I Percorsi della "speranza" - Biblioteca Provinciale di Foggia La

Giuseppe De Matteis
I Percorsi della “speranza”
di Giuseppe De Matteis
Il lavoro analitico proposto da Giuseppe Normanno in questo saggio sulla
speranza (L’avventura di Elpìs. Sentieri e labirinti della speranza, Milella Editore,
Lecce, 2000, pp. 250) e sulla possibilità umana di sperare ancora è molto interessante. Diviso in due sezioni, la prima parte è posta sub conditione di problematicità
storico-filosofica, la seconda - completa, ben riuscita e personale - è invece tutta
volta a determinare uno “sperare - disperare” adeguato alla realtà che viviamo. Sperare “nonostante tutto” è l’obiettivo unico che il nostro autore si pone, sia nei confronti dello sperare come riflessioni filosofica, sia come logico inquadramento di
percorsi della speranza che conducano l’uomo verso la costruzione di utili rapporti
con la Natura, con la divinità, con la Giustizia, che vadano oltre i settarismi, i
formalismi, gli integralismi che nell’oggi ci opprimono e ci attanagliano. L’“Essereper-la-speranza” è la condizione di vita che ci permette di superare l’angoscia e di
non considerare quell’“essere-per-la-morte” come paradosso della vita stessa1. È
un ripristinare il “fondamento caduto”; è il rinumerare le scelte che Prini descrive
nel suo volume sull’esistenzialismo2; è il rideterminare il singolo (Enkelte): obiettivo non solo di Kierkegaard, ma anche di ogni nuova determinazione della modalità
di sperare. Per questo l’avventura di Elpìs è percorso che si muove labirinticamente
in una doppia speranza: quella di “sperare-di-sperare” e quella di rintracciare il
giusto sentiero attraverso cui esprimere la morale e l’etica. Anche la presa di posizione del nichilismo di Friederich Nietzsche va letta in questa doppia dimensione:
“Dio è morto”, perché scompare la sua idolia e questo ci spinge a cercare un altro
Dio, interiore e nascosto, di cui bisogna delimitarne la funzionalità e l’appartenenza al “noi”. Questa ricerca è speranza di trovarlo per radicarlo nuovamente (in noi)
come esistente che si materializza nell’essenza della nostra esistenzialità. In primis,
quindi, il Nichilismo è anche esso ontologia, dotato di ragioni storiche e filosofiche
che, riguardando etica e morale, devono, partendo dall’ “infinita vanità del tutto”,
ricostruire il senso stesso della vita e del suo rapporto con il mondo.
Nei fratelli Karamazov, come in Leopardi o in Nietzsche, ciò che stupisce e
colpisce, e Normanno acutamente lo segnala al lettore, è proprio questa dualità
1
2
GIUSEPPE NORMANNO, L’avventura..., cit., p. 133.
PIETRO PRINI, Storia dell’Esistenzialismo. Da Kierkegaard ad oggi, Roma, 19911, pp. 5-10.
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esistente tra insensatezza (nel senso della “mancanza di senso”) e ricerca ossessiva
di un senso nuovo. Tra sensatezza e insensatezza traspare la volontà di dominio
dell’autentico sull’inautentico che scarta aprioristicamente quel “bivio della tecnica”, da cui “si dipartono il sentiero dell’Occidente ed il sentiero non percorso dove la
verità non è potenza sul divenire” 3. Quindi la speranza è, non il dominio e la fede
nel divenire4, bensì (anche) la speranza nel superamento dell’angoscia: nel
superamento, cioè, del Nulla come incompleto rispetto alla totalità dell’essente5. La
speranza allora è un “labirinto vertiginoso” 6 che, se pensato per assurdo, può essere
esorcismo del Nulla e mostrarsi epifanicamente. Da qui, disperazione e speranza
divengono non opposti ma contigui, anzi complementari l’uno all’altro. La disperazione è il viatico per la speranza; è il disvelamento dei simboli di non-ritorno
che divengono opzione fondamentale per sperare ed esistere perennemente (o
ciclicamente) nel vivere stesso 7. È questa istanza che è connaturata al bello, o meglio all’attimo in cui lo percepiamo come tale 8 quando, penetrati nel labirinto della
disperazione, riusciamo ad individuare la sua valenza fanica. Soltanto quest’ultima
è l’arma che usa il nostro autore per sconfiggere la disperazione delineata da
Kierkegaard.
