A mio padre INDICE Introduzione ..................................................................................................... p. 1 CAPITOLO I IL REGIME GIURIDICO INTERNAZIONALE DI PROTEZIONE DEI RIFUGIATI: LA CONVENZIONE DI GINEVRA DEL 1951 E IL PROTOCOLLO AGGIUNTIVO DEL 1967 1. Origine e sviluppo della protezione internazionale dei rifugiati.................. p. 4 1.1 La creazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati .............................................................................................. p. 8 1.2 I lavori preparatori: la nascita della Convenzione di Ginevra e il Protocollo del 1967 ............................................................................... p. 11 2. La definizione di rifugiato: le clausole di inclusione................................... p. 14 2.1 Il fondato motivo di persecuzione sulla base dei motivi elencati nell’art. 1A ............................................................................................. p. 16 2.2 L’allontanamento dal Paese di origine.................................................. p. 21 2.3 La mancanza di protezione da parte dello Stato di provenienza........... p. 23 3. Le clausole di esclusione e di cessazione dalla protezione.......................... p. 24 4. L’estensione della definizione di rifugiato negli strumenti regionali .......... p. 29 5. Il principio di non-refoulement .................................................................... p. 32 5.1 L’estensione applicativa del principio ratione personae e ratione loci........................................................................................................ p. 33 5.2 Extraterritorialità................................................................................... p. 36 5.3 Eccezioni al divieto di refoulement....................................................... p. 38 I CAPITOLO II LA TUTELA DEI RIFUGIATI NELL’AMBITO DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO 1. Osservazioni introduttive............................................................................. p. 42 2. Il principio di non-refoulement e la CEDU ................................................. p. 46 3. Il diritto fondamentale alla vita come limite all’allontanamento degli Stranieri........................................................................................................ p. 51 4. Il divieto di espulsione verso paesi in cui lo straniero rischia di subire trattamenti contrari all’articolo 3 CEDU .......................................... p. 57 4.1 Respingimenti in mare: la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Hirsi................................................................................................ p. 64 5. Il diritto alla libertà e alla sicurezza personale: la legittimità della detenzione dei richiedenti asilo.................................................................... p. 69 6. Il necessario equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata e familiare del richiedente asilo e gli interessi primari dello Stato ................ p. 74 CAPITOLO III LA NORMATIVA DELL’UNIONE EUROPEA IN MATERIA D’ASILO 1. L’evoluzione della politica comunitaria in materia d’asilo ......................... p. 81 1.1 Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia: dall’Atto Unico Europeo alla Convenzione di Dublino del 1990.................................................. p. 82 1.2 L’asilo nell’Unione europea: i Trattati di Maastricht e Amsterdam ..... p. 90 II 2. Verso un Sistema europeo comune d’asilo.................................................. p. 95 2.1 La seconda fase della politica in materia d’asilo: il Trattato di Lisbona e il Programma di Stoccolma .................................................. p.100 3. L’acquis comunitario sull’asilo ................................................................... p.107 3.1 La protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di profughi prevista dalla direttiva 2001/55/CE....................................................... p.107 3.2 La direttiva in materia di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale ....................................................................... p.111 3.3 La direttiva 2011/95/UE recante norme per l’attribuzione della qualifica di beneficiario di protezione internazionale........................... p.115 3.4 Le procedure comuni per il riconoscimento o la revoca della protezione internazionale ...................................................................... p.121 3.5 Il Sistema Dublino: il regolamento 604/2013, c.d. Dublino