LA VOCE IRREDENTISTA Bollettino del Movimento Irredentista Italiano Numero 36 Immagine del Mese 26 Ottobre 1954 26 Ottobre 2016 62° Anniversario della seconda redenzione di Trieste 2 Editoriale Molte le vicende che, in questi ultimi due mesi, ci hanno toccato direttamente come Movimento: dal vilipendio di Treviso in offesa ai Martiri delle Foibe fino alle oltraggiose celebrazioni di terroristi separatisti per arrivare, infine, alla questione Altoatesina dove, in occasione del prossimo referendum costituzionale, si sta organizzando un voto di scambio vero e proprio tra il governo e l’SVP. Sul piatto il sì al referendum di quest’ultimo in cambio della cancellazione di un elevato numero di toponimi italiani in Alto Adige. Come sempre fatto, rispondiamo puntualmente con due interventi all’interno di questo numero della Voce per silenziare, per l’ennesima volta, le velleità separatiste tedescofone in Alto Adige, fantasiosamente sostenute da pretese di germanicità dell’intera provincia bolzanina. L’occasione delle celebrazioni del sanguinario terrorista Amplatz è stata utile anche per commemorare, nel 50° anniversario della strage, i nostri caduti di Malga Sasso, uccisi in un tragico attentato per mano dei separatisti tedescofoni altoatesini. Una storia sconosciuta ai più e che, al contrario, deve appartenere all’intero popolo italiano. Molte le ricorrenze che meriterebbero di essere citate, dal tragico 8 settembre, su cui il Movimento si è sempre espresso chiaramente, al ricordo dei primi Martiri delle Foibe nel triste settembre 1943, dalle recenti celebrazioni per l’uccisione di Norma Cossetto a quelle per il prossimo anniversario della seconda redenzione di Trieste (ricordato per l’occasione nell’immagine del mese). Il lavoro del Movimento Irredentista è in continua crescita ed espansione sul territorio. Due, pertanto, le comunicazioni che il Consiglio Direttivo ha deciso di pubblicare. Considerata l’enorme mole di lavoro di cui il Movimento si è fatto carico nel corso del tempo, ed il continuo bisogno di nuove forze, il Consiglio Direttivo rende nota la possibilità, per chiunque sia desideroso di contribuire alla redazione de “La Voce Irredentista”, nonché dei siti collegati, da quello ufficiale alla Biblioteca Irredentista fino all’Archivio “Patria Italia”, di entrare a far parte dell’Ufficio editoriale del Movimento Irredentista. La scelta, peraltro in linea con quanto sempre fatto, visto il carattere di “laboratorio” che si è voluto dare alla Voce, ossia aperta a tutti i patrioti volenterosi e preparati, vuole avere l’obiettivo di portare l’Ufficio ad avere una maggiore organicità, al fine di rispondere adeguatamente alle sfide sempre più ambiziose che si presentano innanzi a noi. Questa prima scelta, si riallaccia direttamente alla seconda decisione deliberata dal Consiglio Direttivo. Coerentemente con i propri valori che ne hanno ispirato l’azione sin dall’atto della fondazione il 24 Maggio 2011, il Movimento Irredentista Italiano intende continuare a promuovere il proprio atto di Fede in continuità con i patrioti e gli eroi nazionali del passato. Pertanto, dal 4 Novembre, data che segna l’anniversario della rinascita del popolo italiano risorto a Nazione, il Movimento comunica che sarà avviata la campagna per il tesseramento volontario per l’anno 2017. 3 Ribadiamo il carattere volontario dell’adesione. Così come gli italiani che ci precedettero, indicandoci la via ed arruolandosi volontariamente per contribuire al progetto di unificazione della Patria, alla stessa maniera i patrioti di oggi devono ritrovare nella dedizione senza riserve la propria stella polare. Aderire al Movimento Irredentista Italiano è fare un atto di Fede, è impegnarsi a marciare a testa alta in un deserto di valori ed idee. Aderire al Movimento significa costituirsi parte dell’esigua quanto combattiva schiera di patrioti eredi degli eroi nazionali, strenui difensori della nostra storia e dell’autentica italianità, dentro e fuori i confini d’Italia. Non promettiamo cariche, prebende o poltrone. Il nostro pane quotidiano continuerà ad essere il duro lavoro, il sacrificio, l’umiltà, l’impegno puro e disinteressato per un fine più alto: custodire ed alimentare il flebile fuoco dell’italianità, luce per il cammino della nostra Comunità Nazionale sempre più minacciata nella sua sopravvivenza. Probabilmente noi non vivremo abbastanza per vedere il Sole risorgere sulla nostra Nazione. Se il destino ci ha riservato l’ingrato quanto fondamentale compito di tenere acceso il fuoco sacro dell’ideale in questi tempi oscuri, è nostro dovere continuare imperterriti nella lotta affinché, quando la storia presenterà nuovamente l’occasione, coloro che verranno dopo di noi si dimostrino degni di vedere di nuovo sorgere il Sole. A noi l’onore e l’onere di resistere in questa apparentemente interminabile notte. Il Consiglio Direttivo del Movimento Irredentista Italiano 4 Sommario IL LAVORO DEL MOVIMENTO 6 ITALIA SUDTIROLO: LA MISTIFICAZIONE 8 IN MEMORIA DEI CADUTI DI MALGA SASSO 12 STORIA OMBRE ROSSE SULLA DALMAZIA: L’INVASIONE TITINA DI SPALATO 15 IL BOLSCEVICO DEL LITTORIO: ASVERO GRAVELLI 21 STOCCATA FINALE 28 5 Il lavoro del Movimento Lo scorso 17 settembre, il Movimento Irredentista Italiano è intervenuto al convegno “Arrivarono i liberatori – I crimini di guerra alleati nel meridione”. L’incontro, svoltosi a Bellante (TE), presso la sala consiliare del Municipio, ed organizzato insieme agli amici dell’Associazione Culturale Nuove Sintesi ed Unione Socialismo Nazionale, è pienamente riuscito. L’intervento realizzato dal Movimento si è concentrato nell’offrire ai numerosi presenti una disamina storico-politica dei crimini angloamericani compiuti nel Meridione d’Italia durante la seconda guerra mondiale. Cinque i punti di vista esaminati nell’affrontare il tema. Primo aspetto chiamato in causa, il ritorno della mafia in Sicilia. Cosa Nostra, sconfitta dal Fascismo e dall’energica azione del prefetto di ferro Cesare Mori, tornò trionfante in Sicilia al seguito dell’invasione angloamericana. L’accordo stipulato dall’Office of Strategic Services degli Stati Uniti con il boss Lucky Luciano, spianò la strada all’invasione alleata nel meridione, fornendo mafiosi affidabili in quanto a logistica, supporto e spionaggio, oltre che come funzionari ed interpreti durante il governo militare alleato. Un secondo aspetto affrontato ha riguardato le stragi di civili e di prigionieri di guerra compiute dagli invasori alleati. Biscari, Comiso, Passo di Piazza, Vittoria sono solo alcune delle località in cui gli anglo-americani massacrarono senza alcun motivo, ed in spregio alla Convenzione di Ginevra, decine di civili italiani innocenti e soldati italiani e tedeschi arresisi e catturati. Terza questione citata: i campi di prigionia alleati. La letteratura postbellica ha dedicato numerosi testi e saggi ai campi di prigionia italiani e tedeschi ma poco a quelli alleati. Eppure in molti di questi, da Padula ad Afragola, da Taranto a Siracusa, fino ad arrivare al nord Africa ed al Fascists’ Criminal Camp di Hereford, nel Texas, i prigionieri subirono percosse, torture, malnutrizione e fucilazioni sommarie. Menzione particolare per il campo di Hereford, dove molti soldati si rifiutarono di combattere al fianco degli anglo-americani, pur potendo ottenere l’immediata scarcerazione, preferendo restare fedeli al proprio onore di soldati. Quarto piano di lettura quello dei bombardamenti terroristici alleati. Il Meridione venne bombardato dagli anglo-americani in lungo e in largo tra il settembre e l’ottobre del 1943, per tagliare le vie di ritirata ai tedeschi, i quali non si curarono troppo di colpire la popolazione civile o di mitragliare colonne di civili in fuga dal fronte. Intere città come Foggia, Benevento, Avellino, Napoli e Salerno vennero quasi rase al suolo per intero, provocando decine di migliaia di vittime. A questo si aggiunse il criminale bombardamento dell’abbazia di 6 Montecassino, al pari dei bombardamenti terroristici scatenati sulle città del nord, al solo scopo di colpire la popolazione civile, minarne il morale e lo spirito di resistenza, spargendo morte, terrore e distruzione. Ultimo aspetto affrontato, quello che forse più direttamente ha toccato l’animo dei presenti, è stato quello degli stupri commessi dagli invasori, in particolare dai goumier del Corpo di Spedizione Francese in Italia (CEF). Decine di migliaia di donne vennero stuprate sistematicamente dalle truppe coloniali francesi, i quali agirono con l’acquiescenza dei quadri francesi, seminando il terrore in tutto il Meridione fino ad arrivare alle porte di Firenze nell’agosto del 1944, quando il CEF venne inviato in Provenza. Non vennero risparmiati nemmeno uomini, vecchi e bambini, i quali andarono incontro a stupri, pestaggi, torture, razzie e, in molti casi, uccisioni indiscriminate. Molte donne rimasero incinte e contrassero malattie veneree, la gran parte venne emarginata, marchiata, isolata, trovando