello finora più proficuo, della band. Per completisti. (6.5/10) Marco Boscolo 50 Drums Of Death - Generation Hexed (Greco-Roman, Luglio 2010) Genere: Synth-Pop Leggi il nome del progetto, guardi le foto su MySpace, e la prima associazione mentale che ti viene da fare è quella con i Liars, un po' per le suggestioni evocate e un po' per l'assonanza col loro Drum's Not Dead. Poi l'occhio cade su Greco-Roman, l'etichetta di Joe Goddard degli Hot Chip per cui esce questo Generation Hexed, e qualcosa inizia a non tornare. Infine ascolti e ti rendi conto di quanto l'abito non faccia il monaco. Niente isterie glo, niente tribalismi voodoo: cassa dritta, invece. Sì perchè Colin Bailey, alias Drums Of Death, è di fatto un animale da party. O da Bloc Party, come potrebbe in prima istanza osservare qualcuno nel ritrovare, in tracce come Won't Be Long o London Teeth, i medesimi richiami techno primi anni '90 che caratterizzano la produzione recente del celebre quartetto. Nel resto dell'album però trovano posto ritmiche più elaborate e costruzioni meno prevedibili, e allora forse il paragone era affrettato e quella timbrica vocale non è quella del buon Kele Okereke ma quella di Tunde Adebimpe dei più obliqui TV On The Radio (Science & Reason). Il quadro si fa chiaro del tutto solo quando tra strumentali 8bit (Creak) e funk convulsi alla Hudson Mohawke (Everything All At Once) inizia a fare capolino la parola wonky, la cui accezione di crossover di generi corrisponde di fatto alla filosofia su cui regge l'intero disco: non l'emulazione, più o meno volontaria, di questo o quel gruppo quanto piuttosto una genuina attitudine da club, dove intelligenza e profondità non sono bandite ma coniugate in una non-etica di puro divertimento. Così, quando Colin si fa più enfatico nel cantare, l'immagine che prende forma è semplicemente quella degli stessi brani suonati dal vivo, con il pubblico che incalza sotto il palco in Modern Age per poi sgolarsi nei cori di Voodoo Lovers. Generation Hexed è un album tutt'altro che innovativo ma in qualche misura fresco e all'insegna di un disimpegno che ci rende il suo titolare estremamente simpatico. Ottimo da suonare in un prossimo party casalingo, e poco conta se già tra un mese balleremo qualcos'altro. (7.01/10) Simone Madrau Eraldo Bernocchi/Harold Budd Semetipsum (RareNoise, Novembre 2010) Genere: Ambient Metti una serata in compagnia di Harold Budd al piano ed Eraldo Bernocchi alle elettroniche, all'inau- highlight Ebo Taylor - Love And Death (Strut Records, Ottobre 2010) Genere: Africana Strano scriverlo ma Love And Death è per il Vecchio Continente il debutto di un grande della musica del Ghana. In circolazione sin dagli anni ’50 e ’60, all’epoca cioè dell’esplosione della highlife, Mr. Taylor si faceva infatti le ossa nelle orchestre Stargazers e Broadway Dance Band, trasferendosi a Londra grazie a una sovvenzione statale: similmente a Mulatu Astatke, studiava il jazz, ne assimilava forme e “messaggio” e, tornato in madrepatria, cercava di incorporarlo nella tradizione. Si guadagnava da vivere come arrangiatore e produttore, decidendosi solo dalla seconda metà dei ‘70 a mescolare in proprio il retaggio sonoro ghanese con afrobeat, jazz, funk. Restando nelle retrovie, però affinando la miscela da farsi notare su alcune raccolte edite da Soundway e Analog Africa ed essere campionato dai populisti hip-hop Usher e Ludacris nella multimilionaria She Don’t Know. I tempi erano perciò assai maturi (il Nostro ha settantaquattro anni ) per un nuovo album e l’occasione è stata colta al volo dalla Strut, recapitando tre quarti d’ora fenomenali in toto e sovente venati di latinità allestiti con l’Afrobeat Academy, competente ensemble che srotola ipnotici tappeti percussivi e fiati vigorosi sulla sensuale essenzialità degli arrangiamenti di Taylor. Due suoi classici (Victory, Love And Death) e sei gemme di recente composizione ne spiegano il talento, lasciandoci quale unico rammarico la “scoperta” tardiva. Benvenuto, Ebo. (7.5/10) Giancarlo Turra gurazione di un nuovo marchio di vino della cantina di Michele Satta (Bolgheri, Toscana), e ottieni il master per un album di soffusa ambient e invisibili droni che non aggiunge nulla alla carriera dei musicisti ma che, senz'altro, rappresenta l'ideale compendio sonoro per la casa vinicola. In latino, il vino che dà il nome all'album significa "proprio se stesso" e sicuramente Budd, classe '36 e indimenticato protagonista di The Plateaux of Mirror e The Pearl con Brian Eno, è proprio il pianista che conosciamo e che abbiamo visto rinascere nei 2000 grazie a una serie musicisti che lo hanno spinto a continuare a suonare. Tra questi, ricordiamo David Sylvian (per il quale, su Samadhi Sound, ha inciso Avalon Sutra, che doveva essere il suo ultimo lavoro), Daniel Lanois, Robin Guthrie, lo stesso Bernocchi e, non ultimi, gli U2, con i quali ha registrato Cedars of Lebanon lo scorso anno. Nelle sue note nessuna sorpresa, dunque, e neppure nell'accompagnamento di un quasi invisibile Eraldo Bernocchi. Del resto, l'audio è funzionale al vino e agli scatti della video artista Petualia Mattioli. Il tutto al costo 160 euro (acquistabile sul sito di Michele Satta). Pondererei gli ultimi due fattori prima di tutto. (6/10) Edoardo Bridda Erik Friedlander - Fifty: 50 Miniatures For Improvising Quintet (Skipstone, Novembre 2010) Genere: avant jazz Noto per la sua collaborazione con John Zorn, il violoncellista Erik Friedlander è un nome di punta della scena avant-jazz newyorkese. Questo Fifty: 50 Miniatures For Improvising Quintet è frutto di un lavoro originariamente commissionatogli dal San Francisco Contemporary Jewish Museum. Ispirato ai 49 giorni di meditazione imposti da Mosé al popolo d'Israele affinché potesse degnamente ricevere - nel cinquantesimo giorno - le tavole dei Dieci Comandamenti, mette in fila una scaletta di 50 mini-composizioni organizzate in sette tracce o sezioni (le "settimane"). Ad interpretarle è chiamato un quintetto (violino, pianoforte, percussioni, contrabbasso e ovviamente violoncello) votato tanto alla frenesia impro che ad un romanticismo pensoso, con immancabile retrogusto klezmer ad insaporire la portata. Presentata così, è lecito attendersi una roba da post-nerd micragnosi e filosionisti, invece - detto che tali categorie potrebbero effettivamente apprezzare - è un disco effettivamente ispirato e a tratti geniale, la cui programmatica frammentarietà va a ricomporsi in un discorso sia estetico 51 che poetico coeso, unificato da un filo rosso di pensosa passione, perciò capace di intrigare senza soluzione di continuità. (7.2/10) Stefano Solventi Evol/ve - Evol/ve (Off-set, Novembre 2010) Genere: industrial-impro FM Einheit: molla; mattoni; trapano; lastra di metallo; laptop. Massimo Pupillo: basso elettrico; effetti. Basterebbero nomi e strumentazione per indicare da subito le traiettorie e gli obbiettivi di Evol/ve, ennesimo progetto collaborativo che vede coinvolto un membro dei nostri Zu in combutta con uno dei maestri indiscussi del rumorismo di matrice industriale. Quel FM Einheit co-fondatore degli Einsturzende Neubauten e vero e proprio rielaboratore delle idee primigenie dell’industrial anglo-americano (da Monte Cazazza e Throbbing Gristle in poi) in nome di un anticonvenzionale approccio materico al suono stesso. Noto per la sua strumentazione autocostruita partendo spesso da materiale di recupero e da scarti della società industriale - vera e propria industrial culture, altro che no - Einheit non è un semplice percussionista ma un vero e proprio sperimentatore “sul” suono e che trova in Pupillo un altrettanto valido e aperto indagatore del lato più sperimentale delle musiche estreme e improvvisate. Clangori, borbottii, frattaglie sonore in generale, esplosioni e stasi, microparticelle sonore disaggregate e poi riassemblate, prevalentemente in sede live. Questo troverete nell’ora abbondante, in rigorosa modalità improvvisata a 360°, che il duo mette in scena in questo omonimo esordio. E che stabilisce, se ce ne fosse ancora bisogno, lo spessore di artisti che credono fino in fondo in quello che fanno, senza preoccuparsi di hype o copertine. (7/10) Stefano Pifferi Fabrizio Tavernelli - Oggetti del desiderio (Lo Scafandro, Novembre 2010) Genere: Pop rock Ai meno giovani Fabrizio Tavernelli potrebbe ricordare una stagione d'oro per la musica indipendente italiana, quegli anni Novanta legati ai Dischi del Mulo, prima, e al Consorzio Produttori Indipendenti, dopo. In quel periodo, Fabrizio Tavernelli da Coreggio, provincia di Reggio Emilia, era già attivo sulla scena italiana con un progetto a nome En Marque D'Autre, ma è con la sua band successiva, gli AFA, che raggiungerà la massima visibilità. Un progetto non solo musicale, ma davvero 52 culturale: nomadismo, cultura cyber, sciamanesimo, etnomusicologia, letteratura off che caratterizzavano anche l'omonima rivista. Di tutto questo c'è ben poco in questo esordio solista firmato con il suo nome e cognome. Perché Fabrizio Tavernelli è un onnivoro musicale, una vera spugna capace di prendere qualsiasi materiale sonoro e culturale che lo incuriosisca e trasformarlo in qualcosa di personale. Succedeva con l'acid folk alleanza (questo il nome per esteso del suo gruppo più noto) che si impregnava tanto di folk italiano, di canti popolari, di esotismi cosmici, ritmi black, il trip hop, l'acid e tanto altro ancora. Succede ancora oggi per i suoi lavori da dancefloor a nome Ajello, per i suoi djset, per i suoi mille altri progetti, che si chiamano Groove Safari, Babel, Roots Connection. E succede anche dentro queste dieci tracce di pop rock di facile presa melodica. Si tratta di nove riflessioni ironiche, a volte amare, a volte spietate, che incorniciano una realtà, quella degli anni zero, dell'overload di informazione ma di scarne comunicazioni; dei desideri più o meno bassi di essere qualcun altro e viverne la vita via reality show; della natura messa in un angolo, mai esperita in pieno. E ci sono anche i rifiuti, la monnezza, una delle cifre della nostra Italia attuale, raccontata attraverso un brano di Faust'O (Benvenuti tra i rifiuti) di lancinante attualità. Benvenuto al nuovo progetto di Tavernelli e benvenuta alla nuova etichetta, voluta proprio da alcuni membri degli AFA. (6.9/10) Marco Boscolo Fresh & Onlys (The) - Play It Strange (In The Red Records, Ottobre 2010) Genere: sixties-garage Dichiarare di “farlo strano” e poi aprire con un pezzo (Summer Of Love) che per titolo e suggestioni rimanda al periodo aureo del sixties-pop, è per lo meno contraddittorio. In realtà, è strano di per sé che il sottobosco weird-garage in lo-fi, dai padrini Thee Oh Sees in giù, si dedichi con tanta sensibilità e abnegazione alla riproposizione del suono pop dei 60s. Quello tutto flower power, psichedelia soffusa, suoni solari e twangy e fluenti chiome al vento, per intenderci. Sia come sia, Play It Strange è il terzo album lungo in nemmeno due anni per l’instancabile formazione di San Francisco e le coordinate di cui sopra sembrano, complice forse anche una registrazione avvenuta per la prima volta in uno studio professionale, messe più a fuoco. Ci si muove su un versante spensierato e dreaming in cui le aperture psych-pop dei sixties-via-Paisley vengono trattate alla maniera (proto)punk tipica del sottobosco garage specie californiano ma, al di là di questo steccato, le atmosfere vengono sporcate di deserti morriconiani (Until The End Of Time, Waterfall), scheletriche oscurità pop post-Velvetiane (All Shook Up, Red Light Green Light) o bizzarrie esotiche suonate con la foga della band di John Dwyer (Who Needs A Man, la fluviale Tropical Island Suite). Ne esce una forma eclettica, personale e ancora in divenire del revival sixties e che, in fin dei conti, dà loro ragione. (7/10) re Did My Duck Go su tutte), condite dai consueti testi iperpersonali da eterno teenager timido e infoiato allo stesso tempo (Mary, Cathy, Karen, Lisa, Linda, Diane; il cast delle ossessioni femminili è il solito) e intervallate come d’abitudine da una serie di brevi schegge strumentali ora lounge ora psych. L’effetto sull’ascoltatore è sempre straniante: da mente irripetibile qual è, il genio contorto di Wilson fonde comico e tragico con estrema naturalezza, lasciandoti al contempo entusiasta, infastidito e parecchio confuso. Una lezione costante - e inarrivabile - per tutti gli Ariel Pink e Of Montreal di questo mondo. (6.7/10) Stefano Pifferi Antonio Puglia Gary Wilson - Electric Endicott (Western Vinyl, Novembre 2010) Genere: weird pop Giobia - Hard Stories (Jestrai Records, Novembre 2010) Genere: garage psych Pensate di conoscerlo davvero, Gary Wilson? Non ci stupirebbe anzi se non lo conosceste affatto: nell’ideale classifica degli outsider di (stra)culto il suo nome occupa di diritto una posizione parecchio alta. In estrema sintesi: un album completamente fatto in casa nel 1977, You Think You Really Know Me, che mescolava senza remore funk, disco, punk, psych, avantgarde, new wave e doo wop riprendendo e anticipando in misura diversa Prince, Flaming Lips, Beck, Steely Dan, Lou Reed, Daniel Johnston, in una sorta di parodia residentsiana che però si prendeva sul serio, eccome. A ciò si aggiunga un personaggio coi controfiocchi: enfant prodige (scrive e incide nella cantina dei genitori sin dai dodici anni di età), discepolo di John Cage (che gli avrebbe suggerito: “se la tua performance non irrita il pubblico, non hai svolto il tuo compito”), musicista lounge (attività che svolge ancora attualmente per sbarcare il lunario), amante delle anatre (che alleva e cura come animali domestici), terrorista live (i suoi show a base di mise impossibili, sangue finto e farina sono ad oggi un must). Certi di avervi titillato a dovere, vi rimandiamo per il resto al documentario You Think You Really Know Me: The Gary Wilson Story - oltre che ovviamente all’omonimo disco, più volte ristampato - e veniamo al dunque: questo è il terzo album del clamoroso comeback di inizio millennio, fortemente voluto dai fan più accaniti (Beck in testa) e che ha già prodotto Mary Had Brown Hair (2004) e Lisa Wants To Talk To You (2008), di fatto riprese musicali e tematiche del citato capolavoro weird del ‘77. Per quanto più coeso e omogeneo, Electric Endicott ovviamente non sfugge alla regola: una festa camp di nenie pop appiccicosissime e irritanti insieme (Whe- Secondo disco per i Giobia da Milano, seconda tappa di quella che pare essere a tutti gli effetti una magnifica ossessione: per il garage psych dei sixties come si profilò in un formidabile e immaginifico gioco di rimbalzi sulle due sponde dell'oceano, riverberando effetti collaterali surf e western, rigurgitando particelle mnemoniche vaudeville/folk col preciso scopo di farne additivi per sfornare polpette stupefacenti. La mezz'ora di questo Hard Stories poco concede alla contemporaneità, è uno sberleffo ucronico, un "fra parentesi" a tenuta stagna. Poco a che vedere con proposte tipo Jennifer Gentle, che muovono da premesse simili per azzardare un indie mutante con attitudini progressive e tentativi (velleità?) d'inaudito. I Gioiba, invece, sembrano voler rendere conto solo a se stessi (alla magnifica ossessione di cui sopra). Aprono lo scrigno e lo richiudono. Tutto qui. Inevitabile chiedersi: perché spendere soldi e tempo per un disco come questo se posso ripescare dal baule i vecchi Blues Magoos, Electric Prunes, 13Th Floor Elevator, Pretty Things o addirittura i primi Pink Floyd? Me lo sono chiesto, infatti. E mi sono dato almeno tre risposte: perché i Gioiba scrivono belle canzoni; perché le interpretano bene; perché hanno tutta l'aria di divertirsi parecchio. A voi giudicare se sono buoni motivi. (6.9/10) Stefano Solventi Gregory & The Hawk - Leche (Fat Cat, Ottobre 2010) Genere: bedroom indie-folk All'epoca del suo esordio del 2007, In Your Dreams, 53 highlight Ex (The) - Catch My Shoe (Ex Records, Novembre 2010) Genere: free-punk Si scrive The Ex, si legge passione, radicalismo, antagonismo, terzomondismo, classe, impegno e chi più ne ha più ne metta. Trenta e passa anni di palchi scomodi e fiere autoproduzioni, giri del mondo su pentagramma e scouting fraterno e borderless (un esempio? Getatchew Mekuria e tutta la cricca etiope) fanno della formazione olandese una istituzione per chiunque si approcci ad una idea anche lontana di musica sinceramente indipendente. Catch My Shoe, 25esima perla di una carriera florida e incompromissoria, porta con sé una novità sostanziale a livello di formazione (l’ingresso del neo-cantante Arnold De Boer al posto del dimissionario G. W Sok) ma il meccanismo sonoro del quartetto non ne risente affatto. In perenne oscillazione tra ipnotico rock proteso al sud del mondo e post-punk scheletrico e free, wave raffinatissima ed eclettica e punk attitudinale, il meticciato degli olandesi è al solito eccitante connubio di rabbia e ricerca, esotismo e trance viscerale. Un particolare apprezzamento va a Eoleyo (marziale e scarna rendition post-punk del Gurage anthem di Mamhoud Amhed), al Konono-sound virato nervosismo fugaziano di Bicycle Illusion, all’incendiario procedere epilettico di 24 Problems, ma ogni singola nota qui è al di sopra della media e pronta ad esplodere in mille rivoli diversi, inattesi, sorprendenti. Non a caso il motto della formazione olandese è Forward, in all directions. (7.2/10) Stefano Pifferi Meredith Godreau scelse il moniker Gregory and the Hawk per non essere associata a quel female folk che sapeva tanto di Novanta. Dopo l'esordio su Fat Cat nel 2008, con un disco, Moenie and Kitchi che faceva della collaborazione con altri musicisti il punto di discontinuità con le vicende precedenti, per il terzo full lenght si ritorna nella cameretta per dodici episodi in equilibrio tra folk e twee pop, dove la soavità e la zuccherosità sono elementi determinanti. La prospettiva defilata è quella preferita dalla Godreau, che scrive di aver voluto basare Leche sull'osservazione di diversi luoghi e persone, "viaggiando, sia fisicamente che psciologicamente, ma senza venire mai coinvolta". E come tutti i viaggi che si rispettino, anche questo prevede una ricerca interiore speculare a quella esteriore (Soulgazing), il lasciarsi ammaliare dal paesaggio (Landscapes) e il sogno (Dream Machine). Musicalmente, nonostante il tentativo di depistaggio del moniker, siamo vicini al female folk di Mirah e alle atmosfere eteree e bucoliche di Joanna Newsom, ma giocate sempre con una inclinazione al ritornello appiccicoso che fa pensare, soprattutto negli episodi più movimentati, come Olly Olly Oxen Free, ai Belle and Sebastian. In Leaves fa capolino anche un po' di decadenza rock, rendendolo uno dei brani più riusciti del 54 lotto, con la voce della Godreau che mette in gioco una sostanza inattesa e sembra quasi giocare sul modello Lolita. Leche suona bene e scorre meravigliosamente nel lettore, ma ha il limite di non conficcarsi mai definitivamente nella memoria, lasciando l'esperienza dell'ascolto avvolta in una nebbia monocroma. (6.5/10) Marco Boscolo Houses - All Night (Lefse, Novembre 2010) Genere: electro pop Da Chicago alle Hawaii e ritorno: una parentesi necessaria per Dexter Tortoriello e Megan Messina, compagni nella vita e musicalmente. La loro non fu una vacanza ma una specie di ritiro sabbatico: si licenziarono dalle rispettive occupazioni e via, sparire, rifugiarsi in un altro mondo fuori dal mondo, lontano dalle traiettorie turistiche. A far cosa non è dato sapere con precisione, ma abbiamo oggi il privilegio di sentirne i frutti con questo All Night, album desordio a nome Houses targato Lefse (che ultimamente non ne sbaglia una). E' un pop mesmerizzato