Vol. 44 • N. 176 Ottobre-Dicembre 2014

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Vol. 44 • N. 176
Ottobre-Dicembre 2014
Neurologia PEDIATRICA (a cura di M. Ruggieri)
Scienze “omiche” e biologia dei sistemi complessi: applicazioni in neurologia pediatrica
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
FRONTIERE (a cura di A. Biondi, A. Iolascon, L.D. Notarangelo, M. Zeviani)
Farmaci che modulano l’espressione del dna: attuali e potenziali applicazioni in pediatria
Focus (a cura di G. Andria)
Nuove terapie per la fibrosi cistica
Tavola rotonda (a cura di F. Sereni, F. Rusconi)
Ambiente e salute nel bambino
Pacini
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Medicina
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Vol. 44 • N. 176
Ottobre-Dicembre 2014
INDICE numero 176 Ottobre-Dicembre 2014
neurologia pediatrica (a cura di Martino Ruggieri)
Presentazione
Scienze “omiche” e biologia dei sistemi complessi: applicazioni in neurologia pediatrica
Martino Ruggieri, Vincenzo Salpietro, Valentina La Cognata, Giovanna Morello, Giulia Gentile, Daniela Concolino,
Agata Polizzi, Sebastiano Cavallaro...................................................................................................................................................... 211
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
Giuseppe Gobbi, Jasenka Sarajlija, Sara Leonardi, Elena Di Pietro, Federico Zara, Pasquale Striano.................................................. 226
Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Farmaci che modulano l’espressione del dna: attuali e potenziali applicazioni in pediatria
Giovanna Russo, Milena La Spina, Piera Samperi, Luca Lo Nigro......................................................................................................... 240
FOCUS (a cura di Generoso Andria)
Nuove terapie per la fibrosi cistica
Valeria Raia, Fabiola De Gregorio, Antonella Tosco, Luigi Maiuri.......................................................................................................... 246
TAVOLA ROTONDA (a cura di Fabio Sereni, Franca Rusconi)
Ambiente e salute nel bambino
Presentazione
Fabio Sereni.......................................................................................................................................................................................... 253
Ambiente e malformazioni congenite
Pierpaolo Mastroiacovo ....................................................................................................................................................................... 254
Inquinamento atmosferico
Francesco Forastiere............................................................................................................................................................................ 256
Inquinamento e sviluppo cognitivo
Jordi Sunyer......................................................................................................................................................................................... 258
Inquinamento e tumori infantili
Corrado Magnani.................................................................................................................................................................................. 260
Siti inquinati e salute infantile
Ivano Iavarone...................................................................................................................................................................................... 261
Inquinamento e alterazioni del programming fetale
Ernesto Burgio...................................................................................................................................................................................... 262
Inquinamento e interferenti endocrini
Sergio Bernasconi................................................................................................................................................................................ 264
Conclusioni
Fabio Sereni, Franca Rusconi, Generoso Andria................................................................................................................................... 266
Neurologia pediatrica
La sezione di Neurologia pediatrica contiene due articoli di aggiornamento, uno di carattere più generale sulle recenti novità in questo
campo, orientato però, in questo numero, verso un tema un po’ più specifico quale le scienze “omiche” e la biologia dei sistemi applicate a
questa branca della pediatria, e il secondo focalizzato su entità nosologiche ben conosciute dalla comunità pediatrica (le sindromi epilettiche) rivisitate alla luce delle più moderne conoscenze e dei progressi più significativi che si sono avuti negli ultimi anni.
Il primo articolo riassume – nella sua prima sezione – i principi generali di un campo emergente delle scienze biomediche e non, le cosiddette scienze “omiche”, cioè quelle discipline che studiano grandi gruppi di molecole biologiche (per esempio, DNA, RNA, proteine, metaboliti)
al fine di valutare i complessi effetti che queste molecole e le funzioni da loro attuate (per esempio, genomica, trascrittomica, proteomica,
metabolomica) esercitano sui processi fisiologici e/o patologici all’interno degli organismi viventi. Tale approccio, che è di tipo olistico, ha il
fine di poter comprendere, operando con metodi integrativi, principi operativi di livello più elevato, individuando nuove molecole e/o gruppi
di molecole (marcatori biologici) che spieghino in maniera più completa (rispondano a) domande biologiche gerarchicamente più complesse
(per esempio, patogenesi, storia naturale o successo terapeutico e prognosi di una malattia). Questi principi generali, nella seconda sezione
dell’articolo, vengono applicati alla neurologia pediatrica, spiegando, attraverso il dialogo tra diverse piattaforme biologiche (biologia dei
sistemi: per esempio, genomica vs. trascrittomica, trascrittomica vs. proteomica/metabolomica) la neurobiologia dello sviluppo del sistema
nervoso e le diverse patologie del sistema nervoso in età pediatrica.
Il secondo articolo riguarda la genetica delle varie forme d’epilessia e le forme genetiche di epilessia, cioè dell’affezione neurologica più
frequente in età pediatrica. Il concetto di epilessia, sia in età evolutiva sia in quella adulta, è cambiato notevolmente negli ultimi anni proprio
grazie ai progressi della metodologia e delle tecniche di genetica molecolare e biologia cellulare. Tranne poche e limitate forme la quasi
totalità delle sindromi epilettiche ha origine genetica, e, dato interessante (ma in linea con le conoscenze derivate proprio dalle scienze
omiche e dalla biologia dei sistemi) alcuni geni e le alterazioni di alcune proteine sottendono numerose forme di epilessia. Dato ancora
più interessante, oggi possiamo meglio comprendere perché alcune forme di epilessia si presentano nel bambino (ma anche nell’adulto)
all’interno di (in associazione a) fenotipi neurologici assai più complessi che non includono solo il disturbo parossistico di tipo epilettico, ma
anche altri quadri neurologici, psichiatrici e/o comportamentali, quali ad esempio disturbi del movimento (per esempio, discinesie, distonie,
forme di corea), deficit cognitivi, autismo e disturbi pervasivi dello sviluppo, cefalea, disturbi dell’apprendimento e/o disturbi del sonno.
Comprendiamo anche che non è (o non è solo) il danno neuronale causato dal ripetersi delle convulsioni (epilessia) a causare i disturbi
neurologici associati (per esempio, autismo, deficit cognitivo, disturbi del movimento) ma sono le errate interazioni tra le proteine anomale
causate dal deficit genetico a comportare la molteplicità e la complessità dei disturbi neurologici associati. Si spiega così la gravità di alcuni
quadri neurologici, la resistenza al trattamento con i farmaci antiepilettici e la complessità della storia naturale di alcune sindromi epilettiche. Si intravede anche allo stesso tempo la potenzialità diagnostica delle metodiche oggi a nostra disposizione e la possibilità (presente in
alcuni casi o) futura di terapie antiepilettiche genetiche.
Martino Ruggieri
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Pediatria, Università degli Studi di Catania
209
Ottobre-Dicembre 2014 • Vol. 44 • N. 176 • Pp. 211-225
neurologia pediatrica
Scienze “omiche” e biologia dei sistemi
complessi: applicazioni in neurologia pediatrica
Martino Ruggieri1, Vincenzo Salpietro2, Valentina La Cognata3, Giovanna Morello3,
Giulia Gentile3, Daniela Concolino4, Agata Polizzi5,6, Sebastiano Cavallaro3,6
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Catania
Dipartimento di Scienze Pediatriche, Unità di Genetica e Immunologia Pediatrica, Università di Messina
3
Unità di Genomica Funzionale, Istituto di Scienze Neurologiche, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Catania
4
Dipartimento di Pediatria, Università degli Studi “Magna Grecia”, Catanzaro
5
Centro Nazionale delle Malattie Rare, Istituto Superiore di Sanità, Roma
6
Istituto di Scienze Neurologiche, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Catania/Catanzaro/Cosenza
1
2
Riassunto
Le scienze “omiche” si occupano dello studio di pool di molecole biologiche (es., ioni, acidi nucleici, proteine, enzimi) in determinati campioni biologici (per
esempio, siero, urine, liquor, saliva, tessuti). Esse analizzano, nel loro insieme: (a) i geni del DNA (genomica) e le loro funzioni (genomica funzionale); (b)
i trascritti del DNA, cioè l’RNA (trascrittomica); (c) le proteine (proteomica); (d) i metaboliti all’interno di un organismo (metabolomica). Studiano anche le
interazioni tra queste molecole (interattomica) e tra queste molecole e i microrganismi della flora intestinale (microbiomica) o dell’ambiente (infettivoma/
infettivomica), i cibi/nutrienti (nutribioma/nutribiomica) e l’ambiente in generale (ambientoma/ambientomica) nonché le modificazioni prodotte da tali
interazioni sul DNA (epigenomica). Lo scopo di tale approccio olistico è quello di poter comprendere operando con approcci integrativi, principi operativi
di livello più elevato, che nel complesso definiscono la biologia dei sistemi. Ciò al fine di potere rispondere a domande biologiche gerarchicamente più
complicate (per esempio, patogenesi, storia naturale o successo terapeutico e prognosi di una malattia). Si avvalgono dell’impiego di tecniche di analisi
genetica comparativa (array-CGH) o di variazioni del numero di copie del DNA (CNV) o di sequenziamento del DNA o computazionali che analizzano dati di
decine, centinaia o migliaia di molecole/campioni. Tali metodiche sono oggi disponibili in svariati laboratori internazionali e nazionali. L’articolo analizza tali
aspetti generali e di laboratorio e le applicazioni di ricerca e pratiche in neurologia pediatrica: per esempio, marcatori biologici nelle distrofie muscolari,
nelle malattie immuno-mediate del sistema nervoso centrale, nelle encefalopatie epilettiche e ipossico-ischemiche, nei traumi cranici ed in neuroncologia;
nuovi metaboliti in malattie neurodegenerative rare; analisi di sistemi e di reti neuronali/neurali in neurobiologia dello sviluppo.
Summary
The “omics” focus on the study of pools of biological molecules (e.g., ions, nucleic acids, proteins, enzymes) in biological samples (e.g., serum, urines, cerebrospinal fluid, saliva, tissues). They analyse, as a whole: (a) DNA genes (genomics) and their functions (functional genomics); (b) DNA transcripts or RNA
(transcriptomics); (c) proteins (proteomics); (d) metabolites (metabolomics). Omics also study reciprocal interactions occurring between such molecules
(interactomics) and those between these molecules and the intestinal bacterial flora (microbiomics), the environmental bacterial flora (bacteriomics), food
and nutrients (foodomics) and the environment (enviromics) or the environmental modifications affecting the structure of DNA (epigenomics). The aim of
such holistic approach is to understand, operating via integrative approaches, higher and more complex hierarchical principles [e.g., (complex) systems
biology] aimed in turn to reply to higher-level biological queries (e.g., pathogenesis, natural history or successful prognostic/therapeutic accomplishments).
From a practical viewpoint omics use methodologies and techniques based on comparative array genome analysis (array-CGH), copy number variation
(CNV), whole-genome sequencing or computed-based assays, which analyse dozens, hundreds or thousands of molecules/samples. These methodologies
are currently available in a number of international and national laboratories. The present review article focuses on these general and laboratoy aspects
and on the practical laboratory/bench-side applications in the field of paediatric neurology: e.g., biomarkers in muscular dystrophies, in immune-mediated
diseases of central nervous system, in epileptic and hypoxic-ischaemic encephalopathies, in brain traumas and in neuroncology; new metabolites in neurodegenerative diseases; analysis of neuronal/neural networks and systems in developmental neurobiology.
Metodologia della ricerca bibliografica
Definizioni
La ricerca degli articoli rilevanti su scienze omiche [omics] e biologia
dei sistemi [systems biology] in neurologia pediatrica è stata realizzata
utilizzando le seguenti banche dati: (a) Pubmed; e (b) Embase. Le parole chiave utilizzate sono state: “genomics”; “transcriptomics”; “proteomics”; “metabolomics”; systems biology”; “neurology”; “neurobiology”; “brain”; “nervous system”; “children”; “childhood”; “pediatrics”.
È stato utilizzato inoltre il seguente filtro: “years 0-18”. È stata attribuita
maggiore importanza ai lavori pubblicati negli ultimi 3-5 anni.
Le scienze omiche studiano pools di molecole biologiche (es., ioni, acidi
nucleici, proteine, enzimi), con svariate funzioni all’interno degli organismi
viventi. Tali funzioni sono legate alle capacità, intrinseche a tali molecole, di
potere trasformare (processo di traslazione) le loro strutture e i loro legami
chimici e/o elettrostatici in processi energetici/biochimici volti alla creazione di altre strutture o all’interazione con altre strutture, allo scopo ultimo di
modificare/creare strutture o funzioni diverse da quelle originali.
Esempio: il DNA, costituito da coppie di acidi nucleici legati da le-
211
M. Ruggieri et al.
gami chimici/elettrostatici, può alterare tali legami, modificando
temporaneamente o permanentemente la propria struttura, creando
(tra le altre funzioni) un’altra struttura speculare (l’RNA), che attraverso molteplici passaggi di modificazione della propria struttura,
d’interazione con altre strutture e di analisi/interpretazione (“lettura”) della propria sequenza strutturale, creerà strutture diverse dalle
precedenti (le proteine) con funzioni, legami e interazioni differenti
da quelle originali (Mortazavi et al., 2008; Cookson et al., 2009).
Le scienze omiche hanno quindi l’obiettivo primario di analizzare nel
loro insieme:
(a) i geni contenuti nel DNA (genomica) e le loro molteplici funzioni
(genomica funzionale);
(b) il prodotto della trascrizione del DNA: l’RNA (trascrittomica);
(c) le proteine codificate dal DNA attraverso l’RNA (proteomica);
(d) le molecole che interagiscono all’interno di un organismo (metaboliti: metabolomica).
Tale analisi, negli organismi viventi, avviene in un determinato campione biologico: es., siero, plasma, urine, liquor, condensato del respiro, saliva, secrezioni mucose, cellule e/o tessuti specifici.
Tra gli altri obiettivi delle scienze omiche vi è anche quello di studiare le connessioni e le interazioni reciproche tra i pool di molecole
biologiche (interattomica) e tra queste molecole e i microrganismi
della flora intestinale (microbiomica), o quelli estranei a quest’ambiente (infettivomica), i cibi e/o i nutrienti (nutribiomica) e l’ambiente
in generale (ambientomica).
Origine del termine “omiche”
L’Oxford English Dictionary [OED] riconosce diversi significati del
suffisso -omiche (-omics). Uno tra questi è: “…in biologia cellulare
e molecolare…. il suffisso -omiche è utilizzato per formare nomi con
significato di… indicare tutti i costituenti analizzati collettivamente”
(all costituents analysed collectively).
Le origini del suffisso -oma, si fanno risalire agli ultimi decenni del
XIX secolo con la creazione di termini biologici/botanici quali “scleroma” o “rizoma”. Tali termini deriverebbero dall’utilizzo del suffisso
greco (la sequenza) “οmα”, composta da due parti: -ο- mα- derivanti dalla scomposizione di -ο- (intesa nel senso di radice verbale)
e -mα- (il vero suffisso greco utilizzato per formare nomi astratti).
L’impiego di questa terminologia in campo biomedico risalirebbe
agli inizi del XX secolo (1916-1920) con l’utilizzo del termine ”bioma” e ”genoma” (di origine tedesca), utilizzato per definire la “interezza”, la “completezza” di una cosa o di un campo di studi (come
accadeva per la parola genoma che voleva significare “tutta la costituzione genetica di un organismo”). Furono poi i bioinformatici e
i biologi molecolari ad applicare tale suffisso in maniera più ampia
ai loro studi e alle loro branche di studio: probabilmente a Hinxton
(Cambridge), in Inghilterra, dove sorgevano la maggior parte dei primi e più importanti laboratori di bioinformatica.
Approcci olistici per domande complesse
Le scienze omiche sono sistemi di studio scientifico e tecniche che
permettono di analizzare insiemi di fattori complessi in maniera olistica: cioè, in biomedicina, pool di molecole biologiche, parti di una
cellula o sistemi enzimatici, cellulari o tissutali, microrganismi o vie
metaboliche, operanti all’interno degli organismi viventi in maniera
complessa. Lo scopo di tale approccio olistico è quello di poter comprendere operando con approcci integrativi, principi operativi biologici di livello più elevato (complesso), applicabili a tutti gli organismi
212
viventi (Geshwind e Konokpa, 2009; Kell et al., 2007; Villoslada et
al., 2009).
Nelle scienze biologiche e mediche, non tutte le domande sono
formulabili (e quindi risolvibili) direttamente attraverso la singola sperimentazione clinica e/o di laboratorio, essendo fenomeni
spesso strutturati in una scala gerarchica di eventi, nella quale i
livelli sono a loro volta determinati dall’ampiezza/complessità delle
risposte che la ricerca si attende. In pratica, una singola domanda
o alcuni tipi di domande possono essere risolte attraverso singole
conferme sperimentali cliniche e/o di laboratorio che studiano una
(sola) parte dell’insieme (modello della “dimostrazione sperimentale di un’ipotesi”). All’estremo opposto di questa gerarchia troviamo
però domande più generali, più astratte o più complesse che non
possiamo risolvere solo attraverso la dimostrazione di singoli esperimenti clinici e di base. La risposta a tali quesiti complessi può essere
ottenuta solo attraverso la creazione, costruzione e/o l’integrazione
di modelli induttivi più complessi, per i quali è necessario un grado
maggiore di astrazione e di visione d’insieme. L’astrazione, in questo
caso, consiste nel sostituire la singola parte del sistema che si sta
considerando con un modello simile, ma di struttura più semplice
(Villoslada et al., 2009). Spesso i risultati di questo tipo di analisi
forniscono risposte inattese o generano nuove domande che richiedono successivi approcci.
Biologia dei sistemi complessi
L’integrazione di tutte le scienze e tecnologie omiche (principalmente: genomica, trascrittomica, proteomica, metabolomica), è definita
biologia dei sistemi complessi (Geshwind e Konokpa, 2009; Villoslada et al., 2009; Westerhoff et al., 2004) (Fig. 1).
La novità principale offerta da tale approccio (sistemistico) è il miglioramento della comprensione di un sistema (che è un gruppo di
entità, interconnesse, che formano un insieme integrato) considerato come l’insieme di molecole biologiche che lo compongono (e
cioè geni, trascritti, proteine, metaboliti) (Fig. 1A). La biologia dei
sistemi complessi e le varie tecnologie omiche a essa correlate hanno rivoluzionato negli ultimi anni l’approccio alle patologie umane
innovando il metodo scientifico in ambito biomedico. Gli esperimenti
di ricerca condotti attraverso l’utilizzo delle sempre crescenti tecnologie di tipo omico non si basano, come accennato sopra, solitamente su ipotesi pre-esistenti (da dimostrare sperimentalmente) ma
più spesso generano, attraverso i risultati della ricerca stessa, nuove
informazioni e nuove ipotesi che andranno poi analizzate e confermate da successivi studi (Emilsson et al., 2008; Kell et al., 2004).
Metodo riduzionistico vs. approccio sistemistico
Il procedimento di studio delle scienze omiche (e della biologia dei
sistemi complessi), ripercorre in senso inverso, le tappe della ricerca
biomedica: abbiamo categorizzato i sistemi degli organismi viventi
in maniera riduzionistica, per caratteristiche anatomiche, funzioni biologiche o di sistemi/network, composizioni cellulari/tissutali,
meccanismi di base molecolari/cellulari. Ciò ha contribuito a notevoli
successi in campo biomedico: con questo tipo di procedimento, la
dimostrazione di una semplice correlazione tra un parametro biologico e il verificarsi di malattia è stato considerato un successo,
anche quando i meccanismi patogenetici della malattia rimanevano,
per la maggior parte, sconosciuti. Il procedimento di studio di tipo
omico e dei sistemi complessi, intende invece trasferire (traslare)
le singole conoscenze, le singole dimostrazioni in sistemi assai più
Omiche e biologia dei sistemi in neurologia pediatrica
complessi e di livello gerarchicamente più elevato, studiando non solo
i componenti di un singolo sistema, ma anche le interazioni tra essi e
le interazioni con il resto dell’ambiente (questo di tipo di procedimento è conosciuto come “pensiero sistemistico”) (Fig. 1). Ciò al fine di
potere rispondere a esigenze e domande più elevate. Guardando al
sistema nervoso, ad esempio, bisognerà pensare in termini di sistemi
complessi di memoria, apprendimento, comportamento (come sistemi
integrati, in senso trasversale) analizzando i diversi fenotipi neurologici e sindromici e cercando di unirli in grandi categorie e gruppi.
Teoria del complesso e della complessità
(proprietà emergenti)
L’analisi dei sistemi biologici offre la possibilità di studiare proprietà
collettive, cioè proprietà che non possono essere predette dallo studio
del comportamento di un singolo componente ma solo dallo studio
dell’insieme di quei componenti. Nella biologia dei sistemi, così come
nella scienza della complessità, queste proprietà collettive (intrinseche) sono conosciute come emergenti perché sono generate (emergono) da numerose cause e non sono esclusivamente rappresentate
dalla sommatoria di tali cause (Geshwind e Konokpa, 2009; Kell et
al., 2007; Villoslada et al., 2009). Le proprietà (capacità) emergenti sono comuni a tutti i sistemi fisiologici e sono caratterizzate, ad
esempio, dalla capacità di mantenere il volume ematico, la pressione sanguigna, il pH tissutale o la temperatura corporea. Le proprietà
emergenti del sistema nervoso (e più specificamente del cervello)
includono, ad esempio, i processi di apprendimento, memoria ed
emozioni che non possono essere spiegati solo dalla comprensione,
anche molto dettagliata e completa, dei meccanismi di funzionamento dei singoli neuroni, perché, in realtà, sono il risultato d’inte-
razioni non-casuali tra cellule altamente specializzate organizzate
in reti assai complesse: quindi, la comprensione di tali funzioni/proprietà potrà essere attuata solo evitando di separare tali cellule/reti
che andranno studiate nella loro interezza (teoria del complesso e
delle complessità).
Cosa ci insegnano i sistemi complessi sociali:
popolazioni, internet, reti aeroportuali
Un’applicazione, relativamente recente, della biologia dei sistemi è
lo studio di tali sistemi/proprietà attraverso i modelli induttivi e le
conoscenze derivate e traslate dall’osservazione delle interazioni tra
altri grandi sistemi complessi conosciuti e studiati da più tempo: per
esempio, interazioni tra popolazioni o tra gruppi sociali all’interno di
popolazioni, sistemi computazionali e internet, sistemi aeroportuali.
Per esempio, se all’interno di un sistema (una rete) aeroportuale
complesso(a) internazionale (quindi una rete che può connettere
diverse città all’interno di una nazione, ma principalmente connette diverse nazioni tra diversi continenti) all’improvviso, o progressivamente, si altera il normale funzionamento (per neve, vento o
ghiaccio) di un nodo aeroportuale importante (l’aeroporto JFK di
New York), questo mancato funzionamento genererà ripercussioni
immediate sul traffico aereo locale del New Jersey (come, ritardi,
mancate partenze), ed a poco a poco, anche su quello della costa
orientale statunitense ed infine, a breve o medio termine, anche
sul traffico aereo dei principali nodi aeroportuali europei, asiatici
e così via. Quindi, il mancato funzionamento di un singolo nodo di
una rete si ripercuote su altri nodi della rete e poi sull’insieme dei
nodi di tutta la rete anche in aree distanti da quella del primo nodo
non funzionante. La gravità del danno finale è legata all’impor-
Figura 1.
(A) Network di geni, trascritti di m-RNA, proteine e metaboliti formano nel loro insieme il genoma, il trascrittoma, il proteoma ed il metaboloma e
la loro interazione con l’ambiente (B) determina il fenotipo finale.
213
M. Ruggieri et al.
tanza strategica del nodo colpito. Tale modello di funzionamento
è stato (e viene) applicato al funzionamento dei nodi delle reti di
geni e/o dei nodi e dei circuiti neuronali complessi del cervello e
i modelli induttivi. Esempi sono gli studi di genomica funzionale e
studi con risonanza magnetica trattografica (cioè analisi di determinati circuiti neuronali attraverso ricostruzioni con software dei
metaboliti/trasmettitori che li attraversano) traslati alle malattie
sistemiche o neurologiche complesse. Ciò, per meglio comprendere come un danno in un determinato gene o in una determinata
area cerebrale, possa ripercuotersi su altri geni o su altre regioni
cerebrali viciniori o distanti.
Scienze omiche e dei sistemi complessi
(applicazioni pratiche): marcatori biologici
Le tecnologie omiche hanno un potenziale di applicazione molto
vasto che va dall’aumento della comprensione di svariati processi fisiologici e fisiopatologici, al loro impiego nello screening, nella diagnosi e nella valutazione della storia naturale, della risposta
alla terapia e/o della prognosi di diverse patologie sia del bambino
così come dell’adulto (Muntoni e Cross, 2015). La tendenza naturale
delle strategie di ricerca omiche è quella di studiare contemporaneamente diverse molecole con l’obiettivo di identificare (singoli e
gruppi di) marcatori biologici che intervengono in vari stadi di una
patologia. Le caratteristiche ideali di un marcatore biologico sono la
non invasività, il basso costo economico, la sensibilità e la specificità: infine, è di fondamentale importanza che i risultati ottenuti siano
facilmente replicabili da altri studi. Sotto quest’aspetto, le scienze
omiche operano identificando continuamente nuove molecole e/o
ruoli diversi inattesi di molecole già conosciute in precedenza (vedi
sotto: sezione malattie neuromuscolari).
Le tecnologie omiche stanno rivestendo crescente importanza ad
esempio per l’identificazione di nuovi farmaci e per la valutazione
della loro tossicità ed efficacia. Il settore della farmacogenomica
è il risultato dell’interazione della genomica con la farmacologia e
studia il ruolo dell’ereditarietà nella variazione interindividuale della
risposta a determinate terapie, con la prospettiva dell’individualizzazione delle terapie stesse e dell’ottimizzazione della loro efficacia
(Evans e Relling, 2004).
L’incontro tra scienze omiche (per esempio, genomica funzionale) e
studio del sistema nervoso (per esempio, neuroscienze) ha permesso, ad esempio, sino a oggi, l’identificazione delle basi molecolari
della diversità neuronale, della sinaptogenesi, di marcatori biologici
di malattia, di meccanismi di malattia e di numerosi segnali all’interno delle vie metaboliche, e la creazione di piattaforme libere di
scambio d’informazioni su scala genomica (Colantuoni et al., 2000;
Caceres et al., 2003, Diaz 2009) (Fig. 2).
Omiche e sistemi complessi
Genoma e genomica
La genomica è lo studio sistematico del genoma, che rappresenta
la quantità totale di DNA di una cellula o un organismo. Il genoma
umano contiene oltre 3 miliardi di paia di basi ed almeno 25.000
geni codificanti. Le tecniche di DNA microarray consentono di misurare le differenze di espressione delle sequenze di DNA tra diversi
individui, permettendo l’analisi dell’espressione di migliaia di geni
simultaneamente. Queste tecniche consentono di rilevare la presenza di anomalie come le inserzioni e/o le delezioni cromosomiche at-
214
traverso l’esame del CGH (Comparative genome hybridisation) array
(Emilsson et al., 2008). Le più comuni varianti inter-individuali nelle
sequenze del DNA sono i polimorfismi a singolo nucleotide (SNP),
nei quali un nucleotide si sostituisce a un altro; questi polimorfismi
possono avere un significato funzionale soltanto se il cambiamento determina la formazione di un codone che contiene un diverso
amminoacido. I polimorfismi a singolo nucleotide possono avere un
ruolo anche nella farmacogenomica, cioè nel prevedere le risposte
individuali di alcuni pazienti ad alcuni farmaci.
Trascrittoma e trascrittomica
L’espressione dei geni è la parte fondamentale del processo attraverso il quale il genotipo di un individuo può determinare un caratteristico fenotipo (Enard et al., 2002; Faulkner et al., 2009; Watters
et al., 2003) (Fig. 1). Le informazioni contenute nei geni vengono
utilizzate per creare prodotti funzionali attraverso:
a. la generazione di copie di RNA pre-messaggero attraverso il
processo di trascrizione, cioè quel processo di assemblaggio di
(pre)m-RNA a partire dalla copiatura di una catena di DNA;
b. le modificazioni post-trascrizionali che producono diverse forme
di RNA messaggero (m-RNA) codificante attraverso fenomeni di
splicing (dall’inglese “montaggio”: fenomeno, cha avviene assieme o subito dopo la trascrizione del DNA, attraverso il quale
il nascente pre/m-RMA viene modificato attraverso l’eliminazione degli introni e l’unione degli esoni), capping (dall’inglese
“incappucciare”: fenomeno attraverso il quale viene apposta
una molecola di 7-metil-guanosina all’estremità 5’ terminale del
pre-m-RNA che servirà per l’attacco del m-RNA al ribosoma) e
poliadenilazione [aggiunta di una sequenza poliadenilica all’estremità 3OH del nascente catena di pre-m-RNA con funzioni
importanti per la successiva lettura ribosomiale e traduzione];
c. la sintesi di proteine attraverso il processo di traduzione (assemblaggio del ribosoma dalle due unità maggiore e minore
attraverso l’unione di proteine ribosomiche e RNA ribosomiale,
che fornirà i meccanismi per decodificare l’m-RNA e successiva
lettura del m-RNA con aggiunta sequenziale di aminoacidi [trasportati dall’RNA di trasporto] alla nascente catena peptidica);
d. le modificazioni post-traslazionali delle proteine (de la Grange
et al., 2010).
Ciascuna di queste fasi è influenzata da una complessa interazione
di eventi che sono regolati a più livelli. La prima di queste fasi, la trascrizione, esprime la capacità della cellula di produrre un gruppo di
molecole di RNA (o trascritti) che comprendono m-RNA codificante
ma anche RNA di trasporto (t-RNA), RNA ribosomiale (r-RNA) e RNA
non codificante (nc-RNA), quest’ultimo composto anche da piccoli frammenti di RNA (small-RNA o s-RNA) conosciuti anche come
microRNA (miRNA) ed implicati nei processi di attivazione e repressione dell’RNA trascritto, cioè nelle modificazioni post-trascrizionali
dell’RNA. Ciascuno di questi tipi di trascritto è presente nelle cellule,
regolandone la vita e le funzioni biologiche. Il trascrittoma rappresenta l’insieme di questi tipi di trascritto presenti in una cellula, in un
tessuto o in un organismo (Dermitzakis, 2008).
Il trascrittoma può essere considerato quindi una struttura molto
complessa e dinamica che è sensibile alle varie fasi dello sviluppo degli organismi, cosi come all’ambiente dei vari tipi di cellule
e tessuti nei quali viene espresso ed agli effetti di fattori esterni
che possono influenzare sia i processi trascrizionali che quelli posttrascrizionali. La trascrittomica è quella branca delle scienze omiche
che studia questo insieme (il trascrittoma), misurando l’espressione
dei geni con indagini molecolari complicate che spaziano dalla tecnologia microarray al sequenziamento diretto dell’RNA.
Omiche e biologia dei sistemi in neurologia pediatrica
Figura 2.
Applicazioni della proteomica in medicina.
L’obiettivo principale della trascrittomica è di misurare i trascritti e la
loro espressione in relazione al tipo di cellule e/o tessuti, cosi come
all’età dell’organismo in cui vengono misurati. Il profilo trascrittomico fornisce informazioni sulle molteplici differenze di espressione di
un determinato gruppo di geni sotto l’influenza di vari fattori (Dermitzakis, 2008; Geshwind e Konopka, 2009).
Un singolo gene può esprimersi in molti modi, in relazione allo stadio
di sviluppo della cellula e ad eventi esterni ed interni alla cellula.
Diversi cambiamenti dell’espressione genica sono stati identificati
come causa di patologie genetiche, multifattoriali e di disordini dello
sviluppo (Cotton e Scriver 1998; Dermitzakis et al., 2008; Emilsson,
et al., 2008; Buechel et al., 2011; Gregg, et al., 2008; Lahiry et al.,
2010; Mudge, et al., 2008; Muers 2010). Anche la posizione, l’ingombro sterico e le differenze dell’architettura territoriale tra i singoli cromosomi e più in generale del materiale genetico all’interno
del nucleo gioca un ruolo importante per i processi di trascrizione ed
espressione genica (Cremer et al., 2006). Ruoli importanti vengono
infine assunti anche da fenomeni epigenetici causati dall’ambiente,
alimentazione, dieta e calore nella modulazione del materiale genetico trasmesso, ad esempio, per via paterna (es., sperma, liquido
seminale) (Rando 2012).
Proteoma e proteomica
Il proteoma è definito come l’insieme di tutte le proteine espresse in
un sistema biologico (una cellula, un tessuto, o l’intero organismo)
(Theodorescu et al., 2007). Scopo della proteomica è di caratterizzare le reti di proteine (i networks) interconnesse che operano scambiando informazioni all’interno delle cellule e/o dell’organismo, con
l’obiettivo di comprenderne le funzioni e le interazioni con agenti
esterni (Petricoin et al. 2002).
Il proteoma rappresenta quindi l’espressione dinamica sia dei geni
che dei fattori ambientali ed il suo studio è altamente promettente
per l’identificazione di nuovi marcatori biologici in varie patologie
(Vlahou et al., 2005) (Fig. 2). L’impiego della proteomica ha già prodotto risultati importanti, identificando proteine che rappresentano
marcatori biologici altamente sensibili (quali, l’alfa-fetoproteina sierica nelle malformazioni congenite del tubo neurale o nella sindrome
di Down; gli antigeni carcino-embrionari in alcune patologie neoplastiche) (Rifai et al., 2006).
Metabolomica
La metabolomica è la scienza omica che si basa sull’analisi e l’interpretazione delle funzioni dei metaboliti (molecole di basso peso molecolare) di un determinato sistema biologico (cellula, tessuto, sistema,
organismo) sotto l’influenza di una serie di condizioni (Kell et al., 2006;
Wikoff et al., 2007). Tra tutte le tecnologie omiche la metabolomica è
la più recente ed è considerata quella che si avvicina di più all’espressione definitiva del fenotipo, inteso come risultato dell’interazione tra
geni ed ambiente. Le tecnologie metabolomiche hanno infatti la caratteristica di studiare non soltanto le correlazioni genotipo/fenotipo, ma
215
M. Ruggieri et al.
anche quelle tra genotipo e ambiente (ambientoma in inglese enviromics) cioè l’insieme dei fattori ambientali che agiscono dall’esterno
influenzando il fenotipo finale) (Fig. 3) (Emilsson et al., 2008).
L’espressione del profilo metabolico (metaboloma) di uno specifico sistema biologico è infatti il risultato finale delle informazioni contenute
nel codice genetico, dopo la sovrapposizione di altri fattori non relativi al genoma, come ad esempio l’interazione con i microorganismi
commensali (microbioma), i fattori nutrizionali (nutribioma), gli agenti
infettivi (infettivoma), l’esposizione a farmaci e/o sostanze tossiche
(farmaco/tossico-genoma) (Urbanczyk-Wochniak et al., 2003). Poichè
il metaboloma rappresenta il prodotto finale della trascrizione dei geni
dopo l’impatto con i possibili fattori ambientali, tutti i cambiamenti del
trascrittoma e del proteoma si rifletteranno sul profilo metabolico finale (cioè sul metaboloma). Per tale motivo la metabolomica può essere
considerata la tecnologia più promettente nello studio del fenotipo
complesso di un organismo (Dessì et al., 2014).
I metodi impiegati per le analisi metabolomiche sono generalmente
basati su indagini spettrometriche (spettrometria di massa, spettrometria basata sulla risonanza magnetica nucleare o entrambe)
(Fig. 4) (Fanos et al., 2013).
