La Voce Irredentista n. 36 - MOVIMENTO IRREDENTISTA ITALIANO

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LA VOCE IRREDENTISTA
Bollettino del Movimento Irredentista Italiano
Numero 36
Immagine del Mese
26 Ottobre 1954
26 Ottobre 2016
62° Anniversario della seconda redenzione di Trieste
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Editoriale
Molte le vicende che, in questi ultimi due mesi, ci hanno toccato direttamente come Movimento: dal vilipendio
di Treviso in offesa ai Martiri delle Foibe fino alle oltraggiose celebrazioni di terroristi separatisti per arrivare,
infine, alla questione Altoatesina dove, in occasione del prossimo referendum costituzionale, si sta
organizzando un voto di scambio vero e proprio tra il governo e l’SVP. Sul piatto il sì al referendum di
quest’ultimo in cambio della cancellazione di un elevato numero di toponimi italiani in Alto Adige.
Come sempre fatto, rispondiamo puntualmente con due interventi all’interno di questo numero della Voce per
silenziare, per l’ennesima volta, le velleità separatiste tedescofone in Alto Adige, fantasiosamente sostenute
da pretese di germanicità dell’intera provincia bolzanina. L’occasione delle celebrazioni del sanguinario
terrorista Amplatz è stata utile anche per commemorare, nel 50° anniversario della strage, i nostri caduti di
Malga Sasso, uccisi in un tragico attentato per mano dei separatisti tedescofoni altoatesini. Una storia
sconosciuta ai più e che, al contrario, deve appartenere all’intero popolo italiano.
Molte le ricorrenze che meriterebbero di essere citate, dal tragico 8 settembre, su cui il Movimento si è sempre
espresso chiaramente, al ricordo dei primi Martiri delle Foibe nel triste settembre 1943, dalle recenti
celebrazioni per l’uccisione di Norma Cossetto a quelle per il prossimo anniversario della seconda redenzione
di Trieste (ricordato per l’occasione nell’immagine del mese).
Il lavoro del Movimento Irredentista è in continua crescita ed espansione sul territorio. Due, pertanto, le
comunicazioni che il Consiglio Direttivo ha deciso di pubblicare.
Considerata l’enorme mole di lavoro di cui il Movimento si è fatto carico nel corso del tempo, ed il continuo
bisogno di nuove forze, il Consiglio Direttivo rende nota la possibilità, per chiunque sia desideroso di contribuire
alla redazione de “La Voce Irredentista”, nonché dei siti collegati, da quello ufficiale alla Biblioteca Irredentista
fino all’Archivio “Patria Italia”, di entrare a far parte dell’Ufficio editoriale del Movimento Irredentista. La scelta,
peraltro in linea con quanto sempre fatto, visto il carattere di “laboratorio” che si è voluto dare alla Voce, ossia
aperta a tutti i patrioti volenterosi e preparati, vuole avere l’obiettivo di portare l’Ufficio ad avere una maggiore
organicità, al fine di rispondere adeguatamente alle sfide sempre più ambiziose che si presentano innanzi a
noi.
Questa prima scelta, si riallaccia direttamente alla seconda decisione deliberata dal Consiglio Direttivo.
Coerentemente con i propri valori che ne hanno ispirato l’azione sin dall’atto della fondazione il 24 Maggio
2011, il Movimento Irredentista Italiano intende continuare a promuovere il proprio atto di Fede in continuità
con i patrioti e gli eroi nazionali del passato.
Pertanto, dal 4 Novembre, data che segna l’anniversario della rinascita del popolo italiano risorto a Nazione, il
Movimento comunica che sarà avviata la campagna per il tesseramento volontario per l’anno 2017.
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Ribadiamo il carattere volontario dell’adesione. Così come gli italiani che ci precedettero, indicandoci la via ed
arruolandosi volontariamente per contribuire al progetto di unificazione della Patria, alla stessa maniera i
patrioti di oggi devono ritrovare nella dedizione senza riserve la propria stella polare.
Aderire al Movimento Irredentista Italiano è fare un atto di Fede, è impegnarsi a marciare a testa alta in un
deserto di valori ed idee. Aderire al Movimento significa costituirsi parte dell’esigua quanto combattiva schiera
di patrioti eredi degli eroi nazionali, strenui difensori della nostra storia e dell’autentica italianità, dentro e fuori
i confini d’Italia.
Non promettiamo cariche, prebende o poltrone.
Il nostro pane quotidiano continuerà ad essere il duro lavoro, il sacrificio, l’umiltà, l’impegno puro e
disinteressato per un fine più alto: custodire ed alimentare il flebile fuoco dell’italianità, luce per il cammino
della nostra Comunità Nazionale sempre più minacciata nella sua sopravvivenza.
Probabilmente noi non vivremo abbastanza per vedere il Sole risorgere sulla nostra Nazione. Se il destino ci
ha riservato l’ingrato quanto fondamentale compito di tenere acceso il fuoco sacro dell’ideale in questi tempi
oscuri, è nostro dovere continuare imperterriti nella lotta affinché, quando la storia presenterà nuovamente
l’occasione, coloro che verranno dopo di noi si dimostrino degni di vedere di nuovo sorgere il Sole.
A noi l’onore e l’onere di resistere in questa apparentemente interminabile notte.
Il Consiglio Direttivo del Movimento Irredentista Italiano
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Sommario
IL LAVORO DEL MOVIMENTO
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ITALIA
SUDTIROLO: LA MISTIFICAZIONE
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IN MEMORIA DEI CADUTI DI MALGA SASSO
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STORIA
OMBRE ROSSE SULLA DALMAZIA: L’INVASIONE TITINA DI SPALATO
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IL BOLSCEVICO DEL LITTORIO: ASVERO GRAVELLI
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STOCCATA FINALE
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Il lavoro del Movimento
Lo scorso 17 settembre, il Movimento Irredentista
Italiano è intervenuto al convegno “Arrivarono i
liberatori – I crimini di guerra alleati nel
meridione”. L’incontro, svoltosi a Bellante (TE),
presso la sala consiliare del Municipio, ed
organizzato insieme agli amici dell’Associazione
Culturale Nuove Sintesi ed Unione Socialismo
Nazionale, è pienamente riuscito. L’intervento
realizzato
dal
Movimento
si
è
concentrato
nell’offrire ai numerosi presenti una disamina
storico-politica dei crimini angloamericani compiuti
nel Meridione d’Italia durante la seconda guerra mondiale. Cinque i punti di vista esaminati nell’affrontare il
tema.
Primo aspetto chiamato in causa, il ritorno della mafia in Sicilia. Cosa Nostra, sconfitta dal Fascismo e
dall’energica azione del prefetto di ferro Cesare Mori, tornò trionfante in Sicilia al seguito dell’invasione angloamericana. L’accordo stipulato dall’Office of Strategic Services degli Stati Uniti con il boss Lucky Luciano, spianò
la strada all’invasione alleata nel meridione, fornendo mafiosi affidabili in quanto a logistica, supporto e
spionaggio, oltre che come funzionari ed interpreti durante il governo militare alleato.
Un secondo aspetto affrontato ha riguardato le stragi di civili e di prigionieri di guerra compiute dagli invasori
alleati. Biscari, Comiso, Passo di Piazza, Vittoria sono solo alcune delle località in cui gli anglo-americani
massacrarono senza alcun motivo, ed in spregio alla Convenzione di Ginevra, decine di civili italiani innocenti
e soldati italiani e tedeschi arresisi e catturati.
Terza questione citata: i campi di prigionia alleati. La letteratura postbellica ha dedicato numerosi testi e saggi
ai campi di prigionia italiani e tedeschi ma poco a quelli alleati. Eppure in molti di questi, da Padula ad Afragola,
da Taranto a Siracusa, fino ad arrivare al nord Africa ed al Fascists’ Criminal Camp di Hereford, nel Texas, i
prigionieri subirono percosse, torture, malnutrizione e fucilazioni sommarie. Menzione particolare per il campo
di Hereford, dove molti soldati si rifiutarono di combattere al fianco degli anglo-americani, pur potendo
ottenere l’immediata scarcerazione, preferendo restare fedeli al proprio onore di soldati.
Quarto piano di lettura quello dei bombardamenti terroristici alleati. Il Meridione venne bombardato dagli
anglo-americani in lungo e in largo tra il settembre e l’ottobre del 1943, per tagliare le vie di ritirata ai tedeschi,
i quali non si curarono troppo di colpire la popolazione civile o di mitragliare colonne di civili in fuga dal fronte.
Intere città come Foggia, Benevento, Avellino, Napoli e Salerno vennero quasi rase al suolo per intero,
provocando decine di migliaia di vittime. A questo si aggiunse il criminale bombardamento dell’abbazia di
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Montecassino, al pari dei bombardamenti terroristici scatenati sulle città del nord, al solo scopo di colpire la
popolazione civile, minarne il morale e lo spirito di resistenza, spargendo morte, terrore e distruzione.
Ultimo aspetto affrontato, quello che forse più direttamente ha toccato l’animo dei presenti, è stato quello
degli stupri commessi dagli invasori, in particolare dai goumier del Corpo di Spedizione Francese in Italia (CEF).
Decine di migliaia di donne vennero stuprate sistematicamente dalle truppe coloniali francesi, i quali agirono
con l’acquiescenza dei quadri francesi, seminando il terrore in tutto il Meridione fino ad arrivare alle porte di
Firenze nell’agosto del 1944, quando il CEF venne inviato in Provenza. Non vennero risparmiati nemmeno
uomini, vecchi e bambini, i quali andarono incontro a stupri, pestaggi, torture, razzie e, in molti casi, uccisioni
indiscriminate. Molte donne rimasero incinte e contrassero malattie veneree, la gran parte venne emarginata,
marchiata, isolata, trovando difficoltà nel contrarre matrimonio o guadagnarsi un posto di lavoro. Molte non
ressero l’onta delle violenze subite e si suicidarono. Al danno si aggiunse la beffa del ridicolo risarcimento
concesso a riparazione delle offese subite. Una ferita non ancora rimarginata nelle terre del meridione d’Italia.