difficoltà nel contrarre matrimonio o guadagnarsi un posto di lavoro. Molte non ressero l’onta delle violenze subite e si suicidarono. Al danno si aggiunse la beffa del ridicolo risarcimento concesso a riparazione delle offese subite. Una ferita non ancora rimarginata nelle terre del meridione d’Italia. La riflessione conclusiva, a seguito del gradito intervento del Serpentini prof. che ha invitato a fare tesoro di quanto detto per proseguire nel percorso di revisione corretta della storia patria, ha voluto sottolineare l’indignazione dei presenti un per presidente repubblica marzo della che, 2014, nel in occasione del 70° anniversario della distruzione dell’Abbazia di Montecassino, ebbe il coraggio di definire quelle bombe assassine come liberatrici, al pari di un presidente del consiglio che nel maggio 2015, al cimitero dei soldati anglo-americani a Falciani (Firenze), ha avuto il coraggio di ringraziare le truppe alleate per averci “liberato”, definendole i migliori amici del popolo italiano. Offese, queste, non solo alla verità storica, ma anche alla memoria delle centinaia di migliaia di italiani che patirono enormi sofferenze e trovarono la morte per mano degli invasori a stelle e strisce che, ancora oggi, operano indisturbati sul suolo italiano con decine di basi, migliaia di soldati e armamenti nucleari. Un ringraziamento agli amici dell’Associazione Nuove Sintesi per l’ospitalità e la consueta accoglienza, calorosa nell’occasione come negli incontri passati organizzati insieme al Movimento Irredentista Italiano. 7 Sudtirolo: la mistificazione Il cosiddetto “Südtiroler Heimatbund” (“lega della patria altoatesina”) ha annunciato che a novembre farà affiggere a Roma un migliaio di manifesti recanti la scritta “Il Sudtirolo non è Italia” (nella foto a lato), per ribadire che la maggior parte degli altoatesini tedescofoni vogliono l’autodeterminazione e la secessione dell’Alto Adige dall’Italia. A parte la bizzarria dell’affermazione, c’è da dire che il termine “Südtirol”, indicato per definire il territorio compreso tra il crinale alpino e Salorno, è completamente inventato perché storicamente non è mai esistito un tal territorio, con una propria autonomia politica o amministrativa, prima del 1927 quando l’Italia creò la provincia di Bolzano separata da quella di Trento. Infatti, il termine “Südtirol” fu usato per definire il trentino e per ribadirne la tirolesità dopo che i trentini, nel 1848, guidati dalla loro borghesia urbana, proclamarono il “Los von Innsbruck”, per staccarsi dal Tirolo ed essere annessi al Lombardo-Veneto. Facciamo un passo indietro e riportiamo brevemente, ad uso e consumo degli austriacanti de noantri, la storia dell’Alto Adige, chiamato sin dall’antichità “La terra lungo l’Adige e tra i monti”. Inizialmente, l’odierno Alto Adige era abitato dai reti, una popolazione di origine etrusca, che furono prima romanizzati e poi germanizzati dai baiuvari. In seguito, il territorio fu diviso tra i principi vescovi di Trento, Bressanone e Coira. I Tirolo, una sorta di veri e propri pirati, con tutta una serie di usurpazioni si appropriarono dei territori dei principi vescovi. Nel 1363, ci fu quello che la vulgata austriacante chiama il regalo di Margherita di Tirolo agli Asburgo. Niente di più falso. Fu Giovanni Lenzburg di Platzheim, consigliere di Rodolfo IV d’Asburgo, a stilare un falso testamento a nome di Margherita. Fu così che il Tirolo passò agli Asburgo. Non all’Impero asburgico, sia ben chiaro, ma divenne un feudo privato della famiglia Asburgo. Fu solo nel 1814 che passò alle dipendenze dell’Impero. Alla domanda dunque, perché l’Alto Adige (non il Tirolo, perché il Tirolo storico va da Kufstein a Borghetto, vicino Verona) dovrebbe essere italiano, la risposta è semplice, perché è italiano, cioè perché prima era retoetrusco, poi latino, poi baiuvaro, poi appartenente ai principati vescovili, poi dei Tirolo, poi possedimento privato degli Asburgo, poi appartenente all’Impero austro ungarico e infine italiano. Ogni volta che passava di mano in mano, i conquistatori portavano la loro cultura e la loro lingua. Se vogliamo parlare di situazioni più recenti e di presenza della popolazione italiana in Alto Adige, cioè se vogliamo ricercare il famoso confine 8 linguistico tra il cosiddetto Tirolo tedesco e quello italiano, dobbiamo andare alla divisione del Tirolo, quando, nel 1811, è stato creato da Napoleone il Regno Italico. La diplomazia bavarese e quella italica disegnarono iln confine basandosi esclusivamente su criteri linguistici. Per cui il confine fu posto, a spanne, circa un’ottantina di chilometri più a nord di dove gli austriacanti lo hanno rivendicato dal 1866 in poi cioè a Salorno. Il confine fu posto circa all’altezza di Merano, Bressanone e Pusteria. Per cui, sicuramente, fino a queste località la popolazione prevalente era quella tedescofona, mentre a sud era italofona, Bolzano e bassa atesina comprese. A Salorno c’è una stretta, cioè una specie d’imbuto che rende il territorio difendibile. Cioè un confine naturale. Gli austriaci, a colpi di tedeschizzazione forzata, cercarono di spostare il confine linguistico in modo che combaciasse con quello naturale, in modo da poterlo rivendicare con un certo diritto nel caso che l’Austria avesse dovuto cedere nuovi territori. Non dimentichiamo che nel 1866, l’Austria perse anche Venezia e l’ultimo cuneo di penetrazione in Italia rimase l’attuale Trentino Alto Adige, per cui cercò di spostare il confine linguistico più a sud, per cercare di mantenere perlomeno l’odierno Alto Adige. Il Trentino fu trasformato in una sorta di campo trincerato, in cui il gruppo linguistico italiano venne sempre più ostacolato e osteggiato. Anche in Alto Adige, in cui stava diventando sempre più massiccia la presenza italiana, l’Austria intraprese un’azione tedeschizzatrice, soprattutto a Bolzano e in quella zona compresa tra i paesi di Laives e Salorno detta Bassa Atesina. Questo perché, paventando di doversi ulteriormente ritirare verso nord, Vienna, come appena visto, decise di trasformare, a tutti i costi, in linguistico il confine naturale della chiusa dell’Adige posta sulla stretta di Cadino. Della massiccia presenza italiana a Bolzano e nella Bassa Atesina, ne forniscono prova anche numerosi letterati tedeschi, tra cui Christian Schneller, che visse per circa dodici anni a Rovereto e che, nel 1866 nel suo saggio “Die Wälchtirolische Frage”, scrisse: ”Non occorre qui ripetere quanto si è detto più volte e cioè che l’elemento italiano procede irresistibilmente nella valle dell’Adige, ha già inondato Bolzano ed ora giunge alle porte di Merano”. Un esempio della tedeschizzazione di Bolzano è la via Cassa di Risparmio, costruita in stile eclettico con forti richiami neoclassici, neogotici e neobarocchi. La forte immigrazione di popolazione tedescofona dal nord dell’Alto Adige, spinse, dunque, la Cassa di Risparmio, verso la fine del 1800, ad acquistare la residenza Hurlach (l’odierno Museo Civico) con tutto il suo contorno di estesi vigneti, e quindi di costruirvi una lunga strada di oltre quattrocento metri, collegante l’ospedale con via dei Vanga. Se consideriamo che, nel 1842, la popolazione bolzanina ammontava ad ottomila abitanti, mentre circa mezzo secolo dopo, nella sola zona circostante la via Cassa di Risparmio (che fu inaugurata il 2 dicembre del 1892 in occasione del cinquantesimo anniversario di reggenza dell’Imperatore), vivevano ben seimila persone in più, abbiamo netta la percezione delle vastissime proporzioni della politica germanizzatrice attuata dalla monarchia asburgica. Altri due simboli della tedeschizzazione forzata di Bolzano sono la realizzazione della statua di Walther von der Vogelweide, eretta nel 1889 per dimostrare la “tedeschità” di Bolzano in un periodo in cui la città vedeva una sempre maggior presenza d’italiani, e il monumento a Re Laurino, posto oggi in piazza Magnago, lo slargo prospiciente il palazzo della Giunta provinciale altoatesina. Quest’ultima opera rappresenta Teodorico nell’atto 9 di sottomettere il re Laurino, sovrano del piccolo popolo latino delle Dolomiti. Il manufatto fu eretto nel 1907, e rappresenta la forza teutonica che umilia i pavidi italiani. A tal proposito è bene sottolineare come la SVP, con il codazzo di politicanti sedicenti italiani, abbia innescato una guerra ai cosiddetti “relitti fascisti” (Monumento alla Vittoria, bassorilievo di Piazza del Tribunale ecc.), ma ha scordato che i monumenti più sopra citati sono da considerare dei veri e propri “relitti asburgici” che furono edificati quale sfida nei confronti dell’Italia e degli italiani. Questi manufatti rappresentano una provocazione ancor maggiore di quella presunta dei cosiddetti “relitti fascisti”. Difatti, se i monumenti italiani sono una testimonianza storica, in quanto contestuali all’epoca in cui furono costruiti, quelli tedeschi sono una vera offesa, giacché edificati in un’epoca decisamente posteriore ai fatti storici