Epigenomica
Infine, tutti quei cambiamenti che alterano la funzione e l’espressione dei geni senza alterare la struttura del DNA, quali, metilazione del
DNA e rimodellamento/compattamento della cromatica (modificazioni degli istoni), modificazione dei trascritti dell’RNA (da parte dei
micro-RNA) e della codificazione delle proteine, modificazione degli
stessi micro-RNA e modificazioni da prioni, e che possono essere o
non essere ereditati, sono oggetto dello studio dell’epigenetica. Lo
studio di tutti questi fenomeni considerati nel loro insieme è conosciuto come epigenomica (de la Grange et al., 2010).
Malattie genetiche “monogeniche” vs. “monotrascrittomiche”
vs. “monoproteiche”
In base alle conoscenze attuali e a quanto prima esposto, le malattie
genetiche non dovrebbero essere più chiamate monogeniche, ma
(anche) monotrascrittomiche o monoproteomiche e probabilmente
non esistono malattie monogeniche, ma malattie da (errata o alterata) interazione tra più geni, più trascritti o più proteine e quindi in
ultima analisi, probabilmente, non esistono più malattie monogeniche in senso stretto, ma tutte le malattie sono causate (prevalentemente) da un singolo gene con associate alterazioni di altri geni
o di diversi trascritti o diverse proteine o errate interazioni tra geni
con trascritti e proteine o tra diversi trascritti e così via. Ci stiamo
quindi muovendo e ci muoveremo sempre più tra breve verso un
nuovo concetto di malattie genetiche, dove le mutazioni di singoli
geni specifici non giustificano la complessità dei fenotipi (Samocha
et al., 2014).
Il laboratorio delle scienze omiche
La preparazione di esperimenti che utilizzano le tecnologie omiche
devono essere eseguiti secondo procedure standardizzate e riproducibili (Brenner et al., 2000; Heinrich et al., 2007; MacArthur et al.,
2014; Molynereaux et al., 2007; Pan et al., 2008; Samocha et al.,
2014; Wang et al., 2008, 2009).
In genomica, le tecniche di microarray possono essere applicate con
varie finalità, tra queste la principale è sicuramente l’analisi dell’espressione genica. Il principio alla base del microarray è il legame
selettivo delle molecole di m-RNA, attraverso l’appaiamento delle
basi, a una sequenza di DNA complementare. Il DNA complementare
viene prima amplificato da una reazione di polimerasi a catena (PCR)
e successivamente immobilizzato su una griglia che funge da supporto solido per l’appaiamento con il DNA complementare (cDNA)
che viene estratto (attraverso un processo di trascrizione inversa)
dalle molecole di m-RNA che devono essere analizzate (Ramskold
et al., 2009; MacArthur et al., 2014).
I procedimenti iniziali di un esperimento di proteomica si basano
sulla purificazione e il frazionamento (attraverso tecniche cromatografiche) dei campioni, in modo da ridurre la complessità del proteoma da analizzare e interpretare. Questi procedimenti sono strettamente dipendenti dal tipo di campione biologico che si utilizza (es.,
Figura 3.
Influenza dell’“ambientoma” materno (es., stile di vita e nutrizione della madre) sul feto e influenza dei fattori ambientali perinatali (es., modalità
del parto, età gestazionale, adattamenti fisiologici) sul neonato e interazioni/influenze del patrimonio genetico (paterno/materno).
216
Omiche e biologia dei sistemi in neurologia pediatrica
plasma, siero, urine, liquor cefalo-rachidiano, ecc.). Nel caso delle
urine, ad esempio, saranno necessarie varie tecniche aggiuntive di
preparazione del campione che vanno dall’ultrafiltrazione alla precipitazione, procedimenti necessari a rimuovere gli elettroliti e concentrare le proteine presenti (Muers, 2010).
Anche negli studi eseguiti con tecniche metabolomiche la preparazione degli esperimenti è correlata al tipo di campione da analizzare. I campioni prima di essere analizzati devono infatti essere pretrattati con tecniche di frazionamento (cromatografia o elettroforesi)
che permettono la separazione delle varie componenti (proteine,
metaboliti) sfruttandone le diverse proprietà chimico-fisiche (Fanos
et al., 2013).
La spettrometria di massa è la tecnica maggiormente utilizzata per
identificare ed analizzare il proteoma e il metaboloma dei campioni
biologici (Fig. 4). La spettrometria con risonanza magnetica nucleare
presenta il limite di poter identificare i metaboliti solo se presenti in
concentrazioni molto elevate (Ramskold et al., 2009).
Gli studi che si basano su tecnologie omiche hanno la caratteristica
di generare un enorme quantità di dati, per cui successivamente agli
esperimenti in laboratorio sarà necessario utilizzare software di bioinformatica e statistica per eliminare i falsi positivi e per elaborare
le informazioni al fine di creare modelli multidimensionali che spieghino le interazioni all’interno del sistema e tra i vari sistemi (Amaral
et al., 2011; Gerhold et al., 2002; Human Genome Sequencing Consortium 2004; Irizarry et al., 2005; Kawasaki 2006; Landgraf et al.,
2007; Marioni et al., 2008; Pedotti et al., 2008; Hoen et al., 2008;
Velculescu et al., 1995) (Fig. 5).
Scienze omiche e biologia dei sistemi complessi
in neurologia pediatrica
Biologia dei sistemi complessi e neurobiologia dello sviluppo
La biologia dei sistemi complessi sta rivestendo un ruolo sempre
maggiore in neurologia e nello studio del cervello umano (Arhondakis et al., 2011; Asmann et al., 2009; Barton et al., 1993; Catts et al.,
2005; Chodroff et al., 2010; de Magalhaes et al., 2005; Fung et al.,
2011; Kuss e Chen, 2008; Lockhart et al., 2011; Mexal et al., 2006;
Myers et al., 2007; Nadler et al., 2006; Schonrock et al., 2010; St.
Laurent et al., 2009; Strand et al., 2006; van der Brug et al., 2010;
Zu et al., 2010).
Un settore di ricerca strategico e a sé stante è quello rappresentato
dall’applicazione delle tecnologie omiche nello studio delle malattie
neurologiche del bambino e dei disturbi neurologici e psichiatrici
nell’età dello sviluppo (Chodroff et al., 2010; Erray-Benchekroun et
al., 2005; Fung et al., 2011; Ponjavic et al., 2009; Roth et al., 2006;
Ziatts et al., 2011).
L’approccio omico nell’ambito delle neuroscienze pediatriche offre
infatti una interessante finestra di opportunità per la comprensione
Figura 4.
Sequenza di indagini metabolomiche: dall’estrazione dei metaboliti, alla spettrometria di massa, acquisizione dei dati, selezione di caratteristiche
comuni ai vari metaboliti, identificazione dei metaboliti, sino a giungere alla loro analisi e ricostruzione attraverso tecniche di bioinformatica per
costruire vie (cascate) metaboliche comuni.
Figura 5.
La misurazione dell’espressione di alcuni geni (espressi) nel sistema nervoso (A) permette di creare modelli di interconnessione tra tali geni volti a
formare reti complesse (network) (B): l’analisi di queste reti complesse permette infine di rappresentare in maniera multidimensionale (C) le singole
reti distinguendole e separandole in gruppi funzionali che comprendono differenti cellule del sistema nervoso (centrale) (adattata e modificata da
Geschwind e Konopka, 2009).
217
M. Ruggieri et al.
della complessa variabilità biologica dell’espressione dei geni, dei
trascritti, delle proteine e dei metaboliti durante lo sviluppo delle
strutture del sistema nervoso (dalla vita prenatale all’età evolutiva,
sino a quella adulta) (Nadeau 2001).
Com’è noto dall’embriologia, la maggior parte delle cellule cerebrali
sono formate già prima della nascita, ma il peso dell’encefalo di un
bambino alla nascita costituisce il 25% di quello che raggiungerà
durante l’età adulta. Per qualche anno dopo la nascita, il sistema
nervoso centrale continua ad accrescersi per raggiungere, entro l’età di 2 anni, circa l’80% del peso di quello dell’adulto (Dekaban et
al., 1978).
I neuroni e le cellule del sistema nervoso centrale possono sviluppare molte connessioni dopo la nascita, ma la maggior parte di queste si realizzano nel corso della prima infanzia, in risposta a nuove
esperienze e stimoli di apprendimento. All’età di circa 20 anni il sistema nervoso centrale avrà raggiunto una completa maturazione,
anche se alcuni processi di sviluppo, come la mielinizzazione degli
assoni, proseguiranno sino alla età adulta (Sowell et al., 2004). Durante l’età adulta (dopo i 50 anni) si verificano diversi cambiamenti
correlati all’età caratterizzati dalla riduzione del peso e del volume
dell’encefalo con diminuzione del numero dei neuroni (Masliah et al.,
1993); una riduzione del numero delle sinapsi (Peters, 2008) ed una
riduzione della sintesi dei neurotrasmettitori e della densità dei loro
recettori (Wong et al., 1984; Amenta et al., 1991; Ota et al., 2006).
Come risultato di questi cambiamenti, legati all’avanzare degli anni,
il sistema nervoso centrale perde la sua plasticità e si osserva un
certo grado di declino delle funzioni cognitive ed un aumento percentuale delle malattie neurologiche correlate all’età (Burke et al.,
2006; Salthouse et al., 2009).
Questi cambiamenti sono dovuti a variazioni dinamiche a livello
molecolare, che coinvolgono l’espressione genica (Hof et al., 2004;
Hong et al., 2008; Lu et al., 2004; Masliah et al., 1993; Somel et
al., 2006, 2009, 2010). Il trascrittoma del sistema nervoso centrale,
così come quello degli altri tessuti, è infatti un sistema dinamico
che cambia continuamente durante l’arco della vita, attraverso lo
sviluppo dell’encefalo (Naumova et al., 2013). Alcuni studi hanno
documentato un’associazione tra la trascrizione e lo sviluppo del
sistema nervoso centrale ed hanno dimostrato il ruolo fondamentale
dell’espressione dei geni nella formazione delle sinapsi e in vari altri
aspetti legati alle funzioni mentali superiori (Diaz et al., 2002, 2009;
Flavell et al., 2008).
Nel sistema nervoso centrale si verificano numerosi cambiamenti anatomici, durante la vita prenatale e l’età pediatrica, sempre accompagnati
da variazioni dinamiche nell’espressione genica a livello del tessuto cerebrale (Courchesne et al., 2000). Diversi studi di analisi dell’espressione genomica nel SNC durante l’età dello sviluppo hanno documentato
che l’organizzazione spaziale e temporale del trascrittoma nel SNC del
feto durante la vita prenatale è più complessa di quella nelle fasi dello
sviluppo successive alla nascita (Colantuoni et al., 2011; Johnson et al.,
2009; Kang et al., 2011; Lambert et al., 2011; Somel et al., 2010).
È stato documentato che il numero di geni espressi in specifiche
regioni della neocorteccia gradualmente decresce attraverso i
vari stadi dell’età evolutiva: dal 57,7% dei geni temporaneamente
espressi durante la vita fetale al 9.1% espressi durante lo sviluppo
post-natale (dalla nascita all’adolescenza), fino allo 0,7% espressi
nella vita adulta (dai 20 ai 60 anni) (Kang et al., 2011).
Alcuni geni coinvolti nello sviluppo del linguaggio e delle abilità linguistiche (FOXP2, CNTNAP2, CNTNAP5), ad esempio, sono altamente espressi nella vita fetale e nella prima infanzia, per poi essere
progressivamente meno espressi durante lo sviluppo del bambino
(Abrahams et al., 2007; Johnson et al., 2009).
218
Un esempio della dinamica temporale dell’espressione del trascrittoma
nel SNC fetale è una riduzione delle differenze interemisferiche dell’espressione genica durante gli stadi prenatali dello sviluppo. Durante la
vita intrauterina, già a partire dalla 14° settimana di gravidanza, è riconoscibile una significativa asimmetria dell’espressione genica tra l’emisfero destro e quello sinistro (Sun et al., 2005): tale asimmetria si riduce
progressivamente dopo la nascita, sino a scomparire completamente
con l’inizio della vita adulta (Khaitovich et al., 2004).
Gli studi di genomica funzionale hanno dimostrato che i geni coinvolti
nella differenziazione neuronale, nella proliferazione cellulare e nella migrazione dei neuroni hanno la loro massima espressione nella
corteccia del feto tra la 10° e la 13° settimana di gravidanza, e la
loro espressione si riduce sensibilmente e gradualmente dopo la 17°
settimana. I geni associati con lo sviluppo dei dendriti e delle sinapsi
(compresi i geni che codificano per i canali ionici) hanno invece un
notevole aumento della loro espressione nelle ultime fasi della vita
fetale (dopo la 20°settimana) fino all’adolescenza (Kang et al., 2011).
Nonostante l’espressione di geni a livello del sistema nervoso centrale
sia maggiore durante la vita fetale che in qualsiasi altro stadio dello
sviluppo, questa espressione rimane relativamente alta nel corso di
tutta l’età pediatrica (specialmente nella prima infanzia) se comparata
all’età adulta (Colantuoni et al., 2011). Gli studi di neurobiologia dello
sviluppo hanno quindi fornito negli ultimi anni importanti informazioni
sulla estrema variabilità dell’espressione genica del sistema nervoso
centrale durante l’età evolutiva.
L’applicazione di tali conoscenze rappresenta un’importante prospettiva di ricerca nell’ambito della neurologia pediatrica. Fasi precise
della vita pre-natale costituiscono infatti il momento di insorgenza
di determinate patologie genetiche e neurologiche di alcuni bambini,
aprendo scenari sull’applicazione delle tecnologie omiche anche nella
diagnosi pre-natale. Infine, tali conoscenze divengono/diverranno cruciali nella comprensione di determinate malattie proprie delle fasce
d’età più piccole, che in fasi successive dello sviluppo, modificano
le proprie caratteristiche fenotipiche evolvendo in forme sindromiche
differenti o scomparendo del tutto. Le stesse conoscenze sono importanti per comprendere perché i fenotipi pediatrici neurologici sono
talora totalmente differenti dalle rispettive controparti dell’età adulta.
Alcune patologie infine presentano storie naturali diverse in età infantile precoce, in età pre-scolare vs. pre-puberale e nell’adolescenza.
Scienze omiche e malattie immuno-mediate
del sistema nervoso centrale: sclerosi multipla
Un approccio di tipo omico è stato utilizzato negli ultimi anni in alcuni studi per analizzare il profilo proteomico e metabolomico della
sclerosi multipla (SM) a esordio in età pediatrica: ciò anche al fine
di potere identificare eventuali marcatori biologici (precoci) per la
diagnosi. Nello studio della SM a esordio nell’età adulta una delle
maggiori limitazioni è rappresentata dal fatto che si assume che le
alterazioni fisiopatologiche iniziali si siano verificate (da un punto di
vista biologico) anche diversi anni prima dell’inizio delle manifestazioni cliniche. L’età pediatrica ben rappresenta invece una finestra
temporale di opportunità importante per la comprensione fisiopatologica dei disordini demielinizzanti acquisiti e in particolare della
SM, poiché consente di studiare più precocemente i fenomeni che
si verificano in questo gruppo di patologie, sia a livello molecolare
che clinico.
In uno studio che ha analizzato il profilo proteomico di un gruppo
di 9 pazienti pediatrici con diagnosi di SM ad esordio infantile vs. 9
bambini sani (selezionati come controllo per sesso ed età) (Rithidech
Omiche e biologia dei sistemi in neurologia pediatrica
et al., 2009) sono state estratte le proteine dal plasma utilizzando
tecniche di elettroforesi bidimensionale su gel e il proteoma totale è stato poi analizzato con metodiche di spettrometria di massa: è stato evidenziato un aumento dell’espressione di 12 proteine
(alfa-1-glicoproteina acida 1, alfa-1-B-glicoproteina, transtiretina,
apolipoproteina-C III, componente serico dell’amiloide P, fattore-I
del complemento, clusterina, gelsolina, emopessina, chininogeno-1,
hCG1993037 e proteina legante la vitamina D) ed è stato quindi ipotizzato il coinvolgimento di tali proteine nella patogenesi della SM
infantile e la loro potenziale applicazione come marcatori biologici
diagnostici e/o prognostici della malattia.
In un altro studio più recente (Dhaunchak et al., 2012) (Fig. 6), 19
bambini sono stati arruolati prospetticamente al momento dell’esordio di patologia demielinizzante del sistema nervoso centrale. Il
proteoma è stato estratto dal liquido cefalo-rachidiano, separato e
analizzato con tecniche di spettrometria di massa. L’analisi proteomica ha evidenziato un aumento significativo del profilo di proteine
strutturali dell’apparato gliale, tra cui la neurofuscina e la contactina:
non sono stati evidenziati invece aumenti delle più importanti proteine compatte di membrana della mielina (es., proteina di membrana
degli oligodendrociti, MOG) abitualmente implicate nella patogenesi
della SM in età adulta (vs. altre glicoproteine degli oligodendrociti:
vedi sotto). Anche in questo caso sono state formulate nuove ipotesi
sul coinvolgimento iniziale della glia, antecedente il danno mielinico,
nella patogenesi degli eventi demielinizzanti della SM. Com’è noto
da diversi studi epidemiologici e clinici, solo una piccola percentuale
dei bambini che presentano un episodio isolato di demielinizzazione
del sistema nervoso centrale, svilupperà in seguito SM, e in questi
bambini l’intervallo tra il primo e il secondo episodio è solitamente
inferiore ai 2 anni. Nello studio di Dhaunchak e collaboratori (2012),
dei 19 bambini arruolati prospetticamente, 8/19 hanno sviluppato
ulteriori episodi di demielinizzazione ed in questi è stata posta diagnosi di SM sulla base dei criteri clinici e neuroradiologici; 11/19
hanno invece presentato esclusivamente un unico episodio di demielinizzazione (definita in questo caso monofasica). L’analisi del
profilo proteico del liquor all’esordio (primo attacco) ha identificato nel gruppo che ha sviluppato in seguito la SM (8/19 bambini),
un aumento significativo della concentrazione di alcune proteine
come la glicoproteina della mielina degli oligodendrociti (OMGP) e la
gliomedina, entrambe molto importanti nell’assemblaggio dei nodi
di Ranvier e degli assoni e della membrana esterna dell’apparato
asso-gliale. L’espressione di tali proteine era invece assente o significativamente ridotta nel gruppo di bambini con demielinizzazione
monofasica (n = 11/19). Questi risultati hanno suggerito l’importante ruolo dei nodi di Ranvier e delle membrane dell’apparato assogliale nell’evento fisiopatologico iniziale della SM ed hanno aperto la
Figura 6.
(A) Espressione delle proteine dell’apparato gliale in uno studio proteomico su liquor in bambini affetti da patologia demielinizzante del sistema
nervoso centrale; (B) proteine maggiormente espresse nel liquor nel gruppo di studio (neurofuscina, gliomedina e glicoproteina della mielina degli
oligodendrociti); (C) caratterizzazione della struttura dell’apparato gliale e dell’insieme di proteine che lo costituiscono (adattata e modificata da
Dhaunchak et al., 2012).
219
M. Ruggieri et al.
strada a un potenziale impiego di tecnologie proteomiche sul liquor,
a scopo predittivo e prognostico, per l’identificazione dei pazienti
pediatrici esposti a maggiore rischio di sviluppare la SM dopo un
singolo episodio di demielinizzazione del sistema nervoso centrale.
Scienze omiche e neuro-oncologia
La possibilità di poter identificare delle proteine che servano da
marcatori biologici per la diagnosi precoce, la classificazione (molecolare), la prognosi/stratificazione del rischio e la risposta alla terapia delle neoplasie del sistema nervoso centrale in età pediatrica,
rappresenta un’area di ricerca emergente nel settore della neurooncologia (Samuel et al., 2014).
In modelli animali è stato dimostrato che l’analisi del profilo proteico
sul liquor cefalorachidiano può rilevare la presenza di una neoplasia
che interessa il sistema nervoso centrale, prima ancora che questa divenga sintomatica o identificabile con metodiche tradizionali
(Within et al., 2012).
Elevati livelli di alfa-fetoproteina e di beta-gonadotropina corionica
umana nel siero e nel liquor sono considerati ottimi marcatori biologici diagnostici dei tumori cerebrali a cellule germinali e una loro
riduzione durante la radioterapia è considerata alla stregua di una
significativa risposta al trattamento (Legault et al., 2013).
Altri marcatori biologici utilizzati recentemente, individuati grazie a
studi di proteomica/metabolomica (in campioni biologici quali siero,
urine, liquor e tessuti tumorali) e utilizzati in ambito neuro-oncologico
pediatrico sono la fosfatasi alcalina placentare per il germinoma, la
L-selectina per la leucemia linfoblastica acuta con coinvolgimento del
sistema nervoso centrale, l’ostepontina per i tumori teratoidi e rabdoidi, la ciclofillina A per i gliomi pontini intrinseci diffusi, la proteina
legante il fattore di crescita insulino-simile per l’ependimoma e il medulloblastoma infantili (Saratsis et al., 2012; Samuel et al., 2014).
Uno studio multicentrico di analisi proteomica sul liquor di bambini
con diagnosi di medulloblastoma ha inoltre indicato i bassi livelli di prostaglandina D2 sintetasi come un affidabile e significativo
marcatore diagnostico di medulloblastoma infantile (Rajagopal et
al., 2011).
Uno studio volto ad analizzare il contenuto totale proteico e l’espressione di micro-RNA negli astrocitomi ad esordio in età pediatrica (Ruiz
Esparza-Garrido et al., 2013), attraverso tecniche bidimensionali
SDS-PAGE, spettrometria di massa (MALDI-TOF) ed analisi PCR mediata RT(2) dei miRNA, ha evidenziato 49 proteine con alterati profili
di espressione. Lo studio interattomico ha quindi dimostrato, per la
prima volta, che alcune di queste 49 proteine isolate, la vimentina, la
calreticulina e la proteina 14-3-3 epsilon, si comportano da proteine di
tipo hub (di progressione tumorale) per gli astrocitomi in questa fascia
d’età, individuando degli utili marcatori biologici di progressione che
possono essere impiegati come fattori prognostici e terapeutici.
Un altro studio (De Antonellis et al., 2014) ha impiegato tecniche di
proteomica per analizzare gli effetti della sovra-espressione del miR34a (una proteina diretta contro geni che codificano per proteine coinvolte nella proliferazione, invasività cellulare e apoptosi tumorale) nel
neuroblastoma, impiegando un sistema d’induzione delle tetracicline
in due linee cellulari tumorali di neuroblastoma (SHEP e SH-SY5Y)
con marcatori post-metabolici. Delle 2.082 proteine identificate 186
subivano una regolazione (112/186 down-regolate e 74 up-regolate)
e di queste 32 presentavano trascritti con sequenze miR-34a. Combinando i dati di proteomica con curve di espressione genica sono
stati identificati 7 prodotti proteici codificati da altrettanti geni (ALG13,
TIMM13, TGM2, ABCF2, CTCF, Ki67, e LYAR) correlati con un decorso
tumorale sfavorevole. Combinando infine questi dati con i dati con-
220
tenuti nei database delle vie metaboliche cellulari è stato riscontrato
che queste 7 proteine regolano il ciclo, la proliferazione e l’adesione
cellulare focale ed altre funzioni connesse all’aggressione e invasività
tumorale (incluse alcune vie metaboliche conosciute come la GF-β,
WNT, MAPK, e la FAK). La conclusione di questo elegante studio è
l’identificazione di proteine bersaglio (precoce) del miR-34a che giocano ruoli importanti nella tumorigenesi del neuroblastoma e che
potranno essere impiegate (assieme al miR-34a) in future strategie
terapeutiche del neuroblastoma.
L’identificazione di questi profili proteomici alterati presenta un potenziale importante nell’avanzamento della nostra comprensione dei
meccanismi fisiopatologici alla base di diverse neoplasie cerebrali
dell’infanzia, oltre a rivestire una grande utilità in ambito diagnostico
e prognostico e nel follow-up dopo la terapia.
Gli svantaggi dell’applicazione delle tecniche proteomiche nei pazienti pediatrici con neoplasie del sistema nervoso centrale rimangono ancora oggi il rischio di risultati falsamenti positivi, la bassa
specificità di alcuni di questi marcatori biologici e la loro limitata
utilità per quelle neoplasie che non si sviluppano in prossimità del
sistema ventricolare e del liquor cefalo-rachidiano (rischio di falsi
negativi) (Samuel et al., 2014).
Scienze omiche, errori congeniti del metabolismo
e malattie neurodegenerative
La metabolomica è stata utilizzata come tecnica per studiare diversi errori congeniti del metabolismo, variabilmente caratterizzati da
coinvolgimento neurologico e aspetti neurodegenerativi a carico del
sistema nervoso centrale.
Uno studio con spettrometria di massa ha documentato alterazioni
metabolomiche specifiche per patologia nel plasma di un gruppo
di bambini (n = 34) affetti da diversi errori congeniti del metabolismo (Janečková et al., 2012), inclusi difetti del metabolismo degli
amminoacidi (fenilchetonuria, leucinosi, tirosinemia, argininemia,
omocistinuria) deficit di carbamil fosfato sintetasi, deficit di ornitina
transcarbamilasi, acidemie organiche (acidemia metilmalonica, acidemia propionica, acidemia glutarica, acidemia isovalerica), e difetti
mitocondriali (deficit di Acil CoA deidrogenasi a catena media, deficit
di carnitina palmitoiltrasferasi II).
In uno studio recente (Pastore A et al., 2013) con tecniche metabolomiche associate a tecniche di spettrofotometria è stato identificato un deficit di glutatione ridotto (ed un aumento delle forme
di glutatione ossidato) in un gruppo di bambini con encefalomiopatia mitocondriale da sindrome di Leigh geneticamente confermata.
L’aumento del glutatione ridotto osservato nel corso della risposta
alla terapia con para-benzochinonici (EPI-743) ha inoltre aperto futuri possibili scenari sull’utilizzo di questo marker come indicatore
dell’efficacia della terapia.
Scienze omiche e patologie neuro-muscolari:
distrofie/atrofie muscolari e neuropatie
La diagnosi delle più frequenti tra le patologie muscolari del bambino, la distrofia muscolare di Duchenne (DMD) e la Distrofia muscolare di Becker (DMB), è tradizionalmente basata su metodiche invasive
(biopsia muscolare) che tipicamente sono eseguite alla luce di segni
clinici specifici e indici di laboratorio alterati (es., incremento sierico degli enzimi muscolari) e successivamente confermate da studi
di genetica molecolare (le indagini genetiche possono precedere
le metodiche più invasive). Negli ultimi anni alcuni studi basati su
Omiche e biologia dei sistemi in neurologia pediatrica
tecnologie omiche, hanno cercato di identificare marcatori biologici
diagnostici alternativi nell’ambito delle distrofie muscolari infantili,
che servano anche da indicatori di storia naturale e progressione
(utili anche ai fini terapeutici).
Studi su modelli animali e su campioni tissutali sierici (Cacchiarelli et al., 2011a, 2011b) hanno dimostrato che, in seguito al danno
muscolare, nel sangue di pazienti con DMD e DMB, oltre ai comuni
enzimi muscolari (come CK), si osservano anche notevoli quantità
di micro-RNA, ed in particolare che i miR-1, miR-133- e miR-206
rappresentano oggi dei validi marcatori biologici di danno muscolare
e possono quindi essere impiegati nella diagnostica delle distrofie
muscolari. Inoltre, correlano in maniera significativa con la storia
naturale della malattia, riflettendo bene i parametri di gravità e di
miglioramento/peggioramento terapeutico.
Uno studio recente di proteomica che ha analizzato campioni raccolti
da pazienti affetti da varie forme di distrofia muscolare (DMD, DMB)
o portatori asintomatici, attraverso un consorzio (BIO-NMD) costituito
in quattro aree geografiche diverse (inglesi e italiane) (Ayoglu et al.,
2014) ha identificato un panel di 11 proteine con profili alterati: (a)
in 4/11erano presenti in livelli elevati nel sangue dei pazienti affetti:
anidrasi carbonica III (CA3 Ab#1), catena leggera della miosina (MYL3),
malato deidrogenasi mitocondriale 2 (MDH2) e flavoproteina trasportatrice di elettroni A (ETFA); (b) tutte le 11 proteine identificate, comprese anche le proteine CA3 Ab#2, TNNT3, CK, ETFB, beta-enolase-3
(ENO3), LCP1, PPM1F e COL6A1, avevano valori differenti a seconda
della forma clinica (DMD vs. BMD), dello stato del paziente (deambulante vs. non deambulante) o delle capacità respiratorie. Lo studio
dimostra come altre proteine, oltre alla classica proteina CK, possono
avere concentrazioni elevate nel sangue e sono quindi coinvolte nella
funzione muscolare e nei processi energetici del muscolo.
Uno studio ha analizzato il profilo proteomico nelle urine di 53 pazienti pediatrici affetti da DMD, confrontandolo con un gruppo di
controlli sani (n = 51) ed ha identificato diversi possibili marcatori
diagnostici. Il dato più significativo emerso da questo studio è stato
l’elevato livello di frazioni proteiche della titina, una proteina fisiologicamente coinvolta nei meccanismi di elasticità della muscolatura
scheletrica (Rouillon et al., 2014). Mutazioni del gene della titina
erano state in precedenza associate a diverse forme di miopatie
ereditarie (cardiomiopatia familiare, distrofia muscolare della tibia);
questo studio proteomico ha quindi confermato il coinvolgimento di
questa proteina nella fisiopatologia del danno muscolare nella DMD.
Un’alterata escrezione urinaria della titina è stata riscontrata nello
stesso studio anche in un gruppo di soggetti affetti da distrofia muscolare di Becker (DMB) e da distrofia scapolo-omerale (SHD). Un
aumento significativo della concentrazione dei frammenti di titina è
stato infine confermato nel modello animale con deficit di distrofina,
soprattutto durante le prove da sforzo (Rouillon et al., 2014).
La titina può quindi essere considerata come il primo marcatore biologico che offre la possibilità di uno screening semplice, non invasivo
e non sofisticato (come l’indagine genetica) nelle distrofie muscolari,
potenzialmente utile anche nel follow-up dei pazienti per valutare
la risposta alla terapia. La limitazione consiste (attualmente) nella
sua scarsa specificità, poiché tutte le patologie muscolari con danno
del tessuto muscolare potrebbero potenzialmente associarsi ad una
maggiore escrezione urinaria di titina.
Uno studio pilota (Finkel et al., 2012) realizzato con un approccio
trascrittomico, proteomico e metabolomico ha analizzato possibili
marcatori biologici nel plasma e nelle urine di un’ampia coorte di
bambini (n = 108) affetti da atrofia muscolare spinale (SMA tipo 1, 2
e 3), confermata con test genetico. Oltre ad essere state identificate
numerose (n = 97) proteine plasmatiche come potenziali marcatori
biologici, è stata riscontrata una maggiore concentrazione di alcune
proteine (CILP2, COMP, TNXB, THBS4, SPP1, COL2A1). Essendo molte di queste proteine implicate nella meccanica e nella fisiologia del
tessuto connettivo, gli autori hanno ipotizzato che il loro aumento nel
plasma possa essere il risultato del danno secondario del tessuto
connettivo che si verifica nella storia naturale della SMA.
Un altro studio (Mussche et al., 2012) ha analizzato comparativamente i profili proteici di 4 soggetti con neuropatia assonale gigante
(GAN: una forma genetica di neuropatia con crescita esagerata degli
assoni nei nervi periferici) e 4 controlli sani selezionati per sesso
ed età, attraverso metodica iTRAQ. Sono stati evidenziati profili alterati in divere proteine del citoscheletro (proteina ribosomiale L29
ed L37, galectina-1, nessina derivata dalla glia, aminopeptidasi-N e
proteine nucleari legate alle proteine legate alla formina) con conservazione del numero (n = 76) e dei profili delle proteine strutturali
del citoscheletro (ciò malgrado il ruolo patogenetico conosciuto della gigassonina sia quello di degradazione delle proteine strutturali
del citoscheletro). L’incrocio di tali informazioni con l’analisi dei dati
contenuti nei database delle vie metaboliche cellulari ha evidenziato
che tali proteine rivestono ruoli importanti nella regolazione/riorganizzazione del citoscheletro e sono determinanti per la formazione
patologica di filamenti di tipo intermedio nella GAN. Quindi, in questo
caso, lo studio proteomico non ha confermato il supposto meccanismo patogenico della malattia, scoprendo allo stesso tempo meccanismi patogenetici differenti.
Scienze omiche ed encefalopatie epilettiche
precoci: sindrome degli spasmi infantili
Studi metabolomici hanno evidenziato in varie forme di epilessia
delle variazioni della concentrazione di alcuni aminoacidi plasmatici, tra cui la riduzione plasmatica della treonina e del triptofano o
l’aumento della glicina; alterazioni dei profili metabolomici dell’Lglutammato e dell’acido gamma-aminobutirrico sono state inoltre
riscontrate nel plasma di pazienti con epilessia da difetti del metabolismo di questi neurotrasmettitori (Wei et al., 2012).
Uno studio di proteomica su modelli animali affetti dalla sindrome
degli spasmi infantili ha identificato, attraverso tecniche di elettroforesi bidimensionale e spettrometria di massa, l’aumento di alcune
proteine (CFL1, PKM2, PRPS2, DLAT, CKB, DPYSL3 e SNAP25) su
campioni di tessuto cerebrale (Wang et al., 2014). Nello stesso studio, in un altro gruppo di animali da esperimento con sindrome degli
spasmi infantili e storia di stress perinatale, sono state evidenziate alterazioni del profilo proteomico con aumento dell’espressione
di altre proteine (MDH1 e YWHAZ) a livello di campioni di tessuto
cerebrale (Wang et al., 2014). Tali proteine sono coinvolte in molti
meccanismi di regolazione energetica, rimodellamento neuronale e
sviluppo del sistema nervoso centrale, e questi risultati hanno consentito di aggiungere nuove informazioni sulla patogenesi molecolare degli spasmi epilettici.
Sulla base di queste ricerche sperimentali, ulteriori studi con tecniche metabolomiche saranno necessari in futuro per analizzare il
profilo metabolomico nel plasma e nel liquor di bambini affetti da
sindrome degli spasmi infantili.
Scienze omiche ed encefalopatia
ipossico-ischemica
L’encefalopatia ipossico-ischemica (EII) è caratterizzata da una patogenesi multifattoriale che vede coinvolti diversi meccanismi tra
221
M. Ruggieri et al.
cui l’accumulo intracellulare di calcio, il rilascio di amminoacidi eccitatori e la produzione di specie reattive dell’ossigeno. Tutti questi
eventi patologici culminano nell’alterazione della permeabilità della
membrana mitocondriale e nella morte cellulare.
L’ipotermia rappresenta a tutt’oggi il gold standard terapeutico della EII, ma secondo protocollo deve essere praticata entro
le prime 6 ore di vita, dopo un’accurata valutazione clinica e
neurologica del neonato (Scala di Sarnat). Quest’arco di tempo
molto ristretto rende difficile il riconoscimento ed il trattamento
tempestivo dei neonati con EII e per tale motivo, accanto alla
valutazione clinica, diversi studi basati su tecniche proteomiche
hanno proposto l’individuazione di possibili marcatori biologici
diagnostici e prognostici, rivelandosi le indagini strumentali (es.,
risonanza magnetica/RM) spesso poco specifiche nella valutazione della gravità e nella prognosi a lungo termine (Nagdyman
et al., 2003; Tekgul et al., 2004).
Negli ultimi anni la metabolomica ha assunto un ruolo promettente in questo campo, data la complessa multifattorialità degli
eventi patologici che conducono alla EII. Lo studio dei metaboliti a basso peso molecolare può infatti fornire un quadro più
informativo (se comparato allo studio di un numero limitato di
proteine con la proteomica) di tutte le vie metaboliche molecolari coinvolte nel danno ipossico-ischemico del sistema nervoso
centrale. La metabolomica potrebbe consentire in futuro lo studio
accurato del fenotipo biochimico, quindi dell’insieme di fattori
endogeni (geni, trascritti, proteine, metaboliti) ed esogeni (danno
legato all’asfissia perinatale), che intervengono nella fisiopatologia dell’EII.
