I neurotrasmettitori dell`attrazione sessuale

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I neurotrasmettitori dell'attrazione sessuale
I NEUROTRASMETTITORI DELL'ATTRAZIONE SESSUALE
di Gian Luigi Gessa
L’uomo ha studiato fin dall’antichità ciò che è al di fuori di lui, le stelle, le piante, le pietre, gli
animali. Solo dagli ultimi due secoli egli ha studiato in modo sistematico il suo stesso
comportamento, con la psicologia, la sociologia e l’antropologia. Infine, è solo da pochi anni che
l’uomo ha avuto il coraggio e i mezzi culturali per studiare scientificamente le sue stesse
emozioni, ciò che si sente dentro, al di là del comportamento. La neuroscienza ha iniziato a
studiare la biochimica, la fisiologia, l’anatomia delle passioni, delle emozioni fondamentali, quali
l’aggressività, la dominanza, la depressione, l’ansia, ecc. Queste ricerche hanno svelato che il
comportamento, le emozioni, le attività cognitive, e in genere tutte le attività del cervello, sono
sostenute da sostanze chimiche: i neurotrasmettitori.
Tuttavia la neuroscienza è in forte ritardo nello studio delle cause biochimiche della più
profonda e universale delle emozioni: l’innamoramento. Forse perché l’amore è giudicato troppo
frivolo, troppo personale e troppo sacro per divenire oggetto di studio da parte dei biologi?
Eppure questo stato emotivo è fondamentale per la conservazione della specie. Non è frivolo:
d’amore si gode e si muore, ci si può ammalare. Capire le basi biologiche potrà servire per
aiutare chi non riesce a innamorarsi, chi d’amore soffre. Studiare la “chimica” dell’amore non
deve essere giudicato irriverente, nè più nè meno che lo studiare la chimica della depressione o
della mania, stati mentali altrettanto esaltanti o terribili. Conoscere le basi biologiche dell’amore
non toglierà ad esso il suo fascino, così come il conoscere la fisiologia della nutrizione, non
toglie il gusto della buona cucina. Si potrebbero anche ricordare gli aspetti “venali” che
farebbero dell’amore un importante oggetto di studio. Per causa dell’amore si perdono ore
lavorative, c’è un calo di produttività, si producono danni, anche omicidi. Trovare dei farmaci per
“curare” le patologie dell’amore porterebbe a immensi profitti.
Nel 1980, lo psichiatra M. Liebowitz ha diviso l’amore in due stadi fondamentali: l’attrazione e
l’attaccamento. Il primo stadio è l’emozione finalizzata alla formazione della coppia,
all’affiliazione, all’accoppiamento, alla procreazione. L’attrazione è caratterizzata da sintomi
comuni a tutti gli individui in questo stadio. L’attrazione inizia quando qualcuno diventa l’oggetto
d’amore e di desiderio, ed entra nei nostri pensieri e li occupa per buona parte delle ore della
veglia. L’oggetto d’amore diviene ai nostri occhi unico, affascinante. Una caratteristica comune
dell’innamoramento è il credere che questo stato emotivo non sia anche di altri ma, al contrario,
sia peculiare, personale, unico al mondo. Durante l’attrazione sono presenti una serie di
emozioni: esaltazione, euforia, desiderio, speranza, ma anche paura di perdere l’oggetto
d’amore e la gelosia. Sono anche frequenti manifestazioni neurovegetative come pallori,
rossori, sudorazione, tachicardia.
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Lo stabilire il ruolo di specifici neurotrasmettitori nei vari sintomi della sindrome che caratterizza
l’innamoramento non è ancora possibile. Tuttavia lo studio delle modificazioni neurochimiche
nel sistema limbico dell’animale di laboratorio che desidera una femmina, un cibo o una droga
ha offerto preziose informazioni sulla neurochimica dell’attrazione sessuale nell’uomo.
All’animale di laboratorio piacciono le stesse droghe di cui l’uomo abusa. Infatti, un ratto in
opportune condizioni sperimentali si autoinietta in vena la cocaina, la nicotina o l’eroina.
L’animale dimostra in vari modi di avere provato piacere nell’assumere tali droghe; ad esempio,
se ha sperimentato l’effetto della droga in un ambiente che prima evitava, finisce per preferire
questo ambiente all’ambiente dove prima preferiva soggiornare. Numerosi studi di
elettrofisiologia, neurochimica e comportamento hanno dimostrato che le varie droghe hanno in
comune le capacità di stimolare i neuroni del sistema dopaminergico meso-limbico, così definiti
poiché usano la dopamina come neurotrasmettitore, originano nel mesencefalo e innervano le
aree del sistema limbico.
