Prof. Monti – Filosofia III sportivo – Aristotele – parte seconda
ARISTOTELE
- PARTE SECONDA -
12. L'ETICA: L'INDAGINE SULL'AGIRE BUONO DELL'UOMO
- Intorno all’etica Aristotele scrive due opere: l’Etica Eudemea e l’Etica Nicomachea. La
Eudemea, che ci è giunta incompleta, è con molta probabilità stata composta per prima. La
seconda è più raffinata e complessa e pare pensata per un pubblico più ampio di quello
della scuola. Comunque le due opere riportano di fatto le stesse tesi.
- L’etica verte sui modi di comportamento (éthe), sulle azioni (praxis) e sui tipi di vita
dell’uomo.
- Per Aristotele ogni azione umana è compiuta in vista di un bene. In questo senso
l’agire ha un carattere finalistico. Ora: i fini sono ordinabili e, in particolare, si possono
distinguere in due categorie: i fini perseguiti in vista di qualcos’altro, e quelli
perseguiti di per se stessi. Posso così immaginare una gerarchia di fini intermedi, tutti
funzionali ad uno scopo finale.
Qual è il bene ultimo verso cui tutte le azioni umane tendono? Come si configura?
Innanzitutto Aristotele critica l’Idea platonica di bene: non esiste un’idea universale
di bene, valida per tutti, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno separata dalle
cose. L’universale “bene” è, come avviene per tutte le altre predicazioni, l’aspetto di
bene che vi è in ogni cosa. Ma anche ammesso che l’Idea del bene esista, si tratterebbe
pur sempre di un bene al di là della nostra possibilità di raggiungerlo, quindi un bene vano,
astratto. L’etica per Aristotele, e quindi il concetto di bene, non ha lo scopo di legarsi con
le scienze: non accade, a suo avviso, che solo il sapere scientifico sia condizione per
attribuire alle cose il loro valore, per agire quindi bene. L’etica ha un valore suo,
separato da quello di tutte le altre possibili scienze: essa non è oggetto di un sapere
necessario, ma solo possibile.
- Aristotele dunque cerca il bene “umano”, quello insito nella natura degli uomini, e
non un Bene assoluto! L’uomo spesso indica il bene con il termine di “felicità”: questo
termine di uso comune viene ripreso da Aristotele. La felicità sta nello stesso compiersi
di ciò cui si mira. Essa, nella mentalità greca, non è quello che magari alcuni di noi
direbbero, cioè il "poter fare tutto ciò che si vuole". La felicità è per i greci qualcosa di
oggettivo, è una cosa da cercare e da trovare: questo significa che è possibile che qualcuno
creda di essere felice, senza in realtà esserlo affatto!
Ma in cosa consiste la felicità? Aristotele prende innanzitutto in considerazione alcune
convinzioni, opinioni comuni.
-1- La massa delle persone pare concepire il bene, la felicità, come piacere. Essi amano la
vita che dà il godimento: insomma quella che noi chiameremmo “la bella vita”.
Aristotele non nega l'importanza del piacere, ma crede che la felicità non consista in
questo. Perché? Una vita dedita a soddisfare piaceri materiali ci associa al mondo degli
animali e, quindi, il piacere può essere il fine ultimo dell’uomo! Il bene ultimo
dell’uomo non può coincidere con quello degli altri animali, ma deve essere qualcosa
che realizza in pieno la particolare natura umana!
-2- Una seconda possibilità, più raffinata, è data dall’onore. L'essere onorati, ammirati,
rispettati: L’onore è concetto fondante dell’attività politica. l’onore di cui si gode come
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misura del proprio valore di persona. L'esempio che Aristotele fa è quello di un uomo
politico che, nella sua carriera, ha grande successo e, dunque, è onorato da tutti.
L'uomo politico, dice Aristotele, spera di essere onorato per la sua virtù. Il vero politico,
cioè, non è quello che cerca il successo e la fama, ma quello che combatte per una società
migliore (dimostrando così il suo valore!). Egli cerca non tanto la fama, ma la
considerazione delle persone sagge, quelle che possono effettivamente apprezzare ciò che
lui fa. La virtù non ha qui una connotazione di tipo morale, ma è il "far bene una cosa".
