Presentazione. Le ragioni per un convegno. L’abuso di farmaci oppioidi di prescrizione medica, i cosiddetti pain killer (PK) è divenuta un’epidemia negli Stati Uniti. Basti pensare che nel 2010 il numero di soggetti abusanti si aggirava attorno ai 2.4 milioni, con un aumento del 225% tra il 1992 e il 2000. Nel 60% dei casi questi farmaci sono ottenuti con ricette mediche, il resto viene reperito ormai attraverso internet dove è sempre più facile ottenere farmaci. Ma quest’ultima è una conseguenza, non certo la causa. Il problema è nato dalla penna dei medici. Una prima problematicità riguarda alcuni pazienti affetti da dolore cronico, con uso eccessivo di oppioidi di prescrizione. Un aspetto più preoccupante, segnalato dagli Stati Uniti, è la “tracimazione” dei PK dai pazienti affetti da dolore ai loro familiari, soprattutto agli adolescenti, con un incremento spaventoso dei casi di intossicazione acuta trattati dai Pronto Soccorso. Un terzo fenomeno, non trascurabile, è la dipendenza “da rientro” che l’uso incauto di PK può causare negli ex-eroinomani usciti dai trattamenti. Sempre più giungono alla nostra attenzione pazienti, con un passato di tossicodipendenza ormai risolto da anni, dove l’uso, anche episodico, di un antidolorifico oppioide ha risvegliato craving ed indotto un abuso di PK. Una riflessione sulla dipendenza iatrogena da PK è importantissima in quanto fenomeno destinato, a nostro giudizio, ad interessare in tempi brevi anche la nostra sanità. Perché? Questo problema, in America, è stato alimentato da un cambiamento, negli ultimi anni, nella filosofia del trattamento del dolore cronico, cosa che sta avvenendo da noi solo recentemente. Oggi il trattamento antalgico fa parte, doverosamente, della responsabilità professionale di ogni medico. Sono personalmente distantissimo da un’ idea di dolore "purificante" o da sopportare con dignità. Il dolore acuto serve, ha una funzione di segnale; quello cronico non serve a nulla. Chi soffre cronicamente, soffre per niente. Sono così convinto di questo da dire, con Umberto Veronesi, che è anche il momento per ridare alla cannabis lo spazio che merita nella cura del dolore. Già molte regioni hanno reso accessibile la cannabis ad uso terapeutico. È assurdo, per il resto del Paese, rinunciare ad un potente antidolorifico solo perché ha la "colpa" di essere anche una sostanza stupefacente. Il dolore è il più grande nemico dei malati, annienta la loro dignità, spegne la volontà di combattere la malattia. Il dolore va affrontato con ogni mezzo a nostra disposizione. Però, c’è un però. Nella società vi è una diffusa convinzione che “tutta la sofferenza possa essere evitata” . Oggi molti pazienti pensano che qualsiasi tipo di dolore, fisico o mentale, sia potenzialmente curabile. Il fatto che gli analgesici oppioidi possano dare dipendenza e, peggio, assuefazione (intesa come il bisogno di aumentare sempre più le dosi per ottenere lo stesso effetto iniziale) viene visto come un elemento secondario, spesso non valutato. Per i medici il trattamento del dolore paga, quello delle dipendenze no. Nel secondo caso, infatti, sarebbe necessario concentrarsi maggiormente su una corretta anamnesi, informazione e consulenza, entrambi approcci che richiedono tempo anche se eviterebbero al paziente, col senno di poi, problemi maggiori della malattia di base. Anche nei casi dove si instaura una progressiva insensibilità ai PK, è più facile e remunerativo prescrivere un innalzamento delle dosi che diagnosticare e trattare la dipendenza. E’ doveroso precisare che non stiamo parlando di pazienti oncologici con limitate aspettative di vita, che dovrebbero soffrire il meno possibile, a qualunque prezzo. Questi rappresentano non più del 3040% degli assuntori di PK. La maggior parte dei pazienti di cui stiamo parlando sono soggetti affetti da dolore cronico (low back pain, fibromialgia, cefalea ecc.), con un’aspettativa di vita normale. La valutazione sul tipo di trattamento, quindi, dovrebbe essere frutto di una visione sul lungo periodo. Il recente cambiamento culturale nella Medicina e nella società riguardo al dolore rappresenta una risposta alla prolungata cecità all’esperienza soggettiva del dolore dei pazienti, complicata dall’aumento della prevalenza di sindromi dolorose croniche in una popolazione che invecchia sempre di più. Anche se tale cambiamento ha giovato a molte persone con dolore intrattabile che prima sarebbero state curate incongruamente, esso ha avuto conseguenze devastanti per i pazienti che hanno sviluppato dipendenza e, peggio ancora, tolleranza per prescrizioni disinvolte di farmaci oppioidi. L’ obiettivo sarà raggiunto solo quando la Dipendenza sarà considerata una malattia dalla medicina e dalla società, perché solo allora essa sarà trattata come legittimo oggetto dell’attenzione clinica. Le recenti facilitazioni prescrittive, sacrosante se ben usate secondo scienza e coscienza, sono un secondo fattore che rende ragione di tale disinvoltura prescrittiva. La triade ignoranza, pressione culturale contro il dolore “ad ogni costo” e facilità prescrittive è la chiave di lettura per prevedere che, in breve, il fenomeno americano verrà replicato da noi in modo ancor più grave. Già il nostro reparto di Medicina delle Dipendenze ha visto quintuplicare tali richieste d’aiuto negli ultimi 2 anni. E’ di cruciale importanza che la patologia “dipendenza da uso di sostanze” venga insegnata maggiormente nel corso di laurea e nelle scuole di specializzazione, al fine di portare ogni medico a riconoscere i pazienti a rischio di abuso (in cui usare con molta cautela i PK, o certi PK) ed i segni precoci da abuso per poter intervenire in tempo. Con il nostro convegno vorremmo iniziare a fare la nostra parte. Vi aspettiamo perché voi iniziate a fare la vostra. Fabio Lugoboni Resp. Unità di Degenza Medicina delle Dipendenze, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona Scuola di specializzazione Medicina Interna e Psichiatria, Università di Verona