La città e l`utopia dei filosofi - Digilander

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La città e l’utopia dei filosofi
Sembra pressoché ovvio, nell’epoca della globalizzazione, sostenere che i filosofi e la città si
trovino congiunti in base ad una sorta di “patto originario” che costituisce, al contempo, un vincolo
totale, profondo e irrinunciabile. 1 Tuttavia, non c’è percorso filosofico che non si dipani nel banale,
se non altro per il gusto di rivelarlo come apparenza. Se, dunque, il pensiero trova la sua sfida nella
mancanza di ulteriorità dell’ovvio - nulla è così muto, adamantino come il banale: in esso è già detto tutto quel che deve essere detto - allora bisogna che l’indagine si immerga nell’evidenza
dell’esplicito per metterne in rilievo i chiaroscuri e, in tal modo, forse, restituirlo alla parola e al
senso. Quindi, merita rilevare, innanzi tutto, come il “contratto” fra filosofi e città si definisca primariamente nel vincolo e, pertanto, abbia un carattere coattivo: non può, ad esempio, essere rescisso
in conformità a un progetto deliberato poiché nessuna delle due parti costituisce un “soggetto”2, e,
in secondo luogo, perché il patto non è l’esito contingente di una iniziativa libera. Altrimenti detto,
filosofi e città sono sempre già catturati nel “contratto”: è, perciò, inibita una considerazione dei termini al di fuori della loro relazione mentre si rivela impossibile individuare rapporti di priorità e di
derivazione.3 Il patto non rinvia a termini assoluti in base ai quali esso sarebbe poi interpretabile
secondo principi e regole stabiliti arbitrariamente, ma si stringe nello spazio della reciproca implicazione delle parti. Non c’è un orizzonte di senso già dato, piuttosto, esso si delinea nella relazione
o, se si preferisce, si manifesta nel “contratto” come vincolo.4 Allora, l’annodatura serrata che sostiene l’ovvietà del rapporto mostra la sua trama, può essere allentata e il “contratto” può essere volto da dato in segno e svolto nel passaggio dal fondamento alla storia: al rigore ontologico del vincolo corrisponde la mobilitazione di ciò che in esso si rapporta e, di conseguenza, della investigazione.
Ma qual è la natura della “stabilità” del vincolo? In qual senso acquistano mobilità i termini
della “relazione contrattuale”? Come può la fissità del “patto” istituire e rendere intelligibile il
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Ciò, ovviamente, non significa sostenere che se c’è la città allora bisogna che ci siano i filosofi quasi che l’esistenza
della prima sia di per sé garanzia dello statuto dei secondi; si intende piuttosto dire che se ci sono i filosofi allora essi
non sono immaginabili se non nell’orizzonte globale della metropoli che condiziona la possibilità della sussistenza di
una comunità dei filosofi.
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Cioè, in riferimento per contrasto alla definizione giuridica, nessuna delle parti costituisce polo autonomo di scelte,
decisioni e azioni.
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Per quanto sembri operare sul piano dell’astrazione, questo approccio, in quanto rileva la “pressione” esercitata dalla
città sui filosofi intende configurarsi immediatamente come contestazione dell’esistenza di uno spazio autonomo garantito al lavoro filosofico e, dunque, del ruolo critico nel quale i filosofi si identificano e che, di norma, viene ad essi riconosciuto. E ciò, a prescindere dall’incidenza ancora oggi rilevabile, della cultura illuministica: ci si riferisce, infatti e più
radicalmente, alla possibilità della interrogazione filosofica. D’altro canto, la città non è concepibile senza quelle forme
della razionalità che, direttamente o indirettamente, si originano dalla filosofia: la città, sotto questo aspetto, è necessariamente abitata da filosofi.
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La priorità della relazione sui termini implica, fra l’altro, la storicità del rapporto fra filosofi e città
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cammino che il confronto fra i filosofi e la città ha tracciato? E all’inverso, come può l’inquietudine
della relazione trovar riposo, comprendersi nella quiete del vincolo?