La riflessione conclusiva,
a seguito del gradito
intervento
del
Serpentini
prof.
che
ha
invitato a fare tesoro di
quanto
detto
per
proseguire nel percorso
di
revisione
corretta
della storia patria, ha
voluto
sottolineare
l’indignazione
dei
presenti
un
per
presidente
repubblica
marzo
della
che,
2014,
nel
in
occasione del 70° anniversario della distruzione dell’Abbazia di Montecassino, ebbe il coraggio di definire quelle
bombe assassine come liberatrici, al pari di un presidente del consiglio che nel maggio 2015, al cimitero dei
soldati anglo-americani a Falciani (Firenze), ha avuto il coraggio di ringraziare le truppe alleate per averci
“liberato”, definendole i migliori amici del popolo italiano. Offese, queste, non solo alla verità storica, ma anche
alla memoria delle centinaia di migliaia di italiani che patirono enormi sofferenze e trovarono la morte per
mano degli invasori a stelle e strisce che, ancora oggi, operano indisturbati sul suolo italiano con decine di
basi, migliaia di soldati e armamenti nucleari.
Un ringraziamento agli amici dell’Associazione Nuove Sintesi per l’ospitalità e la consueta accoglienza, calorosa
nell’occasione come negli incontri passati organizzati insieme al Movimento Irredentista Italiano.
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Sudtirolo: la mistificazione
Il cosiddetto “Südtiroler Heimatbund” (“lega della patria altoatesina”) ha
annunciato che a novembre farà affiggere a Roma un migliaio di manifesti
recanti la scritta “Il Sudtirolo non è Italia” (nella foto a lato), per ribadire che
la maggior parte degli altoatesini tedescofoni vogliono l’autodeterminazione e
la secessione dell’Alto Adige dall’Italia.
A parte la bizzarria dell’affermazione, c’è da dire che il termine “Südtirol”,
indicato per definire il territorio compreso tra il crinale alpino e Salorno, è
completamente inventato perché storicamente non è mai esistito un tal
territorio, con una propria autonomia politica o amministrativa, prima del 1927
quando l’Italia creò la provincia di Bolzano separata da quella di Trento. Infatti,
il termine “Südtirol” fu usato per definire il trentino e per ribadirne la tirolesità dopo che i trentini, nel 1848,
guidati dalla loro borghesia urbana, proclamarono il “Los von Innsbruck”, per staccarsi dal Tirolo ed essere
annessi al Lombardo-Veneto.
Facciamo un passo indietro e riportiamo brevemente, ad uso e consumo degli austriacanti de noantri, la storia
dell’Alto Adige, chiamato sin dall’antichità “La terra lungo l’Adige e tra i monti”.
Inizialmente, l’odierno Alto Adige era abitato dai reti, una popolazione di origine etrusca, che furono prima
romanizzati e poi germanizzati dai baiuvari. In seguito, il territorio fu diviso tra i principi vescovi di Trento,
Bressanone e Coira. I Tirolo, una sorta di veri e propri pirati, con tutta una serie di usurpazioni si appropriarono
dei territori dei principi vescovi. Nel 1363, ci fu quello che la vulgata austriacante chiama il regalo di Margherita
di Tirolo agli Asburgo. Niente di più falso. Fu Giovanni Lenzburg di Platzheim, consigliere di Rodolfo IV
d’Asburgo, a stilare un falso testamento a nome di Margherita. Fu così che il Tirolo passò agli Asburgo. Non
all’Impero asburgico, sia ben chiaro, ma divenne un feudo privato della famiglia Asburgo. Fu solo nel 1814 che
passò alle dipendenze dell’Impero.
Alla domanda dunque, perché l’Alto Adige (non il Tirolo, perché il Tirolo storico va da Kufstein a Borghetto,
vicino Verona) dovrebbe essere italiano, la risposta è semplice, perché è italiano, cioè perché prima era retoetrusco, poi latino, poi baiuvaro, poi appartenente ai principati vescovili, poi dei Tirolo, poi possedimento
privato degli Asburgo, poi appartenente all’Impero austro ungarico e infine italiano. Ogni volta che passava di
mano in mano, i conquistatori portavano la loro cultura e la loro lingua. Se vogliamo parlare di situazioni più
recenti e di presenza della popolazione italiana in Alto Adige, cioè se vogliamo ricercare il famoso confine
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linguistico tra il cosiddetto Tirolo tedesco e quello italiano, dobbiamo andare alla divisione del Tirolo, quando,
nel 1811, è stato creato da Napoleone il Regno Italico. La diplomazia bavarese e quella italica disegnarono iln
confine basandosi esclusivamente su criteri linguistici. Per cui il confine fu posto, a spanne, circa un’ottantina
di chilometri più a nord di dove gli austriacanti lo hanno rivendicato dal 1866 in poi cioè a Salorno. Il confine
fu posto circa all’altezza di Merano, Bressanone e Pusteria. Per cui, sicuramente, fino a queste località la
popolazione prevalente era quella tedescofona, mentre a sud era italofona, Bolzano e bassa atesina comprese.
A Salorno c’è una stretta, cioè una specie d’imbuto che rende il territorio difendibile. Cioè un confine naturale.
Gli austriaci, a colpi di tedeschizzazione forzata, cercarono di spostare il confine linguistico in modo che
combaciasse con quello naturale, in modo da poterlo rivendicare con un certo diritto nel caso che l’Austria
avesse dovuto cedere nuovi territori. Non dimentichiamo che nel 1866, l’Austria perse anche Venezia e l’ultimo
cuneo di penetrazione in Italia rimase l’attuale Trentino Alto Adige, per cui cercò di spostare il confine
linguistico più a sud, per cercare di mantenere perlomeno l’odierno Alto Adige.
Il Trentino fu trasformato in una sorta di campo trincerato, in cui il gruppo linguistico italiano venne sempre
più ostacolato e osteggiato. Anche in Alto Adige, in cui stava diventando sempre più massiccia la presenza
italiana, l’Austria intraprese un’azione tedeschizzatrice, soprattutto a Bolzano e in quella zona compresa tra i
paesi di Laives e Salorno detta Bassa Atesina. Questo perché, paventando di doversi ulteriormente ritirare
verso nord, Vienna, come appena visto, decise di trasformare, a tutti i costi, in linguistico il confine naturale
della chiusa dell’Adige posta sulla stretta di Cadino.
Della massiccia presenza italiana a Bolzano e nella Bassa Atesina, ne forniscono prova anche numerosi letterati
tedeschi, tra cui Christian Schneller, che visse per circa dodici anni a Rovereto e che, nel 1866 nel suo saggio
“Die Wälchtirolische Frage”, scrisse: ”Non occorre qui ripetere quanto si è detto più volte e cioè che l’elemento
italiano procede irresistibilmente nella valle dell’Adige, ha già inondato Bolzano ed ora giunge alle porte di
Merano”.
Un esempio della tedeschizzazione di Bolzano è la via Cassa di Risparmio, costruita in stile eclettico con forti
richiami neoclassici, neogotici e neobarocchi. La forte immigrazione di popolazione tedescofona dal nord
dell’Alto Adige, spinse, dunque, la Cassa di Risparmio, verso la fine del 1800, ad acquistare la residenza Hurlach
(l’odierno Museo Civico) con tutto il suo contorno di estesi vigneti, e quindi di costruirvi una lunga strada di
oltre quattrocento metri, collegante l’ospedale con via dei Vanga. Se consideriamo che, nel 1842, la
popolazione bolzanina ammontava ad ottomila abitanti, mentre circa mezzo secolo dopo, nella sola zona
circostante la via Cassa di Risparmio (che fu inaugurata il 2 dicembre del 1892 in occasione del cinquantesimo
anniversario di reggenza dell’Imperatore), vivevano ben seimila persone in più, abbiamo netta la percezione
delle vastissime proporzioni della politica germanizzatrice attuata dalla monarchia asburgica.
Altri due simboli della tedeschizzazione forzata di Bolzano sono la realizzazione della statua di Walther von der
Vogelweide, eretta nel 1889 per dimostrare la “tedeschità” di Bolzano in un periodo in cui la città vedeva una
sempre maggior presenza d’italiani, e il monumento a Re Laurino, posto oggi in piazza Magnago, lo slargo
prospiciente il palazzo della Giunta provinciale altoatesina. Quest’ultima opera rappresenta Teodorico nell’atto
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di sottomettere il re Laurino, sovrano del piccolo popolo latino delle Dolomiti. Il manufatto fu eretto nel 1907,
e rappresenta la forza teutonica che umilia i pavidi italiani.
A tal proposito è bene sottolineare come la SVP, con il codazzo di politicanti sedicenti italiani, abbia innescato
una guerra ai cosiddetti “relitti fascisti” (Monumento alla Vittoria, bassorilievo di Piazza del Tribunale ecc.), ma
ha scordato che i monumenti più sopra citati sono da considerare dei veri e propri “relitti asburgici” che furono
edificati quale sfida nei confronti dell’Italia e degli italiani. Questi manufatti rappresentano una provocazione
ancor maggiore di quella presunta dei
cosiddetti “relitti fascisti”. Difatti, se i
monumenti italiani sono una testimonianza
storica, in quanto contestuali all’epoca in cui
furono costruiti, quelli tedeschi sono una
vera offesa, giacché edificati in un’epoca
decisamente
posteriore
ai
fatti
storici
descritti e, cioè, sorti al fine di promuovere
un’azione di propaganda filo asburgica ed
esclusivamente
per
dimostrare
una
superiorità della stirpe germanica.