III e il regolamento Eurodac ...................................................................... p.126 CAPITOLO IV ASILO E RIFUGIO NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 1. Il diritto d’asilo nella Costituzione italiana.................................................. p.136 1.1 L’ambito di applicazione del diritto di asilo costituzionale.................. p.138 1.2 Il diritto di asilo costituzionale come diritto soggettivo perfetto .......... p.141 1.3 Il contenuto necessario del diritto di asilo costituzionale: il diritto di ingresso e di soggiorno nel territorio della Repubblica ...... p.143 1.4 Asilo costituzionale e rifugio convenzionale: due figure giuridiche Distinte .................................................................................................. p.145 2. Lo status di rifugiato nella prassi anteriore alla legge n. 39/1990 ............... p.147 III 3. L’evoluzione normativa in materia di immigrazione e asilo: dalla legge Martelli alla legge n. 189 del 30 luglio 2002 ..................................... p.150 3.1. Il Testo unico sull’immigrazione e la legge n. 189/2002..................... p.154 4. Il diritto di asilo in Italia alla luce della normativa comunitaria.................. p.160 4.1 Status di rifugiato e protezione sussidiaria nel d.lgs. n. 251/2007........ p.164 4.2 La procedura amministrativa per il riconoscimento della protezione internazionale ...................................................................... p.169 Conclusioni ...................................................................................................... p.181 Bibliografia ...................................................................................................... p.184 IV INTRODUZIONE “Il diritto di avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”. HANNAH ARENDT1 Le immagini di uomini, donne e bambini disperati costretti ad abbandonare il loro paese per salvare la propria vita o la propria libertà, scorrono con disarmante regolarità sugli schermi delle nostre televisioni. Quella che ci viene mostrata è la realtà quotidiana di milioni di persone che rivoluzioni, guerre e massive violazioni dei diritti umani fondamentali hanno costretto all’esilio. L’esistenza del problema mondiale dei rifugiati non può essere negata: sono infatti oltre 11 milioni, secondo i dati dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati2, le persone rifugiate nel mondo. Sebbene il problema dei rifugiati internazionali non sia frutto di un particolare contesto storico-sociale, ma è nato con l’uomo e con esso si è evoluto, è solo nella prima metà del XX secolo, in concomitanza con la crescente presa di coscienza di valori quali la libertà e la dignità dell’uomo, che si sono verificate le prime iniziative giuridiche, oltre che politiche e sociali, nel tentativo di fronteggiare le innumerevoli difficoltà a cui le persone costrette a cercare rifugio andavano incontro. Una costante dell’umanità che dal 1951, in un’Europa ancora sconvolta dalle persecuzioni perpetrate durante la seconda guerra mondiale e testimone di massicci esodi di sfollati, trova una definizione e un meccanismo di tutela nella Convenzione di Ginevra, pietra miliare per la protezione dei rifugiati. Tale testo costituirà infatti la base giuridica per tutti gli strumenti che, a livello regionale e 1 ARENDT, H., Le origini del totalitarismo, tr. it. di Guadagnin A., Einaudi, Torino, 2004, p. 413. Fonte: UNHCR, Mid-Year trends 2013, disponibile al sito www.unhcr.org/52af08d26.html. A tale dato è necessario aggiungere i 4,9 milioni di rifugiati palestinesi che sono di esclusiva competenza dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente (UNRWA). È opportuno osservare inoltre che il numero di persone di competenza dell’UNHCR ammonta a un totale di 38,7 milioni di persone di cui 11,1 milioni sono rifugiati, 987.500 richiedenti asilo, 189.300 rifugiati rimpatriati nel primo semestre del 2013, 20,8 milioni sfollati, 688.200 sfollati ritornati nel loro paese di origine, 3,5 milioni apolidi, 1,4 milioni altre persone di competenza. 