In un importante studio (Walsh et al., 2012), sono stati messi a
confronto i profili metabolomici di pazienti appartenenti a 3 gruppi diversi: (a) 31 neonati con EII diagnostica clinicamente (scala di
Sarnat); (b) 40 neonati con asfissia perinatale ma senza segni di
encefalopatia; e (c) 71 neonati sani. Dalle analisi dei metaboliti su
siero estratto da sangue del cordone ombelicale è stato identificato
un significativo aumento di 3 classi distinte di metaboliti (amminoacidi, acil-carnitine e fosfatidil-coline) nei neonati con asfissia ed EII
(gruppi a e b) rispetto ai controlli sani (gruppo c). Di questi metaboliti, le fosfatidil-coline sono risultate significativamente maggiori
nel gruppo con asfissia senza encefalopatia (b) vs. i controlli (c); gli
amminoacidi maggiori invece nel gruppo con EII (a) vs. i controlli(c).
Infine le acil-carnitine, anche se aumentate in tutti i neonati con
asfissia (n = 71) rispetto a quelli sani (n = 71) sono risultate notevolmente più elevate nel gruppo con EII (a) rispetto al gruppo con
asfissia perinatale senza EII (b).
Questi risultati incoraggiano la potenziale applicazione diagnostica di
alcune classi di metaboliti e forniscono nuovi spunti di riflessione sulla
fisiopatologia e le prospettive terapeutiche del danno ipossico-ischemico nel neonato, confermando alcune ricerche precedenti. Com’è
noto infatti, in seguito all’asfissia perinatale si verifica una riduzione
delle reazioni di b-ossidazione con un ridotto utilizzo metabolico degli
acidi grassi e conseguentemente avviene la mobilizzazione degli amminoacidi plasmatici che vengono utilizzati come substrati energetici
(Whitmer et al., 1978; Van Cappellen van Walsum et al., 2001). Queste
variazioni biochimiche della EII assumono quindi oggi maggiore importanza alla luce dei risultati degli studi metabolomici, e rappresentano pertanto target di potenziali futuri trattamenti.
Scienze omiche e traumi cranici
L’individuazione di marcatori biologici di danno cerebrale traumatico è stata oggetto negli ultimi anni di intensa attività di ricerca in
222
campo neurologico negli ultimi anni. La possibilità di identificare
un marcatore, complementare alle metodiche di imaging cerebrale, più sensibile e specifico di queste ultime e poco costoso,
rappresenterebbe un ausilio di grande utilità nell’approccio al paziente neurologico con trauma cranico. Negli ultimi anni è stata
largamente studiata, la S100β sierica, una proteina che lega il calcio e che aumenta sensibilmente dopo il trauma cranico grave. La
sua scarsa specificità (aumenta in conseguenza di tutti i processi
che portano a danno cerebrale) ne ha limitato però l’effettiva efficacia diagnostica.
In uno studio realizzato con approccio proteomico su un gruppo
di bambini con trauma cranico grave (Glasgow Coma Score < 8),
confermato dalle indagini di tomografia computerizzata (TC), è stata
valutata l’espressione dei profili proteici su sangue (prelevato entro
le prime 8 ore dall’evento traumatico) attraverso metodiche di spettroscopia di massa. Dopo l’analisi dei dati proteomici, sono state
identificate delle proteine (leucil-aminopeptidasi e la proteina precursore della β-amiloide) che correlavano significativamente con la
gravità del trauma cranico (Glasgow come Score).
Ulteriori studi realizzati con tecniche omiche si renderanno necessari in futuro per identificare marcatori biologici sensibili e specifici
che permettano di valutare la gravità e la prognosi del trauma cranico nel paziente pediatrico.
Scienze omiche e malattie
neurocutanee/amartomatosi
Alcuni studi, effettuati con l’ausilio di tecniche proteomiche, hanno
fornito negli ultimi anni informazioni preziose sul fenotipo di alcune malattie neurocutanee.
Uno studio sperimentale (Hirayama et al., 2013) condotto su linee cellulari con ridotta espressione di neurofibromina (la proteina
codificata dal gene NF1, della neurofibromatosi tipo 1, NF1) ha
portato, attraverso tecniche di analisi proteomica, all’identificazione di una nuova possibile via metabolica molecolare intracellulare
(dineina-IC2-GR-COX-1) potenzialmente determinante nel fenotipo
della NF1. La dineina è una proteina abbondantemente espressa
nel sistema nervoso centrale e la sua interazione con altre proteine
è fondamentale nel trasporto di vari metaboliti e neurotrasmettitori. Questa via è risultata particolarmente attiva nelle linee cellulare
con deficit di neurofibromina e i risultati preliminari indicano un
suo potenziale coinvolgimento nella patogenesi del danno neuronale e nel fenotipo neurocutaneo completo della NF1, aprendo
scenari su future prospettive terapeutiche mirate ad un azione su
questa via molecolare.
Un altro studio (Mejia et al., 2013) su linee cellulari neuronali, realizzato con tecniche omiche, ha individuato recentemente una
stretta interazione tra la proteina Hap-1 e la proteina amartina (codificata da uno dei due geni responsabili della sclerosi tuberosa,
il gene TSC1). L’analisi proteomica ha dimostrato che un deficit
di espressione della proteina Hap-1 si correla con una riduzione
dell’attività dell’amartina e conseguenti alterazioni della morfologia neuronale, specialmente a livello dell’ippocampo e del sistema
limbico. Ciò ha permesso una nuova interpretazione della fisiopatologia dei disturbi pervasivi dello sviluppo e dello spettro autistico
che si riscontrano frequentemente nei bambini affetti da sclerosi
tuberosa.
Ulteriori studi con approccio proteomico e metabolomico potrebbero in futuro fornire informazioni importanti sulla storia naturale
e la prognosi di molte sindromi neurocutanee in età pediatrica.
Omiche e biologia dei sistemi in neurologia pediatrica
Conclusioni
L’avvento delle tecnologie omiche ha avuto un impatto enorme nel
settore delle neuroscienze, facilitando la comprensione della funzione
di geni, proteine, metaboliti e delle loro interazioni con l’ambiente nel
determinare fenotipi neurologici complessi. Le scienze omiche nel loro
insieme potrebbero presto riuscire a identificare numerosi meccanismi
fisiologici e fisiopatologici che stanno alla base di molte patologie neurologiche del bambino. Esse rappresentano una nuova maniera di pensare
in biomedicina. La futura applicazione di queste tecniche ha enormi potenzialità nell’avanzamento della pratica clinica per quanto riguarda la
diagnosi, la prognosi e il follow-up del “bambino neurologico”.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
La ricerca (biomedica) pediatrica generale e neurologica tradizionale hanno proceduto sinora prevalentemente categorizzando i sistemi degli organismi
viventi in maniera riduzionistica, cioè per caratteristiche anatomiche, funzioni biologiche o di sistemi/network, composizioni cellulari/tissutali, meccanismi di base molecolari/cellulari. Ciò ha contribuito a notevoli successi in campo biomedico: con questo tipo di procedimento, la dimostrazione di una
semplice correlazione tra un parametro biologico (es., l’alterazione di un gene, una proteina, un enzima, un’area cerebrale) e il verificarsi di una malattia
è stato considerato un successo, anche quando i meccanismi patogenetici della malattia rimanevano, per la maggior parte, sconosciuti.
Cosa sappiamo adesso
Il procedimento di studio di tipo omico e dei sistemi biologici complessi, intende invece trasferire (traslare) le singole conoscenze e le singole dimostrazioni sperimentali scientifiche in sistemi assai più complessi e di livello gerarchicamente più elevato, studiando non solo i componenti di un singolo
sistema ma anche le interazioni tra essi (es., il trascritto di un gene, cioè l’RNA, e il suo prodotto finale, cioè le proteine) e le interazioni con il resto
dell’ambiente inteso in termini di insieme (pensiero sistemistico). Ciò al fine di potere rispondere a esigenze e domande più elevate in maniera olistica
(meccanismi patogenetici e sistemi complessi: es., memoria, comportamento, apprendimento e relative patologie). In termini pratici le omiche studiano
pool di molecole biologiche, parti di una cellula o complessi sistemi enzimatici, cellulari o tissutali, microrganismi, vie metaboliche o reti e sistemi
variamente interconnessi tra loro. Ulteriori e preziose informazioni provengono dallo studio dei sistemi complessi sociali: es., interazioni tra popolazioni
nel mondo, internet, nodi aeroportuali. Lo studio di tali sistemi applicato alla biologia dei sistemi, permette approcci diversi da quelli tradizionali allo
studio delle reti e dei sistemi biologici (es., reti neurali, sistemi fisiologici).
Quali ricadute sulla pratica clinica
I primi risultati provenienti dal “laboratorio delle omiche” in neurologia pediatrica, hanno permesso l’identificazione delle basi molecolari della diversità
neuronale, della sinaptogenesi e dello sviluppo del sistema nervoso nel bambino. Più di recente sono stati individuati nuovi marcatori biologici di malattia (es., nuove molecole nelle distrofie muscolari, malattie immuno-mediate del sistema nervoso ed encefalopatie epilettiche), che correlano meglio dei
classici marcatori (es., enzimi muscolari, proteine della mielina, micro-RNA) con la storia naturale della malattia, la prognosi e l’efficacia terapeutica;
nuovi (e inattesi) meccanismi di malattia e di segnali all’interno delle vie metaboliche. Si stanno creando, attraverso consorzi nazionali/internazionali
piattaforme web per lo scambio d’informazioni su dati genetici, trascrittomici, proteomici e metabolomici. Inoltre, i costi delle piattaforme di laboratorio
si stanno abbassando, rendendo disponibili tecnologie prima non affrontabili dai comuni laboratori e su più vasta scala.
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* Articolo importante ed elegante che descrive anche iconograficamente la
“geografia” dei cromosomi all’interno del nucleo spiegando le cause delle cromosomopatie in chiave di ingombro volumetrico e sterico.
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Corrispondenza
Martino Ruggieri, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Pediatria, A.O.U. “Policlinico - Vittorio Emanuele”, Presidio “G. Rodolico”, via S.
Sofia 78, 95124 Catania - E-mail: [email protected]
225
Ottobre-Dicembre 2014 • Vol. 44 • N. 176 • Pp. 226-239
neurologia pediatrica
La genetica delle epilessie
e le epilessie genetiche
Giuseppe Gobbi, Jasenka Sarajlija, Sara Leonardi, Elena Di Pietro, Federico Zara*,
Pasquale Striano**
Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile – IRCCS, Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna, Bologna
*
Laboratorio di Neurogenetica, Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia, Genetica, Salute Maternità e
Infanzia Università di Genova e Istituto G. Gaslini, Genova
**
Unità Operativa di Neurologia Pediatrica e Malattie Muscolari, Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia,
Genetica, Salute Maternità e Infanzia Università di Genova e Istituto G. Gaslini, Genova
Riassunto
Le epilessie sono patologie neurologiche croniche caratterizzate dalla ricorrenza di crisi convulsive e classificate in base alla tipologia di questi eventi,
a determinati criteri elettroencefalografici e alle cause sottostanti o anche ai sintomi associati. È nota, da tempo, la predisposizione familiare per queste
patologie, così come la compresenza di sindromi epilettiche diverse all’interno di uno stesso nucleo familiare. Le moderne tecniche d’indagine genetica
hanno permesso di individuare mutazioni in geni specifici. Nel caso delle encefalopatie epilettiche alcuni geni in particolare (e le proteine da essi codificate)
possono essere comuni a più sindromi che nel tempo possono evolvere una nell’altra (es., FOXG1, CDKL5, STXBP1, ARX), essere associati a disturbi psichiatrici oltre al ritardo mentale (es., CDKL5, MECP2, PNKP, PCDH19) oppure combinarsi con vari tipi di disordini del movimento (es., STXBP1, ARX, FOXG1,
KCNQ2). È importante inoltre notare che alcuni di questi geni si sovrappongono come agenti causali anche per forme di epilessia benigna (es., KCNQ2,
SCN1A, SCN2A, TBC1D24). Le sindromi epilettiche benigne possono dipendere da difetti dei canali ionici (es., SCN1A, SCN2A, KCNQ2, KCNQ3), di alcuni
recettori per i neurotrasmettitori (es., GABRA1, GABRB3, GABRD, GABRG2) oppure da alterazioni che coinvolgono altri tipi di proteine. Le epilessie benigne,
per definizione, non sono associate ad anomalie evidenti al neuroimaging, ma possono associarsi a disturbi del movimento (es., PRRT2) o altri disturbi
parossistici (es., EFHC1, CACNA1A, CACNB4). Le diverse sovrapposizioni fenotipiche tra le varie sindromi epilettiche ed i vari tipi di epilessia spesso non
sono sottese da correlazioni genotipo-fenotipo univoche e quindi resta come caposaldo irrinunciabile il rigore clinico e la rivisitazione continua delle varie
forme di epilessia considerate come patologie di “sistema”.
Summary
Epilepsies are chronic neurological disorders characterised by the occurrence of more than two seizures. The classification lays on the ictal features, the electroencephalographic criteria, the underlying causes and the associated signs/symptoms. Familiar predisposition and clustering of the different epileptic syndromes within the same family are well known phenomena. More advanced techniques for genetic analysis helped in recent years the search for specific gene
mutations. We now know that, among the epileptic encephalopathies, for example, some genes are shared by a number of different epileptic syndromes, which
in turn can evolve one into the other (e.g., FOXG1, CDKL5, STXBP1, ARX), can be associated to other-than-cognitive delay psychiatric disorders (e.g., CDKL5,
MECP2, PNKP, PCDH19) or can be combined to movement disorders (e.g., STXBP1, ARX, FOXG1, KCNQ2). In addition, it is of note that some of these genes are
involved both in epileptic encephalopathies and benign epilepsies (e.g., KCNQ2, SCN1A, SCN2A, TBC1D24). The benign epileptic syndromes are usually caused
by mutations in the ion channel genes (e.g., SCN1A, SCN2A, KCNQ2, KCNQ3), in the neurotransmitter receptor genes (e.g., GABRA1, GABRB3, GABRD, GABRG2) or in other genes encoding for membrane or cellular structural proteins. By definition, brain imaging, in benign epilepsies does not reveal abnormalities:
however, these forms can be associated to movement (e.g., PRRT2) or other paroxysmal disorders (e.g., EFHC1, CACNA1A, CACNB4). The various phenotypic
overlaps between the different forms of epilepsy are often unassociated to overt genotype-phenotype correlations, thus it is still of outmost importance to keep
a rigorous clinical work-up and to constantly review epilepsy definitions, which should be regarded as “system disorders”.
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli più rilevanti degli ultimi anni utili ai fini di
questa review è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline,
utilizzando come motore di ricerca PubMed e come parole chiave
“Genetic Testing and Epilepsy”, “Genetic and Idiopathic Generalized
and Partial Epilepsy”, “Genetic and Benign Generalized and Partial
Epilepsy”, “Genetic and Epileptic Encephalopathy”.
Introduzione
L’importanza di una predisposizione familiare nel determinare l’insorgenza del cosiddetto “morbo sacro” è nota fin dai tempi di Ippocrate (400 a.C.). Ora noi sappiamo che le epilessie costituiscono un
226
eterogeneo gruppo di patologie multifattoriali, in gran parte determinate dall’interazione di fattori genetici e ambientali. Oltre alle epilessie dovute a una lesione cerebrale acquisita (epilessie sintomatiche),
vi sono epilessie in cui l’insorgenza delle crisi è riconducibile a un
danno cerebrale strutturale geneticamente determinato (malformativo o metabolico) e altre in cui le crisi si manifestano in seguito a
difetti funzionali dell’attività cerebrale, di solito geneticamente determinati (epilessie idiopatiche).
Nelle ultime due decadi, la cosiddetta rivoluzione molecolare in medicina ha avuto un importante impatto anche nella diagnosi e nel
trattamento delle epilessie, in particolare quelle idiopatiche e la ricerca genetica nell’epilessia rappresenta al momento una frontiera
di studio altamente suggestiva e promettente.
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
Definizione e classificazione delle crisi epilettiche
e delle epilessie
L’epilessia è una patologia neurologica cronica caratterizzata da
crisi epilettiche ricorrenti, che si ripetono nel tempo in modo spontaneo e non sempre prevedibile, con frequenza e durata variabili.
La diagnosi di epilessia è definita dall’occorrenza di due o più crisi
epilettiche ad almeno 24 ore di distanza o dalla presenza di un’unica
crisi nell’ambito di un’alterazione cerebrale persistente che renda
elevata la probabilità di ulteriori crisi.
Poiché le crisi epilettiche si verificano per un’alterazione della funzionalità dei neuroni provocando una scarica eccessiva (o ipersincrona) e transitoria e poiché tale scarica può interessare una popolazione neuronale limitata ad alcune aree cerebrali o coinvolgere
tutto l’encefalo (Fisher et al., 2005), la semeiologia delle crisi epilettiche può essere molto variabile proprio a seconda delle popolazioni
neuronali e dei circuiti cerebrali coinvolti (Tab. I per la classificazione
delle crisi epilettiche).
L’International League Against Epilepsy (ILAE) (Berg et al., 2010)
propone di classificare le epilessie in epilessie da causa “genetica”, epilessie da causa “strutturale/metabolica” e epilessie da
“causa sconosciuta”. Inoltre, in base al contesto clinico in cui si
manifesta un’epilessia, la ILAE suggerisce di differenziare diversi
quadri sindromici con lo scopo di permettere di pianificare l’iter
diagnostico, indirizzare al meglio la scelta terapeutico-riabilitativa
e, talvolta, anche prevedere la prognosi. Il concetto di sindrome
epilettica è esclusivamente elettroclinico. La sindrome epilettica
è costituita da una serie di sintomi e segni (età di esordio, tipo di
crisi, eziologia, livello cognitivo e di sviluppo, quadro elettroencefalografico, fattori precipitanti le crisi e loro ricorrenza in veglia o
in sonno, severità del quadro clinico e sua evoluzione, risposta alla
Tabella I.
Classificazione delle crisi epilettiche (modifica da Berg et al., 2010).
Crisi generalizzate
• Tonico – cloniche
• Assenze
Tipiche
Atipiche
Assenze con caratteristiche peculiari
Assenze miocloniche
Mioclonie palpebrali
• Miocloniche
Miocloniche
Mioclonico-atoniche
Mioclonico-toniche
• Cloniche
• Toniche
• Atoniche
Crisi parziali/focali
•
•
•
•
•
•
•
•
Semeiologia variabile a seconda dell’area encefalica coinvolta:
Sensitive
Motorie
Sensitivo-motorie
Con automatismi motori
Con mioclono focale negativo
Gelastiche
Emicloniche
Non definibili se generalizzate o parziali
• Spasmi epilettici
terapia antiepilettica) che si manifestano insieme a costituire una
particolare condizione clinica (ILAE Classification, 1981) (Tab. II).
Infine, da tempo l’osservazione clinica suggerisce che alcune sindrome epilettiche possano rappresentare l’evoluzione di altre, come
per esempio si suppone possa accadere per la Sindrome di Ohtahara versus la Sindrome di West a sua volta versus la Sindrome
di Lennox Gastaut (Nordli, 2012). Alla luce delle nuove acquisizioni
in campo genetico questo assunto viene rafforzato dalla dimostrazione che più quadri epilettici possono avere un comune substrato
genetico. Da ciò prende avvio il tentativo di superare la dicotomia
tra epilessia focale ed epilessia generalizzata, messa in atto da alcuni studiosi che propongono la definizione di “Epilessia di Sistema”
o “SystE”, secondo cui un quadro epilettologico può scaturire da
una specifica sensibilità di un dato sistema neuronale per specifici
fattori epilettogenici. Poiché alcune delle epilessie proposte come
paradigma di SystE sono state identificate come geneticamente
determinate, questo porterebbe a pensare al meccanismo genetico
come sistema epilettogenico elettivo, sul quale ovviamente entrano
in gioco altre variabili biologiche ed ambientali (Avanzini et al., 2012;
Capovilla et al., 2013).
La genetica nelle epilessie
Le epilessie genetiche costituiscono circa il 30% di tutte le epilessie.
Le epilessie genetiche possono verificarsi sia in assenza di un danno
cerebrale dimostrabile (epilessie idiopatiche), che in presenza di lesione
cerebrale (epilessie sintomatiche), che può essere essa stessa geneticamente determinata (malformazione cerebrale, malattia metabolica
ecc.). Un’epilessia genetica può presentarsi anche associata a una lesione cerebrale acquisita, potenzialmente epilettogena o no. In questi
casi può essere molto difficile stabilire il vero rapporto causa-effetto.
Nelle ultime due decadi, la cosiddetta rivoluzione molecolare in medicina ha avuto un importante impatto anche nel campo delle epilessie,
in particolare quelle idiopatiche. Lo studio mirato all’identificazione
dei geni che possono determinare o anche solo influenzare il rischio
di sviluppare epilessia è molto importante, non solo per migliorare le
nostre conoscenze nell’universo ancora molto ignoto della patogenesi
dell’epilettogenesi in generale, ma soprattutto per le implicazioni di
rilievo nella diagnosi, nella gestione clinica e nella cura del paziente
con epilessia.
I meccanismi genetici alla base delle epilessie ad oggi noti includono
riarrangiamenti genomici (cromosomi ad anello, traslocazioni, monosomie e trisomie), copy number variants (CNVs; riarrangiamenti
submicroscopici, delezioni o duplicazioni che coinvolgono uno o più
geni), ed alterazioni di singoli nucleotidi che risultano poi in mutazioni missenso, frameshift, o nonsenso.
L’epilessia è un modello di malattia preminentemente poligenico,
tuttavia ad oggi sono stati identificati anche modelli di epilessie monogeniche. I dati genetici ottenuti su queste rare forme monogeniche di epilessie idiopatiche hanno permesso di chiarire il ruolo patogenetico di canali ionici voltaggio- o ligando-dipendente. Possono
inoltre verificarsi difetti di metilazione o disomie uniparentali in determinate regioni del DNA (es. sindromi di Prader-Willi e Angelman)
che provocano acquisizione o perdita di funzione in geni tipicamente
espressi rispettivamente solo nella copia materna o paterna.
La relazione genotipo-fenotipo
La relazione tra genotipo e fenotipo epilettico non è sempre lineare.
Ad esempio, mutazioni missenso del gene SCN1A si associano ad
227
G. Gobbi et al.
Tabella II.
Sindromi epilettiche (mod. da Berg et al, 2010).
Esordio in epoca neonatale
• Crisi familiari neonatali benigne (BFNS)
• Encefalopatia mioclonica precoce (EME)
• Encefalopatia epilettica a esordio infantile precoce (Sindrome di
Ohtahara)
Esordio in età infantile
• Crisi familiari neonatali-infantili benigne (BFNIS)
• Crisi familiari infantili benigne (BFIS)
• Epilessia generalizzata con convulsioni febbrili plus (GEFS+)
• Epilessia mioclonica benigna dell’infanzia (BMEI)
• Spasmi infantili (Sindrome di West)
• Epilessia con crisi focali migranti
• Epilessia mioclonica severa dell’infanzia (SMEI o sindrome di Dravet)
• Epilessia con crisi mioclono-astatiche (EMAS o sindrome di Doose)
• Epilessie miocloniche progressive (PME)
• Convulsioni febbrili plus (FS+)
Esordio in età scolare
• Epilessia assenze del bambino (CAE)
• Epilessia con assenze miocloniche (EMA)
• Epilessia assenze con mioclonie palpebrali (sindrome di Jeavons)
• Epilessia benigna con punte centro-temporali (BECTS o Epilessia
rolandica)
• Epilessia con parossismi occipitali ad esordio precoce (sindrome di
Panayiotopoulos)
• Epilessia con parossismi occipitali ad esordio tardivo (forma di
Gastaut)
• Epilessia autosomica-dominante notturna del lobo frontale (ADNFLE)
• Sindrome di Lennox-Gastaut (LGS)
• Sindrome di Landau-Kleffner (LKS)
• Epilessia con punte-onde continue nel sonno o stato epilettico
elettrico in sonno (CSWS, ESES)
Esordio in adolescenza – età adulta
• Epilessia con crisi tonico-cloniche generalizzate al risveglio
• Epilessia mioclonica giovanile (JME o sindrome di Janz)
• Epilessia assenze giovanile (JAE)
• Epilessia autosomica dominante con caratteristiche uditive (ADEAF)
• Altre epilessie familiari del lobo temporale
Indipendenti dall’età
• Epilessia familiare focale a foci variabili
• Epilessie riflesse
Da lesioni specifiche o altre cause
• Epilessia del lobo temporale mesiale con sclerosi ippocampale
• Sindrome di Rasmussen
• Crisi gelastiche con amartoma ipotalamico
• Sindrome emiconvulsione-emiplegia-epilessia
epilessia con convulsioni febbrili plus (GEFS+) e allo stesso tempo a
quadri più gravi quali la sindrome di Dravet. Questa espressività variabile potrebbe essere dovuta a geni modificatori, cioè geni capaci
di modificare l’espressione di un altro gene principale, amplificandola oppure riducendola, così come a fattori ambientali non ancora
conosciuti. Inoltre la mutazione può avere penetranza ridotta: due
individui con la stessa mutazione genetica possono avere probabilità
diversa di sviluppare epilessia. Infine è opportuno ricordare l’eterogeneità genetica: la stessa sindrome epilettica monogenica può
essere provocata da mutazioni su geni differenti, infatti spesso più
geni codificano per differenti subunità di uno stesso canale ionico
(Gardiner, 2006).
Le tecniche di indagine genetica e loro indicazioni
cliniche
Per determinare la causa genetica di un’epilessia sono oggi disponibili diverse tecniche d’indagine, che è importante conoscere al fine
di scegliere quella più appropriata ed efficace a seconda del caso.
È importante sottolineare, anche con i pazienti e le loro famiglie, che
ogni tecnica ha comunque dei limiti e nessuna è ad oggi in grado di
esplorare l’intero genoma in tutta la sua complessità. Ad esempio il
sequenziamento degli esomi non identifica comunque le anomalie di
metilazione o quelle delle regioni non codificanti (Tab. III).
Tecniche citogenetiche
L’analisi cromosomica (citogenetica) è tuttora valida, seppur in un
numero esiguo di pazienti, per rilevare in un soggetto con epilessia
associata a ritardo mentale ed eventualmente altre caratteristiche
aberrazioni cromosomiche non rilevabili con gli array-CGH.
L’ibridazione genomica comparativa su microarray (Array-Comparative GenomicHybridization o Array-CGH) è una tecnica sviluppata per
identificare anomalie cromosomiche di tipo numerico o variazioni
(variazioni del numero di copie “CNV”) del contenuto di piccole porzioni cromosomiche, come duplicazioni/amplificazioni (presenza di
copie in eccesso di segmenti di DNA), o delezioni (perdite di porzioni
di genoma). Il potere risolutivo dell’analisi è variabile: attualmente
per scopi diagnostici vengono impiegati array tra 1 Mb e 100 kb,
ovvero 100 volte più elevata rispetto alla citogenetica tradizionale.
Inoltre, la tecnica Array-CGH è in grado anche di definire esattamente la regione genomica alterata e quindi anche i geni in essa
contenuti, migliorando la comprensione delle relazioni esistenti tra
variazioni del numero di copie e patologia. Quando l’epilessia non è
associata a ritardo mentale ed eventualmente altre caratteristiche,
l’impatto diagnostico di tale tecnica sembra essere inferiore.
Strutturali/metaboliche
Tecniche di sequenziamento
• Malformazioni dello sviluppo corticale (emimegalencefalia, eterotopie, etc.)
• Sindromi neuro cutanee (sclerosi tuberosa, Sturge-Weber, etc.)
• Tumori
• Infezioni
• Traumi
• Angiomi
• Insulti perinatali
• Stroke
Il sequenziamento Sanger è un metodo rapido per la determinazione
delle sequenze di DNA mediante sintesi innescata con DNA polimerasi (Fig. 1). Progressivamente sono stati messi a punto i cosiddetti
sequenziamenti di nuova generazione (Next Generation Sequencing,
NGS) che hanno permesso il sequenziamento ad una elevata velocità e con bassi costi.
Il goal finale resta quello del Whole Genome Sequencing (WGS),
ovvero il sequenziamento completo del DNA (sia nucleare sia mitocondriale) del genoma di un organismo in un unico esperimento.
Tale opportunità rimane però estremamente dispendiosa per trovare
applicazione nell’attività clinica. Si è scelto pertanto di sviluppare
metodi alternativi, definiti “targhettati”, che si concentrano solo su
regioni specifiche del genoma umano, rappresentando approcci a
Epilessie da causa sconosciuta
Condizioni con crisi epilettiche tradizionalmente non diagnosticate
come forme di epilessia per se
• Crisi neonatali benigne (BNS)
• Convulsioni febbrili(FS)
228
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
Tabella III.
Metodiche di indagine genetica nelle epilessie (mod. da Olson 2014).
Tipo di indagine
Descrizione
Quando utilizzarla
Chromosomal microarray
Si basa sull’ ibridazione di DNA del paziente con quel- Soprattutto quando l’epilessia si associa a rilo di controllo su specifiche sonde Impiegati sia per tardo di sviluppo, autismo e/o dimorfismi.
individuare polimorfismi di un singolo nucleotide (SNP
arrays) o per determinare riarrangiamenti cromosomici submicroscopici (Array-CGH) come le CNVs in
diversi loci contemporaneamente.
Sequenziamento di singolo gene
Individua alterazioni nella sequenza delle basi azotate Quando si sospetta un’anomalia in un gene
e se esse provocano alterazioni aminoacidiche
specifico (es. SLC2A1 per deficit di trasporto
del glucosio)
Ricerca di duplicazioni/delezioni in un singolo
gene
Valuta le CNV in un gene specifico
Ricerca di una mutazione specifica
Sequenziamento per cercare una mutazione specifica Sui genitori per determinare il significato di
una mutazione ancora sconosciuta
Panel di geni associati ad una patologia
Sequenziamento ± ricerca duplicazioni/delezioni per In disturbi associati a molti geni, come le enun panel di geni
cefalopatie epilettiche
Studi di metilazione
Valuta anomalie di metilazione in regioni cromosomi- Sospetto di anomalie di metilazione, come la
che specifiche
sindrome di Prader-Willi e Angelman
Fluorescent in situ hybridization (FISH)
Sonde che individuano specifiche regioni cromoso- Conferma di una delezione/duplicazione in remiche
gioni specifiche, es. 22q11
Cariotipo
Rappresentazione di tutte le coppie cromosomiche di In pazienti con dimorfismi o anomalie congeuna cellula
nite multiple; sospetto di monosomie, trisomie
o riarrangiamenti cromosomici
Sequenziamento dell’intero esoma o genoma
Valuta alterazioni di sequenza e CNVs per l’intero eso- Quando c’è un forte sospetto di patologia gema (solo sequenze codificanti) o genoma.
netica ma le indagini finora condotte non hanno portato risultati
Primer per
la replicazione
Filamento di DNA da sequenziare
Preparare quattro composti di reazione;
includere in ciascun composto un diverso
nucleotide di replicazione-arresto
Primer
Primer
Prodotti di
replicazione
della reazione “C”
Primer di DNA
Separare i
prodotti mediante
elettroforesi su gel
Primer
Leggere la sequenza come
complemento di bande
che contengono filamenti
marcati
Figura 1.
Schema del metodo Sanger per il sequenziamento del DNA.
Quando si sospetta un’anomalia in un gene
specifico ma il sequenziamento è negativo
prezzi accessibili per individuare eventuali varianti geniche associate alla malattia. Il sequenziamento di tutte le regioni codificanti
le proteine del genoma, indicato anche come exome sequencing, è
il candidato promettente: l’esoma costituisce circa l’1% del genoma
umano richiedendo la sequenza di sole 30 Mb circa, il whole exome
sequencing (WES) è solo 1/20 rispetto al WGS (Ng, Bigham et al.,
2010), ma rappresenta un sottoinsieme altamente ricco del genoma
in cui cercare le varianti con grande effetto sul fenotipo. L’exome
sequencing è più utile per i disturbi con una probabile eterogeneità
genetica. Questa strategia può essere estesa anche alle malattie
con una genetica più complessa, attraverso l’analisi di campioni di
dimensioni più grandi e lo studio dell’impatto funzionale delle varianti non sinonime identificate. Inoltre, il whole exome sequencing
(WES) rappresenta una base promettente per la medicina genomica
personalizzata; infatti grazie all’identificazione del gene causativo
sarà possibile individuare il pathway proteico alterato che può fornire il target per una terapia mirata.
Lo studio di linkage non è adatto per le estremamente rare malattie
mendeliane a causa della difficoltà nella raccolta di un numero adeguato di individui affetti (di famiglie multigenerazionali) e famiglie
per un studio statisticamente significativo e non è applicabile anche
per i casi sporadici.
L’impatto della genetica sulle nuove acquisizioni
in epilettologia
Le recenti scoperte genetiche stanno avendo un impatto rilevante
nelle conoscenze di base dell’epilessia. Studi sperimentali da tempo avevano individuato nella presenza di scariche fasiche intense
229
G. Gobbi et al.
di una popolazione di neuroni l’evento cellulare, noto come “paroxysmal depolarization shift” (PDS), alla base dell’epilettogenesi e
il ruolo fondamentale delle correnti ioniche nel corso del suo sviluppo, in particolare le correnti del sodio, del potassio, del calcio e
del cloro attraverso canali attivati da neurotrasmettitori o variazioni
del potenziale di membrana. La recente individuazione di mutazioni
nei geni codificanti subunità di canali voltaggio-dipendenti del sodio,
del potassio e del cloro, di recettori per l’acetilcolina e per il GABA
in alcune forme di epilessia hanno confermato gli studi sperimentali
e permettono di inserire oggi alcune forme di epilessia idiopatica
tra le canalopatie. Tuttavia l’implicazione dei canali ionici in forme
molto rare e ad ereditarietà esclusivamente autosomica dominante
impone cautela nell’estendere il concetto di canalopatie a tutte le
epilessie idiopatiche. Ad oggi infatti le basi genetiche delle forme
comuni di epilessia idiopatica a ereditarietà complessa sono ignote.
Un altro impatto importante è relativo proprio alla pratica clinica
quotidiana. I dati epidemiologici rilevano che sindromi clinicamente
diverse ricorrono nelle stesse famiglie, indicando l’esistenza di fattori ereditari comuni. L’identificazione di mutazioni – ad esempio in
SCN1A, SCN1B, GABRG2 –, associate a diversi fenotipi in famiglie
caratterizzate da fenotipi diversi conferma le osservazioni epidemiologiche che le diverse sindromi si sviluppano dall’azione concomitante di fattori ereditari e background individuale.
Relativamente alle nostre conoscenze, la genetica ha, inoltre, posto
l’attenzione su specifici fenotipi familiari successivamente validati
come nuove forme sindromiche, quali l’epilessia mioclonica benigna
familiare dell’adulto, le crisi infantili benigne familiari e l’epilessia
autosomica dominante del lobo temporale mesiale e laterale.
Le epilessie genetiche
Un’epilessia genetica può essere sospettata sulla base di specifiche
caratteristiche cliniche, anamnestiche ed esami strumentali, quali:
• sintomi e segni tali da definire una specifica sindrome epilettica;
• dismorfismi facciali o somatici;
• anomalie congenite;
• arresto, regressione o ritardo di sviluppo psicomotorio;
• pattern EEG specifico;
• RM peculiare;
• resistenza al trattamento.