d'elettronica che conserva fragranze acustiche tra arzigogoli glitch, votato - per così dire - alla rappresentazione impressionista di nuances riconducibili - forse, chissà? - a mattini silenziosi e crepuscoli solitari. Un gioco di spazi reso splendidamente incerto da caligini e pioggerelle, di tempo che s'acquieta in un palpitante abbandono. Immaginatevi i Boards Of Canada se li ipnotizzassero i Mazzy Star, un Dntel frugale o addirittura un Aphex Twin contemplativo. Dieci tracce che ti accompagnano in questo sogno che non puoi permetterti davvero ma ti ci puoi immergere eccome. Concrezioni cedevoli e armoniose, struggenti (Sleeping) e briose (Reds, Soak It Up), suadenti (Endless Spring) ed eteree (Medicine). Contro il logorio della vita moderna, come diceva quel tale. (7.2/10) Stefano Solventi How To Dress Well - Love Remains (Lefse, Ottobre 2010) Genere: errebì glo-fi Tom Krell studia filosofia a Colonia e nel frattempo sforna EP a ripetizione distribuendoli attarverso il suo blogspot col nick name di How To Dress Well. Incantando il mondo, o almeno quello disposto a farsi incantare da questi incantesimi suadenti e malsani raccolti nell'album d'esordio Love Remains. Una patologia errebì insopprimibile scritta sulla pergamena spiegazzata del glo-fi, precarietà ed ossessione, intensità e languore, il gusto della posa e la necessità dell'espressione. Imprinting black quindi e prima di tutto, a tratti puoi percepire particelle Erykah Badu (My Body) e persino Michael Jackson (Mr. By & By), ma i miei parametri me lo fanno collocare da qualche parte tra gli ultimi demo di Jeff Buckley e lo Xiu Xiu meno aggressivo, coordinate fatte traballare da quel senso di tenerezza ineffabile mentre vaporizza Patrick Wolf e Sigur Ros e persino certa spiritualità Antony. Comunque è tutto molto basale, in un certo senso naturale per quanto alterato di tecnologia, in un'ottica di trasfigurazione sintetica che conserva l'impronta - la goffaggine - umana. Probabilmente non siamo troppo lontani dall'errare nutritivo profetizzato da quel buontempone di Brian Eno, ma non prendetemi troppo sul serio. Più certo mi sembra che tra la glassa caliginosa di Lover's Start, l'evocazione etno-soul di Decisions e la cassa in quattro di Walking This Dumb passi un intero universo di vibrazioni e possibilità. E' proprio il caso di tenerlo d'occhio. (7.4/10) Stefano Solventi Il Garage Ermetico - Pugni nell'aria EP (Fumaio, Novembre 2010) Genere: punk rock Quattro album alle spalle smerigliando electro-folk finché non è rimasto che l'osso di un'urgenza (post) punk, che trova infine attuazione in questo Pugni nell'aria EP, sorta di punto e accapo per i bergamaschi Il Garage Ermetico. Spesi gli adeguati complimenti per cotanta ragione sociale (ispirata ad un fumetto di Moebius) e per l'alltrettanto fumettistico artwork (a cura di Francesco Betti), non resta che constatare lo slancio ruvido e l'impetuosa pensosità che muove la proposta, quell'impatto grezzo/impellente ma acuto e sensibile che non può non rimandare alla calligrafia di Giorgio Canali (si prenda la tesa John Cassavetes), foga che s'acquieta - ovvero si prende una vacanza d'irrequietezza con la ballad La classe operaia va al Bolgia, sintonizzata su frequenze Marlene Kuntz. La stringente alternanza di talkin nevrastenico e raffiche melodiche ti fa quasi pensare ad un Rino Gaetano hardcore, oppure - tanto per restare alla cronaca recente - ad un Vasco Brondi che ha spezzato il cerchio greve della disillusione con robuste iniezioni di disperata, struggente combattività rockista. In ogni caso, il minimo comune denominatore degli anni zero non demorde, non smette di contagiare. Se ne usciremo senza rinnegarli sarà anche grazie a dischi come questo. (7.2/10) Stefano Solventi Inca Babies - Death Message Blues (Black Lagoon Records, Novembre 2010) Genere: post-punk / blues Non verranno certo ricordati per questo Death Message Blues gli Inca Babies. Al massimo per essere stati un discreto gruppo post-punk della Manchester di inizio anni Ottanta, capace di sintetizzare certi liquami Birthday Party e le maniere grezze dei Cramps in quattro dischi quattro. Un'avventura cominciata nel 1983 con un caveiano Rumble e conclusasi nel 1987, agli albori di quella Madchester chimica che imporrà canoni estetici di tutt'altro genere. Risale al 2006 l'inaspettata reunion della formazione, sulle ali di un Plutoniom best of edito dalla Cherry Red. Tour successivo, qualche soddisfazione, l'idea di scrivere nuovo materiale. Poi l'improvvisa morte del bassista Bill Marten a metà lavorazione, un evento che trasforma la pubblicazione di Death Message Blues in un inevitabile omaggio all'amico scomparso. Nel disco tutto si riduce a una raccolta di blues-rock acido come lo avrebbero fatto gli Electric Prunes se 55 highlight Leila Adu - Ode To An Unknown Factory Worker (Rai Trade, Novembre 2010) Genere: jazz Un “melting pot” vivente, Leila Adu. Origini ghanesi e passaporto neozelandese, ha sin qui conciliato un’istruzione musicale di stampo accademico (sul muro una laurea specialistica in moderna elettroacustica, etnomusicologia e orchestrazione) con la passione per jazz ed elettronica. Dal 2003 ha recapitato tre album di canzoni “trasversali” che, facendo leva sul pianoforte e una voce di peculiare espressività, di quanto sopra cercano e sovente trovano la quadratura del cerchio, giovandosi inoltre della presenza di Steve Beresford e Lol Coxhill, di Steve Albini ed ex membri Rip Rig & Panic. Non contenta, Leila ha composto partiture per spettacoli di danza, per il teatro e il cinema, e nei ritagli di tempo (!) tiene corsi di canto semi-improvvisato per ragazzi. Alla faccia. Giunta con il precedente Truth in The Abstract Blues - in trio con il chitarrista Mike Cooper e il batterista Fabrizio Spera - su Rai Trade, la ragazza raddoppia con questo spartano e intenso Ode To The Unknown Factory Worker, sola davanti a tasti bianchi e neri tranne quattro brani nei quali si aggiunge la batteria del bravo e misurato Daniele De Santis. Ne risulta una manciata di acquerelli intimisti che fanno pensare a una Joni Mitchell traboccante melanina, a certe pagine di White Magic (Cigarettes & Circus Puffs) o a una Nico modernista che ha freudianamente rimosso il gotico (la splendida Fortuna). Uno spirito costantemente disposto a sbrigliare emotività spigolosa (la title-track, Brazen Hussy) quanto lo è nel concedere alla stessa autocontrollo e romanticismo mai banale (Martin Raft, Glass). Chiosando Bill Evans, sono conversazioni con se stessa che - superata l’iniziale difficoltà - scopri divenire un abitudine. Discorsi che cancellano l’eccesso di vacuità e rumore di fondo che infesta certe nostre giornate. (7.4/10) Giancarlo Turra fossero stati prodotti da dei Gun Club imbolsiti. E forse è proprio questa la vera notizia. Ovvero ascoltare il gruppo parafrasare i bluesmen del delta in Tumblin' Man, scimmiottare un crossover chitarristico dal vago sapore Bad Seeds in The Miracle That Holds Me In Its Hands o accostarsi a un soul à la Eric Burdon in Even Lovers Drown, quando in realtà il passato della band sta da tutt'altra parte. Il resto è verve da cinquantenni, lutti che segnano, crisi di identità, ricerca poco convinta di uno svecchiamento fuori dai soliti giri. Un altro mattone di una biografia borderline che per ora si mantiene forzatamente borderline. (5/10) Fabrizio Zampighi James - The Morning After (Mercury, Settembre 2010) Genere: pop Dopo The Night Before, ovviamente The Morning After: nel giro di pochi mesi i James di Tim Booth tornano con un altro mini, otto canzoni per mezzora di durata in cui 56 espandono e danno ulteriore prova di quell’ispirazione già testimoniata un paio d’anni fa dal sottovalutato Hey Ma. Consapevoli del loro stato di meravigliosi reietti, i mancuniani continuano dunque, com’è loro costume da ormai una buona trentina d’anni, a fare musica per orecchie selezionate ed attente: dai toni epici che sanno di celtico di Got The Shakes e Rabbit Hole (come dovrebbero suonare gli U2 oggi, se avessero ancora sangue al posto del cash) al tecno-pop di Tell Her I Said So (New Order e Pet Shop Boys sugli scudi), dalle ballate acustiche Kaleidoscope e Dust Motes (Coldplay e Echo & The Bunnymen, toc toc) e i sentori notturni à la Eno di Fear all’enfasi orchestrale di Lookaway (non troppo lontana dal Morrissey solista dei primi tempi). Praticamente un inappuntabile compendio di stile, con gusto e sentimento. Niente da fare, anche volessimo non riusciremmo a dirne male. (6.9/10) Antonio Puglia James Blake - Klavierwerke EP (R & S Records, Ottobre 2010) Genere: chamber step Una generazione di post-stepper under30 dà nuova linfa al genere ammorbidendo i toni e diversificando il suono tra richiami trip-hop, folk, glitch, new wave, suggestioni da colonne sonore e classica contemporanea. I Mount Kimbie sono il primo nome da segnarsi. Il secondo, to be, quello di James Blake, un paio di lavori sulla breve distanza alle spalle e un tag come "Modern Classical" su discogs.com che spiega perfettamente da quanti punti di vista diversi può essere guardata la faccenda. Quattro pezzi soltanto in questo nuovo mini e un dubstep arty studiatissimo (tutto glitch decorativo tra bolle e intarsi come di biglie di vetro, fantasmi trip-hop, piano tra l'austero e il romantico), immerso, come il titolo lascia opportunamente intuire, in un'atmosfera che fa tanto "musica da camera + Repubblica di Weimar". (7/10) Gabriele Marino Jamiroquai - Rock Dust Light Star (Mercury, Novembre 2010) Genere: electro funk Dopo cinque anni di silenzio, Jay Kay torna ancora una volta col suo baraccone funky UK. La ricetta è quella che ci serve sul piatto ormai da millenni, e anche se era facile migliorare il disastro del precedente Dynamite, la nuova fatica non fa altro che assestarsi sulle linee di una sonorità ormai uber-sfruttata e ostentatamente macchiettistica. I Jamiri si rifanno il trucco ancora una volta e variano di poco lo stile, ripescando le coordinate della blaxpoitation con gli assoli di sax o dei tastieroni analogici d’obbligo (Smoke And Mirrors), ci apppuntano qualche passaggio disco con i clap e i falsetti da febbre del sabato sera (White Knuckle Ride) che fa tanto fashion à la Scissors Sisters, sanno spingere il ritmo con l’uptempo delle chitarrine funk e con i coretti in terza (All Good In The Hood) e per finire ci impastano anche la hyperballad (Blue Skies) che ricorda le boys band dei Novanta più che James Brown. Un fiasco? Dopo qualche ascolto ripetuto, bisogna riconoscere come la patina vintage e la polvere del tempo non stia proprio male sulla tuba esplosa di Jay, anche se il divano su cui si adagia il suo gruppo ha ormai le molle rotte. Il disco si lascia ascoltare in sottofondo e ripete un cliché consolidato, buono per un ascolto loungey senza troppe pretese. E’ ora di ripartire e staccarsi dallo space funk monolitico e patinato che da quel lontano 1993 (anno in cui è uscito il capolavoro Emergency On Planet Earth) non ha per nulla variato gli ingredienti. La tecnica c’è (basta ascoltare il groove di She’s A Fast Persuader), aspettiamo che arrivi anche la voglia. (5/10) Marco Braggion Jason Collett - Rat At Tat (Arts & Crafts, Ottobre 2010) Genere: ultra-pop Chissà se, oltre a prestare la chitarra ai connazionali e padroni di casa discografica Broken Social Scene, Jason si diletta di pasticceria. Così fosse, potrebbe incanalare colà la propensione ai dolciumi pop dal basso tenore calorico e dal gusto persuasivo come quelli qui confezionati con i compagni di merende Zeus. Base strumentale solida di un disco che nella penna omaggia il miglior Ray Davies (afflitto in Winnipeg Winds e festante al confine tra Texas e Messico in Vanderpool Vanderpool), che immagina Bob Dylan in abiti più del solito eleganti (The Slowest Dance, Rave On Sad Songs) e che pesca con intelligenza dal bagaglio dell’odierno pop-writer (spinte adeguatamente, le discrete Long May You Love e Love Is A Chain potrebbero andare lontano). Autore consapevole della storia ma non prono di fronte agli stereotipi, Collett irrobustisce il John Lennon acidulo del White Album in High Summer e Lake Superior; sereno, all’affanno dei “cugini” statunitensi e alle apocalissi di Arcade Fire antepone l’arguzia figlia di Jeff Tweedy che emerge da Bitch City e Cold Blue Halo. Confermandosi figlio di Toronto, città decentrata a sufficienza per osservare le mode con distacco e leggerle attraverso un vetrino insieme appassionato e sornione. Soprattutto, dicendosi cavallo di razza meritevole di attenzione. (7.2/10) Giancarlo Turra Kanye West - My Beautiful Dark Twisted Fantasy (Roc-A-Fella, Novembre 2010) Genere: pop-hop baraccone Il 2010 di Kanye è cominciato presto, con l'indifendibile live VH1 Storytellers. Poi l'uomo si è dedicato massicciamente - con quelle mosse che solo lui sa e può - a promuovere questo quinto album, seguito della zuccherosa epopea autotunistica 808s & Heartbreak (2008). Lo scacco matto, tutti al tappeto, il lancio sulla rete di quel vero e proprio mini-"action movie filosofico" che è Runaway. Kanye, il migliore imprenditore di se stesso. E proprio Runaway - in allegato come dvd nell'edizione deluxe, in streaming ovunque sul web - è la perfetta 57 chiave di lettura del personaggio e un succo concentrato della sua visione del mondo, molto più del disco in quanto tale (che è un ottimo disco di pop-hop now). Runaway è un Bildungsroman mancato, la storia di un incontro/scontro e di un rifiuto, la storia di un angelo - la modella Selita Ebanks - caduto dal cielo che cerca di capire il nostro mondo e che, consapevole che "anything that looks different you try to change", si vede costretta a scappare e a fare ritorno alla propria dimensione celeste: neppure l'amore del suo Virgilio (Kanye ovviamente, attore regista e quant'altro) potrà trattenerla. Runaway è meravigliosamente ridicolo, è un'americanata superpatinata, compiaciuta, autoindulgente, frutto dell'egosbornia sbrigliata del nostro, sempre più convinto che la propria filosofia di vita ("No more drugs for me, pussy and religion is all I need" dice in Hell Of A Life) sia particolarmente profonda e dunque degna di essere esposta al mondo con il massimo dispiego di mezzi e tutte le pretese artistiche del caso: Vanessa Beecroft come art director, citazioni cinefile e omaggi musicofili, trucchi narrativo-registici come la Ringkomposition che lega inizio e fine, un uso estenuante del ralenti che dà la stessa nausea dell'abuso dell'autotune ai tempi d'oro. Tutto questo per veicolare la denuncia dell'omologante cannibalismo esistenzial-materialista di cui siamo vittime e carnefici. Insomma, quello che ne viene fuori è davvero il trionfo del postmoderno come confusione etico-estetica, come guazzabuglio e vuoto decorativismo, per di più elevato al quadrato perché asservito alle esigenze esagerate di quell'ego che ben conosciamo: meravigliosamente ridicola la scena in cui, novello sciamano-incantatore di serpenti, Kanye attizza l'angelo/fenice suonando come un ossesso Power all'mpc. La musica non è l'ennesima epifania promessa dal guru Kanye, ma un ottimo esempio del suo coloratissimo mondo musicale fatto di orchestrazioni ed elettronica, ballad romantiche (quella pianistica con John Legend), tamarrate che sono nuove forme di crossover (la pompa uptempo e gli strombazzamenti di All Of The Lights), funk&soul (i cori dell'intro, il pathos di Devil In A New Dress), classic rock (i prestiti da 21st Century Schizoid Man e Iron Man), omaggi alle grandi figure della black (se nel video c'è una parata con un megabusto di Jacko, qui si chiude con un discorso paranoico di Gil Scott-Heron). Mondo colorato condito da una quantità di ospiti delle più diverse estrazioni: Kid Cudi, Raekwon, Rihanna, Alicia Keys, Elton John, Jay-Z, Bon Iver. Pochissimo autotune (la conclusiva, eccessiva e divertente Lost In The World) e mezza scaletta almeno 58 con numeri impeccabili per efficacia, su tutti Runaway (la canzone), dal grande appeal pop-rock, e Monster, con le sue appiccicose atmosfere urban-tribal. (6.9/10) Ma non bisogna perdere di vista contesto e progetto e così il film non può essere scartato al momento di tirare le somme. Il ridicolo lo possiamo anche promuovere, ma solo quando lo avalliamo. (5.9/10) Gabriele Marino Kid Cudi - Man on the Moon II: The Legend of Mr. Rager (GOOD Music, Novembre 2010) Genere: black / psych hop Torna Scott Mescudi dopo un esordio con il botto. Man on the Moon: The End of Day era un disco di buon livello, ampiamente sopravvalutato in USA e UK (fa eccezione Pitchfork che lo ha stroncato), accolto bene anche qui da noi, con un giudizio su tutti da ricordare per oculatezza critica, quello di Eddy Cilìa, che pur citandolo tra i dischi chiave dell'anno ne sottolineava la disomogeneità qualitativa. Ora Cudi è cresciuto (non solo musicalmente, è tra i protagonisti di How To Make It In America, il serial che ha per sigla I Need A Dollar di Aloe Blacc) e gli si deve riconoscere lo smarcamento tutt'altro che facile da definizioni pret-a-porter come "il pupillo di Kanye West" e "quello di Day 'n' Nite" (ricordiamolo però che il remix bomba dei Crookers ha dato nuova vita e fatto esplodere un pezzo tutt'altro che irresistibile). Questo sequel (come il padrino Kanye, Scott ama sottolineare il proprio gusto per la costruzione dell'impianto narrativo) è davvero una spanna sopra. Meno solare (lì numeri come il mascheramento GaGa-iano di Make Her Say, qui una vena umbratile e bluesy che percorre tutta la tracklist), meno elettronico ed effettistico, più misurato, soprattutto più personale nell'approccio blackneopsichedelico, più curato (contiamo 50 tra tecnici del suono, ingegneri e produttori). Cudi ha davvero fatto il salto di qualità. Tra numeri di alto livello (su tutti, lo slo-rap della notturna e urbana The End) e ottime prove di mestiere, sia per l'interpretazione che per le basi (ballad fumose, influenze musical, tentazioni sperimentali - industrial, psych, addirittura folk - tra indie e alt-hop), si fa perdonare un paio di numeri meno a fuoco, come il duetto enfatic college pop con Kanye in Erase Me. E bravo Cudi. (7/10) Gabriele Marino King Dude - Tonight’s Special Death (Disaro, Settembre 2010) Genere: Folk Noir Liir Bu Fer - 3 Juno (Zeit Interference, Ottobre 2010) Genere: ambient-kraut TJ Cowgill, l’ultimo adepto del culto del triangolo, è un oscuro e barbuto individuo proveniente dalla periferia industriale del Nuovo Continente (leggi: Seattle) che a differenza dei suoi congregati non armeggia con elettronica casalinga, tutta sample, loop, synth e drum machine, ma, al contrario, predilige lo strumento più classico ed unplugged, la chitarra acustica. Cento copie su CDr, Tonight’s Special Death è fatto di ballad trad-apocalittiche immerse in simboli simil-satanici e paganeggianti (come già eloquentemente testimoniato dal singolo The Black Triangle su Clan Destine), otto brani che alternano umori da folk antico (River Of Gold) e moderno (Born In Blood), vedendo anche la partecipazione di un'altra reginetta del nero, Kendra Malia dei White Ring (Slaves).Un ruvido e personale misto di Death In June, Werkraum e :Of The Wand & The Moon:, ma anche Dylan, Guthrie, Leonard Choen e tutta la scuola del cantautorato americano più intimista e solitario. Una buona prima prova. (7/10) Difficile tracciare un percorso stilistico ben definito quando si parla dei veronesi Liir Bu Fer. Certo è che il terzetto ama crogiolarsi in una ricercatezza sonora cerebrale almeno quanto il moniker scelto per la ragione sociale. Il che significa, nel caso specifico del loro disco d'esordio 3 Juno, avere a che fare con un ambient filokraut che somma spazi aperti costruiti