L’opera di snazionalizzazione nella Bassa Atesina del Governo asburgico fu supportata, a partire dai primissimi
anni del ventesimo secolo, dal “Tiroler Volksbund”, la “Lega Popolare Tirolese”, fondata nel 1905.
Il “Tiroler Volksbund” sviluppò una politica talmente intollerante che il giornale dei cattolici “sudtirolesi”, “Neue
Tiroler Stimmen”, nel 1906 stigmatizzò tali metodi affermando che essi non potevano certo: “Giovare all’unità
della Provincia e con ciò allo Stato plurinazionale che è l’Austria, nella quale le nazioni più che mai hanno
bisogno di vicendevole tolleranza”.
Quest’associazione, sin da subito, scatenò un’offensiva contro la presenza italiana fra Bolzano e Salorno,
concretizzata specialmente con la realizzazione di asili e scuole tedeschi, in quella zona genuinamente italiana.
Il proprio organo, il mensile “Tiroler Wehr” (“La difesa del Tirolo”), divenne rapidamente celebre per il proprio
linguaggio iracondo e virulento, con il quale attaccava i giornali trentini definiti: “Luridi cenci di carta, diretti
da gente che puzza di nazionalismo e che tradisce l’Impero” . Nella Bassa Atesina, la tedeschizzazione fu
realizzata anche con la manipolazione dei censimenti. A Vadena, ad esempio, in quello del 1910 risultò il
sorpasso dei tedescofoni (278) sugli italiani (254). In seguito alle vibrate proteste dei deputati trentini al
Parlamento, lo stesso Capitanato di Bolzano inviò una nota di dura disapprovazione al Sindaco Zelger che,
attraverso vari espedienti, aveva censito come tedeschi numerosi vadenesi di lingua italiana. Venne, poi,
concessa una contenuta sanatoria che portò gli italiani a 311 contro 221 tedeschi.
Fu, però, allo scoppio della “Grande Guerra” che dalla tedeschizzazione si passò ad una vera e propria
persecuzione contro gli italiani. Gli irredentisti furono inviati nei campi d’internamento ed a coloro che
riuscirono a fuggire nel Regno d’Italia furono confiscate tutte le proprietà. Tra gli internati ricordiamo Marta
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Cimadon, la maestra Armida Angelini, e Carlo Lorenzini che morì di stenti nel “Lager” di Mitterndorf an der
Fischa nella “Niederösterreich” (Bassa Austria).
Affermare, quindi, che “l’Alto Adige non è Italia”, nel senso che non è etnicamente italiano, è un non senso
perché, con questo ragionamento, gli unici che, ad oggi, potrebbero rivendicare l’Alto Adige sarebbero i retoetruschi.
Giovanni dalle Bande Nere
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In memoria dei caduti di
Malga Sasso
Lo scorso 9 settembre ricorreva il cinquantesimo anniversario della strage di Malga Sasso, una tra le più
sanguinose compiute dai terroristi altoatesini.
La casermetta di Malga Sasso sorgeva sulle pendici del Monte del Sasso, posto sulla destra orografica del
fiume Isarco, a 1745 metri d’altezza, in mezzo ad un esteso prato circondato da boschi di conifere, poco
distante dal passo del Brennero.
Secondo quanto si evince dalla sentenza n. 7/70 R. G., emessa dalla seconda Corte d’Assise d’Appello di Milano
il 12 febbraio 1976, l’attacco terroristico fu ideato, organizzato e posto in essere da Georg Klotz con la
complicità di Richard Kofler, Alois Rainer e Alois Larch. Secondo la Corte, nel corso della notte dell’otto
settembre 1967, Georg Klotz sarebbe penetrato all’interno della casermetta della Guardia di Finanza di Malga
Sasso e vi avrebbe introdotto una carica esplosiva innescata con un congegno ad orologeria, mentre i suoi
complici lo avrebbero atteso poco distante dall’edificio militare.
Alle 11 del mattino del 9 settembre 1966, l’ordigno
deflagrò. La terribile esplosione fece completamente
crollare il muro maestro, spesso 60 cm, del lato esposto
a nord/ovest in corrispondenza dell’ufficio e abbatté la
parete divisoria fra l’ufficio e la cucina. Il tetto, eretto in
lastre d’ardesia, volò via in corrispondenza della cucina,
dell’ufficio e di una camerata. La soglia e la mazzetta
Figura 1 - La caserma dopo l’esplosione dell’ordigno
della finestra dell’ufficio furono polverizzate, mentre
l’inferriata fu scagliata a 18 metri di distanza. Le brande
della camerata furono torte e scaraventate via. Alcuni detriti furono lanciati fino a 50 metri di distanza.
Nell’attentato perirono la guardia di finanza Martino Cossu, ventenne sardo di Lugosante in provincia di Sassari,
Il vicebrigadiere altoatesino di lingua tedesca, Herbert Volgger, e il sottotenente Franco Petrucci.
Herbert Volgger fu investito in pieno dalla violenza dello scoppio e massacrato. Il sottufficiale fu trasformato
in una torcia umana e proiettato dall’ufficio alla cucina attraverso il varco costituito dal divisorio abbattuto.
Indosso gli erano rimasti, intorno all’inguine, solamente alcuni brandelli di tessuto dei suoi indumenti e il suo
corpo, completamente carbonizzato, mostrava nella parte anteriore estesi crateri contenenti miriadi di
schegge.
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Cossu fu travolto dalla parete interna dell’ufficio che era piombata in cucina, rimanendo incassato fra il muro
e la radio.
Il tenente Pertrucci fu avviluppato dalla fiammata ed abbattuto da un subisso di frantumi. Oltre la metà del
suo corpo fu ricoperta da gravissime ustioni. Inoltre, riportò la perforazione centrale del timpano sinistro e la
distruzione di quello destro. Fu portato immediatamente all’ospedale civile di Vipiteno, ma morì il 23 settembre,
dopo due settimane di atroci sofferenze.
Per la strage furono condannati: Richard Kofler, alla pena di 23 anni e 6 mesi di reclusione per strage
aggravata, detenzione di materie esplodenti e per calunnia aggravata; Alois Rainer a 23 anni e 6 mesi di
reclusione per strage aggravata, detenzione di materie esplodenti e cospirazione politica; Alois Larch a 28 anni
di reclusione per strage aggravata e detenzione di materie esplodenti. Klotz non fu condannato perché morì
nelle more del processo, il 24 gennaio del 1976, stroncato da un attacco cardiaco mentre era latitante in
Austria.
Per quanto riguarda la celebrazione di domani del
terrorista Alois Amplatz è bene ricordare che costui fu
uno dei più famigerati e spietati terroristi altoatesini degli
anni sessanta. Capo della cellula terroristica bolzanina,
Amplatz fu tra i responsabili della “Notte dei fuochi”, cioè
la notte tra l’undici e il dodici giugno 1961, quando i
dinamitardi compirono ben 33 attentati, tra i quali quello
in cui morì dilaniato il lavoratore dell’ANAS Giovanni
Postal.
Figura 2 - Uno dei tralicci distrutto durante la “Notte dei
fuochi” per la quale fu condannato il terrorista Amplatz
Tra le miriadi di attentati compiuti da Amplatz,
menzioniamo quelli compiuti contro case popolari a
Bolzano i primi di agosto del 1963. Il terrorista, nella notte tra il tre e il quattro agosto, minò una gru all’interno
di un cantiere in via Sassari. L’esplosione ne scagliò lontano il portello, pesante quaranta chili, che piombò
come un missile contro il muro di una casa, sventrò una finestra e andò a schiantarsi all’interno dell’abitazione,
con il rischio di uccidere alcuni degli inquilini. Non contento, andò in via Druso, dove piazzò una bomba
all’interno del giro scale di un condominio in costruzione. L’ordigno, deflagrando, distrusse il giro scale, abbatté
tre delle quattro colonne centrali dell’edificio e sbriciolò il solaio, posto tra le cantine e il piano terra. La
staccionata delimitante il cantiere fu distrutta e i pezzi di legno mandarono in frantumi le vetrine dei negozi
che si trovavano sull’altro lato della strada. Contemporaneamente, i cinque operai che stavano dormendo sulle
loro brande all’interno del fabbricato in costruzione, furono sbalzati a terra dall’onda d’urto e ricoperti da
calcinacci, pezzi di mattoni e schegge di vetro.
Mentre gli Schutzen commemorano meri terroristi, inviamo il nostro pensiero alle vittime della loro follia. A noi
il compito di tutelarne la memoria, vilipesa dalle ricorrenti celebrazioni dei loro assassini, offesa resa possibile
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da uno Stato ignavo ed assente, al quale invece spetterebbe il compito di difendere la storia della nostra
Nazione ed i nostri caduti.
Uno Stato che permette celebrazioni di terroristi separatisti, nonché l'intitolazione di vie agli stessi, è uno Stato
destinato a morire.
A chi celebra dei comuni terroristi noi rispondiamo ricordando ed onorando i nostri caduti.
Giovanni dalle Bande Nere
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Ombre rosse sulla dalmazia:
Un’ala spezzata. Questa è Spalato, l’ala spezzata di un’aquila romana che per più di duemila anni volteggiò
sulla Dalmazia proteggendola dalle orde d’Oriente. Una zampa lesa. Questa è Spalato, la zampa lesa di un
leone marciano che per quattro secoli dominò regalmente per terra e per mare sulla sponda estrema
dell’Adriatico. Tutta romana, tutta veneziana, tutta italiana è Spalato come la Dalmazia intera e italiana fu la
sua civiltà, italiano fu il suo progresso: questo lo riconoscono anche gli storici croati intellettualmente onesti.