Attenzione: qui il problema non è tanto l'onore in sé, ma il motivo per cui lo si cerca, cioè
il dare senso e giustificazione alla propria esistenza. Dietro c’è il problema della morte:
la mia vita termina, avrà una fine, per questo devo darle un senso! Solo così "supero" la
paura della morte.
Anche questo, però, a parere di Aristotele non può essere la vera felicità dell'uomo.
Perché? Il motivo è che l'essere onorati, spesso, dipende più dagli altri che da se stessi! Il
fare una carriera di successo e, quindi, l'essere onorati dipende dalle capacità di ciascuno
solo in parte. Se una persona è, di per se stessa, virtuosa, ma, a causa di circostanze da lei
indipendenti, per esempio una malattia, non può agire e vivere secondo la sua virtù...
Questa non è vita davvero felice! Insomma: non basta essere virtuosi, come avrebbe detto
Socrate, ma occorre anche poter agire in modo virtuoso e questo dipende da noi solo in
parte.
Aristotele invece, come tutti i filosofi antichi, è convinto del fatto che la felicità possa e
debba dipendere interamente da me. L'idea è che tutti, in qualunque situazione si trovino,
possano realizzare la propria felicità.
-3- Una terza possibilità, ritenuta da molti come vera, consiste nella ricchezza, il possesso
di molti beni. Neppure in questo consiste la vera felicità per l'uomo, dice Aristotele. Anzi,
spesso la ricchezza conduce a una vita da schiavi, una vita infelice: ciò accade perché la
persona che insegue la ricchezza non è mai paga e soddisfatta di ciò che raggiunge, ma
vuole sempre di più! Questa inquietudine, in effetti, impedisce di vivere felicemente.
Proviamo, ora, a prendere in considerazione la risposta di Aristotele. Le risposte precedenti
sono molto diffuse e comuni e, seppure hanno un certo valore, in tutte c'è un qualche
aspetto che mal si concilia con la felicità.
Innanzitutto: la felicità, per come Aristotele la intende, va valutata nel corso di un’intera
vita: essa, cioè, non è semplicemente un momento di gioia, di soddisfazione, ma è la
piena realizzazione di una vita intera.
Bisogna qui introdurre la distinzione fra uomo e uomo buono. Infatti se tutti gli uomini
condividono la stessa natura, e quindi lo stesso orientamento verso il bene, non tutti sono
uomini buoni perché non tutti portano a termine ciò cui l’uomo mira naturalmente.
Oggetto dell’etica è proprio la distanza che separa l’uomo dall’uomo buono. Percorrere
questa distanza, al di là delle varie e possibili condizioni, dipende da noi. Tale scienza è
assai duttile a motivo della vastità del campo dell’agire, e le asserzioni di ordine morale
sono solo per lo più vere: esse sono sempre prive di necessità.
- Nozione centrale dell’etica è la già accennata nozione di virtù. La virtù è una
disposizione verso ciò che è proprio fare da parte di un uomo buono. È la condizione
prima del nostro diventare uomini buoni e, quindi, felici. Vi sono due tipi di virtù: le virtù
etiche e le virtù dianoetiche.
Le virtù etiche sono presenti immediatamente nei comportamenti, senza una particolare
necessità della ragione, e costituiscono il carattere morale dell’individuo. Esse riguardano
l’agire pratico dell’uomo. La vita ci fa trovare in situazioni diverse, dove proviamo
diverse affezioni, sentimenti. Il modo in cui reagiamo a tali situazioni riguarda appunto
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le virtù etiche, che sono moltissime essendo moltissime le situazioni in cui ci possiamo
trovare. Per esempio, le virtù del coraggio e della temperanza si riferiranno a situazioni
diverse.
Ora, accade che in ogni virtù etica si possano individuare due estremi. In relazione alla
virtù del coraggio, per esempio, parliamo di due condizioni estreme: la temerarietà intesa
come un coraggio smodato, irragionevole, e anche della pusillanimità come totale
mancanza di coraggio. La vera virtù etica sta nel giusto mezzo.
La virtù etica non è una disposizione innata, ma si può apprendere, acquisire. In che
modo? Si acquisisce compiendo atti virtuosi. La cosa può parere insensata: come si può,
infatti, agire coraggiosamente se già prima non si possiede il coraggio? Per Aristotele però,
bisogna ricordarlo, la costituzione naturale dell’uomo comprende anche la tensione verso
le capacità più elevate. Si diventa quindi virtuosi, un po’ come esercitandosi si impara a
suonare bene il pianoforte. L’educazione ha dunque un grande peso nello sviluppo
pieno delle virtù etiche.