descritti e, cioè, sorti al fine di promuovere un’azione di propaganda filo asburgica ed esclusivamente per dimostrare una superiorità della stirpe germanica. L’opera di snazionalizzazione nella Bassa Atesina del Governo asburgico fu supportata, a partire dai primissimi anni del ventesimo secolo, dal “Tiroler Volksbund”, la “Lega Popolare Tirolese”, fondata nel 1905. Il “Tiroler Volksbund” sviluppò una politica talmente intollerante che il giornale dei cattolici “sudtirolesi”, “Neue Tiroler Stimmen”, nel 1906 stigmatizzò tali metodi affermando che essi non potevano certo: “Giovare all’unità della Provincia e con ciò allo Stato plurinazionale che è l’Austria, nella quale le nazioni più che mai hanno bisogno di vicendevole tolleranza”. Quest’associazione, sin da subito, scatenò un’offensiva contro la presenza italiana fra Bolzano e Salorno, concretizzata specialmente con la realizzazione di asili e scuole tedeschi, in quella zona genuinamente italiana. Il proprio organo, il mensile “Tiroler Wehr” (“La difesa del Tirolo”), divenne rapidamente celebre per il proprio linguaggio iracondo e virulento, con il quale attaccava i giornali trentini definiti: “Luridi cenci di carta, diretti da gente che puzza di nazionalismo e che tradisce l’Impero” . Nella Bassa Atesina, la tedeschizzazione fu realizzata anche con la manipolazione dei censimenti. A Vadena, ad esempio, in quello del 1910 risultò il sorpasso dei tedescofoni (278) sugli italiani (254). In seguito alle vibrate proteste dei deputati trentini al Parlamento, lo stesso Capitanato di Bolzano inviò una nota di dura disapprovazione al Sindaco Zelger che, attraverso vari espedienti, aveva censito come tedeschi numerosi vadenesi di lingua italiana. Venne, poi, concessa una contenuta sanatoria che portò gli italiani a 311 contro 221 tedeschi. Fu, però, allo scoppio della “Grande Guerra” che dalla tedeschizzazione si passò ad una vera e propria persecuzione contro gli italiani. Gli irredentisti furono inviati nei campi d’internamento ed a coloro che riuscirono a fuggire nel Regno d’Italia furono confiscate tutte le proprietà. Tra gli internati ricordiamo Marta 10 Cimadon, la maestra Armida Angelini, e Carlo Lorenzini che morì di stenti nel “Lager” di Mitterndorf an der Fischa nella “Niederösterreich” (Bassa Austria). Affermare, quindi, che “l’Alto Adige non è Italia”, nel senso che non è etnicamente italiano, è un non senso perché, con questo ragionamento, gli unici che, ad oggi, potrebbero rivendicare l’Alto Adige sarebbero i retoetruschi. Giovanni dalle Bande Nere 11 In memoria dei caduti di Malga Sasso Lo scorso 9 settembre ricorreva il cinquantesimo anniversario della strage di Malga Sasso, una tra le più sanguinose compiute dai terroristi altoatesini. La casermetta di Malga Sasso sorgeva sulle pendici del Monte del Sasso, posto sulla destra orografica del fiume Isarco, a 1745 metri d’altezza, in mezzo ad un esteso prato circondato da boschi di conifere, poco distante dal passo del Brennero. Secondo quanto si evince dalla sentenza n. 7/70 R. G., emessa dalla seconda Corte d’Assise d’Appello di Milano il 12 febbraio 1976, l’attacco terroristico fu ideato, organizzato e posto in essere da Georg Klotz con la complicità di Richard Kofler, Alois Rainer e Alois Larch. Secondo la Corte, nel corso della notte dell’otto settembre 1967, Georg Klotz sarebbe penetrato all’interno della casermetta della Guardia di Finanza di Malga Sasso e vi avrebbe introdotto una carica esplosiva innescata con un congegno ad orologeria, mentre i suoi complici lo avrebbero atteso poco distante dall’edificio militare. Alle 11 del mattino del 9 settembre 1966, l’ordigno deflagrò. La terribile esplosione fece completamente crollare il muro maestro, spesso 60 cm, del lato esposto a nord/ovest in corrispondenza dell’ufficio e abbatté la parete divisoria fra l’ufficio e la cucina. Il tetto, eretto in lastre d’ardesia, volò via in corrispondenza della cucina, dell’ufficio e di una camerata. La soglia e la mazzetta Figura 1 - La caserma dopo l’esplosione dell’ordigno della finestra dell’ufficio furono polverizzate, mentre l’inferriata fu scagliata a 18 metri di distanza. Le brande della camerata furono torte e scaraventate via. Alcuni detriti furono lanciati fino a 50 metri di distanza. Nell’attentato perirono la guardia di finanza Martino Cossu, ventenne sardo di Lugosante in provincia di Sassari, Il vicebrigadiere altoatesino di lingua tedesca, Herbert Volgger, e il sottotenente Franco Petrucci. Herbert Volgger fu investito in pieno dalla violenza dello scoppio e massacrato. Il sottufficiale fu trasformato in una torcia umana e proiettato dall’ufficio alla cucina attraverso il varco costituito dal divisorio abbattuto. Indosso gli erano rimasti, intorno all’inguine, solamente alcuni brandelli di tessuto dei suoi indumenti e il suo corpo, completamente carbonizzato, mostrava nella parte anteriore estesi crateri contenenti miriadi di schegge. 12 Cossu fu travolto dalla parete interna dell’ufficio che era piombata in cucina, rimanendo incassato fra il muro e la radio. Il tenente Pertrucci fu avviluppato dalla fiammata ed abbattuto da un subisso di frantumi. Oltre la metà del suo corpo fu ricoperta da gravissime ustioni. Inoltre, riportò la perforazione centrale del timpano sinistro e la distruzione di quello destro. Fu portato immediatamente all’ospedale civile di Vipiteno, ma morì il 23 settembre, dopo due settimane di atroci sofferenze. Per la strage furono condannati: Richard Kofler, alla pena di 23 anni e 6 mesi di reclusione per strage aggravata, detenzione di materie esplodenti e per calunnia aggravata; Alois Rainer a 23 anni e 6 mesi di reclusione per strage aggravata, detenzione di materie esplodenti e cospirazione politica; Alois Larch a 28 anni di reclusione per strage aggravata e detenzione di materie esplodenti. Klotz non fu condannato perché morì nelle more del processo, il 24 gennaio del 1976, stroncato da un attacco cardiaco mentre era latitante in Austria. Per quanto riguarda la celebrazione di domani del terrorista Alois Amplatz è bene ricordare che costui fu uno dei più famigerati e spietati terroristi altoatesini degli anni sessanta. Capo della cellula terroristica bolzanina, Amplatz fu tra i responsabili della “Notte dei fuochi”, cioè la notte tra l’undici e il dodici giugno 1961, quando i dinamitardi compirono ben 33 attentati, tra i quali quello in cui morì dilaniato il lavoratore dell’ANAS Giovanni Postal. Figura 2 - Uno dei tralicci distrutto durante la “Notte dei fuochi” per la quale fu condannato il terrorista Amplatz Tra le miriadi di attentati compiuti da Amplatz, menzioniamo quelli compiuti contro case popolari a Bolzano i primi di agosto del 1963. Il terrorista, nella notte tra il tre e il quattro agosto, minò una gru all’interno di un cantiere in via Sassari. L’esplosione ne scagliò lontano il portello, pesante quaranta chili, che piombò come un missile contro il muro di una casa, sventrò una finestra e andò a schiantarsi all’interno dell’abitazione, con il rischio di uccidere alcuni degli inquilini. Non contento, andò in via Druso, dove piazzò una bomba all’interno del giro scale di un condominio in costruzione. L’ordigno, deflagrando, distrusse il giro scale, abbatté tre delle quattro colonne centrali dell’edificio e sbriciolò il solaio, posto tra le cantine e il piano terra. La staccionata delimitante il cantiere fu distrutta e i pezzi di legno mandarono in frantumi le vetrine dei negozi che si trovavano sull’altro lato della strada. Contemporaneamente, i cinque operai che stavano dormendo sulle loro brande all’interno del fabbricato in costruzione, furono sbalzati a terra dall’onda d’urto e ricoperti da calcinacci, pezzi di mattoni e schegge di vetro. Mentre gli Schutzen commemorano meri terroristi, inviamo il nostro pensiero alle vittime della loro follia. A noi il compito di tutelarne la memoria, vilipesa dalle ricorrenti celebrazioni dei loro assassini, offesa resa possibile 13 da uno Stato ignavo ed assente, al quale invece spetterebbe il compito di difendere la storia della nostra Nazione ed i nostri caduti. Uno Stato che permette celebrazioni di terroristi separatisti, nonché l'intitolazione di vie agli stessi, è uno Stato destinato a morire. A chi celebra dei comuni terroristi noi rispondiamo ricordando ed onorando i nostri caduti. Giovanni dalle Bande Nere 14 Ombre rosse sulla dalmazia: Un’ala spezzata. Questa è Spalato, l’ala spezzata di un’aquila romana che per più di duemila anni volteggiò sulla Dalmazia proteggendola dalle orde d’Oriente. Una zampa lesa. Questa è Spalato, la zampa lesa di un leone marciano che per quattro secoli dominò regalmente per terra e per mare sulla sponda estrema dell’Adriatico. Tutta romana, tutta veneziana, tutta italiana è Spalato come la Dalmazia intera e italiana fu la sua civiltà, italiano fu il suo progresso: questo lo riconoscono anche gli storici croati intellettualmente onesti. Popolazioni indoeuropee di stirpe italica quali Dalmati