Tentare di sciogliere questi interrogativi in una risposta oppure stabilire termini, orientamento
e modalità del “contratto” equivarrebbe a collocarsi fuori di esso e potrebbe significare praticare,
ancora una volta, una forma tecnica della razionalità e, precisamente, il metodo della soluzione di
problemi.5 Ma il rapporto tra filosofi e città, sotto questo aspetto, non costituisce un problema; piuttosto è ciò nel cui ambito diviene possibile ogni discorso filosofico, compreso quello che tende alla
sua dissoluzione. Occorre, dunque, ritornare all’ovvietà del “contratto”, ricollocarsi in esso e tentare
di ricostruire le strutture del vincolo che condiziona la parola e l’attività dei filosofi. Il ritorno, però,
è possibile solo verso ciò che ha già sempre prevenuto l’allontanamento e ancora ci attende: esso
ripiega verso il vincolo come passato nel quale è anticipato ogni percorso - gli sviluppi come le deviazioni - che l’interdipendenza fra filosofi e città abbia potuto segnare; dal momento che il passato
si definisce come preannuncio, è vero che i camminamenti divengono comprensibili in riferimento
al loro inizio ma vale anche che il passato non è intelligibile se non alla luce di quanto a partire da
esso si è prodotto. Altrimenti detto, il “contratto”, in quanto passato, non è esteriore alle sue “conseguenze”. E, d’altro canto, diviene ineludibile la considerazione storica, il rinvio a quanto, una volta, si è prodotto e ha condizionato l’intero sviluppo della civiltà occidentale. Il “contratto”, dunque,
manifesta il suo carattere epocale, cioè, insieme storico e costitutivo dei fondamenti della nostra
cultura: vale a dire che in esso vengono in questione non solo ruolo e funzioni dei filosofi ma
l’essere stesso della filosofia.6
Assume vitale importanza allora la comprensione della “prossimità” storico-epocale fra filosofi e città. In prima approssimazione, si può sostenere che i due termini condividono la medesima
utopia. Nei termini dell’effettività storica, ciò significa che il momento aurorale della filosofia coincide con l’abbandono delle forme di vita associata “quasi naturali”, scarsamente differenziate e
poggianti su un background religioso: il filosofo nasce nel momento in cui vengono abbandonate le
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Non che sia, di per sé, sconveniente affidarsi ad una forma tecnica di razionalità, ma trattare del “contratto” come di
un atto regolato da principi e norme convenute, riconducibili alla responsabilità dei contraenti significa adottare una
modalità di approccio alla questione che ne orienta e anticipa la soluzione e che, comunque, trascura uno degli aspetti
più coinvolgenti del “patto” fra filosofi e città e cioè, il timore o la speranza che il filosofo possa non essere un tecnico.
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Si è creduto di individuare una delle conseguenze della barbarie nazi-fascista e, forse, tra le non più importanti, nel
divorzio fra filosofi e città. Lo si è fatto quando ci si è domandati se dopo Auschwitz fosse ancora possibile la filosofia
sottovalutando la circostanza che nello squallore dei lager e nei volti di chi fu offeso si poteva avvertire la verità, la bellezza e la bontà di quanto era andato perduto; ma se gli elementi che hanno reso possibile il nazismo (quella che
Zygmunt Bauman, nel suo studio su Modernità e Olocausto, ha definito “cultura del giardinaggio”, la crescita della burocrazia, l’abbassamento delle soglie etiche connesso al tecnicismo burocratico) sono tutti connessi alla “città” e sono
oggi operanti e maggiormente pervasivi, la domanda sulla possibilità della filosofia riguarda soprattutto la contemporaneità, finanche nelle vicende microscopiche del quotidiano e coinvolge necessariamente il senso del “contratto” fra filosofi e città. E ciò, senza nemmeno la dignità di ciò che, ad Auschwitz, morendo, indicava la definitività della propria
possibilità.
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forme tradizionali di riproduzione socio-culturale.7 Questo evento, mostrato nel suo versante positivo, comporta la moltiplicazione delle funzioni costituenti la vita materiale e spirituale e la loro tendenziale organizzazione sistemica.8 Gli accadimenti storici, tuttavia, stabiliscono un’associazione
che è più di una coincidenza o di un legame esteriore. La circostanza del superamento di condizioni
tradizionali di esistenza e di cultura si traduce nella costituzione della figura (o anche gesto, modello) del distacco come atto preliminare alla formazione e articolazione del sapere: 9 si prende congedo dal semplice esserci delle cose, si sospende l’efficacia delle condizioni che fondano la loro esistenza e il nostro rapporto ad esse, viene reso nullo l’intero orizzonte di senso dato al fine di fondarne i connotati. Credo sia questo l’atto “politico” fondamentale della filosofia.