Le epilessie genetiche sono state suddivise in encefalopatie epilettiche dell’età evolutiva ed epilessie benigne dell’età evolutiva
Le encefalopatie epilettiche (EE) dell’età evolutiva
Le EE sono condizioni in cui l’epilessia causa o concorre a causare o
aggravare il deterioramento cognitivo e/o comportamentale del soggetto (Berg et al., 2010). Nelle EE più geni possono presentare un quadro epilettologico analogo, in associazione o meno a segni e sintomi distintivi sia a carico del sistema nervoso centrale che non (Mastrangelo
e Leuzzi, 2012). Allo stesso modo diverse mutazioni nello stesso gene
possono causare epilessie meno catastrofiche o non causare epilessia
affatto, ma esprimersi con altri disturbi a carico del sistema nervoso
centrale, quale il ritardo mentale, deficit di attenzione, disturbi comportamentali (Tavyev Asher e Scaglia, 2012; Olson et al., 2014)
Nella Tabella IV sono state riportate le caratteristiche principali di alcune delle più frequenti encefalopatie epilettiche, ordinate secondo
l’età d’esordio e non secondo raggruppamento sindromico. Si sono
volutamente escluse le encefalopatie miocloniche precoci da causa
metabolica (EME), per le quali si rimanda a OMIM (omim.org), perché
la loro evoluzione non è dovuta al tipo di encefalopatia epilettica di
per sé, ma alla malattia metabolica che le sottende.
230
Sindrome di Ohtahara (SO) e l’encefalopatia mioclonica
precoce (EME)
Le encefalopatie ad esordio neonatale o precoce si configurano in
particolare in due sindromi, la sindrome di Ohtahara (SO) e l’encefalopatia mioclonica precoce (EME), raggruppate sotto la sigla EIEE
(Early Infantile Epileptic Encephalopathy).
Sindrome di Ohtahara (SO)
La SO è caratterizzata da crisi toniche ad esordio precocissimo (dai
primi giorni di vita fino ai 3-4 mesi), accompagnate da “burst-suppression” (BS) all’EEG (Nordli, 2012). Le crisi sono brevi, 10 secondi
circa, e possono presentarsi isolate o in cluster, sia in sonno che
in veglia. La sindrome si associa invariabilmente a deterioramento
dello sviluppo psicomotorio, resistenza ai farmaci, cattiva prognosi,
e anche evoluzione in sindrome di West (SW).
ARX è un gene tipicamente associato alla SO e a vari altri segni. La
gravità del quadro spesso ma non univocamente correla con il numero e la sede di polialanine espanse, causando quadri diversi (SW
e crisi miocloniche) (Mastrangelo e Leuzzi, 2012).
MECP2 quando mutato nei maschi (Kamien et al., 2012) e FOXG1
sono responsabili di quadri encefalopatici precoci con ritardo mentale, disturbi del movimento e alterazioni aspecifiche alla risonanza
magnetica (Noh et al., 2012).
Mutazioni in CDKL5 si manifestano precocemente (prima dei 3 mesi),
sebbene raramente configurino un pattern BS vero e proprio all’EEG,
presentano crisi toniche corrispondenti a diffuso appiattimento del
tracciato seguito da anomalie focali (Bahi-Buisson et al., 2008).
Il gene stxbp1 causa circa 10-30% dei casi di SO (Kamien et al.,
2012), si associa a ritardo mentale grave, neuroimaging normale
o con ipomielinizzazione aspecifica e vari disturbi del movimento
dall’atassia alle discinesie (Mastrangelo e Leuzzi, 2012).
PNKP codifica per una proteina coinvolta nella riparazione del DNA,
si esprime attraverso mutazioni omozigoti o eterozigoti composte
che portano a quadri di microcefalia, ritardo mentale e SO (Mastrangelo e Leuzzi, 2012; Olson et al., 2014). Altri tipi di mutazioni a carico
di questo gene possono dare quadri più lievi o non presentare epilessia affatto (Tavyev Asher e Scaglia, 2012).
SCN2A e KCNQ2, geni codificanti per canali ionici, presentano un
overlap con sindromi benigne e sono coinvolti anche in quadri chiaramente encefalopatici associati o meno ad anomalie alla neuroimaging, ritardo mentale, disturbi comportamentali e del movimento
(Tavyev Asher e Scaglia, 2012).
Infine, una disregolazione dei geni ARHGEF9, SRGAP2 e MEFC2 si
manifesta tramite quadri di encefalopatia epilettica ad inizio precoce
e prognosi peggiore di quanto non succeda quando la mutazione
non comporti disregolazione (Tavyev Asher e Scaglia, 2012). Con il
sempre maggior impiego delle tecniche avanzate di sequenziamento dell’esoma è stato inoltre possibile evidenziare il coinvolgimento
di altri geni in singoli casi: KCNT1 e PIGQ1 (Martin et al., 2014),
il gene CASK associato a ipoplasia pontocerebellare (Saitsu et al.,
2012) e il gene BRAT1 che comporta anche microcefalia e dismorfismi (Saitsu et al., 2014)
Encefalopatia mioclonica precoce (EME)
L’EME è caratterizzata da un esordio precoce (entro i tre mesi di
età), mioclonie parcellari spesso associate a crisi parziali erratiche,
raramente spasmi o mioclonie massive con pattern a BS all’EEG.
Questo aspetto è più evidente in sonno. La prognosi è grave o infausta, non tende ad evolvere in altre sindromi epilettiche definite e
la presenza di BS persiste all’EEG (Ohtahara e Yamatogi, 2006). Le
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
cause individuate si basano su vari deficit metabolici. Non vi sono
anomalie strutturali specifiche alla neuroimaging. Riportare tutti i
geni dei difetti biochimici meriterebbe una trattazione dedicata e ci
limiteremo a citarne solo alcuni individuati recentemente. Tra questi si segnalano mutazioni del gene SCL25A22, che codifica per un
trasportatore mitocondriale del GABA e che associa EME, microcefalia, retinite pigmentosa e ipotonia (Noh et al., 2012; Tavyev Asher
e Scaglia, 2012), mutazioni del gene PNPO (17q21.32), codificante
per la piridossamina ossidasi, che può dare quadri di EME e che
rispondono alla supplementazione con piridossal-fosfato (Noh et
al., 2012), mutazioni a carico di ALDH7A1 (5q23.2), che può dare
ipotonia, ipoplasia cerebellare, atrofia cerebrale diffusa e corpo calloso assottigliato oltre a crisi precoci che rispondono a piridossina e
folati (Noh et al., 2012) e, infine, mutazioni del gene TBC1D24, che
codifica per una proteina coinvolta nel trasporto vescicolare e che
possono dare quadri analoghi (Olson et al., 2014).
Tabella IV.
Encefalopatie epilettiche e relativi geni candidati.
Età media
di esordiorange
Neonatale o
early infantile
ovvero primi
mesi da
lattante (01/3-4 mese)
Tipo di crisi/
Sindrome
Caratteristiche EEG
Evoluzione
Gene (nome)
Localizzazione cromosomica
Modalità di trasmissione
Tipo di mutazioni
Funzione
della
proteina
Note
< 4 mesi
Crisi toniche,
spasmi- Sindrome
di Ohtahara
Non specifiche burst
suppression, attività
disorganizzata, anomalie
multifocali
Prognosi negativa
ARX (aristaless-related homeobox )
Xp22.13
XR
Mutazioni puntiformi, delezioni /
duplicazioni di triplette.
Fattore di
regolazione della
trascrizioneespansione
polyA
ruolo nella
migrazione e
differenziazione
cellulare
Gravità del quadro
dipenderebbe
dal numero e
sede polialanine
in sovranumero;
mutazioni troncanti
< 6 mesi
Encefalopatia
precoce con
crisi convulsive
ricorrenti
EEG intercritico normale
Negativa,
cambiano le crisi,
evolve in S. di
West, permane
un’ epilessia
farmacoresistente
e ritardo mentale
CDKL5 (cyclin dependent kinase
like5)
Xp22.13
XD
Mutazioni specifiche, delezioni /
duplicazioni, copy number variant
Non chiarita.
Recentemente
dimostrato che
non agisce allo
stesso modo del
MecP2
Quadri più gravi nelle
mutazioni troncanti
che coinvolgono il
dominio catalitico
Primi mesi
di vita
Sindrome di
Ohtahara crisi
toniche
Burst suppression
Negativa
STXBP1
9q34.1
AD
Mutazioni eterozigoti missense,
troncanti, microdelezioni
Proteina
coinvolta nel
rilascio sinaptico
di vescicole
Crisi toniche
Burst suppression
PNKP
19q13.33
AR
Mutazioni puntiformi, di clivaggio
Enzima coinvolto
nella riparazione
del DNA
Crisi toniche
Burst suppression atipica
Evoluzione verso
sindrome di West
SRGAP2
Rottura del gene per traslocazione
bilanciata
Implicato nella
migrazione
neuronale
Crisi toniche +
iperekplexia
Negativa
ARHGEF9
Mutazioni missense, “rottura” del
gene per traslocazioni bilanciate,
microdelezioni
Cofattore per
lo scambio
di guanine
nella divisione
cellulare;
clustering di
recettori inibitori
post-sinaptici
Toniche e tonicocloniche
Negativa
FOXG1
14q13
AD
Mutazioni puntiformi, delezioni
Fattore di
trascrizione
coinvolto
nello sviluppo
telencefalico
Negativa, riportato
exitus precoce
MECP2
Xq28
XD-fenomeni di inattivazione alterata
Mutazioni puntiformi, microdelezioni
Regolatore della
trascrizione,
necessario alla
maturazione
cerebrale.
Quadro precoce nei
maschi e letale
MEF2C
5q14.3
Rottura del gene per traslocazione
Migrazione e
differenziazione
neuronale
Alterazioni nella
regolazione
dell’espressione
genica di MEF2C
KCNQ2
20q13.33
AR
Mutazioni missense
Canale potassio,
proteina
transmembrana
Stesso gene
coinvolte
nell’epilessia
neonatale benigna
>3 mesi
Prima
settimana
di vita
Crisi toniche
associate o meno
a componente
clonica focale
(arto, volto) e
apnea
Attività di fondo asincrona
con burst suppression
o attività epilettiforme
multifocale
Le crisi possono
risolversi verso
i tre anni ma il
ritardo cognitivo
permane
Altre mutazioni
danno quadri più lievi
I casi con “gain of
function” sembrano
più gravi
segue Tab. IV
231
G. Gobbi et al.
continua Tab. IV
Età media Tipo di crisi/
di esordio- Sindrome
range
Lattante e
Prima Infanzia
(1 mese - 2
anni)
Caratteristiche EEG
< 6 mesi
Epilessia parziale a
crisi migranti
<6
Encefalopatie
con Spasmi
Infantili
Encefalopatia
precoce con
crisi convulsive
ricorrenti
EEG intercritico normale
Spasmi infantili
Ipsaritmia
Crisi toniche
e miocloniche
resistenti alla
terapia
Anomalie focali e multifocali,
attività lenta ampio voltata,
attività theta diffusa, ritmi
pseudo periodici
Crisi toniche
spasmi infantili
Ipsaritmia
Crisi toniche e
spasmi infantili
Spasmi infantili
Ipsartimia
Spasmi infantili
Ipsartimia
Evoluzione
Gene (nome)
Localizzazione cromosomica
Modalità di trasmissione
Tipo di mutazioni
Funzione
della
proteina
Note
KCNT1
Mutazioni puntiformi “gain of
function”
Sottofamiglia T
dei canali del
potassio
Gain of function,
gene coinvolto anche
in ADNFLE
Negativa
CDKL5 (cyclin dependent kinase
like5)
Xp22.13
XD
Mutazioni specifiche, delezioni/
duplicazioni, copy number variant
Non chiarita.
Recentemente
dimostrato che
non agisce allo
stesso modo del
MecP2
Negativa
STXBP1
9q34.1
AD
Mutazioni eterozigoti missense,
troncanti, microdelezioni
Proteina
coinvolta nel
rilascio sinaptico
di vescicole
Negativa
plcbeta1
20p12.3
AR
Enzima coinvolto
nei segnali
cellulari
Delezione omozigote
nella regione
promoter
Negativa
ARX (aristaless-related homeobox )
Xp22.13
XR
Analisi di sequenza, mutazioni
specifiche, delezioni/duplicazioni.
Fattore di
regolazione della
trascrizioneespansione
polyA
ruolo nella
migrazione e
differenziazione
cellulare
Gravità del quadro
dipenderebbe
dal numero e
sede polialanine
in sovranumero;
mutazioni troncanti
SPTAN1
9q33-34
AD
Mutazioni puntiformi, delezioni,
mutazioni “disruption”
Proteina del
citoscheletro
coinvolta
nella stabilità
assonale
In alcuni casi
l’ipomielinizzazione
migliora con il
tempo.
MAGI2
7q11.23-q21.1
Impalcatura
cellulare per
recettori pre e
post sinaptici
scn1a
2q24.3
AD
Mutazioni puntiformi, delezioni
Subunità alfa del
canale del sodio,
varie mutazioni,
diminuisce
l’attività
inibitoria del
GABA con
conseguente
aumento della
suscettibilità
neuronale
Possibili geni
modulatori, (SCN8A),
(CACNB4), (SCN9A)
pcdh19
Xq22
Proteina di
membrana
che controlla
l’adesione
cellulare
Gene mutato anche
in pazienti epilettici
senza ritardo
mentale e in FIRES
Spasmi infantili
Sindrome di
Dravet: Crisi
polimorfe
emicloniche,
miocloniche,
assenze atipiche,
suscettibilità agli
stati febbrili.
6-36 mesi
Seconda
Infanzia e
oltre (2 anni-5
anni)
Punte e polipunte onda
generalizzata su progressivo
rallentamento dell’attività
di fondo
Variabile ma in
maggioranza
persistenza delle
crisi e ritardo
cognitivo
EFMR: Diversi tipi
di crisi febbrili e
afebbrili
Sindrome di
Lennox Gastaut
(crisi frontali
notturne, atoniche
assenze atipiche)
Attività di fondo lenta
anomalie multifocali,
scariche di punta onda lente,
attività rapida generalizzata
parossistica
Negativa
ESES
Punte-onda generalizzate
continue nel sonno lento
Permane deficit
cognitivo
GRIN2A
16p13.2
AD
Mutazioni puntiformi, troncanti e
di clivaggio
Sindrome di
Landau-Kleffner
Anomalie continue sulle
regioni temporo-parietali
Permane deficit di
linguaggio
GRIN2A
16p13.2
AD
Abbreviazioni. AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva; XD: X-linked dominante; XR: X-linked recessiva
232
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
Sindrome di West (SW)
La SW insorge al 6° mese di vita (4-8 mesi) ed è caratterizzata dalla
triade: spasmi tonici in flessione di solito in cluster, quadro EEG di
ipsaritmia, regressione psicomotoria. Può essere l’evoluzione di una
SO o costituire una fase transitoria di una forma EME. Può evolvere
in sindrome di Lennox-Gastaut (SLG).
Il gene CDKL5 e il FOXG1dopo un esordio più precoce e aspecifico
possono presentarsi con quadro tipico di SW nelle fasi successive di
malattia (Bahi-Buisson et al., 2008; Noh et al., 2012).
Il gene ARX sarebbe responsabile di circa 5% dei casi maschili di
SW (Kamien et al., 2012), associando anche distonia e disturbi dello
spettro autistico (Mastrangelo e Leuzzi, 2012). Analogamente, STXBP1
causa SO ma anche SW (Noh et al., 2012) senza peraltro mostrare
anomalie specifiche alla neuroimaging (Mastrangelo e Leuzzi, 2012).
Altri geni candidati per la SW sono SPTAN1, PNKP, St3gal3, MAGI1
e PLCβ1 (Mastrangelo e Leuzzi, 2012; Tavyev Asher e Scaglia, 2012;
Edvardson et al 2013).
Epilessia parziale maligna a crisi migranti (MMPSI)
La MMPSI è caratterizzata da crisi focali polimorfe e arresto dello
sviluppo psicomotorio nei primi sei mesi di vita. Le crisi sono tipicamente farmacoresistenti e le scariche epilettiformi si evidenziano
in varie aree di entrambi gli emisferi, “migrando” da una regione
all’altra dell’encefalo. Non sono evidenti anomalie strutturali alla
neuroimaging all’esordio e può mostrare successivamente assottigliamento del corpo calloso e ipomielinizzazione. Entrambi i sessi
sono coinvolti in egual misura. Mutazioni che aumentano la funzione
del gene KCNT1 sono state recentemente individuate in pazienti con
questa sindrome (Barcia et al., 2012). Il gene codifica per un canale
del potassio ed è stato già identificato in pazienti con epilessia del
lobo frontale con crisi notturne autosomica dominante (ADNFLE). Altri autori riportano il possibile coinvolgimento di SCN8A ma non è
chiaro se come agente eziologico o come gene modulatore in quanto il gene KCNT1 non è stato contemporaneamente saggiato (Ohba
et al., 2014). Altro gene coinvolto è il TBC1D24 (Olson et al., 2014)
e ulteriori report di casi aneddotici implicano mutazioni di SCN1A
associati a dismorfismi (Carranza Rojo et al., 2011; Freilich et al.,
2011), SCN2A (Dhamija et al., 2013) oppure SCL25A22 con un quadro decisamente severo e decesso precoce (Poduri et al., 2013).
Sindrome di Dravet (SD)
La SD si presenta tipicamente con crisi prolungate febbrili generalizzate o emicloniche nel primo anno di vita (6 mesi), e prosegue con
crisi polimorfe, generalizzate (miocloniche e assenze atipiche) oppure parziali, mentre l’EEG intercritico è poco significativo. I bambini,
che solitamente hanno sviluppo psicomotorio regolare all’esordio,
vanno incontro ad arresto delle acquisizioni di varia entità (www.
epilepsydiagnosis.org). Nella maggioranza dei casi, è associata a
mutazioni nel gene SCN1A (2q24.3- AD) codificante per il canale
del sodio neuronale. Le mutazioni sono generalmente puntiformi ma
possono esserci anche delezioni o duplicazioni. La maggioranza dei
casi è data da mutazioni de novo. L’indagine va condotta anche nei
genitori al fine di stabilire il rischio di ricorrenza (Noh et al., 2012,
Mastrangelo e Leuzzi, 2012). La gravità del quadro sembra essere
più accentuata nelle mutazioni troncanti, ma una chiara correlazione genotipo fenotipo non è stabilita (Tavyev Asher e Scaglia, 2012).
Inoltre, lo stesso gene può essere mutato anche in forme benigne
di epilessia. La positività all’indagine genetica in questo caso riveste
anche un’importanza terapeutica in quanto esiste una specifica indicazione terapeutica (stiripentolo, acido valproico, benzodiazepine,
levetiracetam, topiramato e dieta chetogena) e una specifica controindicazione per farmaci con azione sui canali del sodio (lamotirigina, fenitoina, vigabatrin, oxcarbazepina e carbamazepina) (Noh et
al., 2012). Anche i geni SCN2A, SCN8A, SCN9A e CACNA1A sono stati riscontrati mutati in alcuni casi di SD, ma con un ruolo verosimilmente di “gene modificatore” e in senso peggiorativo (Mastrangelo
e Leuzzi, 2012; Ohmori et al., 2013, Mulley et al., 2013). Si sta profilando sempre di più il fenotipo legato al gene CHD2 caratterizzato
dalla prevalenza di crisi miocloniche e che sembra non sovrapporsi
alla SD (Suls et al 2013), quasi a indurre a ritenerla una forma a sé
stante. SCN1B è stato identificato in alcuni casi casi di DS, ma uno
studio multicentrico recente ha dimostrato che non si possa ritenere rilevante nella maggioranza dei casi (Kim et al., 2013). Altri geni
coinvolti sono GABRA1 e STXBP1 (Carvill et al., 2014). Certamente
l’impiego sistematico delle nuove tecniche aiuterà a chiarire l’evidente variabilità genetica e gli effetti delle mutazioni dei vari geni
(ovvero l’impatto di un meccanismo poligenico nelle varie forme di
epilessia).
Sindrome di Lennox-Gastaut (LGS)
Vi sono altre forme di epilessia tipiche di questa fascia di età per le
quali però non sono stati ritrovati dei geni specifici al momento. La
LGS esordisce tra i 2 e i 5 anni, in un terzo dei soggetti preceduta
da SW e si esprime con crisi toniche notturne, assenze atipiche,
crisi di caduta e raramente crisi miocloniche, arresto e regressione
dello sviluppo cognitivo, turbe comportamentali in età tardo infantile e adolescenziale (www.epilepsydiagnosis.org). Anche se non vi
sono report di geni specifici, è da tener presente che molti pazienti
manifestano prima la SW e ancor prima la SO e di conseguenza
l’eziologia genetica è responsabile anche della LGS (Nordli, 2012). Vi
sono alcuni report di mutazione del gene CHD2 (Lund et al., 2014) di
pazienti con SLG atipica.
Sindrome di Doose o epilessia mioclono-astatica (PMMA)
La PMMA si manifesta tra i 6 mesi e i 6 anni di età. Spesso le crisi
febbrili e le crisi tonico-cloniche generalizzate precedono la comparsa di episodi mioclono-astatici e atonici. I maschi sono più colpiti e i
soggetti non hanno deficit neurologici o cognitivi all’esordio, mentre
possono svilupparli successivamente. All’EEG si osservano scariche
generalizzate di punte e polipunte onda (www.epilepsydiagnosis.
org). Nonostante numerosi studi e una certa ricorrenza familiare di
sindromi epilettiche non è stato possibile individuare dei geni specifici della PMMA. Mutazioni dei geni SCN1A e GABRG2 o SCL2A1
sono state descritte, ma con ruolo da definire (Tang e Pal, 2012).
Sindrome di Landau Kleffner (LKS) e encefalopatia epilettica
con punte onda continue nel sonno (ESES/CSWS)
La LKS, afasia acquisita dai 2 agli 8 anni con o senza crisi epilettiche ma con anomalie epilettiformi sulle regioni temporoparietali, e
l’ESES(CSWS), caratterizzata da regressione cognitiva e turbe comportamentali associate al tipico quadro EEG di POCS con o senza
franche crisi epilettiche, sono risultate associate in alcuni casi a
mutazioni del gene GRIN2A (Olson et al., 2014).
Encefalopatia epilettica da mutazione del gene PCDH19
L’encefalopatia epilettica da mutazione del gene PCDH19, codificante per la protocaderina, ha caratteristiche distintive. Le crisi polimorfe, febbrili e afebbrili, insorgono tra i 6 e i 36 mesi di età, associandosi a vari gradi di ritardo mentale e turbe del comportamento
(Tavyev Asher e Scaglia, 2012).
233
G. Gobbi et al.
Altre encefalopatie epilettiche in corso di definizione sindromica
Progressivamente con la diffusione dell’impiego delle moderne tecniche di sequenziamento del DNA, si aggiungono nuovi geni a questo elenco e si espandono i fenotipi correlati ai geni già noti.
HCN1, che codifica per un canale a iperpolarizzazione attivata da
nucleotidi ciclici, è stato allo stesso modo identificato come agente
eziologico in soggetti con fenotipo simil-Dravet, privi di mutazioni di
SCN1A o PCDH19, che presentano crisi polimorfe febbrili o afebbrili precocemente e successivamente assenze atipiche con o senza
mioclonie, crisi parziali, ritardo mentale a vario grado e disturbi comportamentali (Nava et al., 2014).
Mutazioni nel gene SYNGAP1 portano ad un esordio di crisi compreso tra i 6 mesi e i 3 anni. Gli eventi critici sono polimorfi e i soggetti
presentano regressione con outcome sfavorevole che sfocia in ritardo mentale moderato o severo (Carvill et al., 2013). Mutazioni a
carico dello stesso gene erano state rinvenute in popolazioni con
ritardo mentale ed epilessia controllata dalla terapia. In effetti SYNGAP1 si candida come potenziale eziologia genetica per le epilessie generalizzate, in quanto i pazienti hanno mostrato epilessia con
assenze miocloniche, crisi tonico cloniche generalizzate febbrili e
afebbrili, crisi atoniche e assenze atipiche controllate o meno dalla
terapia farmacologia, ma invariabilmente associate disturbi cognitivi, dell’attenzione o dello spettro autistico.
arti e delle braccia) cui può seguire secondaria generalizzazione.
Non vi sono fenomeni postictali. Solo in un terzo dei casi s’instaura
una certa farmacoresistenza.
Le epilessie benigne dell’età evolutiva
Vengono definite epilessie benigne quelle epilessie che presentano
un buon outcome in termini clinici, terapeutici (buona farmacoresponsività) e di sviluppo cognitivo.
Anche nello studio genetico delle epilessie benigne non è possibile
definire una relazione lineare tra fenotipo e genotipo, e viceversa
(eterogeneità genetica) (Allen et al., 2014).
Nella Tabella V sono riassunte le caratteristiche principali delle epilessie benigne per le quali sono noti geni candidati.
Esordio nella prima infanzia con crisi miocloniche brevi con coinvolgimento del capo, degli occhi, degli arti superiori e più raramente inferiori
(in quest’ultimo caso possono causare occasionali cadute), senza compromissione del contatto. Le crisi possono comparire isolate o in brevi
grappoli. Lo sviluppo psicomotorio è nella norma (Afawi et al., 2013).
Crisi neonatali benigne familiari BFNSs/neonatali-infantili
benigne familiari BFNISs /infantili benigne familiari BFISs
Costituiscono il paradigma delle epilessie benigne per eccellenza
(Specchio e Vigevano, 2006). Differiscono tra loro per l’età di esordio
(pochi giorni di vita, entro i 6 mesi e dopo i 6 mesi rispettivamente). Le
BFNSs sono caratterizzate da crisi focali di breve durata (1-2 minuti)
che possono ricorrere anche con grande frequenza (fino a 30 al giorno). Molte crisi iniziano con un’attività motoria di tipo clonico con apnea, cui fanno seguito vocalizzi, movimenti oculari, segni autonomici,
automatismi motori e clonie focali o generalizzate. Le crisi si risolvono
spontaneamente in genere entro 1-6 mesi dall’esordio (comunque
entro l’anno di vita). Le BFNISs sono caratterizzate da crisi di brevissima durata (inferiore al minuto) che possono ricorrere anche con
frequenza pluriquotidiana. Sono caratterizzate perlopiù da crisi tonicocloniche e recedono spontaneamente entro il primo anno di vita. Le
BFISs presentano caratteristiche cliniche sovrapponibili. Talvolta può
essere indicata la terapia farmacologica con ottima risposta clinica
(Weckhuysen et al., 2013; Zara et al., 2013; Matalon et al., 2014).
Epilessia notturna autosomica dominante del lobo frontale
È stata la prima sindrome focale autosomica dominante, ereditata
da singolo gene a essere descritta. Si manifesta nella tarda infanzia
e in circa il 90% dei casi prima dei 20 anni, può persistere fino
all’età adulta. Le crisi si manifestano durante il sonno o subito prima
del risveglio, sono molto frequenti, quasi ogni notte, e sono caratterizzate da crisi di tipo ipermotorio (improvvisi, bruschi e afinalistici
cambiamenti di posizione, sobbalzi, movimenti di pedalamento degli
234
Epilessia familiare del lobo temporale
Esordisce tra l’infanzia e l’età adulta con una netta prevalenza in
adolescenza. Le crisi sono focali, caratterizzate da un’aura uditiva
con talora con secondaria generalizzazione. Non sono evidenti anomalie strutturali cerebrali, il decorso è benigno e spesso resta non
diagnosticata.
Per contro ancora scarsi e non univoci i dati sulle forme mesiali, con
o senza sclerosi dell’ippocampo.
Epilessia Genetica con Convulsioni Febbrili Plus (Generalized
Epilepsy Febrile Seizures plus GEFS+)
Descritta nel 1997 dalla scuola australiana si caratterizza per la
coesistenza in più membri di una stessa famiglia di fenotipi clinici differenti, quali convulsioni afebbrili generalizzate o parziali, crisi
tonico-cloniche, assenze, crisi mioclono astatiche, crisi miocloniche
o atoniche. La sindrome delle CFplus è caratterizzata anche dalla
ricorrenza di CF oltre i 6 anni di età e dalla coesistenza di convulsioni
afebbrili di tipo tonico-clonico (Piro et al., 2011).
Epilessia mioclonica familiare infantile (FIME)
Epilessie generalizzate idiopatiche (IGEs)
Comprendono fenotipi clinici differenti, di cui i quattro più noti sono l’epilessia con assenze dell’infanzia (CAE-Piccolo male), l’epilessia giovanile
con assenze (JAE), l’epilessia mioclonica giovanile (JME-Sd di Janz) e
l’epilessia generalizzata idiopatica con fenotipi variabili (GTCS at randomy). Queste condizioni possono coesistere all’interno della stessa
famiglia e manifestarsi persino nello stesso individuo (Fig. 2).
Figura 2.
La comorbidità dei sottofenotipi delle diverse forme di epilessie generalizzate idiopatiche (IGEs) suggerisce in tali forme la condivisione dei
fattori di suscettibilità genetica. CAE: epilessia con assenze dell’infanzia; JAE: epilessia con assenze giovanili; JME: epilessia mioclonica giovanilE; GTCS: epilessia con crisi generalizzate “at random”.
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
Tabella V.
Epilessie benigne e relativi geni canditati.
Epilessia
Crisi Neonatali Benigne
Familiari
(BFNSs)
Età media di
esordio
Primi giorni di vita
(epoca neonatale)
Benigna (remissione
entro l’anno di vita)
Da pochi giorni ai
6 mesi
Tonico/cloniche-focali, atoniche
di brevissima durata (meno di
10 sec)
Benigne (remissione
spontanea entro
il primo anno di
vita, nessuna altra
crisi nel follow-up
successivo)
Da pochi giorni ai
6 mesi
Clusters di crisi focali o tonicocloniche
Tra i 3 e gli 8 mesi
di età
Crisi tonico-cloniche.
Tra i 4 e gli 8 mesi
di età
Gene
Localizzazione
cromosomica
Modalità di
trasmissione
Funzione
della
proteina
Note
KCNQ2
20q13.33
AD
Canale voltaggiodipendente
del potassio,
sottofamiglia KQTlike, tipo 2
KCNQ3
8q24.22
AD
Canale voltaggiodipendente
del potassio,
sottofamiglia KQTlike, tipo 3
SCN2A
2q24.3
AD
Canali del Sodio
voltaggio dipendente,
sub unità alfa, tipo 2
KCNQ2
20q13.33
AD
Canale voltaggiodipendente
del potassio,
sottofamiglia KQTlike, tipo 2
Benigna (non
modifica della
prognosi con FAE)
SCN2A
2q24
Canali del Sodio
voltaggio dipendente,
sub unità alfa, tipo 2
Anche in EEEI 11
OMIM#613721
Crisi focali /tonico-cloniche.
Alcune sporadiche descrizioni di
crisi febbrili al follow-up (intorno
ai 12-18 mesi)
Benigna (talvolta
terapia nel primo
anno con CBZ, VPA
0 PB)
PRRT2
16p11.2
AD
Proteina 2
transmembrana ricca
di prolina
Con o senza coreoatetosi
parossistica
OMIM# 602066
Discinesia chinesigenica
periodica OMIM#128200
Tra i 3 e gli 8 mesi
di età (6 mesi
mediamente)
Crisi focali con generalizzazione
secondaria (deviazione del capo
e degli occhi, ipertono diffuso
e cianosi, seguiti da clonie
bilaterali)
Benigna
KCNQ2
20q13.33
AD
Canale voltaggiodipendente
del potassio,
sottofamiglia KQTlike, tipo 2
tra i 3 e gli 8 mesi di
età (intorno ai 6 mesi)
Crisi brevi, della durata di circa 2
min, pluriquotidiane in clusters.
Spesso focali (ma possono
anche essere generalizzate) con
ipertono diffuso (associato a
scosse agli arti) e deviazione del
capo o staring con pdc e cianosi
Benigne con
completo controllo
delle crisi con VPA
PB o CBZ. L a terapia
può solitamente
essere sospesa
tra 1-3 anni di età
(al follow-up non
epilessia, né crisi
febbrili)
KCNQ3
8q24.22
AD
Canale voltaggiodipendente
del potassio,
sottofamiglia KQTlike, tipo 3
ATP1A2
1q23.2
AD
ATPasi, trasportatore
Na/K, polipeptide
alfa 2
CHRNA4
20q13.33
AD
Recettore colinergico,
Nicotinico, Alfa 4
tipo 2
OMIM # 121201
Crisi Infantili Benigne
Familiari
(BFISs)
Evoluzione
(benigna/
maligna)
Crisi toniche pluriquotidiane
seguite talvolta da una
fase clonica generalizzata.
Solitamente crisi brevi e
frequenti, talvolta in grappoli
caratterizzate da deviazione
del capo e degli occhi, staring,
cianosi.
tipo 1
OMIM #121200
Crisi Neonatali-Infantili
Benigne Familiari
(BFNISs)
Tipo principale
di crisi
Anche in EEEI 7
OMIM#613720
Anche in EEEI 11 OMIM
#613721
tipo 3
OMIM# 607745
tipo 2
OMIM# 605751
Crisi Infantili Benigne
Familiari
con emicrania
emiplegica familiare
OMIM#602481
Epilessia Notturna del
Lobo Frontale
età infantile
Frequenti, improvvise brusche
crisi caratterizzate da movimenti
afinanilistici durante il sonno
Solitamente le crisi
persistono fino all’età
adulta
tipo 1
OMIM# 600513
tipo 2
OMIM#603204
15q24
AD
tipo 3
OMIM# 605375
CHRNB2
1p21.3
AD
Recettore colinergico,
Nicotinico, Beta 2
tipo 4
OMIM# 610353
CHRNA2
8p21.2
AD
Recettore colinergico,
Nicotinico, Alfa 2
segue Tab. V
235
G. Gobbi et al.
continua Tab. V
Epilessia
Epilessia Genetica con
Convulsioni Febbrili
Plus (GEFS+)
Età media di
esordio
Tipo principale
di crisi
Crisi tra i 6 mesi ed i
6 anni. Caratteristica
persistenza delle crisi
febbrili oltre i 6 anni
Ampio spettro di fenotipi (Crisi
generalizzate associate a febbre,
crisi tonico-cloniche, crisi
parziali, assenze)
tipo 2
OMIM# 604403
Evoluzione
(benigna/
maligna)
Generalmente
benigna (2-7% dei
bambini sviluppano
crisi afebbrili nel
corso della vita)
Gene
Localizzazione
cromosomica
Modalità di
trasmissione
SCN1A
2q24.3
AD
Funzione
della
proteina
Canali del Sodio
voltaggio dipendenti,
Subunità alfa, tipo 1
Note
Anche in Sindrome
Dravet OMIM# 607208
FEB 3A OMIM# 604403
Emicrania emiplegica
familiare
OMIM#609634
tipo 1
OMIM# 604233
SCN1B
19q13.12
AD
Canali del Sodio
voltaggio dipendenti,
sub unità beta, tipo 1
SCN2A
2q24.3
AD
Canali del Sodio
voltaggio dipendente,
sub unità alfa, tipo 2
Anche in EEEI 11OMIM
#613721
tipo 7
OMIM# 613863
SCN 9A
2q24.3
Canali del Sodio
voltaggio dipendenti,
sub unità alfa, tipo IX
Anche FEB 3B
OMIM#613863
tipo 3
OMIM# 611277
GABR G2
5q34
AD
Recettore del GABAa,
sub unità gamma,
tipo 2
Anche FEB 8 OMIM#
611277
Epilessia a tipo assenze
infantili
OMIM# 607681
tipo 5
OMIM# 613060
GABR D
1p36.33
AD
tipo 4
OMIM#609800
2p2
tipo 8
OMIM#613828
6q16.3-q 22.31
AD
tipo 6
OMIM#612279
8p23-p21
Recettore del GABAa,
sub unità delta
Descritto anche nelle
Epilessie Idiopatiche
Generalizzate e nelle
Epilessie miocloniche
giovanili OMIM#613060
Anche in EEEI 16
OMIM# 615338
Epilessia mioclonica
familiare infantile
(FIME)
OMIM# 605021
Prima infanzia
Esordio con crisi miocloniche, CF
e Crisi tonico-cloniche
Benigne con buona
risposta ai FAE
TBC1D24
16p13.3
TBC 1 domain family,
Tipo24
Epilessia Familiare del
Lobo Temporale
tipo 1
OMIM#600512
Esordio tra gli 8 ed i
19 anni
Crisi parziali originate dal lobo
temporale, spesso associate a
sintomi sensoriali (più stesso
di natura uditiva ma anche
olfattiva, visiva o a tipo vertigini),
autonomici (gastrici/epigastrici,
tachicardia) e/o fisico-emotivi
(paura, depersonalizzazione
dejavu)
Evoluzione benigna.