e Liburni abitarono la zona di Spalato già dieci secoli prima di Cristo. Nel IV secolo a.c. coloni sicelioti di Siracusa si espansero per volere del tiranno Dionigi nell’Adriatico fondando Aspàlatos nei pressi della città dalmata di Salona. Nel II secolo a.c. i Romani conquistarono la Dalmazia e diedero alla città il nome di Spalatum che divenne, grazie alla sua felice posizione strategica, una fiorente città commerciale. A Spalatum pose la sua sede Diocleziano, dalmata di nascita (nacque nella vicina Salona) e ultimo grande Cesare prima di Costantino, per poter meglio amministrare l’Impero dopo la riforma tetrarchica e per rifuggire dalla decadenza sibarita dell’Urbe; di questo grande Imperatore rimangono nei pressi della città le vestigia del suo immenso palazzo. Il tramonto della potenza imperiale vide la Dalmazia invasa da varie popolazioni barbariche. Spalato, come altre città della costa dalmata, sfuggì agli assalti dei barbari per via delle sue fortificazioni volute da Diocleziano e per la presenza nell’Adriatico della potente flotta dell’Impero Romano d’Oriente. Particolarmente grave per la Dalmazia e per i Balcani fu l’invasione degli Avari, popolo turco proveniente dall’Asia Centrale. Costituito da una casta guerriera formata da aristocratici, gli Avari erano poco numerosi ma estremamente bellicosi. Essi si impadronirono rapidamente della Balcania continentale sconfiggendo più volte i Romani d’Oriente che comunque riuscirono a conservare dei presìdi lungo le coste, massimamente in Dalmazia vale a dire Zara, Traù, Neum, Epidaurum (poi Ragusa), Salona e appunto Spalato. La distruzione di Salona ad opera degli Avari accrebbe l’importanza di Spalato che ne accolse i profughi. Gli Avari al loro seguito portarono come vassalli gli Slavi, imbelli ma molto numerosi, contadini e artigiani che, dato il loro numero, con la caduta del Regno Avaro ad opera di Carlo Magno si sostituirono ai loro antichi padroni nel dominio dei Balcani pur rimanendo il territorio a sud del Danubio formalmente parte dell’Impero Bizantino. Sorsero così (IX secolo) i primi regni slavi, fragili e instabili per l’arretratezza delle loro genti avvezze al tribalismo e all’ordinamento clanale. Erano la Carantania (grossomodo l’attuale Slovenia), la Croazia, la Serbia. Bisanzio, pur non avendo la forza di riconquistare (almeno sino a Basilio II) l’entroterra balcanico, estese la sua sfera d’influenza sugli Slavi facendo di loro dei vassalli dell’Impero: questo si ebbe soprattutto per gli Slavi centrali e meridionali grazie alle spedizioni missionarie (si pensi ai Santi Cirillo e Metodio). Tale processo, sia pur condotto con la croce più che con la spada e che formalmente rispettava le autonomie locali, riportò l’autorità e la civiltà romane nei Balcani (e oltre) e rafforzò la presenza bizantina in Dalmazia tanto che 15 i sovrani croati si dichiararono vassalli del Basilèus bizantino. La Croazia, inoltre, fu sottoposta all’influenza della Chiesa di Roma e adottò quale lingua ufficiale il latino oltre al rito romano al momento della conversione al Cristianesimo. La forza culturale, religiosa, politica di Roma e di Costantinopoli fecero sì che la Dalmazia (e quindi Spalato) conoscessero solo un’effimera presenza slava. Anche l’occupazione di Spalato da parte del Regnum Crovatorum e l’elezione a sua capitale non mutarono questa situazione. La caduta della Croazia in potere dell’Ungheria e l’ascesa della Repubblica di Venezia dopo il Mille confermarono definitivamente la latinità e l’italianità della zona. L’Ungheria infatti si mostrò tollerante verso gli autoctoni romanzi che parlavano ormai non più il latino ma il dalmatico, idioma derivante dal latino popolare e oggi estinto. Nel 1420 Spalato venne annessa alla Repubblica di Venezia, cosa che accentuò il carattere italiano della città con contributi culturali veneti. Grazie alla Serenissima la città fiorì nelle arti, nelle lettere, nelle scienze e nei commerci; i Dogi ingioiellarono la città con splendide chiese e palazzi. Malgrado qualche tentativo d’avanzamento culturale slavo, fu sempre l’italiano a giganteggiare tanto che gli allogeni croati di Spalato e del suo contado oltre ai dialetti croati parlavano tutti l’italiano e il veneto. La pugnalata bonapartista alla Serenissima avvenuta col Trattato di Campoformio (1797) consegnò la città all’Austria che mai aveva in pratica battuto i lidi dalmati; in un certo senso, però, l’Italia poté tornare a Spalato col Regno d’Italia e con le Province Illiriche, di fatto governati dai Francesi (1806-1813). Il crollo dell’Impero Francese aprì le porte di Spalato alle torve aquile bicipiti degli Asburgo. A partire dalla metà del XIX secolo anche in questa città presero a spirare i venti del movimento risorgimentale italiano. Già Ugo Foscolo ebbe modo di studiare a Spalato; i moti del 1848 che infiammarono l’Europa, il Romanticismo, gli ideali del Risorgimento, le Guerre d’Indipendenza, il progetto di una spedizione garibaldina in Dalmazia, l’inasprirsi della politica liberticida austriaca e delle velleità egemoniche croate compattò gli Italiani di Dalmazia e li protese sempre più verso la Penisola. Fino agli anni Settanta dell’Ottocento, di là del passato storico e culturale, gli Italiani costituivano la stragrande maggioranza della popolazione della Dalmazia (oltre che la parte più attiva nell’economia e nella cultura). Concentrati specialmente nelle città della costa e nelle isole, rappresentavano anche la politica e la l’amministrazione della regione, vale a dire del Regno di Dalmazia, appartenente alla Corona d’Austria. Pur formalmente non ostili all’Imperatore, gli Italiani rivendicavano un’ampia autonomia per la loro regione mirando soprattutto ad evitare l’unione con la Croazia. A Spalato gli Italiani subirono, soprattutto a partire dal 1866, le misure snazionalizzatrici imperiali (proibizione dell’italiano nelle scuole e negli uffici pubblici, restrizione della libertà di stampa, d’espressione, d’associazione, avanzamento del nazionalismo croato aizzato ad hoc da Vienna, sorveglianza poliziesca di movimenti e di associazioni italiane come pure di privati cittadini). Nella Dieta di Dalmazia, costituita nel 1861, gli Italiani tennero sempre la maggioranza fino al 1876. Si trattava di autonomisti che si costituirono in partito (Partito Autonomista) nel 1878. Essi dovettero scontrarsi con le pretese dei Croati anch’essi riunitisi in un partito, il Narodni Stranka (Partito Popolare), foraggiato da Vienna e, come dicevo, anelante all’unione della Dalmazia con la Croazia. L’assurdità delle loro rivendicazioni era ben espressa dal fatto che, pur negando l’esistenza di una “minoranza” italiana nella regione, scrivevano in italiano e non in croato! I censimenti austriaci che vanno 16 dalla stipulazione della Triplice alla Grande Guerra segnalarono la diminuzione degli autoctoni italiani nelle città dalmate tanto che nel 1914 solo Zara risultava a maggioranza italiana. Spalato vide quindi il massiccio declino della popolazione italiana nell’ultimo quarto dell’Ottocento tanto che dalla grande maggioranza della metà del secolo si passò al 7% del 1910 (2082 italiani su un totale di 27.492 abitanti). Nell’Ottocento la città era abitata da italiani, croati e serbi: la componente slava aumentò sul finire del secolo per via, come detto, delle snazionalizzazioni e della politica filocroata dell’Austria ma bisogna dire anche che Vienna tendeva a falsare i numeri dei censimenti attribuendo percentuali più alte agli slavi. I Podestà di Spalato furono sempre italiani sino al 1880: ultimo di loro ma primo per importanza fu Antonio Bajamonti. Divagherei troppo se illustrassi le figure dei patrioti di Spalato: cito solo dunque Antonio Bajamonti, medico e politico, Antonio Tacconi, avvocato e politico, Ildebrando Tacconi, storico e letterato, Ercolano Salvi, politico. Dal 1880 in poi, a causa delle repressioni e in linea con ciò che stava avvenendo nelle altre terre irredente, gli autonomisti attuarono una svolta decisamente irredentista anelando l’annessione al Regno d’Italia. Bisogna dire, in aggiunta, che parte dei Serbi spalatini era filoitaliana. La Prima Guerra Mondiale portò ad un inasprimento delle misure antitaliane da parte del Governo asburgico mentre parte della popolazione italiana fu deportata e rinchiusa in campi di concentramento in Ungheria e in Boemia. Quasi tutti gli uomini validi vennero arruolati a forza nell’Esercito Imperialregio e mandati a combattere sul fronte orientale oppure arrestati; alcuni irredentisti spalatini si rifiutarono di indossare il grigio dell’uniforme austriaca e ripararono in Italia per arruolarsi nel nostro Esercito o nella nostra Marina. Con la sconfitta dell’Austria gli Italiani di Spalato (come pure di altre città dalmate) si riunirono in un Fascio Nazionale e chiesero l’annessione all’Italia; il Patto di Londra tuttavia ci dava la Dalmazia settentrionale ma non Spalato in quanto la proposta di confine passava a nord di Traù. La