La stretta connessione, anche etimologica, fra città e politica, l’intreccio, testimoniato fin dalle origini fra filosofia e politica così come l’identificazione, ancora oggi comune, fra filosofia e interrogazione prendono origine nello scioglimento dai vincoli imposti dall’immediata presenza
dell’esserci. Il gesto della negazione dissolve l’apparente immediatezza delle condizioni del vivere
in comune e le propone come oggetto del lavoro e, dunque, dà luogo alla pro-duzione della politica
sulla base del distacco dalla socialità indifferenziata - ove funzioni sociali, determinazioni politiche,
complessi culturali, fondamenti mitico-religiosi si confondono - e come costituzione di un sapere e
di un’attività articolati ed autonomi. Nel medesimo luogo si esibisce la convergenza fra filosofia e
politica: essa è identificabile, infatti, nella negazione dell’immediato e nella conseguente costituzione del sapere. Anzi, i filosofi costruiranno la propria utopia e la propria identità nel radicalizzare
quegli elementi, identificandoli come il fondamento della propria attività: la filosofia si fonda sul
distacco, cioè sulla possibilità di negare, accomiatandosi da essa, ogni cosa semplicemente data ma,
in virtù della dissoluzione dell’immediatezza, essa, proprio quando nega è preludio all’affermazione
assoluta, si prepara ad appropriarsi di ogni cosa tramite il concetto. Essa alimenta la propria fame
fino a fare della totalità l’unico cibo in grado di estinguerla.10 Perciò si pone come il sapere (o la ricerca della sua totalità) e, dunque ha signoria su ogni altro sapere, politica compresa. E alla propria
attività, i filosofi assegneranno una qualità assiologica eminente: l’utopia fungerà da criterio e nor-
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Va notato che, per il punto di vista che qui si assume, è vero anche l’inverso.
La città, a differenza del villaggio, è fondata sulla pluralità e l’articolazione delle funzioni che sono interpretabili come
la manifestazione di una struttura di negazione: il passaggio dalla pòlis alla metropoli, l’idea stessa di questo sviluppo,
sono collocabili nel medium dell’autotrascendimento che sfocia, oggi, in organizzazioni sistemiche complesse e
nell’incertezza come dato fondamentale del pensiero e dell’agire umani.
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L’evento in cui filosofia e città si co-appartengono si costituisce come una sorta di struttura trascendentale e si impone
alla mera evenienza storica nella forma della ripetizione. In altre parole, il sapere filosofico, in quanto essenzialmente
“cittadino”, è connesso necessariamente alla crisi (e alle crisi storico-epocali effettive) le cui forme determinate sono,
appunto, il distacco, l’interrogazione e il sapere.
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Questo potrebbe essere il senso del discorso di Socrate nel Simposio platonico: l’ambiguità fondamentale del desiderio di sapere consiste nel fatto che la mancanza (pènia) è l’indice stesso di ciò che si vuole acquistare (pòros). Il filosofo, negandosi l’appropriazione immediata, mira alla ricchezza più grande: scarta le piccole pepite senza valore perché
vuole l’oro finissimo dell’Idea, del Vero.
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ma dei tòpoi in cui abitano gli altri uomini.11 E’ interessante notare, a questo proposito, che quanto
la tradizione filosofica medievale identificherà come “trascendentali” - l’Uno, il Vero, il Bene -,
presumendo di riferirsi ai caratteri generalissimi dell’essere, coincide, in realtà, con i fondamenti di
autocostituzione della comunità “aristocratica” dei filosofi.
