Ermanna Montanari / fare-disfare

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 13 gennaio 2013 La voce incantata: un libro di Laura Mariani su Ermanna Montanari di Massimo Marino -­‐ Controscene Tre premi Ubu come migliore attrice protagonista, una presenza carismatica in scena, Ermanna Montanari è ora la protagonista di un ampio e denso studio, Ermanna Montanari: fare-­‐
disfare-­‐rifare nel Teatro delle Albe, edizioni Titivillus. Glielo dedica Laura Mariani, storica del teatro docente al Dams bolognese, interprete sensibile di artiste della scena come Sarah Bernhardt, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse. Ermanna Montanari è la bandiera del ravennate Teatro delle Albe, fondato con Marco Martinelli, in un’avventura di creazione e di vita iniziata nel 1977. La sua recitazione è musica, è affondo nel dialetto, è sensibilità pulsante e ferita, capace di ricostruire e inventare mondi. «Dell’idea di un libro a me dedicato – ci confida l’attrice – rimasi sorpresa, come oggi sono sorpresa nel vederne la consistenza. Farlo è stato un vero e proprio incontro, un’occasione per ripensare il mio lavoro e quello delle Albe, per riordinare il mio archivio e i miei pensieri. È stato un cammino lungo, iniziato con la proposta di Laura che è arrivata, a sorpresa, mentre recitavo Sterminio, proseguito con lei che ha seguito da vicino la lavorazione dell’Avaro di Molière e il festival di Santarcangelo che ho diretto nel 2011, dove ponevo il nodo dell’attore, io che faccio sempre fatica a dirmi attrice, che ci sono arrivata con grande fatica. È un incontro, la visione militante di una storica del teatro, un’opera che mi onora, anche perché mi sono laureata col marito di Laura, con quel grande studioso che è stato Claudio Meldolesi. Ed è una cosa strana vedere un libro su di me, che mi sono accostata al teatro grazie ai libri di Artaud, di Kantor, di Grotowski. Spero che rappresenti uno stimolo per giovani che oggi non mi conoscono». Il senso di questa bella monografia di 344 pagine (euro23), con una ricca documentazione fotografica e con utili apparati (teatrografia, scritti di Ermanna Montanari, struttura e date del Teatro delle Albe, indice dei nomi e degli spettacoli), ce lo illustra bene l’autrice. Perché dedicare un libro a Ermanna Montanari? «Perché è una delle attrici più significative, originali e potenti del nostro teatro di ricerca. Affrontare singole storie di artisti permette di offrire tasselli per ripensare complessivamente la storia della scena italiana dagli anni ’80 in poi». Tu ti sei è occupata di grandi attrici del passato. Inserisci Ermanna Montanari in un discorso sulla specificità della presenza femminile a teatro? «Trovo in lei una particolarità di vissuto del mestiere attorico che permette un’armonia tra corpo e mente, una sensibilità capace di sentire e provocare emozioni di grande importanza che inserisco in quel sapere delle attrici preziosissimo per capire il in mondo delle donne in modo non ideologico, non separato da quello maschile». Perché hai diviso il tuo studio in due parti? Una che traccia la storia più lontana della nascita dell’attrice e l’altra, che chiami Canzoniere, che analizza i motivi portanti del suo cammino? «Il problema che mi sono posto è come si racconta un’attrice vivente, un mondo in divenire, un’esperienza non ancora conclusa. La prima parte storica si chiede da dove viene, come ha cominciato e si è formata una personalità con una cifra così originale, con una professionalità così spiccata, quasi maniacale. E quell’origine si ritrova nel rapporto di crescita fuori dalle scuole insieme con il suo gruppo, insieme con il suo compagno d’arte e di vita Marco Martinelli, regista e drammaturgo delle Albe, a partire significativamente, con Marcella Nonni e Luigi Dadina, dall’impegno nel movimento del ’77; ma oltre l’impegno politico e sociale, alla ricerca di un’espressione di sé oltre i limiti dell’ideologia». E il Canzoniere? «Vuol dire, come fa Mirella Schino nel libro su Eleonora Duse, vedere i singoli spettacoli come motivi, come tappe di un unico percorso-­‐mondo, per ricostruire l’arte di Ermanna senza vincolarmi alla linearità storico-­‐biografica». Quali sono le qualità più spiccate di questa attrice? «Ermanna ha un mondo molto forte e connotato, che rimanda all’infanzia a Campiano, un paese a pochi chilometri da Ravenna, nella Romagna più profonda, contadina, patriarcale, arcaica. Quella terra la segna fortemente con un magma originario mai del tutto domato. La sua vicenda professionale vive nel rendere non solo autobiografico questo mondo, nel trasformarlo in esperienza condivisibile, con una precisione che direi orientale, lavorando su personaggi femminili molto particolari, la Raffè di Confine, la monaca Rosvita, Beatrice Cenci, Alcina…» Dedichi molto spazio anche all’analisi del lavoro sulla voce. «Quello di Ermanna è un lavoro eccezionale sul suono, sul legame voce-­‐corpo e sulla figura. Cerco di capire dove nasce quella voce così radicata profondamente nel corpo oltre l’aspetto razionale; una voce che viene da una musica interiore, personale, che deve diventare musica per lo spettacolo, condivisa». La Montanari ha lavorato anche con musicisti come il compositore Luigi Ceccarelli nell’Isola di Alcina di Nevio Spadoni, nella Mano, opera rock da un romanzo di Luca Doninelli, in Ouverture Alcina… «E proprio Ceccarelli ne rileva l’estrema precisione. Quegli spettacoli sono registrati alla Siae come melologhi, come brani recitati su partiture musicali. Le loro scansioni avvolgenti e implacabili nascono spesso dal dialetto di Campiano, da una lingua morta che diventa lingua scenica pulsante, che parla per via emotiva e arriva anche a chi non intende il senso di quei suoni gutturale». Come segui e ritrovi nell’opera di Ermanna Montanari quello che è un interesse di altri tuoi studi, quello delle attrici che recitano en travesti? «In questo caso non possiamo parlare direttamente di travestimento teatrale. Ermanna crea figure sceniche dall’interno: e queste possono essere maschili, come Arpagone nell’Avaro di Molière, femminili, o anche asinine, come in Siamo asini o pedanti. Non si basa mai, però, su un facile travestimento: cerca la voce più profonda di quello che non chiama personaggio, ma figura scenica. Lei parla della necessità di “scontornare”, di togliere connotazioni sessualmente o socialmente troppo determinate, per approfondire». Come lo hai scritto questo libro? «Osservando da vicino e raccontando. Mettendomi davanti all’arte e all’artista, per provare a ricostruirne l’identità nel suo aspetto più prismatico. È un modo di fare storia del teatro complicato ma affascinate, perché si catapulta nella vita del teatro». a
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9 febbraio 2013 Ermanna Montanari / fare-­disfare-­rifare nel Teatro delle Albe Laura Mariani ERMANNA MONTANARI fare-­‐disfare-­‐rifare nel Teatro delle Albe Titivillus Mostre Editoria 2012 Certi artisti sono un suono. Ermanna Montanari è la vibrazione di uno strumento tagliente dell’anima, e questo suo manifestarsi acuminato, questo suo caustico incidere le spirali del silenzio, questo suo sferzare i timbri di un ascetismo da violare, tutto questo suo ferire, lacerare e affilare è un fenomeno intercettabile in più immagini che sono un urlo raffermo nel volume a lei dedicato da Laura Mariani. Strepitante, arcana, la sua voce, nella postura a terra in “Ruh. Romagna più Africa uguale”. Muta e persa, la sua consonanza comunicativa, in “Siamo asini o pedanti?”. Estatica e pittorica, la sua concezione espressiva in “Rosvita”. Aerei e lunatici, i suoi fondamenti assertivi in “Lus”. Stentorea e imperativa, la sua indole verbale in “Perhindérion”. Ieratica e olimpionica, la sua dirittura significante ne “I Polacchi”. Algebrica e favolistica, la sua armonia enunciatoria ne “L’isola di Alcina”. Battagliera e di monito, la sua fisionomia assertrice ne “La mano”. E modularmente spietata, la sua arte del pronunciare in “Leben”, in “Sterminio”. E cereo, il suo raccontarsi ne “L’avaro”. “Mi vedo ferma e fremente. L’imporsi di stare immobile porta brividi di carne, di voce, di vento, di sangue”. Così Ermanna Montanari percepisce se stessa. È quello sguardo di bellezza distaccata, di fascino magnetico, a evocare un mistero che chiede di non essere svelato. È quella bocca su cui ha dormito a lungo la vergogna delle parole a mormorare il racconto, un flusso di memorie, una stratificazione di linguaggi, l’incontro di mondi. È un viaggio in divenire, quello descritto da Laura Mariani, che tesse la storia delle Albe con grovigli di materia e melodia. La intreccia con trame robuste, di una Romagna patriarcale, arcaica, immaginifica, e fili sottili, di un teatro fatto e non imparato, di un mestiere conquistato e non impartito. Puntuale, meticolosa, è la ricostruzione del percorso artistico, individuale, di coppia, di gruppo, dal legame con Marco Martinelli, compagno di scena e di vita, alle sperimentazioni del sessantasette, agli incontri con i grandi maestri e con i griots senegalesi, alla costituzione di una comunità teatrale bianca e nera, umana e asinina, che esprime in “Siamo asini o pedanti” dell’89 la fatica che si fa forza e l’ignoranza che diviene sete di conoscenza. Partecipante, partecipato, affidato alla scrittura dell’attrice romagnola, il ricordo delle origini campianesi, in apertura di un Canzoniere che rende conto con frammenti, appunti inediti, immagini, delle anime vissute, da Rosvita, amalgama di religiosità e carnalità, ad Alcina, bufera di malìa e magia. Ermanna è un nome maschile che si addentra in un minuto corpo femminile, è la potenza che esplode dalla fragilità, è un ritmo arcano che emerge dalle profondità come suono gutturale e voce ferrosa. È il richiamo violento della terra, un magma di asprezza contadina e durezza dialettale. È un’istintività che si tramuta in rigore, in orientale e maniacale precisione. In un libro che è narrazione, ritratto e cronaca, Laura Mariani ha saputo spiare l’interiorità, restituire la ritualità, fotografare, senza scioglierlo, quel grumo materico, cavernoso, segreto, e tracciare un cammino ancora da fare, disfare, rifare. (rodolfo di giammarco / rossella porcheddu) 8 marzo 2013