su un'elettronica liquida (Esperanto) a una ricchezza timbrica suggestiva e variegata. Kalimba, pianoforte, loops, microfoni a contatto, armonica, flauto, ebow, musica concreta, suoni in reverse: questo ed altro nelle corde di Nicola De Bortoli, Andrea Tumicelli e Marco Tuppo. Un campionario di landscapes descrittivi a cui si mescolano voci senza tempo (gli Ovo non sono poi così lontani dall'approccio al cantato di Es) e veri e propri testi in bilico tra sacralità ferrettiana e acutezze à la Stratos (Red Submarine). Mancano un po' di pragmaticità e coesione, sacrificate sull'altare di un'accuratezza formale prolissa, debordante e forse fin troppo pretenziosa. (6.4/10) Andrea Napoli Fabrizio Zampighi Laetitia Sadier - The Trip (Drag City, Settembre 2010) Genere: pop vintage wave Certo il tempo è passato e dall'elegante francese non ci si aspettano più miracoli o cambi di rotta particolari, pur sapendo della pausa a tempo indeterminato dagli Stereolab e della chiusura del side-project vintage pop Monade. Batterie krautrock, ritmiche affidate a synth meccanici o a chitarre altrettanto robotiche, arrangiamenti raffinati e una voce sempre eterea e sofisticata. Gli ingredienti non cambiano eppure una differenza si avverte: il volume del microfono è alzato e Laetita lascia trasparire un velo d'emozione inedito specialmente nella malinconica ballata Statues Can Band e nella frizzante One Million Year Trip, che parla del suicidio della sorella. A render più umana la cantante contribuiscono le liriche e una maggiore espressività, specie nelle due splendide cover Un Soir, Un Chien di Les Rita Mitsouko (dove neppure il minimalismo elettronico tanto caro alla sua vecchia band riesce a oscurare l'interpretazione vocale) e By The Sea di Wendy & Bonnie. Il Trip musicale di Laetitia è lungi dall'essere concluso. (6.8/10) Gemma Ghelardi Lukid - Chord (Werk Discs, Ottobre 2010) Genere: post-wonky Se il wonky è ormai diventato un ‘affaire’ di definizione dell’estetica electro post-00 lo dobbiamo a gente come Lukid. Già con il suo precedente Foma ci aveva deliziato con inserti, sample e accostamenti che ereditavano la sapienza del bbreaking attualizzandola con le mosse poetiche di Warp o Ninja Tune. Proseguire su quella strada ormai quasi saturata dalle proposte è dura, ma Luke Blair sa cosa fare al momento giusto e al posto giusto. La tattica per uscire dalla dispersività massimalista del dopo-Flying Lotus è inserire qui e là citazioni da altri mondi senza rovinare tutto con un inopportune uscite fuori tema. Il ragazzo resta sempre nelle stanze bbreak UK che caratterizzano il marchio di fabbrica Werk, ma ci costruisce intorno un’impalcatura di suonini a 8 bit (Rags), di loop Novanta illbient (Hair Of The Dog), field sounds à la Coldcut (Child Of The Jago), tastierine analogiche, tagli acidi (Through Gritted Teeth) e altri accorgimenti che dicono e non dicono, che aprono possibilità restando piacevolmente sull’irrisolto. Chiamiamolo ancora wonky, ma se vogliamo dirla tutta, questa è musica ambient per smanettoni, un piccolo mondo privato in cui rifugiarsi, sia esso il deboscio 59 post-party o la session di social network quotidiana cui ormai siamo inevitabilmente condannati. Chord fa da colonna sonora all’indeterminatezza del nostro presente con canzoni che non ricorderemo come singoli, bensì come una teoria di suoni da lasciare in loop melliflui e ammiccanti. Non cancellatelo dalla playlist. Tornateci ogni tanto e vedrete che lo apprezzerete sempre di più. Quello che oltreoceano chiamano un grower. (7.2/10) Marco Braggion Majeure - Timespan (Temporary Residence, Novembre 2010) Genere: synth revival A.E. Paterra, batteria e synth, è personaggio noto a chi bazzica nel sottobosco americano. Quando suona in doppio col chitarrista Steve Moore (anche basso e synth) si fanno chiamare Zombi e vanno di Goblinprog virato krauto ma sempre sul crinale delle musiche estreme, incidendo per etichette come la Relapse. Ora il drummer se ne esce in solitaria e accentua il versante analogico del suono della casa madre. Timespan si muove, infatti, completamente dentro al revival cosmico che tanti cuori spacca ultimamente, dagli Emeralds in giù: colonne sonore a furia montante di synth analogici e suoni vintage, con predilezione per atmosfere semi-horrorifiche, accenti futuribili come di un Vangelis periodo Blade Runner ed esposte in tre fluviali tracce che si fanno ascoltare alla grande. Minimalismo moog-oriented e in modalità sci-fi applicato a cavalcate post-Can in definitiva, in cui si apprezza l’alternanza tra la muscolarità live della batteria e le algide distese di suoni elettronici. Il disco esce in edizione vinilica, di cui esiste pure una versione digitale limited: doppio cd con bonus di remix del collega Steve Moore (la title track), dell’immancabile Justin K. Broadrick aka Jesu (Teleforce) e del produttore francese Black Strobe (The Dresden Codex). (6.9/10) Stefano Pifferi Manuok - The Old Horse (Macaco Records, Settembre 2010) Genere: alt-folk La ricchezza espressiva del precedente No End To Limitations viene ridotta in un battibaleno alla musica minimale, strascicata e malinconica di The Old Horse. In un bagno primordiale di affetti persi (il nonno) e ricordi rurali, andature svagate e cantato in controluce che si accontenta di farsi guidare da una chitarra acustica, un pianoforte, un batteria e poco altro. Parrebbe un difet60 to e invece è un pregio. Tanto che in questo più che in altri dischi di Scott Mercado - alle spalle militanze in Black Heart Procession, Devics e miriadi di collaborazioni, non ultima quella che lo ha visto ricoprire il ruolo di produttore per il recente Super 8 dei Grimoon - sembra emergere la reale virtù del polistrumentista americano. Ovvero il saper fissare confini e obiettivi precisi, anche quando si tratta di maneggiare - ed è il caso soprattutto di questo terzo disco a nome Manuok - quello che forse è il materiale più comune e malleabile sulla piazza: il folk. In tanti ci provano, pochi riescono a gestire alla stessa maniera lirismo e semplicità. Spacciando per naturali melodie invece ricercate, artigianali e poco interessate alle scene di riferimento. Su una scrittura che con l'approccio al lavoro dei sodali Pall Jenkins/Tobias Nathaniel ha più di un punto di contatto, a cominciare da quell'attenzione maniacale riservata allo svolgimento della parte musicale. Dettagli strumentali che segnano a fuoco - il Badly Drawn Boy sognante dell'iniziale Cold Winter, la progressione sul piano di Salt In Water, le cadenze marziali di Carcerate - dando spessore a un album da consumare con lentezza. (7.2/10) Fabrizio Zampighi Marlene Kuntz - Ricoveri virtuali e sexy solitudini (Sony BMG Music Entertainment, Novembre 2010) Genere: rock Spesso nel rock alla maturità segue una fase di recupero e rielaborazione del repertorio che talvolta assume la forma di sbrigliato superamento di (o deviazione da) esso. Quando accade, lo fa con la disinvoltura di chi si è liberato dalla zavorra del dimostrare, del fare a fette la cresta dell'onda che nel frattempo, ahilei, si è consumata. Ascoltando l'ottavo lavoro dei Marlene Kuntz, parrebbe proprio il loro caso. Del resto, il precedente Uno somigliava parecchio all'album della pienezza espressiva, non certo l'apice della carriera però in qualche modo l'approdo al termine di un lungo percorso. Da cui segue la possibilità di affrancarsi da esso, la conquista di una rinnovata libertà d'azione. Un disimpegno che significa impegnarsi nuovamente, in modo nuovo. Difatti, Ricoveri virtuali e sexy solitudini sembra il futto di uno spasmo rock che se da una parte rivanga l'estro sonico delle prime cose, d'altra parte - soprattutto - si concede all'immediatezza della canzone, alla sua facoltà di graffi e carezze, urla e languori, ammiccamenti e strappi. Mai la calligrafia della band di Cuneo è apparsa così diretta e concisa: se l'abito sonoro si disim- pegna elaborato ma al contempo funzionale (produce Howie B), i testi colgono l'occasione per togliersi un bel po' di sassolini - più o meno "poetici" - dalle scarpe, senza con ciò venir meno alla consueta intensità "letteraria" che nulla lascia al caso. Anzi: il disco è una specie di concept sulla crisi innescata dal prevalere dei codici della società iperconnessa, virtualizzata, webbizzata. Di cui un aspetto importante - quello che, per tutta una serie di motivi, ha fatto più rumore - è il rapporto tra individuo e musica, dissestato da pratiche di download compulsivi e social network pervadenti (vedi la ghignante opening track Ricovero virtuale). Non è questa la sede per approfondire lo sdegno apocalittico delle liriche, però è giusto sottolineare quanto il loro entrare a piedi uniti sulla questione ringalluzzisca il verbo kuntziano, fornendogli un'aggressività di cui da tempo s'erano perse le tracce. Ed è tuttavia anche l'aspetto più interessante della proposta, che nel complesso non va oltre una competenza ben lubrificata, un sia pur turgido, ruvido e a tratti intrigante mestiere. La bieca pulsazione trip-hop di Io e me, le ingannevoli sinuosità di Oasi, il tiro power di Orizzonti, l'amarezza rappresa in forma di ballad de L'artista, la nostalgia post-glam di Paolo anima salva sono i momenti più convincenti della scaletta, tutto sommato abbastanza ispirata al netto di qualche comprensibile inciampo (l'omelia raffazzonata di Vivo e l'adrenalina un po' gratis di Pornorima). Doppiati i venti anni di carriera - anche se esordirono con Catartica solo nel '94 - e dopo aver segnato un'intera generazione di indie band nostrane, i Marlene Kuntz sembrano aver accantonato il piglio furibondo e sperimentale assieme alle ambizioni da mainstream (vagamente alternativo) per accettare lo status di buona rock band, non più in grado di sostenere il fuoco della prima linea ma ancora capace di incursioni dirimenti in territorio "nemico". (6.6/10) Stefano Solventi Martin Schulte - Silent Stars (RareNoise, Novembre 2010) Genere: Deep, ambient L’aggiornamento laptop post-Mille Plateaux (dunque field recording, noise e glitch) del filone techno dub ambientale dal taglio artico, iniziato da gente come Biosphere e traghettato nei Duemila nella forma che conosciamo da Monolake, Pan American e Vladislav Delay, non smette di regalarci sorprese e ottimi lavori. In particolare, dall’America, negli ultimi due anni abbiamo incontrato le ottime prove di Rod Modell - sia in solo sia con DeepChord (Liumin) - mentre dalla Germania non è certo una coincidenza s la febbre Basic Channel risvoltata ambient e riverberi è risalita a un Pantha Du Prince (con Black Noise). E questo senza tralasciare la forza traino del progetto di Moritz Von Oswald. In un terreno già caldissimo, dentro gli steccati di un verbo già abbondantemente espresso (e compiuto), oggi arriva sugli scaffali, via RareNoise, l'ultimo album di questo ragazzo russo che tra tutti è sicuramente il più atmosferico e legato ai trucchetti clicks’n’cut (tra l'altro riscoperti anche da gente come Mount Kimbie), nonché dj già in possesso delle chiavi per dialogare con i maestri. Martin Schulte è il moniker dietro il quale si cela un appena ventiduenne tartaro - vive a Kazan - che di nome fa Marat Shibaev. Al suo attivo, dal 2006, ha già una serie di pubblicazioni in mp3 e anche due buoni album per la giapponese Lantern (Depth Of Soul e Odysseia). Silent Stars, tra momenti di puro groove sciolto nei ghiacci e dub+echi perfettamente intarsiati nel 4/4 techno, ambient di classe e ottime viste a cannocchiale, lo farà conoscere anche da noi e con il lavoro migliore senza dubbio. (7/10) Edoardo Bridda Ministro (The) - Tempi Moderni (Enzone Records, Dicembre 2010) Genere: rock Che l'immaginario sia importante per una band agli esordi, è ormai opinione comune. Ricondurre la musica a un'ispirazione totalizzante significa spesso favorirne l'assimilazione e stimolare la curiosità di chi ascolta con riferimenti ben precisi, prima che con i brani. Questo è quanto fanno anche gli The Ministro con Tempi moderni, dedicando un'opera rassegnata e ironica (oltre a una ragione sociale decisamente in tema) a una classe politica comica già di suo e quindi particolarmente predisposta allo sfottò. E allora cravatte e completi scuri incastonati tra il valzer di Tutti al ministero e il tex-mex di Elezioni a Little Garden, lo swing di Comizio all'italiana e il reggae di Ponte si ponte boh?!, il collage citazionista della title track e il blues di Da domani smetto. In un accatastarsi di generi e idee scoordinate in bilico tra il Marco Carena di Ciao Paese, il Gaber di Io non mi sento italiano ed Elio e le storie tese. Con le dovute differenze di peso specifico, dal momento che il cantar disgrazie dei The Ministro sembra più un lamentarsi goliardico un po' fine a sé stesso che una critica affilata. Seppur suonato in maniera impeccabile. (6.4/10) Fabrizio Zampighi 61 highlight Shackleton - (Fabric, Dicembre 2010) Genere: bass sciamanico Dopo che l’hanno sentito suonare dal vivo in una delle serate più acclamate della scorsa stagione, i capocchia del Fabric gli hanno subito presentato il contratto per registrare la compilation sulla serie di punta del locale londinese. Shackleton ha ovviamente accettato e ci ha messo dentro un set simile a quello dello scorso Dissonanze. Roba da trip e tunnel vision, altro che pre-serata disco. Questo disco di sole produzioni dell’uomo (un lusso concesso a Ricardo Villalobos, Omar S e pochi altri) più che un mix è una messa. Un rito sciamanico fatto di voci, suoni che passano velocemente da un canale all’altro, una trance meditata, ricca di drones e di appigli a estetiche da sabba. Siamo oltre l'estetica stepping londinese: il padrino dell’ormai defunta Skull Disco (con l’amico Appleblim) si accosta alle estetiche berlinesi che puntano su percussività e sballi visionari alieni dalla cassa dritta della techno che oggi gente come Scuba innesta a man bassa. Quindi niente cattiveria plastificata grime o cupezze da sobborghi londinesi. Il magma sonico della compila ti avvolge nei misticismi dei Current 93 (Deadman), dei Can (Man On A String) o in queli goa sognati dai mid-thirty di oggi (Busted Spirit) con i paradisi degli O.R.B. (Ice). Padri nobili e sottofondi mentali di qualche tempo fa che si incontrano anche dal punto di vista tecnologico con l’onnipresente elettronica pulita di Four Tet, amore per le percussioni orientali (New Dawn) o effetti dubby da echo chamber à la Pole. Perfezione certosina nel mixing, varietà negli accostamenti e oculatezza dei timbri ne fanno il miglior regalo di Natale per chiunque ami la musica del desiderio. Una delle compilation dell’anno. (7.5/10) Marco Braggion Moorder - Moorder (Novembre 2010) Genere: fusion I Moorder sono la creatura del bolognese Alessandro Lamborghini, chitarrista acido e compositore che ha voluto attorno a sé questo ensemble di sei elementi per dar vita ad una fusion calorosa dove l'hardcore si scozza jazz e funk esponendosi a fregole etno ed effetti collaterali post. Chitarra e vibrafono sono gli estremi di un ventaglio sonico (tuba, sax, basso elettrico...) che si dipana duttile, convulso e onirico, feroce e beffardo, come un Frank Zappa un po' vanesio in un fantasy David Lynch, uno spasmo elettrico per ogni fatamorgana tipo certo intercalare June Of '44 oppure le ipotesi futuristiche Tortoise tra strattoni Shellac e particelle mnemoniche Weather Report. Una versatilità tosta e coesa che azzecca l'apice con la frenetica Captain's Boot e la vorticosa Ramalina fastigiana, per poi intorbidire la questione con la strada silenziosa (e gli scostanti tremori) di I Get Li. Programmaticamente fuori da ogni voga, però (perciò) degni di nota. (7.1/10) Stefano Solventi 62 Music For Eleven Instruments - Business Is A Sentiment (Red Birds, Ottobre 2010) Genere: toy-music Al di là del numero degli strumenti, peraltro superiore a undici, questo progetto fa in realtà capo al siciliano Salvatore Sultano, già attivo con tali Flugge e qui intestatario di composizione, artwork e la quasi totalità dell’esecuzione. Un altro uomo (quasi) solo nascosto dietro un’entità di gruppo fittizia sebbene non l’ennesimo, considerando come, in un panorama assai prospero e ciò nonostante spesso stereotipato come il “nuovo rock” italiano, questa sarabanda di filastrocche in bilico tra l’estatico e lo stralunato possegga una certa personalità. Spiegata in mezz’ora che congiunge un’elettronica lieve e umanista - da Hood privati di tentazione danzereccia, presi a modello e non copiati come da noi suol fare la maggioranza - con un bric-a-brac sonoro che rintraccia in Pascal Comelade il referente più prossimo. Liberando sul resto, da una cameretta colma di balocchi e profumi primaverili, lo splendido valzer popolaresco My Sicilian Lover Is Foul, i gustosi babà di pop mu- tante Alba Song, Happy Song (Part Two) e Fables About Her, una Box-Body fragrante d’obliquo folk. Rimane da chiarire se per Salvatore abbiano contato, in termini di “attitudine” e talvolta anche di timbro vocale, più i vinili di Syd Barrett del babbo o l’eventuale ascendente dei Jennifer Gentle. Quesiti da cronista che non inficiano minimamente la godibilità di Business Is A Sentiment. (7/10) Giancarlo Turra N.E.R.D. - Nothing (Star Trak Entertainment, Novembre 2010) Genere: smooth soul hop "L'economia fa schifo, le ragazze sono ancora belle. Volevamo fare musica che riflettesse questo". Yeah, Pharrell, forte e chiaro. Il quarto disco della costola on stage del duo produttivo Neptunes (Pharrell Williams e Chad Hugo più il sempre più impalpabile Shay Haley) è il sottofondo perfetto per le chicks che ha in mente il ragazzo, perfetto perché assolutamente trasparente, altro che vedo/non vedo, smooth soul d'oggi così smooth che scivola via manco fosse la seta della prova Silk-épil. I due singoli acchiappa-hype ne sono stati una perfetta introduzione: il piatto standard post-Timbalandiano (vedi invece l'ottimo Pharrell 2008 al servizio di Madonna) con tanto di Nelly Furtado post-se stessa di Hot'N'Fun e il buco nell'acqua firmato addirittura Daft Punk di Hypnotize U. Nothing è now soul sporcato inevitabilmente di funky (Perfect Defect), poca elettricità nell'aria, poca rappusità (la title track), ancora meno elettronica (Party People, con dei goffissimi fiati appiccicati sopra), tantissima enfasi invece a un passo dal musical di Broadway (Help Me, I've Seen The Light, Victory, con più di un richiamo, fin dai titoli, al Todd Rundgren appunto più soul). Molto suonato, molto cantato (Pharrell in estasi da sexy-falsetto in più punti) e molto cantabile (ma i motivetti saliscendi sono piuttosto scontati), insomma un prodotto di black americana prodotto bene - benissimo anzi - dai Neptunes ma senza canzoni che restano. Sei i pezzi bonus su iTunes: ne vale la pena? Fin troppo facile tirare in ballo il titolo del disco. (4.6/10) Gabriele Marino Nicolas Joseph Roncea - News From Belgium (I Dischi Del Minollo, Settembre 2010) Genere: guitar-solo Nicolas Joseph Roncea suona la chitarra per alcuni dei gruppi fuoco & fiamme (Fuh e Io Monade Stanca) del panorama dal Canalese di cui ci occupammo qualche tempo fa. La prima prova solista del ragazzo se ne discosta totalmente. Ripiega in se stesso, Roncea, come in fuga dal massimalismo in overdrive del suo strumento nelle formazioni ufficiali e indaga il lato più intimo, personale e introspettivo del proprio essere musicista. In punta di plettro e con voce pulita, quasi fosse un Bob Corn più magrolino e sbarbato, sfilano una serie di piccole gemme acustiche (In The Snow, A Cup Of Tea, la vagamente beatlesiana Another Word) di tanto in tanto rotte da fiati e archi mai invadenti (3-4, 3:20 Am) o da divagazioni tra jazz e bossa (Blue Eyes). Un procedere che ci fa apprezzare un album mai sopra le righe, introverso e poetico, non privo di buone intuizioni e potenzialità da esplorare. (6.5/10) Stefano Pifferi Numero 6 - I Love You fortissimo (Supermota, Novembre 2010) Genere: pop rock Mancavano all'appuntamento con l'album da quattro anni, ma non ne abbiamo sentito la mancanza. Cioè, non ne abbiamo avuto il modo né il tempo, visti i due buoni EP e la gustosa collaborazione con Enrico Brizzi che hanno tenuto in caldo il nome dei Numero 6. Gli ex-Laghisecchi - se è lecito chiamarli così - si sono mantenuti a ridosso della prima linea e oggi finalmente sferrano l'assalto. A testa bassa e accada quel che accada. Con quella specie di sorriso a tagliare l'aria. Verticalizzando melodie e concetti come ama fare da buona mezzala Michele Bitossi, ben assistito dalle chitarre del sodale Stefano Piccardo, dal redivivo bassista Andrea Calcagno e dal neoassunto polistrumentista Tristan Martinelli. I Numero 6 fanno, insomma, pop-rock. Versante indie, se vogliamo. Con arguzia muscolare da cuginastri dei Weezer. Costeggiando l'agro malanimo post-giovanile dei Perturbazione tolta la pensosità a vantaggio d'un piglio liberatorio. Prevedendo uno spasmo alla fine di ogni cruccio, una sgroppata in fondo ad ogni meditazione. Una propensione che rende la loro proposta immediata perché semplice, il che non significa facile né tanto meno banale: c'è tutto un intrico di rimandi e quintali di buoni ascolti ad esempio nell'impeto acidulo di 200 Mg o nella suadente inquietudine quasi Kinks di Dell'inadeguatezza, una lunga e vasta metabolizzazione di - solo a titolo di esempio - R.E.M. e Ivan Graziani, Husker Du e Lucio Battisti, gli anni sessanta 63 e i novanta senza disdegnare quel che sta nel mezzo. Quanto ai testi, confermano quell'emotività brillante e un po' incarognita, quel gioco di finte e passaggi filtranti, compresa qualche palla persa (ad esempio la similitudine un po' forzata col popcorn in Mutazioni) che in una partita ci sta, soprattutto se condotta sempre sul filo dell'agonismo. I Numero 6 studiano per diventare un punto di riferimento della nostra scena geneticamente scalcagnata ma sempre più volenterosa. Forse lo sono già. (7.2/10) Stefano Solventi oOoOO - oOoOO EP (Tri Angle, Ottobre 2010) Genere: Witch-Step Uno dei nomi più clickati della novella compagine witch-house arriva al primo traguardo su media distanza. Un atteso EP per la giovanissima Tri Angle di Brooklyn in cui Christopher Dexter Greenspan rilascia sei brani inediti che virano verso umori meno claustrofobici e più “classicamente” glo-fi /chill-wave. Ancora qualche tinta color bruno (Mumbrai, Burnout Eyess) ma sono i paesaggi junk-pop zeppi di iconografie eighties (Hearts) e di umori da primi luci dell’alba (Plains Is Hot) a farla da padrone. Il mood da casa delle streghe viene così smorzato in favore di composizioni più astratte e fluide, come già il compagno di roster Balam Acab ha avuto modo di dimostrare nel debutto di pochi mesi fa. Ora c’è solo da aspettare e capire che piega prenderà questa ennesima micro-sensazione sotterranea. (6.8/10) Andrea Napoli Paramount Styles - Heaven’s Alright (Konkurrent NL, Novembre 2010) Genere: indie Se Failure American Style deludeva non sarà certamente questo Heaven’s Alright a risollevare le sorti del nuovo progetto degli ex Girls Against Boys Scott McCloud e Alexis Fleisig. Troppo vivo il ricordo della band madre, urticante protagonista del sottobosco newyorchese dei 90s, e troppo bruciante la insulsa svolta operata col nuovo progetto per passarla liscia. Inoffensiva e a tratti fastidiosa, la scelta è quella di ammorbidire fino all’annacquamento il sound originario, declinandolo verso una forma di cantautorato urbano e malinconicamente romantico che mal si addice a pedigree e potenzialità. Ne esce un qualcosa che rimanda qua e là ai dEUS meno ispirati (Come To Where You Are) o ad una versione radio-friendly orribilmente synth-pop dei 64 GVSB (The Greatest), con tanto di cassabile ballatona strappalacrime al piano (Steal Your Love). Non manca soltanto la zampata graffiante e memorabile che ci si sarebbe aspettati da iene di vecchio corso, ma proprio una idea di fondo in grado di attirare l’attenzione. (5/10) Stefano Pifferi Pazi Mine - Pazi Mine (A Buzz Supreme, Ottobre 2010) Genere: rock rumoroso I Pazi Mine sono Sara Ardizzoni (chitarra e voce, in passato con Pilar Tenera e Sorelle Kraus), Francesco Artioli (basso e voce), Marco Beiato (chitarra e synth) e Alessio Capra (batteria e percussioni, da Super Elastic Bubble Plastic). Vengono da Mantova e Ferrara, sono all’esordio ma in realtà si collocano in qualche posto a metà strada tra la Seattle che fu e la Chicago di casa Touch’n’Go, con una puntatina nella New York rumorosa del Lower East Side e nella Louisville dove il post- ebbe inizio. Piccolo girotondo geografico, rigorosamente primi 90s, per indicare i referenti generici di un suono chitarristico irruente e affilato, derivativo quanto si vuole ma sorretto da una ritmica corposa e mobile e al servizio di una voce, quella della Ardizzoni, sensuale e aggressiva. Come si confà ad una chanteuse rock di prim’ordine, per intendersi. Capace di prendere la scena senza strafare. In soldoni, in Pazi Mine troviamo tensione da postrock slintiano e romantica decadenza, sensualità e aggressività strumentale, intarsi ritmici math e stratificate trame massimaliste per 8 canzoni in grado di tirare in ballo il chitarrismo dei Sonic Youth del medio periodo, le melodie acidule made in Blonde Redhead e certe elaborazioni formali targate Fugazi. Bell’esordio, davvero. Ora aspettiamo un passo oltre. (6.9/10) Stefano Pifferi Piccola Banda Brigante - Certi ricordi (loser's company, Novembre 2010) Genere: cantautorato folk Venendo dalla Romagna e chiamandosi Piccola Banda Brigante, ci si aspetta da un momento all'altro di veder comparire all'orizzonte il cappello a tesa larga del leggendario Passator Cortese da Bagnacavallo, che a metà dell'Ottocento imperversava nei boschi sopra Brisighella con le sue azioni da Robin Hood nostrano. In realtà, Brigante è il cognome di Antonio, voce e chitarra di questo progetto che fa della sua voce e del suo highlight Shugo Tokumaru - Port Entropy (Souterrain Transmissions, Dicembre 2010) Genere: folk/indie-pop Questo gioiello di indie-pop solare e colto è il quarto episodio discografico per un artista classe 1980 che fa tutto da sè. Ogni suono prodotto per realizzare queste dodici tracce è il frutto delle capacità polistrumentistiche di Shugo Tokumaru, che a cinque anni ha cominciato a pestare i tasti del pianoforte e a diciassette già componeva le canzoni per la sua prima band. Nei trentasette minuti di Port Entropy si cercano e si prendono, si toccano e si fondono due tradizioni come quella giapponese, evidente nella strumentazione e nelle atmosfere, e quella pop inglese, che emerge a più riprese e rende conto di quella che sembra essere stata la sua prima passione musicale: i Clash. Ma i riferimenti sono, in realtà, pressoché infiniti e si potrebbe riempire la recensione solo citando le influenze più o meno manifeste. Quelli che non si possono tacere sono John Lennon, che ci si aspetta da un momento all'altro arrivi per intonare Strawberry Field, la Yellow Magic Orchestra, Robert Wyatt, che aggiunge quel tocco di Canterbury che rende il tutto anche bucolico. A dispetto dei titoli, tutti in inglese, Shugo canta esclusivamente in giapponese, aggiungendo fascino alle sue composizioni, che finiscono spesso per assomigliare a un film di Hayao Miyazaki: c'è nelle sue canzoni l'agrodolce e perfetto equilibrio tra la gioia, ma mai urlata, piuttosto trattenuta, rimessa completamente al campo dello spirito, e la nostalgia candida del sogno. Tracking Elevator mette in campo la coralità giapponese, ma immediatamente dopo, Linne si apre con Erik Satie che incontra i Jaga Jazzist. Drive Thru è puro vaudeville, come se Neil Hannon suonasse con i Pavement e River Low mette un crescendo post-rock/prog al servizio di un bozzetto da tempio shintoista, con tanto di campanelli e strumenti giocattolo. Probabilmente Port Entropy verrà snobbato da molti, perché in tempi di velocità e fretta è troppo faticoso lasciare che un disco si prenda il proprio spazio nei nostri ascolti. Ma se glielo lasciate prendere, questo piccolo capolavoro di indie-pop entrerà nelle vostre classifiche di fine anno. Comincerete a recuperare i dischi precedenti e a seguire Shugo Tokumaru come uno dei novelli artigiani del pop, capace di utilizzare un linguaggio abusato, per ricavarsi la propria voce personalissima. (7.3/10) Marco Boscolo istrionismo il punto centrale.I riferimenti sono quelli di un cantautorato tradizionale, che guarda tanto al folk e alle ballate popolari, quanto alle sue forme più evolute e moderne (in Un giorno in stazione c'è più di un eco di Vinicio Capossela). Canzone del giorno e della notte è un esempio di scrittura complessa e raffinata applicata a un gioco di specchi tra sole e luna, mentre gli accenni tex-mex di Un sabato di pace si adagiano su un valzerino antico e tutto da ballare. Altrove si può intravvedere in filigrana la canzone classica a là Domenico Modugno; e il tumulto anarchico che ha attraversato la Romagna per molti decenni e che ancora oggi non è del tutto dimenticato viene dipinto in Canzone per una ragazza, non senza ironia e affetto. Nove quadretti più o meno realistici, a volte giocati sulla cronaca, altre sulla politica e la società, sono le fo- tografie di quest'album d'esordio già maturo per scrittura e intenti della Piccola Banda Brigante. Si rimane totalmente dentro alla tradizione, con gusto e una certa personalità, che in futuro potrebbe dare frutti ancor più succulenti. (6.6/10) Marco Boscolo Pond - Frond (A Hole In The Sky, Novembre 2010) Genere: Psycho rock Quello che si sta sperimentando oggi dalle parti di Perth è un'idea comunitaria del rock che ha le sue radici nelle utopie hippy dei tardi 60s. Mink Mussel Creek era il moniker di un collettivo di adolescenti che, nella prima metà degli anni Zero, spe65 highlight Thus: Owls - Cardiac Malformations (Almost-Musique, Novembre 2010) Genere: orchestral-pop Ci sono diversi approcci possibili nei confronti di un lavoro complesso e articolato come Cardiac Malformations, e nessuno che possa spiegarne del tutto lo spirito sfuggente. C’entra forse la natura assai eterogenea del progetto, figlio del sesto senso appartenente a Erika Alexandersson, cantante e compositrice d’estrazione classica (in saccoccia una nomination per i Grammy nazionali con Josef Och Erika, attiva con un progetto di elettronica improvvisativa chiamato The Moth e infine da solista come eRika. ....) che nella natia Svezia ha raccolto folkettari canadesi e jazziste progressive, membri di Lonely, Dear e accompagnatori dei Koop. Da queste canzoni, registrate nel 2008 e pubblicate una prima volta lo scorso anno per un’etichetta indipendente di Goteborg, poteva sortirne un minestrone buttato lì per stupire chi al sodo non bada, dai sapori tanto mal assortiti quanto buone erano le intenzioni di partenza; a differenza di tanta “musica totale” contemporanea, nondimeno, in gioco ci sono un talento nitido e una voce conturbante (un po’ Bjork e un po’ Siouxsie, un po’ Kate Bush e un po’ P. J. Harvey; soprattutto se stessa), una trama sonora sincretica, evocativa e ricca come raramente capita di trovare. Un panorama fosco e rischiarato solo occasionalmente, nel quale arrangiamenti corposi eppure essenziali valorizzano scrittura e curiosità, la spinta a osare nell’ambito di un cantautorato femminile che è anticonvenzionale ma trattiene un robusto senso per misura e ordine. E perciò affascina come un volo libero a testa in giù, sapendo che l’acqua pronta ad accoglierti sarà scura e fredda ma di sottrarti ad essa non vuoi saperne. Questo l’effetto che restituisce il disco nel complesso e, facendo un torto al resto, episodi come l'astratta e tuttavia terrigna Yellow Desert e la trasparente The Sun Is Burning Our Skin, il jazz favolistico Sometimes e l’inquieto flusso di coscienza di My Thoughts Ain’t Lovely. Ombre che stregano, da vivere prima che capire. Certi che l’incantesimo rimarrà intatto. (7.6/10) Giancarlo Turra cui è stata affidata una Delorean puntata quarant'anni nel passato. Non ha la minima idea di dove il viaggio lo condurrà, ma osservarlo è uno spettacolo che vale la pena di non perdere. (7.3/10) Diego Ballani Public - Oracolo (Fosbury, Novembre 2010) Genere: rock Un nervosismo romantico e cupo attraversa tanto rock indipendente italiano, quella parte almeno che si sbatte strattonata tra la disillusione totale indotta dai fatidici (cazzo di) anni zero e quel po' di vena melodico/ letteraria rimasta in piedi dopo le buriane wave. Il caso dei Public è da individuarsi in quest'ultima casistica, il verbo discendente con chiarezza dalle scorribande poetiche di Paolo Benvegnù con qualche particella residua Marlene Kuntz ed altre interferenze di varia natura, dall'alternativo post-contemporaneo Radiohead ad una sanguigna inquietudine cantautorale di stampo Folkstudio. Il climax della loro opera seconda L'oracolo si compie giusto nel cuore del programma, tra la infervorata title track e la lirica Il lato magico della strada, passando da quella Massacrarsi fino a perdere i sensi che rimanda a certi sconcertanti languori Federico Fiumani. Disco ben suonato e prodotto con l'ingegno del caso da Fabio De Min (Non Voglio Che Clara). L'ennesimo tassello d'un mosaico - il rock in italiano - che prima o poi, chissà, vedremo nella sua splendida interezza. (6.9/10) Stefano Solventi rimentava forme di psychedelia free form, prendendo le mosse dall'hard blues lisergico dei Blue Cheer e dal kraut più cosmico. Quando i suoi membri decisero di porre fine a quell'esperienza, per dar vita a nuove formazioni, la collaborazione fra di loro non venne meno e quello dei Mink Mussel Creek rimase il nucleo fondante di una serie di realtà che oggi stanno fungendo da traino per revival psichedelico in atto nella capitale dell'Australia Occidentale. Quando la barra del comando è in mano al perfezionista Kevin Parker, la creatura assume il nome di Tame Impala, progetto ambizioso e cangiante, che abbiamo imparato ad amare grazie al recente e spettacolare Innerspeaker. Al basso di quella formazione (ma in passato lo si è visto anche alla chitarra e all'organo), c'è Nick Albrook. I Pond sono cosa sua, ed in pratica costituiscono l'alter ego fun & funky degli Impala. Frond è il loro primo lavoro ad essere realizzato in 66 un vero e proprio studio di registrazione ed è una sorta di grande tributo ai 70s, in tutte le loro caleidoscopiche fogge. Si parte con il chiassoso garage glam dell'opener Betty Davis e si finisce per librarsi negli infiniti spazi, sulla coda strumentale dell'evocativa title track. In mezzo ci si possono trovare frenetici gospel latini, tirate funkadeliche e stralunate jam che sembrano il frutto di un amplesso incestuoso fra Kraftwerk e Ash Ra Tempel. C'è anche il pop naif di Annie Orangetree e l'Elton John in acido di Sunlight Cardigan: è facile individuarli come i vertici espressivi dell'album, le frecce in grado di colpire al cuore anche chi maneggia con difficoltà la materia psichedelica. La forza dell'album, in fondo, sta tutta qui: nella naturalezza innocente con cui Albrook e compagni affastellano idee, senza preoccuparsi di dar loro omogeneità; con lo stupore primigenio di un bimbo di cinque anni a Ray Davies - See My Friends (UMTV, Ottobre 2010) Genere: rock reazionario Dice il saggio che un bel silenzio non fu mai scritto. E nemmeno inciso, se è per questo. La frase viene alla mente all'ascolto di questo nuovo disco di Ray Davies, l'autore di un pezzo di storia del pop-rock con i suoi Kinks. Qui è alle prese con quattordici duetti che ripercorrono altrettante tappe della sua sterminata produzione. Dopo la messa in naftalina del gruppo, Ray Davies aveva atteso tredici anni per pubblicare il suo esordio solista, Other People's Lives, in cui riprendeva l'abitudine di raccontare storie in musica con la sua ironia british e il suo talento. Quelle canzoni e quelle contenute nel seguito, Working Man's Café, non aggiungevano nulla al personaggio, ma sembravano proprio un ritorno all'arte della canzone dopo che negli anni Novanta Davies aveva sperimentato altre forme di comunicazione. Come suona See My Friends? Inutile e a tratti imbarazzante. Inutile come tutti gli album di duetti, fatti per il godimento di chi ci finisce dentro, magari coronando il sogno di suonare con quello che considerano un maestro, e poco per le orecchie dell'ascoltatore. A tratti imbarazzante, perché gli episodi di Jon Bon Jovi, Ritchie Sambora (insieme per Celluloid Heroes), i Metallica (You Really Got Me), Billy Corgan (All Day and All the Night/Destroyer) e Paloma Faith (Lola Ray) sono indifendibili. Vanno meglio quelli con Bruce Springsteen (Better Things), Alex Chilton ('till the End of teh Day) e Francis Black (This Is Where I Belong). Non che si incappi mai in canzoni imbarazzanti, perché la qualità è parte integrante degli originali e gli ospiti sono quasi tutti di alto livello, ma non se ne sentiva davvero il bisogno. In questa Waterloo del duetto, spiccano i Mumford And Sons, che ci mettono il loro tocco folk/country e una coralità efficace (Day/This Time Tomorrow), e Lucinda Williams, che mette a Long Way From Home poco del suo, ma almeno ci regala una versione interessante. (5/10) Marco Boscolo Regina Mab - Col sole in fronte (Manzanilla, Luglio 2010) Genere: folk Non sarà la Compagna Teresa del Teatro degli Orrori la Rita Rosani protagonista di questo disco-concerto dei Regina Mab, ma può comunque vantare solide radici nell'identico immaginario. Quello della Resistenza al femminile, sconosciuta ai più ma essenziale esattamente come quella al maschile nel determinare le sorti di un conflitto come la Seconda Guerra Mondiale tra 1943 e 1945 in Italia. Con da un lato la Repubblica di Salò sostenuta da fascisti e tedeschi e dall'altro i partigiani - tra cui, appunto, “la Rita” -, nel caso specifico quelli che militavano nelle brigate attorno a Verona. Con la scusa dell'inquadramento biografico i Regina Mab ricostruiscono il tono generale del periodo, grazie a un disco capace di mescolare narrazione, musica, dettagli storici e parti recitate. Il tutto in dodici capitoli da far corrispondere ad altrettante parentesi suonate, queste ultime valorizzate da brani autografi e cover debitamente ricontestualizzate. A testimonianza, una Teardrop dei Massive Attack in cui si accosta il beat coronarico del brano originale al momento della morte o una My Generation degli Who il cui verso "I hope I die before I get old" risuona macabro tra i partigiani confinati sul monte Comun e pronti ad affrontare le “People 67 try to put us down” in divisa. Metafora dell'attualità e ricordo affezionato, documento storico indiretto e teatro, buon esercizio di folk e canzone d'autore, Col sole in fronte ha la rara capacità di emozionare senza suonare retorico e andando oltre prese di posizione ideologiche fini a sé stesse. Piccola gemma da tenersi ben stretta, in una contemporaneità dal revisionismo facile che scambia troppo spesso e con scandalosa naturalezza cause e conseguenze. (7.1/10) Fabrizio Zampighi Rihanna - Loud (Def Jam Recordings, Novembre 2010) Genere: blackpop dance Ostinandoci a parlare di album, il grosso problema della musica pop è essere nata prima del trentatrè giri, nata misurandosi con la logica del singolo one shot. "Album pop" è quindi un concetto che comporta di per sé una qualche "adulterazione" del prodotto (primi nomi che vengono in testa, Beatles, Elvis