Il fondo utopico del distacco e della volontà di sapere sono esemplicati nell’identificazione
della filosofia con l’interrogazione. La centralità del domandare nella definizione dell’attività filosofica - ciò che ne fa un evento costitutivamente politico12- l’enfasi che ancora oggi si pone sulla
sua negatività e che ha il sapore di una compensazione immaginaria di un disagio reale –il filosofo è
un disadattato che prova, non riuscendovi, a vendicarsi del mondo annullandolo con ripetute domande- trovano la loro ragion d’essere nella originarietà del distacco, del gesto mediante cui viene
dissolta l’immediatezza e si mira a liberarsi dalla “pressione” dell’esistente. In ogni caso, il carattere
di radicalità che si riconosce alla domanda filosofica nasce dalla passione dell’annientamento. Bisogna tuttavia notare che si tratta di devozione effimera o, almeno, parziale, poiché la nullificazione
è, nel medesimo tempo, esaltazione del “lavoro” concettuale mentre il filosofo interroga solo in vista dell’acquisizione del sapere: alla passione del negativo corrisponde il desiderio dell’assoluto o,
se si vuole, il delirio di onnipotenza, - la pretesa illusoria al risarcimento della “povertà” reale di coloro che, privati del proprio spazio dalla crescente articolazione dei saperi, sono ormai a rischio di
disoccupazione. Insomma, l’itinerario utopico che ha condotto la città a “trascendersi” da polis in
metropoli convoglia i filosofi verso l’aporia di alternative impercorribili: o la fissazione nel negativo che, generalmente, si cautela dalla possibilità dell’autoriferimento (si vuole annientare tutto ma
si evita di tacere) e diviene, dunque, fatuità, posa, moda; oppure la volontà di affermazione, di sapere che, per un verso, si assimila al capriccio di possedere l’ultima parola (si vuole dire come dovrebbe andare il mondo dopo averlo cancellato) e, per un altro, all’abbandono tecnicistico alla positività (si vuole dire come va il mondo riconducendolo alla modalità della propria attività; si vuole,
per così dire, “aggiustarlo”). Insomma, i filosofi si trovano esposti al duplice rischio di diventare
caricature di se stessi o di qualcun altro (tecnici, opinionisti, preti, moralisti ecc.)
Ovviamente, queste alternative e l’azzardo ad esse connesso sono, in certa misura, inevitabili
in quanto corrispondono al “vincolo contrattuale” che lega i filosofi alla città o, visto che oggi ci si
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L’uso dello stile poetico, forse già in Anassimandro, è un’etichetta di distinzione che il filosofo applica a se stesso.
Del resto i frammenti di Eraclito sono espliciti al riguardo: “Uno è per me diecimila se è il migliore” (fr. 49), “La maggior parte degli uomini non intendono tali cose, quanti in esse si imbattono, e neppure apprendendole le conoscono, pur
se ad essi sembra” (fr. 17), “un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto” (fr. 41). Le medesime osservazioni valgono anche per quei filosofi che le moderne interpretazioni riconducono
alla tradizione “democratica”, alla agorà: i sofisti, ad esempio, pensavano che il loro sapere fosse di tal valore al punto
di ritenerlo superiore a quello degli altri uomini e, perciò, meritevole di essere pagato da chi ne manca.
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Con questo termine non si intende solo far riferimento al sapere e all’attività che esso normalmente designa ma anche
a quanto presupposto dalla sua etimologia che rinvia alla polis, alla città. A causa di questo intreccio di significati, è
parso riduttivo usare termini apparentemente equivalenti come “urbano”, “cittadino”. Il termine “politico” sarà usato in
questo senso anche successivamente.
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confronta con la realtà globale della metropoli, sarebbe forse meglio dire che ve li subordina. Non è
tuttavia possibile sostenere la definitività di quel legame e di quella dipendenza e che, dunque, la
città rappresenti il “destino” dei filosofi: guadagneremmo soltanto un altro assoluto; ci si potrebbe,
infatti, chiedere se c’è qualche prova storica o di altro tipo che non sia possibile, ad esempio, una
filosofia agreste o montana. Né è possibile valutare se oggi sia divenuto possibile e augurabile per
essi “rescindere” quel “contratto”: si avrebbe, con ogni probabilità, una negazione che piuttosto che
superare la “politicità” del filosofo ne sarebbe la conferma, si darebbe luogo, cioè, ad una sorta di
“ambientalismo” filosofico, peraltro immaginabile solo come fenomeno cittadino. Questa sospensione fra la “quiete” del fondamento e la tensione della possibilità, la sua irrisolvibilità costituiscono, attualmente, l’orizzonte politico dei filosofi che è, insieme, la loro croce: da un lato, essi sono
consegnati alla utopia del distacco, dell’interrogazione, della volontà di sapere, dall’altro, colgono i
segni di una sua impraticabilità o almeno, sono ricondotti dal vincolo stesso che li unisce alla città a
rivolgere l’interrogazione su se stessa, sui fondamenti e sui moventi della propria attività.13 Ed è
impossibile dire, ora, se si tratti di un suicidio o di un preludio ad altro: porre una domanda di questo tipo, può, certo, prospettare i lineamenti di una post-filosofia, ma può anche avere lo stesso valore che avvicinare una pistola alla tempia.