La storia di Ermanna raccontata da Laura
È difficile leggere un libro di teatro come fosse un romanzo, un racconto, cioè capace di coinvolgere, emozionare, interessare, incuriosire. Laura Mariani, docente (di Teatro moderno e contemporaneo e Storia dell’attore all’Università di Bologna), storica del teatro, ha fatto davvero una operazione interessante e spericolata con “Ermanna Montanari, fare-­‐disfare-­‐rifare nel Teatro delle Albe” (edizioni Titivillus), titolo molto “femminile” di una biografia artistica e umana, altrettanto molto “femminile” come è quella di Ermanna Montanari, attrice che con Marco Martinelli (foto in basso) ha fondato le Albe di Ravenna e che con una sua personale ricerca espressiva sulla voce e sul suono ha segnato il nuovo teatro italiano anni Novanta e Duemila. Il libro atipico – e non a caso verrà presentato a Roma domani alle 17 in un luogo altrettanto atipico, la Casa internazionale delle donne con Ferdinando Taviani, l’autrice, l’attrice e la sottoscritta – intreccia la sapienza del libro di storia del teatro, alla vita dell’attrice, alle sue sensazioni, alle sue memorie, incontri, paure, successi. Laura Mariani, in questo, ha compiuto il piccolo miracolo di intrecciare l’approfondimento proprio dello storico del teatro, alla curiosità tutta femminile di scavare nella vita e nella storia personale e rintracciare anche nella vita di Ermanna il suo particolare modo di vivere il teatro e di essere attrice. Tre volte premio Ubu (”miglior attrice”), in scena a Roma fino a domenica al Teatro Palladium con con Poco lontano da qui insieme a Chiara Guidi, in un connubio inedito tra i loro due teatri, Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe, Ermanna Montanari – che il libro racconta attraverso un doppio binario: da una parte, il percorso che dalle sue radici contadine nella campagna romagnola l’accompagna alla scelta poco più che adolescente di fare teatro; e dall’altra la serie di scritti e diari d’artista – tra le attrici contemporanee è quella che più ha incarna l’identità femminile in un metodo di lavoro che non è razionale, lineare, consequenziale, ma che procede per affermazioni e cancellazioni, seguendo un percorso più tortuoso e per questo più profondo, un fare e disfare, quasi misterioso e profetico. Anche per questo il libro sulla sua vita artistica è interessante: perchè afferma che la storia teatrale non è una sequela di fatti e spettacoli ma il puzzle che compone biografia personale,spinte poetiche e cultura collettiva. aprile 2013 Immaginatevi una biblioteca. L’Odin, le Albe e la scrittura È una foto di gruppo del teatro degli ultimi decenni. 50 anni, quella dell'Odin Teatret di Eugenio Barba, fondato nel 1964 a Oslo per poi stabilirsi a Hostelbro, Danimarca. 30 quella del Teatro delle Albe, fondato a Ravenna da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari nel 1983. Lo scorso 21 marzo 2013, al Teatro Rasi, un incontro ha voluto festeggiare questi percorsi, riuscendo però a tenerli sospesi nell'inquietudine del racconto e dell'interrogazione, evitando la celebrazione. Coordinato da Marco De Marinis, l'incontro voluto dalle Albe aveva un presupposto semplice, di quella semplicità possibile solo perché estremamente densa. Si partiva dai libri delle attrici, dalla necessità di depositare in una forma scritta l'incedere spesso sommerso delle creazione attoriale, e dalla nostra consapevolezza di trovarci di fronte ad attrici/autrici in grado di aumentare le visioni delle rispettive compagnie, e non solo di servirle. Si partiva da quello spazio letterario del teatro in diretta relazione con l'attore, da quella definizione di Stefano De Matteis riportatata da Taviani in Uomini di scena, uomini di libro e qui indagata al femminile: «Attore-­‐che-­‐scrive è un modo per non dire scrittore». Si partiva, dunque, da Tracce. Training e storia di un'attrice dell'Odin Teatret di Roberta Carreri (Il Principe Costante, 2007), da Il Cavallo cieco. Dialoghi con Eugenio Barba e altri scritti di Iben Nagel Rasmussen (Bulzoni, 2006), da Pietre d'acqua. Taccuino di un'attrice dell'Odin Teatret di Julia Varley (Ubulibri, 2006), e da Ermanna Montanari. Fare-­disfare-­rifare nel Teatro delle Albe di Laura Mariani (Titivillus, 2012). Insieme alle attrici e al coordinatore Marco De Marinis, erano presenti all'incontro Marco Martinelli, Eugenio Barba e la regista Annamaria Talone, che ha raccontato la sua esperienza nella rete internazionale femminile Magdalena Project e il Magfest a Pescara, partita dal «desiderio politico di avere visibilità nel territorio, come donna e come artista» (lo testimonia il libro Dal Magdalena Project al Magfest: un percorso sul teatro al femminile in Italia curato da Giula Palladini, Editoria & Spettacolo, 2012). Le note che seguono tentano di restituire una traccia dei discorsi fatti all'incontro, rielaborando le parole degli artisti o citandole (e, in questo caso, segnalandolo fra virgolette). Trattasi dunque di un materiale di lavoro e non di una trascrizione, una parziale restituzione speriamo utile per preservare qualche frammento di memoria (Lorenzo Donati). Marco De Marinis: «Immaginatevi una biblioteca» Il docente dell'Università di Bologna parte dal '700, per tratteggiare un rapporto fra scrittura e attore che è sempre stato presente. Se ai tempi di Isabella Andreini gli attori e le attrici scrivevano molto (poesie, trattatti), dalla fine del '700 prende piede una forma di scrittura memorialistica che punta meno in alto, scendendo nell'aneddotica, nel petegolezzo e nella polemica, rivolgendosi principalmente al pubblico di fan. Al centro della scrittura viene messa l'autobiografia, e non è un caso che una figura come Elonora Duse fosse refrattaria a tale modo di scrivere di sé. Con il '900 si torna alle origini, e l'andamento autobiografico esce dalla pagina per investire la scena stessa. «Da Stanislavskij a Grotowsky, la memoria corporea del vissuto diventa scena». Quello che resta sulla pagina, allora, sono scritti spesso teorici, per addetti ai lavori, in cui si discute di tecniche. In particolare il secondo '900 fa emergere figure femminili, ne sono esempio i percorsi dell'Odin Teatret e del Teatro delle Albe. Le attrici e gli attori dell'Odin da alcuni anni prendono parte alla scrittura dei programma di sala, costruendo testi. Immaginatevi una biblioteca. L'Odin, le Albe e la scritturache raccontano delle peripezie, delle liti, delle difficoltà della creazione. Si parte dunque da una domanda essenziale: le attrici, perché scrivono? Iben Nagel Rasmussen: «Una nave nel mezzo di un mare gelato» Il regista di fronte al processo creativo è come una nave nel mezzo di un mare gelato, o un cavalllo che non vede e si lascia portare, dice la Rasmussen. Il libro è stato scritto per provare a vedere quello che sta sotto, per trovare una concretezza, per indagare le forze buie, alcune delle quali rendono ciechi, altre danno conoscenza. Per non fermarsi alla superficie delle cose, come quando John Lennon scrisse Lucy in the Sky with Diamonds o Strawberry Fields Forever, e ci si vollero vedere a forza dei riferimenti alle droghe, alla Lsd. Nel libro Eugenio Barba racconta il lavoro di Iben, e in qualche modo Iben racconta quello di Eugenio da una prospettiva che non è quella del regista. Si tenta di andare verso le esperienze radicate dentro di noi, come accade ne La vita cronica, che riporta all'infanzia di Barba (l'ultimo spettacolo prodotto dall'Odin, 2012, n.d.r.) Roberta Carreri: «Avevo 14 anni e non riuscivo a dormire» La Carreri evoca un episodio dell'adolescenza, quando nella sua stanza sentiva dei tonfi e non poteva