Il “voler morire senza poter morire” 9 è alla base della coscienza umana, è
ontologia che impedisce di tollerare l’altro e ci annega nell’anonimia. È un amor
mortis che però, proprio per quella contiguità tra disperazione e speranza di cui
parlavamo prima, comunque non è assoluta, bensì porta in sé i germi della speranza stessa. Una “piccola via” - così la definisce Normanno - che dà agli altri oltre che
a se stessi, sublimando dolore ed angoscia del sé in quell’attimo estetico ed
ermeneutico al tempo stesso che è la scoperta di sperare. È chiaro che la speranza in
sé non può fermarsi di fronte alla morte se si è credenti, problema, per chi crede,
escatologico e palingenetico; chi si dichiara non-credente, invece, deve accettare la
resa leopardiana dell’Ultima dea. Resa filosofica, non teologica o dogmatica, che
però non annulla completamente la speranza stessa. Fede e Ragione, di fronte alla
morte, devono scegliere in maniera del tutto autonoma, universalizzandola o
spersonalizzandola, devono renderla, in pratica, fatto altrui, che riguarda l’uomo e
allo stesso tempo non lo interessa come principio universale ma come puro soggetto. Solo così si può scegliere o non scegliere (eticamente ancora una volta), ad esem-
3
Emanuele SEVERINO, La follia dell’angelo, Milano, 1997, p.82.
SEVERINO, cit, p.70.
5
SEVERINO, cit, p.83.
6
Giuseppe NORMANNO, L’avventura..., cit., p. 133.
7
Aldo CAROTENUTO, Vivere la distanza, Milano, 1998, p.135.
8
Bruno FORTE, La porta della bellezza. Per una estetica teologica, Morcelliana, Brescia, 20003; A. Kenny,
God ad Necessity, in “British Analytical Philosophy”, 14, 1961.
9
Soren KIERKEGAARD, La malattia morale, in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, 1953, p.343 e sgg.;
sullo stesso argomento, cfr. anche S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, vol. IV, Morcelliana, Brescia,
1980-1983, p.97; Cornelio FABRO (a cura di), Studi kierkegaardiani, Brescia, 1957; B. Olivier, La speranza, in
Iniziazione teologica, III, Brescia, 1955, pp. 441-496; Josef PIEPER, La speranza, Brescia, 1953.
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pio, l’eutanasia. E Normanno, che del problema si è già occupato10, subito sembra
schierarsi per una negazione del diritto a morire, almeno secondo quanto affermato
in silloge al discorso di liceità dell’eutanasia in Kung11. Ma su che basi l’autore chiude al “diritto di morire” (per citare il bel saggio di H. Jonas12)?
Assodato che egli parte da un’assenza di speranza, nell’eutanasia come nel
suicidio, affermato che la comprensione per il gesto va nettamente separata
dall’illiceità o la liceità dell’azione, Normanno pone le basi per un’accettazione
migliore del dolore “educando al sacrificio ed alla sua sublimazione” 13. Di per sé, la
“sublim(e)azione” del sacrificio non è una speranza, ma soltanto una scelta che
porta a sperare in meglio ed in maniera più realistica, poiché antirealistica invece è
la dimensione del dolore. La vita allora è continua preparazione al dolore ed alla
morte che si fanno speranza valida e compiuta nel momento in cui la nostra stessa
vita si costruisce silenziosamente e degnamente nel dare e nel darsi agli altri e nel
ricordare gli altri: solo così si supererà il tempo14. “Non omnis moriar”: l’“urna de’
forti” è la resurrezione laica (o del non credente), mentre quella evangelica della
Passio è propria del credente. Per questo i labirinti della speranza vanno riconosciuti, interpretati e percorsi in tutta la loro lunghezza come holzewege solitari
certo, ma perfettamente percorribili in ogni momento e tappa dell’esistere, senza
mai perdere di vista la dimensione vera del proprio Io nel confronto con il mondo
e considerando sempre la meta da raggiungere come sofferenza del “non-mai-nascosto” che si presenta evidente al cieco che la guarda.