Popolazioni indoeuropee di stirpe italica quali Dalmati e Liburni abitarono la zona di Spalato già dieci secoli
prima di Cristo.
Nel IV secolo a.c. coloni sicelioti di Siracusa si espansero per volere del tiranno Dionigi nell’Adriatico fondando
Aspàlatos nei pressi della città dalmata di Salona. Nel II secolo a.c. i Romani conquistarono la Dalmazia e
diedero alla città il nome di Spalatum che divenne, grazie alla sua felice posizione strategica, una fiorente città
commerciale. A Spalatum pose la sua sede Diocleziano, dalmata di nascita (nacque nella vicina Salona) e
ultimo grande Cesare prima di Costantino, per poter meglio amministrare l’Impero dopo la riforma tetrarchica
e per rifuggire dalla decadenza sibarita dell’Urbe; di questo grande Imperatore rimangono nei pressi della città
le vestigia del suo immenso palazzo. Il tramonto della potenza imperiale vide la Dalmazia invasa da varie
popolazioni barbariche. Spalato, come altre città della costa dalmata, sfuggì agli assalti dei barbari per via delle
sue fortificazioni volute da Diocleziano e per la presenza nell’Adriatico della potente flotta dell’Impero Romano
d’Oriente. Particolarmente grave per la Dalmazia e per i Balcani fu l’invasione degli Avari, popolo turco
proveniente dall’Asia Centrale. Costituito da una casta guerriera formata da aristocratici, gli Avari erano poco
numerosi ma estremamente bellicosi. Essi si impadronirono rapidamente della Balcania continentale
sconfiggendo più volte i Romani d’Oriente che comunque riuscirono a conservare dei presìdi lungo le coste,
massimamente in Dalmazia vale a dire Zara, Traù, Neum, Epidaurum (poi Ragusa), Salona e appunto Spalato.
La distruzione di Salona ad opera degli Avari accrebbe l’importanza di Spalato che ne accolse i profughi. Gli
Avari al loro seguito portarono come vassalli gli Slavi, imbelli ma molto numerosi, contadini e artigiani che,
dato il loro numero, con la caduta del Regno Avaro ad opera di Carlo Magno si sostituirono ai loro antichi
padroni nel dominio dei Balcani pur rimanendo il territorio a sud del Danubio formalmente parte dell’Impero
Bizantino. Sorsero così (IX secolo) i primi regni slavi, fragili e instabili per l’arretratezza delle loro genti avvezze
al tribalismo e all’ordinamento clanale. Erano la Carantania (grossomodo l’attuale Slovenia), la Croazia, la
Serbia. Bisanzio, pur non avendo la forza di riconquistare (almeno sino a Basilio II) l’entroterra balcanico,
estese la sua sfera d’influenza sugli Slavi facendo di loro dei vassalli dell’Impero: questo si ebbe soprattutto
per gli Slavi centrali e meridionali grazie alle spedizioni missionarie (si pensi ai Santi Cirillo e Metodio). Tale
processo, sia pur condotto con la croce più che con la spada e che formalmente rispettava le autonomie locali,
riportò l’autorità e la civiltà romane nei Balcani (e oltre) e rafforzò la presenza bizantina in Dalmazia tanto che
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i sovrani croati si dichiararono vassalli del Basilèus bizantino. La Croazia, inoltre, fu sottoposta all’influenza
della Chiesa di Roma e adottò quale lingua ufficiale il latino oltre al rito romano al momento della conversione
al Cristianesimo.
La forza culturale, religiosa, politica di Roma e di Costantinopoli fecero sì che la Dalmazia (e quindi Spalato)
conoscessero solo un’effimera presenza slava. Anche l’occupazione di Spalato da parte del Regnum
Crovatorum e l’elezione a sua capitale non mutarono questa situazione. La caduta della Croazia in potere
dell’Ungheria e l’ascesa della Repubblica di Venezia dopo il Mille confermarono definitivamente la latinità e
l’italianità della zona. L’Ungheria infatti si mostrò tollerante verso gli autoctoni romanzi che parlavano ormai
non più il latino ma il dalmatico, idioma derivante dal latino popolare e oggi estinto. Nel 1420 Spalato venne
annessa alla Repubblica di Venezia, cosa che accentuò il carattere italiano della città con contributi culturali
veneti. Grazie alla Serenissima la città fiorì nelle arti, nelle lettere, nelle scienze e nei commerci; i Dogi
ingioiellarono la città con splendide chiese e palazzi. Malgrado qualche tentativo d’avanzamento culturale slavo,
fu sempre l’italiano a giganteggiare tanto che gli allogeni croati di Spalato e del suo contado oltre ai dialetti
croati parlavano tutti l’italiano e il veneto.
La pugnalata bonapartista alla Serenissima avvenuta col Trattato di Campoformio (1797) consegnò la città
all’Austria che mai aveva in pratica battuto i lidi dalmati; in un certo senso, però, l’Italia poté tornare a Spalato
col Regno d’Italia e con le Province Illiriche, di fatto governati dai Francesi (1806-1813). Il crollo dell’Impero
Francese aprì le porte di Spalato alle torve aquile bicipiti degli Asburgo. A partire dalla metà del XIX secolo
anche in questa città presero a spirare i venti del movimento risorgimentale italiano. Già Ugo Foscolo ebbe
modo di studiare a Spalato; i moti del 1848 che infiammarono l’Europa, il Romanticismo, gli ideali del
Risorgimento, le Guerre d’Indipendenza, il progetto di una spedizione garibaldina in Dalmazia, l’inasprirsi della
politica liberticida austriaca e delle velleità egemoniche croate compattò gli Italiani di Dalmazia e li protese
sempre più verso la Penisola. Fino agli anni Settanta dell’Ottocento, di là del passato storico e culturale, gli
Italiani costituivano la stragrande maggioranza della popolazione della Dalmazia (oltre che la parte più attiva
nell’economia e nella cultura). Concentrati specialmente nelle città della costa e nelle isole, rappresentavano
anche la politica e la l’amministrazione della regione, vale a dire del Regno di Dalmazia, appartenente alla
Corona d’Austria. Pur formalmente non ostili all’Imperatore, gli Italiani rivendicavano un’ampia autonomia per
la loro regione mirando soprattutto ad evitare l’unione con la Croazia.
A Spalato gli Italiani subirono, soprattutto a partire dal 1866, le misure snazionalizzatrici imperiali (proibizione
dell’italiano nelle scuole e negli uffici pubblici, restrizione della libertà di stampa, d’espressione, d’associazione,
avanzamento del nazionalismo croato aizzato ad hoc da Vienna, sorveglianza poliziesca di movimenti e di
associazioni italiane come pure di privati cittadini). Nella Dieta di Dalmazia, costituita nel 1861, gli Italiani
tennero sempre la maggioranza fino al 1876. Si trattava di autonomisti che si costituirono in partito (Partito
Autonomista) nel 1878. Essi dovettero scontrarsi con le pretese dei Croati anch’essi riunitisi in un partito, il
Narodni Stranka (Partito Popolare), foraggiato da Vienna e, come dicevo, anelante all’unione della Dalmazia
con la Croazia. L’assurdità delle loro rivendicazioni era ben espressa dal fatto che, pur negando l’esistenza di
una “minoranza” italiana nella regione, scrivevano in italiano e non in croato! I censimenti austriaci che vanno
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dalla stipulazione della Triplice alla Grande Guerra segnalarono la diminuzione degli autoctoni italiani nelle città
dalmate tanto che nel 1914 solo Zara risultava a maggioranza italiana. Spalato vide quindi il massiccio declino
della popolazione italiana nell’ultimo quarto dell’Ottocento tanto che dalla grande maggioranza della metà del
secolo si passò al 7% del 1910 (2082 italiani su un totale di 27.492 abitanti). Nell’Ottocento la città era abitata
da italiani, croati e serbi: la componente slava aumentò sul finire del secolo per via, come detto, delle
snazionalizzazioni e della politica filocroata dell’Austria ma bisogna dire anche che Vienna tendeva a falsare i
numeri dei censimenti attribuendo percentuali più alte agli slavi. I Podestà di Spalato furono sempre italiani
sino al 1880: ultimo di loro ma primo per importanza fu Antonio Bajamonti. Divagherei troppo se illustrassi le
figure dei patrioti di Spalato: cito solo dunque Antonio Bajamonti, medico e politico, Antonio Tacconi, avvocato
e politico, Ildebrando Tacconi, storico e letterato, Ercolano Salvi, politico.
Dal 1880 in poi, a causa delle repressioni e in linea con ciò che stava avvenendo nelle altre terre irredente, gli
autonomisti attuarono una svolta decisamente irredentista anelando l’annessione al Regno d’Italia. Bisogna
dire, in aggiunta, che parte dei Serbi spalatini era filoitaliana. La Prima Guerra Mondiale portò ad un
inasprimento delle misure antitaliane da parte del Governo asburgico mentre parte della popolazione italiana
fu deportata e rinchiusa in campi di concentramento in Ungheria e in Boemia. Quasi tutti gli uomini validi
vennero arruolati a forza nell’Esercito Imperialregio e mandati a combattere sul fronte orientale oppure
arrestati; alcuni irredentisti spalatini si rifiutarono di indossare il grigio dell’uniforme austriaca e ripararono in
Italia per arruolarsi nel nostro Esercito o nella nostra Marina. Con la sconfitta dell’Austria gli Italiani di Spalato
(come pure di altre città dalmate) si riunirono in un Fascio Nazionale e chiesero l’annessione all’Italia; il Patto
di Londra tuttavia ci dava la Dalmazia settentrionale ma non Spalato in quanto la proposta di confine passava
a nord di Traù. La vocazione di Spalato comunque rimase decisamente italiana per via della attiva
organizzazione sociale e della consapevolezza del ruolo politico degli Spalatini italiani; sebbene maggioritari,
gli Slavi non seppero invece esprimere civilmente le loro istanze abbandonandosi sovente a violenze sui nostri
connazionali. Si ebbero così gli incidenti di Spalato, cui faccio solo cenno però.