dormire. Avrebbe capito, in quel momento, che l'uomo è un essere mortale, perchè i tonfi che udiva erano i battiti del suo cuore. Poco dopo, ha assistito a una replica dello spettacolo dell'Odin Mins fars hus, dove le è accaduto di fondersi con l'opera, avvicinandosi a una sorta di trascendenza. Ha così deciso di seguire a una dimostrazione di training, in cui vedeva «delle persone che facevano quello che dicevano». Si è così fermata all'Odin per scappare dall'ambiguità delle parole, mettendosi in una condizione legata al fare, partendo da una sua personale condizione in cui il corpo non faceva quello che avrebbe voluto la testa. Il libro nasce da una richiesta che inizialmente la Carreri aveva rifiutato, quella di trascrivere Orme sulla neve, una dimostrazione di lavoro. Ci sono voluti due anni per trasformare in parole quello che il suo corpo ormai sapeva bene. «Dicono che nella vita sia importante piantare un albero, fare un figlio e scrivere un libro. Ho fatto tutte e tre, ora posso morire!» Julia Varley: «La scrittura non rispetta per nulla la logica del corpo» Julia Varley dirige da qualche tempo il Transit a Hostelbro a fine maggio. Ogni anno viene individuato un tema attorno al quale si riuniscono figure femminili nel teatro contemporaneo. Anche nella locandina del festival, che l'attrice mostra al pubblico, è presente un testo, inteso come la necessità di mettere in parole qualcosa che si ha dentro. Scrivere significa tradurre il linguaggio del corpo, che ha leggi autonome, per esempio legate al modo in cui il sangue circola. «La scrittura non rispetta per nulla la logica del corpo». Scrivere, secondo la Varley, significa lasciarsi andare, essere presenti senza volere imporre il proprio io. La scrittura è qualcosa che ti è estratto e che non si deve volere determinare del tutto. «Scrivere è costruire una forma che non sei tu a volere imporre, ma che ti viene chiesta (dagli alberi, dalle stelle, dai colleghi, da una rete di persone)». Allora molto sta nel riuscire a parlare di sé senza parlare di io, mettendo al centro l'esperienza, sottolinea la Varley. La necessità di scrivere ha molto a che fare con la protesta, e anche per questo è una sfida creativa fortissima. In una sessione dell'Ista (International School of Theatre Antropology) in Portogallo, racconta la Varley, il tema messo al centro era quello dell'organicità, descritto come un effetto, come qualcosa che appartiene esclusivamente alla percezione dello spettatore e che gli attori non possono riconoscere. Quella tesi ha prodotto in lei una rivolta, perchè come attrice è profondamente convinta di potere percepire l'organicità, tutte le volte che si riesce a mettere in atto una reazione verso la meccanicità. La grande difficoltà della scrittura resta nel fatto che «le 5 parole che scrivi rimangono quelle, non si trasformano in base ai contesti, alle storie». Per questo, molto del lavoro che ruota attorno alla scrittura riguarda l'esperienza: occorre tradurre quanto si legge nella propria esperienza. Per questo motivo il titolo del libro è Pietre d'acqua, l'idea dell'instabile nello stabile, l'accento messo sul fluire, sul cambiamento. Altro versante del ragionamento di Julia Varley riguarda l'assenza delle donne dalla storia del teatro, in particolare guardando ai “padri” del 900. Dove sono le donne? Perché le donne sono emerse solo in quanto attrici? Si parla di donne nel privato, si parla di linguaggi personali. Allora, probabilmente, il linguaggio personale femminile non ha fatto il salto, non è riuscito a mettere sottosopra le logiche dominanti della storia, anche di quella teatrale. Le donne e il pensiero femminile potrebbero far ritrovare, conclude l'attrice, un significato alle parole: «potremmo chiamare la regia “conduzione”, evocando l'elettricità». Ermanna Montanari: «Abbiate paura delle cose grandi e abbiate il coraggio di affrontarle» Inizia con tale verso di Nino Pedretti il discorso della Montanari. Ermanna racconta come per anni la sua scrittura sia rimasta privata, condivisa solo all'interno della comunità del Teatro delle Albe. La sua scrittura si è sempre pensata in una relazione con lo scrittore delle Albe, Marco Martinelli, in dialogo con la sontuosità delle sue architetture drammaturgiche. «Io ho il respiro corto sulla scrittura, devo essere spinta, devo individuare una grazia che quasi sempre scaturisce dall'esterno». Così, nel suo percorso, ci sono state persone che l'hanno spinto a scrivere. Una di queste, la più «severa», è Julia Varley. A più riprese la Varley ha sollecitato Ermanna (in un rapporto di rispetto, timore e amore) a prendere la parola scrivendo interventi su riviste, portando avanti l'idea di un'artista femminile che deve avere una sua voce, «non solo come fatto vocale». La Montanari racconta alcuni dei suoi punti di partenza per la scrittura, legati spesso a immagini: un albero, delle ciliege. L'esterno è come un magma che va ascoltato e trovato dentro di sé. Per costruire il libro (firmato da Laura Mariani, ma nato da un continuo confronto con l'attrice, n.d.r.) la Montanari ha consegnato alla studiosa dell'Università di Bologna un dossier fotografico, sorta di viaggio psichico dell'attrice nelle visioni del Teatro delle Albe. Anche per Ermanna la scrittura ha un carattere difficilmente conciliabile con la scena, perché è fissa. Il teatro invece si corrode e gli attori sono mutevoli. «Per creare una drammaturgia, per essere uno scrittore, bisogna avere una fede enorme. Tra di noi è Marco ad averla, mentre io sono corrosiva». Nel procedere delle creazioni, infatti, Martinelli porta alla Montanari una scrittura, e così ha inizio il processo del “disfare”, dato dal corpo dell'attore e dal ritmo che questo impone. Marco Martinelli: «Certe parole diventano fuoco» In casa Martinelli/Montanari c'è un libro feticcio, dal titolo Il libro dell'Odin, pubblicato nel 1978. In questa pubblicazione c'erano già alcuni concetti chiave, come la descrizione del gruppo teatrale come una nave, formato da persone non unanimi ma solidali. «Certe parole diventano fuoco, e incendiamo gli animi di chi li legge». Martinelli racconta di avere risposto a una inchiesta che gli proponeva Gerardo Guccini, docente al Dams di Bologna, in cui veniva domandato ai partecipanti quale fosse lo spettacolo che più li aveva scegnati. Martinelli, pensando a Kantor, Leo de Berardinis, e altri, alla fine rispose Le ceneri di Brecht dell'Odin (1980, n.d.r.). «Abbiamo sempre cercato di imitarli senza imitarli», con la considerazione che si deve ai maestri, a persone che non si può far altro che prendere sul serio. Quando hanno incontrato l'Odin le Albe avevano 20 anni. La sera della replica de Le città sotto la luna a Ravenna viso-­‐in-­‐aria (20 marz 2013), Eugenio Barba ha regalato alle Albe un libro fotografico sull'Himalaya, un modo per festeggiare i trent'anni del gruppo di Ravenna ricordando loro che «fino a questo momento siete stati in pianura». Tutti noi siamo sempre fra Scilla e Cariddi, conclude Martinelli, divisi fra il terrore di forme retoriche, troppo ben costruite, e una presunta spontaneità. «Come far fluire la vita attraverso le forme? Scalando l'Himalaya ogni giorno». Eugenio Barba: «Un libro arriva sempre nelle mani di chi ne ha bisogno» Dice Barba di avere cominciato a scrivere per amore, senza avvertirne la necessità. All'epoca seguiva il percorso di Jerzy Grotowski, che gli chiese di scrivere un libro su quanto vedeva. Così nacque il suo primo libro Alla ricerca del teatro perduto (1965) e, similmente da richieste venute dall'esterno, sono nate tutte le pubblicazioni successive. Col tempo, Barba si rese conto che quel primo libro era stato letto da moltissimi. «Un libro arriva sempre nelle mani di chi ne ha bisogno, questa è la responsabilità che si ha scrivendo». In pochissimi hanno avuto la fortuna di incontrare figure in grado di stravolgere tutte le maniere di pensare e di vedere il teatro, e Grotoswski era uno di questi, aggiunge Barba. «Io volevo fare un teatro come quello che vedevo fare a Grotowski, ma né io né i miei attori sapevamo come fare. Brecht ha scritto pure dei Model Buch. Ma non siamo in grado di replicare quanto hanno fatto i maestri, possiamo solo disfare». Nel concludere l'incontro, Barba ci lascia con un'immagine legata alla respirazione. L'uomo respirerebbe con due polmoni, dei quali uno è obiettivo, legato a una conoscenza razionale. L'altro polmone è la biografia, che è acido corrosivo e per questo comincia a disfare, s'impregna di paure, entusiasmi, ingenuità. Ermanna Montanari: fare-­disfare-­rifare teatro 8 aprile 2013 Massimo Marino Come si può raccontare il teatro vivente, quello per cui la creazione è lavoro col magma dell’esistenza, non rappresentazione né intrattenimento? Laura Mariani e Ermanna Montanari ce lo mostrano in un bel libro, il cui merito va ugualmente alla studiosa e al suo oggetto di studio. Ermanna Montanari. Fare-­‐