Essi si dividono in sistema nigro-striatale e meso-limbicocorticale. La dopamina del sistema
nigro-striatale controlla la coordinazione motoria. Quella del sistema meso-limbico-corticale
controlla le emozioni e la cognitività*. L’eroina attiva i neuroni dopaminergici del sistema
meso-limbico indirettamente, inibendo i neuroni GABAergici del mesencefalo (pars reticulata
della sostanza nera): toglie cioè il freno inibitorio da parte dei neuroni GABAergici e disinibisce i
neuroni dopaminergici. La nicotina stimola direttamente i neuroni dopaminergici agendo sui
recettori nicotinici, quei recettori che sono normalmente stimolati dall’acetilcolina. La cocaina a
differenza delle altre droghe non aumenta la normale attività dei neuroni dopaminergici ma
impedisce che la dopamina rilasciata venga ricatturata e neutralizzata dalla terminazione
nervosa: la dopamina pertanto si accumula nella sinapsi. Pertanto, pur con diversi meccanismi,
le droghe producono un aumento della concentrazione della dopamina a livello di recettori delle
cellule bersaglio: sia perché ne viene rilasciata una maggiore quantità, sia perché la dopamina
si accumula fuori dal neurone che l’ha rilasciata. Col metodo della microdialisi è stato possibile
dimostrare che la somministrazione di cocaina, eroina, alcol, produce una “liberazione” di
dopamina nel nucleo accumbens, un’area del sistema limbico che gioca un ruolo importante
nell’integrazione della appetizione e della “consumazione”. Attraverso il metodo della
microdialisi è stato misurato il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens anche in animali che
assumono volontariamente le droghe o l’alcol. Negli animali che hanno imparato ad accedere a
orario a un “distributore” di alcol, di eroina o cocaina, si è osservato che il rilascio di dopamina
nel nucleo accumbens inizia alcuni minuti prima della fase consumatoria e si mantiene durante
l’assunzione volontaria di queste droghe.
Questi risultati suggeriscono che il rilascio di dopamina controlla l’attenzione, il desiderio, la
condizione motoria e la gratificazione connessi all’assunzione delle droghe. Ma i neuroni
dopaminergici non sono lì ad aspettare l’eroina, l’alcol, la cocaina, essi sono implicati nel
controllo di funzioni importanti per la sopravvivenza dell’individuo o della specie:
l’accoppiamento e l’assunzione di cibo. Attraverso la microdialisi è stato studiato il rilascio di
dopamina nel nucleo accumbens nel ratto maschio durante il comportamento sessuale.
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L’animale è collocato in un ambiente del quale vede attraverso uno schermo trasparente la
femmina in estro. Inoltre esso può percepire l’odore della femmina, attraverso i fori praticati
sullo schermo. Il ratto ha la possibilità, premendo una leva, di aprire una porta, penetrare
nell’ambiente nel quale è collocata la femmina e accoppiarsi con essa. Questo modello
sperimentale ha dimostrato che il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens inizia durante la
fase appetitiva del comportamento sessuale: quando cioè l’animale vede e annusa la femmina,
attraverso lo schermo trasparente, prima che abbia inizio l’accoppiamento. Tuttavia, come si è
visto per l’assunzione di cocaina, il rilascio di dopamina continua durante tutta la fase
consumatoria, che è caratterizzata da immissioni peniene e eiaculazioni. Dopo una serie di
queste, l’animale appare sessualmente esausto e il rilascio di dopamina torna ai livelli basali.
Tuttavia, se all’animale viene offerta una nuova femmina in estro, il comportamento copulatorio
ricomincia e aumenta il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens. Concludendo, la dopamina
sembra avere un ruolo nel controllo del desiderio, del piacere e del comportamento motorio
connesso alla “consumazione” dell’oggetto del desiderio: il cibo, il sesso, la droga.
È possibile che un meccanismo simile sia implicato nell’uomo nell’attrazione e
nell’innamoramento? Alcune considerazioni suggeriscono che la dopamina nel sistema limbico
ha un ruolo fondamentale nella mediazione di alcuni sintomi quali l’esaltazione, l’euforia, il
desiderio dell’oggetto d’amore, il “delirio”, cioè il ritenere vero ciò che obiettivamente non è.
Infatti, quando questi sintomi sono presenti nelle psicosi essi sono soppressi con la
somministrazione di farmaci chiamati neurolettici, che bloccano i “recettori” della dopamina. I
neurolettici inoltre producono anedonia, incapacità a provare piacere e desiderio - il contrario di
ciò che succede nell’attrazione. Che gli stessi meccanismi sostengano il piacere, il desiderio,
l’ossessione, scatenati dall’oggetto d’amore e dalla cocaina e amfetamina, è suggerito dal fatto
che interrompere l’assunzione prolungata di queste droghe produce malessere e voglia di
riprenderle, così come interrompere un rapporto amoroso può dare sintomi analoghi. Addiction,
schiavitù, dipendenza sono parole usate nei confronti delle droghe e dell’amore. I meccanismi
coinvolti sono probabilmente simili.
La biologia ci dirà presto molto di più su che cosa, su quali sostanze chimiche, provocano
quell’emozione chiamata amore, sulle zone del cervello in cui ciò avviene, ma ci vorrà molto
tempo prima che ci spieghi perché a stimolare quei neuroni e a liberare quei neurotrasmettitori
sia quel particolare uomo o donna, e non altri, perché ci innamoriamo in quel momento e non in
altri. L’amore è una miscela di meccanismi biologici ereditati e di condizionamenti culturali che
si costruiscono durante l’infanzia. Noi ereditiamo la struttura nervosa più o meno efficiente che
quando è stimolata opportunamente produce quell’emozione chiamata amore. Tuttavia fin da
bambini attraverso le interazioni con i familiari, con gli amici, con l’ambiente impariamo a
sviluppare simpatie e antipatie, così che da adolescenti abbiamo stampata nella nostra mente
la “mappa dell’amore”, cioè le caratteristiche fisiche, psicologiche e comportamentali che deve
avere un partner per essere “attraente”. Ma anche la “love map” è iscritta nei neuroni e
trasmette i sui messaggi attraverso i neurotrasmettitori. Decodificare un linguaggio così
sofisticato sarà per la neuroscienza un compito molto difficile ma anche molto attraente.
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fonte: Medicina delle Tossicodipendenze n° 30, Marzo 2001
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