Dopo il 4 novembre del 1918, l’Italia completò l’occupazione di tutti i territori già austriaci previsti dal Patto di
Londra. Spalato non rientrava tra questi e venne occupata da Marinai francesi il 9 novembre che la tennero
per un po’ in attesa di disposizioni. Il 20 la città fu occupata dalle truppe iugoslave che non si curarono del
carattere italiano della città né, immemori ed ingrate, dell’aiuto italiano prestato all’Esercito serbo in rotta e
del fatto che l’Austria era stata sconfitta dall’Italia e non di certo dalla Serbia. I nazionalisti croati cominciarono
ad usare violenza contro gli Italiani sin dall’arrivo dei Francesi solo perché i nostri avevano “osato” esporre il
Tricolore per salutare la vittoria dell’Intesa. Per chi svolgeva professioni pubbliche fu imposto il giuramento di
fedeltà al Re serbo che molti Italiani si rifiutarono di prestare venendo così sospesi sine die dalle proprie
occupazioni dall’autorità iugoslava. Le violenze aumentarono di giorno in giorno e i vari Podestà dalmati fecero
propria l’istanza del loro collega di Zara, Luigi Ziliotto. Ziliotto aveva chiesto al Sottosegretario alle Colonie,
Piero Foscari (di idee nazionaliste), l’occupazione della Dalmazia centrale da parte della Regia Marina italiana,
cosa che venne ripetutamente richiesta al Governo italiano che alla fine si mosse in tal senso. Il Patto di Londra
veniva aggirato legittimamente dai patrioti dalmati paragonando l’occupazione italiana della Dalmazia centrale
a quella francese della Renania, non prevista da alcun trattato. Diedero il loro parere favorevole all’azione
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anche l’Ammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel (comandante supremo della Marina secondo solo al Re) e
l’Ammiraglio Enrico Millo, Governatore della Dalmazia settentrionale. A dicembre si verificarono nuovi incidenti
a Spalato e a gennaio del ’19 a Traù. A protezione degli Italiani di Spalato, la Marina inviò nel porto della città
la nave da guerra “Riboty” poi sostituita dalla “Puglia”. Era chiara a tutti la politica espansionistica di Belgrado
che mirava ad annettere non solo terre slave ma anche italiane, magiare, bulgare, albanesi, greche e
austriache ordendo la formazione di uno Stato iugoslavo che andasse dalla Carinzia al Mare Egeo.
Gravi incidenti ad opera di teppaglia iugoslava si verificarono il 24 febbraio del 1919 tanto che l’Intesa dovette
intervenire con una forza interalleata (Italiani, Americani, Inglesi, Francesi) per presidiare l’ordine. Si ebbero
ulteriori disordini a marzo e nell’estate mentre a novembre Gabriele D’Annunzio, che autonomamente con i
suoi Legionari aveva provveduto a liberare Fiume, si recò a Zara per spronare Millo ad un’azione più energica
su Spalato. Alla notizia di ciò e timorosi di D’Annunzio, gli Iugoslavi si abbandonarono a nuove violenze a
Spalato che continuarono pressoché ininterrottamente sino all’estate del 1920. Il parossismo venne raggiunto
però a luglio quando dei nazionalisti iugoslavi aggredirono dei Marinai italiani; l’aggressione si ingigantì quando
la folla, giunta al molo della città, lanciò una bomba a mano contro un MAS mentre la Gendarmeria iugoslava
esplose alcuni colpi di arma da fuoco cui risposero i Marinai italiani. Dei Marinai vennero feriti e tra loro vi era
anche il nuovo Comandante della “Puglia”, Tommaso Gulli ed il Motorista Aldo Rossi che in seguito morirono.
L’impressione fu grande in Italia ma il Capo del Governo Giovanni Giolitti rinunciò col Trattato di Rapallo alla
Dalmazia che fu assegnata, salvo Zara e alcune isole, alla Iugoslavia mentre Belgrado riconosceva la sovranità
italiana sull’Istria e su Zara. Non venne presa in considerazione nemmeno la petizione fatta dal Salvi per
l’annessione di Spalato all’Italia e forte di 8000 firme su 18.000 abitanti.
I Dalmati italiani furono costretti ad optare per la cittadinanza italiana oppure per quella iugoslava (presa da
pochi) pur potendo rimanere nelle loro città ma molti preferirono esulare: si trattò del Primo Esodo dei Dalmati
ammontante a molte migliaia di persone e diretto verso Zara oppure verso città della Penisola quali Fiume,
Pola, Trieste, Ancona, Roma. La salita del Fascismo al potere nel 1922 comportò una maggiore attenzione per
la Dalmazia da parte delle istituzioni con la promozione di attività culturali e d’assistenza. Tra le Camicie Nere
vi era infatti una rilevante componente irredentista e alcune Squadre d’Azione composte da Dalmati
parteciparono alla Marcia su Roma con le insegne abbrunate. Mussolini fece quanto in suo potere per
mantenere accesa nella regione la fiaccola dell’italianità. Non si ebbero tuttavia mutamenti di confine sino al
1941. La Seconda Guerra Mondiale coinvolse l’Italia nel ’40 e la Iugoslavia nel ’41. Vicino al Tripartito, SHS vi
aderì nel marzo del 1941 per volontà (o meglio per costrizione) del Re Pietro II ma il Governo e il popolo, in
seguito ad un golpe militare, rigettarono la decisione regia. Questo suscitò l’ira di Hitler che ordinò alle sue
armate di invadere il Paese. In ambito all’Operazione 25 e all’Operazione Marita, le forze dell’Asse attaccarono
la Iugoslavia il 6 aprile per poi invadere la Grecia. Spalato venne liberata alla metà di aprile dalle truppe del
Generale Emilio Giglioli provenienti da Zara. Per l’Italia l’azione germanica nei confronti della Iugoslavia
significò il culmine del braccio di ferro che durava almeno dal 1918 e che aveva visto a fronte della legittima
rivendicazione della Dalmazia da parte italiana quella (illegittima) iugoslava che mirava all’annessione di Zara,
di Fiume e della Venezia Giulia sino al Tagliamento. Il crollo della Iugoslavia fece sì che la Croazia tornasse
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indipendente dopo novecento anni con il
Governo ustascia di Ante Pavelic. Egli si
accordò con Mussolini per la ripartizione
della Dalmazia pur rientrando l’intero
Stato
croato
nella
sfera
d’influenza
italiana. All’Italia toccarono tutto il nord
dalmata, Sebenico, Spalato, Traù, Cattaro
e alcune isole, alla Croazia Ragusa di
Dalmazia, Neum e Porto Narenta (Trattato
di Roma,18 maggio 1941). Fu istituito il
Governatorato di Dalmazia nella zona
italiana
avente
tre
Province:
Zara
(preesistente ma di molto ingrandita),
Spalato e Cattaro. La Provincia di Spalato contava tredici comuni per un totale di 128.400 abitanti (3000 dei
quali italiani) mentre il capoluogo aveva 46.900 abitanti (1000 italiani). Prefetto fu Paolo Zerbino, già Federale
del PNF di Vercelli e di Alessandria. La Iugoslavia aveva tenuto Spalato e i suoi dintorni nell’arretratezza mentre
l’esodo degli Italiani aveva drammaticamente impoverito l’economia della zona. L’amministrazione italiana vi
pose rimedio con degli investimenti operati dai Governatori Giuseppe Bastianini, brillante diplomatico, e
Francesco Giunta, già Segretario del PNF. Vennero costruite, dunque, scuole, strade, ospedali, fognature
mentre si iniziò il recupero del degradato Palazzo di Diocleziano e si ebbe una pianificazione urbana di Spalato.
Spalato accolse durante la presenza italiana numerosi Ebrei croati in fuga dai Tedeschi e dagli ustascia; la
presenza del Regio Esercito nel Governatorato pose le città dalmate (e quindi Spalato) al riparo dalla guerriglia
partigiana iugoslava. Anche i Serbi della Dalmazia videro con favore la presenza italiana per via della mortale
inimicizia con i Croati. L’8 settembre segnò, però, il tracollo del Governatorato. I partigiani di Tito
s’impossessarono di Spalato il 10 settembre 1943 per rimanervi sino al 27, giorno di arrivo dei Tedeschi. Tutto
l’apparato statale italiano del Governatorato di Dalmazia, così efficiente fino all’armistizio, si frantumò
trasformando militari, funzionari e civili in una massa di sbandati alla mercè dei criminali iugoslavi che non
rispettavano alcuna norma del diritto internazionale, dei principi cristiani, del vivere civile. Così in quei pochi
giorni persero la vita circa 700 Italiani, civili e militari, trucidati senza pietà dai partigiani di Tito. A Spalato
vivevano, prima dell’invasione, degli Italiani (circa 2000) e ad essi si aggiunsero nel 1941, con l’annessione
all’Italia, molti esuli spalatini nonché centinaia di funzionari e di insegnanti provenienti da altre Province
italiane. Furono riaperte le scuole italiane accanto a quelle croate. I partigiani di Tito si dimostrarono piuttosto
tolleranti con i militari del RE, in quanto la Divisione “Bergamo”, già impegnata contro le bande slave
comuniste, dopo l’8 settembre si schierò proprio con i partigiani ingannata dalla propaganda titina, ma furono
spietati con le Camicie Nere e con gli altri “servitori” del Regime fascista (Carabinieri, Guardie di Finanza,
funzionari di Pubblica Sicurezza, funzionari statali ed insegnanti). Furono così subito trucidati 10 Carabinieri,
11 Guardie di Finanza, 41 Agenti di P.S. e circa 250 civili i cui corpi finirono in tre fosse comuni nei pressi del
cimitero di San Lorenzo e della Baia dei Castelli. Il Questore di Spalato riuscì a fuggire e a governare la città
rimasero soltanto quattro funzionari di Polizia: il Commissario Francesco Metano, il Vicequestore Paride
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Castellini, gli Ufficiali Papoff e Sorgi nonché gli
Agenti della Questura: tutti agivano per dare
soccorso ai 1500-2000 Italiani di Spalato.