disfare-­‐rifare nel Teatro delle Albe, edizioni Titivillus, racconta la vita e l’arte di un’attrice unica, capace di una recitazione che è musica, sferzata ruvida, affondo nel dialetto, sogno, sensibilità pulsante e ferita, in uno stare in scena che è destrutturazione, ricostruzione, invenzione di mondi. Lo firma una studiosa del Dams bolognese, Laura Mariani, abituata a immergersi nei mondi complessi di attrici come Sarah Bernhardt, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse e in problemi come quelli del travestitismo teatrale. Qui ha abbandonato gli archivi per seguire da vicino un’attrice nel pieno della sua attività, rovistando nella storia della sua formazione, negli spettacoli cruciali che ha realizzato e che la definiscono, nei nuovi lavori creati di recente e in quell’avventura che è stata la direzione artistica del festival di Santarcangelo nel 2011, tutta dedicata a indagare il paradosso e il mistero dell’attore che finge per cercare verità, mettendo in pubblico, spesso con strazio, l’intimità più profonda. Il centro, la chiave di interpretazione, sta a metà del volume, dopo una bella e ampia sezione fotografica che prova a ridare presenza a spettacoli svaniti nel tempo. Sta in quel paese di Campiano, nella campagna vicino a Ravenna, laddove Montanari è nata, in una famiglia ancora immersa nel mondo contadino, patriarcale, dove la lingua parlata è un rude dialetto gutturale. Le figure delle due nonne, una gracile e furiosa, l’altra matronale, enorme, cantilenante, con il nonno patriarca, dalle parole parche e taglienti, di cose, di silenzi, campeggiano su un’infanzia dialettofona che si adatta con fatica all’italiano, alla scuola, alla città, e che poi, pian piano, crescendo, nega quel mondo, ne fugge, per ritrovarlo proprio nel teatro, trasformando la lingua degli avi in corpo scenico, in incrinatura di una trasformazione (di un esilio) che molti italiani hanno vissuto, che tutti, diversamente, ci ha travolto. La prima parte del libro si intitola Nascita di un’attrice e colloca la sua arte in un lavoro di gruppo, quello delle Albe, che germinano dalla coppia Ermanna Montanari-­‐Marco Martinelli intorno ai sogni e agli scontri del 1977 bolognese. Ripercorre le differenti fasi della ricerca della compagnia, l’impegno sempre a ridare con il teatro il ritmo e le contraddizioni dei nostri tempi, fino a figurarsi una scena interetnica che dichiara, alla fine degli anni ’80, la Romagna africana e trasforma Ermanna in un’asina dalle enormi orecchie che con la sua lingua arcaica può intendere il wolof dei nuovi romagnoli senegalesi, chiamati vucumprà e extracomunitari, e raccogliere tutto il dolore del mondo. La seconda parte, denominata Canzoniere, dall’andamento più rapsodico e tematico, parte da Campiano e affronta gli spettacoli al femminile dell’attrice, Rosvita, I Cenci, da Artaud, e quelli come L’isola di Alcina dove il dialetto diventa musica, suono, canzone, grido, i molteplici mirabolanti viaggi nell’Ubu roi, per il mondo, con adolescenti romagnoli, delle periferie di Chicago, senegalesi eccetera. Fino a Ouverture Alcina, riscrittura fantasmatica dell’altro lavoro dedicato a una reincarnazione paesana della maga di Ariosto, composto con linee di nitore ed essenzialità orientale. Emergono la fatica e l’esaltazione di abbandonare l’idea tradizionale, ristretta, di personaggio per creare figure che vivono il qui e ora della scena, scontornando ogni certezza, testuale, identitaria, ogni attesa, ogni facile rispecchiamento, fino al travestimento maschile nell’Arpagone dell’Avaro di Molière, sfaccettata prova di recitazione trattenuta, di potere arpionato con ingordigia, realizzata con stupefacente resa fisica e vocale. Il miracolo di questa attrice è la tensione continua fra fragilità e potenza, fra il trattenersi e il darsi, per creare figure indimenticabili, carnali, che scaturiscono spesso da labili, imprendibili fantasmi, o a essi danno consistenza. Come rivela la studiosa, Ermanna Montanari produce una qualità dell’energia e un insieme molteplice di forme che rivelano il combattimento continuo “fra attrazione per la morte e aspirazione alla luce, fra purezza e ambiguità, fra indeterminatezza e determinazione, fra ricerca di un linguaggio proprio e fascinazione del potere maschile”. In un fare, disfare, rifare che mostra sempre i segni della tensione a commisurare la vecchia arte un po’ inutile del teatro con le domande urgenti della vita profonda. maggio 2013
Ermanna, le albe di un'attrice
Una poderosa monografia si addentra nella lunga storia artistica di Ermanna
Montanari, corpo e voce del nuovo teatro italiano, che con Marco Martinelli ha
dato vita a una delle esperienze più importanti della ricerca.
La prima cosa che colpisce vedendo il libro di Laura
Mariani Ermanna Montanari. fare-disfare-rifare nel
Teatro delle Albe (Titivillus; pp. 344; euro 23) è
l'immagine in copertina: il volto dell'attrice a cui è
dedicato il volume, palesemente ritratto in una foto di
scena, ma con un impianto quasi da fototessera, come a
illustrare ben bene, per evitate fraintendimenti, l'oggetto
del discorso. Ma quel volto, così apparentemente chiaro e
inequivocabile, è tutt'altro che netto e preciso. Rimane
sfocato, con una parte del volto illuminata fino alle soglie
della solarizzazione e l'altra metà solcata da pesanti ombre
nere: un volto ambiguo, sfuggente, perché è Ermanna e
non lo è. Credo che questa copertina rappresenti bene non
tanto il contenuto del libro, che invece si dipana per oltre
trecento pagine indagando in lungo e in largo vita,
spettacoli, parole e strumenti artistici di una delle più
brave e importanti attrici dei nostri decenni, ma piuttosto
ciò che ha spinto l'autrice a immergersi nella storia e
nell'arte di Ermanna (che nel libro chiama con il solo
nome, e così farò anch'io), e ciò che spinge il lettore a
seguire i passi di Laura Mariani alla scoperta delle luci
quasi solarizzate e delle ombre intense, per ricucire tutti i fili che compongono l'identità dell'attrice
in un grande (poderoso) affresco.
Dopo Sarah Bernhardt, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse, l'autrice si stacca dal passato per cercare
nel presente le tracce di quella storia delle attrici che lentamente sta componendo attraverso affondi
partecipati e coinvolgenti nelle protagoniste della scena, tra le quali - dopo la lettura di quest'opera non è esagerato inserire proprio Ermanna, la cui vita artistica e la cui pratica scenica si stagliano
come exemplum di una biografia d'attore della contemporaneità, che però riallaccia infiniti legami
con le sue "antenate". Certo, un libro su un'attrice contemporanea, che si presenta al lettore in
assenza di quella "carne", come la stessa Ermanna definisce l'alchemica comunione di corpo e voce
che caratterizza l'attore, è una vera sfida (l'autrice parla del libro come di una "scena muta", e
aggiungerei parzialmente cieca, visto che le pur belle e numerose fotografie non restituiscono certo
la plasticità ed energia del corpo vivo). Ma il doppio tracciato offerto da Mariani riesce comunque a
far risaltare le specificità dell'attrice romagnola. Doppio, perché il libro è concepito in due parti che
dialogano tra loro come movimenti autonomi ma intrecciati di un'unica composizione. Il primo, che
inizia con un'apertura sulla "coppia d'arte", così complementare, che Ermanna costituisce con
Marco Martinelli, ripercorre dettagliatamente quella che viene definita "nascita di un'attrice",
ovvero il parto artistico sotto il segno del '77, che attraverso il primo ensemble Maranathà, e poi la
Linea Maginot, arriva alle fatidiche Albe (che proprio quest'anno festeggiano il trentennale della
nascita). Il secondo tracciato, che l'autrice chiama "Canzoniere", inteso come mappatura dei
percorsi di senso e delle pratiche attraverso gli spettacoli al di là della pura cronologia, ci consente
di entrare più in profondità nel lavoro artistico di Ermanna, attraversando i suoi lavori, rintracciando
nel corpo e nella voce gli strumenti della propria arte e in una speciale sensibilità la bussola delle
proprie scelte. Ma anche, in un bel capitolo, quella speciale vocazione al travestimento e al
transgender (fino all'eclatante e difficile performance al maschile dell'Avaro di Molière) che
costituisce un prezioso topos scenico ma anche esplorativo delle grandi attrici. Al centro,
significativamente, tra il primo e il secondo movimento di questo libro, un ricco portfolio
fotografico, che finalmente sembra svelarci (sembra!) ciò che la copertina ci aveva solo fatto
intuire, ma anche e soprattutto un importante capitolo con le parole stesse di Ermanna su Campiano,
il suo paese d'origine ma onnipresente, anche in questo volume, fino a diventare quasi un vero e
proprio "mito" di costruzione e auto-costruzione elaborato in tutti questi anni da Ermanna stessa, in
quanto luogo dell'infanzia, del dialetto, di sentimenti che nel tempo avrebbero risuonato nei tanti
personaggi interpretati.