Se è vero che le virtù etiche non richiedono intelligenza e ragione – nel senso, potremmo
dire, che esse non sono questione di intelligenza – è anche vero che il giusto mezzo non è
sempre lo stesso, esso dipende infatti dalle circostanze specifiche. Per determinarlo
occorre, di volta in volta, una sorta di calcolo. Se è così è necessario che le virtù etiche,
per risultare davvero buone, siano sorrette e guidate dalle virtù dell’intelligenza,
quelle dianoetiche.
La principale virtù dianoetica è la saggezza, che consiste nella disposizione a compiere, e a
compiere bene, il calcolo di cui sopra. Una virtù etica come il coraggio, senza la
saggezza, non sarebbe in grado di stabilire, e quindi di produrre, il comportamento
coraggioso in una data occasione.
La saggezza non è un’abilità: cioè non è quella cosa che ci fa raggiungere uno scopo
indipendentemente dalla sua bontà. Essa invece ci fa riconoscere quale sia il
comportamento migliore.
Aristotele critica il principio socratico secondo cui nessuno compie il male
volontariamente. La libertà dell’etica, se così fosse, ne sarebbe distrutta. Aristotele
analizza cosa sia la volontà, e conclude che essa è una sorta di desiderio o di inclinazione,
comune anche ai bambini e agli animali, soggetti non morali, che può aspirare anche a beni
non conseguibili. La volontà può essere educata, e lo si fa con l’esercizio delle virtù etiche
e della saggezza. Chi compie il male lo fa, spesso, sapendo di farlo, dunque per sua
libera scelta. Questo cattivo orientamento della volontà dipende da una mancata o
scorretta educazione morale.
- Ma andiamo oltre: accanto dell’agire pratico dell’uomo c’è un altro tipo di attività,
l’attività teoretica, o contemplativa. Tale attività è considerata da Aristotele la più
propria dell’uomo: essa costituisce, con il suo compiersi, il più alto fine e bene, e dà la più
alta felicità. Ciò che rende l'uomo differente dagli altri animali è proprio questo, il
possesso della ragione, della razionalità (che, attenzione, non è l'intelligenza!) ed è
dunque l'attività razionale quella che davvero costituisce il fine ultimo e la felicità
dell'uomo!
Riguardo alla contemplazione la virtù della saggezza non ha più un ruolo, in quanto nella
contemplazione pura non si danno circostanze differenti, né essa ha un fine che le sia
gerarchicamente sovraordinato. Alla contemplazione è associata, piuttosto, la virtù
dianoetica della sapienza. Il sapiente è l’uomo propriamente buono ed eccellente: la
sapienza è disposizione a contemplare, ed in qualche modo è inferiore alla saggezza
perché non governa nulla, dato che la contemplazione non comporta scelte.
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La sapienza, da sola, non può far pervenire a sé gli esseri umani, né mantenersi in loro. Ha
quindi bisogno della saggezza, della migliore saggezza: quella che governa mirando alla
sapienza stessa, senza limitarsi a produrre una moderazione di azioni e comportamenti.
Nella pagine finali dell’Etica Nicomachea Aristotele descrive la vita contemplativa.
Essa è la vita più felice, in quanto esprime la più propria ed alta fra le attività dell’uomo. Si
tratta dunque della vita associata al più alto piacere. Essa rende simile a Dio, la cui
esistenza è peraltro puro pensiero di sé. La vita contemplativa è autosufficiente, nel senso
che il filosofo basta a se stesso, quindi è tendenzialmente un isolato (anche se è meglio per
lui avere dei compagni). La vita contemplativa è, però, adatta a pochi. Aristotele ritiene
che i più si debbano votare ad una vita buona nel senso della moderazione nelle varie
situazioni della vita.
13. LA POETICA
- Nella sua Poetica Aristotele tratta della poesia, e in particolare della tragedia greca.
La parola poietiké, da lui utilizzata, in effetti designa tutte le arti produttive (produzione =
poiesis): sia le arti che noi chiameremmo di “utilità pratica” (come, per esempio, la
falegnameria) sia le nostre “belle arti” (come la pittura).