Francesco Metano, catturato dai partigiani, fu
fucilato il 19 settembre nei pressi del cimitero di
San Lorenzo. Intanto, gli edifici pubblici Comune, Prefettura, Questura – furono dati alle
fiamme dagli Iugoslavi. Il Comando della Marina
era sguarnito per la fuga dei comandanti. Gli
Agenti
fuggiaschi
cercarono
scampo
nelle
campagne e quelli catturati furono fucilati sul
posto e lasciati a marcire al sole. Tra le persone trucidate vi furono tanti insegnanti tra i quali: Scordiglio Maria,
da San Caio (Spalato), insegnante elementare; Menenghin Cesare, da Spalato, ivi insegnante alle Elementari;
Luginbuhl Eros, da Ferrara, già preside del Ginnasio "Gian Rinaldo Carli" di Pisino, poi del Ginnasio di Spalato.
Arrestato dai comunisti slavi il 21 settembre a Spalato, fu marchiato a fuoco con un ferro arroventato
terminante in una stella sulla fronte e fucilato il giorno seguente; Soglian prof. Giovanni, nato il 3 marzo 1901
a Cittavecchia (Isola di Lesina), provveditore agli studi di Spalato. Rifiutò di salvarsi per poter assistere tutti
gli insegnanti in pericolo; arrestato, venne fucilato il 23 settembre, dopo che sul petto gli era stata impressa a
fuoco una stella. Si ebbero accanto a queste numerose altre esecuzioni, soprattutto di civili. Nel frattempo i
Tedeschi calarono da nord per assicurarsi il controllo dei porti dalmati e si ebbe sul finire di settembre una
battaglia tra alcune Divisioni della Wehrmacht e la 7.SS Freiwilingen-Gebirs-Division “Prinz Eugen” da una
parte e la “Bergamo” e le bande titine dall’altra che si concluse con la vittoria dei germanici. I nostri Soldati
della “Bergamo” si trovarono a vivere il dramma di osteggiare un invasore palese quale quello germanico e ad
essere alleati di uno celato quale quello slavo. Tito, infatti, cercò, in parte riuscendovi, di portare dalla sua
alcune Divisioni italiane di stanza nei Balcani presentando la sua lotta quale quella di un popolo oppresso e
suadendo i nostri comandanti dicendo loro che per gli Iugoslavi gli Italiani erano dei “compagni” e che dopo
la guerra non avrebbero avanzato alcuna pretesa territoriale. Il resto è noto… Il 27 settembre, data la
preponderanza dei Tedeschi, gli Iugoslavi fuggirono da Spalato mentre gli Italiani resistettero tenendo sino
all’ultimo la piazza. La rappresaglia tedesca fu feroce:3 Generali e 47 Ufficiali della “Bergamo” furono accusati
di alto tradimento, trasferiti a Treglia e fucilati. Accordi tra Tedeschi e Croati seguiti alla capitolazione italiana
fecero sì che lo Stato Indipendente di Croazia potesse annettere tutta la Dalmazia italiana ad eccezione di
Zara. Fu una pugnalata alle spalle da parte della Germania e della Croazia all’Italia agonizzante, massimamente
se si considera che l’Italia, pur scontrandosi più volte con gli ustascia per difendere Ebrei e Serbi, aveva aiutato
la Croazia a raggiungere l’indipendenza. Da allora l’Italia non tornò più a Spalato che cadde in seguito in potere
di Tito e più recentemente della nuova Croazia indipendente. Oggi a Spalato rimane una sparuta comunità
italiana cui Zagabria eroga col contagocce dei diritti malgrado l’assoluto rispetto e l’ottima tutela che l’Italia
concede alle sue minoranze (tra le quali, nello specifico, la piccola comunità croata del Molise, però allogena
a differenza degli Italiani di Spalato).
Domenico Verta
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Il bolscevico del Littorio:
Asvero Gravelli
Bresciano, classe 1902, Asveroglio (Asvero) Gravelli apparteneva alla buona borghesia d’inizio ‘900.
Nonostante la sua condizione sociale lo collocasse più nei “gialli” che nei “rossi”, sin da giovanissimo Gravelli
manifestò un vivo interesse per le condizioni del proletariato e industriale e, in barba a Carlo Marx, contadino
mostrando di avere profondamente a cuore il popolo lavoratore sovente vessato dalle angherie dei capitalisti
sempre tenendo conto della situazione dell’Italia e dei suoi problemi come Nazione. Era, insomma, in base a
quanto stava avvenendo in ambito alle Avanguardie ed al profondo ripensamento in seno al movimento
socialista, un socialista nazionale. Dopo aver ottenuto la licenza media, preferì interrompere gli studi ed entrare
alla Marelli di Sesto San Giovanni come tornitore.
Si avvicinò alla politica attraverso un gruppo che si ispirava al grande sindacalista rivoluzionario Filippo
Corridoni, operando dunque una piena sintesi tra destra e sinistra. Interventista, non poté partecipare alla
Grande Guerra per via della giovane età. Il 23 marzo 1919 rispose all'appello di Benito Mussolini, aderendo al
Fascio primigenio; subito dopo dette vita al Fascio di Brescia e divenne un acceso squadrista nella Squadra
d’Azione “La Volante” di Sesto. Nell'aprile dello stesso anno aderì alla Lega Antibolscevica, associazione
composta da reduci della Grande Guerra e da studenti d’orientamento nazionalista fondata dal Capitano Angelo
Tumidei a Bologna pur avendo idee socialiste rivoluzionarie poiché reputava un orrore l’avversione comunista
per il concetto di Patria. Fu tra i protagonisti dell'assalto alla sede dell’”Avanti!“ a Milano e in novembre venne
arrestato durante i violenti scontri tra socialisti e fascisti. Rimase in carcere fino al marzo 1920: non aveva
neanche diciotto anni. Uscito di prigione, riprese i contatti con Mussolini e con il Fascio milanese. Per le idee
che lo infiammavano la sua adesione ai Fasci di Combattimento fu coerente e naturale come pure quella al
movimento legionario fiumano. Raggiunse, infatti, Fiume liberata qualche tempo prima da Gabriele d’Annunzio
e fu Legionario nel XXII Reparto d’Assalto; vi trascorse, però, solo pochi mesi, per poi tornare a Sesto San
Giovanni dove fu l'animatore del Fascio locale. A Fiume costituì delle organizzazioni che educassero e
irreggimentassero la gioventù, le Avanguardie Giovanili.
In questo periodo Gravelli fece amicizia con il sindacalista rivoluzionario calabrese Michelino Bianchi, del quale
divenne segretario. Per l’affinità ideale che lo accomunava a sé e per le sue doti organizzative, il futuro
Quadrumviro si adoperò attivamente per farlo nominare Vicesegretario dell’Avanguardia Giovanile Fascista,
antenata dell’Opera Balilla, riuscendovi nel gennaio del 1922; nel frattempo aveva iniziato a collaborare
a “Giovinezza”, settimanale dell'Avanguardia Studentesca dei Fasci di Combattimento, l'organismo dalla quale
era nata l’Avanguardia Giovanile. Altra sua rivista fu “Giovine Italia”. Dimostrò presto di essere una raffinata
penna.
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Il Gravelli non poté partecipare alla Marcia su Roma dell’ottobre del 1922 poiché l'evento lo sorprese in carcere,
dov'era finito per "propaganda fascista" mentre stava facendo il servizio militare tra i Bersaglieri.
Era ormai uno dei capi principali del movimento giovanile fascista e per questo venne chiamato, nell'ottobre
1923,a far parte del Direttorio Nazionale del PNF, l’organismo chiamato in quel momento a ricomporre le
divisioni provocate in seno al Partito dalle diatribe esplose durante quell’anno tra la componente “intransigente”
e quella “revisionistica”: la prima intendeva perpetuare la Rivoluzione Fascista e lo squadrismo più puro
abbattendo totalmente quanto restava del vecchio Stato liberale mentre la seconda era costituzionalista ossia
vedeva di buon grado l’inserimento del Fascismo nel sistema liberale e accettava l’istituto monarchico mentre
i fascisti più intransigenti erano repubblicani. Gravelli era un intransigente ma in questa fase mostrò spirito
equo e volontà conciliatrici nei confronti delle varie anime del PNF.
La crisi Matteotti segnò per il Bresciano l'inizio di un periodo di eclissi politica: venne allontanato prima
dall'incarico di Ispettore Generale dell’Avanguardia Giovanile e poi dalla direzione. I motivi del suo siluramento
sono da ricercarsi nella eccessiva vicinanza con alcuni dei personaggi coinvolti nel delitto Matteotti, in specie
con l’acceso “Ras” della Lomellina, Cesare Rossi, al quale lo legava un rapporto di dipendenza, considerato
che “Giovinezza” era fra i periodici finanziati con i fondi dell'Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio.