vocazione di Spalato comunque rimase decisamente italiana per via della attiva organizzazione sociale e della consapevolezza del ruolo politico degli Spalatini italiani; sebbene maggioritari, gli Slavi non seppero invece esprimere civilmente le loro istanze abbandonandosi sovente a violenze sui nostri connazionali. Si ebbero così gli incidenti di Spalato, cui faccio solo cenno però. Dopo il 4 novembre del 1918, l’Italia completò l’occupazione di tutti i territori già austriaci previsti dal Patto di Londra. Spalato non rientrava tra questi e venne occupata da Marinai francesi il 9 novembre che la tennero per un po’ in attesa di disposizioni. Il 20 la città fu occupata dalle truppe iugoslave che non si curarono del carattere italiano della città né, immemori ed ingrate, dell’aiuto italiano prestato all’Esercito serbo in rotta e del fatto che l’Austria era stata sconfitta dall’Italia e non di certo dalla Serbia. I nazionalisti croati cominciarono ad usare violenza contro gli Italiani sin dall’arrivo dei Francesi solo perché i nostri avevano “osato” esporre il Tricolore per salutare la vittoria dell’Intesa. Per chi svolgeva professioni pubbliche fu imposto il giuramento di fedeltà al Re serbo che molti Italiani si rifiutarono di prestare venendo così sospesi sine die dalle proprie occupazioni dall’autorità iugoslava. Le violenze aumentarono di giorno in giorno e i vari Podestà dalmati fecero propria l’istanza del loro collega di Zara, Luigi Ziliotto. Ziliotto aveva chiesto al Sottosegretario alle Colonie, Piero Foscari (di idee nazionaliste), l’occupazione della Dalmazia centrale da parte della Regia Marina italiana, cosa che venne ripetutamente richiesta al Governo italiano che alla fine si mosse in tal senso. Il Patto di Londra veniva aggirato legittimamente dai patrioti dalmati paragonando l’occupazione italiana della Dalmazia centrale a quella francese della Renania, non prevista da alcun trattato. Diedero il loro parere favorevole all’azione 17 anche l’Ammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel (comandante supremo della Marina secondo solo al Re) e l’Ammiraglio Enrico Millo, Governatore della Dalmazia settentrionale. A dicembre si verificarono nuovi incidenti a Spalato e a gennaio del ’19 a Traù. A protezione degli Italiani di Spalato, la Marina inviò nel porto della città la nave da guerra “Riboty” poi sostituita dalla “Puglia”. Era chiara a tutti la politica espansionistica di Belgrado che mirava ad annettere non solo terre slave ma anche italiane, magiare, bulgare, albanesi, greche e austriache ordendo la formazione di uno Stato iugoslavo che andasse dalla Carinzia al Mare Egeo. Gravi incidenti ad opera di teppaglia iugoslava si verificarono il 24 febbraio del 1919 tanto che l’Intesa dovette intervenire con una forza interalleata (Italiani, Americani, Inglesi, Francesi) per presidiare l’ordine. Si ebbero ulteriori disordini a marzo e nell’estate mentre a novembre Gabriele D’Annunzio, che autonomamente con i suoi Legionari aveva provveduto a liberare Fiume, si recò a Zara per spronare Millo ad un’azione più energica su Spalato. Alla notizia di ciò e timorosi di D’Annunzio, gli Iugoslavi si abbandonarono a nuove violenze a Spalato che continuarono pressoché ininterrottamente sino all’estate del 1920. Il parossismo venne raggiunto però a luglio quando dei nazionalisti iugoslavi aggredirono dei Marinai italiani; l’aggressione si ingigantì quando la folla, giunta al molo della città, lanciò una bomba a mano contro un MAS mentre la Gendarmeria iugoslava esplose alcuni colpi di arma da fuoco cui risposero i Marinai italiani. Dei Marinai vennero feriti e tra loro vi era anche il nuovo Comandante della “Puglia”, Tommaso Gulli ed il Motorista Aldo Rossi che in seguito morirono. L’impressione fu grande in Italia ma il Capo del Governo Giovanni Giolitti rinunciò col Trattato di Rapallo alla Dalmazia che fu assegnata, salvo Zara e alcune isole, alla Iugoslavia mentre Belgrado riconosceva la sovranità italiana sull’Istria e su Zara. Non venne presa in considerazione nemmeno la petizione fatta dal Salvi per l’annessione di Spalato all’Italia e forte di 8000 firme su 18.000 abitanti. I Dalmati italiani furono costretti ad optare per la cittadinanza italiana oppure per quella iugoslava (presa da pochi) pur potendo rimanere nelle loro città ma molti preferirono esulare: si trattò del Primo Esodo dei Dalmati ammontante a molte migliaia di persone e diretto verso Zara oppure verso città della Penisola quali Fiume, Pola, Trieste, Ancona, Roma. La salita del Fascismo al potere nel 1922 comportò una maggiore attenzione per la Dalmazia da parte delle istituzioni con la promozione di attività culturali e d’assistenza. Tra le Camicie Nere vi era infatti una rilevante componente irredentista e alcune Squadre d’Azione composte da Dalmati parteciparono alla Marcia su Roma con le insegne abbrunate. Mussolini fece quanto in suo potere per mantenere accesa nella regione la fiaccola dell’italianità. Non si ebbero tuttavia mutamenti di confine sino al 1941. La Seconda Guerra Mondiale coinvolse l’Italia nel ’40 e la Iugoslavia nel ’41. Vicino al Tripartito, SHS vi aderì nel marzo del 1941 per volontà (o meglio per costrizione) del Re Pietro II ma il Governo e il popolo, in seguito ad un golpe militare, rigettarono la decisione regia. Questo suscitò l’ira di Hitler che ordinò alle sue armate di invadere il Paese. In ambito all’Operazione 25 e all’Operazione Marita, le forze dell’Asse attaccarono la Iugoslavia il 6 aprile per poi invadere la Grecia. Spalato venne liberata alla metà di aprile dalle truppe del Generale Emilio Giglioli provenienti da Zara. Per l’Italia l’azione germanica nei confronti della Iugoslavia significò il culmine del braccio di ferro che durava almeno dal 1918 e che aveva visto a fronte della legittima rivendicazione della Dalmazia da parte italiana quella (illegittima) iugoslava che mirava all’annessione di Zara, di Fiume e della Venezia Giulia sino al Tagliamento. Il crollo della Iugoslavia fece sì che la Croazia tornasse 18 indipendente dopo novecento anni con il Governo ustascia di Ante Pavelic. Egli si accordò con Mussolini per la ripartizione della Dalmazia pur rientrando l’intero Stato croato nella sfera d’influenza italiana. All’Italia toccarono tutto il nord dalmata, Sebenico, Spalato, Traù, Cattaro e alcune isole, alla Croazia Ragusa di Dalmazia, Neum e Porto Narenta (Trattato di Roma,18 maggio 1941). Fu istituito il Governatorato di Dalmazia nella zona italiana avente tre Province: Zara (preesistente ma di molto ingrandita), Spalato e Cattaro. La Provincia di Spalato contava tredici comuni per un totale di 128.400 abitanti (3000 dei quali italiani) mentre il capoluogo aveva 46.900 abitanti (1000 italiani). Prefetto fu Paolo Zerbino, già Federale del PNF di Vercelli e di Alessandria. La Iugoslavia aveva tenuto Spalato e i suoi dintorni nell’arretratezza mentre l’esodo degli Italiani aveva drammaticamente impoverito l’economia della zona. L’amministrazione italiana vi pose rimedio con degli investimenti operati dai Governatori Giuseppe Bastianini, brillante diplomatico, e Francesco Giunta, già Segretario del PNF. Vennero costruite, dunque, scuole, strade, ospedali, fognature mentre si iniziò il recupero del degradato Palazzo di Diocleziano e si ebbe una pianificazione urbana di Spalato. Spalato accolse durante la presenza italiana numerosi Ebrei croati in fuga dai Tedeschi e dagli ustascia; la presenza del Regio Esercito nel Governatorato pose le città dalmate (e quindi Spalato) al riparo dalla guerriglia partigiana iugoslava. Anche i Serbi della Dalmazia videro con favore la presenza italiana per via della mortale inimicizia con i Croati. L’8 settembre segnò, però, il tracollo del Governatorato. I partigiani di Tito s’impossessarono di Spalato il 10 settembre 1943 per rimanervi sino al 27, giorno di arrivo dei Tedeschi. Tutto l’apparato statale italiano del Governatorato di Dalmazia, così efficiente fino all’armistizio, si frantumò trasformando militari, funzionari e civili in una massa di sbandati alla mercè dei criminali iugoslavi che non rispettavano alcuna norma del diritto internazionale, dei principi cristiani, del vivere civile. Così in quei pochi giorni persero la vita circa 700 Italiani, civili e militari, trucidati senza pietà dai partigiani di Tito. A Spalato vivevano, prima dell’invasione, degli Italiani (circa 2000) e ad essi si aggiunsero nel 1941, con l’annessione all’Italia, molti esuli spalatini nonché centinaia di funzionari e di insegnanti provenienti da altre Province italiane. Furono riaperte le scuole italiane accanto a quelle croate. I partigiani di Tito si dimostrarono piuttosto tolleranti con i militari del RE, in quanto la Divisione “Bergamo”, già impegnata contro le bande slave comuniste, dopo l’8 settembre si schierò proprio con i partigiani ingannata dalla propaganda titina, ma furono spietati con le Camicie Nere e con gli altri “servitori” del Regime fascista (Carabinieri, Guardie