Costello, XTC). Rihanna fa pop2000, miscela succosa gommosa e lucidissima di dance, black (r'n'b, hip hop) e pop song appunto, nulla di strano che vada avanti a forza di singoli dall'impatto studiatissimo e che condisca poi i dischi di riempitivi. Il vero problema è quando questo meccanismo si inceppa e anche il singolo proposto come piatto forte è di fatto un tappabuchi. E' il caso di Loud, quinto album in cinque anni per la bella maltrattata bajan e punto più basso della sua discografia. Misuriamo ad ampie spanne: l'ossessiva ficcante Pon De Replay dell'esordio (pollice in su), l'esplosione mondiale al quadrato con Umbrella nel 2007 (al cuore di quel successo, l'intenso crescendo del chorus) e adesso una seconda parte di Love The Way You Lie, con quell'inciso molto Robbie Williams, che in realtà è la semplice auto-cover a parti invertite del brano di Eminem contenuto in Recovery. Loud dice forte e chiaro che Rihanna si è appiattita su una blackpop-dance midtempo senza incisività, su ballad zuccherose con aperture melodiche tutt'altro che brutte ma semplicemente spersonalizzate, non sue. Loud è un disco privo di qualsiasi specimen. E Cheers campiona I'm With You di Avril Lavigne. (3/10) Gabriele Marino Scorn - Refuse; Start Fires (Ad Noiseam, Novembre 2010) Genere: Doom step A tre anni dal ritorno (Stealth) e otto dalla chiusura del 68 primo periodo (Plan B), Harris si ripresenta sugli scaffali quasi in sordina puntando più sui tipici scenari scorniani che sull’effetto antemico della prova precedente. Del resto è innegabile che se Stealth cercava di catturare l’attenzione della comunità dubstep rivendicandone - a diritto - la paternità, il quattordicesimo capitolo della saga si presenta come se ne facesse parte, aggiungendo giusto un elemento live (un batterista in carne e ossa, Ian Yan Treacy) in segno di coerenza e magari equidistanza. Sul guado tra maniera e nuove maniere acquisite però, salvo una potente Take Someones Eye Out (un perfetto connubio tra industrial e il lato più combat di Milanese), l’ex Napalm Death commette l’errore di raffinare troppo il dialogo tra i layer trovando difficilmente l’ispirazione necessaria. Boot It, Rained On Her Birthday e una manciata di altri episodi dai titoli quasi parodistici sono piano sequenza di gran maniera impossibili da amare e pure quando Harris punta al mid tempo (Bear Felt Nowt) il confronto con gente come Terror Danjah è impietoso. Certamente consigliato ai neofiti, gli altri guardino a cose più fresche (6/10) Edoardo Bridda Secret (The) - Solve Et Coagula (Southern Lord, Novembre 2010) Genere: grind Basta lentezze doomy e apocalittiche visioni al ralenti. La Southern Lord sembra darsi da una bella smossa, e per farlo va a pescare questi The Secret addirittura in Italia. Il quartetto di Trieste, come nelle migliori o ormai quasi dimenticate storie del r’n’r, si fa notare dall’etichetta di Los Angeles spedendo il proprio demo, con quest’ultima che rimane talmente colpita da metterli subito in catalogo col terzo album Solve Et Coagula. Nulla di trascendentale o di inedito, secondo noi: un corposo grind dal piglio hc alla maniera dei compianti Nasum virati primi Converge, abbastanza screziato e vario nelle sonorità più che negli sviluppi e che rallenta sapientemente i tempi in alcuni passaggi. Aiuta in questo senso anche l’uso di uno strumento apparentemente fuori contesto come l’organo che carica i momenti più doomy (l’iniziale Cross Builder, un macilento procedere limitrofo al black più astratto e atmosferico, l’intro di Bell Of Urgency, lo sludge della conclusiva 1968) di un senso di latente catastrofe. Buon disco di genere che nulla aggiunge e nulla toglie, ma per immaginario e credibilità solleticherà gli appassionati. (6.6/10) Stefano Pifferi Selton - Selton (Antistar, Novembre 2010) Genere: indie-tropical-beat La fortuna non è un dettaglio da poco e i Selton ne sono consapevoli. Loro, buskers brasiliani destinati a qualche parco pubblico in quel di Barcellona e finiti invece nei ranghi della trasmissione di Fabio Volo Italo-Spagnolo, ovvero l' MTV dei “giri giusti”. Un buon esordio del 2008 come Banana à Milanesa per cui si scomodavano Cochi, Renato e Enzo Jannacci e in cui si rivisitava in un portoghese tropical-garagista l'avanspettacolo meneghino di E' A Vida, Vengo anch'io no tu no, Eu Vi Um Rei, La Gallina, Canção Inteligente, Silvano. E poi un secondo, omonimo, disco - il qui presente tra beat nostrano anni Sessanta (Be Water) e Beatles pre-Revolver (Anima leggera), Os Mutantes (Testa quadrata) e Vampire Weekend (Passero), rock'n'roll anni Cinquanta (Per favor dica il suo nome) e quella naturalezza spaesata dell'Enzo Jannacci nume tutelare (Nuoto nuoto e niente più). Gli ospiti questa volta sono Dente, Tommaso Colliva (già al lavoro con Calibro 35) e Massimo Martellotta: il primo chiamato a curare l'adattamento in italiano dei testi, il secondo e il terzo insediatisi nel ruolo di produttori. Segno anche questo di un'attenzione tutta particolare riservata al lavoro di Daniel Plentz, Eduardo Stein Dechtiar, Ramiro Levy e Ricardo Fischmann, oltre che involontaria cartina di tornasole di quel fascino vintage tra Vecchio e Nuovo Mondo che il quartetto riesce a sprigionare a tutte le latitudini. (7/10) Fabrizio Zampighi Shipping News - One Less Heartless To Fear (Africantape, Ottobre 2010) Genere: post-rock Da supergruppo collaterale a unico reduce sopravvissuto dell’epoca d’oro del post-rock. Questo il bizzarro destino del combo americano (ri)formato per l’occasione da gente del giro June Of ’44 (Jeff Mueller a voce e chitarra), Rachel’s (Jason Noble, idem), Eleven:Eleven (Kyle Crabtree dietro le pelli) e For Carnation (la new entry Todd Cook al basso). One Less Heartless To Fear gran titolo, non c’è che dire - dispone sul piatto 7 originali e due riedizioni di vecchi pezzi (Axons And Dendrites e (Morays Or) Demon entrambe dal precedente Flies The Fields), alcuni dei quali testati live nelle session di rodaggio del nuovo album avvenute tra Louisville e Tokyo. Lo spirito e l’approccio della formazione non sembrano risentire dello iato quinquennale di forzata inattività (dovuta a weddings, fatherhood, serious illness, city moves), né della risacca di un suono ormai irrimediabilmente datato. Padroni degli strumenti come dei canoni di genere, i quattro mostrano freschezza compositiva e pure capacità di uscire dal seminato, come dimostra The Delicate, bell’esempio di rifferama shellachiano tirato e nevrastenico, tutto stomp’n’roll e ossessività noise. Il resto è post-rock chitarristico virato "math": chirurgico e squadrato, teso e vibrante pure sempre di gran classe. In grado, cioè, di far dimenticare quanto frattanto passato sotto i ponti e rispedirci dritti verso Louisville. (6.8/10) Stefano Pifferi Silver Rocket - Silver Rocket EP (Autoprodotto, Novembre 2010) Genere: wave noise Ebbene sì, ci sono stati anche degli anni ottanta da cui uscivi vivo, bene o male. Soprattutto se avevi quel certo retroterra, un vaccino - chessò - Velvet Underground, uno scossone Iggy Pop, la benedetta terapia new wave, quel tanto bastante almeno per farti annusare situazioni a lunga gittata. In primis la congettura noise dei Sonic Youth, che i ferraresi Silver Rocket omaggiano battezzandosi come una traccia dell'imprescindibile Daydream Nation. Qui sta il bello, o il trucco se preferite, che rende intrigante il loro omonimo ep d'esordio: interpretare una fierezza - stavo per scrivere una nobiltà - alternativa, seguendo una sceneggiatura costruita su un'erudizione che non sa per nulla di artificioso. Un misto di impudenza e naturalezza li rende testimoni di un fare rock incandescente e appassionato, visionario e sanguigno (vedi la cavalcata Dream Syndicate di Walked Away), e pazienza se intorno il mondo si balocca di patinature a perdere. Alla fine - per assurdo, ma non troppo - il caracollare Pavement di A Prerogative finisce per sembrare una preveggenza lo-fi, chiudendo un bel cortocircuito con le premesse seventies di cui sopra. A proposito di premesse, quelle per una band interessante ci sono tutte. (7.3/10) Stefano Solventi Sintomi di Gioia - L'animale EP (Autoprodotto, Novembre 2010) Genere: pop rock A due anni dall'album di debutto Segnalibro, tornano i Sintomi di Gioia, band alessandrina attiva da un decennio. Ci offrono un curioso segnale di vita con questo L'animale EP, quattro tracce che alla title track - ballatina arty e minimale dall'incedere sghembo e stranamente evocativo - affianca ben tre cover. In ordine di 69 apparizione, una Arrivederci addio appena più rugginosa rispetto al verbo Perturbazione (ospite ai cori Tommaso Cerasuolo), la suadente e obliqua Era inverno dal catalogo Le Orme (con Tony Pagliuca all'hammond) e una Spazi Autogestiti che stempera in fiabesco il tosto crossover Ritmo Tribale. Piace questo contagio di elementi pop-rock, prog e cantautorato, questo intrecciarsi di aciderie vintage, la disinvoltura delle timbriche (archi ed elettricità, mellotron e sintetizzatori...) ed i preziozismi d'arrangiamento senza ostentazione. Produce Fabio Magistrali, di per sé una garanzia. (6.8/10) Stefano Solventi Sore Eros - Know Touching (Agitated, Novembre 2010) Genere: lo-fi psych-pop Band palindrome che si aprono al mondo. Partito come progetto in solo di Robert Robinson (chitarra, voce) e ora stabilizzatosi come quintetto con l’amico e sodale Adam Langellotti (basso e tastiere) a far da perno (completano Jeff Morkeski alla chitarra, Matt Jugenheimer alla batteria e Matt Brown al synth), Sore Eros sforna quello che è a tutti gli effetti il disco più intelligibile e compiuto. Fatta eccezione per l’omonimo di qualche anno fa - un cd-r casalingo di bozzetti in lo-fi - e qualche singolo sparso in giro, era stato Second Chants ad attirare le attenzioni della label di culto SHDWPLY e della critica online con un bel concentrato di nighttime-bedroom-epic-dream-pop-chants. Roba molto in linea col sostrato psych-pop di molti campioncini dell’underground con Woods su tutti, oltre a Atlas Sound e Kurt Vile, a fornire ottimi punti di riferimento e coordinate spicciole. Ora Know Touching torna sul luogo del delitto con maggiore consapevolezza nello screziare la psichedelia più soffusa e pop-oriented dei Sessanta (i soliti, immancabili Velvet ma presi spesso in modalità semipastorale) in un guazzabuglio di dolcezza, innocenza e melodie sognanti. Sarà per la frequentazione del giro Ariel Pink - il nostro è stato membro dell’Haunted Graffiti per qualche tempo, oltre che “turnista” con Panda Bear, Kurt Vile e Gary War - ma quel procedere incerto e claudicante, malinconico e sconclusionato ci fa apprezzare 12 gioiellini in bilico tra folk trasognato e lo-fi da cameretta. (6.8/10) Stefano Pifferi 70 Teebs - Ardour (Brainfeeder, Ottobre 2010) Genere: lounge/amazonwonky Incredibile, ma questo giovanissimo (23 anni) pupillo di Dublab prima e di Brainfeeder adesso suona esattamente come suonerebbe l'addizione Flying Lotus + Four Tet. Il wonky organico del primo con tutte le sue suggestioni sensoriali (e Mtendere Mandowa aka Teebs è pittore) fuso con le candide rarefazioni posthouse e minimal del secondo. Ritmi spastici ma nessun blues e anzi atmosfere solari e sognanti, suoni limpidi come porcellana, come rugiada che rifrange la luce del primo mattino. Come un altro esordiente coi fiocchi, dotato cioè di skills e tocco, chiamato Jules Chaz, il ragazzo fa ancora sentire troppo i propri riferimenti, ma allo stesso tempo propone già una cifra stilistica personale: scampanellii e cascatine di arpeggi di piano/percussioncine intonate. Teebs devia solo in due casi da questa sua lounge/wonky amazzonica (lui newyorkese con le radici tra Malawi e Isole Barbados), nelle sterzata J Dilla-hip hop di Why Like This? e nel midtempo '90 di Autumn Antique. L'impasto in generale e alcuni pezzi in particolare sono ottimi, altri un po' troppo simili tra loro o troppo allienati su un mood "sottofondo (sofisticato)". Ma ascoltarlo è un piacere. (7/10) highlight Warpaint - The Fool (Rough Trade, Novembre 2010) Genere: ethereal dark-pop Se un disco d’esordio - eccezion fatta per l’ep Exquisite Corpse, datato 2008 - porta il marchio Rough Trade, le origini californiane molto probabilmente sono solo una fortuita casualità. Regola non scritta cui non sfugge questo quartetto all-female formato dalle apolidi chitarriste/cantanti Emily Kokal e Theresa Wayman, dalla bassista Jenny Lee Lindberg e dalla batterista Stella Mozgawa. Gente non di primo pelo, che si muove nel giro giusto della tentacolare LA (John Frusciante produceva l’ep d’esordio, l’attuale chitarrista dei RHCP Josh Klinghoffer è stato il loro primo chitarrista e alcune di loro flirtano col cinema mainstream) e con l’età ideale per rifarsi all’epoca d’oro della wave senza timore reverenziale o puzza di artefatto opportunismo giovanile. Trame post-punk tanto lievi quanto intricate, atmosfere dreaming ed ipnotiche spesso in bassa battuta, psichedelia soffusa e dal taglio evocativo, vocalità umorale e stranita/straniante, The Fool è un concentrato bomba di sonorità soffuse e fosche, romanticamente darkish, quasi che le quattro volessero offrire il lato oscuro e notturno del california dreamin’. Ricordano in questo approccio trans-oceanico la parabola dei God Machine, nati a San Diego ma con cuore e testa nella Albione più oscura e deviante. Cure imaginary, Siouxsie adolescente, il catalogo 4AD meno banale e più datato, le heavenly voices, un po’ di Cocteau Twins, un po’ di This Mortal Coil, ma a tornare in mente è anche quella psichedelia candida e gloomy dei (fu) Young People e certe post-riot grrrls dedicatesi al cantautorato di classe (da PJ Harvey a Cat Power) ma col piglio delle Raincoats. Musica umorale, autunnale ed eterea, melanconica e sognante, che se ne fotte di marchi e mode, segue il suo istinto e sorprende. Se ancora non si fosse capito. (7.3/10) Stefano Pifferi Gabriele Marino Tre Allegri Ragazzi Morti - Primitivi del dub (La Tempesta Dischi, Dicembre 2010) Genere: Dub Ovvia conclusione di un percorso di avvicinamento dei Tre allegri ragazzi morti ai ritmi in levare di stampo giamaicano, Primitivi del dub altro non è se non una collezione di remix - ovviamente in chiave dub - dell'ultimo disco della formazione di Pordenone Primitivi del futuro. A dar nuova forma a materiale naturalmente predisposto alle contaminazioni viene chiamata la Alambic Conspiracy, collettivo vicino a quel Paolo Baldini (B.R. Stylers, Africa Unite, Dub Sync) già produttore del disco originale. Un gruppo di artisti - tra cui Rankin' Alpha e Mama Marjas - che oltre a rimanere piuttosto fedele alle “rootz” del genere - Lee Perry in testa - ribadisce ulteriormente gli obiettivi che lo stesso Primitivi del futuro si era prefissato, ovvero recuperare stili ritmici tipici di altre culture (Giamaica e Africa su tutte). Il risultato non dispiace affatto, nonostante la parte testuale sia stata ampiamente sacrificata - come da copione “dub” - per dare il giusto spazio alla musica. Segno della bontà di una svolta - o magari di un'esplorazione temporanea tutt'altro che improvvisata e dalle basi solide. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Twin Shadow - Forget (4AD, Ottobre 2010) Genere: synth pop Il problema con certi dischi è capire quanto arrosto ci sia dietro al fumo che li avvolge. Tanto più se il fumo è quello colorato degli anni Ottanta, ovvero quel genere di produzione, quei suoni di batteria, la presenza costante dei synth: tutte cose che in tanti lavori usciti negli ultimi anni hanno rappresentato niente più di una patina per nascondere una cronica assenza di idee e di profondità. George Lewis Jr., alias Twin Shadow, si dissocia da questi meccanismi. Lui è davvero innamorato di quell'epoca: di quel sound, certo, ma anche di quelle atmosfere. Così il suo Forget riporta in auge queste ultime, e nella fattispecie una melanconia che è diretta erede dei più grandi nomi di quel periodo: su tutti gli Smiths, presenti un po' ovunque ma omaggiati palesemente in I Can't Wait la cui chitarra deve tutto a Johnny Marr mentre il finale tende verso l'epica delle varie There Is A Light That Never Goes Out. A voler cercare bene si rintracciano anche Cure (Tyrant Destroyed), Depeche Mode (Tether Beat), U2 (Slow), ma è un gioco di rimandi perennemente avvolto nel fumo di trent'anni fa. Non si tratta di mere ricalcature, anzi musicalmente si cerca di destrutturare ciò che è già noto per poi rimodellarlo su basi moderne; così che, nel prendere lezione dai grandi del passato, si finisce per impartirne, seppur involontariamente, anche a tanti big di oggi. Nella seconda metà del disco infatti i ritmi aumentano e, se il paragone con Chris Martin è evidentemente facilitato da certe inflessioni della voce e dall'insistenza nel rimarcare alcune consonanti, una doppietta come At My Heels e Yellow Balloon insegna di fatto agli ultimi Coldplay come si possa essere magniloquenti senza perdere un briciolo di creatività, laddove il singolo Castles In The Snow e l'adrenalinica For Now lanciano occhiate di sfida agli Hot Chip. In tutto questo l'unico neo riscontrabile è il peso effettivo dei singoli brani: Forget è un disco che necessita di 71 ascolti ripetuti per mostrare il suo buon potenziale e tutta la sua gradevolezza, ma anche in ultima analisi mancano quei guizzi necessari quando si tirano in ballo punti di riferimento così importanti. Non che l'arrosto non ci sia, anzi. Semplicemente, è meno di quanto potrebbero raccontarvi (7/10) Simone Madrau Two People In A Room - Wrapped in Plastic (A Crash at Every Speed, Novembre 2010) Genere: ambient, shoegaze Per rendere più reale l'atmosfera malinconica e sognante del disco svelo l'identità delle due persone nella stanza: Renè Margraff, alias Pillowdiver, che ci aveva deliziato lo scorso anno con Sleeping Pills, uscito per 12K. In compagnia di Michelle, cambia il nome ma non la sostanza, Wrapped in Plastic è un altro ottimo lavoro, purtroppo disponibile nel solo formato tape, così di moda e così poco adatto al flusso di chitarre lente e dolci del duo; a quelle melodie quasi fossero archi, alle loro sinfonie urbane dalle tinte shoegaze in versione mitteleuropee, dove in lontananza si scorgono gli echi degli Stars of the Lid di Music for Nitrous Oxi- de. L'autunno berlinese ispira gli artisti tedeschi, che ne ridisegnano l'atmosfera trasformando la foschia del mattino in delicate pennellate di suoni riverberati. Le foglie che cadono dagli alberi avvolte in fragili veli di plastica, delays e distorsioni. A inizio anno è prevista l'uscita di un nuovo lavoro su Home Normal; per il momento godiamoci questo piccolo gioiello. (7.2/10) Gemma Ghelardi Tyvek - Nothing Fits (In The Red Records, Ottobre 2010) Genere: Garage-punk Ormai sfumato il polverone shit-gaze che aveva riempito le pagine dei media musicali solo due stagioni fa, arrivano al secondo full-length i Tyvek, questa volta per la storica In The Red di Larry Hardy. Nel farlo i ragazzi di Detroit abbandonano quasi totalmente la paranoia demenziale che caratterizzava i primi singoli e l’omonimo album di debutto su Siltbreeze; calcano invece il piede sull’acceleratore, sparando riff garage a velocità al limite dell’hardcore, risultando in prima battuta quasi irriconoscibili. Una folta schiera di pezzi si susseguono alla velocità della luce lasciandoci un po’ interdetti e straniti, prima che lo stomp ossessivo di Outer Limits e le melodie trascinanti di This One - That One facciano capolino, riportandoci indietro di un paio di anni, quando i Tyvek rilasciavano schegge impazzite di garage-post-punk imbevuto di malessere suburbano come May Ellen Claims e Air Conditioner. A Nothing Fits la