Un libro che è un incontro con Ermanna, ma anche con l'autrice stessa, che in continuazione si svela
nella sua ricerca e nella sua esposizione, in un gioco di inseguimenti di donne che trovano il senso
della loro ricerca nello spazio franco e rivelatore del teatro.
(stefano casi)
1maggio 2013
LIBRI - Viene presentato domani a Milano il testo di Laura Mariani dedicato all'attrice
Ermanna Montanari, l'infinito palcoscenico
TAGLIO BASSO - S. Cr.
Co fondatrice del teatro delle Albe e tre volte premio Ubu come «miglior attrice», Ermanna
Montanari è protagonista di uno studio che ne ripercorre la sua carriera artistica. Un libro dal titolo
Ermanna Montanari - fare-disfare-rifare nel Teatro delle Albe, scritto da Laura Mariani (Edizioni
Titivillus, 354 pag. 23 euro) che viene presentato domani alle 18 al teatro Elfo Puccini di Milano
(corso Buenos Aires, 33). Un palcoscenico che ospita a maggio tre spettacoli del Teatro delle Albe,
creato nel 1983 da Ermanna Montanari con Marco Martinelli, Luigi Dadina e Marcella Nonni. Tre
momenti che hanno fatto scuola nella fondazione di Ravenna Teatro, uno «stabile corsaro» in cui il
metodo teatrale della città, si lega al metodo della «non-scuola» che dalla Romagna è arrivato fino a
Scampia con lo sperimentato progetto di Punta Corsara. Un focus che si apre con Pantani (3-8),
prosegue con Rumore di acque (9-10) e si conclude con Ouverture Alcina (11-12 maggio), con la
sola Montanari in scena. Il volume viene presentato alla presenza dell'autrice e dell'attrice, nel corso
di un incontro che vede la partecipazione di Elio De Capitani, Marisa Bulgheroni, Lea Melandri,
Renata Molinari, Maria Nadotti, Oliviero Ponte di Pino. Un viaggio narrativo, quello messo a punto
dall'autrice, che indaga sulla figura - sottile e complessa al contempo - dell'artista, tre volte premio
Ubu come «miglior attrice». Operazione «spericolata» che parte dal racconto dell'adolescenza della
protagonista, passando per la formazione della coppia con Marco Martinelli, la nascita del gruppo e
del lavoro di «apprendistato» che caratterizzerà i primi dieci anni di attività del Teatro delle Albe.
La seconda parte si apre con Campiano, definito come «luogo originario in cui l'arte alimenta».
Spiega l'autrice, storica del teatro e della memoria nonché docente di teatro moderno e
contemporaneo e Storia dell'attore all'Università di Bologna e che in passato si è occupata delle
figure di Sarah Bernhardt, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse: «È un passaggio necessario per entrare
dentro il suo lavoro scenico maturo. Per affrontarlo mi sono servita del concetto di canzoniere,
come è stato proposto da Mirella Schino per indagare il teatro di Eleonora Duse, il suo mistero di
attrice capace di stordire il pubblico con turbamenti ineffabili ma anche molto reali, dovuti a un
mestiere saldamente posseduto». Il repertorio che - prosegue Laura Mariani - «nelle mani degli
attori più grandi non è una semplice somma delle parti interpretate ma un'unità: una sorta di mondo
parallelo allo spettacolo di volta in volta presentato in cui convivono le esperienze precedenti».
Il volume si completa con un dossier fotografico di quaranta immagini tra fotografie teatrali,
locandine e fotogrammi cinematografici, firmate fra gli altri da: Silvia Lelli, Enrico Fedrigoli,
Marco Caselli Nirmal, Claire Pasquier, Tommaso Le Pera, Giampiero Corelli.
2 maggio 2 0 1 3 In dialogo tra corpo e voce Il libro che Laura Mariani ha dedicato a Ermanna Montanari di Oliviero Ponte di Pino Per scrivere Ermanna Montanari. fare-disfarerifare nel Teatro delle Albe (Titivillus,
Corazzano, 2012, pp. 344, € 23,00), Laura
Mariani si è trovata di fronte a "due difficoltà",
come confessa all'inizio di questo saggio denso e
di ampio respiro:
La prima riguarda l'impossibilità, a volte, di
scindere la sua esperienza e la sua storia da
quelle di Marco Martinelli (…). La seconda
nasce dalla maestria di entrambi nel dire di se
stessi e del lavoro teatrale. (p. 17)
Per quanto riguarda la prima, il rapporto con
Marco, sono emblematiche due immagini, alle
pp. 25-26. In entrambe, Marco è dietro Ermanna,
alle sue spalle, e l'abbraccia.
Nella prima, datata 1986, lei indossa una giacca
militare, da soldatino. Dietro di lei, Marco si
intravvede appena, come si intravvedono le sue
mani che le cingono la vita, sotto quelle di lei.
Lui sembra quasi volerla muovere, come un
burattino, e insieme l'abbraccia. Lei risponde a
questo gesto, insieme affettuoso e autoritario,
con un altro gesto affettuoso, con il quale sembra
però voler riprendere la propria autonomia: le mie mani sopra le tue.
Nella seconda fotografia, scattata otto anni dopo, un secondo abbraccio da dietro, un altro gesto di
Marco insieme protettivo e affettuoso. Lei risponde con lo sguardo, fiero e orgoglioso, quasi di
sfida. (A un certo punto - a p. 114 - Laura Mariani racconta il momento esatto in cui si è
"appassionata alla fotografia di teatro"…)
Come si vede fin dall'inizio, questo è un libro che sa far parlare le immagini: un versante cruciale,
per ricostruire la storia del teatro in generale, e ancora di più in un caso come questo, dove la qualità
iconica è centrale alla riflessione, come vedremo.
La seconda difficoltà evidenziata nel prologo: Marco ed Ermanna sono teatranti colti, consapevoli,
in grado di raccontare la propria storia e le proprie motivazioni. E poi Ermanna e Marco - come tutti
gli artisti - raccontano la propria progettualità in divenire e tendono a guardare più al futuro che al
passato, magari di volta in volta rimodellato sulla base delle loro nuove necessità e tensioni
creative.
Queste due difficoltà Ermanna Montanari le supera abilmente, trasmettendo a chi deve parlare o
scrivere del suo saggio una terza difficoltà: bisogna parlare dell'"oggetto-libro", cioè del saggio, o
dell'oggetto del libro, cioè Ermanna Montanari? Per superare questa difficoltà val la pena di
concentrarsi sul nodo centrale di questo ritratto: perché questo è un libro su un'attrice, ovvero un
libro che ruota intorno a due fulcri: l'attore di teatro e il femminile, due temi centrali nel lavoro e
nell'esperienza di Laura Mariani e che qui evocano nuove tensioni e dialettiche.
La riflessione sull'attore, con "la sua indecifrabile sessualità", è l'ossessione centrale anche di
Ermanna Montanari, come ha dichiarato nel programma dell'edizione del Festival di Santarcangelo
da lei curato nell'estate del 2011:
Da quando ho iniziato a pensare il festival, la figura dell'attore è stata l'immagine-guida di ogni mia
indagine: l'attore come emblema concreto del fare-disfare-rifare, l'attore che chiama in causa lo
spettatore, senza il quale non si dà teatro. Ora scheletro e misura della scena, ora punto di crisi,
stonatura, margine, l'attore è per me parola-baratro, con il rigore anarchico della sua voce: un 'venir
fuori', il manifestarsi dell'essere nel suo pudore, nella sua indecifrabile sessualità. L'attore elude le
smanie di novità e, da esperto delle emozioni, sa trascinarci nelle profondità della psiche. (p. 45)
Svelare i segreti dell'attore - entrare nella sua "stanza segreta" - non è tuttavia impresa facile:
tecnica e professione "sono connesse a processi intimi che non sempre possono essere svelati" (p.