di Finanza, funzionari di Pubblica Sicurezza, funzionari statali ed insegnanti). Furono così subito trucidati 10 Carabinieri, 11 Guardie di Finanza, 41 Agenti di P.S. e circa 250 civili i cui corpi finirono in tre fosse comuni nei pressi del cimitero di San Lorenzo e della Baia dei Castelli. Il Questore di Spalato riuscì a fuggire e a governare la città rimasero soltanto quattro funzionari di Polizia: il Commissario Francesco Metano, il Vicequestore Paride 19 Castellini, gli Ufficiali Papoff e Sorgi nonché gli Agenti della Questura: tutti agivano per dare soccorso ai 1500-2000 Italiani di Spalato. Francesco Metano, catturato dai partigiani, fu fucilato il 19 settembre nei pressi del cimitero di San Lorenzo. Intanto, gli edifici pubblici Comune, Prefettura, Questura – furono dati alle fiamme dagli Iugoslavi. Il Comando della Marina era sguarnito per la fuga dei comandanti. Gli Agenti fuggiaschi cercarono scampo nelle campagne e quelli catturati furono fucilati sul posto e lasciati a marcire al sole. Tra le persone trucidate vi furono tanti insegnanti tra i quali: Scordiglio Maria, da San Caio (Spalato), insegnante elementare; Menenghin Cesare, da Spalato, ivi insegnante alle Elementari; Luginbuhl Eros, da Ferrara, già preside del Ginnasio "Gian Rinaldo Carli" di Pisino, poi del Ginnasio di Spalato. Arrestato dai comunisti slavi il 21 settembre a Spalato, fu marchiato a fuoco con un ferro arroventato terminante in una stella sulla fronte e fucilato il giorno seguente; Soglian prof. Giovanni, nato il 3 marzo 1901 a Cittavecchia (Isola di Lesina), provveditore agli studi di Spalato. Rifiutò di salvarsi per poter assistere tutti gli insegnanti in pericolo; arrestato, venne fucilato il 23 settembre, dopo che sul petto gli era stata impressa a fuoco una stella. Si ebbero accanto a queste numerose altre esecuzioni, soprattutto di civili. Nel frattempo i Tedeschi calarono da nord per assicurarsi il controllo dei porti dalmati e si ebbe sul finire di settembre una battaglia tra alcune Divisioni della Wehrmacht e la 7.SS Freiwilingen-Gebirs-Division “Prinz Eugen” da una parte e la “Bergamo” e le bande titine dall’altra che si concluse con la vittoria dei germanici. I nostri Soldati della “Bergamo” si trovarono a vivere il dramma di osteggiare un invasore palese quale quello germanico e ad essere alleati di uno celato quale quello slavo. Tito, infatti, cercò, in parte riuscendovi, di portare dalla sua alcune Divisioni italiane di stanza nei Balcani presentando la sua lotta quale quella di un popolo oppresso e suadendo i nostri comandanti dicendo loro che per gli Iugoslavi gli Italiani erano dei “compagni” e che dopo la guerra non avrebbero avanzato alcuna pretesa territoriale. Il resto è noto… Il 27 settembre, data la preponderanza dei Tedeschi, gli Iugoslavi fuggirono da Spalato mentre gli Italiani resistettero tenendo sino all’ultimo la piazza. La rappresaglia tedesca fu feroce:3 Generali e 47 Ufficiali della “Bergamo” furono accusati di alto tradimento, trasferiti a Treglia e fucilati. Accordi tra Tedeschi e Croati seguiti alla capitolazione italiana fecero sì che lo Stato Indipendente di Croazia potesse annettere tutta la Dalmazia italiana ad eccezione di Zara. Fu una pugnalata alle spalle da parte della Germania e della Croazia all’Italia agonizzante, massimamente se si considera che l’Italia, pur scontrandosi più volte con gli ustascia per difendere Ebrei e Serbi, aveva aiutato la Croazia a raggiungere l’indipendenza. Da allora l’Italia non tornò più a Spalato che cadde in seguito in potere di Tito e più recentemente della nuova Croazia indipendente. Oggi a Spalato rimane una sparuta comunità italiana cui Zagabria eroga col contagocce dei diritti malgrado l’assoluto rispetto e l’ottima tutela che l’Italia concede alle sue minoranze (tra le quali, nello specifico, la piccola comunità croata del Molise, però allogena a differenza degli Italiani di Spalato). Domenico Verta 20 Il bolscevico del Littorio: Asvero Gravelli Bresciano, classe 1902, Asveroglio (Asvero) Gravelli apparteneva alla buona borghesia d’inizio ‘900. Nonostante la sua condizione sociale lo collocasse più nei “gialli” che nei “rossi”, sin da giovanissimo Gravelli manifestò un vivo interesse per le condizioni del proletariato e industriale e, in barba a Carlo Marx, contadino mostrando di avere profondamente a cuore il popolo lavoratore sovente vessato dalle angherie dei capitalisti sempre tenendo conto della situazione dell’Italia e dei suoi problemi come Nazione. Era, insomma, in base a quanto stava avvenendo in ambito alle Avanguardie ed al profondo ripensamento in seno al movimento socialista, un socialista nazionale. Dopo aver ottenuto la licenza media, preferì interrompere gli studi ed entrare alla Marelli di Sesto San Giovanni come tornitore. Si avvicinò alla politica attraverso un gruppo che si ispirava al grande sindacalista rivoluzionario Filippo Corridoni, operando dunque una piena sintesi tra destra e sinistra. Interventista, non poté partecipare alla Grande Guerra per via della giovane età. Il 23 marzo 1919 rispose all'appello di Benito Mussolini, aderendo al Fascio primigenio; subito dopo dette vita al Fascio di Brescia e divenne un acceso squadrista nella Squadra d’Azione “La Volante” di Sesto. Nell'aprile dello stesso anno aderì alla Lega Antibolscevica, associazione composta da reduci della Grande Guerra e da studenti d’orientamento nazionalista fondata dal Capitano Angelo Tumidei a Bologna pur avendo idee socialiste rivoluzionarie poiché reputava un orrore l’avversione comunista per il concetto di Patria. Fu tra i protagonisti dell'assalto alla sede dell’”Avanti!“ a Milano e in novembre venne arrestato durante i violenti scontri tra socialisti e fascisti. Rimase in carcere fino al marzo 1920: non aveva neanche diciotto anni. Uscito di prigione, riprese i contatti con Mussolini e con il Fascio milanese. Per le idee che lo infiammavano la sua adesione ai Fasci di Combattimento fu coerente e naturale come pure quella al movimento legionario fiumano. Raggiunse, infatti, Fiume liberata qualche tempo prima da Gabriele d’Annunzio e fu Legionario nel XXII Reparto d’Assalto; vi trascorse, però, solo pochi mesi, per poi tornare a Sesto San Giovanni dove fu l'animatore del Fascio locale. A Fiume costituì delle organizzazioni che educassero e irreggimentassero la gioventù, le Avanguardie Giovanili. In questo periodo Gravelli fece amicizia con il sindacalista rivoluzionario calabrese Michelino Bianchi, del quale divenne segretario. Per l’affinità ideale che lo accomunava a sé e per le sue doti organizzative, il futuro Quadrumviro si adoperò attivamente per farlo nominare Vicesegretario dell’Avanguardia Giovanile Fascista, antenata dell’Opera Balilla, riuscendovi nel gennaio del 1922; nel frattempo aveva iniziato a collaborare a “Giovinezza”, settimanale dell'Avanguardia Studentesca dei Fasci di Combattimento, l'organismo dalla quale era nata l’Avanguardia Giovanile. Altra sua rivista fu “Giovine Italia”. Dimostrò presto di essere una raffinata penna. 21 Il Gravelli non poté partecipare alla Marcia su Roma dell’ottobre del 1922 poiché l'evento lo sorprese in carcere, dov'era finito per "propaganda fascista" mentre stava facendo il servizio militare tra i Bersaglieri. Era ormai uno dei capi principali del movimento giovanile fascista e per questo venne chiamato, nell'ottobre 1923,a far parte del Direttorio Nazionale del PNF, l’organismo chiamato in quel momento a ricomporre le divisioni provocate in seno al Partito dalle diatribe esplose durante quell’anno tra la componente “intransigente” e quella “revisionistica”: la prima intendeva perpetuare la Rivoluzione Fascista e lo squadrismo più puro abbattendo totalmente quanto restava del vecchio Stato liberale mentre la seconda era costituzionalista ossia vedeva di buon grado l’inserimento del Fascismo nel sistema liberale e accettava l’istituto monarchico mentre i fascisti più intransigenti erano repubblicani. Gravelli era un intransigente ma in questa fase mostrò spirito equo e volontà conciliatrici nei confronti delle varie anime del PNF. La crisi Matteotti segnò per il Bresciano l'inizio di un periodo di eclissi politica: venne allontanato prima dall'incarico di Ispettore Generale dell’Avanguardia Giovanile e poi dalla direzione. I motivi del suo siluramento sono da ricercarsi nella eccessiva vicinanza con alcuni dei personaggi coinvolti nel delitto Matteotti, in specie con l’acceso “Ras” della Lomellina, Cesare Rossi, al quale lo legava un rapporto di dipendenza, considerato che “Giovinezza” era fra i periodici finanziati con i fondi dell'Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio. Gravelli fu inoltre più volte fiduciario di Rossi per alcune commissioni come quella avvenuta nell'aprile 1924 a Milano e conclusasi con la feroce aggressione dei sanguinari Albino Volpi e Amerigo Dumini ai danni proprio di Forni. L'aggressione venne condotta a termine con il ricorso a un gruppo di Arditi