carica non manca di certo, ma sembra girare un po’ a vuoto, sfogata in maniera poco mirata e, si sa, trovarsi rimpiangere i primi singoli dopo solo due album è qualcosa che nessuno si augurerebbe. (6.6/10) Andrea Napoli Unsense (The) - Il Pifferaio di Pandora (Autoprodotto, Novembre 2010) Genere: rock La tipicità del suono wave è che può fare da tappeto agli innesti successivi e da sostrato a un fare più generalmente rock. Riassumiamo così la strategia sposata da The Unsense, combo attivo in Nord-Italia e Svizzera dal 2004. Da lì (Contact Me, la title-track) viene la chimica basso-chitarra di Il Pifferaio di Pandora, nuovo album della band formata da Samuele Zarantonello, Alan Stanzione, Paolo Pusterla, Matteo Berganton e Davide Bressan, come punto di partenza per divagazioni che guardano alla psichedelia più mainstream. L’occhio lungo che maggiormente si nota guarda a Oriente, secondo un paio di occhiali di marca CSI, specie nelle linee vocali di Zarantonello (Ritornerò E Brucerò). In generale, funziona meglio la lingua nostrana su quella anglosassone, un po’ innaturale nei tessuti - pur efficaci - di The Bitch Song Por Dios, non troppo lontani dal procedere alla Cul De Sac, sia nel taglio psych (Crisalide), sia nella progressione del brano. Un’indecisione che si riflette anche nel fuoco dei brani, che spaziano - senza a volte mantenere una rotta - fino a toccare il blues più classico e meno ragionato (LA Blues) e quindi toni da pub-rock all’italiana. Al netto dell’intero album, il pericolo è comunque sventato, e, fortunatamente, non è questa l’espressione più adatta a Il Pifferaio di Pandora: ne denota forse la provenienza. (6/10) Gaspare Caliri Young Gods - Everybody Knows (Two Gentlemen, Novembre 2010) Genere: techno-rock Dopo un periodo di appannamento, sembra tornato a 72 pieno regime il progetto svizzero. Super Ready / Fragmenté di un paio di anni fa rimetteva in moto il trio formato da Al Comet, Franz Treichler e Bernard Trontin e ora Everybody Knows ne ribadisce forza e freschezza riaccendendo il motore techno-rock di matrice cyberindustrial che tanti cuori catturò nei primi 90s. Lontani dalle prove di gran classe dei primi passi - gli inarrivabili Young Gods e L’Eau Rouge e il tributo weilliano Play Kurt Weill - i tre stabiliscono un ponte con l’onda lunga del loro successo commercialmente più noto, TV Sky: ritroviamo infatti il consueto mix di grunge futuribile e sintetico su matrici seventies rock (i Doors di Jim Morrison venivano spesso tirati in ballo all’epoca come punto di riferimento ideale) o più mediate (pensate ad un pathos alla Eddie Vedder calato nei gelidi panorami Ballardiani). Avanguardistico e vintage, futuribile e classico, Everybody Knows vive di quelle stesse dinamiche muovendosi con classe tra una forma di cantautorato intimo e alieno (Two To Tango), pop-songs da bassa battuta (Blooming), minimal-ambient limitrofa al glitch (Miles Away) e techno-rock music per i pronipoti della Matrix generation (No Man's Land, Tenter Le Grillage). I tre sonic architects, alchemists and diamond-cutters, come li definisce la press, sembrano essere tornati indietro di venti anni sulla tabella di marcia. (6.8/10) Stefano Pifferi Zack Hill - Face Tat (Sargent House, Novembre 2010) Genere: post-math Il roboante circo zappiano di Zach Hill non poteva che riprodursi in tutta la sua dirompente complessità, come coacervo di voci che si accalcano in un brano come su una carrozza di alcolizzati che vanno al lazzaretto. Zach Hill, fin dagli Hella, ha lavorato su quella linea d’eccesso che si sostiene da sé, per così dire, che investe l’ascoltatore e lo malmena su un ring, di fatto ipnotizzandolo con effetti speciali. Face Tat volge tutto questo all’entusiasmo, condizione necessaria ma non sempre sufficiente. Si parte con la travolgente carica circense - per l’appunto - di Memo To The Man, e si continua cercando di mantenere alta l’adrenalina, la carica, la disponibilità d’animo di chi ascolta, cosa davvero difficile, con la qualità e quantità di stratificazioni dimostrate. Si ha proprio l’impressione che Zach componga alla batteria, e che l’imprendibile poligonalità delle sue canzoni dipenda da questo. Gli ospiti - provenienti da giri No Age, Devendra, come dalle mille collaborazioni che Zach nel tempo ha colle73 zionato (i già citati Hella e i Prefuse 73) non mitigano ma aggiungono, perché Face Tat, come Astrological Straits e forse anche più, non lavora di cesello ma di cazzuola, non toglie ma somma. Sebbene i brani abbiano concept chiari (Jackers, la finale Second Life, l’interpretazione del tribalismo Mahjongg-iano in ExRavers) e durate tutto sommato brevi, non si crede mai davvero che possano finire o chiudere il progresso all’infinito. Un fatto poi è molto evidente. Due anni fa, quando l’album d’esordio di Hill solista faceva la sua comparsa, il “genere” di riferimento aveva casi illustri che si erano prodigati ad aprire la pista. Oggi, i Battles non si sono più fatti vedere, altri hanno cambiato strategia, ma Zach continua nella missione di dare euforia alla complessità post-math. È rimasto solo, il Nostro, e forse per questo ha bisogno di farsi compagnia con la moltitudine sfacciata della musica. Nell’anno 2010 rimane insomma l’evidenza di come valga la personalità del personaggio, che non seguiva le mode, che ci è e non ci fa, e ha un sacco di talento. (7.3/10) Gaspare Caliri Zeitkratzer - Whitehouse Electronics (Zeitkratzer Records, Novembre 2010) Genere: avant-noise Whitehouse Electronics è l’ennesima, extra-ordinaria stramberia messa in atto dal collettivo berlinese negli ultimi anni, a seguire le rielaborazioni/collaborazioni/ ripensamenti di e con Merzbow, Keiji Haino, il Metal Machine Music di Lou Reed, John Cage e Zbigniew Karkowski. Stavolta a finire sotto la lente deformante è quanto di più distante dall’ensemble tedesco fondato e diretto da Reinhold Friedl: mr. William Bennett, da tempo immemore noto per le efferatezze sonore col nome di Whitehouse. Primigenio eroe della sottocultura industrialnoise più harsh e no-compromises, Bennett - che qui missa il tutto e benedice dall’alto - vede alcuni dei suoi passaggi più recenti sottoposti ad un trattamento “in acustico” che ne esalta screziature e dinamiche interne, senza sminuirne la disturbante spregiudicatezza. 74 Gelide lande di ambient sconnessa (The Avalanche), ammassi stratificati di noise libero (Muntisi Munkondi) e avant-jazz deforme (Bia Mintatu) si alternano nelle 6 composizioni rielaborate che, si noti bene, seppur senza l’ausilio di elettroniche varie hanno il pregio di risultare stranianti come e più degli originali. Merito del lavoro “ideologico”, oltre che musicale, svolto da Friedl e dai suoi sodali, ormai una garanzia nel panorama avanguardistico mondiale. (7.2/10) .com Stefano Pifferi Zeus - Say Us (Arts & Crafts, Marzo 2010) Genere: indie-blues Chissà cosa sciolgono nel caffelatte, gli Zeus, progetto assurto a vita autonoma dopo essere servito a gruppo di supporto per il connazionale Jason Collett e qui esordiente sulla lunga distanza. Dici Canada e, annotando l’etichetta, pensi ai Broken Social Scene, a un pop corale e stratificato, sincretico e citazionista: sì e no, poiché il quartetto - Mike O'Brien, Carlin Nicolson, Neil Quin e Rob Drake: i primi tre autori, cantanti e polistrumentisti; Rob si accontenta della batteria - guarda al lustro ’67-’72 e preferisce gli oppiacei naturali alla caffeina. Fattori che giustificano l’atmosfera di stordimento agreste (simile agli Small Faces di Ogden’s Nut Gone Flake o a certo Paul McCartney solista) e il gusto di caramello, la rilevanza delle tastiere e le trame “roots” da Wilco sbilenchi e meno robusti. Insieme che funziona, siccome latitano coloranti fuorilegge e la penna è di brillantezza sopra la media, capace ad esempio di far convivere ricordi Kinks e una E.L.O. ai minimi termini (How Does It Feel?, At The Risk Of Repeating) con dei Quasi senza low-fi (You Gotta Tell ‘er), la The Sound Of You da Zombies girati country con una ribalda Marching Through Your Head che beffa gli Of Montreal. A dispetto della ridda di nomi, per qualcuno potrebbe rivelarsi la sorpresa pop dell’anno. Il 2010, tanto quanto il ‘68 o il ‘72. (7/10) Giancarlo Turra 75 Gimme Some Inches #11 Nuovi vinili lunghi e corti in questo freddo mese invernale. A tenervi caldi a rpm di giradischi, Oneida e His Electro Blue Voice, // Tense// e Wild Nothing, Io Monade Stanca e molti altri. Le label italiane da un paio di lustri a questa parte non temono rivali. Quelle che si son specializzate in vinili, tanto meno. Ne è prova tangibile la Xhol Recordings che dopo aver dato alle stampe un 12” della temibile Squadra Omega fa il colpaccio infilando il nome degli Oneida nel proprio catalogo. Sempre un 12” single-sided, serigrafato col tema della copertina, per due pezzi in formazione ormai stabilizzata a quintetto. Equinox offre il consueto concentrato di psychedelia in salsa krauta preso di netto dal minimalismo e ridotto ad un cencio maleodorante di paranoia urbana, mentre Last Hit risponde con un prisma di suoni rumorosi nella miglior tradizione sperimentale dei newyorchesi. Se c’è un gruppo che dimostra ad ogni uscita, minore o maggiore che sia, di essere veramente composto da fuoriclasse, quello sono gli Oneida. Sempre rimanendo in ambito di 76 label italiche, uno dei due nomi che firmano questa rubrica non si diletta soltanto a pubblicare vinili con la sua piccola ma apprezzata label home-based Avant!, ma forma anche parte integrante di uno dei progetti italiani più chiacchierati del momento. His Electro Blue Voice, già premiati dallo sguardo di SA in tempi non sospetti, pubblicano in contemporanea un 12” per la nostrana Holidays e un 7” per Bat Shit, mentre resta in rampa di lancio da troppo tempo un altro vinile lungo per Temporary Residence e la partecipazione alla upcoming compila manifesto web-only A Guide to Grave Wave. Per ora accontentiamoci dei due pezzi del 7” – più post-punk oriented, urlati, riverberati in modalità cavernosa e dal mood vagamente gotico con tanto flauto pan-horrorifico in coda – e dei due che occupano il vinile su Holidays. Un maxi-singolo, si sarebbe detto un tempo: Wolf sul lato A si apre come fosse un pezzo punk ossessivo a cassa dritta per evolversi verso una odissea reiterata come degli Oneida weird (il flauto ipnotico), spacey (la catarsi da wall of sound) e infine abbandonati a se stessi (la coda da raffreddamento post-atomico. Sul lato opposto Worm sembra invece la versione droning di Wolf: flutto montante di drones circolari e mantrici con una chiosa affidata ad un organo malato. Possibili nuovi mondi? Staremo a vedere. Un’altra band italiana (e di conseguenza, un’altra label nostrana) che si fa apprezzare all’estero, nello specifico oltralpe, è Io Monade Stanca. Nel condividere un 12” in vinile verde su AfricanTape col duo francese Calva, i quattro del Canalese danno il loro meglio: Eravamo Partiti Coi Piedi Per Terra è una lunga suite da 20 minuti suddivisa in 3 sezioni e una miriade di sottosezioni che ne esalta la patafisica follia strumentale, sempre sospesa tra postismi lousvilliani, elaborazioni math e prog, aggressività noisy e sfattissimo cantautorato indie. Sul lato A i due francesi offrono una muscolare prova di noise elaborato, fratturato e ossessivamente reiterato, sull’onda di Hella et similia e con un certo fascino per svisate electro-synth alla primi Six Finger Satellite. Senza però poter competere col nostro quartetto in quanto a pazzia. Spostandoci overseas, l’inarrestabile catalogo Captured Tracks ci regala (si fa per dire) l’ennesima uscita a base di dream pop, shoegaze morigerato e ammiccanti melodie C86. Parliamo di Golden Haze, il nuovo Ep su 12 pollici degli ormai noti Wild Nothing, la band di Jack Tatum da pochissimo passata in tour sul suolo italico. Trascinato da una title-track che più catchy non si può, il mini in questione presenta sei nuovi brani che non si discostano affatto dal precedente full-length Gemini. Quindi ancora armonie sfuocate e trasognate, voci lontane e arpeggi di scuola dichiaratamente Johnny Marr. Spostandoci nel sud degli States ci imbattiamo nel nuovo singolo dei //Tense//, duo di Houston più o meno arbitrariamente incorporato nella nuova moda witch. Due pezzi di quell’industrial dance/EBM tanto cara a label come la Wax Trax!, con la title-track e l'altrettanto emblematica The Chain per otto minuti di elettronica smaccatamente anni ’80-’90, dove pensanti beat meccanici reggono innesti vocali cibernetici. L'edizione digitale comprende ben cinque remix ad opera di Mater Suspiria Vision, Valis, Party Trash, White Car e gli stessi //Tense//. Dieci e lode per la copertina che omaggia/deturpa i Village People!. Dalle freddi lande canadesi arrivano invece i novelli Contrepoison, e si sente. Il nuovo progetto solista di Pierre-Marc Tremblay (già militante in altre tenebrose band locali) imbastisce quattro esempi di una dark-wave minimale e sofferta, scossa da un canto angoscioso e addolcita da synth mesti ma irresistibilmente melodici. Cassetta autoprodotta rilasciata in sole cento copie già andate a ruba tra i freaks dei suoni più neri di sempre. Cercatelo in rete perché ne vale la pena. Chiudiamo tornando in patria con l’uscita dello split tra due nomi caldi del post- punk rock nostrano. Parliamo del 7 pollici condiviso tra i milanesi Cusack e i bolognesi Laser Geyser, entrambi già con un precedente singolo all’attivo. Due pezzi a testa che citano tanto Hot Snakes e Drive Like Jehu quanto Wipers e Husker Du in una confezione di lusso con copertina serigrafata, limitata a trecento esemplari. Meglio muoversi. Stefano Pifferi, Andrea Napoli 77 Re-Boot #10 Un mese di ascolti emergenti italiani Il segnale è chiaro: malgrado tutto, il sottosuolo ribolle di musica. Voi non vi arrendete. Neanche noi. Un po' di novità dalla Capitale, diversissime per stile e condizione: i Piano For Airport sono un quartetto attivo dal 2007, dicono la loro sul versante di un ex-post-rock che ha reimparato la voglia, il gusto, l'attitudine della tensione melodica. Another Sunday On Saturn (Autoproduzione, 6.8/10) è il loro primo full lenght, un dieci tracce che alterna allarmato nervosismo (Monkey Theorem, Tired Eyes) e palpitazioni atmosferiche (Just Done, Ghost And Pillows), coprendo un arco emotivo che prevede astrazioni elettro-pop e più o meno oblique inquietudini wave. Tra Death Cub For Cutie, Notwist e Giardini di Mirò, seguono un solco intrigante che - al netto di una pronuncia che deve farsi più naturale - studia per diventare significativo. L'altro romano è Fabio Masciullo, che nell'esistenza "normale" si prodiga come psicologo, mentre nella veste dell'alter ego Gran Fondo ha composto negli anni - così sostiene - circa mille (1112, per la preci78 sione) canzoni stipate nel famoso cassetto della famosa cameretta. Canzoni che ovviamente premono per uscire. Sette di esse compongono questo Lettera, congiunzione, copula (Autoproduzione, 7.2/10), demo che dimostra versatilità febbrile e una capacità sintesi che lo porta a mettere in cortocircuito Eels e CCCP (E ci rivedremo), Wire e Faust'O (Effetto serra), Brian Eno, Patrick Wolf e Notwist (la splendida Elicottero), insomma lo spettacolo d'arte varia d'un wave rock tra l'isterico, l'atmosferico ed il progressivo. Tu chiamala, se vuoi, retroavanguardia introspettiva (qualunque cosa significhi). In ogni caso, molto molto interessante. Anche i Telepathics hanno Roma nel dna, ma la situazione è ibrida visto che il duo è composto dal musicista e compositore capitolino Cristiano Carosi (già nei Sea Dweller) e dall'illustratrice italo/svedese Isabella Cotellessa. Hanno appena sfornato un ep, Jungle Reaction (Upside Down Recordings, 7.2/10), nel quale danno vita ad un ultrapop allucinato e radiante, mutazioni kraut, wave e ambient, gli Human League ipnotizzati da Terry Riley, i Kraftwerk nella sala giochi New Order tra nebbioline My Bloody Valentine. Deliziosamente out of time come una lampada di quarzo: aspettiamoli sulla lunga distanza. Ci piovono addosso da Caserta invece The Secretaries, duo femminile dal fascinoso piglio indie saturo di ombre e inquietudini PJ Harvey. Esordiscono con l'ep Before The A (Autoproduzione, 6.8/10), cinque tracce di tremori che si dipanano atmosferici per l'incrociarsi suggestivo di chitarra, tastiera e voce. L'assenza di sezione ritmica - tranne che nella languida Lost crea un bel senso di gravità zero, su cui galleggiano i rigurgiti new wave e le caligini quasi shoegaze. La proposta, va da sé, non brilla per originalità, ma le idee sono chiare, il mood non cede di una virgola, il suono - grazie anche all'aiuto del compaesano DOPA - solletica deliziosamente i padiglioni. Mark Lanegan, Woven Hand, ma anche i nostri Donsettimo e Ce- sare Basile. Fondamentalmente blues, di quello oscuro, scheletrico, acido, vergato da chitarra elettrica, contrabbasso, batteria, lap steel, banjo. Salvo Ruolo con il suo Vivere ci stanca (Autoproduzione, 6.5/10) riesce a costruire un disco fascinoso e crepuscolare, slegato dalle strutture rigide e teso verso un indefinito stoned, lento e volutamente sfilacciato. Testi che optano per una resa incondizionata alla musica, un cantato svogliato à la Dulcamara e l'impressione che il musicista sappia il fatto suo. Tra i crediti del disco, anche lo snowdoniano Franco Beat. Quel che più ci attrae dei brindisini Lenula è invece la commistione di generi alla base del loro omonimo EP di esordio (Pelagonia, 6.2/10). Una sorta di progressive totale che riesce ad unire cantautorato stile Tom Waits (Modellando la notte), certa jazz-fusion di canterbouriana memoria (All'interno) e una psichedelia spacey morbida e articolata (Fondo). Il meglio lo si ascolta quando le trame si fanno più allentante e coraggiose, mentre suonano fin troppo disciplinati e ripetitivi i tem- pi dispari e le parti strumentali più debitrici verso la tradizione progressiva. Un buon punto di partenza, comunque. The Sweating Room (autoprodotto, 6.8/10) è l’EP d’esordio dell’omonimo quartetto toscano , attivo da un paio d’anni e ora arrivato alla produzione di un disco. Indie rock e powerpop con spiccata vena melodica ne rappresentano le principali coordinate, con una interessante voce femminile, quella di Giulia Salvi, a punteggiare e tenere insieme il tutto. Otto brani cantati in inglese, una discreta tenuta d’insieme e un senso della melodia che ne rappresenta la principale risorsa sono tutti elementi che fanno ben sperare per il loro proseguimento. Da tenere d’occhio. Torniamo infine nella capitale, dove sono attivi da tempo gli Junkie Storm, che si ripresentano con un nuovo EP, No Headed Boy (autoprodotto, 6.8/10) che consiste di due inediti (il pezzo omonimo e Frontiers) e due brani dal precedente EP qui rivisitati. Alt rock tra America e Inghilterra con durezze e melodie, pezzi in inglese qua e là sporcati da synth, tra Franz Ferdinand e tanto del cosiddetto “emulrock” che è stato. Il gruppo qui alla sua terza autoproduzione ha ormai una personalità ben definita frutto del lavoro svolto sin qui. Fabrizio Zampighi Teresa Greco Stefano Solventi 79 China underground#2 Jia Zhangke, vincitore del Leone d'oro nel 2006 con Still Life, torna in Italia per presentare il suo ultimo lavoro I Wish I knew presso il festival di cinema asiatico "AsiaticaFilmMediale" Shanghai somiglia a un insieme di immaginari sovrapposti, uno dei volti più rappresentativi del Novecento cinese. Ha fatto da sfondo a moltissime vicende, individuali e collettive. I wish I knew è la storia di una città attraverso delle vite raccontate, una fotocamera fissa sul suo passato remoto e recente. Una storia che ha senso raccontare oggi, come