In quest’opera Aristotele pensa soprattutto alla poesia come ad un’arte imitativa
(mimesis), arte che imita tramite la voce (così come la pittura imita tramite colore e forma).
- Per Aristotele la poesia si distingue dalla prosa proprio perché essa è imitazione.
Anche per Platone l’arte è imitazione, ma se per lui l’arte è solo “copia di una copia” e,
conseguentemente, la svaluta (perché doppiamente “lontana” dalla verità delle Idee),
Aristotele riteneva che la poesia imitasse delle realtà sostanziali. Inoltre, per Aristotele la
poesia non imita tanto delle cose, come per Platone, quanto “i caratteri, le emozioni e le
azioni” dell’uomo.
- I caratteri umani imitati possono essere al di sopra (tragedia) al di sotto (commedia)
o alla pari con la comune natura umana. La tragedia, in particolare, rappresenta sì
caratteri nobili, ma non tali da suscitare antipatia: essa, cioè, mette in scena personaggi
con i quali lo spettatore possa identificarsi.
- La tragedia è “l’imitazione di un’azione nobile e compiuta, dotata di una certa
estensione, con parola ornata. Tale imitazione è realizzata dai personaggi del dramma e
non fa uso della narrazione. Suscitando dolore e raccapriccio, essa attua la purificazione
di questo genere di emozioni”.
L’azione drammatica deve essere “compiuta”: ciò significa che deve essere comprensibile
nel suo inizio, nel suo svolgimento logico e nella sua fine. L’azione, poi, non deve essere
né troppo breve (perché occorre del tempo per destare l’interesse di uno spettatore) né
troppo lunga (così da creare noia o fatica). Il racconto, poi, deve rappresentare un’unica
azione, cioè un tutto completo dove ogni parte sia necessaria, dove nulla si possa eliminare
senza distruggere o comunque danneggiare l’intera opera d’arte: è questa la regola
dell’“unità d’azione”, l’unica che Aristotele prescriveva (e non anche, come spesso si
dice, “l’unità di tempo” e “l’unità di luogo”).
- Nella tragedia si imitano azioni, caratteri, pensieri. Essa non è semplice invenzione,
ma trae spunto dall’esperienza, cioè dagli effettivi comportamenti umani osservati. Pure
non si tratta di una mera riproduzione fedele, come accade per il resoconto storico.
Se, infatti, un saggio di storia ci racconta eventi particolari, dunque contingenti, il
poeta tragico mira all’universale, al necessario.
Il poeta non deve narrare quanto è di fatto avvenuto, ma quanto potrebbe avvenire in
conformità alla natura umana.
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- Scopo della tragedia è la catarsi, ovvero la “liberazione dalle passioni”.
La tragedia, secondo Aristotele, mostrandoci le passioni umane, soprattutto le più
irrazionali, facendocele in qualche modo vivere attraverso l'identificazione con la vicenda e
i personaggi, le rimuove temporaneamente dall’animo dello spettatore. Lo spettatore si
libera, in questo modo, delle passioni più nocive.
- La tragedia ha anche un importante ruolo conoscitivo: essa, collocando il fatto
particolare sullo sfondo dell’universale natura umana, permette di passare dal
coinvolgimento personale alla conoscenza distaccata. Tale valore conoscitivo è, a parere
di Aristotele, addirittura superiore a quello della storia. Quest’ultima, infatti, analizza
personaggi ed avvenimenti soprattutto nella loro accidentalità, mentre l’arte tratteggia
delle situazioni secondo verosimiglianza e necessità, risultando così maggiormente
esplicativa.
- Platone riteneva che l’arte allentasse la razionalità umana, rendendo l’uomo preda delle
emozioni e incapace di pensare in modo corretto: Aristotele, al contrario, ritiene che l’arte
possa imporre una disciplina razionale al mondo delle passioni. La tragedia ci mostra i
nobili caratteri degli eroi travolti dal Fato, ci mostra dunque la condizione umana
nella sua strutturale ambivalenza fra grandezza e fragilità.