221), neppure da un'artista consapevole e loquace. Tuttavia, per aprire la "scatola magica e segreta"
della macchina attoriale di Ermanna Montanari, Laura Montanari trova una chiave, e un potente
attrezzo interpretativo: è il termine "figura", legato alle arti visive e ora applicato al teatro. Il
termine è stato del resto spesso utilizzato dalla stessa attrice nei suoi appunti di lavoro.
Come nota Laura Mariani, Ermanna Montanari parla di
figure, memore della giovanile fascinazione per l'Auerbach degli Studi danteschi: dove ogni
individuo rimanda all'incarnazione che è stato e adempie ciò che prefigurava. Figure reali, dunque,
e prefigurazione di altro, che in lei diventano ricettacoli forti e insieme scontornati di emozione e di
storie e si esprimono per paradossali astrazioni carnali, di cui la voce si fa carico piegando il corpo
alle sue necessità. "Qualcosa di più grande di un personaggio, di natura non simbolica ma semmai
archetipa, che non appartiene completamente né al testo né all'attrice, ma costruisce un terreno
d'incontro", potremmo dire con Renata Molinari per rimanere su un terreno pertinente per un
classico come L'avaro. (pp. 29-30)
Al centro della riflessione c'è dunque il rapporto tra l'attore e il personaggio, che nella seconda metà
del Novecento si è fatto sempre più complesso. Come esemplifica con chiarezza Laura Mariani,
Luca Ronconi concepisce [il personaggio] come una funzione in rapporto alla centralità del testo,
rompendo il rapporto duale con l'attore, e Eugenio Barba come un'entità necessaria soprattutto al
pubblico mentre Leo de Berardinis preferisce parlare di stati di coscienza e Thierry Salmon traccia
nuovi percorsi perché il passaggio alla costruzione fisica del personaggio non sia troppo veloce.
Ermanna sembra vicina soprattutto a Leo, poi il termine figura le sembrerà più idoneo a dire che chi
agisce sulla scena non è il doppio artistico di un individuo reale ma un portatore di passioni
incarnate senza mediazioni psicologiche. (pp. 181-182)
Ermanna Montanari coglie lo stesso rifiuto della psicologia nei personaggi di una delle sue "autriciculto":
Rosvita procede nella scrittura a balzi, senza psicologia: i suoi personaggi-marionette, stilizzati,
ardono di passione, chi bruciata dal desiderio sessuale, chi dal fuoco della fede. (p. 183)
Dunque in questo caso l'obiettivo del "lavoro dell'attore sul personaggio" è la costruzione di una
marionetta che arde di passione. Può essere interessante ripercorrere il metodo con cui l'autrice
modella queste "figure", seguendola nel lavoro su Rosvita, iniziato durante una malattia che ha
comportato una profonda sofferenza fisica e psichica.
Nel letto di ospedale [Ermanna] comincia a elaborare immagini, comincia a scrivere. Ha portato
con sé anche una riproduzione della Sinagoga di Konrad Witz, "dove c'è dipinta una figura vestita
di giallo: in mano ha le tavole della legge e un'asticella spezzata. Vicino, una porta aperta sul blu":
quella stessa dipinta da Cosetta Gardini sul muro di Palazzo Cenci a Santarcangelo, dove Rosvita
debutterà. Vorrebbe essere quella donna, ma è "soffocata dall'impossibilità di somigliarle" e intanto
osserva le malate ricoverate nella sua stanza d'ospedale: "Ho succhiato le loro parole, i loro gesti, i
loro lamenti", scrive. "Di notte si accendeva una luce blu nel corridoio". Poi, di ritorno in Italia,
altre immagini si aggiungono: le stanze di Orsola nel Carpaccio, osservate con occhio nuovo, e i
mosaici di Galla Placidia, le goffe figure che si vedono nelle stoffe e nei bassorilievi copti (quelli
che avrebbe voluto studiare per la sua tesi di laurea) e le miniature; ma la sua costruzione della
scena parte dall'imitazione del quadro di Witz, dalla fessura che lascia intravvedere quel blu teso
all'infinito. A questo punto Ermanna introduce nel testo l'immagine di sé come Rosvita: "Mi vedevo
con le ginocchia piegate, con il corpo sfregato, con il capo chino. Di qui, pensando il seguito,
potevo solo inciampare e poi cadere". (p. 180)
In realtà Ermanna non procede per accumulo, per sovrapposizioni, per aggiunte. Il suo è piuttosto
un lavoro di scavo: scende nel profondo usando queste "immagini-guida" come scandagli, per far
scattare risonanze emotive, per verificare le consonanze tra il personaggio, la "figura" e il sé.
Proprio a partire da queste risonanze profonde scatta il lavoro sul corpo e sulla sua postura, e sulla
voce:
Mi sono messa una mano sul mento ed è venuta fuori la voce un po' nasale di Pafnuzio. Poi, tolta la
mano, la voce andava. In partitura, una voce che mi spostasse da quella nasale poteva essere una
voce che 'svenisse' in continuazione, una voce al limite dell'udibile: ed ecco la voce di Taide,
sottilissima, quasi insensibile, che ad un certo punto si sdoppia con una voce da contralto e cambia
la sua natura man mano che cede alle parole seducenti di Pafnuzio. Dopo lo 'svenimento', ci sono le
voci 'cristalline' di tutti i discepoli di Pafnuzio. (p. 214)
La
postura
spesso
tende
a
una
fissità
scultorea,
quasi
a
riflettere
nella
"figura"
la costrizione di chi re-cita alla ripetizione e a un'attitudine figurativa che rimanda sia alla pittura
che alla scultura. (p. 21)
In alcuni casi, diventa cruciale la metamorfosi,
il passaggio da una figura all'altra: figure senza contorno le definisce Ermanna (…) L'attrice mostra
un'abilità trasformistica che richiama la tradizione e, nello stesso tempo, opera per sfuggire alle
strettoie del personaggio inteso quale entità psicologica o storicamente connotata. (p. 89)
Perché
Il travestimento dà la distanza e la lucidità per poter essere in scena. (p. 244)
Anche se spesso nasce da una intuizione, la costruzione - o la ricostruzione - dell'immagine di sé,
ovvero della figura-corpo da restituire sulla scena, è un processo complesso, doloroso.
Con Raffè e Rosvita ho cominciato a sentire il corpo e la sua macellazione. Raffè ha un angelo di
polvere con cui combattere, Rosvita la misura con cui non si può competere; Rosvita scrive mentre
si mangia un braccio, Raffè si piega roteando su e giù da una sedia instabile, sempre più
velocemente, procurandosi il collasso. (p. 90)
La ricerca della figura parte dunque da una mancanza:
da un lato la sensazione di un corpo e di un sé frammentati, che non ci sono mai tutti, e il
conseguente desiderio di un altrove che dia consapevolezza: e, dall'altro, "il gonfiore della
reputazione, della fama, del valore del nome. Un frastornante rumore, per [lei], attrice venuta dalla
campagna che lotta ogni volta per vincere le proprie timidezze e la paura del giudizio degli altri (T.
Picarazzi)". (p. 289)
Come confessa l'interessata, riflettendo sulla protagonista di Luş:
Anch'io, come Bêlda non ci sono mai tutta. Mi manca sempre un pezzo. Non mi vedo mai in scena,
non ho immagine di me se non a pezzi. I pezzi possono essere di tutti, un collo, un piede, un rene.
L'intero sta da un'altra parte, è una architettura spirituale. (p. 201)
E' così che si sono composte, una dopo l'altra, le figure del canzoniere" dell'attrice. Chiosa Laura
Mariani:
Come rendere questo avere il proprio centro "fuori di sé" e come l'attrazione per il teatro che è al
tempo stesso centro in cui "nascondersi per mostrarsi" e vuoto da abitare obliquamente? (p. 201)
La ricerca si allarga alla costruzione di uno spazio in cui "nascondersi per mostrarsi": il lavoro
dell'attore su di sé si concretizza anche nella progettazione di una scenografia in simbiosi con la
"figura". Esemplare il lavoro per Luş:
Ermanna pensa a varie soluzioni: per esempio, mettere sul fondo della scena "un pannello di
specchio frantumato dove si rifletta la figura di Bêlda frantumata" per poi apparire intera; oppure
"recitare dietro una quinta, come se fosse una porta, una porta dove dietro si intravvedono ombre
[…] La quinta o porta può essere bellissima, come il portale di una chiesa o di un palazzo". Bêlda,
infatti, è "sulla soglia di qualcosa", l'attrice immagina che se ne stacchi per fare una danza
forsennata senza musica, una danza di braccia a contatto con l'aria. Finché l'immagine si precisa
diversamente, in uno spazio di due metri per due, il volto in controluce, quasi come fosse velato
come quello delle sciamane africane, le braccia e le mani che talora tracciano volute: "ho creato la
mia parte di sotto senza vita, colle gambe sospese, e invece la parte di sopra è regale, io sono in un
deambulatore tronetto. Il deambulatore si usa per i vecchi che stanno tanto tempo a letto,
contraggono gravi malattie intestinali ma devono stare in piedi, quindi sono completamente sorretti
da questa macchina. Io sono sospesa in questo aggeggio di metalli, con la gambe senza vita". "Solo
così posso incarnare Bêlda", dice, "senza mostrare il viso e senza toccare terra". (p. 201)
Spesso Ermanna si infligge una costrizione molto forte, che blocca il corpo dell'attrice in una fissità
quasi di statua: già in Confine (1986)
la recitazione di Ermanna è "ritmata sulla ripetitività, strutturata con rigidità, quasi come un abito
inamidato che blocca i movimenti", è addirittura "impersonale"; ma in un'alternanza fra momenti di
controllo ed esplosioni, fra macchie di silenzio e rallentamenti, sempre con un surplus di energia,
che non concede pause a chi guarda e qualche volta "toglie il respiro". (pp. 88-89)
Ovviamente è più facile seguire il processo creativo nel caso dei monologhi: ma anche quando lo
spettacolo diventa più complesso, ed entrano in gioco numerosi altri elementi, i meccanismi si
ripetono: esemplare l'evoluzione di Madre Ubu nella versione "africana" del capolavoro di Alfred
Jarry, Ubu Buur.