fascisti milanesi che, come si seppe in seguito, formavano il nucleo originario della cosiddetta Ceka fascista, allora in fase di costituzione. La Ceka altro non era che una sorta di milizia segreta del PNF della quale Mussolini si serviva per azioni di spionaggio, controspionaggio e repressione di dissidenti e di oppositori. Trasse il nome dalla Polizia Segreta di Stato sovietica e diede in seguito origine all’OVRA, Opera di Vigilanza e di Repressione dell’Antifascismo, la quale fungeva anche da servizio segreto del Partito. Dopo il suo allontanamento da tutte le cariche ufficiali ricoperte in seno al Partito Nazionale Fascista, il Bresciano si diede a un'intensa attività pubblicistica, con una serie di lavori mirati all'esaltazione della gioventù fascista e alla costruzione dei suoi miti curando, al contempo, insieme con il pedagogo Aristide Campanile, alcune monografie di carattere agiografico relative a temi cari alla cultura fascista. Nell'aprile 1929 uscì il primo numero di “Antieuropa”, periodico diretto da Gravelli che certamente godeva del sostegno di Arnaldo Mussolini. Accompagnò l'uscita di “Antieuropa” con quella di un supplemento, ”Ottobre”, poi trasformato in quotidiano. Nel primo editoriale Asvero Gravelli indicava nella "rinnovazione della non tranquilla Europa" la missione del Fascismo: egli assegnava al Regime il ruolo di apripista nella costruzione di un Fascismo sovranazionale, ispirato da Roma, che rappresentasse un modello per tutti i Paesi europei, una "terza via" tra capitalismo e comunismo, tra l'esperienza rivoluzionaria di stampo sovietico e la crisi irreversibile che sembrava aver investito i più forti regimi liberaldemocratici. Con ciò dimostrava buon fiuto e tempismo nel cogliere i primi segnali della svolta che Mussolini andava imprimendo al Regime alla fine degli anni Venti, quando, abbandonata la 22 tradizionale cautela nel delineare le prospettive del Fascismo - fino ad allora, a suo dire, prodotto "autoctono" e non esportabile - il Duce avrebbe cominciato a fare esplicito riferimento ad esso come a un modello antitetico ai regimi capitalistici e liberali nonché al Bolscevismo e perciò da imitare, unica, autentica alternativa ideologica e politica a Mosca da una parte e a Londra e a Parigi dall’altra. In questa temperie “Antieuropa” e “Ottobre” vennero quindi unanimemente considerati come portavoce ufficiali del nuovo indirizzo del Regime. La rinnovata sintonia con le linee di manovra di Mussolini significò per il Bresciano una ritrovata legittimazione in seno agli organi del Fascismo. Agli inizi degli anni Trenta venne nominato Console della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e membro del Direttorio Anticapitalista, della Federazione antimassonico, dell'Urbe. antiborghese, antiliberale e antiautoritario, divenne antinazista quando il Nazionalsocialismo di Adolf Hitler cominciò ad acquistare peso politico in Germania: delle Camicie Brune, malgrado l’origine sociale e nazionale del NSDAP, aborriva il feroce razzismo, la cieca violenza e le mire egemoniche che considerava pericolose per il Fascismo e per l’Italia. Il suo sogno di un Fascismo faber novae Europae e guida di tutti i movimenti patriottici e sociali del continente e quindi del mondo intero parve concretizzarsi qualche anno dopo, nel 1934 con la creazione dei Comitati d’Azione Universali di Roma (CAUR) anche se i Comitati, dopo qualche anno di attività, non diedero i frutti sperati per via dei caratteri fortemente nazionali dei movimenti che si ispiravano al Fascismo italiano (e per i tratti fortemente italiani del Fascismo stesso di Mussolini), per il velato sabotaggio del Nazionalsocialismo tedesco (che, pur ispirandosi al Fascismo italiano, non aderì ai CAUR e contestò alle Camicie Nere il ruolo di movimento guida delle forze politiche tese alla terza via) e per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939. L’azione del Gravelli fece sì comunque che i movimenti di tipo fascista dei Balcani e, in misura minore, la Falange spagnola dessero al Regime di Mussolini un primato con ovvie ricadute positive in politica estera per l’Italia mentre tale azione universale venne estesa anche ad alcune Repubbliche latinoamericane, al Giappone, all’India, agli Stati Uniti d’America ed al mondo musulmano. Tutto sommato il Bresciano non fu troppo severo nei confronti dell’URSS: se la Repubblica dei Soviet veniva sì vista come una concorrente ideologica e politica del Regime mussoliniano con il suo internazionalismo e con la sua variante leninista e stalinista del Marxismo e ne denunziava di tanto in tanto gli orrori, in essa vedeva, sia pur implicitamente, un’avversaria delle democrazie e del capitalismo e quindi un’utile “amica”. Come alcuni antifascisti riconciliatisi col Regime quali il rivoluzionario Nicolino Bombacci, fondatore del PCdI, e alcuni fascisti di sinistra quali Berto Ricci (intellettuale), Mino Maccari 23 (artista), Stanis Ruinas (intellettuale), Mario Gramsci (militare e fratello del più celebre Antonio), Giorgio Pini (caporedattore de “Il Popolo d’Italia” e poi Sottosegretario all’Interno della RSI) ed in parte Niccolò Giani (fondatore della Scuola di Mistica Fascista), Gravelli riconosceva inoltre velatamente la comunanza d’origini tra Fascismo e Bolscevismo vista, sia pur in modo ancestrale, nel Socialismo. Se le divergenze tra Fascismo e Comunismo erano innegabili e la rivalità ideologica tra Roma e Mosca indiscutibile, non tutti sanno che i rapporti tra Italia e Russia tra le due guerre furono sostanzialmente buoni. Nel 1924 l’Italia fu il primo Paese al mondo, salvo la non più esistente Reggenza Italiana del Carnaro, a riconoscere la Russia Sovietica a livello diplomatico mentre Lenin aveva elogiato pubblicamente Mussolini (e d’Annunzio) qualche anno prima. Nel 1933 si ebbe un trattato d’amicizia e cooperazione economica tra i due Paesi; ruolo cruciale nei contatti tra la Prima e la Terza Roma ebbe Nicolino Bombacci. Nel 1929 si ebbe una trasvolata italiana ad Odessa e il comandante Italo Balbo fu ricevuto con tutti gli onori da un reparto dell’Armata Rossa mentre tra gli anni Venti e Trenta si ebbero in Italia missioni aeronautiche sovietiche nonché del PCUS per studiare le bonifiche dell’Agro Pontino. Agli inizi degli anni Trenta i nostri diplomatici presenti in Ucraina segnalarono l’Holodomor, l’olocausto del popolo ucraino voluto da Stalin che fece otto milioni di vittime ma Mussolini non usò questo crimine sovietico per la propaganda anticomunista. Benché contraria all’intervento italiano in Etiopia (e nel Paese africano vi avesse inviato degli agenti del COMINTERN in funzione antifascista), nel ’35-’36 l’URSS rifornì regolarmente l’Italia di nafta e di acciaio. Dicotomicamente Gravelli individuò il "vecchio”, rappresentato dal sistema liberale e dalla democrazia parlamentare e il "nuovo”, rappresentato dal Fascismo. Si fece promotore di un appello volto "all'unione delle forze giovanili d'Occidente” e chiamò a collaborare ad “Antieuropa” e al suo supplemento studiosi e pubblicisti socialnazionalisti di ogni parte d'Europa. Per l’affermazione del Fascismo sovranazionale Asvero Gravelli non "puntava tanto sui mutamenti istituzionali quanto su una trasformazione spirituale degli europei" come osservò lo storico e giornalista americano Michael Ledeen. Sul piano propagandistico e organizzativo Gravelli compì numerosi viaggi in Europa e incontrò i rappresentanti di forze affini al Fascismo mentre “Antieuropa” apriva propri uffici nelle maggiori città europee, grazie a ingenti disponibilità finanziarie messe a disposizione dal Governo fascista. Tali uffici operarono come punti di aggregazione per le forze fasciste o parafasciste dei Paesi ospitanti. Solo dopo un paio di anni dall'uscita dei due periodici, tuttavia, il Bresciano cominciò a riferirsi esplicitamente a una "Internazionale fascista”, con la pubblicazione di Verso l'internazionale fascista (1932), una disamina molto attenta delle forze e dei movimenti europei di ispirazione fascista o affini al Fascismo. Egli considerava tali tutti quei movimenti che si definivano antidemocratici, anticomunisti e antimassonici ma, consapevole dei differenti contesti politici, culturali e storici dai quali questi erano scaturiti, cercò di trovare un comune denominatore per cui l'Internazionale fascista da costruirsi veniva definita come una "Internazionale di movimenti paralleli" ossia un’"Internazionale di nazionalismi”, il cui collante sarebbe stato costituito da affinità, istanze ed esigenze comuni presenti naturalmente tra i popoli che avessero tutti liberamente accettato le idee fasciste. Le identità nazionali e le istanze sociali dei vari Paese sarebbero state rispettate sia pur sotto le insegne del Littorio. Gravelli riteneva incompatibili anzi antagonisti Fascismo e Nazionalsocialismo. Come 24 suddetto, non subì il fascino del Nazismo che considerava un ostacolo all'affermazione del primato di Roma e alla missione universale del Fascismo