2 1 nazionale, saranno successivamente elaborati in materia, oltre che lo statuto guida dell’attività dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Scopo della presente trattazione è l’analisi della disciplina normativa del diritto d’asilo e dello status di rifugiato nel sistema multilivello di protezione dei diritti fondamentali. Il sistema di protezione dei diritti fondamentali all’interno dello spazio europeo si presenta oggi, infatti, in una forma multidimensionale, ove, accanto alla tutela garantita dagli ordinamenti nazionali, si affiancano strumenti di carattere sovranazionale e internazionale. L’interazione tra Stati membri, Unione europea e Consiglio d’Europa, iniziata negli anni cinquanta e in continua evoluzione, si propone di offrire la più estesa garanzia possibile ai diritti riconosciuti come fondamentali. Il coordinamento necessario tra i vari sistemi di protezione avviene soprattutto a livello giurisdizionale, grazie alla costante evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di giustizia dell’Unione europea e delle Corti nazionali, garanti del rispetto delle libertà fondamentali nei vari sistemi. Le complessità e le opportunità di tale meccanismo traspaiono in particolar modo in materia di asilo e di protezione dei rifugiati. Dopo una breve analisi storica dell’origine e degli sviluppi della protezione internazionale dei rifugiati, nonché delle ragioni che portarono alla costituzione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il primo capitolo tratterà degli elementi della definizione universalmente accettata di rifugiato, racchiusa nell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Accanto ai presupposti che devono sussistere ai fini del riconoscimento dello status, saranno analizzate nel dettaglio le circostanze che determinano la cessazione e il diniego della protezione internazionale. L’attenzione si focalizzerà successivamente sul principio di non-refoulement, cardine della tutela internazionale dei rifugiati, così come sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra. Per completare il quadro internazionale si accennerà brevemente a due strumenti regionali in materia di rifugiati, di particolare interesse per l’estensione della definizione di rifugiato in essi contenuta: la Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) e la Dichiarazione di Cartagena. Il diritto di asilo non è garantito in quanto tale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, tuttavia tramite un’interpretazione funzionalistica della stessa, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha creato un sistema di limiti al potere 2 degli Stati contraenti di estradare, espellere o più generalmente allontanare gli stranieri verso paesi in cui vi è un’alta possibilità di violazione dei diritti protetti in seno alla Convenzione. Nel secondo capitolo si analizzerà come appunto la CEDU sia stata applicata dai suoi organi di monitoraggio, alla luce del principio di non-refoulement, in casi riguardanti l’allontanamento di individui dal territorio degli Stati parte, ponendo particolare attenzione alla valutazione dell’esistenza del rischio di violazione di diritti umani fondamentali e del livello necessario di tale rischio per far sorgere la responsabilità degli Stati medesimi. Il terzo capitolo è dedicato alla dimensione comunitaria del diritto di asilo. Dopo una prima analisi dell’evoluzione della politica comunitaria che ha condotto alla comunitarizzazione della materia dell’asilo, passando attraverso la lunga fase della cooperazione intergovernativa, di cui le Convenzioni di Schengen e Dublino sono il principale esempio, l’attenzione sarà dedicata al progressivo sviluppo del c.d. Sistema europeo comune d’asilo. In particolare saranno analizzati nel dettaglio gli strumenti legislativi recentemente adottati dalle istituzioni comunitarie con l’obiettivo di istituire una procedura comune in materia d’asilo e uno status uniforme per i soggetti beneficiari della protezione internazionale. La dimensione nazionale degli istituti dell’asilo e del rifugio costituisce il tema d’indagine dell’ultimo capitolo. Attraverso la puntuale analisi del diritto d’asilo così come ampliamente contemplato dall’articolo 10, comma 3, della Carta costituzionale e dell’evoluzione della normativa in materia di asilo e immigrazione, si evidenzieranno gli aspetti di maggiore criticità del nostro ordinamento in materia di protezione dei richiedenti asilo. Si illustreranno, infine, i mutamenti del quadro normativo italiano a seguito del recepimento della normativa europea in materia di asilo, con particolare riguardo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e al contenuto dello status riconosciuto. 