Solitamente posti
in terapia con PHE
o CBZ
LGI 1
10q23.33
AD
Leucine-rich gene,
glioma inactivated, 1
Epilessia Mioclonica
giovanile (Sd di Janz)
Età adolescenziale (II
decade di vita)
Presenza di grappoli mioclonici
massivi al risveglio talvolta
associate ad assenze atipiche
Buon controllo delle
crisi con terapia
(VPA).
GABRA 1
5q34
AR
Recettore GABA,
alfa 1
OMIM#611136
Anche in EEEI19
OMIM#615744
Anche epilssia a
tipo assenze infantili
OMIM#611136
OMIM#254770
Epilessia generalizzata
idiopatica con fenotipi
variabili
OMIM#614847
#611136
Variabile con due
picchi (uno infantile
4-10 anni e 6-12 anni)
Diversi fenotipi descritti (crisi a
tipo assenze infantili e giovanili,
crisi miocloniche giovanili,
epilessia grande male)
Prognosi buona
con risoluzione in
adolescenza bo
subito dopo.
EFHC1
6p12.2
AD
EF-hand domain
containing protein 1
Atassia episodica tipo 2
OMIM#108500
SLC2A1
1q34.2
Solute Carrier family
2 (facilitated glucose
transporter) tipo 1
Anche in epilessia a tipo
assenze giovanili
OMIM#607631
segue Tab. V
236
La genetica delle epilessie e le epilessie genetiche
continua Tab. V
Epilessia
Epilessia generalizzata
idiopatica
Età media di
esordio
Due picchi (uno
infantile 4-10 anni e
6-12 anni)
Tipo principale
di crisi
Diversi fenotipi descritti
OMIM#607682
Evoluzione
(benigna/
maligna)
Prognosi buona
con risoluzione in
adolescenza bo
subito dopo.
Gene
Localizzazione
cromosomica
Modalità di
trasmissione
CACNB4
2q22
AD
Funzione
della
proteina
Note
Canale del Calcio
voltaggio dipendente,
subunità beta, tipo 4
Gene implicato anche
nella Sd da deficit GLUT1
e nella distonia tipo 9
Atassia episodica tipo 5
OMIM#613855
OMIM#607682
Due picchi (4-10 anni
e 6-12 anni)
Diversi fenotipi descritti
Prognosi buona
con risoluzione in
adolescenza o subito
dopo.
CACNA1A
19p13.2
AD
Canale del Calcio
voltaggio dipendente,
tipo P/Q, subunità
alfa 1A
Epilessia a tipo
assenza
6-7 anni di età (forma
infantile), età puberale
(forma giovanile).
Crisi a tipo assenza
pluriquotidiane
Prognosi benigna con
remissione entro la
fine dell’adolescenza.
GABR G2
Recettore del GABAa,
subunità gamma,
tipo 2
5q34
Atassia episodica tipo 2
OMIM#108500
Forma infantile
OMIM#607681
OMIM#611942
CACNA1H
16 p 13.3
Canale del Calcio
voltaggio dipendente,
tipo T, subunità alfa 1
OMIM#600131
8q24
OMIM#612269
GABRB3
15q 12
Recettore GABA,
Beta 3
Forma giovanile
OMIM# 607631
EFHC1
6p12.2
EF-hand domain
containing protein 1
Atassia episodica tipo 2
OMIM#108500
Epilessia Mioclonica
giovanile OMIM#254770
Abbreviazioni. AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva.
Epilessia assenze dell’infanzia (CAE-Piccolo Male) e epilessia
assenze giovanile (JAE)
Esordiscono rispettivamente intorno ai 4-10 anni (epilessia-assenze
dell’infanzia) e 6-12 anni (epilessia-assenze dell’adolescenza). Clinicamente sono caratterizzata dalla comparsa di assenze caratterizzate
da improvvisa e momentanea perdita di contatto con l’ambiente della
durata variabile tra i 10 e i 30 secondi). Le assenze possono ricorrere
numerose volte nel corso della giornata con picchi fino anche a 50100 crisi al giorno nella CAE o essere più sporadiche come nella JAE.
L’EEG critico ed intercritico è caratteristico per la presenza di scariche
parossistiche di punte-onde lente di 3 cicli al secondo. Lo sviluppo
psicomotorio è nella norma. La prognosi è solitamente buona e questa
forma di epilessia si risolve sempre in l’adolescenza o subito dopo.
Epilessia mioclonica giovanile (JME-Sd di Janz)
Esordio tre i 12 e i 18 anni, con crisi tonico-cloniche generalizzate e
mioclonie, che si verificano tipicamente al risveglio. La coscienza è
solitamente conservata. In circa 1/3 dei casi si verificano crisi di assenza. L’eccessiva stanchezza e la carenza di sonno sono potenziali
fattori scatenanti. L’EEG intercritico mostra tipicamente scariche di
polipunte seguite da onde lente irregolari a frequenza di 1-3 Hz; in
quello critico le crisi miocloniche correlano con scariche di polipunta-onda a 3-4-6 Hz. La risposta alla terapia farmacologica (acido
valproico, clonazepam, levetiracetam) è buona, con ottimo controllo
delle crisi, ma vi è alta ricorrenza delle crisi alla sospensione.
Epilessia generalizzata idiopatica con fenotipi variabili (GTCS
at randomy)
Gruppo caratterizzato da diversi quadri fenotipici (crisi a tipo as-
senze infantili e giovanili, crisi miocloniche giovanili, epilessia
grande male), con anomalie EEG bilaterali sincrone e simmetriche
con caratteristiche peculiari del quadro clinico presentato. Hanno una prognosi buona con risoluzione entro l’età adolescenziale
(Fig. 2).
Conclusioni e considerazioni personali
Il percorso clinico diagnostico per lo studio della genetica dell’epilessia è molto articolato, spesso indaginoso e molto dispendioso in
termini di tempo. Poiché i risultati talvolta possono avere significato
non univoco o ancora sconosciuto, occorre delucidare i contenuti
del referto alla famiglia. Non va dimenticato come invece proprio gli
studi di genetica abbiano permesso in altri casi di definire condizioni
cliniche complesse e non inquadrabili in sindromi specifiche, oppure
categorizzare sottotipi peculiari.
Pertanto il clinico non deve rinunciare ad approfondire la genetica dell’epilessia poiché essa sta diventando uno strumento sempre
più importante e di valore, sia in termini di ricerca che di clinica,
consentendo una più accurata definizione diagnostica e prognostica
e corroborando una più coerente scelta farmacologica. Certamente per assicurare una corretta gestione delle indagini genetiche nei
pazienti con sindromi epilettiche è indispensabile una stretta collaborazione tra il genetista e l’epilettologo pediatra, che ha il compito
di un lavoro clinico rigoroso, che comprenda la descrizione della
semeiologia delle crisi, l’analisi elettroencefalografica, le indagini di
neuroimaging e la valutazione neuropsicologica.
237
G. Gobbi et al.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
Nella seconda metà dello scorso secolo sapevamo che una concordanza completa per la stessa forma sindromica si osservava solo nel 25 % delle famiglie e che era più alta nei parenti di primo grado e ancora di più nei gemelli monozigoti rispetto ai gemelli di zigoti. Si sapeva che un maggiore rischio
di epilessia era nei parenti di un paziente affetto da epilessia rispetto alla popolazione generale e che il rischio aumentava in presenza di un pattern EEG
di punta-onda generalizzato. Lo sviluppo delle tecniche di indagine citogenetica aveva permesso di studiare le epilessie nelle sindromi cromosomiche,
negli alberi familiari dove la patologia era particolarmente rappresentata.
Cosa sappiamo adesso
Negli ultimi venti anni sono stati fatti enormi progressi grazie allo sviluppo delle tecniche di genetica molecolare. Oltre alla continua scoperta di nuovi
geni che sottendono le diverse forme di epilessia, le recenti individuazioni di mutazioni nei geni codificanti subunità di canali voltaggio-dipendenti del
sodio, del potassio e del cloro, di recettori per l’acetilcolina e per il GABA stanno aumentando le nostre conoscenze di base sull’eziopatogenesi dell’epilettogenesi. Si intravedono importanti prospettive attraverso il disegno di nuovi farmaci mirati a specifici meccanismi patogenetici, oppure ad azione
specifica su proteine mutate, fino ad una terapia genica sostitutiva nelle forme più gravi. Queste nozioni, inoltre, potrebbero portare a progressi nel
campo della farmacogenomica, ossia nel prevedere la risposta del soggetto ad un trattamento, in termini sia di efficacia che di tollerabilità.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Le attuali conoscenze impongono un lavoro clinico rigoroso di inquadramento diagnostico che comprenda i dati clinici, elettrofisiologici, neuroradiologici
e neuropsicologici del soggetto e spingono ad avvalersi dei panel di geni che si vanno man mano predisponendo nei vari laboratori specializzati in Italia
e a livello internazionale, al fine di studiare il maggior numero di geni in un dato pazienti. Ne consegue una maggior accuratezza e rapidità diagnostica
che, corroborata dall’interpretazione dei dati da parte del clinico, permette inoltre di intraprendere scelte terapeutiche più adeguate nonché un corretto
counseling familiare.
Sito internet che fornisce molte informazioni rispetto alle sindromi epilettiche, alle indagini genetiche disponibili e ai centri dove possono essere svolte:
www.genetests.org
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Corrispondenza
Giuseppe Gobbi, Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile, IRCCS, Istituto delle Scienze Neurologiche, via Altura 3, 40139 Bologna E-mail: [email protected]
239
Ottobre-Dicembre 2014 • Vol. 44 • N. 176 • Pp. 240-245
Frontiere
Farmaci che modulano l’espressione del dna:
attuali e potenziali applicazioni in pediatria
Giovanna Russo, Milena La Spina, Piera Samperi, Luca Lo Nigro
Centro di Riferimento Regionale di Ematologia e Oncologia Pediatrica, Azienda Policlinico – OVE, Università di Catania
Riassunto
I farmaci capaci di modulare l’espressione del DNA potrebbero attivare o inattivare geni la cui funzione è strettamente legata alla patogenesi di una specifica malattia. La terapia “epigenetica” si pone l’obiettivo di modulare l’attività principalmente coinvolta nel meccanismo patogenetico della malattia stessa
(metilazione o deacetilazione) come nelle malattie mielo-linfoproliferative, o di indurre la trascrizione e quindi la sintesi di proteine normalmente inespresse
come nell’emoglobinopatie ereditarie. Nel primo caso, il ricorso a farmaci demetilanti e inibitori delle iston-deacetilasi ha portato alla remissione completa
in casi refrattari. Nel caso delle emoglobinopatie ereditarie (beta talassemia e malattia drepanocitica) la somministrazione dell’Idrossi-Urea (HU) ha indotto
l’espressione di HbF con conseguente beneficio clinico. Le potenzialità di queste nuove forme di trattamento sono notevoli, con possibilità di applicazione
sia in campo oncologico che potenzialmente anche nella malattie ad eziopatogenesi autoimmune.
Summary
Drugs capable of modulating the expression of DNA could activate or inactivate genes whose function is closely linked to the pathogenesis of a specific disease.
This “epigenetic” therapy aims to modulate activities primarily involved in the pathogenic mechanism of the disease itself (methylation or deacetylation) as in
myelo-lymphoproliferative diseases, or to induce the transcription and thus protein synthesis normally unexpressed as in hereditary hemoglobinopathies. In the
former case, the use of demethylating drugs and histone deacetylase inhibitors led to complete remission in refractory cases. In the latter case of hereditary
hemoglobinopathies (beta thalassemia and sickle cell disease) the administration of hydroxy-urea (HU) induced the expression of HbF resulting in clinical benefit.
This type of treatment has an enormous potential application; these drugs are planned to be part of treatment for certain tumors with current poor prognosis;
moreover the potential use for curing the immune system diseases such as those with autoimmune etiology is in the way to be explored.
Introduzione
L’Epigenetica è definita come quella parte della genetica che fa
riferimento ad alterazioni ereditabili che modificano l’espressione
genica, pur non alterando la sequenza del DNA (Dawson e Kouzarides, 2012). I farmaci capaci di modulare l’espressione del DNA,
potrebbero attivare o inattivare geni la cui funzione è strettamente
legata alla patogenesi di una specifica malattia. Per queste ragioni,
un approccio terapeutico innovativo definito “epigenetico” è potenzialmente efficace in numerose patologie ancora oggi ad elevata
mortalità e/o morbilità, o comunque per tante malattie in cui le cure
convenzionali non riescono a risolvere tutti gli aspetti clinici correlati. Tuttavia l’applicabilità clinica di questa strategia terapeutica
è ancora molto ridotta, soprattutto in pediatria. In questo articolo
passeremo in rassegna le conoscenze oggi disponibili, orientandoci
secondo le applicazioni cliniche già avviate o in fase avanzata di
sperimentazione.
Meccanismi di controllo epigenetico ed espressione genica
I meccanismi alla base di queste modifiche sono diversi, inducendo
l’attivazione o l’inattivazione di specifici geni. Questo spiega perché
le cellule differenziate in un organismo pluricellulare esprimono solo
i geni necessari alla loro attività.
Il DNA eucariota esiste in forma di cromatina, che è costituita da
unità di nucleosomi, sequenze di 147 paia di basi di DNA avvolte
attorno ad un complesso ottamerico costituito da due dei seguenti Istoni H2A, H2B, H3 e H4 (Lunger et al., 1997). I cambiamenti
dinamici nella struttura della cromatina sono descritti nella Figura 1. Le parti compatte di cromatina sono ricche in nucleosomi e
generalmente “silenziano” la trascrizione, rendendo il DNA inac-
240
cessibile. La perdita della conformazione in nucleosomi aumenta
l’accessibilità alla cromatina, favorendo il legame con i regolatori
trascrizionali.
Il controllo della trascrizione è governato dai meccanismi di
1. metilazione del DNA;
2. modifiche post-traduzionali delle proteine istoniche;
3. azioni di enzimi ATP-dipendenti che rimodellano la cromatina;
4. scambio di varianti istoniche con istoni canonici.
Le code sporgenti N-terminali degli istoni sono sottoposte a modificazioni chimiche, che includono l’acetilazione, la metilazione,
la fosforilazione, l’ubiquitinizzazione, la sumoilazione e la biotinilazione (Dawson e Kouzarides, 2012). La maggior parte delle
alterazioni degli istoni sono reversibili attraverso le azioni degli
enzimi che modificano gli istoni (Histon Modifiers). L’acetilazione
degli istoni sui residui di lisina è associata all’attivazione trascrizionale, mediante attività opposte d’istone-acetiltransferasi
(HAT) e istone-deacetilasi (HDAC) (Dawson e Kouzarides, 2012).
La metilazione degli istoni è notevolmente più complessa, e
coinvolge i residui di lisina, arginina e istidina. La metilazione
della lisina degli istoni ha esiti diversi, dipendenti dal residuo
che viene modificato e dall’entità della modifica (mono-, di- o
tri-metilazione). La scoperta di enzimi che demetilano la lisina,
ha rivoluzionato l’idea che le metilazioni degli istoni siano irreversibili (Kooistra e Helin, 2012).
Epigenetica, malattie del bambino e farmaci
Sin dagli inizi del 2000 si riteneva che soltanto tre patologie fossero indiscutibilmente legate all’epigenetica: la sindrome di Rett,
Farmaci ed epigenetica in pediatria
Figura 1.
Meccanismi di controllo epigenetico della trascrizione. Il complesso di rimodellamento della cromatina può ristrutturare e riposizionare gli ottameri
istonici utilizzando l’ATP per regolare l’accesso al DNA e favorire il legame dei fattori regolatori della trascrizione, come i fattori pro-trascrizionali,
co-attivatori e la machinery della trascrizione, compreso il complesso della Polymerase (Pol) II. Le “code” degli istoni possono esser modificate da
reazioni tipo la fosforilazione, l’acetilazione e la metilazione. Tutto ciò può avvenire grazie all’intervento dei “modificatori istonici” ovvero le istonacetilasi, -metilasi e –chinasi. Gli “Istoni Varianti” (H2A.Z e H3.3) fiancheggiano le regioni non-nucleosomiche dei promotori che possono essere
attivamente trascritti e altri elementi regolatori. Gli RNA-non codificanti (non-coding RNA) sono in grado di mantenere lo stato di etero-cromatina
(modificato da Lim et al., 2013)
ATP, adenosin trifosfato; ADP, adenosin difosfato; TSS, sito di start trascrizionale; Me, metilazione; P, fosforilazione; Ac, acetilazione; TF, fattore di
trascrizione; RE, elementi di risposta; R, arginina; K, lisina; T, treonina; S, serina.
la Sindrome dell’X fragile e la sindrome da instabilità centromerica
ICF (Wright e Saul, 2013). Oggi si ritiene che numerose patologie a
eziopatogenesi multifattoriale potrebbero essere indotte da alterazioni epigenetiche; in primo luogo i tumori, seguiti dalle sindromi
neurodegenerative, le distrofie muscolari (Consalvi et al., 2011),
le malattie reumatiche (Gay e Wilson, 2014), le patologie psichiatriche. È consolidato che i “modulatori epigenetici” hanno un ruolo fondamentale nella carcinogenesi, rappresentando potenziali
target terapeutici nelle malattie oncologiche dell’età pediatrica
(Lawlor e Thiele, 2012). Se in alcuni casi la terapia “epigenetica”
si pone l’obiettivo di modulare l’attività principalmente coinvolta
nel meccanismo patogenetico della malattia (metilazione o deacetilazione) come nel caso delle malattie mielo-linfoproliferative,
in altri casi tale terapia induce la trascrizione e quindi la sintesi di
proteine normalmente inespresse: è il caso dell’emoglobinopatie
ereditarie.
Emoglobinopatie ereditarie
La beta talassemia (BT) e la malattia drepanocitica (SCD) sono caratterizzati dalla diminuzione o totale assenza della HbA (α2β2) con
anemia emolitica cronica con vario grado di trasfusione-dipendenza. Nella BT l’eccesso di catene α causa danno alla membrana
eritrocitaria, apoptosi degli eritroblasti ed emolisi intramidollare
con conseguente eritropoiesi inefficace. Nella SCD, l’alterazione
strutturale della catene β dell’Hb comporta polimerizzazione dell’HbS, con conseguente vaso-occlusione, ischemia e danno tissutale. Un’importante strategia terapeutica è quella di far aumentare
la produzione di HbF (α2g2), con lo scopo di correggere lo sbilanciamento delle catene α/non-α nella BT e di sostituire la catena
βS anomala nella SCD.
La presenza di HbF nella BT diminuisce l’accumulo e la precipitazione delle catene α e riduce l’eritropoiesi inefficace; nella SCD inibi-
241
G. Russo et al.
sce la polimerizzazione dell’HbS mediante la formazione di molecole
ibride (α2βSg), le quali si intercalano nei polimeri e ne interrompono
l’accrescimento. Elevati livelli di HbF si associano a minore frequenza delle crisi dolorose, minor numero di episodi di accidenti cerebrovascolari.
L’idrossiurea (HU), farmaco citotossico, si è dimostrato efficace
nell’indurre la sintesi di HbF. Il meccanismo d’azione dell’HU a livello
dell’eritropoiesi verosimilmente è correlato all’inibizione della ribonucleasi riduttasi, enzima chiave nella conversione dei ribonucleotidi
in desossi-ribonucletotidi, che entrano nella struttura base del DNA.
Il “commissionamento” verso la linea eritropoietica avviene, sotto
l’influenza di un insieme di citochine, a partire della cellula staminale totipotente verso i progenitori multipotenti mieloidi, poi verso
le BFU-e (burst forming unit-erythroid) e le CFU-e (colony forming
unit-erytroid). Esistono due vie di differenziazione funzionale verso
le CFU-e e i globuli rossi maturi. La via principale procede dalle BFUe mature, nelle quali l’espressione di HbF è spenta, verso globuli
rossi di tipo adulto, esprimenti solo HbA. La via secondaria va dalle
BFU-e primitive esprimenti ancora l’HbF. Questa via permetterebbe
la formazione di “cellule F”, popolazione particolare di globuli rossi
circolanti, contenenti sia HbF che HbA. Gli episodi di rigenerazione
midollare rapida, come quelli indotti dall’effetto dell’HU, favoriscono
questa via di differenziazione a partire dei precursori primitivi e la
produzione di cellule F, inducendo una “riprogrammazione” del compartimento dei progenitori eritroidi (Mabaera R, et al. 2008). L’efficacia clinica osservata nella SCD potrebbe comunque essere correlata
anche al miglioramento della morfologia e della deformabilità eritrocitaria, alla diminuzione dei leucociti, alla riduzione dell’emolisi e
all’aumento della produzione di ossido nitirico. Nella SCD, l’efficacia
clinica e la scarsa tossicità dell’HU sono state ampiamente dimostrate da uno studio pilota che ha descritto una riduzione significativa dell’incidenza delle crisi dolorose, degli episodi di sindrome
acuta polmonare, del fabbisogno trasfusionale e della mortalità nei
pazienti trattati con HU (Charache et al., 1995). Successivamente,
numerose sperimentazioni cliniche hanno esteso le indicazioni d’uso ai bambini, anche nel primo anno di vita (Kinney et al., 1999;
Wang et al., 2011; Ware e Helms, 2012).
Gli effetti collaterali relativi all’uso dell’HU sono rari; il più frequente
è l’ipoplasia midollare che è reversibile e richiede il monitoraggio
della crasi ematica. Il potenziale mutageno e teratogeno sono bassi
(Ferster et al., 2003)
Le indicazioni, controindicazioni e le raccomandazioni d’uso dell’HU
relativamente all’età pediatrica sono dettagliatamente descritte nelle linee-guida pediatriche AIEOP (Associazione Italiana di Ematologia
ed Oncologia Pediatrica, http://www.aieop.org/files/files_htmlarea/
tutto%20giu12.pdf. (Colombatti et al., 2013).
L’HU nella BT non ha ottenuto i risultati sperati: i pazienti, con forma grave di malattia, trasfusioni dipendenti, che hanno risposto,
sono riusciti solo ad allungare l’intervallo tra le trasfusioni. In alcuni
pazienti con BT intermedia invece si è osservato un effetto sulla
concentrazione totale dell’Hb e dell’HbF ed è stata osservata una riduzione dell’emolisi e dell’ematopoiesi extramidollare; in alcuni casi
si sono avuti effetti benefici sul fabbisogno trasfusionale. Rimane
comunque una quota rilevante di pazienti (20-30%) che non risponde (Musallam et al., 2013).
Il problema più rilevante che limita l’uso dell’HU nella BT è l’ampia
variabilità di risposta da paziente a paziente, probabilmente dovuto
a caratteristiche genetiche individuali, che influenzano la farmacocinetica e farmacodinamica (Ware RE et al., 2011).
Sono stati ipotizzati due possibili meccanismi per spiegare la differenza di risposta all’HU. Uno si basa sul fatto che i precursori eritroidi
242
dei pazienti reagiscono in maniera diversa alla somministrazione di
HU, per cui mentre le cellule dei pazienti responder incrementano
efficacemente la produzione di HbF, le cellule dei pazienti nonresponder sono maggiormente suscettibili all’effetto citotossico
dell’HU, facendo prevalere quindi i fenomeni apoptotici (Pourfarzadet al., 2013).
L’altro meccanismo ipotizzato spiega la differenza di risposta con
una differenza basale, per cui i pazienti responder hanno già, prima del trattamento stesso, livelli più alti di Hb e di HbF e quindi il
modesto incremento ottenuto con l’HU è sufficiente a produrre una
risposta ematologica significativa (Banan et al., 2012).
Nonostante l’effetto dell’HU su anemia e fabbisogno trasfusionale, la
terapia con HU andrebbe valutata in un quadro clinico complessivo,
avendo evidenze che la terapia trasfusionale, soprattutto nella BT
intermedia, porti benefici su diverse manifestazioni della malattia,
come ad esempio, le possibili complicazioni cerebro-vascolari che,
stando a quanto noto per la SCD, non vengono prevenute dall’HU
(Ware et al., 2012).
Un’indicazione clinica all’uso dell’HU nella BT è la soppressione di
emopoiesi extra-midollare, complicanza che può avere conseguenze cliniche rilevanti, come la compressione del midollo spinale (Karimi et al., 2014).
Osservando che i neonati di madri diabetiche avevano un ritardato
switch dell’HbF all’HbA, fu ipotizzato che gli elevati livelli d’idrossibutirrato presenti nelle donne diabetiche potevano essere in grado
di indurre la produzione di HbF. I trial che seguirono dimostrarono
che i pazienti trattati con il butirrato mostravano un aumento dei
livelli di g-mRNA ed un aumento della sintesi delle catene g. Elementi predittivi della risposta al trattamento sembrerebbero essere
gli elevati livelli di HbF (> 4,5%), gli alti livelli di HbF nei genitori e
gli alti livelli di eritropoietina (Musallam et al., 2013). Il trattamento
con i butirrati è ben tollerato e gli effetti collaterali sono limitati a disturbi gastrointestinali. La migliore risposta al trattamento ottenuta
nei pazienti con SCD rispetto ai pazienti con BT sembrerebbe essere
correlata all’azione che i butirrati esplicano sugli altri geni globinici:
aumentano l’espressione dei geni a nei progenitori eritroidi dei pazienti con BT, mentre riducono i livelli di m-RNA dell’a globina nei
pazienti con SCD (Musallam et al., 2013).
Malattie mielo-linfoproliferative
Agenti demetilanti
Il principale rappresentante di questa categoria di farmaci è l’azacitidina (Vidaza®) che ha mostrato degli ottimi risultati negli adulti
affetti da mielodisplasia (MDS), leucemia mielo-monocitica cronica (LMMC) o leucemia mieloide acuta (LMA) (Tasian et al., 2014).
L’alterazione più studiata della metilazione del DNA è il cosiddetto “silenziamento” dei geni onco-soppressori da ipermetilazione
delle isole CpG all’interno della regione del promotore (Dawson e
Kouzarides, 2012). L’azacitidina e la decitabina (5-aza-2’-Desossicitidina – Dacogen®) sono analoghi della citidina. In origine, erano
considerati come farmaci citotossici. Tuttavia, è stato scoperto che
una bassa dose di questi farmaci potrebbe causare la demetilazione mediante l’inattivazione della DNA metiltransferasi-1 (DNMT-1),
l’enzima responsabile della metilazione del DNA (Stresemann e
Lyko, 2008). Basse dosi di azacitidina o decitabina sono in grado
di indurre la ri-espressione di geni precedentemente silenziati. La
riattivazione di geni che regolano il ciclo cellulare può così indurre
il differenziamento cellulare, ridurre la proliferazione e/o attivare
l’apoptosi.
Farmaci ed epigenetica in pediatria
Recentemente è stata riportata la remissione completa in tre casi su
otto bambini affetti da LAM recidivata o resistente, trattati con decitabina in monoterapia (Phillips et al., 2013). Studi di fase 1 su azacitidina e decitabina in associazione alla chemioterapia nei bambini
con leucemie acute recidivate o refrattarie sono già in programma
(ClinicalTrials.gov: NCT01861002, NCT01853228). In linea con quanto
avviene negli USA, in Europa l’ITCC (Innovative Therapies for Children
with Cancer) ha in corso uno studio collaborativo, prospettico, internazionale, di fase I/II per stabilire la dose raccomandata e l’efficacia
preliminare dell’azacitidina in bambini con nuova diagnosi e/o recidiva
di MDS o leucemia mielomonocitica giovanile (JMML). Nel protocollo,
ITCC-0015, vengono studiati due dosi nel Livello 1 (75 mg/mq/die) e
nel Livello 2 (100 mg/mq/die) (www.itcc-consortium.org).
Inibitori delle Iston-Deacetilasi
Sono stati identificati 18 HDAC negli esseri umani, 11 sono zincodipendenti, e vengono distribuiti in quattro classi a seconda dell’omologia con le HDAC di lievito (Abujamra et al., 2010). Gli inibitori di
HDAC (HDI) sono oggetto di studio e di sperimentazione con l’obiettivo di modificare l’espressione dei geni “silenziati” dall’iperattività
delle HDAC (Tab. I). Infatti, gli HDI promuovono l’apoptosi, inducono
l’arresto del ciclo cellulare e la differenziazione cellulare, impedendo
la trasformazione maligna (Abujamra et al., 2010). Essi sono suddivisi in diverse classi strutturali, tra cui acidi grassi a catena corta
(come l’acido valproico e i butirrati), gli idrossamici (come vorinostat
e tricostatina-A), i ciclico-tetrapeptidi (come trapoxin e depsipeptide),
i benzamidi (ad esempio MS-275) e molti altri composti (Abujamra
et al., 2010). Il vorinostat (Suberoylamilide Acid idrossamico, SAHA)
blocca l’attività enzimatica delle HDAC sia di Classe I (HDAC1, -2 e
-3) che di Classe II (HDAC6) (Lawlor e Thiele, 2012). In Fase 1, il vorinostat è stato utilizzato in pazienti pediatrici con leucemia o tumori
solidi (Fouladi et al. 2010), stabilendo la dose massima tollerata in
230 mg/mq/die (via orale). L’acido valproico (VPA) è un acido grasso
a catena corta ed è definito un HDI debole, ma la sua disponibilità a
lungo termine come farmaco antiepilettico ha spinto la sua valutazione in oncologia come modulatore dell’attività epigenetica. VPA induce
una forte inibizione della crescita cellulare nella LAM-FAB M5 (THP-1,
MM6 e MOLM-13), attivando un arresto in G1 del ciclo cellulare p53indipendente e quindi l’apoptosi (Tonelli et al., 2006). Diversi studi
hanno dimostrato che VPA è più efficace in combinazione con altri
agenti. In uno studio di fase 1-2, che prevedeva la combinazione di
decitabine e VPA in 54 pazienti con la leucemia acuta refrattaria e con
una età mediana alla diagnosi di 60 anni sono stati arruolati anche
sette pazienti pediatrici di età compresa tra 4 a 21 anni: tre pazienti
hanno mostrato una risposta completa nel midollo, e 1 paziente ha
presentato solo il 6% di blasti midollari. Nessuno, nei casi pediatrici
presentati, ha mostrato rilevanti eventi di tossicità correlati alla terapia (Garcia-Manero et al., 2006). In un altro studio di fase 1-2, che ha
valutato la combinazione di azacitidina, VPA e acido trans-retinoico
(ATRA) in 53 pazienti con leucemia mieloide acuta o mielodisplastica
ad alto rischio, con un’età mediana alla diagnosi di 69 anni, sono stati
coinvolti anche tre pazienti pediatrici, con induzione di una risposta
midollare in un caso (Soriano et al., 2007).
Tabella I.
Elenco dei farmaci che intervengono nella modulazione dell’espressione genomica, dei rispettivi target, dello stato di applicazione in clinica e
della patologia di riferimento, prevalentemente di tipo oncologico (da Lawlor e Thiele 2012) .
Modificatori epigenetici
Target
Stato
Tumore
FDA Ped. Fase I
FDA Ped. Fase I
Linfoma cutaneo a cellule T/Recidiva tumori
solidi
Fase II
Fase I
Fase I
Tumore al seno
Linfoma
Ped. Fase I
Recidiva tumori solidi
• PCI-34051
HDAC1-3,6
HDAC1-3,8 (Debole)
HDAC6,4
HDAC1
HDAC1-4
HDAC1-4 (Debole)
HDAC8
HDAC1-3 (Debole)
HDAC8
HDAC8
Pre-clinico
Tumori solidi refrattari o tumori del SNC
Modificatori degli istoni acetilati
• JQ1
KAC
Pre-clinico
Linfoma, tumori MYC-mediati
EZH2
EZH2
DOT1L
Pre-clinico
Inibitori HDAC
• Vorinista (SAHA) (Zolinza®)
• Romidepsin (FK228) (Istodax®)
• Entinostat (SNDX-275)
• Panobinostat (LBH589)
• Belinostat (PDX101)
• Acido Valproico
Inibitori HMT
• Inibitori EZH2 (Epizyme, Inc.)
• 3-Deazaneplanocin A, DZNep
• EPZ004777 (Epizyme, Inc.)
Linfoma con mutazione EZH2
LLA & LMA con riarrangiamento MLL
Inibitori dell’istone demetilasi
• Inibitori delle monoaminossidasi: Pargyline, LSD1
LSD1 clorgyline, tranylcypromine (Parnate®)
Pre-clinico FDA
• Analoghi poliamminici delle bisguanidinasi
Pre-clinico
LSD1
Inibitori della metilazione del DNA
• Decitibine (Dacogen®) Azacytidine (Vidaza®) DNMT
FDA
• Zebularine
Trials clinici
DNMT
Sindromi mielodisplastiche, Leucemia
Mieloide Acuta (o LMA)
Sindromi mielodisplastiche, Leucemia
Mieloide Acuta (o LMA)
243
G. Russo et al.
Oncologia pediatrica
Nel neuroblastoma ad alto rischio con amplificazione del MYCN,
a dispetto dell’elevata intensità dei protocolli attuati, la prognosi rimane scadente, con percentuale di sopravvivenza inferiore al
5% nelle forme metastatiche in progressione o in recidiva (Calafiore et al., 2013). È riportato che nuove mutazioni in corso di
recidiva di neuroblastoma sono rare, mentre l’attività degli enzimi
HMT è spesso elevata; la conseguente metilazione degli istoni è
responsabile del silenziamento di geni oncosoppressori codificanti
per proteine pro-apoptotiche (Bell et al., 2014). Farmaci inibitori di HMTs sono stati in grado di riattivare l’espressione dei geni
proapoptotici, enfatizzando il potenziale della terapia epigenetica
nel neuroblastoma. I tumori cerebrali rappresentano la forma più
comune di tumore solido dell’età pediatrica e il medulloblastoma
è la variante più frequente, rappresentando circa il 20% di tutti gli
istotipi. Il trattamento si avvale della chirurgia, chemioterapia e radioterapia, raggiungendo percentuali di sopravvivenza a 5 anni del
40% nella fascia di rischio alta e del 80-90% nella fascia di rischio
bassa. Si distinguono 4 sottotipi: WNT, SHH, gruppo 3 e gruppo
4 che differiscono per istologia, biologia molecolare, genetica e
prognosi e si ritiene che siano il risultato di un’alterazione di differenti pathway nello sviluppo cerebrale. Un’attivazione abnorme di
questi pathway porta ad una perdita del normale controllo del ciclo
cellulare ed una disfunzione dell’apoptosi con proliferazione cellulare soprattutto cerebellare, rappresentando così potenziali target
per nuovi farmaci (Gay e Wilson, 2014).
Reumatologia e malattie muscolari
Agenti in grado di demetilare il DNA o de-acetilare alcune proteine
istoniche potrebbero essere efficaci nel trattamento dell’artrite reumatoide (Gay e Wilson, 2014). Alterazioni dell’epigenoma sono state
riscontrate anche in forme idiopatiche o farmaco-indotte di lupus
eritematoso sistemico (LES), in particolare, ridotti livelli di metilazione del DNA genomico dei T linfociti periferici sono stati riscontrati in
soggetti affetti da LES rispetto a controlli sani. Secondo recenti studi,
gli HDI dimostrano un ruolo promettente nella cura delle malattie
reumatiche per il loro potente effetto antinfiammatorio; tuttavia, prima di passare all’applicazione clinica, è necessaria una maggiore
specificità terapeutica attraverso una maggiore comprensione dei
meccanismi molecolari che controllano l’epigenoma (Lim et al.,
2013). Evidenze sperimentali e precliniche hanno dimostrato il ruolo chiave degli HDAC nel controllo della progressione della distrofia
muscolare (Consalvi et al., 2011).