Gravelli fu inoltre più volte fiduciario di Rossi per alcune commissioni come quella avvenuta nell'aprile 1924 a
Milano e conclusasi con la feroce aggressione dei sanguinari Albino Volpi e Amerigo Dumini ai danni proprio di
Forni. L'aggressione venne condotta a termine con il ricorso a un gruppo di Arditi fascisti milanesi che, come
si seppe in seguito, formavano il nucleo originario della cosiddetta Ceka fascista, allora in fase di costituzione.
La Ceka altro non era che una sorta di milizia segreta del PNF della quale Mussolini si serviva per azioni di
spionaggio, controspionaggio e repressione di dissidenti e di oppositori. Trasse il nome dalla Polizia Segreta di
Stato sovietica e diede in seguito origine all’OVRA, Opera di Vigilanza e di Repressione dell’Antifascismo, la
quale fungeva anche da servizio segreto del Partito.
Dopo il suo allontanamento da tutte le cariche ufficiali ricoperte in seno al Partito Nazionale Fascista, il
Bresciano si diede a un'intensa attività pubblicistica, con una serie di lavori mirati all'esaltazione della gioventù
fascista e alla costruzione dei suoi miti curando, al contempo, insieme con il pedagogo Aristide Campanile,
alcune monografie di carattere agiografico relative a temi cari alla cultura fascista.
Nell'aprile 1929 uscì il primo numero di “Antieuropa”, periodico diretto da Gravelli che certamente godeva del
sostegno di Arnaldo Mussolini. Accompagnò l'uscita di “Antieuropa” con quella di un supplemento, ”Ottobre”,
poi trasformato in quotidiano.
Nel primo editoriale Asvero Gravelli indicava nella "rinnovazione della non tranquilla Europa" la missione del
Fascismo: egli assegnava al Regime il ruolo di apripista nella costruzione di un Fascismo sovranazionale,
ispirato da Roma, che rappresentasse un modello per tutti i Paesi europei, una "terza via" tra capitalismo e
comunismo, tra l'esperienza rivoluzionaria di stampo sovietico e la crisi irreversibile che sembrava aver investito
i più forti regimi liberaldemocratici. Con ciò dimostrava buon fiuto e tempismo nel cogliere i primi segnali della
svolta che Mussolini andava imprimendo al Regime alla fine degli anni Venti, quando, abbandonata la
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tradizionale cautela nel delineare le prospettive del Fascismo - fino ad allora, a suo dire, prodotto "autoctono"
e non esportabile - il Duce avrebbe cominciato a fare esplicito riferimento ad esso come a un modello antitetico
ai regimi capitalistici e liberali nonché al Bolscevismo e perciò da imitare, unica, autentica alternativa ideologica
e politica a Mosca da una parte e a Londra e a Parigi dall’altra. In questa temperie “Antieuropa” e “Ottobre”
vennero quindi unanimemente considerati come portavoce ufficiali del nuovo indirizzo del Regime.
La rinnovata sintonia con le linee di manovra di
Mussolini significò per il Bresciano una ritrovata
legittimazione in seno agli organi del Fascismo. Agli
inizi degli anni Trenta venne nominato Console della
Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e membro
del
Direttorio
Anticapitalista,
della
Federazione
antimassonico,
dell'Urbe.
antiborghese,
antiliberale e antiautoritario, divenne antinazista
quando il Nazionalsocialismo di Adolf Hitler cominciò
ad acquistare peso politico in Germania: delle Camicie
Brune, malgrado l’origine sociale e nazionale del
NSDAP, aborriva il feroce razzismo, la cieca violenza e
le mire egemoniche che considerava pericolose per il
Fascismo e per l’Italia. Il suo sogno di un Fascismo
faber novae Europae e guida di tutti i movimenti
patriottici e sociali del continente e quindi del mondo
intero parve concretizzarsi qualche anno dopo, nel
1934 con la creazione dei Comitati d’Azione Universali
di Roma (CAUR) anche se i Comitati, dopo qualche
anno di attività, non diedero i frutti sperati per via dei
caratteri fortemente nazionali dei movimenti che si ispiravano al Fascismo italiano (e per i tratti fortemente
italiani del Fascismo stesso di Mussolini), per il velato sabotaggio del Nazionalsocialismo tedesco (che, pur
ispirandosi al Fascismo italiano, non aderì ai CAUR e contestò alle Camicie Nere il ruolo di movimento guida
delle forze politiche tese alla terza via) e per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939. L’azione del
Gravelli fece sì comunque che i movimenti di tipo fascista dei Balcani e, in misura minore, la Falange spagnola
dessero al Regime di Mussolini un primato con ovvie ricadute positive in politica estera per l’Italia mentre tale
azione universale venne estesa anche ad alcune Repubbliche latinoamericane, al Giappone, all’India, agli Stati
Uniti d’America ed al mondo musulmano. Tutto sommato il Bresciano non fu troppo severo nei confronti
dell’URSS: se la Repubblica dei Soviet veniva sì vista come una concorrente ideologica e politica del Regime
mussoliniano con il suo internazionalismo e con la sua variante leninista e stalinista del Marxismo e ne
denunziava di tanto in tanto gli orrori, in essa vedeva, sia pur implicitamente, un’avversaria delle democrazie
e del capitalismo e quindi un’utile “amica”. Come alcuni antifascisti riconciliatisi col Regime quali il rivoluzionario
Nicolino Bombacci, fondatore del PCdI, e alcuni fascisti di sinistra quali Berto Ricci (intellettuale), Mino Maccari
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(artista), Stanis Ruinas (intellettuale), Mario Gramsci (militare e fratello del più celebre Antonio), Giorgio Pini
(caporedattore de “Il Popolo d’Italia” e poi Sottosegretario all’Interno della RSI) ed in parte Niccolò Giani
(fondatore della Scuola di Mistica Fascista), Gravelli riconosceva inoltre velatamente la comunanza d’origini tra
Fascismo e Bolscevismo vista, sia pur in modo ancestrale, nel Socialismo. Se le divergenze tra Fascismo e
Comunismo erano innegabili e la rivalità ideologica tra Roma e Mosca indiscutibile, non tutti sanno che i
rapporti tra Italia e Russia tra le due guerre furono sostanzialmente buoni. Nel 1924 l’Italia fu il primo Paese
al mondo, salvo la non più esistente Reggenza Italiana del Carnaro, a riconoscere la Russia Sovietica a livello
diplomatico mentre Lenin aveva elogiato pubblicamente Mussolini (e d’Annunzio) qualche anno prima. Nel
1933 si ebbe un trattato d’amicizia e cooperazione economica tra i due Paesi; ruolo cruciale nei contatti tra la
Prima e la Terza Roma ebbe Nicolino Bombacci. Nel 1929 si ebbe una trasvolata italiana ad Odessa e il
comandante Italo Balbo fu ricevuto con tutti gli onori da un reparto dell’Armata Rossa mentre tra gli anni Venti
e Trenta si ebbero in Italia missioni aeronautiche sovietiche nonché del PCUS per studiare le bonifiche dell’Agro
Pontino. Agli inizi degli anni Trenta i nostri diplomatici presenti in Ucraina segnalarono l’Holodomor, l’olocausto
del popolo ucraino voluto da Stalin che fece otto milioni di vittime ma Mussolini non usò questo crimine
sovietico per la propaganda anticomunista. Benché contraria all’intervento italiano in Etiopia (e nel Paese
africano vi avesse inviato degli agenti del COMINTERN in funzione antifascista), nel ’35-’36 l’URSS rifornì
regolarmente l’Italia di nafta e di acciaio.
Dicotomicamente Gravelli individuò il "vecchio”, rappresentato dal sistema liberale e dalla democrazia
parlamentare e il "nuovo”, rappresentato dal Fascismo. Si fece promotore di un appello volto "all'unione delle
forze giovanili d'Occidente” e chiamò a collaborare ad “Antieuropa” e al suo supplemento studiosi e pubblicisti
socialnazionalisti di ogni parte d'Europa. Per l’affermazione del Fascismo sovranazionale Asvero Gravelli non
"puntava tanto sui mutamenti istituzionali quanto su una trasformazione spirituale degli europei" come osservò
lo storico e giornalista americano Michael Ledeen. Sul piano propagandistico e organizzativo Gravelli compì
numerosi viaggi in Europa e incontrò i rappresentanti di forze affini al Fascismo mentre “Antieuropa” apriva
propri uffici nelle maggiori città europee, grazie a ingenti disponibilità finanziarie messe a disposizione dal
Governo fascista. Tali uffici operarono come punti di aggregazione per le forze fasciste o parafasciste dei Paesi
ospitanti.
Solo dopo un paio di anni dall'uscita dei due periodici, tuttavia, il Bresciano cominciò a riferirsi esplicitamente
a una "Internazionale fascista”, con la pubblicazione di Verso l'internazionale fascista (1932), una disamina
molto attenta delle forze e dei movimenti europei di ispirazione fascista o affini al Fascismo.