afferma il regista Jia Zhangke, nell’anno 2010, lo stesso in cui la città di Shanghai ha celebrato il futuro della Cina ospitando la monumentale World Expo. Per ricordare che senza passato non può esistere alcun futuro. Non è un’associazione scontata in un paese come la Cina di oggi, dove la storia ha solo una versione senza interpretazioni alternative. Dove la memoria del dolore umano viene cancellata per un interesse di partito o nel nome dello sviluppo economico. Per questo è importante rievocare storie sommerse, le fughe a Taiwan o a Hong 80 Kong della Cina “capitalista” all’indomani del 1949; o le repressioni durante la Rivoluzione culturale. Storie di rivoluzione, scritte da chi è stato sconfitto e da chi ne è figlio. Jia Zhangke ha deciso di ascoltare diciotto testimonianze viventi, ricordi e memorie che attraverso il proprio vissuto individuale illuminano la storia di Shanghai dal 1933 ad oggi. Figli di generali nazionalisti e rivoluzionari comunisti, attrici e registi, fino a Han Han, classe ’82, scrittore e blogger più letto al mondo. Le rievocazioni sono unite da uno sguardo esterno, quello di Zhao Tao, attrice musa del regista, spettatrice smarrita delle trasformazioni di una città in continua transizione. Uno sguardo vagante lungo il fiume Huangpu, staccato dalle vivide storie raccontate ma anche parte di esse, unito a loro nell’osservare gli effetti dello scorrere del tempo sulla vita delle persone. Le voci non ascoltate e quelle azzit- Intervista a Jia Zhangke tite. Quasi una missione per quello che è oggi tra i registi contemporanei più importanti in Cina. Jia Zhangke iniziò la sua carriera nel 1997, Xiao Wu, Platform e Unknown Pleasures sono i titoli che lo hanno reso celebre all’estero. Film indipendenti, girati senza autorizzazioni e di nascosto da occhi indiscreti. Film senza distribuzione in Cina ma che, arrivati a Cannes e a Venezia, hanno incontrato un riconoscimento unanime da parte della critica internazionale. A colpire nelle prime opere di Jia Zhangke era la veridicità della sua Cina, delle fotografie realiste, quasi documentaristiche, di piccole realtà metropolitane tra gli anni ’80 e ’90. Una società particolare, quella delle città di provincia cinesi di allora. Passate d’improvviso dal maoismo al mercato, di una gioventù sbandata, alienata ed emarginata dall’improvvisa legittimazione dell’individualismo capitalistico. Realismo sociale e storia, sono questi i punti di ritorno costanti dell’arte di Jia Zhangke. Il salto non è però così grande come sembra, la società e la storia sono unite dal fat- to che entrambe racchiudono in sé la trasformazione. La sensibilità di Jia Zhangke è sempre votata alle conseguenze, a volte drammatiche, spesso alienanti, dei cambiamenti sociali e politici sulle vite delle persone. Un film sulla storia di Shanghai attraverso i racconti delle vite di alcune persone può sembrare strano a un pubblico straniero, difficile da penetrare nella sua ispirazione. Ma le esigenze di Jia Zhangke sono molto simili a ciò che lo aveva animato nei primi film da lui diretti. "Per me era molto importante filmare una Shanghai che i cinesi non conoscono. La mia principale intenzione era di rivolgermi a chi non è familiare con la storia di Shanghai; a chi non conosce i cambiamenti, i movimenti, le guerre e le calamità –politiche e create dall’uomo- che vi sono avvenute dal 1933 ad oggi. E poi l'influenza che hanno avuto sulla vita degli individui. Questi aspetti in Cina sono sconosciuti, quello che ho voluto fare è stato un lavoro di riempimento di un vuoto, perché molti degli eventi di cui parla il film ufficialmente non possono essere discussi, non è consentito farli emergere. Questo per me è un film sovversivo, perché in passato nella cultura cinese non ci sono state simili narrazioni, questa credo sia la principale missione di questo film". Il 2004 è un anno di cambiamenti importanti per Jia Zhangke. Esce The World, il suo primo film autorizzato dal governo cinese. Da allora il regista ha girato altri tre film, ottenendo il Leone d’oro con Still Life (2006), a cui è seguito 24 City (2008), ambiziosa storia della chiusura di una fabbrica statale di Chengdu, e I Wish I Knew (2010). Film diversi dai primi girati, che pur rivelando chiaramente l’anima del regista, evidenziano il passaggio dall’underground alla luce. Jia Zhangke non ama le allusioni ad un suo avvicinamento al mercato. Quando gli viene chiesto come sia cambiato il suo approccio alla regia dopo il riconoscimento delle autorità, è abituato a rispondere che a cambiare non è stato lui, ma l’atteggiamento delle autorità verso i suoi lavori. Gli ultimi film lo hanno invece messo in contatto con altri luoghi della Cina, allontanandolo dalla provincia d’origine dello Shanxi, una “scenografia” reale che era divenuto un segno distintivo del suo cinema. Ma quelle contraddizioni sociali in cui era cresciuto e che avevano suscitato il suo interesse si sono costantemente riproposte nei suoi spostamenti. "In realtà non ho mai abbandonato la mia vita passata, so costantemente quello che accade nello Shanxi. Perché anche se dopo ho girato a Chengdu, alle tre gole o a Shanghai è perché al mio sguardo erano uguali allo Shanxi. L’unica cosa diversa è che nello Shanxi non c’era la grande diga delle tre gole o non ho trovato la fabbrica che era a Chengdu. Ma in realtà queste storie sono tutte uguali, perché sono dentro uno stesso sistema. La società cinese dopo il 1949 è stata unificata, e in Cina unificare ha significato uniformare. Poi nel tessuto sociale cinese senz’altro ci sono stati cambiamenti. Ma il fatto è che io vivo in Cina e ogni giorno sono colpito dai suoi cambiamenti, per cui questi cambiamenti non possono abbandonarmi, so ancora di che tipo di società si tratta, per me non è come trovarmi davanti a una persona sconosciuta". Nei suoi film, quello con le autorità cinesi è un rapporto non pronunciato. Le opere di Jia Zhangke non sfidano il partito criticando direttamente il regime, ma dando voce a versioni alternative al processo di sviluppo cinese, spesso marginalizzate da esso: "Faccio questo tipo di film perché in realtà in Cina non si parla molto di queste vite, non è permesso e non si è incoraggiati a farlo, per cui mi interesso molto a questo tipo di questioni. Inoltre anch’io sono nato in questo genere di ambiente e credo anch’io di appartenere a tutto ciò". Le parole del regista però sono senza veli: nel dibattito sociale e politico interno alla Cina ritiene centrali le questioni della democratizzazione e dei diritti umani, mentre la considerazione dell’incessante sviluppo economico cinese è tutt’altro che orgogliosa. "Ovviamente il processo di sviluppo ha una sua funzione giustificabile, che è nella dedizione al rafforzamento dell’intera Cina, o nello sviluppo delle grandi città. Ma noi che viviamo in Cina non ci identifichiamo troppo nel fattore dei risultati economici, perché quelli dell’economia cinese sono successi basati sulla quantità. Il divario tra ricchi e poveri, ad esempio, è un problema della nostra società; la ricchezza prodotta non concede alle persone di ricevere profitto. In questi ultimi due anni ho continuamente evidenziato il problema della povertà in Cina, la Cina di fatto non è ancora un paese ricco. Le province settentrionali si trovano ancora in una condizione di estrema povertà. La Cina nell’insieme è molto grande, perciò ognuno può identificarsi in una Cina diversa. Io sono piuttosto preoccupato per quella parte di Cina povera, perciò non sono assolutamente d’accordo nel dire che la Cina sia già un paese dotato di un modello economico di successo". Spostando l’attenzione sul clima culturale cinese, il suo tono non cambia: se da un lato denuncia l’appiattimento culturale nell’assoluta maggioranza dei centri urbani cinesi, d’altro canto ha una grande considerazione del fermento che si 81 respira a Pechino, ma ancora una volta il principale valore è nell’indipendenza di vedute, con tutto quello che questo può comportare, politicamente e materialmente: "Credo che a Pechino esista una cultura ribelle. Questo è l’aspetto di maggiore valore, perché ci sono ancora molte persone che adottano un tipo di pensiero molto indipendente per manifestare i propri punti di vista. Questi lavori subiscono diversi limitazioni e probabilmente dal punto di vista materiale ed economico sussistono molte difficoltà; ma il valore di Pechino è proprio nel convogliare artisti di questo genere, in grado di dar vita a questo tipo di cultura. Le altre città non hanno la stessa dimensione". Il suo giudizio sul cinema cinese degli ultimi anni è invece maggiormente critico: malgrado il dinamismo ed il recente fermento, stenta ad individuare prodotti di valore in grado di emergere sugli altri; piuttosto che ricondurre il problema all’assenza di condizioni economiche, non esita a parlare di questioni inerenti alla "creatività" e all’incapacità da parte dei nuovi prodotti cinematografici a proporsi in modo "rappresentativo". Il percorso formativo di Jia Zhangke ha mosso dal cinema sovietico e giapponese per arrivare a quello francese e al neorealismo italiano. Cresciuto nella Cina post-maoista, la componente sociale è nel suo stes- so patrimonio genetico, personale e professionale; tuttavia la sua opera non vuole esaurirsi in un semplice intento documentaristico, tra i registi che ama e hanno influenzato la sua identità artistica egli indica non solo De Sica, ma anche Antonioni e Fellini. A conferma di ciò, sostiene senza sorpresa di considerare la funzione descrittiva sociale e quella creativa artistica come complementari all’interno della sua arte cinematografica: "Io ritengo che questi due aspetti non siano né opposti né contraddittori, ma due componenti di un’unità. Penso che i film che voglio realizzare abbiano a che fare con l’epoca in cui sono cresciuto, poiché nel mio processo di formazione la Cina si è imbattuta in cambiamenti molto violenti, che hanno influenzato molte persone differenti. Ma io sono un regista cinematografico e non un sociologo, tutte le vedute che esprimo sulle persone e sulla società devono fare ricorso ad un procedimento estetico, devono passare attraverso la pellicola per poter prendere forma. È per questo che sono alla costante ricerca di un mio linguaggio cinematografico, in grado di dare forma alla mia arte, che possa esprimere ciò che più mi sta a cuore. Penso che per un regista questi due aspetti siano ugualmente importanti nel suo lavoro". Infine cinema e musica, musica nel cinema. Un rapporto complesso ed essenziale che spesso risulta imprescindibile: "Credo che nel cinema la musica sia in gran parte una forma narrativa in grado di completare il mondo interiore dei personaggi. Ci sono molte cose che non si ha modo di dire attraverso un copione ma che puoi esprimere con la musica. È una prosecuzione, un’estensione dei sentimenti. Poi nei miei film è anche il segno di un’epoca, perché utilizzo molte canzoni che ricordano allo spettatore un periodo preciso. In Cina, dagli anni ’80 in poi, ogni anno ci sono sempre state delle canzoni pop strettamente legate ai cambiamenti sociali cinesi, canzoni che rappresentano quel tipo di società. Per cui si tratta di una parte di memoria, il modo più facile per restituire un ricordo, una chiave in grado di aprire la memoria". Filmografia: *China Files è un’agenzia di stampa composta da giornalisti, videomaker, fotoreporter e sinologi di diverse nazionalità. Sfruttando il valore aggiunto della presenza sul territorio cinese si proprone di ascoltare, osservare e raccontare la Cina contemporanea nella sua complessità, troppo spesso ridotta ad interpretazioni in bianco e nero. www.china-files.com Mauro Crocenzi Filmografia Xiao Wu (小武, 1997) Platform (站台, 2000) Unknown Pleasures (任逍, 2002) The World (世界, 2004) Still Life (三峡好人, 2006) 24 City (二十四城, 2008) I Wish I Know (海上奇, 2010) 82 83 Rearview Mirror —speciale I'LL REMEMBER The Kinks Wonderboy Caro vecchio Ray: sai solo tu quanto ti adoro. Anche se da troppo mi fai penare e ti sei chiuso in quello stesso passato che hai creato col tuo Genio. Grazie lo stesso, Ray. 84 Testo: Giancarlo Turra “A partire da Waterloo Sunset ho sempre pensato alle canzoni in senso visuale, prendendo annotazioni sulle scene.“ Ray Davies, 1983 Al numero 6 di Denmark Terrace, a Fortis Green, nel quartiere di Londra nord chiamato Muswell Hill, c’era una porta con su scritto “Davies”. Lì è nato Raymond Douglas, settimo di otto figli - sei sorelle (una lo crescerà a suon di dischi) e il fratellino Dave, talento inevitabilmente minore e carattere ruvido - di una modesta famiglia operaia. Verrà su, con tutto quel chiasso e quella folla attorno, da introverso che preferisce guardare le cose dall’esterno e possibilmente in pantofole e quanto è perfetto tutto ciò per fungere da incubatrice al prototipo di scrittore di mini-drammi (o commedie…) che sarà. Perché di ciò si tratta: di un osservatore che, come tutti i grandi scrittori o commediografi, cammina tra la gente e senza mescolarsi con essa ne cattura pensieri e respiri, aspirazioni e sdegni. Stando chiuso in casa a prendere nota dalla finestra come l’io narrante di Waterloo Sunset, che vive malinconicamente una gioia un po’ misantropa (che ci dici, Morrissey?) tramite gli amanti Terry e Julie che scorge fuori dalla stazione della metro. Uno senza il quale è impossibile pensare - anelli di una dorata catena - gli Elvis Costello, i Paul Weller, Andy Partridge e Damon Albarn che ne seguiranno le orme. Perché è qui che la musica inglese, mentre completa l’invasione di un’America che le fu maestra, inizia a sposare testo e contesto e a “vivere” il pop nel contesto sociale che lo genera e che a sua volta finisce per plasmare in qualche modo. Sta tutto nell’abilità di questo amabile passatista, di una specie di “reazionario idealista” con in testa una Britannia che è cool senza neanche volerlo, anzi si chiude dentro a un’Arcadia di tradizioni - la provincia e i suoi lenti riti, la struttura sociale inamidata come i colletti degli impiegati ministeriali, le colonie e l’amato Impero - idealizzata in modo di già consapevole come via di una felicità in terra. E una via di fuga dal sentirsi strozzato in una scelta, in quel Dead End Street che nel ’66 canterà così amaramente a 45 giri: scarpe da pallone o chitarra, George Best o John Lennon. E’ un cocciuto indicare che quegli anni non sono poi così fab per tutti, di povertà dickensiana e disperata si vive e si muore ancora ed è così che assume senso un parallelo con Mark E. Smith, misuratosi egregiamente con Victoria e continuatore della saga inacidendo del Nostro il tagliente umorismo. Un clichè, anche, che infine si sovrappone e genera, nel sonno della ragione critica, i Liam Gallagher e Pete Doherty del caso, ovvero i fantocci senza contenuto che talvolta ci fanno così detestare quell’isola che viceversa amiamo, e dove piangi due volte. Quando arrivi e quando te ne devi andare. Sarà infatti poco e soprattutto all’inizio rock e poi tantissimo pop la creatura Kinks al suo meglio, perché in quel mettere in mostra plateale sentimenti e in quel raccontare storie c’è tutta la differenza. Trovi il camminare sulla corda tesa tra la dura realtà e la trasfigurazione “mitologica” della stessa che ha per alcuni anni offerto magia indimenticabile e che non ha smarrito potenza e seduzione. Abbastanza da allestire seduta stante una Società per la Conservazione di Ray Davies, diventato vecchio in fretta perché vecchio già lo era sin da ragazzo (al punto di voler regredire indietro fino alla scimmia in Apeman: era il ’70, qualcosa vorrà senz’altro dire…), senza possibilità di emergere tra un McCartney e un Jagger epperò talento di pari schiatta. Chissà se avrebbe apprezzato quel tipo di successo: probabile che oggi, nonostante il declino e un inverno cupo e pessimista, non lo scambierebbe con il suo ruolo “storico”, cioè quello di un Noel Coward o un G.B. Shaw prestato a (splendide) canzoni. Preparatevi alla più lunga sequela di ovvietà mai apparsa su queste pagine e a rinunciare ai voti. YOU REALLY GOT US “Andavo a scuola e cantavo nel coro, poi arrivo la pop music a liberare i giovani. La classe operaia ottenne una voce, ma non c’ero soltanto io: c’erano John Osborne, Alan Sillitoe, gli Angry Young Men; il teatro e il cinema.“ Ray Davies, 2010 Nel cuore di quegli anni Quaranta che per l’Inghilterra furono soprattutto grigiore e bombe, c’è un’intera generazione, diciamo quella dal 1940 al 1950, che dal secondo conflitto mondiale e del suo dopo sa trarre forza e incanalare la tragedia in una ricostruzione del costume. Saranno costoro a porre - mai come in questo caso involontariamente - le fondamenta di una rivoluzione culturale in cui i giovani prendono il potere, anzi in essa nascono come categoria sociale e di mercato. Ray è del giugno ’44 e il fratello di quasi tre primavere più giovane, dunque la trafila è la solita: se siete un minimo avvezzi all’evoluzione del rock and roll, saprete dunque che si cresceva con Elvis Presley, Chuck Berry e il blues per darne una versione ingenua ma utile come palestra chiamata skiffle. Tenendosi da qualche parte i crooner e un music-hall autoctono che sarà pre85 ‘Til The End Of The Day, le prime avvisaglie di amarcord (Where Have All The Good Times Gone, Ring The Bells), per un favoloso 45 giri che da un lato irride la moda (Dedicated Follower Of Fashion) e dall’altro commenta la noia (Sittin’ On My Sofa). Servirà però una tegola sulla testa per tirare il fiato e approdare a un primo Capo d’Opera: alla fine dell’estate, l’ennesima rissa sul palco li bandisce dall’America per un quadriennio. Stop alla mattanza del palco e via alla nostalgia, alla creazione del piccolo mondo antico da parte di Ray, che da questo - così rutilante, colorato e fors’anche vacuo è stato estromesso. Introspezione, acredine classista e malinconia sono dunque gli ingredienti di Face To Face, quattordici diamanti pop-art trainati dal successone Sunny Afternoon, epitome della Londra che nel luglio ’66 swinga e si aggiudica i mondiali di calcio. Manifesto del suo tempo tanto quanto è sempreverde, infila tra l’ironia a rotta di collo di Party Line e gli struggimenti amorosi di I’ll Remember i folk-beat elisabettiani Rosy Won’t You Please Come Home e Too Much On My Mind, il raga Fancy, la proto-psichedelia pastello (Rainy Day In June). Non basta, poiché altrove volano le stilettate di Dandy e l’omaggio Session Man, le berline di costume e società borghesi alla Hogarth House In The Country sto utilissimo nel mentre ci si butta a pesce su rock & roll e soul, li si fraintende e se ne cava il beat. Al pari di svariati altri colleghi, i Davies frequentano nel ’62-‘63 il londinese Hornsey College Of Art e fanno comunella con Peter Quaife, chitarrista subito dirottato al basso ed ecco che, in estate, col Pete Best della situazione (Mickey Willet) alla batteria nascono i Ravens. Un loro demo plana sulla scrivania di Shel Talmy, produttore americano sotto contratto per l’albionica Pye. E’ il 1964 e la competizione già è durissima, per cui tocca sbrigarsi: prima di firmare, ci si sbarazza di Willet a favore del più solido Mick Avory e si cambia nome come sappiamo. Il debutto, un 45 con la cover di Long Tall Sally, non va da nessuna parte e idem il successore You Still Want Me. Fatto è che Rolling Stones, Animals e Beatles stanno su un altro pianeta e a nulla vale rifarsi ai loro stilemi senza una scintilla che distingua. E che giunge sotto forma di uno tra i riff più imitati di sempre - dal punk all’hard passando per garage e power pop che libera centotrentaquattro secondi di angst giovanile. Imprime una svolta alla loro carriera e a quella della musica leggera, You