italiano ancor più del Comunismo. Non mancò, inoltre, di manifestare pubblicamente ostilità all'antisemitismo osteggiando le leggi razziali. Dal Nazismo venne ripagato con la stessa moneta tanto che nelle sue iniziative a carattere europeo furono puntualmente assenti i rappresentanti del Nazionalsocialismo. “Antieuropa” dedicò anche ampio spazio al cinema con recensioni, interventi di critici e dibattiti; Gravelli, tra l'altro, si misurò direttamente con la scenografia, firmando alcuni film di successo, in particolare “Giarabub” di Goffredo Alessandrini (1942). Tentò anche la strada della produzione fondando nel 1929 la Sovrana Films che ebbe vita assai breve e successivamente, nel 1939, la Littoria Film. La diffidenza di Gravelli per il Nazionalsocialismo può spiegare il declino suo e delle sue iniziative a partire dalla metà degli anni Trenta. Il Bresciano ebbe sentore della nuova fase critica dei suoi rapporti con Mussolini e con il Regime in quanto il Duce, costituendo i Comitati d’ Azione per l’Universalità di Roma, lo ignorò chiamando a dirigerli Eugenio Coselschi, già Legionario fiumano e Attendente di D’Annunzio nella Città di Vita. La trasformazione di “Ottobre” da supplemento a quotidiano, nel febbraio 1934, può essere interpretata come una reazione alla mancata nomina. Intensificò pure la produzione pubblicistica e videro la luce diversi suoi lavori, tra cui primeggia Panfascismo (1935), nel quale trae un primo complessivo bilancio dell'impegno per la diffusione all'estero dell'ideologia fascista, ribadendo la sua ostilità al Nazionalsocialismo. Anche per fronteggiare una situazione politica personale sempre più precaria, Asvero Gravelli si arruolò volontario nella Guerra d’Etiopia (V Divisione CCNN “I Febbraio” comandata dal Luogotenente Generale Attilio Teruzzi) ma le vicende in terra africana contribuirono ad aggravare ulteriormente la sua posizione nei riguardi del Regime. Per alcuni suoi atteggiamenti venne accusato di viltà e, dopo il rientro anticipato in Italia, si vide fatto oggetto di aspre critiche da parte delle gerarchie fasciste, segno evidente della progressiva disaffezione di Mussolini nei suoi confronti. Su queste accuse ci sarebbe da argomentare. La presunta pavidità di Gravelli non convince in quanto non mancò mai di coraggio personale: in galera per propaganda fascista a diciott’anni quando non era certo che il Fascismo avesse trionfato (una decisa azione dell’Esercito infatti avrebbe fatto fallire la Marcia su Roma), Legionario fiumano (il Natale di Sangue fu la prova che l’esperienza non era una passeggiata), squadrista quando anche le Camicie Nere, nel clima di violenza generale che attanagliò il Paese nel triennio 1919-1922, lamentavano i loro morti. È molto probabile dunque che queste accuse fossero frutto dell’ostilità e della gelosia di alcuni gerarchi e di uomini comunque influenti che malvedevano le attività del Bresciano mentre la voce che lo voleva figlio di un’avventura giovanile del Duce peggiorava la situazione. Tra questi si annoveravano infatti Giuseppe Bottai, anche lui impegnato intellettualmente, e il giornalista Paolo Monelli. Secondo questi pur grandi intellettuali del Ventennio, il Bresciano giunse all’Asmara “lacrimante, battuto e ridotto a uno straccio” ma non fornirono prove serie della sua “vigliaccheria”, né questa risulta dalla storia della Divisione dove Gravelli combatté. Inoltre successivamente quest’ultimo si arruolò volontario nel contingente italiano di supporto a Franco combattendo tra i Carristi e guadagnandosi 2 MAVM e una MBVM ed 25 in seguito alla caduta di Mussolini e all’armistizio aderì alla Repubblica Sociale Italiana, combattendo prima tra le SS (29.Waffen-Grenadier-Division der SS “Italia” il cui motto dovette suggestionare Gravelli, nonostante in passato fosse stato antinazista, ossia “Sacrosanta lotta del sangue contro l’oro-del lavoro contro il capitalismo- dello spirito contro la materia”) per poi essere nominato sottocapo di Stato Maggiore nella GNR. In quel momento l’Asse non stava di certo vincendo la guerra. Tra agosto e settembre 1936, per ordine del Duce, furono sospese le pubblicazioni di “Ottobre” e di “Antieuropa”. Venendosi a trovare in una situazione particolarmente difficile, nel novembre 1936 Gravelli andò nuovamente in guerra arruolandosi nel Corpo Truppe Volontarie in partenza per la Spagna. Qui ebbe modo di comportarsi valorosamente riabilitandosi, almeno in parte, agli occhi di Mussolini. Il Duce forse lo considerava, più che un pavido, al contrario una testa calda, un fascista rivoluzionario che mal s’adattava all’imperante militarismo che si ebbe nel Regime dalla conquista dell’Etiopia in poi, portato al parossismo dalle disposizioni del Segretario del Partito Achille Starace. Sebbene “Antieuropa” riprendesse le pubblicazioni, i caratteri di originalità che l'avevano contraddistinta apparvero seriamente compromessi. Le ferite riportate nella Guerra Civile Spagnola impedirono al Gravelli di partecipare al conflitto mondiale. Difficile poter dire se plaudì o meno al Patto Ribbentrop-Molotov al quale l’Italia si trovò comunque collegata: da una parte non dovette sfuggirgli il carattere antidemocratico ed antioccidentale del Patto, dall’altra l’”asse” Berlino-Mosca gli sembrò senz’altro un tradimento dei Tedeschi nei confronti degli Italiani e dei Giapponesi. La caduta di Mussolini ne comportò l'arresto e la detenzione a Forte Boccea. Liberato dai Tedeschi, aderì con entusiasmo alla Repubblica Sociale Italiana, vista come creazione politica pienamente rivoluzionaria. Venne chiamato a far parte del Tribunale Provinciale Straordinario di Venezia in veste di avvocato, anche se non risulta chiaro quando e come fosse riuscito a completare quegli studi che aveva abbandonato dopo la licenza media. Con la seconda fase della guerra l'entusiasmo per le armi tedesche e per il Nazismo prese il posto della sua antica diffidenza, in quanto il Reich veniva in quel momento giudicato dal Gravelli come un alleato prezioso del nuovo Fascismo Repubblicano. Entrò a far parte della Waffen-Grenadier-Division “Italia”; a Milano si dette, inoltre, a organizzare spettacoli teatrali e proiezioni cinematografiche per le truppe tedesche. Nel marzo 1945 venne nominato Sottocapo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana. Catturato dai partigiani, restò in prigione fino al 1947, allorché fu liberato in seguito all'amnistia generale voluta dall’allora Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti. Nel dopoguerra si avvicinò al Movimento Sociale Italiano per allontanarsene quando il partito finì nelle mani del moderato Arturo Michelini ed assunse, a tratti, carattere fortemente borghese nonché, in politica estera, posizioni filoamericane. Nel 1950 dette vita all’”Antidiario”, in seguito al mensile “Latinità” e all'Editrice Latinità. Cercò anche di fondare un partito, il Movimento Legionario Italiano, rimasto tuttavia allo stato di progetto. Esso si ispirava esplicitamente alla parabola politica di D’Annunzio seguita al primo conflitto mondiale e al Fiumanesimo. 26 Asvero Gravelli morì a Roma il 20 ottobre 1956. Alcune leggende vedevano in lui un figlio illegittimo di Mussolini mentre la soubrette Patrizia De Blanck dichiarò in passato di essere figlia del Bresciano. Non si hanno però prove concrete a sostegno di queste voci. Per i temi che ci riguardano e di fronte all’attuale desolazione politica, il progetto di un Movimento Legionario risulta oltremodo interessante. A sessant’anni dalla morte Gravelli risulta poco conosciuto ed è un peccato poiché il suo “socialismo patriottico” potrebbe essere tuttora attuale in un’Europa che, a livello istituzionale, sembra aver dimenticato valori quali la Patria, il lavoro, il sociale per l’internazionalismo bancario, lo sfruttamento capitalista, l’individualismo; non pochi partiti e movimenti politici del Vecchio Continente, pur ignorando forse la figura di Gravelli, sembrano aver ripreso le sue “ricette” ed alcuni temi dell’”Antieuropa” senza essere per questo fascisti o neofascisti in una sorta di convergenza evolutiva, segno che questa Europa senza identità nazionali e senza fondamenti popolari a molti non piace. Il destino beffardo volle che a scrivere su “Antieuropa” ci fosse anche colui che sognava un’Europa totalmente diversa da quella che voleva il Bresciano e che poi ispirò considerevolmente quella attuale: Richard Nikolaus, Conte di Koudenhove-Kalergi. Domenico Verta 27 Stoccata Finale Volo di D Annunzio a Trieste Cecco Peppe: Mancia di 20.000 Corone a chi lo prende vivo o morto. Guardia: Come fare a prenderlo?... Mettigli il sale sulla coda. 28 Contatti Sito Internet: www.movimentoirredentistaitaliano.it Indirizzo di posta elettronica: [email protected] Pagina Facebook: www.facebook.com/movimento.irredentista.italiano.pagina.ufficiale Profilo Twitter: https://twitter.com/MovIrredentista : http://bibliotecairredentista.wordpress.com/ http://archivioirredentista.wordpress.com/ 29 30