Ancora una volta le parole di Soren Kierkegaard divengono una sorta di guida decisiva: “Lo scopo di questa vita è di essere portato al più alto grado di noia della
vita. Colui il quale è arrivato a questo punto può resistere (o superare n.d.r.)”. Propagare la “verità sofferente” ed avere speranza significa per il filosofo danese - e per
Normanno - educare ad essa, creando testimoni che sappiano mostrarla15. Ancora
un problema di etica: la speranza, per essere tale, deve essere costruita su di un
terreno etico, non utopico ed equo, in cui la sensazione dell’angoscia si perda nel
gioco utile delle distinzioni morali e della comprensione del fatto come pura eticità.
Per questo non si può che sperare nel possibile, vero orizzonte (e quindi limite) tra
utopia e distopia. Essendo anch’essa un fondamento ontologico, la speranza non
deve anche precisarsi in forme preordinate, storicamente poste ed ermeneuticamente
tassellate, disposte a coprire ogni vuoto che si presenti nello spazio delimitato da se
stessa come forma. Aveva dunque ragione Walter Benjamin ad affermare che “solo
chi è assolutamente disperato può avere ancora speranza” e ciò proprio perché la
10
Giuseppe NORMANNO, Il senso della vita e della morte nel pensiero contemporaneo. Riflessioni filosofiche sull’eutanasia, in F. Bellino (a cura di), Trattato di bioetica, Levante, Bari, 1992, pp.591-600
11
NORMANNO, L’avventura..., cit., p.166
12
Hans JONAS, Il diritto di morire, Genova, 1985
13
NORMANNO, L’avventura..., cit., p.169
14
NORMANNO, L’avventura..., cit., p.170
15
NORMANNO, L’avventura..., cit., p.176
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speranza è il limite preciso che separa l’apparire dall’essere, l’ideologia dall’utopia.
La speranza è il connotato che caratterizza l’appartenenza all’essere della sua essenzialità e perciò non può essere solo uno stato d’animo, bensì deve essere un’aspirazione al bene e all’utile per noi, a prescindere da ogni sua effettiva e compiuta realizzazione.
La disperazione, nel divenire speranza, deve aggirare quella negativa condizione che Ernst Bloch aveva individuato nella “ontologia-del-non-ancora” e che
interessava proprio la condizione particolare ed utopica della speranza come attesa
in continuo divenire. Un’“attesa-dell’attesa” che diventa illusione e che condiziona
in negativo la vita dell’uomo. Solo nel suo superamento e nella codificazione di una
istanza del darsi e del concedersi si determina invece l’essenza della speranza e si
evidenzia il momento in cui, citando Karl Barth, “compiuto il passo successivo” simbolo stesso dello sperare fattibile e produttivo - si individua e si delinea il termine in cui il viaggio di Elpìs trova la sua definitiva, conclusiva e concreta risoluzione16. La speranza, essendo ontologicamente legata all’essere, non può essere pensata come non-esistente rispetto alla sua esistenza fattiva17 e come l’essere, di conseguenza, è necessaria anch’essa soprattutto là dove può essere oggetto nella filosofia
analitica e non solo della metafisica18.
16
A proposito della produzione di Karl Barth ed Ernst Bloch rimandiamo qui soltanto a quanto indicato
in Pier Cesare BORI, Barth Karl, voce in Enciclopedia di Filosofia, Milano, 1993, pp.91-92; G. Vattimo, Bloch
Ernst, voce in Enciclopedia di Filosofia, Garzanti, Milano, 1993, pp.118-119; D. Morando, Barth Karl, voce in
Enciclopedia di Filosofia, vol. I, Milano, 1957, coll.580-581.
17
J. H. HICK, God as Necessary Being, in “The Journal of Philosophy”, 57, 1960, pp.725-734.
18
Pier Cesare RIVOLTELLA, Essere necessario e filosofia analitica, Padova, 1994.
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