Sul filo di questa aporia, tuttavia, si sono articolati, i più seri ma non si sa quanto riusciti tentativi di dichiarare decaduto il “contratto” o, in modo più conforme a quanto sostenuto dai suoi
promotori, di riconoscerne il dissolvimento. Si tratta di Nietzsche e di Heidegger. E’, ovviamente,
impossibile ripercorrere ora le ragioni e i modi della loro “impoliticità”. Sarà sufficiente operare
brevi rilievi. Nel caso del filosofo di Messkirch, è significativo che al tentativo di sottrarre il discorso filosofico alla inautenticità del linguaggio inteso come espressività e designazione – è ciò che accade nel mondo “cittadino” della tecnica- e di ricondurlo presso l’essere si accompagni l’uso di metafore la cui area semantica si colloca in un contesto estraneo a quello cittadino: sentieri, boschi, radure, cielo e terra, divini e mortali articolano un orizzonte di senso extraurbano nel quale possa valere per l’uomo il riposo della prossimità dopo il dolore del distacco, possa sostituirsi
all’inquietudine utopica la quiete del trovar luogo (Erörterung). 14 E’, peraltro, indicativo che a ciò
corrisponda una contestazione di quanto i filosofi ritengono caratterizzante della loro attività: essi
possono esser tali, secondo Heidegger, non perché interrogano ma perché ascoltano. E sembra che
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E’ questa un’esigenza espressa già da Derrida: “Comunità dell’interrogazione, dunque, in quella fragile istanza in cui
l’interrogazione non è ancora abbastanza determinata perché l’ipocrisia di una risposta si sia già introdotta sotto la maschera dell’interrogazione, perché la sua voce si sia già lasciata ingannevolmente articolare nella sintassi stessa
dell’interrogazione […] Comunità dell’interrogazione sulla possibilità dell’interrogazione” (Jacques Derida, La scrittura e la differenza, pag. 100).
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Cfr. in In cammino verso il linguaggio i due saggi “Il linguaggio” e “Il linguaggio della poesia – il luogo del poema
di Georg Trakl”.
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invitino a camminare su un percorso parallelo, dove non risuona più alcuna domanda, alcuni versi
che Nietzsche premette alla Gaia scienza:
Un indagatore io? Oh, risparmiate questo perché! –
Io sono soltanto pesante – parecchie libbre!
Io cado, cado continuamente
Ed è infine nel fondo che cado!
E’, poi, senz’altro, un appello ad abbandonare la città, a lasciarsi dietro la sicurezza delle sue
mura - verità, ragione, valori, scienza, tecnica - vestire il filosofo dei panni di un dinamitardo che
mira a distruggere menzogne millenarie, originate, per buona parte, da quanto abbiamo determinato
come distacco e volontà di sapere, per poter di nuovo approdare sulle sponde boschive, incolte del
mito e ritornare nel luogo selvatico, remoto dove si eclissa ogni domanda e ogni sapere e, finalmente, si mostra Dioniso. E con modi decisamente poco civili.
Abstract
La relazione fra filosofi e città è una sorta di contratto che avvince le parti in un vincolo insuperabile e che, in quanto coincidente con la relazione, le connette sia in senso storico sia in senso costitutivo. Bisogna, dunque, risalire al passato del “contratto”, inteso in ambedue i significati, per identificare la prossimità da cui si origina il vincolo fra filosofi e città. Essa consiste nel loro comune orizzonte utopico che si articola nei momenti del distacco e della costituzione e articolazione sistemica del sapere. L’utopia che sostiene lo sviluppo della città da pòlis a metropoli, conduce la comunità
“aristocratica” dei filosofi all’aporia: l’interrogazione – in cui si riassumono distacco e volontà di
sapere e che è il tratto fondamentale dell’attività dei filosofi – rischia l’impraticabilità. Si profilano,
allora, due possibilità: la costruzione di una post-filosofia o il “suicidio” dei filosofi. Nella tensione
di questa alternativa si sono originati i tentativi ultra-politici di Nietzsche e di Heidegger.
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