3 CAPITOLO I IL REGIME GIURIDICO INTERNAZIONALE DI PROTEZIONE DEI RIFUGIATI: LA CONVENZIONE DI GINEVRA DEL 1951 E IL PROTOCOLLO AGGIUNTIVO DEL 1967 1. Origine e sviluppo della protezione internazionale dei rifugiati Il problema delle migrazioni forzate e degli esodi non è il frutto di un particolare contesto storico-sociale, ma è connaturato alla stessa esistenza dell’uomo e con esso si è evoluto, adattandosi alle diverse situazioni storiche. Ciò nonostante, una presa di coscienza del fenomeno si è avuta soltanto nel corso del XX secolo, con il progressivo emergere del valore della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali, che ha condotto alle prime iniziative giuridiche, sia a livello internazionale che locale, volte a garantire una qualche forma di protezione ai rifugiati. La Convenzione di Ginevra è il frutto di un processo storico e concettuale che, partendo dalla 1° Guerra Mondiale e da una situazione in cui non esisteva alcuna forma di accordo internazionale riguardo ai rifugiati, ha sperimentato attraverso tentativi più o meno riusciti, meccanismi innovativi di protezione e assistenza1. Le origini di questo processo risalgono agli inizi degli anni Venti e furono determinate, oltre che dagli effetti del disastroso primo conflitto mondiale, anche dai ben noti eventi della rivoluzione bolscevica del 1917 e dal collasso dell’impero ottomano e dell’impero austro-ungarico, che costrinsero un’ingente massa di persone ad abbandonare la propria terra e a ritrovarsi al di fuori degli Stati di cui avevano la nazionalità, non potendo più beneficiare dei diritti connessi allo status di cittadino. Di fronte a questo inquietante scenario, la neonata Società delle Nazioni2 ritenne opportuno un intervento di carattere globale, poiché i 1 FERRARI G., La Convenzione sullo status dei rifugiati. Aspetti storici, relazione tenuta all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Scienze Politiche, Cattedra di Diritto Internazionale, p. 6. 2 La prima conferenza della Società delle Nazioni si tenne a Ginevra il 15 novembre 1920, le nazioni rappresentate erano 42. Fu costituita con il fine precipuo di creare un organismo internazionale che favorisse il rispetto degli obblighi assunti alla fine del conflitto ed evitasse il ripetersi di eventi bellici. 4 singoli Stati non avrebbero potuto unilateralmente risolvere la situazione del movimento involontario di milioni di persone. Il 26 febbraio del 1921 il Consiglio della Società delle Nazioni emanò la sua prima risoluzione sui rifugiati3 e pochi mesi dopo, sotto la spinta del Comitato Internazionale della Croce Rossa, fu creato l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Rifugiati, il cui incarico venne affidato all’esploratore norvegese Dr. Fridtjof Nansen. La responsabilità della neonata istituzione era quella di proteggere particolari gruppi di rifugiati, inizialmente le popolazioni in fuga dalla rivoluzione russa, successivamente anche rifugiati Greci, Turchi, Bulgari e Armeni. Cosi come sottolineato dalla Commissione Consultiva per i Rifugiati, “the characteristic and the essential feauture of the problem was that persons classed as “refugees” have no regular nationality and are therefore deprived of the normal protection accorded to regular citizens of a State”4. Per porre rimedio alla situazione vennero conclusi i primi accordi5, le cui clausole prevedevano l’emissione di un documento di identità e di viaggio, il cosiddetto Passaporto Nansen, che veniva accordato dallo Stato di rifugio e avrebbe permesso ai rifugiati, in presenza di determinate circostanze, di essere ammessi in altri paesi. Si trattava di un approccio minimalista ad un problema, quello dei rifugiati, considerato una vera e propria anomalia del diritto internazionale, in quanto codeste persone non beneficiavano né della condizione di reciprocità che caratterizza il rapporto tra Stati in merito al trattamento degli stranieri, né godevano della protezione del loro paese d’origine. Gli strumenti giuridici adottati legavano la definizione di rifugiato all’appartenenza a determinati gruppi nazionali, senza indicare i motivi per cui gli appartenenti a tali gruppi erano divenuti rifugiati, ma facendo riferimento alla mera mancanza di protezione. Occorre sottolineare inoltre che si trattava in realtà di semplici raccomandazioni, la cui applicazione era demandata alla buona volontà degli Stati aderenti. In seguito al decesso di Nansen, avvenuto nel 1930, fu istituito un ufficio autonomo, denominato Ufficio Internazionale Nansen, sotto la cui egida venne 3 I2LONCM 19, 117 v. LAPENNA E., voce Rifugiati, in Enciclopedia giuridica, vol. XXVII, Roma, 2007, p. 3. 4 Report by the Secretary-General on the Future Organisation of the Refugee Work, LN Doc.1930.XIII.2 in HATHAWAY J., The rights of refugees under international law, Cambridge University Press, 2005, p. 84. 