14. LA RETORICA
- Nella Retorica, Aristotele rileva come questa attività sia di natura assai simile a quella
della dialettica. Entrambe, infatti, partono dalla valutazione di discorsi o opinioni comuni e
non da principi. Hanno, inoltre, ambedue carattere interdisciplinare: non essendo scienze
non devono rispettare la divisione categoriale. Peculiarità della retorica è la sua
determinazione alla persuasione. Essa si usa dunque soprattutto per quegli argomenti e
quelle situazioni che richiedono consenso e adesione da parte degli uditori.
La retorica si deve occupare di studiare tre elementi: il retore, il pubblico ed il
discorso che dal primo giunge al secondo. Il retore, genericamente, deve essere credibile.
Il pubblico ha un carattere proprio: punti di particolare sensibilità, sentimenti ed emozioni,
suscettibilità... Ci sono dunque diversi tipi di pubblico, che Aristotele analizza. Anche il
discorso ha caratteristiche sue proprie, ma sempre Aristotele lo intende come razionale e
logicamente condotto. Esso, in particolare, si deve avvalere di due strumenti: l’esempio
(atto induttivo che da una situazione particolare porta ad una determinazione generale) e il
cosiddetto entimema, una sorta di sillogismo incompleto, dove parte delle premesse non
vengono menzionate. Sia detto che la retorica non è una scienza, ma un’abilità. Essa, di
fatto, non porta alla conoscenza.
15. LA POLITICA
Nella Politica Aristotele parte dalla celebre constatazione che "l’uomo è per natura un
animale politico". Aristotele ripete spesso questa affermazione, la quale si trova anche
nell’Historia Animalium, dove il nostro parla dell’attitudine a socializzare propria di molti
animali e non soltanto degli esseri umani. Ancora una volta, l’approccio di Aristotele è
naturalistico: la vita associata è necessaria al pieno espletamento delle funzioni
proprie dell’uomo, dunque al conseguimento della felicità e del bene. Questa
concezione è assai differente da quella che oggi si ha della politica, ovvero di qualcosa che
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si innesta su un precedente disordine. Per Aristotele la politica altro non è che
un’ulteriore articolazione di un ordine che già regna nella natura.
- In accordo con l’approccio naturalistico, Aristotele parte dall’analisi della famiglia,
vista come il nucleo base della vita associata. Essa è vista anche come minima comunità
economicamente indipendente e viene quindi analizzata anche in rapporto alle attività di
sussistenza. La famiglia si basa su naturali rapporti di subordinazione, in particolare il
rapporto padre-figlio (il figlio è "naturalmente" sottomesso, perché ancora non è uomo
“adulto”), il rapporto marito-moglie (la subordinazione della donna è "naturale" nel senso
che, ad avviso di Aristotele, le donne dimostrano una inferiore attitudine al comando) ed
ultimo il rapporto padrone-schiavo (anche qui Aristotele parla di "naturalità", seppure
risulta ben difficile spiegare in che senso la condizione di schiavo possa essere naturale. Di
fatto Aristotele avalla questa situazione visto che la necessità degli schiavi era assoluta
nella società greca).
La figura cardine, in tutti e tre i rapporti, è quella del capo famiglia.
- Proprio mentre Aristotele è in vita, stanno avendo grande sviluppo i ceti mercantili, che
tendono ad ammassare grandi quantità di denaro. Partendo sempre dalla famiglia,
Aristotele dice che lo scambio è l’arte tramite la quale ci si procurano gli strumenti
necessari. La cosiddetta arte della crematistica si occupa di tali questioni. Ora, la
crematistica è attuabile anche utilizzando il denaro: è naturale la crematistica che usa il
denaro come mezzo di scambio, mentre è innaturale quella che vede nel denaro un fine.
In effetti i mercanti, di fatto, mettono in crisi l’organizzazione sociale ed economica della
tradizione, basata sull’agricoltura e quindi sui proprietari terrieri. La condanna dei
mercanti rimarrà classica per tutta l’antichità, e sarà questa un’attività vista sempre
come indegna di un cittadino.
- L’unione di più famiglie, che avviene per questioni di pratica utilità, dà origine al
villaggio mentre l’unione di più villaggi dà origine alla cosiddetta comunità politica.