Non è solo un processo razionale. Nel rapporto con la figura, c'è qualcosa di misterioso, una spinta
verso la trascendenza:
Tutti i miei lavori hanno a che fare con la medianicità. Sono tutte evocazioni, mi chiamano fuori. (p.
104)
Non è un percorso facile. Nota Laura Mariani che Ermanna Montanari
lotta contro questo "invisibile" che le risulta necessario per la creazione. (p. 104)
E l'attrice:
Quando lavoro su me stessa (…) qualcosa si complica. Provo meno piacere nel vedermi e nel
pensarmi. (…) Non sono ancora riuscita a mantenere la distanza alta e la lucidità necessarie per
essere invasa dallo spazio-tempo scenico. (p. 244)
C'è un vettore che innerva e trascende l'unità perduta e ritrovata, ma fragile, del corpo. E' l'aspetto
che più caratterizza la presenza scenica di Ermanna Montanari: la voce. Il musicista Luigi
Ceccarelli ha lavorato spesso con lei e paragona la sua vocalità a quella di Carmelo Bene.
Dice Ceccarelli che Ermanna è una straordinaria artista della voce, con potenza simile a quella di
Carmelo Bene ma con una qualità diversa: Bene è artista dell'artificialità come anima del teatro, nel
senso grande in cui il suo teatro la propone; Ermanna non risulta "mai finta". Un'altra tonalità
dell'artificio, forse un altro percorso o un altro ritmo poetico appunto. (p. 212)
Lei è pienamente consapevole della centralità della voce per il suo lavoro:
Nella voce trovo una sorta d'infinità, sono collegata al prima e al dopo. La voce è aria, mi porta
fuori dal biologico. Come materia scenica è incandescente, smisurata: una materia alla quale sono
dedita, perché scaturisce da sola. Il mio corpo invece non lo sopporto, è finito, ha un perimetro,
un'altezza che posso misurare. Ho timore di questa finitezza. Lavoro spesso sull'immobilità del
corpo, è un'immobilità che dentro freme, che da un momento all'altro può scoppiare, con un vulcano
sonoro, una potenza che erompe come lava nella voce. Il collegamento è nel punto più basso della
terra, ma il movimento porta verso l'aria. La voce è selvaggia, anarchica, estremamente mobile. E'
la mia guida e la mia disciplina. Lei sa cantare. Ne parlo in terza persona, perché se la pensassi
come un mio possedimento, sarei già in gabbia, sclerotizzata. Perciò cerco di non tarparle mai le ali,
come se si trattasse di qualcosa che mi vola dentro. Una disavventura vocale. (p. 222)
La dialettica tra il corpo e la voce è un elemento fondante della sua dinamica d'attrice:
La mia voce mi piace, la curo, la tengo bene, e mi piace anche rovinarla, portarla al limite. Ci gioco.
Quando sono malata, soprattutto quanto ho l'influenza che fa andar via la voce, è faticosissimo. Il
mio corpo invece a volte mi abbandona, poi si ammala, ha diversi problemi: come il fatto di non
comprenderlo, di non vederlo tutto ma di vederne solo dei pezzi. Non è che gli chiedo delle cose
particolari, al mio corpo… Sono convinta che potrei scalare una montagna e non avrei nessun
timore di farlo. Così come sono convinto che il mio corpo possa stare fermo per ore: lui lo può fare.
Ma sono tutti, come si dice, tu devi, il corpo dev metterlo in moto con la volontà, come un
soldatino. Il corpo è un soldatino. La mia voce non è un soldatino, è lei che mi guida. (La mia voce
non è un soldatino, intervista di Oliviero Ponte di Pino, "Art'ò", n. 1, p. 16)
Ermanna per certi aspetti è dunque un soldatino-burattino, a cominciare dal costume di scena (che si
riverbera però anche nel suo abbigliamento quotidiano:
Non ho vestiti ma divise. Colore nero, taglio scultoreo. (p. 293)
A volte la divisa fa parte della figura, come in Rumore di acque (1986):
Ermanna è Ventino, uno dei tre soldati, piccola e con la "faccetta infantile", armata di fucileombrello e in vena di sentimentalismo: "Petalina mia… E' duro stare nell'esercito ma voi femmine
non potete capire", scrive all'innamorata (…) Oggi Ermanna parla di Ventino come di "un soldatino
un po' epilettico che ha un vento intorno" ed è in balia di una vibrazione. (p. 72)
Non è forse un caso che alcune delle figure utilizzino un'arma:
Rosvita afferra una penna, Beatrice Cenci un martello, Fedra un ramo di mirto, Bêlda una piccola
accetta. (p. 289)
Dietro questa militarizzazione ci sono una disciplina, e la consapevolezza di una complessità, che
arriva anche dall'incontro con un maestro come Jerzy Grotowski, in un incontro al Workcenter nel
1986. Lì, ricorda,
Io ho capito una disciplina, una disciplina che ho rubato, inventandomene una mia. Grotowski mi
ha dato come un'architettura sulla quale inventare, giocare tutto il mio piacere per il particolare: mi
ha spostato un mignolo e quello spostamento ha fatto sì che percepissi l'atto vibratorio fisico e
vocale. (p. 92)
Laura Mariani cita anche due "parole" di Eugenio Barba, "precisione" e "essere deciso" (p. 264),
per arrivare alla individuazione di un punto di contatto tra il corpo e la voce, tra la disorganicità
frammentata del primo e la tensione trascendente della seconda.
Per avvicinarsi a questa trascendenza, serve
un allenamento fisico ed emotivo che viene da lontano: le emozioni che implodono senza potersi
esprimere, un'aria che tappa la bocca, parole impedite che si inchiodano al corpo, il corpo come
insieme di parole proprie non dette, e al loro posto una partitura di suoni che muove da labirinti
interni. (p. 263)
A volte il punto di contatto può apparire grottesco, paradossale, ma non per questo meno
necessario:
Quando ho fatto per la prima volta un asino sono andata a vedere come defecano gli asini perché la
voce ha a che fare con quest'apertura. Dovevo fare della voce un boato. Il punto di partenza è
sempre tattile e visivo. (p. 228)
Ancora una volta, la "scoperta" del punto di tangenza tra il corpo e la voce ha potenti implicazioni
drammaturgiche: la pratica teatrale s'intreccia con la sensibilità "di genere":
Per tornare a Siamo asini o pedanti? l'asino a un certo punto in sogno diventa un'asina, una madre
col suo bambinello. Usavo una voce profondissima, da basso. Quando invece ero asino usavo il
dialetto con una voce acutissima e nascondevo il sesso con la mano sinistra. Giocavo musicalmente
con un continuo mescolamento di registri. Una volta Laura mi ha detto una cosa molto bella sulla
creazione di fantocci, e ora la sto usando come fanno i bambini con i pupazzi. Molti di loro
trasformano per gioco, in un istante, il loro fantoccino di pezza in una mamma, in un figlio, nel
babbo, in qualsiasi figura. Lo stesso accade in teatro. (p. 241)
Per certi aspetti, anche la voce è un fantoccino: ma un fantoccino che sa prendere una vita propria,
una autonoma direzionalità. Il lavoro di Ermanna - tra corpo, voce e parola - si rivela funzionale al
"Teatro di carne. Teatro in-cantato. Teatro di scrittura" (p. 93) di Marco Martinelli. Per lui fare
teatro - o più precisamente "scrittura di scena" significa
scrivere una pagina, l'attore la parla, la mangia, la reinventa, la musicalizza, la respira, la restituisce,
e con quel che resta ricreare una scrittura fatta di respiri, musica, ragione. (p. 93)
In questo percorso, la posizione di Ermanna è da un lato di obbedienza, di passività. Lavorando sul
personaggio di Beatrice nei Cenci, vede
Padre e Dio accoppiati in un'obbedienza data dal principio in una forma di abbandono, in un
desiderio di conformarmi, senza comprenderne la ragione. (p. 266)
Da questo abbandono, da questa costrizione, esplode la paradossale libertà della voce. Ermanna
scrive:
Non ci può essere nessuna domanda sulla voce. La voce stessa è una domanda: materia che ci
trascende. (p. 222)
Il merito di Laura Mariani, indagando sui processi creativi di Ermanna Montanari, è di aver fatto le
domande giuste sulla voce, e di aver cercato le risposte, con puntiglio e ostinazione. Fino alla soglia
della trascendenza.