5 conclusa, il 28 ottobre 1933, la Convenzione sullo Statuto Internazionale dei Rifugiati6, il primo strumento internazionale vincolante in materia di protezione dei rifugiati. Al suo interno vi erano previsioni riguardanti le misure amministrative, la condizione giuridica, le condizioni di lavoro, l’assistenza sanitaria ed assicurativa (parificate al miglior trattamento previsto dal diritto interno per gli stranieri), l’istruzione e il trattamento fiscale dei rifugiati. La clausola maggiormente rilevante era contenuta nell’art. 3, il quale stabilendo che “Each of the Contracting Parties undertakes not to remove or keep from its territory by applications of police measures, such as expulsions or nonadmittance at the frontier (refoulement), refugees who have been authorised to reside there regularly, unless the said measures are dictated by reasons of national security or public order”, sanciva esplicitamente il principio di non refoulement. Nella pratica la Convenzione del ’33 non espanse i diritti dei rifugiati, solo otto Stati ratificarono il trattato, la maggior parte dei quali con numerose riserve. Un ulteriore strumento venne adottato dall’Ufficio Internazionale Nansen prima della scadenza del suo mandato, la Convenzione del 1938 sullo Statuto dei Rifugiati Provenienti dalla Germania, successivamente estesa ai rifugiati austriaci costretti ad abbandonare il loro paese per sfuggire alle persecuzioni naziste, tramite un apposito Protocollo Addizionale7. La Convenzione, all’articolo 1, adottava una definizione di rifugiato da cui furono espressamente esclusi coloro che lasciavano la Germania per motivi di pura convenienza. Mentre la maggior parte dei diritti riflettevano quelli previsti dal precedente accordo del 1933, due nuove previsioni furono incluse nel trattato: la possibilità per gli Stati di aderire al regime della Convenzione senza impegnarsi a comunicare previamente un’eventuale rinuncia a questa8 e la garanzia di ogni agevolazione per i rifugiati e le organizzazioni a questi relative per l’istituzione di scuole per il riadattamento 5 L’accordo del 12 maggio 1926 riguardante i rifugiati russi pre-bellici e i rifugiati armeni prebellici; l’Accordo del 30 giugno 1928 che riguardò i rifugiati assiri o assiro-caldei e assimilati ed i rifugiati turchi. 6 La convenzione era applicabile ai rifugiati russi, armeni ed assimilati sulla base degli accordi del 1926 e del 1928, v. LENZERINI F., Asilo e diritti umani, Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 148. 7 Additional Protocol to the Provisional Arrangement and to the Convention, Signed at Geneva on July 4th, 1936, and February 10th, 1938, Respectively Concerning the Status of Refugees Coming from Germany, League of Nations Treaty Series, vol. CXCVIII No. 4634, p. 141. 8 Nonostante questa nuova flessibilità soltanto tre Stati, Belgio, Francia e Regno Unito, ratificarono la Convenzione. 6 professionale e la pratica lavorativa, nell’obbiettivo di facilitare l’emigrazione dei rifugiati verso i paesi d’oltre mare. Questa seconda “profetica” statuizione conferma come di fronte alla riluttanza dei paesi europei a garantire significativi diritti ai rifugiati, non restasse nessuna opzione se non quella di promuovere il reinsediamento dei rifugiati al di fuori della regione9. L’Ufficio internazionale Nantes operò fino al 1938, a partire dal 1° gennaio 1939, l’organizzazione, insieme all’Alto Commissario per i rifugiati provenienti dalla Germania10 che era stato istituito nel 1933, venne sostituita da un nuovo Alto Commissario con sede a Londra, la cui attività proseguì fino al 1946, sia pure con risorse troppo scarse per fronteggiare la gravissima situazione determinata dall’avvento delle dittature europee e dagli eventi del secondo conflitto mondiale. Al termine della Seconda Guerra Mondiale prese avvio quella che può essere definita come la seconda fase dell’azione internazionale a favore dei rifugiati. Si stimano in circa ventuno milioni, i profughi, gli sfollati e i rifugiati soltanto nel continente europeo: il problema aveva assunto dimensioni gigantesche. Le Nazioni Unite11 percepirono così come urgente la necessità di affrontare tale situazione, considerandola una delle priorità dell’organizzazione. Tra il 1943 e il 1948 le Potenze Alleate istituirono l’Amministrazione delle Nazioni Unite per il Soccorso e la Riabilitazione (UNRRA), un organismo il cui fine precipuo era quello di fornire protezione e assistenza materiale a determinate categorie di rifugiati, garantendo cibo, assistenza sanitaria, vestiario e altri generi di base, oltre che facilitare il reinserimento di quanti volessero rimpatriare. Alla scadenza del mandato i compiti dell’UNRRA, cosi come quelli dell’Alto Commissario, vennero trasferiti all’Organizzazioni