Conclusioni e prospettive future
L’introduzione di questi farmaci in terapie di prima linea, in associazione ad altre molecole, nei bambini affetti da mielodisplasie o
leucemie acute offrirà una migliore chance terapeutica. L’obiettivo
principale comunque resta quello di individuare i farmaci che con
scarsi effetti collaterali riescono ad indurre la guarigione o il netto
miglioramento della qualità di vita nelle malattie croniche, come nel
caso delle emoglobinopatie. Questi farmaci sono oggetto di sperimentazioni in bambini affetti da tumori a prognosi severa. Infine la
caratterizzazione di meccanismi epigenetici in cui il sistema immunitario svolge un ruolo cruciale, come nelle malattie a patogenesi
autoimmunitaria, potrà offrire un razionale al trattamento “epigenetico” per tutti quei bambini che ancora oggi sono sottoposti a terapie
sintomatiche.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
• Numerose patologie a eziopatogenesi multifattoriale potrebbero essere indotte da alterazioni epigenetiche.
• L’espressione del DNA può esser modulata da farmaci che potenzialmente possono attivare o inattivare geni la cui funzione è strettamente legata
alla patogenesi di una specifica malattia.
Cosa sappiamo adesso
•
•
•
•
I processi di metilazione e di acetilazione sono cruciali per il controllo della trascrizione.
Farmaci diretti a modificare tali reazioni sono capaci di modulare l’espressione della malattia e la gravità dei sintomi.
L’introduzione dell’idrossiurea nei pazienti con drepanocitosi ha cambiato il decorso di malattie croniche gravi e invalidanti come la SCD e come la BT.
La somministrazione di farmaci demetilanti e degli inibitori delle iston-deacetilasi (HDI) ha permesso il raggiungimento della remissione completa
in bambini con malattie mielo-linfoproliferative resistenti alla chemioterapia convenzionale.
Quali prospettive per il futuro
• Inserimento di questi farmaci in terapie di prima linea, in associazione ad altri farmaci, per bambini affetti da mielodisplasie o leucemie acute.
• Sperimentazione di questi farmaci in bambini con tumori a prognosi severa.
• Caratterizzazione di meccanismi epigenetici in malattie in cui il sistema immunitario svolge un ruolo cruciale, come quelle a patogenesi autoimmunitaria.
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** Questo articolo elenca tutti i meccanismi epigenetici correlati al cancro e le
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** L’articolo riesce a condensare l’attuale ruolo dell’epigenetica in oncologia
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* Questa review mostra i meccanismi di controllo della trascrizione, soprattutti
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* Questo articolo introduce per la prima volta l’aspetto dell’eterogeneità della
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primo anno di vita e ha posto l’indicazione alla prevenzione della dattilite.
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Corrispondenza
Giovanna Russo, U.O.C. Emato-Oncologia Pediatrica, Azienda Policlinico-Vittorio Emanuele, Università di Catania, via Santa Sofia 78, 95123 Catania -Tel.
+39 095 3782683 - Fax +39 095 3781154 - E-mail: [email protected]
245
Ottobre-Dicembre 2014 • Vol. 44 • N. 176 • Pp. 246-252
Focus
Nuove terapie per la fibrosi cistica
Valeria Raia,, Fabiola De Gregorio, Antonella Tosco, Luigi Maiuri* **
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Centro Regionale Fibrosi Cistica, Università di Napoli Federico II;
*
Istituto Europeo per la Ricerca in Fibrosi Cistica, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano;
**
Dipartimento di Scienze della Salute, Università del Piemonte Orientale, Novara
Riassunto
La fibrosi cistica è una malattia genetica causata da mutazioni localizzate nel gene CFTR. Nuove strategie terapeutiche “mutazioni-specifiche” attualmente
in corso sono rivolte a correggere il difetto di base della proteina CFTR codificata dal gene. Sfortunatamente nessuna di queste terapie sembra in grado
al momento attuale di correggere la mutazione più frequente F508del. In questo articolo discutiamo come la manipolazione della proteostasi e il ripristino
del meccanismo dell’autofagia, deficitario nella fibrosi cistica, rappresentino una opzione terapeutica alternativa per il recupero e la stabilizzazione della
funzione della proteina F508del-CFTR in membrana. La correzione dell’ambiente intracellulare, mediante regolatori di proteostasi, può costituire una strategia alternativa promettente per il trattamento di pazienti omozigoti per la mutazione F508del, con conseguente controllo dell’infiammazione polmonare.
Summary
Cystic fibrosis (CF) is caused by mutations in the cystic fibrosis transmembrane regulator (CFTR) gene. New strategies aiming at correcting the basic defect
of CFTR protein are emerging as new mutation-specific treatment. Unfortunately no therapies are available for the most common CFTR mutant, the F508del.
We focus on the manipulation of proteostasis and autophagy as a new CFTR-repairing option to rescue and stabilize functional F508del-CFTR in CF. Here we
discuss how targeting the intracellular environment surrounding the misfolded mutant CFTR, instead of directly targeting mutant protein, could constitute
an attractive therapeutic option to treat F508del-CFTR homozygous patients to control lung inflammation.
Introduzione
La clinica della fibrosi cistica
La fibrosi cistica (FC), la più comune malattia genetica della popolazione caucasica a prognosi severa, è causata da mutazioni del gene
CFTR che codifica per una proteina CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator) (CFTR) (Kerem et al., 1989), composta da 1480 aminoacidi che regola il flusso di ioni, quali cloro e bicarbonati, e fluidi a
livello della membrana apicale delle cellule epiteliali. La sua incidenza,
variabile a seconda delle aree geografiche, oscilla fra 1 su 2500 e 1 su
3500 nati vivi (Farrell, 2008); la frequenza del portatore è compresa
tra 1:25 e 1:30. L’anomala funzione di canale della proteina espressa
sulla membrana delle cellule secretive determina il fenotipo clinico
nella sua forma classica con sintomi caratteristici a livello del polmone
e del pancreas, dell’apparato gastrointestinale, del fegato e dell’apparato riproduttivo (O’Sullivan e Freedman, 2009).
Una peculiarità della FC è l’eterogeneità clinica, con decorso molto
variabile da soggetto a soggetto: alcuni infatti presentano ileo da
meconio alla nascita, sintomi respiratori e prognosi severa, altri invece hanno scarse manifestazioni polmonari e decorso clinico benigno (Dequeker et al., 2009). Dal momento della scoperta del gene
CFTR sul braccio lungo del cromosoma 7 nel 1989 molti progressi
sono stati registrati sul ruolo delle mutazioni del gene CFTR (ad oggi
se ne conoscono circa 2000) che determinano alterazioni di struttura o di funzione della proteina CFTR, sebbene in misura diversa e
con conseguenze cliniche variabili (Tab. I).
Mutazioni e correlazione genotipo-fenotipo
La mutazione più diffusa, la F508del, varia notevolmente nelle diverse popolazioni: rappresenta il 50% circa delle mutazioni nell’Europa
meridionale, e l’80-90% nelle popolazioni del Nord-Europa. Altre
mutazioni presentano una frequenza compresa fra il 2 e il 5%, mentre alcune sono caratteristiche di particolari gruppi etnici.
Le mutazioni di cui si conosce l’effetto sulla proteina CFTR sono
state suddivise in classi (classificate da I a V). Le mutazioni di classe
I, II e III alterano la quantità e funzione della proteina, non consentendone affatto la produzione (classe I) o producendo una proteina
molto difettosa (classe II e III). Le mutazioni di classe IV consentono
la sintesi di una proteina difettosa, ma capace di svolgere, seppure
in piccolissima misura, la sua funzione; quelle di classe V determinano la produzione di una certa quota, anche se piccola, di proteina
normale (Tab. II). Nonostante sia stata dimostrata una correlazione
Tabella I.
La clinica della fibrosi cistica.
Un gene
CFTR sul cromosoma 7
Molte mutazioni
Circa 2.000 varianti geniche con conseguenze cliniche variabili
Diversa espressione clinica
Molti sintomi nella espressione classica di malattia, pochi sintomi nella espressione atipica di malattia
Terapie convenzionali
Mucolitici, mucoregolatori, antibiotici per via sistemica e per aerosol, antiinfiammatori
Nuove terapie
Correttori, potenziatori, modulatori di proteostasi
246
Nuove terapie per la fibrosi cistica
Tabella II.
La Classificazione delle mutazioni in fibrosi cistica.
Classe I
Difetto di sintesi della proteina CFTR
Classe II
Difetto di maturazione della proteina che non è in grado di raggiungere la membrana cellulare
Classe III
Difetto di regolazione: la proteina raggiunge la membrana, ma non è in grado di rispondere ai segnali di attivazione del canale del cloro
Classe IV
Normale sintesi della proteina CFTR, ma funzione ridotta
Classe V
Ridotta sintesi della proteina CFTR, ma funzione normale
fra le mutazioni che incidono di più sulla sintesi e sulla funzione
della proteina e i sintomi più gravi di malattia, in particolare con lo
stato di compromissione pancreatica, altri fattori sia di tipo genetico
(geni modulatori) che ambientale possono concorrere a determinare
un fenotipo diverso anche con genotipi identici.
Stato dell’arte delle attuali terapie
Nonostante la sopravvivenza sia notevolmente migliorata, l’evoluzione della malattia polmonare rappresenta ancora la principale
causa di morbidità e mortalità in FC. Pertanto le terapie attuali, come
l’antibioticoterapia per via sistemica e per aerosol, sono prevalentemente orientate a prevenire, quando possibile, e a monitorare gli
effetti secondari alle ripetute infezioni respiratorie acute che caratterizzano i soggetti affetti da FC.
Negli ultimi anni numerosi studi in vitro e in vivo hanno correlato il
deficit funzionale della proteina CFTR alla disregolazione della risposta infiammatoria. Tuttavia, le terapie antiinfiammatorie attualmente
utilizzate in FC sono indirizzate alla correzione di eventi a valle del
difetto di base della malattia (Belcher et al., 2010).
Sebbene la terapia genica sia in teoria il gold standard per la cura dei
pazienti con FC, i risultati ottenuti sono stati insoddisfacenti (Amaral et
al., 2011). La terapia cellulare è ancora in fase di studio e non ci sono
al momento risultati che consentano la trasferibilità al paziente.
Strategie per la correzione del difetto di base in FC
La conoscenza dei meccanismi attraverso cui le mutazioni identificate nel gene CFTR conducono alla difettiva funzione della proteina
mutata ha aperto la strada alla terapia di riparazione del difetto di
base (CFTR repairing therapy), che introduce il nuovo concetto di
terapie specifiche per le diverse classi di mutazioni. Questa terapia si basa sull’uso di piccole molecole capaci di i) incrementare la
funzione della CFTR mutata (potenziatori) o ii) correggere il traffico
intracellulare della proteina (correttori). Il primo approccio è mirato
al recupero della funzione dei mutanti della CFTR capaci di raggiungere la membrana plasmatica delle cellule, ma incapaci di svolgere
una normale funzione di canale ionico. Queste proteine mutate sono
quindi bersaglio ideale per molecole disegnate per aumentare la
probabilità di apertura del canale ionico della proteina che “risiede”
in membrana. L’uso dei correttori è al contrario teoricamente indicato per mutanti con difettivo ripiegamento della proteina (misfolding),
che, a causa del loro difetto conformazionale, rimangono intrappolati
nel reticolo endoplasmico (RE) nel corso dei processi di “folding”
e sono degradati dal proteasoma. Un ampio e costoso programma
di “drug discovery” attualmente in corso utilizza un approccio di
“highthroughput screening”, che mira a selezionare, fra milioni di
molecole, quelle candidate a divenire potenziatori o correttori della CFTR per il trasferimento alla terapia. Una di queste molecole,
il potenziatore VX-770 (Ivacaftor, Kalideco, Vertex Co.) (Ramsey et
al., 2011), ha superato tutte le fasi della sperimentazione clinica e
si è rivelato efficace in vivo nel migliorare il trasporto di cloro e la
funzione polmonare in pazienti con una rara mutazione di classe III,
la G551D, presente in meno del 5% dei pazienti con FC, che codifica
per una proteina capace di raggiungere la superficie cellulare, ma
che presenta un difetto della funzione di canale del cloro. Questa
terapia è già disponibile sul mercato, seppure a costi molto elevati,
in molti paesi europei e americani.
Misfolding e controlli di qualità
Come previsto, la sperimentazione del VX-770 in pazienti con la più
comune mutazione della CFTR, la delezione di fenilalanina in posizione 508 (F508del), presente nel 70% circa dei pazienti FC (Farrell, 2008) non ha dato alcun beneficio clinico. Questa mutazione di
Classe II, infatti, codifica per una proteina che non riesce ad essere
completamente ripiegata, è trattenuta nel RE, dove è prematuramente degradata, non riuscendo a trafficare verso il Golgi per essere
glicosilata e quindi trasportata sulla membrana cellulare, sede di attività del canale ionico CFTR. La F508del-CFTR conserva la funzione
di canale ionico, sia pur incompleta per un parziale difetto di “gating”, quando è trasportata in membrana mediante manipolazioni
sperimentali, come l’incubazione a basse temperature, o attraverso
l’uso di molecole “chaperons” in grado di accompagnare la proteina attraverso il suo percorso difficoltoso all’interno della cellula. Fra
queste molecole, il correttore VX-809 si è rivelato il più efficace nei
sistemi in vitro. Tuttavia, i risultati di un trial clinico in pazienti omozigoti per la F508del-CFTR sono stati insoddisfacenti (Clancy et al.,
2012), anche quando il VX-809 (Lumacaftor) è stato somministrato in associazione al potenziatore VX-770 (Ivacaftor) (Boyle et al.,
2014). La scarsa efficacia di questa combinazione terapeutica è motivata da studi recenti (Okiyoneda et al., 2010) che dimostrano come,
una volta trasportata in membrana dai correttori, la F508delCFTR è
instabile, in quanto è rapidamente ubiquitinata ed avviata verso la
degradazione lisosomiale. Questo secondo meccanismo di controllo
di qualità non consente alla F508del-CFTR di risiedere in membrana
tanto a lungo da essere disponibile per l’azione dei potenziatori. Inoltre, due gruppi di ricerca hanno dimostrato che il potenziatore VX770 compromette la stabilità della F508del-CFTR dopo il suo arrivo
in membrana (Veit et al., 2014; Cholon et al., 2014). Queste evidenze, sperimentali e cliniche, suggeriscono che la principale necessità
della “drug discovery” in FC è quella di identificare molecole capaci
non solo di favorire il traffico della F508del-CFTR verso la superficie
cellulare, ma anche di stabilizzarla in membrana per poter ipotizzare
un beneficio clinico nei pazienti.
Nuovi scenari di terapia: correggere senza correttori
e stabilizzare senza potenziatori
L’attuale strategia di identificazione di nuovi e più potenti correttori mediante “highthroughput screening” (approccio “top-down”) è
basata sulla ricerca di molecole che interagiscono con la proteina
247
V. Raia et al.
CFTR mutata favorendone il traffico verso la membrana. Altre strategie mirano alla ricerca di piccole molecole che modulano le proteine
“chaperons” che interagiscono con la CFTR (Roth et al., 2014). Recentemente, un approccio radicalmente diverso è emerso nel panorama delle potenziali terapie di correzione del difetto di base in FC.
Questa strategia differisce dalle terapie con correttori in quanto i)
segue un percorso “bottom-up”, cioè parte dalla conoscenza delle
alterazioni di vie di segnale intracellulare conseguenti alla difettiva
funzione della CFTR; ii) ha come bersaglio diretto non la CFTR mutata, ma l’ambiente cellulare in cui questa è costretta a muoversi per
raggiungere la membrana; interviene, cioè, correggendo le alterazioni della “proteostasi” nelle cellule FC.
Alterazioni della proteostasi in FC: il difetto dell’autofagia
Questa strategia nasce dalla dimostrazione che il difetto funzionale
di CFTR innesca una cascata di eventi che conducono a un blocco
dell’autofagia (Luciani et al., 2010), un meccanismo di sopravvivenza
che le cellule adottano in risposta a vari tipi di stress (Mariño et al.,
2014). Il difetto di CFTR determina un incremento dei livelli di specie reattive all’ossigeno (ROS), favorendo una persistente attivazione
della transglutaminasi tissutale (TG2), una proteina multifunzionale e
con variegata localizzazione intracellulare che, in presenza di elevate
concentrazioni di ioni calcio, induce “cross-linking”, ubiquitinazione
e sequestro in stazioni di deposito intracellulare (aggresomi) di varie
proteine-substrato, come le molecole ad azione anti-infiammatoria
PPARg e IK-Ba (Maiuri et al., 2008; Luciani et al., 2009), e soprattutto
di beclin1, proteina cruciale nel processo di autofagia. Il “cross-linking” di beclin1 spiazza dal RE, sede di azione fisiologica, il complesso
di proteine fondamentali per l’autofagia che interagiscono con beclin1
(Vps34, Vps15, AMBRA1, ATG14) e lo sequestra in aggresomi (Luciani
et al., 2010) (Fig. 1A). Ciò porta a inibizione della formazione degli
autofagosomi, vescicole a doppia membrana che servono a inglobare
proteine danneggiate e anche organelli intracellulari, per poi fondersi
con i lisosomi per la degradazione. Il blocco dell’autofagia induce accumulo di p62/SQSTM1, una proteina legante ubiquitina che favorisce
la formazione degli aggresomi (Luciani et al., 2010).
La rilevanza patogenetica di questo meccanismo è evidenziata dal fatto che, ripristinando i livelli di beclin1 sia mediante diretta iperespressione genica che con molecole che inibiscono l’attività della TG2, quali
la cistamina o la sua forma ridotta cisteamina (Fig. 1B), non solo si ripristina la risposta autofagica, ma si ottiene un efficace controllo della
infiammazione polmonare in vivo in un modello murino omozigote per
la F508del-CFTR. Il ripristino della risposta autofagica favorisce anche
il traffico della F508del-CFTR verso la membrana plasmatica, ristabilendo una sufficiente funzione della CFTR senza l’ausilio di correttori
o potenziatori della CFTR (Luciani et al., 2010; Luciani et al., 2012).
Queste evidenze dimostrano che è sufficiente correggere le alterazioni
dell’ambiente intracellulare delle cellule epiteliali FC, conseguenti al
deficit di funzione della CFTR, per ripristinare il corretto traffico e la
funzione della proteina mutata. In questo nuovo scenario la CFTR si
colloca come pivot del mantenimento dell’equilibrio omeostatico delle
cellule epiteliali attraverso la regolazione dell’attività della TG2, che
agisce quale principale regolatore del network post-traslazionale, e
influenzando l’autofagia, orchestratrice della proteostasi e della risposta integrata allo stress (Kroemer et al., 2010).
Nuove strategie a confronto per la terapia della FC
Il goal della terapia riparatrice del difetto di base della CFTR è non
solo quello di garantire un corretto traffico della proteina mutata verso la superficie cellulare, ma anche e soprattutto quello di stabilizzare la proteina in membrana. La cisteamina, in qualità di regolatore
248
della proteostasi, ma non i noti correttori della CFTR, stabilizza la
F508del-CFTR sulla membrana delle cellule epiteliali per oltre 24
h dopo la sua rimozione e riduce l’infiammazione polmonare in
omogenati di polmone di topi omozigoti per F508del-CFTR anche
dopo oltre una settimana di sospensione del trattamento. Le ragioni
dell’aumentata stabilità della CFTR in membrana sono legate al ripristino della autofagia che i) riduce i livelli di p62 e il conseguente
avvio della CFTR alla degradazione lisosomiale; ii) ripristina i livelli di
fosfatidil-inositolo 3-fosfato, una molecola fondamentale per il traffico endosomiale e “recycling” delle proteine di membrana, fra cui la
CFTR stessa e il recettore per la transferrina. Pertanto, la presenza
della CFTR funzionante in membrana interrompe il circolo vizioso
che porta all’autofagia e all’infiammazione, illustrato in Figura 1, e
sostiene per un periodo dopo la sospensione la sua stessa permanenza in membrana (Luciani et al., 2012; Villella et al 2013).
La ricerca pre-clinica nel modello di medicina traslazionale
Il trasferimento dei risultati della ricerca a trial clinici su pazienti
richiede un rigoroso percorso di validazione pre-clinica che segua le
tappe della ricerca traslazionale. Le evidenze ottenute su sistemi in
vitro e su linee cellulari devono essere validate in vivo in idonei modelli animali di malattia e poi testate su cellule primarie provenienti
da pazienti affetti (Fig. 2).
Il primo obiettivo è perseguibile in FC grazie alla disponibilità di differenti modelli animali murini di malattia. L’effetto della cisteamina
è stato validato su topi omozigoti per la F508del-CFTR. Questi esperimenti hanno evidenziato che la somministrazione orale di cisteamina i) ripristina la funzione della CFTR; ii) riduce la mortalità per
occlusione intestinale nelle prime settimane di vita dal 50% al 9%
circa; iii) riduce significativamente l’infiammazione polmonare nei
topi adulti. Quest’ultimo effetto della cisteamina si estende per oltre
due settimane dopo la sospensione del trattamento, confermando i
dati ottenuti sulle cellule.
Pertanto, l’identificazione di sostanze capaci di prolungare gli effetti
benefici della cisteamina dopo sospensione della terapia potrebbe
essere di grande utilità per i pazienti e limitare gli eventuali effetti
collaterali del farmaco. Ulteriori studi in modelli cellulari, e conseguente validazione in vivo in modelli animali, hanno dimostrato che
l’associazione con un flavonoide contenuto nel tè verde, l’epigallocatechin gallato (EGCG), prolunga in vitro e in vivo gli effetti della
cisteamina dopo la sospensione. Infatti, fra i diversi effetti di questa
sostanza “naturale”, utilizzata come integratore alimentare, c’è la
capacità di inibire la protein chinasi 2(CK2), maggiore responsabile
dei processi di frammentazione della CFTR che favorisce la sua instabilità. Sebbene l’EGCG non sia efficace come agente di recupero
della F508del-CFTR da sola, è invece in grado di prolungare gli effetti benefici della cisteamina sulle cellule e sui modelli animali (De
Stefano et al., 2014).
La coerenza di un percorso pre-clinico dovrebbe essere validata su
cellule primarie prelevate direttamente dal paziente per valutare l’eventuale responsività al trattamento. Il prelievo di cellule epiteliali
nasali mediante brushing rappresenta una procedura semplice e
ben tollerata. Studi recenti dimostrano che l’epitelio nasale è una
finestra appropriata sul polmone in quanto riproduce le caratteristiche fenotipiche delle cellule bronchiali, principale sede di patologia
in FC. L’incubazione delle cellule nasali con la combinazione di cisteamina ed EGCG ha confermato i dati in vitro, consentendo, inoltre, di
predire la responsività al trattamento nel singolo paziente (De Stefano et al., 2014). Questo approccio potrebbe configurarsi come un
elemento utile nel contesto di una personalizzazione dell’approccio
terapeutico.
Nuove terapie per la fibrosi cistica
A
B
Figura 1.
A. Il difetto di CFTR induce un aumento di ROS con conseguente persistenza di elevati livelli di TG2. L’attivazione della TG2 induce cross-linking di
beclin 1 e sequestro funzionale dell’interattoma di beclin 1 con conseguente blocco dell’autofagia, aumentati livelli di p62 e accumulo di proteine
ubiquitinate in aggresomi. Questo processo sostiene un circolo vizioso che induce ulteriori incrementi di ROS e infiammazione. La F508del-CFTR,
in parte degradata attraverso il proteasoma, accumula anche in aggresomi a causa del blocco di autofagia con sovraccarico del proteasoma e non
può raggiungere il Golgi per essere glicosilata e trasportata in membrana.
B. Il trattamento con cisteamina interrompe il circolo vizioso e favorisce una normale risposta autofagica. Conseguentemente, la F508del-CFTR
traffica verso la membrana plasmatica ove permane per un periodo anche dopo sospensione del trattamento con cisteamina. L’aggiunta di epigallicatechin gallato riduce la frammentazione della CFTR e prolunga gli effetti benefici della cisteamina dopo washout.
249
V. Raia et al.
Figura 2.
Rappresentazione schematica delle tappe della ricerca traslazionale (e ricerca traslazionale inversa) nel processo di drug discovery in fibrosi cistica.
Il trasferimento della ricerca pre-clinica al paziente
Prospettive future
Recentemente uno studio clinico in aperto di Fase II (De Stefano et
al., 2014) ha testato gli effetti della combinazione sequenziale di cisteamina ed EGCG in 10 pazienti con FC omozigoti per la mutazione
F508del-CFTR. Il trasferimento dalla ricerca pre-clinica alla clinica
è agevolato se le sostanze da testare hanno già un noto profilo di
tollerabilità. La cisteamina (nome commerciale Cystagon) è un farmaco approvato dalla Food and Drug Administration per la terapia di
pazienti con cistinosi, una rara malattia da accumulo lisosomiale, e
l’EGCG (nome commerciale Epinerve) è utilizzato come integratore
alimentare. Lo studio clinico in oggetto ha dimostrato il raggiungimento degli obiettivi primari evidenziando un recupero della funzione della CFTR sia a livello respiratorio, mediante analisi dell’efflusso
di cloro in cellule prelevate a fresco da brushing nasale prima e dopo
trattamento, sia attraverso la determinazione dei livelli di cloro nel
sudore, test ancora utilizzato per la diagnosi di FC. Il trattamento ha
determinato un aumento dell’efflusso ionico nell’epitelio nasale con
valori pari a oltre il 20% dei controlli sani ed una riduzione del cloro
nel sudore di oltre il 20% rispetto al valore basale con valori pari o
al di sotto dei 60 mmol/L in 7 pazienti. È di rilievo che l’incremento di funzione a livello dell’epitelio nasale mostra una significativa
correlazione inversa con la riduzione del cloro nel sudore. Inoltre
il trattamento riduce drammaticamente i livelli di citochine proinfiammatorie, sia a livello nasale che nell’espettorato dei pazienti.
Questo modello a cascata di ricerca traslazionale ha permesso di
trasferire al paziente una strategia terapeutica ragionata, validata
dalla ricerca preclinica, per favorire il recupero della funzione della
F508del-CFTR attraverso il ripristino dell’autofagia.
I recenti progressi della ricerca nella terapia della FC indicano che
correggere l’ambiente intracellulare attraverso regolatori di proteostasi, anziché accompagnare la CFTR mutata in membrana mediante
correttori, rappresenta una strategia alternativa promettente, da confermare in studi clinici multicentrici controllati con placebo. Inoltre,
indirizzare la ricerca verso l’identificazione di molecole/farmaci già in
uso in altre patologie umane o sostanze presenti in natura, con profilo
di sicurezza noto, costituisce un approccio sostenibile in termini di
costi e di trasferibilità clinica, sia per il paziente che per il sistema
sanitario, limitando i costi eccessivi dell’“highthroughput screening”
(approccio “top-down”). L’approccio “bottom-up” alla ricerca di nuovi farmaci, cioè basato sulla conoscenza dei meccanismi di malattia,
consente inoltre di individuare marcatori “patogenetici” di risposta
precoce al trattamento e di poter anche implementare test di predittività di efficacia sul singolo paziente, nell’ottica di un percorso di
medicina personalizzata.
250
Conclusioni
Un’alterazione della proteostasi per destabilizzazione di proteine, sia
causata da mutazioni, come nella FC, che da condizioni di stress o da invecchiamento, è alla base di molte malattie conformazionali (da alterata
conformazione di proteine) quali malattie neurodegenerative o diabete
di tipo II. Il sistema proteostasico è probabilmente specifico per differenti
tipi di cellule e tessuti (Balch et al., 2008) e questo spiega come molte
malattie conformazionali, quali le malattie neurodegenerative, si manifestino con caratteristiche di specificità di tessuto, sebbene le proteine
coinvolte siano distribuite in maniera quasi ubiquitaria.
Nuove terapie per la fibrosi cistica
La FC rappresenta il prototipo di malattia conformazionale in cui
la CFTR orchestra il network proteostasico della cellula epiteliale.
La CFTR rappresenta un raro esempio di proteina che deve essere
pienamente funzionante per evitare la sua stessa degradazione e dismissione dalla membrana plasmatica (Villella et al., 2013), rivelando una stretta connessione fra funzione della proteina e regolazione
della proteostasi. Il ripristino della funzione della CFTR interrompe il
circolo vizioso che compromette la sua stessa stabilità e funzione
e spiega come un trattamento che stabilizzi la CFTR in membrana
possa avere un effetto prolungato sul fenotipo cellulare.
L’autofagia è un processo essenziale per l’equilibrio della proteostasi (Kroemer et al., 2010). Ristabilire un’adeguata risposta
autofagica consente di ripristinare il traffico intracellulare e la sta-
bilità della F508del-CFTR e di conseguenza ristabilire l’omeostasi
cellulare.
Questo approccio “bottom-up” di “drug discovery”, cioè disegnato sui meccanismi patogenetici, indica che la identificazione delle
proteine essenziali per l’omeostasi di un determinato ambiente
cellulare nella sede principale di malattia, può offrire prospettive
terapeutiche interessanti nelle malattie conformazionali. Modulare
i meccanismi intracellulari che in ultima analisi connettono “misfolding” e “malfunction” (invece di avere come bersaglio il difetto
strutturale) di una proteina chiave per l’omeostasi di un ambiente
cellulare rilevante per la malattia, come le cellule epiteliali per la
FC, può rappresentare un approccio innovativo per molte malattie
conformazionali.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
La Fibrosi Cistica rappresenta la più comune malattia genetica a prognosi severa. L’identificazione del gene della Fibrosi Cistica (CFTR) localizzato sul
braccio lungo del cromosoma 7 ha aperto la strada verso una possibile terapia genica che è tuttavia fallita per la non disponibilità di vettori virali o
sintetici adeguati. Pertanto, la terapia si basa prevalentemente sulla cura dei sintomi respiratori ed intestinali e sulle complicanze.
Cosa sappiamo adesso
La variabilità del genotipo della Fibrosi Cistica è correlata alla presenza di numerose mutazioni del gene CFTR suddivise in diverse classi che determinano la diversa sintesi, espressione e funzione della proteina CFTR. Questo ha permesso di identificare nuove terapie in grado di correggere il difetto
della proteina mutata (cosiddetti correttori che non sono ancora efficaci nel paziente affetto da FC) o di potenziare la funzione della proteina mutata
sulla membrana cellulare (cosiddetti potenziatori, risultati efficaci in soggetti con FC e mutazioni di gating di classe III). L’identificazione del difetto di
autofagia nella FC rappresenta una possibile nuova strategia di intervento per le mutazioni più frequenti di classe II.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Il ripristino del difetto di autofagia alterato nella FC, attraverso la combinazione di un farmaco, già in uso per altre indicazioni, e di un integratore alimentare è in grado di recuperare la funzione di una proteina chiave nella genesi della fibrosi cistica, riducendo l’infiammazione polmonare dei pazienti. Tale
dimostrazione costituisce un’innovazione concettuale molto importante, in quanto dimostra che è possibile correggere il difetto di base con strategie di
terapia diverse da quelle sino a oggi percorse.
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251
V. Raia et al.
** Prima evidenza in letteratura dell’efficacia clinica di un potenziatore della
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Corrispondenza
Valeria Raia, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Centro Regionale Fibrosi Cistica, Università di Napoli Federico II, via S. Pansini 5, 80131
Napoli - E-mail: [email protected]
252
Ottobre-Dicembre 2014 • Vol. 44 • N. 176 • Pp. 253-266
tavola rotonda
Ambiente e salute nel bambino
Tavola Rotonda
70° Congresso Italiano di Pediatria (Palermo, 14 giugno 2014)
A cura di Fabio Sereni, Franca Rusconi
Fabio Sereni
Prof. Emerito di Pediatria, Università degli Studi di Milano
Franca Rusconi
Unità di Epidemiologia, A.O.U. Anna Meyer, Firenze
Sommario
Presentazione, Fabio Sereni
Ambiente e malformazioni congenite, Pierpaolo Mastroiacovo
Inquinamento atmosferico, Francesco Forastiere
Inquinamento e sviluppo cognitivo, Jordi Sunyer
Inquinamento e tumori infantili, Corrado Magnani
Siti inquinati e salute infantile, Ivano Iavarone
Inquinamento e alterazioni del programming fetale, Ernesto Burgio
Inquinamento e interferenti endocrini, Sergio Bernasconi
Conclusioni, Fabio Sereni, Franca Rusconi, Generoso Andria
Fabio Sereni: La Direzione di Prospettive ha accettato con entusiasmo il suggerimento del Prof. Giovanni Corsello, di organizzare una Tavola Rotonda al Congresso Nazionale della Società Italiana di Pediatria sul tema “Ambiente e Salute Infantile”, ed è
grata a Franca Rusconi che, con la sua specifica competenza di epidemiologa e i suoi rapporti personali con molti dei ricercatori
intervenuti ha reso possibile questa Tavola Rotonda.
I possibili danni da inquinamento alla salute infantile sono un tema che la nostra rivista ha già parzialmente affrontato, allorché
tre anni orsono invitò Umberto Simeone a scrivere un articolo per la rubrica Frontiere intitolato “L’origine precoce della salute
e della malattia: la nuova sfida dei pediatri”. Compito che Simeone e i suoi collaboratori hanno assolto egregiamente, ma che
era necessariamente limitato ad uno specifico limite temporale, e cioè al periodo feto-neonatale.
Tornare sull’argomento, estendendolo a patologie e periodi di vita diversi, fornendo il punto di vista e il contributo originale
di numerosi autorevoli ricercatori, è stato sicuramente molto opportuno. E nelle nostre scelte siamo stati confortati dai tanti
pediatri che hanno gremito l’aula ove si è svolta la Tavola Rotonda.
Il testo che Franca Rusconi ed io abbiamo preparato è una testimonianza fedele di quanto i vari autori hanno esposto, anche se
necessariamente in forma riassuntiva. Ma il lettore, da questo testo, potrà anche trarre lo spunto per approfondire le sue nozioni
in questo importante, nuovo capitolo di patologia pediatrica, approfittando del fatto che abbiamo invitato gli Autori a integrare
quanto hanno detto con opportune, puntuali citazioni bibliografiche.
In effetti quindi questa Tavola Rotonda, così come l’abbiamo tradotta per Prospettive può essere considerata un vero e proprio
“mini dossier”.
253
Tavola Rotonda
Ambiente e malformazioni congenite
Pierpaolo Mastroiacovo
Direttore dell’International Centre on Birth
Defects and Prematurity
Fabio Sereni: La parola, per primo, a Pierpaolo Mastroiacovo, per
lunghi, recenti anni direttore, impareggiabile, di Prospettive in Pediatria.
Pierpaolo è stato chiamato a partecipare a questa Tavola Rotonda
come autorità, riconosciuta internazionalmente, per quanto riguarda
l’epidemiologia e il monitoraggio della incidenza e prevalenza delle
malformazioni congenite. Non per nulla dirige, da molti anni, l’International Centre on Birth Defects and Prematurity da lui fondato, che
studia queste problematiche e che è stato “Collaborating Center”
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO).
Ma, prima di fare, se sarà possibile, il punto su quanto è stato fino
ad oggi accertato, in tema di “ambiente e malformazioni congenite”,
vorremmo che aprissi questa Tavola Rotonda rispondendo ad una
domanda molto generale: la presa di coscienza che da inquinamento
ambientale possono derivare gravi danni alla salute di intere popolazioni risale a molti decenni orsono. Vi sono stati episodi storici
gravissimi. Abbiamo imparato la lezione?
Pierpaolo Mastroiacovo: Dirò subito, che non abbiamo imparato
la lezione.
I sistemi di sorveglianza sugli effetti patogeni da inquinamento sono
rimasti, per lo più, confinati alle malformazioni nel periodo neonatale.