E' così che ha ricostruito, con puntiglio e rispetto, il percorso artistico di Ermanna Montanari, dalla
nascita dell'attrice dalle terra di Campiano agli anno dei liceo, dalla creazione del gruppo
all'esperienza con le Allbe. Per farlo, ha intarsiato due scritture, intarsiato quella di Ermanna nella
propria trama, come un ricamo. E l'ha inserita nello sfondo più vasto della storia teatro italiano, dei
suoi attori e soprattutto delle sue attrici: perché senza una approfondita conoscenza delle grandi
attrici ottocentesche, questo libro sarebbe stato semplicemente impensabile.
Insomma, il suo merito è che in realtà non è il saggio di una studiosa su una brava attrice, ma un
libro-dialogo tra due persone che continuano a cercare, con discrezione e ostinata pazienza.
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8 maggio 2013
Ermanna Montanari di Laura Mariani
Dare conto dell'arte di un drammaturgo è lavoro difficile
certo, come quello di chi costruisce gli argini ad un
fiume che scorre al mare, ed i suoi mattoni sono le
parole che organizzano e restituiscono senso al tumulto
delle emozioni che vanno man mano a placarsi. Diverso
e quasi impossibile mettersi di fronte all'arte di un
attore, e ancor più di una attrice, che è materia di natura
aerea come il vento che improvviso soffia dalle quinte e
si disperde, non senza avere mosso i nostri sensi e i
nostri pensieri, in una platea affollata, e che, se gli
costruisci attorno degli argini, gli argini delle nostre
parole, rischia di cadere, scomparire e infine morire.
Ancor più per questo il libro di Laura Mariani è
apprezzabile, tanto più quanto più non si arrende alla
difficoltà di dire e descrivere e quanto più riesce con
pazienza ad intercettare non solo i significati ma
soprattutto i sentimenti profondi, così li chiamo, dell'arte
di Ermanna Montanari, a partire anche dagli argini
robusti di quel fiume ormai in piena pianura e talora
maestoso che sono il Teatro delle Albe e l'arte di Marco
Martinelli, che soprattutto con lei lo ha
indissolubilmente fondato e formato. Non mi soffermerò su quanto scrive la Mariani, non volendo
rischiare di coprire parole con parole, ma solo sulla non consueta occasione che questo suo libro dà
a noi di avvicinarci all'arte misteriosa della recitazione, nella sua genesi anche significativamente
biografica e nella sua eterna contingenza e infine nella sua pericolosa vicinanza con la morte che
tutti i grandi attori sentono, con passione ma anche con una concretezza coerente con la natura
materica, corporea e sonora che questa arte ha man mano assunto in Ermanna Montanari. Un bel
libro, oltre la dimensione storica che della dimensione estetica riesce a far veicolo di sentimenti
presenti.
Maria Dolores Pesce
Ermanna Montanari. Fare disfare rifare nel teatro delle Albe
di Laura Mariani
Titivillus 2012
Pagg. 352 € 23,00
3 giugno 2013
Ermanna Montanari «I miei primi 30 anni nel Teatro delle Albe»
di Francesca De Sanctis
Fondò la compagnia con il drammaturgo e regista Marco Martinelli. In un libro la storia di
questa grande attrice
«Mi sono accorta della bruttezza di Campiano qualche anno fa quando accompagnai un importante
produttore di cinema verso il mio paese natale. Gli avevo parlato del villaggio edificato sulla Petrosa,
antica via romana tra Ravenna e Forlì, di vecchie case coloniche abbandonate nelle larghe di campi
coltivati in ordinate tornature rettangolari, di orizzonti piatti, di filari azzurri, del caldo delle zolle nere,
di sontuosi pioppi all'ingresso delle aie prive di recinto, di donne altere vestite a lutto, del bosco di rovi
dell'Antica Villa Ginanni-Corradini dove da adolescenti ci si nascondeva ad amoreggiare...». Così scrive
Ermanna Montanari di quel puntino geografico dal quale nasceranno parole, immagini, suoni del futuro
Teatro delle Albe, fondato con il suo compagno di una vita Marco Martinelli (e con Luigi Dadina e
Martcella Nonni, era il 1983). La compagnia nasceva, dunque, trent'anni fa...«30 anni sono tanti eppure
pochissimi. C'è sempre un sentirsi adolescenti - ammette Ermanna - . E proprio gli adolescenti sono
ancora oggi il nostro bacino. Quando arrivammo al Teatro Rasi di Ravenna avevamo bisogno di un
pubblico e una delle nostre prime idee fu di andare nelle scuole superiori». L'incontro stesso con Marco
fu un incontro fra due adolescenti che negli anni Settanta frequentavano lo stesso liceo classico e
finirono per innamorarsi di loro e del teatro. «A 20 anni abbiamo lasciato le nostre famiglie e iniziato il
nostro volo nell'arte e nella politica. In quegli anni c'era un grande fermento nel nostro Paese. All'inizio
il nostro spazio fu la parrocchia di San Rocco, dove il parroco - era il %%77 - accettò di ospitarci. Lì
nacque il Teatro dell'Arte. Eravamo io e Marco, più altri gruppi. Facevamo un tipo di teatro politico
inteso come teatro che entra in relazione con la città. Non ci siamo mai sentiti artisti puri». E il primo
manifesto fu il «teatro politttttttico» (con 7 t). «Lo presentammo a Narni. Per noi significava avere un
occhio prismatico sulla realtà. Stava nascendo il teatro delle Albe...». E oggi? «Viviamo in un periodo
durissimo. L'Italia è qualcosa di magmatico, un Paese martoriato pieno di contraddizioni». Intanto
Ravenna e non solo festeggiano la compagnia, prima la con una bella e intensa giornata al Teatro Rasi
in compagnia dei 242 adolescenti, «una bellissima primavera eretica ». Poi c'è stato il teatro dell'Elfo di
Milano e di recente anche il libro di Laura Mariani: Ermanna Montanari. Fare-disfare-rifare nel Teatro
delle Albe (pagine 446, euro 23,00, Titivillus), un libro sulla centralità dell'attrice, «un libro murenico lo definisce Ermanna - . Laura ha scelto di scrivere un volume su una persona vivente. Ci ha lavorato
per quattro anni e ha seguito tutte le prove degli attori. All'inizio ero molto imbarazzata. Sono abituata a
lavorare da sola, ma lei mi ha costretta a rispondere a tante domande a cui non ero avvezza. È riuscita a
tirare fuori dei dettagli e a farli diventare importanti. Ha messo insieme tutta una serie di scritti che
erano sparsi in vari luoghi, tra i quali quelli su Campiano, dove sono nata. Mi sentivo spaesata in quella
terra straniera, dove tutti erano contadini. Le mie amiche andavano a divertirsi, mentre io ero più
propensa a studiare». Difficile scindere la figura di Ermanna da quella di Marco e probabilmente l'una
non sarebbe esattamente così com'è senza l'altro e viceversa... «Io e Marco? Ci plasmiamo, in modo
feroce. Non sarei l'attrice che sono senza di lui». E anche nei lavori più recenti (Pantani e Poco lontano
da qui con Chiara Guidi) i loro saperi si fondono alla perfezione. «Con Pantani penso che stiamo
percorrendo una via nuovissima. La scrittura di Marco scaturisce come da un rubinetto. La sua è una
scrittura autonoma, lo era in Rumore di acque e lo è in Poco lontano da qui e in Pantani, che è uno
spettacolo importante anche per me e che mi sta portando verso una nuova fase». Eppure non sono
mancate le difficoltà... «Ci sono stati momenti molto faticosi, soprattutto all'inizio. Io ho sempre avuto
una certa cupezza, e devo ringraziare Marco che riesce sempre a farmi uscire dal buoi. Lui mi aiuta a
vedere. Se non fosse per lui me ne starei in un cantuccio. Marco ha sempre avuto una predisposizione
alla relazione». E dopo Pantani e Poco lontano da qui («Lavorare con Chiara Guidi è stato molto duro,
ci siamo dette tante volte lasciamo stare , poi ci sembrava di deludere noi stesse») il nuovo progetto sarà
L'intrusa: «ha a che fare con l'adozione di mio fratello di una bimba ucraina, e anche con me stessa. E
poi c'è in preparazione un affresco per tutta la compagnia, Marco getterà un ponte fra la nascita e la fine
della nazione».
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