Egli considerava tali tutti quei movimenti che si definivano antidemocratici, anticomunisti e antimassonici ma,
consapevole dei differenti contesti politici, culturali e storici dai quali questi erano scaturiti, cercò di trovare un
comune denominatore per cui l'Internazionale fascista da costruirsi veniva definita come una "Internazionale
di movimenti paralleli" ossia un’"Internazionale di nazionalismi”, il cui collante sarebbe stato costituito da
affinità, istanze ed esigenze comuni presenti naturalmente tra i popoli che avessero tutti liberamente accettato
le idee fasciste. Le identità nazionali e le istanze sociali dei vari Paese sarebbero state rispettate sia pur sotto
le insegne del Littorio. Gravelli riteneva incompatibili anzi antagonisti Fascismo e Nazionalsocialismo. Come
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suddetto, non subì il fascino del Nazismo che considerava un ostacolo all'affermazione del primato di Roma e
alla missione universale del Fascismo italiano ancor più del Comunismo. Non mancò, inoltre, di manifestare
pubblicamente ostilità all'antisemitismo osteggiando le leggi razziali. Dal Nazismo venne ripagato con la stessa
moneta tanto che nelle sue iniziative a carattere europeo furono puntualmente assenti i rappresentanti del
Nazionalsocialismo.
“Antieuropa” dedicò anche ampio spazio al cinema con recensioni, interventi di critici e dibattiti; Gravelli, tra
l'altro, si misurò direttamente con la scenografia, firmando alcuni film di successo, in particolare “Giarabub” di
Goffredo Alessandrini (1942). Tentò anche la strada della produzione fondando nel 1929 la Sovrana Films che
ebbe vita assai breve e successivamente, nel 1939, la Littoria Film.
La diffidenza di Gravelli per il Nazionalsocialismo può spiegare il declino suo e delle sue iniziative a partire dalla
metà degli anni Trenta.
Il Bresciano ebbe sentore della nuova fase critica dei suoi rapporti con Mussolini e con il Regime in quanto il
Duce, costituendo i Comitati d’ Azione per l’Universalità di Roma, lo ignorò chiamando a dirigerli Eugenio
Coselschi, già Legionario fiumano e Attendente di D’Annunzio nella Città di Vita. La trasformazione
di “Ottobre” da supplemento a quotidiano, nel febbraio 1934, può essere interpretata come una reazione alla
mancata nomina. Intensificò pure la produzione pubblicistica e videro la luce diversi suoi lavori, tra cui
primeggia Panfascismo (1935), nel quale trae un primo complessivo bilancio dell'impegno per la diffusione
all'estero dell'ideologia fascista, ribadendo la sua ostilità al Nazionalsocialismo.
Anche per fronteggiare una situazione politica personale sempre più precaria, Asvero Gravelli si arruolò
volontario nella Guerra d’Etiopia (V Divisione CCNN “I Febbraio” comandata dal Luogotenente Generale Attilio
Teruzzi) ma le vicende in terra africana contribuirono ad aggravare ulteriormente la sua posizione nei riguardi
del Regime. Per alcuni suoi atteggiamenti venne accusato di viltà e, dopo il rientro anticipato in Italia, si vide
fatto oggetto di aspre critiche da parte delle gerarchie fasciste, segno evidente della progressiva disaffezione
di Mussolini nei suoi confronti. Su queste accuse ci sarebbe da argomentare. La presunta pavidità di Gravelli
non convince in quanto non mancò mai di coraggio personale: in galera per propaganda fascista a diciott’anni
quando non era certo che il Fascismo avesse trionfato (una decisa azione dell’Esercito infatti avrebbe fatto
fallire la Marcia su Roma), Legionario fiumano (il Natale di Sangue fu la prova che l’esperienza non era una
passeggiata), squadrista quando anche le Camicie Nere, nel clima di violenza generale che attanagliò il Paese
nel triennio 1919-1922, lamentavano i loro morti. È molto probabile dunque che queste accuse fossero frutto
dell’ostilità e della gelosia di alcuni gerarchi e di uomini comunque influenti che malvedevano le attività del
Bresciano mentre la voce che lo voleva figlio di un’avventura giovanile del Duce peggiorava la situazione. Tra
questi si annoveravano infatti Giuseppe Bottai, anche lui impegnato intellettualmente, e il giornalista Paolo
Monelli. Secondo questi pur grandi intellettuali del Ventennio, il Bresciano giunse all’Asmara “lacrimante,
battuto e ridotto a uno straccio” ma non fornirono prove serie della sua “vigliaccheria”, né questa risulta dalla
storia della Divisione dove Gravelli combatté. Inoltre successivamente quest’ultimo si arruolò volontario nel
contingente italiano di supporto a Franco combattendo tra i Carristi e guadagnandosi 2 MAVM e una MBVM ed
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in seguito alla caduta di Mussolini e all’armistizio aderì alla Repubblica Sociale Italiana, combattendo prima tra
le SS (29.Waffen-Grenadier-Division der SS “Italia” il cui motto dovette suggestionare Gravelli, nonostante in
passato fosse stato antinazista, ossia “Sacrosanta lotta del sangue contro l’oro-del lavoro contro il capitalismo-
dello spirito contro la materia”) per poi essere nominato sottocapo di Stato Maggiore nella GNR. In quel
momento l’Asse non stava di certo vincendo la guerra.
Tra agosto e settembre 1936, per ordine del Duce, furono sospese le pubblicazioni di “Ottobre” e
di “Antieuropa”. Venendosi a trovare in una situazione particolarmente difficile, nel novembre 1936 Gravelli
andò nuovamente in guerra arruolandosi nel Corpo Truppe Volontarie in partenza per la Spagna. Qui ebbe
modo di comportarsi valorosamente riabilitandosi, almeno in parte, agli occhi di Mussolini. Il Duce forse lo
considerava, più che un pavido, al contrario una testa calda, un fascista rivoluzionario che mal s’adattava
all’imperante militarismo che si ebbe nel Regime dalla conquista dell’Etiopia in poi, portato al parossismo dalle
disposizioni del Segretario del Partito Achille Starace.
Sebbene “Antieuropa” riprendesse le pubblicazioni, i caratteri di originalità che l'avevano contraddistinta
apparvero seriamente compromessi. Le ferite riportate nella Guerra Civile Spagnola impedirono al Gravelli di
partecipare al conflitto mondiale. Difficile poter dire se plaudì o meno al Patto Ribbentrop-Molotov al quale
l’Italia si trovò comunque collegata: da una parte non dovette sfuggirgli il carattere antidemocratico ed
antioccidentale del Patto, dall’altra l’”asse” Berlino-Mosca gli sembrò senz’altro un tradimento dei Tedeschi nei
confronti degli Italiani e dei Giapponesi. La caduta di Mussolini ne comportò l'arresto e la detenzione a Forte
Boccea. Liberato dai Tedeschi, aderì con entusiasmo alla Repubblica Sociale Italiana, vista come creazione
politica pienamente rivoluzionaria. Venne chiamato a far parte del Tribunale Provinciale Straordinario di
Venezia in veste di avvocato, anche se non risulta chiaro quando e come fosse riuscito a completare quegli
studi che aveva abbandonato dopo la licenza media.
Con la seconda fase della guerra l'entusiasmo per le armi tedesche e per il Nazismo prese il posto della sua
antica diffidenza, in quanto il Reich veniva in quel momento giudicato dal Gravelli come un alleato prezioso
del nuovo Fascismo Repubblicano. Entrò a far parte della Waffen-Grenadier-Division “Italia”; a Milano si dette,
inoltre, a organizzare spettacoli teatrali e proiezioni cinematografiche per le truppe tedesche. Nel marzo 1945
venne nominato Sottocapo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana. Catturato dai partigiani,
restò in prigione fino al 1947, allorché fu liberato in seguito all'amnistia generale voluta dall’allora Ministro
della Giustizia Palmiro Togliatti.
Nel dopoguerra si avvicinò al Movimento Sociale Italiano per allontanarsene quando il partito finì nelle mani
del moderato Arturo Michelini ed assunse, a tratti, carattere fortemente borghese nonché, in politica estera,
posizioni filoamericane. Nel 1950 dette vita all’”Antidiario”, in seguito al mensile “Latinità” e all'Editrice Latinità.
Cercò anche di fondare un partito, il Movimento Legionario Italiano, rimasto tuttavia allo stato di progetto.
Esso si ispirava esplicitamente alla parabola politica di D’Annunzio seguita al primo conflitto mondiale e al
Fiumanesimo.
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Asvero Gravelli morì a Roma il 20 ottobre 1956. Alcune leggende vedevano in
lui un figlio illegittimo di Mussolini mentre la soubrette Patrizia De Blanck
dichiarò in passato di essere figlia del Bresciano. Non si hanno però prove
concrete a sostegno di queste voci. Per i temi che ci riguardano e di fronte
all’attuale desolazione politica, il progetto di un Movimento Legionario risulta
oltremodo interessante. A sessant’anni dalla morte Gravelli risulta poco
conosciuto ed è un peccato poiché il suo “socialismo patriottico” potrebbe essere tuttora attuale in un’Europa
che, a livello istituzionale, sembra aver dimenticato valori quali la Patria, il lavoro, il sociale per
l’internazionalismo bancario, lo sfruttamento capitalista, l’individualismo; non pochi partiti e movimenti politici
del Vecchio Continente, pur ignorando forse la figura di Gravelli, sembrano aver ripreso le sue “ricette” ed
alcuni temi dell’”Antieuropa” senza essere per questo fascisti o neofascisti in una sorta di convergenza
evolutiva, segno che questa Europa senza identità nazionali e senza fondamenti popolari a molti non piace.
Il destino beffardo volle che a scrivere su “Antieuropa” ci fosse anche colui che sognava un’Europa totalmente
diversa da quella che voleva il Bresciano e che poi ispirò considerevolmente quella attuale: Richard Nikolaus,
Conte di Koudenhove-Kalergi.
Domenico Verta
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Stoccata Finale
Volo di D Annunzio a Trieste
Cecco Peppe: Mancia di 20.000 Corone a chi lo prende vivo o morto.
Guardia: Come fare a prenderlo?... Mettigli il sale sulla coda.
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