Stiamo perdendo l’occasione di utilizzare indicatori semplici ma preziosi, come il peso alla nascita, la prematurità, gli aborti spontanei
per ricercare e documentare un eventuale rapporto tra inquinamento e danno al feto. Sarebbe forse opportuno ragionare in termini di
esito aggregato della gravidanza, in termini cioè di “bambino non
normale” per cause ambientali. Ma mi piace accogliere la proposta
di Sereni, e iniziare questa relazione ricordando, brevemente, tre
tragici episodi oramai storici, per poi cercare di riassumere quanto,
da questi ed altri episodi, si è imparato e abbiamo accertato, in tema
di effetti patogeni sul feto da inquinamento, con particolare riferimento, ma non solo, alle malformazioni.
Nel 1955 una strana forma di paralisi cerebrale, accompagnata da
insufficienza cognitiva e segni di compromissione cerebellare, fu
scoperta nel villaggio di Minamata in Giappone. Tre anni dopo fu
scoperto che la causa era l’inquinamento da metilmercurio del mare
e dei pesci prodotto da un’industria che produceva acetaldeide.
Questo evento ci ha insegnato che un prodotto chimico può causare
disabilità nella prole, senza provocare né sintomi materni, né malformazioni evidenti alla nascita (Herada, Crit Rev Toxicol 1955).
Il secondo episodio avvenne sempre in Giappone nel 1968: l’uso di
olio di riso contaminato da policlorobifenile (PCB) e dibenzofurano
policlorurato (PCDD) avvelenò oltre 1500 donne che presentarono
la malattia di Yusho, caratterizzata da disturbi mestruali, manifestazioni cutanee e oculari, e depressione immunologica. I loro figli, nati
molti anni dopo, presentavano nel sangue livelli misurabili di queste sostanze che correlevano inversamente con il peso neonatale
(Tsukimori et al., Environ Int. 2012). La lezione: l’esposizione a certe
254
sostanze chimiche, avvenuta diversi anni prima, produce effetti sulla
prole che si manifestano con riduzione del peso neonatale; l’esito
causato dalla sostanza chimica non è la malformazione ma il peso
del neonato.
Il terzo episodio ci ha riguardato direttamente: Nel 1976 si è verificato il noto incidente a Seveso con immissione nella zona circostante
di TCDD, una pericolosa diossina che provocò tra l’altro 193 casi di
cloracne. Non fu evidente un aumento di malformazioni (Mastroiacovo et al., JAMA 1988), ma i livelli misurabili di TCDD erano presenti
dopo molti anni nelle persone colpite da cloracne e, osservazione
più sorprendente, i maschi esposti prima dei 19 anni e con livelli
misurabili di TCDD nel sangue avevano più spesso figli di sesso femminile (62%, contro l’atteso 49%, Mocarelli et al., Lancet 2000). La
lezione: a livello di popolazione anche uno spostamento del rapporto
tra sessi può essere una spia di problemi ambientali.
Da questi disastri, e non solo, in questi ultimi 50 anni abbiamo imparato che: 1) le sostanze chimiche possono causare un’ampia gamma
di problemi di salute nelle future generazioni, problemi di tipo multifattoriale che comprendono, oltre alle malformazioni congenite, la
prematurità, la restrizione della crescita prenatale, le disabilità (tra
cui l’autismo) e certi tumori (es.: tumore di Wilms, tumori cerebrali,
leucemie), tutte patologie che nel complesso causale multifattoriale prevedono oltre alla componente genetica quella ambientale che
interviene prima della nascita e talora prima del concepimento; 2)
l’esposizione nociva può essere materna o paterna, 3) l’esposizione
nociva può essere avvenuta molti anni prima dell’evento riproduttivo.
Fabio Sereni: Appare chiaro, da quanto ci hai finora detto, che una
trattazione che si limiti ad un esclusiva valutazione della relazione tra
esposizione materna durante la gravidanza ad un fattore ambientale
e le malformazioni congenite sarebbe parziale e, anche fuorviante.
Pierpaolo Mastroiacovo: Certamente sì.
Sia nella conduzione delle ricerche che nella loro analisi, la possibilità della non-specificità del danno causato ad un nuovo organismo
umano non dovrebbe essere trascurata, anzi dovrebbe essere valorizzata e tenuta ben presente. In altre parole sono convinto che
la ricerca sugli effetti dei fattori ambientali sullo sviluppo prenatale
dovrebbe avere una visione d’insieme e considerare come esito primario e prioritario il “nato non normale” con adeguato follow-up,
senza distinzione se affetto da una patologia evidente nel periodo
neonatale (es: malformazione o restrizione della crescita prenatale) o nei primi anni di vita (es: tumore o disabilità cognitiva). Fatta
questa premessa, per rimanere al compito assegnatomi in questa
tavola rotonda focalizzerò la mia attenzione sulle malformazioni, con
qualche accenno al peso neonatale e alla prematurità.
L’analisi delle ricerche disponibili nella letteratura corrente sulla relazione causale “nell’uomo” tra fattori ambientali in senso stretto
(sostanze chimiche presenti nei luoghi di lavoro o nell’ambiente in
cui viviamo giornalmente) e malformazioni, è estremamente complessa e per certi versi contraddittoria. Si veda ad esempio una revisione pubblicata nel 2010 (Mattison, Curr Opin Pediatr 2010). Esistono notevoli difficoltà metodologiche che impediscono di ottenere
risultati robusti e spendibili sul piano teorico e pratico. Alcune sono
comuni alla ricerca epidemiologica nell’ambito dei fattori ambientali
tra cui la carenza di: (a) robusti indicatori di esposizione, (b) studi
di valutazione delle esposizioni multiple che possono interagire in
modo sinergico tra loro, (c) ampio range dei livelli di esposizione.
Tali carenze saranno di certo ripetutamente sottolineate in altri interventi di questa tavola rotonda. Altre difficoltà sono peculiari della
Ambiente e salute nel bambino
ricerca epidemiologica sulle malformazioni congenite: (a) relativa
rarità, soprattutto di fenotipi specifici; (b) incertezza sull’effetto:
specifico per fenotipo o generalizzato a tutti i fenotipi malformativi; (c) carente definizione di “soggetto esposto”: oltre la madre in
gravidanza andrebbe sempre considerato il padre, e la madre prima
del concepimento. Tutte queste problematiche spiegano in parte le
incertezze e le contraddizioni esistenti. Per il futuro è necessario
che queste carenze siano evitate e vengano promossi soprattutto
gli studi “caso-controllo annidati in coorti prospettiche” con prelievi
di idoneo materiale biologico (es: siero, urine, capelli, unghie) alla
prima e precoce visita ostetrica sia alla madre che al padre per il
successivo dosaggio di biomarkers di esposizione.
Fabio Sereni: Comprendo, da quanto ci hai finora detto, tutte le
riserve metodologiche che hai desiderato premettere a delle considerazioni conclusive sul tema malformazioni congenite e fattori
inquinanti. È necessario, ed opportuno, non considerare solamente
le malformazioni, ma deve essere estesa l’attenzione, più estesamente, al danno fetale (e infantile).
Ma ti sei preparato molto diligentemente, a questa Tavola Rotonda.
E hai preparato una tabella, molto aggiornata ed esaustiva, delle
principali metanalisi e revisioni sistematiche pubblicate di recente
sull’argomento (Tab. I).
Ti pregherei di mostrarcela e commentarla.
Tabella I.
Revisione di metanalisi o revisioni sistematiche che hanno analizzato il ruolo di sostanze chimiche ed esiti selezionati della gravidanza.
Esposizione
Esito, solo se positivo
Autore
Fumo di tabacco ambientale
Natimortalità + 23%
Malformazioni +13%
Leonardi-Bee et al., Pediatrics 2011
Fumo di tabacco ambientale
62 g in meno del PN
Malformazioni + 18%
Salmasi et al., Acta Obst Gyn 2010
Fumo di tabacco ambientale
30 g in meno (1)
Basso peso + 32%
Leonardi-Bee et al., Arch Dis Childh Fetal
Neonatal Ed, 2008
Inquinamento ambientale
NO2
SO2
ToF + 20%, CoAo + 17%
ToF + 3%, Co Ao + 7%
Inquinamento ambientale
CO
CO
NO2
PM 2,5
PM10
PM10
17 gr in meno del PN per 1 ppm
Prematurità + 4% per 1 ppm
28 gr in meno del PN per 20 ppb
Basso peso + 5% per 10mcg/m3
Basso peso + 10% per 20 mcg/m3
Prematurità + 6% per 20 mcg/m3
Inquinamento ambientale
SO2
PM 2,5
PM 10
Prematurità
Basso peso, prematurità, SGA
SGA
Vrijheid et al., Env Health Perspect 2011
Stieb et al., Environ Res 2012
Shah et al., Environ Int 2011
Inquinamento casalingo (combustibili
solidi)
Basso peso + 45%
Misra et al., J Trop Pediatr 2012
Inquinamento casalingo (combustibili
solidi)
Basso peso + 38%
Natimortalità + 51%
66 g in meno del PN
Pope et al., Epidem Rev 2010
Clorazione acqua
Malformazioni + 34%
(soltanto DTN + 49% e urinari +131%)
Hwang et al., Arch Environ Health 2003
Clorazione acqua
Nessuna relazione con peso o prematurità
Grellier et al., Epidemiology 2010
Clorazione acqua
Malformazioni +17%
(soltanto DIV + 59%)
Nieuwenhuijsen et al., Environ Health
Perspect. 2009
PCB e DDE (misurati nel sangue
cordonale)
150 g in meno di PN per ogni mcg/L di PCB-153 nel sangue cordonale
7 g in meno di PN per ogni mcg/L di p,p’-DDE nel sangue cordonale
Govarts et al., Env Health Perspec 2012
Solventi, occupazione paterna
Malformazioni + 47%, soprattutto DTN + 86%
Logman et al., Am J Ind Med 2005
Solventi, occupazione materna
Malformazioni + 64%, aborti spontanei + 25%
McMartin et al., Am J Ind Med 1998
Pesticidi, occupazione materna
Schisi orali + 37%
Romitti et al., Cleft Palate Cran J 2007
Pesticidi, occupazione maternal o paterna
Ipospadia + 36% - materna e +19% paterna
Rochelau et al., J Pediatr Urol, 2009
Residenza vicino a discariche e
inceneritori
Debole associazione con difetti del tubo neurale e cardiaci, maggiore per schisi
orali e difetti del sistema urinario. Nessuna associazione con peso, nati morti e
sex ratio,
Ashworh et al., Environ Int 2014
Erbicidi, agent orange
Malformazioni + 95% (esposizione in Vietnam si + 200%, no + 29%)
Ngo et al., Int J Epidem 2009
Erbicidi, agent orange
DTN + 102% (esposizione in Vietnam si + 122%, no + 92%)
Ngo et al., Int J Epidem 2006
Occupazione in ospedale, anestetici e
chemioterapici
Risultati non conclusive per abortività spontanea e malformazioni
Quansah & Jaakkola, J Wom Health, 2010
Studio multicentrico europeo che ha coordinato vari studi di coorte di alta qualità. CoAo: coartazioe aortica; DDE: diclorodifenilcdicloroetilene, metabolita del DDT; DTN: difetti
del tubo neurale; SGA: small for gestational age; PCB:policlorobifenili; ToF: tetralogia di Fallot
255
Tavola Rotonda
Pierpaolo Mastroiacovo: Allo scopo di ragionare prevalentemente su dati robusti ho esaminato accuratamente tutte le metanalisi disponibili nel campo delle malformazioni congenite e di
altre due condizioni congenite che potrebbero essere comprese
nel continuum biologico del danno ambientale: prematurità e
basso peso neonatale. Ho escluso le metanalisi (numerose) che
valutavano come esito leucemia o tumori infantili, o altre patologie dell’infanzia.
Il quadro che ne emerge è presentato nella tabella. In estrema sintesi si possono proporre le seguenti riflessioni. Molte metanalisi sono
datate, poco utili; per ogni metanalisi dovrebbe essere seguito il criterio suggerito dalla Collaborazione Cochrane; vanno aggiornate o
indicate come non più valide.
A volte le metanalisi sono troppo specifiche, gli autori dovrebbero
almeno suggerire di indagare o metanalizzare anche altri esiti o altre
tipologie di esposizione.
Gli studi che hanno valutato marcatori biologici sono limitati,
abbiamo una sola metanalisi (Govarts et al., Env Health Perspec
2012).
In genere il rischio associato alle sostanze chimiche è di modeste
dimensioni, ma è ovvio che i nostri sforzi debbano essere rivolti ad
evitare l’evitabile e ancora più rilevante è la riflessione che dobbiamo tener presente non solo il rischio relativo (RR) ma anche la
frequenza dell’esposizione, ovvero la frazione attribuibile nella popolazione. Ad esempio consideriamo prematurità e inquinamento
da PM10. Il rischio relativo per gli esposti è di 1,06 (6% di incremento), ma se consideriamo una popolazione di una città in cui il
100% delle gravidanze è esposto, per ogni 10.000 nati invece di
650 prematuri ne avremo 686, ovvero 36 in più dovuti all’inquinamento da PM10.
Il ruolo dell’esposizione paterna non va sottovalutato, si vedano i rischi associati a esposizione paterna lavorativa (ma quanto elevata?
Irripetibile nella popolazione generale?) a pesticidi e solventi (Tab. I).
L’effetto delle varie sostanze chimiche non è limitato alle malformazioni, lo abbiamo già sottolineato.
Infine l’annoso problema: è utile valutare le malformazioni in generale o è meglio specificare il più possibile i vari difetti?
E non ultimo la trascurata attenzione alle anomalie minori.
Fabio Sereni: Bene. Complimenti. Sei stato veramente esaustivo.
Ma non vorrei che tu concludessi senza aggiungere alcune considerazioni sull’ottavo e ultimo punto delle tue riflessioni alla tabella, quello riguardante la “trascurata attenzione alle anomalie
minori”.
Pierpaolo Mastroiacovo: Credo proprio che le malformazioni minori siano un marker di esito da non trascurare.
Mi riferisco a quelle malformazioni che non alterano lo stato di salute di chi ne è portatore, che sono ben note ai genetisti clinici, come
marker di anomalo sviluppo prenatale e come utili segni per indirizzare la diagnosi di sindromi genetiche. Ma la ricerca epidemiologica
le ha trascurate del tutto per una serie di motivi che sarebbe troppo
lungo esaminare in questa sede. Le recenti osservazioni sulla relazione tra interferenti endocrini e anomalie minori, quali la distanza
anogenitale, l’idrocele (Small et al., Environ Health Perspect 2009)
e la lunghezza del pene (El Kholy et al., J Pediatr Endocrinol Metab
2013) suggeriscono che non dovrebbero essere trascurate per la
loro frequenza e per la loro patogenesi, che implica la possibilità di
utilizzare campioni di studio di dimensioni molto più limitate di quelli
necessari negli studi su malformazioni maggiori, e per il minimo costo del rilevamento.
256
Inquinamento atmosferico
Francesco Forastiere
Unità di Epidemiologia eziologica e
occupazionale, Dipartimento di Epidemiologia del
Servizio Sanitario Regionale del Lazio, Roma
Fabio Sereni: Ti ringrazio, Pierpaolo. Devo proprio dire che abbiamo
fatto bene a farti parlare per primo, perché, oltre che aver riassunto
egregiamente lo stato attuale delle nostre nozioni in tema di inquinamento e danni al feto (con un riferimento particolare alle malformazioni) hai anche impostato egregiamente il tema generale della
Tavola Rotonda, inquinamento e salute infantile.
A Pierpaolo Mastroiacovo segue Francesco Forastiere, ricercatore
del Dipartimento di Epidemiologia del Servizio sanitario regionale
della Regione Lazio, noto per i suoi studi sull’inquinamento, in particolare, ed è la ragione per cui l’abbiamo invitato, sugli effetti anche
in età pediatrica dell’inquinamento atmosferico.
Francesco Forastiere: Il mio compito è quello di inquadrare, a grandi linee, lo stato attuale delle conoscenze su “inquinamento e salute
infantile”. Ma, innanzitutto, desidero ringraziare Franca per avere
ricordato la nostra antica collaborazione per quanto stiamo oggi studiando insieme in tema di inquinamento e patologia respiratoria.
Stiamo ora seguendo prospetticamente dalla nascita una coorte di
3.000 bambini (coorte Piccolipiù, www.piccolipiu.it), i più grandi dei
quali ora hanno tre anni, coorte che continueremo a monitorare, per
quanto riguarda la salute, fino a 6 anni. La nostra collaborazione con
i pediatri è stata quindi continua, in tanti anni. E questo è motivo di
soddisfazione.
Nella prima parte della mia relazione vorrei illustrare alcune nozioni
fondamentali sulle particelle inquinanti e sulle nuove tecnologie per
monitorare la loro presenza. Nella seconda parte della mia relazione
riassumerò quanto oggi è noto in tema di inquinamento e patologie
respiratorie infantili.
Ovviamente gli inquinanti ambientali sono molto numerosi (ossidi di
azoto, anidride solforosa, ossido di carbonio, ecc.), ma le particelle
sospese hanno un’importanza particolare perché a esse sono stati
associati gli effetti sanitari più rilevanti. Differiscono notevolmente
in dimensioni. Le dimensioni del particolato dipendono dalle fonti da
cui originano (Fig. 1).
Ma devo ricordare che a parte le differenze di dimensioni (e di origine), la differenza forse più importante è data dalle componenti delle
particelle. L’interesse scientifico attuale è comprendere quali sono,
oltre alla dimensione, le componenti del particolato che hanno significato tossicologico.
Deve essere subito sottolineato che in Italia vi è un’alta variabilità
geografica dei livelli di concentrazione dell’inquinamento da polveri
sospese, come è bene evidenziato dalla Figura 2. Limitandoci alla
concentrazione di PM2.5 e cioè alle particelle patologicamente più
significative, le aree particolarmente critiche sono la pianura padana, le grandi città e le zone industriali.
ESCAPE è uno studio europeo che ha monitorato con metodi uniformi l’inquinamento in diverse città europee studiandone gli effetti
a lungo termine sulla morbosità e sulla mortalità per tutte le cause,
pubblicato sul Lancet lo scorso anno (Pedersen et al., Lancet 2013;
Beelen et al., Lancet 2014).
Ambiente e salute nel bambino
Figura 1.
Dimensioni e origine delle particelle sospese (particolato).
Figura 3.
Concentrazioni di PM 2.5 in città Europee (studio ESCAPE) e limiti fissati
da Environmental Protection Agency e dall’Unione Europea (mod. da
Eeftens M et al., Atmosf Env 2012).
Francesco Forastiere: Finora si è lavorato con dati raccolti dalle
centraline, posizionate in località diverse, e con una affidabilità relativa.
Da alcuni anni (dal 2003) ci possiamo fortunatamente giovare di una
tecnologia più avanzata e avvalerci, quindi, di dati di inquinamento
più affidabili e continui. Un satellite NASA, ogni giorno, tra le 10 e le
11 del mattino, fornisce dati di densità ottica dell’aerosol corrispondenti all’inquinamento atmosferico da particelle. Sono dati di grande
dettaglio, avendo una granularità di un solo chilometro.
La Figura 4 (che mostro come esemplificativa) riporta le immagini
satellitari nell’atmosfera dell’Italia settentrionale e centrale, durante
una settimana lavorativa e un week end dell’agosto 2004. Sono evidenti le differenze. Stiamo lavorando in collaborazione con l’Harvard
University di Boston per trarre significative informazioni da questi
dati.
Figura 2.
Rappresentazione modellistica della concentrazione media annuale di
PM2.5 in Italia, griglia 4*4 Km. Modello MINNI (Modello Integrato Nazionale) (da Zanini et al. 2011).
Questo studio ha documentato, con metodi di accertamento uniformi, l’inquinamento da PM2.5 in numerose città europee. Particolarmente preoccupanti sono i dati rilevati a Torino (Fig. 3) (Eeftens et
al., Atmosf Env 2012).
Franca Rusconi: Sei stato molto esauriente. Non siamo sicuramente messi bene, sia in temi assoluti che relativi alle altre nazioni europee, in tema di inquinamento atmosferico.
Ma avevi promesso di accennare anche alle nuove metodologie di
monitoraggio. Cosa puoi dirci a questo proposito?
Figura 4.
Immagini satellitari della densità ottica dell’atmosfera nell’Italia settentrionale e centrale durante una settimana lavorativa e un weekend
dell’agosto 2004. La risoluzione è di 1 Km.
257
Tavola Rotonda
Tabella I.
Raccomandazioni dell’OMS (Air Quality Guidelines 2005) e standard stabiliti dalla Comunità Europea.
Inquinante
Tempo medio
AQG, OMS
Standard CE
Particolato
PM2.5
PM10
1 anno
24 ore (99° percentile)
1 anno
24 ore (99° percentile)
10 µg/m3
25 µg/m3
20 µg/m3
50 µg/m3
25 µg/m3
-40 µg/m3
50 µg/m3***
Ozono, O3
8 ore, massimo giornaliero
100 µg/m3
120 µg/m3***
Biossido azoto, NO2
1 anno
1 ora
40 µg/m3
200 µg/m3
40 µg/m3
200 µg/m3***
Diossido zolfo, SO2
24 ore
10 minuti
20 µg/m3
500 µg/m3
125 µg/m3***
350 µg/m3*** (1 ora)
Tabella II.
Evidenze scientifiche del nesso causale a breve e a lungo termine tra inquinamento atmosferico e malattie respiratorie e funzione polmonare in
età pediatrica (OMS 2005).
Problematica
Evidenze di un nesso a breve termine
Evidenze di un nesso a lungo termine
Infezioni respiratorie
Sufficienti
+++
Suggestive
++
Asma
Sufficienti
+++
Limitate
+
Funzione polmonare
Sufficienti
+++
Sufficienti
+++
Franca Rusconi: Bene, ci hai molto chiaramente illustrato lo stato
attuale delle metodologie di accertamento dell’inquinamento atmosferico.
Ma una volta acquisiti i dati, quali indicazioni sanitarie possiamo
trarne?
Francesco Forastiere: A fronte dei livelli attuali, accertati, di inquinamento, e sulla base di quanto sappiamo sulla tossicità delle
particelle sospese, vi è una chiara incongruenza tra quanto raccomandato dall’OMS per ridurre in modo significativo gli effetti negativi dell’inquinamento atmosferico e quanto ammesso dalla Comunità
Europea (e, conseguentemente, dalle singole legislazioni nazionali)
(Tab. I).
Come si può notare la Comunità Europea ammette come possibili concentrazioni di inquinanti significativamente superiori a quelli
suggeriti dall’OMS. Si sperava che nel 2013 l’Unione Europea avrebbe rivisto questi limiti di concentrazione, ma ciò non è avvenuto. È
particolarmente grave il valore significativamente più alto di PM2.5
(25 µg/m3 per l’Unione Europea rispetto a 10 µg/m3 per l’OMS). Il
risultato pratico di ciò è paradossale: il medico consiglia al cittadino
di non fumare, quando la regolamentazione europea gli concede 10
sigarette al giorno!
termine, relativi sia a frequenza di infezioni respiratorie, all’aggravamento dell’asma bronchiale e alla funzionalità respiratoria. A lungo termine, solo per la funzionalità respiratoria non vi sono dubbi,
mentre l’evidenza per l’asma è limitata e l’associazione causale con
infezioni respiratorie solo possibile.
Mi piace chiudere questo mio intervento citando i risultati di una
ricerca italiana pubblicati nel 2014 (Ranzi et al., Occup Environm
Med 2014). Si è trattato di uno studio prospettico, longitudinale con
controlli a 6 mesi, 15 mesi, 4 anni e 7 anni di un numero limitato di
bambini. Si è valutata la prevalenza e la incidenza dell’asma, dello wheezing, della dispnea e della tosse. Abbiamo constatato una
chiara tendenza a un aumento di questi parametri, ma i risultati,
tranne che in un singolo caso, sono statisticamente non significativi.
Occorrono senza dubbio studi più estesi.
Inquinamento e sviluppo cognitivo
Jordi Sunyer
Centre for Research in Environmental
Epidemiology (CREAL), Barcelona
Franca Rusconi: Molte grazie, ma ti abbiamo qui chiamato anche
per fare il punto su “inquinamento e patologia respiratoria nell’infanzia”. Cosa ci dici a proposito?
Francesco Forastiere: Sono perfettamente d’accordo con Pierpaolo
Mastroiacovo. Non è utile citare singoli lavori, ma è molto più significativo una valutazione critica della letteratura recente.
A questo proposito ho preparato una tabella (Tab. II) da cui si può
desumere che non vi è dubbio che vi siano effetti dannosi a breve
258
Franca Rusconi: I due primi ottimi interventi, di Pierpaolo Mastroiacovo e di Francesco Forastiere, oltre a puntualizzare le attuali
conoscenze sulla rilevanza dell’inquinamento atmosferico nella patogenesi di importanti patologie infantili, hanno anche molto bene
chiarito gli attuali limiti metodologici, e informato sulle moderne
tecnologie che permetteranno, in un futuro prossimo, conoscenze
Ambiente e salute nel bambino
sempre più approfondite. Sono state quindi, queste relazioni, anche
un’opportuna premessa culturale e conoscitiva alle relazioni che seguiranno.
Il prossimo intervento è di Jordi Sunyer, uno dei Direttori scientifici del CREAL (Centre de Recerca en Epidemiologia Ambiental), ben
noto centro di ricerche epidemiologiche relative all’ambiente di Barcellona.
Ho conosciuto Jordi Sunyer molti anni orsono, allorché si occupava
soprattutto di ambiente e patologia respiratoria, ma ben ricordo che
fin da allora esprimeva l’intenzione di iniziare ricerche su patologie
diverse e per molti aspetti più rilevanti, come quelle relative allo
sviluppo neurocognitivo. Questo è accaduto, e con grande successo.
Anche per questo sono molto lieta di dargli la parola.
Jordi Sunyer: Ringrazio per l’invito. Ho rapporti molto stretti con
l’epidemiologia Italiana, e con l’Istituto Superiore di Sanità, e anche
per questo sono lieto di essere qui, questa mattina.
Vorrei iniziare con alcune informazioni “fondamentali”. Francesco
Forastiere vi ha già schematicamente spiegato quali sono i molti
inquinanti dell’atmosfera, la diversa dimensione del “particolato”, le
sostanze chimiche che sono state accertate essere particolarmente
tossiche, e per le quali la barriera ematoencefalica non è protettiva.
Su questi punti, quindi, non mi soffermerò.
Iniziamo solo ora ad avere sicure evidenze sulle diverse modalità patogenetiche del danno da inquinamento al sistema nervoso centrale,
derivanti per lo più da ricerche sull’animale da esperimento. Io credo
si possa ragionevolmente sostenere che il possibile danno si realizzi
attraverso una attivazione della microglia, con neuroinfiammazione,
stress ossidativo e aggregazione proteica. Il maggior colpevole a livello di inquinamento atmosferico è il particolato ultrasottile (PM0.1,
< 0,1 mm) che si deposita negli alveoli e può dare inizio ad una
cascata infiammatoria, alterando il livello delle citochine circolanti
(TNF-a e IL-1) che possono agire su un potente mediatore dell’infiammazione (CPX-2) nell’endotelio cerebrale; alternativamente le
particelle possono essere trasportate direttamente al cervello attraverso le vie olfattive e attivare qui i meccanismi infiammatori. Non
posso a questo punto, non citare il fantastico lavoro di una ricercatrice messicana che ha documentato non solo su animali (cani),
ma anche su materiale autoptico di bambini, l’accumulo abnorme
di amiloide nell’encefalo assieme a note di infiammazione perivascolare, da attribuire direttamente all’inquinamento atmosferico
(Calderón-Garcidueñas et al., BioMed Research International 2013).
Le due tabelle di questa prima parte della mia relazione riassumono
quelle che a mio parere sono le principali basi cognitive del danno
celebrale da inquinamento.
Nella prima sono elencate una serie di meccanismi attraverso i quali il particolato atmosferico può indurre danno celebrale in modelli
animali (Tab. I), la seconda elenca 10 sostanze sicuramente neurotossiche riscontrabili in atmosfere inquinate (Tab. II), così come
risultano da due pubblicazioni su Lancet (Grandjean & Landrigan,
Lancet 2006; Grandjean & Landrigan, Lancet Neurology 2012).
Franca Rusconi: Grazie Jordi, hai finora ottimamente inquadrato la
patogenesi del danno celebrale da inquinamento, citando una serie
di lavori recenti a questo riguardo.
Immagino che la seconda parte della tua relazione sarà dedicata
alle evidenze cliniche. Siamo ansiosi di conoscerle. Ce le puoi riassumere?
Jordi Sunyer: Lo farò, con piacere, descrivendo per sommi capi due
nostre ricerche che considero molto indicative.
Tabella I.
Meccanismi attraverso cui il particolato atmosferico può indurre danno cerebrale in modelli animali.
• Traslocazione diretta (Elder 2006, Yokota 2011)
• Integrità della barriera (Pöss 2013, Oppenheim 2013, Heiday 2014)
• Attivazione della microglia (Levesque 2011, Pöss 2013, Oppenheim 2013,
Heiday 2014)
• Infiammazione cerebrale (Campbell 2005, 2009, Kleinman 2008, van Berlo
2010, Gerlofs-Nijland 2010, Levesque 2011, Fonken 2011)
• Neurotossicità dopaminergica (Curtis 2010, Levesque 2013)
• Disfunzione glutaminergica neuronale (Morgan 2011, Davis2013, CorySlechta 2014)
• Alterazioni della memoria (Zanchi 2010, Forben 2011, Yokota 2011)
Tabella II.
Sostanze per cui è documentato un danno neurotossico.
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Piombo
Metilmercurio
Policlorobifenili
Arsenico
Toluene
Manganese
Fluoruro
Tetracloroetilene
Clorpirifos
DDT-DDE
Polibromodifenileteri (PBDE)
La prima è una ricerca prospettica in 5 diverse località spagnole
su 2.644 gravidanze i cui bambini sono stati seguiti fino a 24 mesi,
con dati sull’esposizione a inquinamento atmosferico a partire dalla gravidanza e sviluppo neuropsicologico, riguardante circa 2.000
bambini.
I dati raccolti ci permettono di affermare che se la madre gravida
vive in un ambiente inquinato lo sviluppo neurologico del bambino
è ritardato.
In particolare abbiamo riscontrato un associazione tra le esposizioni
delle madri gravide a idrocarburi (benzene) e alterato sviluppo neuropsicologico del prodotto del concepimento, con anche un probabile rilievo della dieta che la madre assume sulla entità del ritardo
dello sviluppo neuropsicologico. Infatti si è osservato un maggior
danno da inquinamento per una scarsa assunzione nella dieta materna di cibi con attività antiossidante (frutta, vegetali).
Questi dati sono stati confermati da altri studi, in Cina, ma anche
negli Usa.
Francesco Forastiere vi ha già citato lo studio ESCAPE. Noi abbiamo
usato lo stesso protocollo, aggiungendo al progetto iniziale altre località spagnole, con l’intento di documentare un eventuale effetto
dannoso da inquinamento atmosferico anche sullo sviluppo neuromotorio, a partire dalla gravidanza. I risultati che abbiamo ottenuto
non sono stati significativi per lo sviluppo cognitivo, probabilmente
per metodologie di accertamento non uniformi, anche se abbiamo
osservato un trend per un effetto negativo. L’esposizione a NO2
(traffico veicolare) era associata con un ritardo dello sviluppo psicomotorio (Guxens, Epidemiology 2014).
Vorrei concludere questa relazione riassumendo brevemente i risultati di una nostra recente ricerca sulle scuole di Barcellona (Rivas,
I Environm Int 2014), intesa ad accertare se l’inquinamento atmosferico possa provocare un effetto negativo sull’attività cognitiva
259
Tavola Rotonda
(attenzione, memoria) e anche indurre problemi comportamentali,
degli scolari. Abbiamo anche studiato alcuni aspetti della funzionalità celebrale con la risonanza magnetica funzionale.
La ricerca è stata effettuata in 39 scuole, per un totale di 2.878 scolari, ognuno dei quali è stato esaminato clinicamente 4 volte. Sono
state eseguite 298 risonanze magnetiche.
Nei bambini che frequentavano scuole con elevati livelli elevati di
inquinamento (interno ed esterno) abbiamo riscontrato dati significativamente peggiori di “working memory” e di “executive attention”. È stata anche riscontrata una maggiore incidenza di problemi
comportamentali. Le particelle originate dal traffico (ma non quelle
minerali) si sono dimostrate responsabili degli effetti dannosi.
Inquinamento e tumori infantili
Corrado Magnani
Dipartimento di Medicina Traslazionale Università
del Piemonte Orientale, Novara; AIRTUM
Franca Rusconi: Ho ora il piacere di presentare Corrado Magnani
che ci parlerà delle conoscenze attuali in tema di esposizioni ambientali e tumori infantili. Corrado Magnani che insegna all’Università del Piemonte Orientale è autore nel Rapporto AIRTUM-AIEOP 2012
sui Tumori infantili (Epidemiologia e Prevenzione 2013) di un capitolo su “Le cause e i fattori di rischio delle neoplasie pediatriche”.
Corrado Magnani: Due brevissime premesse. Una trattazione,
seppure sintetica, sull’associazione tra ambiente e tumore infantile
deve essere impostata con una accezione molto ampia. Non solo
tumore e inquinamento ambientale, ma tutto ciò che, dall’ambiente
esterno, può esercitare azione dannosa, come il fumo passivo, radiazioni e altro. Il secondo punto è relativo al problema, molto delicato, degli strumenti usati per la valutazione e l’analisi epidemiologica.
Innanzitutto sono necessari studi di coorti di dimensioni adeguate
oppure studi caso controllo di grandi dimensioni, per avere numeri
sufficienti. I registri dei tumori forniscono informazioni preziose sulla
frequenza delle malattie, ma di solito non includono informazioni sui
fattori confondenti la relazione tra esposizione e sviluppo di tumore.
Vorrei innanzitutto fornire alcuni dati “preliminari”. Ogni anno l’incidenza dei tumori infantili (età 0-14 anni) nei Paesi europei varia da
130 a 150 casi per milione. L’Italia è, con la Finlandia, uno dei paesi
in cui l’incidenza è maggiore. In alcuni paesi, tra cui gli USA, si è
registrato negli ultimi anni un aumento della incidenza, pari a circa
l’1% all’anno.
In Italia è stato osservato un trend di aumento della frequenza di tumori infantili negli anni 1988-2002 (Rapporto I Tumori in Italia 2008)
ma non si è più osservato nel periodo successivo con dati fino al
2008, quando invece si è osservato un trend di riduzione dell’incidenza (I Tumori in Italia. I tumori dei bambini e degli adolescenti
Rapporto AIRTUM 2012) (http://www.registri-tumori.it/cms/it/pubblicazioniAIRTUM. http://www.registri-tumori.it/PDF/AIRTUM2012/
EP37_1_s1_175_1-6.pdf). L’interpretazione dei trend in generale
e soprattutto di discordanze tra periodi successivi è complessa e
incerta, tanto più che si tratta di statistiche basate su numeri relativamente piccoli, pertanto con elevata variabilità casuale.
Per venire al tema di questo Convegno, da un lato dobbiamo ricordare che le evidenze certe sui fattori di rischio per i tumori infantili
260
sono limitate e pochi agenti, in particolare radiazioni ionizzanti e uso
di dietilstilbestrolo durante la gravidanza. Peraltro molte esposizioni,
anche a fattori presenti nell’ambiente, sono state studiate in relazione alla possibile associazione con tumori infantili. Vorrei a questo
proposito citare alcuni esempi.