Really Got Me, salto in avanti quan86 (ciao, Blur!), Holiday In Waikiki e Most Exclusive Residence For Sale. Lasciando fuori un rauco inno da cantina come I’m Not Like Everybody Else e accidenti se è vero. Epoca d’oro per il mondo, il pop e Mr. Ray, che benché si chiuda viepiù nella “Kinkdom” celebrata e racchiusa - come pasticceria golosa da Afternoon Tea - nel successore Something Else, che rende un ‘67 ancor più formidabile. Scordatevi le tangenti acide e l’espansione della mente, ché qui si narrano drammi quotidiani in sedicesimo che con il patetismo e il populismo nulla hanno a che fare: tra la Death Of A Clown che è lascito trai i migliori del Dave e il meraviglioso acquerello Ibseniano Two Sisters, le classifiche perdono i Kinks e l’evoluzione della musica li raccoglie, nonostante un certo “Sergente Pepe” fosse da qualche mese nei paraggi. Il rock si nasconde in un paio di passi mica male (la dylaniana Situation Vacant) e il folk si incarna in marcette (Harry Rag, Tin Soldier Man) a fianco di una bossanova (No Return) e tutto s’avvolge di incantato, nebbioso stordimento (Lazy Old Sun, End Of The Season). Ad aprirlo l’invenzione dei Jam (David Watts) e a suggello il racconto più fulgido del Raimondo (Waterloo Sunset). Tornano verso fine decade nelle classifiche dei singoli, i ragazzi, benché l’interesse sia ormai verso l’album tico dal trampolino di Louie Louie con un fuzz selvatico che l’album d’esordio, fuori a ottobre ’64 per cavalcare l’onda, non mostra. The Kinks, singolo Capolavoro di cui sopra e una Stop Your Sobbing che Costello deve aver mandato a memoria escluse, si affida a un compitare Merseybeat con mano acerba e a un errebì che non graffia. Suona a rimorchio di mode velocissime, come un altro 7” che sbanca e spacca seppur ricalcato sulla scansione di accordi che li rende famosi anche negli U.S.A. A fine annata All Day And All Of The Night si arrampica alla seconda piazza nazionale e gli americani lo spediscono alla settimana. In tutto quel bailamme c’è tempo per buttar fuori e.p. a ritmi industriali, accumulare esibizioni e incazzarsi tra di loro. Ne risente Kinda Kinks, che a inizio 1965 mostra un autore in cerca di sé, che fa numero attingendo dalla Motown e insegue un’eterna adolescenza impossibile. Regala nondimeno una Tired Of Waiting For You che è Classico magari minore e ciò nondimeno con la maiuscola e l’incursione brasiliana Nothing In The World Can Stop Me… Soprattutto, indica che non si è al cospetto di un bluff e lo stesso Kontroversy e il beat da antologia di 87 come forma espressiva capace di soddisfare le velleità autoriali del leader. Vendono bene e sono di ottima fattura sia le gioiose Autumn Almanac e Wonderboy che la romantica sfoglia Days, nondimeno mente e cuore stanno in The Village Green Preservation Society, dei famigerati “concept” uno dei pochi davvero azzeccati e giammai noioso; un’autentica mosca bianca in tal senso e veramente rivoluzionario nel guardare indietro mentre chiunque “vuole tutto e lo vuole adesso.” Spartano come si conviene e come Ray voleva, profuma di semplicità e di campagna, di fondamentale minuteria da microcosmo gozzaniano (il brano omonimo e la gemella meditativa Village Green, Starstruck, Picture Book), di una penna fragrante e di arrangiamenti indovinati (l’inquieta Wicked Annabella, l’agreste Sitting By The Riverside, una Phenomenal Cat col santino di Lewis Carroll in tasca). Ci sono il vaudeville e la celebrazione, l’amarezza e l’amicizia (Do You Remeber Walter); c’è un’epica pop, rock e finanche blues contenuta e imbrigliata che fa gridare all’incanto, al secondo “masterpiece”. Tanto per essere al passo coi tempi, esce sul mercato lo stesso giorno del White Album e addio sogni di gloria. La Storia applaude, però, e noi le facciamo compagnia. Non Peter Quaife, che non ne può più dell’insuccesso, se ne va (morirà nel giugno 2010) e gli subentra John Dalton. Agli sgoccioli del decennio termina anche il bando e il quartetto può tornare sul suolo americano, non prima però di aver messo mano alla “rock opera” Arthur (o il declino e la caduta dell’Impero Britannico): chiamatemi pure blasfemo o ignorante, ma la preferisco a Tommy però cede la medaglia d’oro a S. F. Sorrow dei Pretty Things, nel campo i primi e anche i migliori. 88 Consideratelo il concept esplicito dopo quello implicito ambientato nel Villaggio Verde, siccome ci si abbandona a riflessioni su Albione e il suo trapasso nell’era moderna visti attraverso gli anti-eroi di ogni giorno. Quel che spiace è un tono strumentalmente più appesantito dagli esiti non spregevoli (Mr. Churchill Says, Australia) e pur tuttavia opachi. Come se la leggerezza fosse scivolata sotto l’uscio, per cui tocca rinvenire i picchi nella freschezza di ieri l’altro, ovvero nella celeberrima e irresistibile Victoria, nella mestizia devastante di Shangri La, nella tenera Young And Innocent Days e nella baldanzosa Arthur. Il rimanente si colloca su buoni livelli, se no mostra stanchezza compensata col mestiere. Nemmeno l’ingresso del tastierista fisso John Gosling inietta nuova linfa, per quanto la sua prima apparizione sia con il singolo Lola, tenera istantanea di ingenua confusione sessuale ripescata dalle Raincoats. Compare di nuovo in classifica su ambedue i continenti e nel 1970 è tra i gioielli di Lola Versus Powerman And The Money-Go-Round, Part One, imbevuto per il resto di fiele e veleno scagliato contro lo showbiz e quando mai una tale mossa può giovare alla musica, anonimamente rock ed eccessivamente chiusa nel proprio guscio salvo riaffiorare pura nell’Apeman che satireggia esotico, nel rock quadratamene bluesato The Contenders, nella stonesiana Got To Be Free e in una This Time Tomorrow da lirismo a squarciagola. Al di là del più che dignitoso risultato, preoccupa un autore che soffoca il mezzo con i messaggi. Che, esaurito il sarcasmo, va facendo il pieno di cinismo. Ne avrà bisogno: i Settanta sono arrivati. TIRED OF WAITING FOR YOU “Scrivo canzoni perché mi arrabbio, e ora mi trovo a un punto in cui spolverarle d’umorismo non basta più.” Ray Davies, 1978 Lo spartiacque lascia inizialmente perplessi: Percy imita in approssimazione e vaghezza la pellicola di cui fornisce commento e lo rammenti per God’s Children e The Way Love Used To Be. In retrospettiva penseresti che una band simile non possa sopravvivere alla nuova epoca ed è così, per quanto si debba restare ancora di stucco: Ray consegna il proprio genio a un ultimo disco e, salutata la Pye, varca la porta del colosso RCA ripagato da un anticipo di un milione di dollari. Di fatto, nel ‘71 Muswell Hillbillies risponde a glam e progressive cancellando l’Inghilterra dall’orizzonte sonoro e volgendo le orecchie a Ovest. Chiude un cerchio splendidamente, raccontando di nuovo borghesia e suburra in country (la title-track), jazz (Holiday, Acute Schizophrenia Paranoia Blues) e ballate. Inizia qui un lento declino, un appannamento della creatività che sa di ritirata nel carapace delle ambizioni mal riposte sul quale non mi dilungo: due anni dopo, Everybody's In Showbiz mescola su un doppio brani in studio ed estratti live che piazzano sulla graticola ancora il contorto rapporto con l’industria discografica. Ne ricavo parole lucide, la seduta psicanalitica Sitting In My Hotel e più di tutto Celluloid Heroes, la commovente elegia per i Miti che non muoiono mai nonostante il tramonto della fama. Frattanto il rapporto col fratello peggiora, in mezzo ci si mettono il disincanto e la voglia di magniloquenza. Dal triennio ’73-’76 e da un poker di dischi non si cava nulla che banali e autocompiaciute “opere rock” che son operine sbracate e inascoltabili, noia reiterata di un’epoca noiosa. Encefalogramma piatto per la coppia di volumi di Preservation Act, per Soap Opera e Schoolboys In Disgrace, sicché serve un risvegliarsi ai tempi che stanno cambiando in un ‘76 importante per la porta sbattuta in faccia alla RCA (si passa chez Arista) e, annusando un punk alle porte che loro stessi hanno plasmato, vanno di lifting “dando alla gente ciò che vuole”: rock duro e tagliente, pochi orpelli e le grandi arene americane spalancate di fronte. E sia. Dalton se ne va l’anno seguente, poco prima di Sleepwalker (tornerà poco dopo e poi dirà basta del tutto), meritato successone negli States dopo il deserto creativo di metà decade, per quanto oggi sappia di vecchio ad eccezione di una Life On The Road paradossalmente fresca perché antica. Misfits lo replica in mezzo a un nuovo rimpasto di line-up necessario per tener botta negli stadi d’America. Frattanto i giovani omaggiano Ray in modo più (Jam, Knack) e meno (Clash) sfacciato e nell’onestà dei Pretenders l’uomo troverà anche l’amore travagliato di Chrissie Hynde. La musica prova a stare al passo a testa alta e ci riesce Low Budget (1979, undicesimo posto in USA) laddove Give The People What They Want (1981, numero quindici e disco d’oro) naufraga impietoso. Meglio, nell’83, State Of Confusion, trainato dall’ottima Come Dancing, dall’azzeccato video - un cortometraggio - in rotazione sull’ancor verde MTV. Il maggiore dei Davies imbocca qui un tunnel artisticamente triste e si trascina per dieci stagioni e un quartetto di lp di reducismo e spossatezza spiacevoli. Nel mentre il capobanda si cimenta con i musical, il declino è segnato da Word Of Mouth, Think Visual, UK Jive e Phobia. In mezzo, se v’interessa, l’addio di Avory, l’ingresso nella Rock And Roll Hall Of Fame, il passaggio alla Columbia. Poi un ultimo guizzo, l’autoprodotto To The Bone che rilegge il repertorio glorioso in chiave “unplugged”, in quegli studi Konk nel frattempo allestiti dai fratelli e che sono attualmente fatiscenti e all’asta. Sarà merito sempre di omaggi e riscoperte cicliche, se i Kinks tornano sotto i riflettori nell’estate del Brit-pop: Ray Davies finisce in televisione a far da padrino a Blur, Supergrass e Oasis e promuove una autobiografia, XRay, argutamente strutturata e concepita come un romanzo. Messa nel ‘96 la banda nel congelatore, si concentra su una pleonastica carriera solista: nel ‘98 tocca a The Storyteller; più recentemente a un Other People's Lives datato 2006, a Working Man's Café dell’autunno 2007 e a The Kinks Choral Collection nell’estate 2009. Il secondo è addirittura entrato in classifica e Working Man's Café ha dato la stura alla serie di riconoscimenti e premi del caso per questo Grande senza un Time Out Of Mind o un Ragged Glory all’orizzonte. Provateci voi a dargli addosso, comunque, sapendo che nel gennaio 2004 gli hanno sparato a New Orleans durante un tentativo di rapina e che l’ultima mossa è un lavoro di collaborazioni e duetti, un See My Friends che sa di cronaca mediocre. Oggi scopri un uomo anziano paranoico e amareggiato, forse incapace di reggere il peso del tempo che passa e si porta via ogni cosa, inesorabile. Compreso l’amico Quaife e, causa un infarto nel 2004, quasi anche il fratellino, col quale peraltro comunica soltanto via posta telematica. Mi ricordo: un momento, durante il festival di Glastonbury del 2010, in cui dopo aver dedicato buona parte della scaletta a Pete, Ray quasi scoppiava in lacrime durante Days. Mi ricordo: un momento, durante il Live At Kevin Hall del 1968, in cui la folla di adolescenti intona Sunny Afternoon al suo posto. Una morsa mi serra il cuore e infine capisco. Al numero 6 di Denmark Terrace non trovate più scritto “Davies” sul campanello, o almeno suppongo. So però per certo che nessuna targa spiega ai passanti chi sia nato lì quasi settanta anni or sono. Sarebbe ora che ce la sistemassero: possibilmente d’oro zecchino. 89 (GI)Ant Steps #44 classic album rev Miles Davis Roxy Music Bitches Brew (Columbia Records, Aprile 1970) Avalon (Polydor, Maggio 1982) Davis è uno che ha passato la vita ad accelerare il jazz, a segnarne le tappe evolutive in maniera programmatica, scientifica, aprendo nuove vie, fissando intuizioni altrui, promuovendo rivoluzioni. Dopo Davis certe cose non sarebbe più state come prima. La nascita del cool con l’omonimo disco del 1950, la svolta modale codificata dal madreperlaceo Kind Of Blue (1959), l’elettrificazione degli strumenti cominciata timidamente con Miles In The Sky (1968; con le tastiere di Herbie Hancock, il basso di Ron Carter, la chitarra di George Benson), proseguita in Filles De Kilimanjaro (1969) ed esplorata meticolosamente, letteralmente dissezionata anzi, nel misterico In A Silent Way (1969). Che non è solo il disco per antonomasia del periodo elettrico, ma è anche e soprattutto il big bang di due altri importantissimi specimen davisiani: la direzione dell’improvvisazione (ecco spiegato il duplice significato di un sovratitolo come “Directions in music by Miles Davis”) e l’uso dello studio di registrazione come uber-strumento. Le due cose sono strettamente collegate. Ai propri sidemen dell’epoca, Miles più che istruzioni dà indizi: “Un’indicazione di tempo, qualche accordo, un abbozzo di melodia, un suggerimento sul modo o sul tono”. Ogni take è un salto nel buio, una sfida all’intuizione del momento, inseguendo i capricci del maestro. Il produttore Teo Macero poi, novello demiurgo, gioca di post-produzione, sceglie i momenti migliori, gioca di incastri, inserti, sovrapposizioni, smaterializzazioni. Se Davis compone la musica, è Macero che compone il disco. Tutta la tensione sperimentale di questo Davis come sempre affamato di nuovo, ma sorprendentemente lucido e ripulito dalle droghe, i suoi ascolti di James Brown, Sly & The Family Stone e Jimi Hendrix, ma anche di Karlheinz Stockhausen, la sua volontà di fondere assieme tutte le suggestioni che lo ammaliano, di dare nuova linfa alla musica afro-americana (“il jazz non esiste, è una parola inventata dai bianchi per i niggers“) attraverso la creazione laboratoriale di una musica totale, tutto questo confluisce nel grande affresco di Bitches Brew. Bitches Brew è il suo titolo, è quell’immagine lì (opera di Marti Klarwein, lo stesso dell’Abraxas di Santana), è i suoi musicisti (la crema della prima scuola fusion: Wayne Shorter, Joe Zawinul, Chick Corea, John McLaughlin, Lenny White; Billy Cobham e Airto Moreira nella bonus track cd Feio), è il sudore di 90 un tour de force lungo tre giorni nel torrido agosto newyorkese. Davis i musicisti li spremeva, ma la dedica esplicita di un titolo come John McLaughlin ci racconta di un dittatore capace anche di mettere i propri fidi sul piedistallo. Bitches Brew è uno scorcio di quella torrida giungla. E una fotografia dei Sessanta che trapassano nei Settanta. Inevitabilmente: essendo il battesimo di un jazz-rock che è già fusion, e cioè fusione, all’interno delle strutture della jam psiched\elica proprie dell’epoca (Davis vorrà dividere il palco con gente come Grateful Dead e Santana), di jazz, rock, elementi etnico-esotici e provenienti dalla classica contemporanea (alle jam band americane si oppongono in Europa esperienze come quella dei Can). Premesso ciò, per l’orecchio veramente attento, questo disco non può non suonare ancora come modernissimo, e quindi, in quest’epoca post-post, profondamente datato, noioso. Padre, Miles, dopo questa primogenitura, di tanti di quei figli degeneri. La decostruzione maceriana (essa stessa esposta in primo piano, con le brusche pause, gli abbassamenti di dinamica, gli strumenti che spariscono dal mixaggio nell’iniziale Pharaoh’s Dance; con la voce di Davis che dirige udibile nella title track) diluisce i temi e sublima la pulsazione funk, crea atmosfere umide e sospese, intensamente chiaroscurali, per lunghe divagazioni dominate da una selva di intrecci percussivi, con la tromba di Miles più ruvida e aggressiva del solito. Fino alla conclusiva, elegiaca, Sanctuary. Costruito per sfruttare i successi che andava raccogliendo questa nuova musica chiamata rock, il disco ebbe un enorme successo di pubblico (vendette in poco tempo mezzo milione di copie) e anche la critica lo accolse generalmente bene. In Italia qualcuno parlò di un “Davis elettronico” (anche il luminare Arrigo Polillo, che mostrò comunque di apprezzare questo Davis di confine) e il vice-direttore di Rolling Stone, Ralph J. Gleason, accusò Macero di avere addirittura ucciso il jazz con quella sua cosmetica di studio. Tutto falso e tutto vero. Perché siamo sicuri che la rivoluzione elettronica e il taglia e cuci digitale Davis li avrebbe apprezzati e anche molto. Gabriele Marino Qui bisogna tirare in ballo la memoria. Estate 1982. Ancora ubriaco di mondiale spagnolo e adolescenza sul punto di sbocciare, attraversavo quelle calde settimane accompagnato da una dolce ossessione radiofonica. Neanche sapevo chi fossero, i Roxy Music, e di cotanta ignoranza More Than This ne guadagnava parecchio in esotismo. Era come il richiamo di un passato vagheggiato e di un futuro dietro l'angolo, promessa di languori così imminenti da rabbrividire eppure così inimmaginabili. Non potevo saperlo, e ce ne ho messo a farmene un'idea, ma quella canzone e quel disco dettavano - non certo in esclusiva - i contorni di un universo estetico che avrebbe accompagnato gli anni formidabili e scellerati di lì a venire. A pensarci bene, ora che possiamo farlo, i Roxy Music con Avalon non facevano altro che restare fedeli a se stessi, ovvero all'arte del raccolto art-pop. Dieci anni prima, dieci anni che sembravano un secolo, tirarono le fila del "mainstream progressivo" - psych, glam, un pizzico di kraut, premonizioni wave - apparecchiando un desco febbrile e accattivante, quasi un controcanto cool all'ormai vetusto banchetto degli straccioni di Stones e simili. Sembrava spingerli una bramosia di futuro prossimo, un muoversi con quell'attimo di anticipo che ti fa stare sulla mattonella giusta al party dei fighi. Baciati in bocca dall'estro irrefrenabile di un Brian Eno mai più tanto giovane, Bryan Ferry e compagni si disimpegnarono alla grande pure dopo la sua dipartita, cavalcando con stile lubrico le fregole dance e wave, realizzando così un progressivo abboccamento sonico che li portò infine a bazzicare le zone alte delle charts con Flesh And Blood (1980). Nelle retrovie e in profondità accadevano fatti musicalmente più ingenti, certo, ma i Roxy annusarono i tempi e quelli suggerirono d'interessarsi al fremito della superficie. Lo fecero così bene che Avalon rappresentò un cliché irrinunciabile per tutto - tutto - l'addivenente new romantic, a cui si rifece in primis Ferry stesso per il suo Boys And Girls (1985). E' al disimpegno arguto, lieve e struggente del post-punk che guardarono quegli ultimi Roxy Music, così come alle fregole etno riprocessate dai David Byrne (via Eno) e dai Peter Gabriel, piegando il tutto alla strategia di decadenza atmosferica - celluloide d'appendice, mitologie d'accatto, tabacco languido e abiti firmati - e spasmi funk smussati. Elaborarono un suono che evitava il trabocchetto ludico del neo digitale per inventarsi un'artificiosità coerente, eterea ma intensa, virtuale ma pregna d'umori: il sax di MacKay un pastello fluorescente, la chitarra di Manzanera un cartiglio laser, le tastiere come cortine fumogene aromatizzate. E' una soundtrack da interno notte, figure sinuose nel buio, frenesia stilizzata e divanetti discreti, la voluttà ansiosa di fingersi al centro di qualcosa che sta accadendo, se mai accadrà. Musica-avatar per una generazione che ambiva provare l'ebbrezza della reinvenzione di sé. Forse proprio per questa sua marcata periodizzazione, o perché non sono uscito vivo (non del tutto) dagli anni Ottanta, l'ascolto di Avalon oggi non mi scalda. Al netto dei sussulti nostalgici, s'intende. Per lo stesso motivo tuttavia non posso non ritenerlo, a suo modo, epocale. E un canto del cigno perfetto. (7/10) Stefano Solventi 91 www.sentireascoltare.com