Questo ultimo e più vasto aggregato non trova giustificazione in motivi pratici, ma tali
comunità nascono per permettere a tutti i membri di avere una vita buona in relazione alle
caratteristiche proprie degli uomini. In questo senso è necessario che la comunità politica
abbia una costituzione, la quale possa regolare i rapporti di forza e di comando fra i vari
cittadini. Solo nell’ambito di una precisa costituzione i singoli cittadini possono agire in
vista di un bene comune. A questo proposito Aristotele parla di una virtù politica, che
consiste nel comandare bene, ma anche nell’obbedire bene.
- La più parte della Politica si occupa di analizzare le possibili forme di costituzione e
Aristotele le divide a seconda di quanto è grande la fetta della popolazione che detiene il
potere. Si hanno così la monarchia, l’aristocrazia e la “politéia”, o governo del popolo.
A seconda che i governanti agiscano per fini personali o per il bene di tutti, sono possibili
tre tipi di degenerazione: la tirannide, l’oligarchia e la democrazia.
Aristotele sa che questa sua classificazione non rispecchia in modo fedele la realtà
esistente e sia lui che la sua scuola si occupano di analizzare a fondo costituzioni realmente
esistenti (lavori praticamente tutti andati perduti). Ora, Aristotele rileva come le
costituzioni più diffuse storicamente siano la democrazia e l’oligarchia. Dal punto di vista
economico, queste costituzioni sono caratterizzate dalla presenza di molti poveri e di pochi
ricchi. Aristotele indica come costituzione ideale, perché si trova in mezzo alle due citate,
la politéia. La situazione ideale per Aristotele è quella di una città composta da proprietari
terrieri moderatamente abbienti, dove tutti i maggiorenni partecipano all’assemblea e tutti
hanno la possibilità di ricoprire tutte le cariche, seppure saranno tendenzialmente i più
ricchi, e quindi i più liberi, ad occupare le cariche di maggior rilievo. Inoltre dovrebbe
essere assente la plebe urbana, che nel corso del secolo precedente la vita di Aristotele, con
la sua partecipazione alla vita pubblica, aveva generato gravi turbolenze. Qual è dunque
la comunità migliore? È quella che ha la politéia come costituzione e che occupa un
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territorio ed una popolazione non troppo vasti. Infatti la partecipazione diretta alla vita
politica ha questo preciso requisito.
16. IL LICEO DOPO LA MORTE DI ARISTOTELE
- Alla sua morte Aristotele lascia il Liceo impegnato nella più varie ricerche all’interno dei
campi della sua enciclopedia del sapere. Queste ricerche non erano state solo organizzate
da Aristotele, ma avevano trovato un momento di unificazione e di legittimazione teorica.
Con la morte del maestro, si ha che tutti quegli elementi della sua filosofia non
direttamente connessi con un qualche campo di ricerca vengono lasciati cadere.
Diciamo che l’indagine naturalistica ed erudita tende a prevalere sulla ricerca
filosofica.
Teofrasto, principale allievo di Aristotele, fu scolarca dal 322 al 287 ac e proseguì gli
studi relativi alla filosofia prima. Compone un’opera cui la tradizione dà il nome di
Metafisica nella quale mette in forte dubbio la teoria dei motori immobili. Egli tende
invece ad assegnare la funzione divina alla natura stessa, così come era stata delineata da
Aristotele. Egli compone anche Le opinioni dei fisici, opera che raccoglie le opinioni dei
principali presocratici. Caratteri è invece un’opera che rientra nel settore dell’etica.
L’impostazione scientifica si accentua con il successore di Teofrasto, ovvero Stratone.
Egli abbandona esplicitamente ogni elemento teologico-metafisico e considera la
natura interamente spiegabile dall’interazione degli elementi. Tutte le sue opere, però,
sono andate perdute.
Stratone però è assai significativo sotto un altro profilo: alla fine del IV secolo egli si recò
con Demetrio Falareo, altro scolaro di Aristotele, ad Alessandria, presso il re Tolomeo. Lì
i due fondarono una grande istituzione scientifica, il Museo. Da quel momento la ricerca
scientifica comincia ad abbandonare Atene, trasferendosi prima ad Alessandria e poi in
altre città.
Nel III secolo ac il Liceo si svuotò del tutto anche della sua componente scientifica, né
ci fu una continuazione degli studi metafisici. Il Liceo finì con l’occuparsi di
grammatica e retorica, divenendo la meno significativa delle scuole filosofiche
dell’Ellenismo.
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