La relazione tra la variazione del rischio di leucemia infantile in relazione all’interazione con agenti infettivi. Si tratta di ipotesi di ricerca
stimolate dallo studio dei clusters di leucemia infantile, in particolare
a partire dal cluster di Sellafield. Due sono le principali linee di ricerca: la prima sostenuta da Kinlen ipotizza che la leucemia infantile sia
associata ad agenti infettivi e che il rischio aumenti in ‘popolazioni
isolate’ e quindi con bassa immunità di gruppo quando vengono in
contatto con l’agente infettivo. L’ipotesi di Kinlen ha avuto supporto
dall’osservazione epidemiologica ma non è stato ancora identificato l’agente eziologico. L’ipotesi di Greaves sostiene che lo sviluppo
della leucemia infantile avvenga in seguito a eventi, di cui il primo
è una mutazione genetica che avviene nel periodo prenatale ed il
secondo è la promozione dello sviluppo del clone cellulare mutato, in
seguito a una risposta anomala del sistema immunitario a stimoli da
infezioni non specifiche. A sostegno dell’ipotesi di Greaves sono in
particolare l’osservazione di cloni cellulari mutati in prelievi ematici
di neonati e l’evidenza epidemiologica di un aumento del rischio di
leucemia tra i bambini cha hanno avuto esposizione tardiva a stimoli
infettivi.
L’esposizione ambientale a radiazioni ionizzanti. Tralasciando gli effetti delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, l’esempio
più eclatante negli anni recenti è costituito dall’epidemia di tumori
tiroidei in Bielorussia, conseguente all’incidente nucleare di Chernobil. In Italia non vi è un problema da esposizione ambientale a iodio
131, ma vi è aperto il problema dei possibili effetti dannosi delle
radiazioni gamma e del radon di origine ambientale, per cui sono
opportuni approfondimenti.
Infine, negli ultimi anni si sono accumulati dati significativi sull’importanza nella carcinogenesi dell’esposizione al fumo di tabacco, a
solventi e a pesticidi. Il fumo di tabacco è un noto cancerogeno e
nelle categorie dei solventi e dei pesticidi sono incluse sostanze con
noti o sospetti effetti cancerogeni.
Inoltre, quando si discute di incidenza di tumori infantili e della loro
causa, non ci si deve limitare a considerare esclusivamente la vita
extrauterina, ma si deve anche considerare la possibilità di un danno
esercitato nel corso della vita endouterina e anche ancor prima del
concepimento.
È opportuno quindi dedicare alcuni minuti di questa esposizione ai
fattori prenatali come cause di tumori infantili.
A questo proposito vorrei citare la ricerca di Miligi et al. (Occup Environ Med 2013) che hanno analizzato i dati dello studio SETIL che
hanno riportato un aumento statisticamente significativo del rischio
di leucemia in bambini nati da madri esposte, durante la gravidanza
a solventi, aromatici e alifatici. Sono studi molto difficili da compiere,
occorrono protocolli ad hoc, personale esperto, anamnesi molto dettagliate. Perché la ricerca sia valida occorre che l’anamnesi includa
dati sulla specificità dei solventi usati, sui tempi e sulle modalità di
lavoro. Si tratta di esposizioni relativamente frequenti, ad esempio
nello studio SETIL risultano essere stati esposti a solventi l’8% delle
madri e il 18% dei padri dei soggetti di controllo (popolazione generale).
Un’altra possibile causa ambientale di aumentato rischio di tumori
infantili, è costituita dall’esposizione, in particolare nel periodo prenatale, a pesticidi. Vorrei citare un lavoro di metanalisi (Vinson et
al., Occup Environm Med 2011) che ha documentato in studi casocontrollo un aumento del rischio di leucemia e linfoma in bambini
Ambiente e salute nel bambino
le cui madri erano state esposte prima della nascita e un aumento
di tumori cerebrali per esposizione prenatale paterna. È un campo
ancora molto aperto. Ricerche future dovranno chiarire quali pesticidi sono coinvolti in particolare. Oggi questi studi si avvalgono delle
competenze di igiene industriale. Un igienista industriale esperto è
in grado di stimare la presenza, nei luoghi di lavoro, degli agenti
chimici, ad esempio solventi, in uso per le lavorazioni. Per il futuro
occorrerà raggiungere la stessa competenza per i pesticidi usati in
agricoltura, rapportati alle tipologie delle coltivazioni, alle modalità e
al luogo di lavorazione, ai tempi di esposizione, ecc.
Per concludere, i dati che attualmente abbiamo concernenti il grande tema relativo ad ambiente e tumori infantili sono molto scarsi. Ma
le ricerche in corso sono promettenti. Mi piace concludere citando
la ricerca internazionale, attuale, su questo tema condotta dal Consorzio Internazionale per le Leucemie Infantili, iniziata sotto la guida
della Professoressa Pat Buffler, purtroppo mancata l’anno scorso
(Metayer et al., 2013).
Siti inquinati e salute infantile
Ivano Iavarone
Dipartimento Ambiente e Prevenzione Primaria,
Istituto Superiore di Sanità (Roma) e WHO
Collaborating Centre for Environmental Health in
Contaminated Sites
Franca Rusconi: Abbiamo la fortuna di avere qui con noi, oggi,
Ivano Iavarone. Per chi non fosse a conoscenza, il dottor Iavarone
lavora all’Istituto Superiore di Sanità (ISS), ed è responsabile di una
serie di iniziative tese a monitorare la salute, anche infantile, in una
numerosa serie di siti, caratterizzati, in Italia, da elevato inquinamento ambientale.
A Ivano Iavarone chiedo innanzitutto: dopo aver inteso quanto è stato
accertato sugli effetti dannosi alla salute infantile dell’inquinamento,
ci puoi assicurare che questo grosso problema di salute pubblica è
preso in adeguata considerazione dalle autorità sanitarie?
Ivano Iavarone: Credo proprio di poter rispondere affermativamente.
La protezione della salute infantile dall’inquinamento ambientale è
una priorità di sanità pubblica.
Il piano Globale di Azione sul tema Ambiente e Salute nell’infanzia
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il 2010-2015 (http://
www.who.int/ceh/en/) evidenzia che l’urbanizzazione incontrollata,
le nuove tecnologie, l’industrializzazione nei paesi in via di sviluppo, il
degrado degli ecosistemi e gli impatti del cambiamento climatico rappresentano condizioni emergenti di rischio per la salute infantile (http://
who.int/ceh/en/). Le conclusioni della Quinta Conferenza Ministeriale
Ambiente e Salute indicano la necessità di garantire pari opportunità a
ciascun bambino di poter disporre entro il 2020 di acqua sicura, dieta
sana, migliore qualità dell’aria e un ambiente privo di sostanze chimiche
tossiche (www.euro.int/parma2010). Coerentemente con queste indicazioni il Piano Sanitario Nazionale 2011-13 sottolinea che la salute delle
fasce più vulnerabili della popolazione deve costituire un obiettivo privilegiato su cui fondare le misure di prevenzione e di gestione dei rischi in
tutti gli ambiti considerati (http://www.salute.gov.it/).
Che all’interno della doverosa attenzione della salute nei siti inquinati ci debba essere particolare attenzione per l’infanzia, è, a mio
parere, fuori discussione.
Rispetto agli adulti, i bambini sperimentano livelli più elevati di
esposizione agli inquinanti ambientali e presentano una maggiore
vulnerabilità agli effetti di tali esposizioni a causa di caratteristiche
comportamentali, fisiologiche e correlate all’immaturità di organi e
apparati specifica dell’età infantile. Inoltre, i bambini non sono in
grado di adottare stili di vita opportuni ad evitare i rischi associati
all’esposizione ad inquinanti presenti nell’ambiente. L’esposizione
ad acqua, aria, suolo e cibo contaminati può causare malattie gastrointestinali e respiratorie, difetti congeniti e disordini dello sviluppo neurologico, responsabili di circa 1/6 del carico totale di patologie
infantili (www.euro.who.int/parma2010).
Franca Rusconi: Le intenzioni sono quindi buone. Ma come epidemiologo ci puoi comunicare alcuni risultati delle ricerche che da
tempo state conducendo all’Istituto Superiore di Sanità, sulla salute,
in Italia, nei siti inquinati?
Ivano Iavarone: In totale, in Italia 5,5 milioni di persone, comprendenti circa un milione di bambini e giovani sotto i 20 anni, risiedono
nei 44 siti di interesse nazionale per le bonifiche (SIN) studiati nel
progetto “Sentieri”, e tra questi circa il 60% appartengono ai gruppi
socioeconomici più svantaggiati.
L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) è in prima linea sul tema della
promozione della salute infantile nelle aree contaminate. Un approfondimento dello studio SENTIERI, coordinato dall’ISS, relativo al
periodo 1995-2009 (http://www.registri-tumori.it/cms/it/Rapp2012)
ha evidenziato alcune criticità per i bambini: sul totale dei 44 SIN, nel
primo anno di vita, sono stati registrati eccessi del 4% e del 5% rispettivamente per la mortalità generale e per le condizioni morbose
perinatali. In 8 dei 44 SIN (18%) la mortalità generale è in eccesso
nel primo anno di vita, e in 11 SIN (25%) un eccesso di mortalità è
presente in almeno una delle fasce considerate per l’età infantile
(0-1 anno; 0-14 anni e 0-19 anni). L’aumento del numero di decessi
tra i bambini registrato nelle 44 aree SIN è un “evento sentinella”
che indica la necessità di indagini più approfondite, quali ad esempio l’analisi dell’incidenza dei tumori infantili.
A tal riguardo, attraverso lo studio collaborativo tra ISS ed Airtum
(Associazione Italiana dei Registri Tumori) è stato possibile avere
una prima stima dell’incidenza dei tumori infantili nel complesso dei
23 SIN coperti da Registri Tumori. I dati, presentati nell’ambito della
XVIII Riunione Annuale AIRTUM (Taranto, 9-11 aprile 2014 – http://
www.registri-tumori.it/cms/it/node/2892) mostrano che in 10 anni
(1996-2005) nei 23 SIN, ci sono stati 1127 casi di tumori maligni in
età 0-24 anni, di cui 51 casi nel primo anno di vita, 451 in età pediatrica (0-14 anni), 234 tra gli adolescenti (15-19anni) e 442 in età
giovanile (20-24 anni). I dati mostrano una distribuzione eterogenea
ed è opportuno approfondire le analisi della distribuzione temporale
del rischio per sede del tumore e per SIN.
Franca Rusconi:
Hai citato dati riguardanti soprattutto la mortalità e l’incidenza di tumori infantili. Ma, per completare la tua esposizione puoi informarci
anche su altri dati che state raccogliendo, che riguardano l’incidenza di altre patologie nei bambini che abitano nei siti inquinati?
Ivano Iavarone: Il tema della salute infantile nei siti contaminati è affrontato, per la prima volta, in modo sistematico da una
proposta progettuale dell’ISS denominata “SENTIERI KIDS”
( h t t p : / / w w w. e p i p r e v. i t / p u b b l i c a z i o n e / e p i d e m i o l - p r e v 2014-38-2-suppl-1). Il Progetto propone la creazione di un osservatorio permanente per monitorare lo stato di salute dei bambini
che risiedono nelle aree contaminate, grazie ad un gruppo di lavoro
multi-istituzionale che considera una gamma di indicatori sanitari
261
Tavola Rotonda
quali la mortalità, l’incidenza dei tumori, i dati dei ricoveri ospedalieri
e dei certificati di assistenza al parto. Particolare attenzione viene
rivolta agli aspetti della comunicazione degli elementi conoscitivi, a
supporto della pianificazione di attività di prevenzione primaria e di
promozione della salute dei bambini, coerentemente con gli impegni
stabiliti nell’ultima Conferenza Ministeriale Europea su Ambiente e
Salute per l’infanzia.
Tutte queste attività vengono proposte dall’ISS, presso il quale ha
sede l’unico Centro Collaborativo OMS su Ambiente e Salute nei Siti
Contaminati (http://www.iss.it/chis/). Il proseguimento delle attività
di monitoraggio della salute infantile nei SIN dipende però fortemente dalla possibilità che SENTIERI KIDS riceva finanziamenti ad hoc,
cosa che purtroppo fino ad oggi non è avvenuta.
Ma sono in grado, fin da ora, di anticipare alcune linee guida per
l’attività futura, Innanzitutto dovrà proseguire il nostro impegno e
uno studio più approfondito sull’incidenza dei tumori infantili. Dobbiamo però anche colmare deficit di informazioni riguardanti il ruolo
dell’ambiente nell’insorgenza di altre malattie rare e (o) complesse,
come sono ad esempio le malformazioni; dobbiamo iniziare a valutare, soprattutto in presenza di esposizioni a numerose sostanze di
interesse tossicologico (che nei siti contaminati è spesso la regola),
quali specifici contaminanti siano causa o concausa dell’aumento
di rischio di determinate malattie infantili. A tal fine, è necessario
approfondire le conoscenze sui meccanismi biologici alla base delle patologie dell’infanzia e valutare adeguatamente le interazioni
gene-ambiente nella formulazione di specifiche ipotesi eziologiche.
Vorrei infine dire che appare necessaria (e urgente) una strategia
della comunicazione e dell’informazione più tempestiva e completa.
A tal riguardo, anticipo che a breve verrà pubblicata sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità una relazione che riguarda un aggiornamento dello studio SENTIERI per la cosiddetta “Terra dei fuochi” e per
il SIN di Taranto (http://www.iss.it/pres/?lang=1&id=1432&tipo=6).
Questa relazione, che è il frutto di incarichi istituzionali affidati
all’ISS, presenterà un’analisi del profilo sanitario degli adulti e dei
bambini che risiedono in queste aree contaminate.
Inquinamento e alterazioni
del programming fetale
Ernesto Burgio
Comitato Scientifico ISDE
(International Society of Doctors for Environment)
Fabio Sereni: Ti ringrazio Iavarone per la tua completa esposizione.
Io credo che il messaggio finale con cui hai chiuso la tua relazione,
e cioè la necessità che sia significativamente potenziata la informazione affinché sia possibile una prevenzione efficace, sia stato molto
importante.
La parola ora a Ernesto Burgio che tratterà un tema trasversale cui
hanno già accennato alcuni precedenti relatori, e cioè il ruolo dell’inquinamento sulla programmazione fetale.
Ernesto Burgio: Farò del mio meglio, nei dieci minuti che mi sono
stati concessi, non sarà semplice illustrare alcune slide che ho preparato e che sono piuttosto complesse. In genere si dice che una
slide dovrebbe essere chiara, semplice e lineare. Quelle che pro-
262
ietterò sono esattamente il contrario, ma sono necessarie per far
comprendere il mio punto di vista.
Da alcuni anni io lavoro nell’ambito di ECERI, un Istituto di ricerca
sul cancro che ha sede a Bruxelles, cercando di mettere a fuoco i
meccanismi patogenetici per cui l’origine di molte patologie (e in
primis del cancro) dovrebbe essere cercata in modo assai diverso
da come si è fatto finora.
Sostanzialmente proporrò sette parole chiave (Fig. 1) necessarie a
capire che stiamo vivendo una trasformazione epidemiologica di
grande portata e, in larga misura, inattesa.
Vorrei a questo proposito proporre alcuni dati indicativi.
Secondo il CDC di Atlanta i bambini con autismo (o disturbi dello
spettro autistico) sono passati negli USA da 1:1500 (anni ’70-’80) a
1:70 circa, e 1:6 bambini soffrirebbero oggi di patologie del neurosviluppo. Anche le malattie neurodegenerative stanno aumentando
in modo drammatico e sembrerebbero riconoscere un meccanismo
patogenetico per certi versi comune. A questo proposito ringrazio Sunyer che ha citato gli studi epidemiologi condotti a Città del
Messico, che hanno documentato la presenza di depositi abnormi
di beta-amiloide nel lobo frontale e nell’ippocampo di giovani morti per causa accidentale (quindi fondamentalmente sani) secondari
all’inquinamento. (Calderón-Garcidueñas et al., Toxicol Pathol 2002;
Calderón-Garcidueñas et al., Toxicol Pathol. 2007). E a conferma ricorderei anche gli studi sperimentali condotti su scimmiette esposte
a inquinamento da metalli in gravidanza, la cui prole si è ammalata
di Malattia di Alzheimer (Wu et al., J Neurosci 2008).
Vorrei anche ricordare i dati, molto indicativi, di aumento di incidenza e prevalenza di obesità e diabete di tipo 2. Circa un terzo degli
abitanti in USA è oggi patologicamente obeso e anche in questo
caso si è passati da tassi di prevalenza del 10-12% al 35% in meno
di 30 anni. E l’aumento più preoccupante riguarda anche in questo
caso i bambini (Wang et al., Int J Pediatr Obes 2006).
Vi è poi il capitolo dei tumori infantili. Gli studi epidemiologici sono
significativi, soprattutto se letti in modo diverso e appropriato (il
vecchio modello delle mutazioni stocastiche del DNA che si accumulano nel tempo, evidentemente non è in grado di spiegare
questi dati). Da venticinque anni a questa parte un grande studio
epidemiologico condotto dalla IARC sui registri tumori di tutt’Europa (69 registri di tumori in Europa per un totale di oltre 150.000 tumori infantili) ha documentato un aumento generale dell’incidenza
dei tumori infantili dell’1% all’anno. Ma il dato più significativo è
che l’incidenza dei tumori insorti nel primo anno di età è cresciuta
del doppio (e in Italia addirittura del triplo) (Steliarova-Foucher E et
al., Eur J Cancer 2006; Rapporto AIRTUM 2008, Epidemiologia &
Prevenzione 2008) 1.
Il cancro non è quindi oggi soltanto una malattia prevalente nell’anziano, ma sta aumentando di incidenza anche nei giovani e nei bambini. Inoltre si registra un incremento preoccupante di neoplasie che
non erano, in precedenza, appannaggio dell’infanzia, come linfomi e
rabdomiosarcomi (Burgio, Epidemiol Prev 2013).
Da questi dati appare chiaro che i fattori patogenetici ambientali, da
esposizione transplacentare e gametica (transgenerazionale), hanno
un peso sempre maggiore nell’aumento dell’incidenza dei tumori
infantili e che è sempre di più in discussione lo stesso modello dominante di cancerogenesi tuttora basato sulla teoria dell’accumulo
Nota dei curatori della Tavola Rotonda: Magnani nella sua relazione cita come un
aumento dell’incidenza di tumori infantili sia stato documentato nel rapporto AIRTUM 2008 , ma non nel successivo rapporto 2012 , quando è stata documentata
una diminuzione dell’incidenza.
1
Ambiente e salute nel bambino
Figura 1.
La transizione epidemiologica del XX secolo: dalla genetica all’epigenetica.
progressivo di mutazioni stocastiche del DNA. (Burgio & Migliore, Mol
Biol Rep 2014).
Nel 1997 il grande biologo molecolare Richard Strohmann ha pubblicato, su Nature Biotechnology, un articolo che per molti di noi
è stato un fulmine a ciel sereno. Ha ammonito: lo schema tradizionale che determina il fenotipo non può e non deve essere più
considerato quello lineare DNA-RNA-PROTEINA; dovremmo cercare di immaginare un network molecolare molto più complesso, costituito da reti epigenetiche in grado di intercettare e processare le
informazioni provenienti dall’esterno della cellula e di rispondere
di conseguenza. Ciò significa, in ultima analisi, che l’ambiente ha
un importanza fondamentale del definire il fenotipo. In altre parole
il DNA non deve essere più considerato l’essenza del genoma. I
meccanismi epigenetici sono i meccanismi attraverso cui le informazioni che vengono dall’esterno (in specie nel corso dell’ontogenesi embrio-fetale) vengono tradotte in fenotipo. Questo significa che tutte le trasformazioni stabili del nostro fenotipo, tanto
in ambito fisiologico che patologico, sono indotte da informazioni
provenienti dall’ambiente, modulate dall’epigenoma e condizionate dalla sequenza del DNA (id est: che non c’è patologia che non
sia al contempo ambientale e genetica).
L’epigenetica non è quindi unicamente lo studio delle modificazioni dell’espressione del DNA indotte da fattori esterni, come viene
comunemente affermato. Ma anche e soprattutto dei meccanismi
per cui si stabiliscono modificazioni stabili del genoma e quindi del
fenotipo, soprattutto nel corso delle prime fasi dello sviluppo ontogenetico (Gluckman et al., Early Hum Dev 2005). Alcune di queste
modifiche coinvolgono i gameti e possono esser trasmesse da una
generazione all’altra (trasmissione “transgenerazionale”) (Skinner,
Mol Cell Endocrinol 2014). I meccanismi epigenetici condizionano
dunque profondamente l’ontogenesi: si pensi a come può essere influenzata la sinaptogenesi, le cui alterazioni sembrerebbero essere
all’origine dell’autismo e degli altri disturbi del neurosviluppo, che
abbiamo visto in grande aumento (Lyall et al., Int J Epidemiol 2014).
A questo punto potremmo addirittura affermare che il vero pro-
gramma genetico individuale è quello che si forma nei mesi della
vita fetale ed è profondamente condizionato da fattori esterni, e
non solo quello, dipendente dal DNA originale, formatosi al momento del concepimento. In altre parole vi è il DNA, quasi identico in individui diversi, prodotto nel corso della filogenesi. Ma vi
è anche il programma epigenetico che si forma nei 9 mesi di vita
embrio-fetale in modo attivo, reattivo, adattativo e potenzialmente predittivo. La gran parte delle malattie croniche, degenerative,
tumorali, e anche infiammatorie, la cui incidenza sta aumentando
in tutto il mondo, sono con tutta probabilità conseguenza dei processi adattativi epigenetici. O, per meglio dire, di un mismatch tra
questo programma epigenetico e un ambiente che cambia troppo
in fretta (Gluckman, Hanson. The conceptual basis for the developmental origins of health and disease. In: Gluckman e Hanson,
ed. Developmental origins of health and disease. Cambridge: Cambridge University Press 2006).
Non basta quindi studiare “l’esposoma”: non sono solo i fattori inquinanti a influire sulla programmazione in utero del DNA. È vero
che campi elettromagnetici o molecole inquinanti come ad esempio
gli interferenti endocrini, agiscono soprattutto in questo periodo (con
effetti che si vedranno solo nel medio lungo termine ed anche o soprattutto da una generazione all’altra). Ma anche lo stress maternofetale e la nutrizione materna svolgono un ruolo importante. Gli studi
epidemiologici tradizionali, quindi, non possono che svelare la punta
dell’iceberg (le patologie conseguenti a esposizione diretta a fattori
epigenotossici e genotossici). Se è vero che le principali modifiche
epigenetiche e programmatiche da fattori esterni avvengono nel
corso della vita embrio-fetale o addirittura nei gameti, è evidente
che le principali conseguenze si vedranno dopo decenni o addirittura
nelle generazioni successive: secondo quella che oggi viene definita
Teoria delle Origini Fetali delle Malattie dell’Adulto (Fig. 2). Ed è evidente che gli attuali metodi di studio e valutazione del rischio e del
danno (epidemiologici e tossicologici) dovranno tenere sempre più
conto di questo cambio di paradigma (Gluckman et al., Early Hum
Dev 2005).
263
Tavola Rotonda
Figura 2.
Finestra temporale di suscettibilità per alcune patologie (DOHAD: Developmental Origins of Health and Disease).
Inquinamento e interferenti
endocrini
Sergio Bernasconi
Clinica Pediatrica, Università di Parma
Fabio Sereni: La parola ora a Sergio Bernasconi, dell’Università di
Parma, a voi tutti ben noto come endocrinologo pediatra di chiara
fama, che ci parlerà di un altro, recente, importantissimo capitolo
relativo agli inquinanti, e cioè quello degli interferenti endocrini.
Sergio Bernasconi: 2 Vorrei iniziare con la definizione di interferenti
endocrini o endocrine disruptors (EDs).
Il Comitato Scientifico dell’EFSA (l’Ente Europeo per la Sicurezza Alimentare) ha recentemente suggerito di definire EDs tutte quelle sostanze in grado di possedere un’attività endocrina e di determinare
un effetto collaterale negativo a livello di un singolo organismo sano
o di una sottopopolazione di individui; inoltre è necessario che vi sia
una plausibile correlazione tra questi due aspetti (EFSA Journal 2013).
Gli interferenti endocrini sono ubiquitari, essendo presenti in pesticidi, prodotti per la pulizia della casa e per quella personale, oggetti
di plastica, vernici, apparecchiature sanitarie, polveri. Attualmente
Con la collaborazione del dott. Roberto Caragnulo, Clinica pediatrica, Università di
Parma.
2
264
sono state identificate più di 800 sostanze chimiche che possono
rientrare in questa categoria ma quelle studiate sono molto poche e
va inoltre ricordato che, nei soli Stati Uniti, arrivano sul mercato ogni
anno oltre 2.000 prodotti chimici che, nella maggior parte dei casi,
non vengono testati sul piano tossicologico. Infine molti degli EDs
vengono utilizzati in paesi a basso o medio reddito, in cui spesso
mancano le strutture tecniche di controllo.
Ma la domanda ovvia cui devo cercare di rispondere, dopo avere
sottolineato che l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, e i cibi
che ogni giorno mangiamo sono oggi veicolo possibile di sostanze
tossiche che se assunte in certi periodi della vita possono alterare
l’omeostasi endocrina, è io credo, la seguente: “Quali sono i possibili
danni alla salute determinati dagli EDs, ed è possibile stabilire soglie
quantitative e temporali che non devono essere superate?”.
A questa domanda è difficile, oggi, dare risposte esaurienti. Non vi
è infatti dubbio che i possibili danni che gli EDs possono provocare
sullo stato di salute sono fonte di vivace discussione tra chi sostiene che le evidenze epidemiologiche, cliniche e sperimentali ne
dimostrino l’effetto dannoso (Bergman et al., Environmental Health
2013) e chi non le ritiene sufficientemente robuste per arrivare a
delle conclusioni (Dietrich et al., Chemical-Biological Interactions
2013). Ne consegue che varie organizzazioni e società scientifiche
hanno suggerito un atteggiamento per lo meno precauzionale, in
modo particolare per i periodi a maggior rischio quali la gestazione e l’età evolutiva (Van Den Berg, Lancet 2013) in attesa che i
punti in discussione siano chiariti. Le diverse opinioni trovano una
loro giustificazione in vari fattori che rendono difficile la ricerca in
questo settore (Bourguignon et al., Current Opinion in Pediatrics
2010). Tra questi vanno ricordati: 1) la possibilità che gli effetti biologici non siano dovuti alla singola sostanza generalmente
Ambiente e salute nel bambino
studiata ma all’azione combinata di varie sostanze che possono
avere azioni agoniste e/o antagoniste; 2) la difficoltà a correlare
all’esposizione pre-natale il dato clinico spesso evidente molto
lontano dalla nascita; 3) il fatto che l’azione di molti EDs sia di tipo
non-monotonico e che quindi debba essere studiata con approcci
diversi rispetto a quelli della tossicologia classica (Vandenberg et
al., Endocrine Review 2012); 4) la natura chimica della sostanza
in esame e la sua metabolizzazione. Per esempio il Bisfenolo-A
è moderatamente lipolitico ma viene metabolizzato dopo l’ingestione in forma solubile in acqua e rapidamente escreto per cui
il suo dosaggio nelle urine non riflette necessariamente i livelli di
esposizione cronica. Da tutto ciò consegue che nei prossimi anni è
necessario intensificare le ricerche sugli EDs, utilizzando metodologie che tengano conto e superino i limiti delle esperienze passate
(Zoellere et al., Endocrinology 2012) in modo da giungere ad una
normativa ampiamente condivisa.
Ma per rispondere alla domanda fondamentale che mi sono fatto,
e cioè quali siano gli effetti dannosi alla salute finora dimostrati o,
comunque molto possibili in base ad osservazioni cliniche, mostro
una tabella riassuntiva (Tab. I) pubblicata nell’ormai lontano 2010
Tabella I.
Esempi di azione su vari organi, apparati e sistemi svolta da alcuni EDs (mod. da Bourguignon et al., Current Opinion in Pediatrics 2010).
Organi o sistemi interessati
Fenotipo
Sistema endocrino coinvolto
EDs coinvolti
Alterazioni capacità cognitive
e psicomotorie
Ormoni tiroidei
PCBs, BPA
Ipospadia, criptorchidismo,
aumentata distanza anogenitale
Steroidi sessuali
DES, Ftalati
Apparato genitale femminile
Anomalie strutturali, tumori
Steroidi sessuali
DES
Mammella
Anomalie strutturali; telarca
prematuro; tumori
Cervello
Differenziazione sessuale
Sistema riproduttivo
Testicolo
Prostata
Sistema neuroendocrino
Tessuto adiposo e bilancio energetico
DES, DDT, BPA
Oligospermia; tumori
Ftalati, PCBs
Tumori
Tempo della pubertà;
alterazioni ovulazione;
comportamento sessuale
Obesità viscerale; sindrome
metabolica
DES, BPA, PCBs
DDT, DES, PCBs
PPAR-Y
Steroidi sessuali
BPA
Legenda: BPA= bisfenolo; DDT= diclorodifeniltricloroetano; DES= dietilstilbestrolo; PCBs= bifenili policlorinati; PPAR-Y = peroxisome proliferator-activated receptor gamma.
Tabella II.
Conosci, riduci, previeni gli interferenti endocrini. Un decalogo per il bambino (Ministero dell’Ambiente).
LIMITA O EVITA
1. Evita il ristagno di aria e polvere negli ambienti chiusi dove i bambini piccoli gattonano
o giocano in terra
PRIVILEGIA O SOSTITUISCI
Garantisci il ricambio di aria negli ambienti chiusi ed effettua una adeguata
e periodica pulizia; assicura una corretta manutenzione degli aspirapolveri
(pulizia filtri e camera di raccolta, sostituzione sacchi ove presenti)
2. Se hai pavimenti in PVC contenenti DEHP su cui giocano i bambini, utilizza un tappeto
in fibra non trattata
3. Limita l’uso di capi di abbigliamento per l’infanzia con trattamenti opzionali idrorepellenti o antimacchia
Privilegia capi di abbigliamento di origine e composizione ben identificabili
4. Evita materassi per lettini con rivestimento o telo impermeabile non conforme alle
norme vigenti e comunque evita rivestimenti per materassi in PVC morbido contenente DEHP
5. Utilizza fodere in fibre non trattate se hai fasciatoi e/o passeggini rivestiti in PVC
morbido contenente DEHP; in generale, evita che i bambini entrino in contatto con la
bocca con oggetti in PVC
6. Per scaldare latte, bevande e pappe utilizza contenitori integri e solo secondo le indicazioni del produttore
7. Lascia che i liquidi caldi si raffreddino prima di travasarli in contenitori di plastica non
destinati all’uso ad elevate temperature
8. Lava accuratamente biberon e altri contenitori dopo la sterilizzazione; non utilizzare
biberon in policarbonato (non più consentiti)
9. Abitua il bambino a consumare alimenti freschi e di stagione; risciacqua frutta e verdura in scatola prima del consumo
10. Evita il consumo di alimenti con parti carbonizzate o bruciate
Per la cottura dei cibi destinati ai bambini, privilegia metodi che preservino il
contenuto di vitamine idrosolubili (ad es. cottura a vapore)
265
Tavola Rotonda
da J.P. Bourguignon e AS Parent. Sono state prese in considerazione
quattro sostanze chimiche molto diffuse nell’ambiente.
Da questa tabella dobbiamo sicuramente partire per sollecitare
comportamenti, da parte delle famiglie e della autorità sanitarie, che
limitino, per quanto possibile i rischi.
Il Ministero dell’Ambiente ha pubblicato una serie di raccomandazioni riassunte nella Tabella II, che mostro e che chiude questo mio
forzatamente breve, intervento.
CONCLUSIONI
Fabio Sereni, Franca Rusconi, Generoso Andria
Quando abbiamo programmato di organizzare questa Tavola Rotonda, ci proponevamo di offrire una visione sufficientemente completa dei notevoli progressi che sono stati compiuti negli ultimi anni
nell’accertare i danni che l’inquinamento ambientale può arrecare
alla salute infantile. Se questa informazione è stata trasmessa al
pediatra che ha avuto la pazienza di leggere il lungo resoconto, potremo ritenerci soddisfatti.
Si consideri che non sono passati molti anni da quando clinici, igienisti ed epidemiologi concentravano attenzione e ricerche quasi
esclusivamente sui possibili danni che l’inquinamento poteva indurre sulla funzione respiratoria, e anche, ma in misura molto più limitata, sull’incidenza di tumori e malformazioni maggiori. Gli esperti
convenuti a Palermo hanno chiaramente documentato che l’inquinamento, inteso in senso lato e quindi non solo atmosferico, può
determinare effetti negativi sulla salute e sullo sviluppo del bambino
che fino a poco tempo fa non erano sospettati. Si pensi ai disturbi
266
cognitivi sulla popolazione scolastica, che Jordi Sunyer ha ricordato,
all’attenzione che va posta non solo sull’incidenza di malformazioni
“maggiori”, ma anche sulla incidenza di malformazioni “minori” e
soprattutto su effetti non specifici, come il basso peso neonatale e
la prematurità (Pierpaolo Mastroiacovo), e ai possibili effetti negativi
determinati degli interferenti endocrini, che sono stati illustrati da
Sergio Bernasconi. Così come è aperto l’importantissimo capitolo
delle modificazioni epigenetiche da inquinanti, su cui Ernesto Burgio
ci ha intrattenuto.
Certo che molta strada si deve ancora fare prima di giungere a una
soddisfacente conoscenza delle effettive conseguenze dannose sulle future generazioni dello sconsiderato aumento dell’inquinamento
che ha caratterizzato il nostro pianeta nella seconda metà del secolo
XX e in questo inizio del XXI secolo.
Ma abbiamo oggi, come Forastiere, Iavarone e altri hanno ben documentato, possibilità di monitorizzazioni molto più efficienti che nel
passato, per analisi quantitative e qualitative degli agenti inquinanti,
e anche per una copertura temporale più continua. Manca però un
impegno sistematico e un salto qualitativo delle ricerche, come Magnani, Mastroiacovo e altri hanno ben sottolineato, che contempli il
possibile effetto sinergico di esposizioni multiple, il danno prenatale
o anche trasmesso geneticamente da padre o madre esposti.
Per concludere una considerazione molto generale. A noi sembra
che il significato ultimo e più importante di questa Tavola Rotonda
non possa non essere che un urgente monito alla politica. Per proteggere la salute infantile non è più sufficiente una visione di politica
sanitaria solo o prevalentemente medica. La visione deve essere
allargata, significativamente, con interventi radicali per prevenire
i danni che l’inquinamento non solo atmosferico può arrecare alla
salute del bambino.
Ottobre-Dicembre 2014 • Vol. 44 • N. 176 • Pp. 267
tavola rotonda
Tavola Rotonda di “Prospettive in Pediatria”
Facoltà di Biotecnologie dell’Università Federico II
Aula Magna
Via T. De Amicis, 95 - Napoli
23 gennaio 2015
11.00-14.00
Programmi di screening neonatale per malattie metaboliche ereditarie
Moderatori: Generoso Andria (Napoli), Fabio Sereni (Milano)
I programmi in atto in Europa e in Italia
DomenicaTaruscio (Roma)
Le evidenze scientifiche per le scelte politiche
Carlo Dionisi Vici (Roma)
I provvedimenti legislativi italiani
Serena Battilomo (Roma)
Il punto di vista della sanità pubblica e delle regioni
Paola Facchin (Padova)
Il follow-up e la presa in carico dei pazienti
Maria Alice Donati (Firenze)
Il punto di vista delle Associazioni e dell’opinione pubblica
Manuela Vaccarotto (Padova)
Aspetti etici
Sara Casati (Roma)
La Tavola Rotonda di Prospettive in Pediatria apre il Corso di formazione per pediatri:
L’assistenza pediatrica per le malattie rare: il modello delle sindromi genetiche e delle malattie metaboliche ereditarie
organizzato dal Centro di Coordinamento Malattie Rare - Regione Campania.
Per informazioni sul Corso di formazione (Napoli, 23-24 gennaio 2015) rivolgersi a:
Center Comunicazione e Congressi srl
Via Gaetano Quagliariello, 27
80131 Napoli
Tel: 08119578490 - Fax: 0819578071
[email protected] - www.centercongressi.it
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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2014
presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.
Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa
Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300
www.pacinimedicina.it
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