Internazionale per i Rifugiati, creata nel 1947 dalle Nazioni Unite, come agenzia specializzata temporanea (fino al 1952). Fu la prima agenzia avente carattere internazionale con la responsabilità 9 HATHAWAY J., op. cit., p. 90. L’Alto Commissario James McDonald fu impegnato nella ricerca di protezione e asilo per i rifugiati provenienti dalla Germania schiacciata dalla dittatura hitleriana. Occorre inoltre ricordare, per completezza espositiva, il Comitato Intergovernativo per i Rifugiati, istituito nel luglio del 1938 su iniziativa del Presidente statunitense Franklin D. Roosevelt, per garantire l’emigrazione delle persone intenzionate ad abbandonare i territori sotto occupazione della Germania. A partire dal 1939 anche questo organismo venne posto sotto l’egida del nuovo Alto Commissario. 11 La Carta delle Nazioni Unite venne firmata a San Francisco il 26 giugno 1945. È il primo documento di diritto internazionale che dà rilievo alla persona umana come soggetto attivo di diritto in campo internazionale, v. LAPENNA E., op. cit, p. 3. 10 7 di gestire integralmente ogni aspetto della vita dei rifugiati e, nei suoi tre anni e mezzo di attività, si occupò di 1.600.000 rifugiati, riuscendo a trovare una sistemazione permanente per oltre un milione di essi e permettendone il rimpatrio di circa 73.000. La Costituzione dell’IRO12 non introduceva nulla di innovativo rispetto al sistema delle “categorie” sperimentato dalla Società delle Nazioni nel periodo tra i due conflitti mondiali, ai fini dell’identificazione dei rifugiati da assistere e proteggere. Occorre sottolineare invece l’ampiezza delle funzioni ad esso affidate dalla Costituzione, elencate all’art. 2: rimpatrio, identificazione, registrazione e classificazione, cura e assistenza, protezione politica e legale, trasporto, reinsediamento e ristabilimento delle persone rientranti nel suo mandato. 1.1 La creazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Durante la fase finale di attività dell’IRO, l’Assemblea Generale riconobbe sia la necessità della creazione di un organismo che ne proseguisse l’opera, che quella di elaborare un nuovo strumento giuridico internazionale in materia di rifugiati. Il Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) venne incaricato di formulare le prime proposte in materia. Le questioni maggiormente dibattute erano definitorie, chi avrebbe dovuto beneficiare della protezione internazionale, e funzionali, cosa avrebbe dovuto essere fatto per i rifugiati, chi avrebbe dovuto farlo e con quali risorse13. Mentre tutti gli Stati riconoscevano la necessità di un’organizzazione internazionale per la protezione dei rifugiati, differenti erano le loro visioni circa quelli che avrebbero dovuto essere lo scopo e le funzioni dell’UNHCR. Gli Stati Uniti erano favorevoli a un’agenzia temporanea, con una ristretta autorità e funzioni limitate. Al contrario, la Francia e i Paesi del Benelux erano ansiosi di assicurare ingenti fondi per i richiedenti asilo che assistevano nei loro territori. Altri Stati geograficamente protetti dai flussi di rifugiati, come il Regno Unito, ritenevano che questi ultimi ricadessero sotto la responsabilità degli Stati di arrivo. Infine, India e Pakistan, i quali erano in balia, a causa della partizione del 1947, di uno dei più grandi scambi di popolazione dell’epoca moderna, sostennero che l’UNHCR avrebbe dovuto essere un’organizzazione permanente, con 12 Adottata con 30 voti favorevoli, 5 contrari e 18 astenuti: UNGA res. 62(I), 15 Dec. 1946. 8 responsabilità a livello globale e la capacità di raccogliere fondi per il soccorso e l’assistenza dei rifugiati. Questi interessi divergenti giocarono un ruolo fondamentale nella definizione del mandato dell’Agenzia e della sua autonomia rispetto ai Governi14. Il 3 dicembre 1949, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite diede vita all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e il 14 dicembre 1950 con la risoluzione 428(V) venne adottato il relativo Statuto15, che ne definisce la struttura, il ruolo e le funzioni. L’organizzazione così creata non era dotata di un mandato a tempo indeterminato, bensì limitata ad operare per un periodo di tre anni, a partire dal 1951. Mediante successive risoluzioni dell’Assemblea Generale, l’incarico dell’UNHCR è stato regolarmente rinnovato fino al 2003, anno in cui è stata emanata una risoluzione che ha eliminato qualsiasi limitazione temporale, mantenendo in vita l’organizzazione “fino a quando il problema dei rifugiati non sarà risolto”16. Come specificato nel capitolo primo dello Statuto, il mandato fondamentale dell’UNHCR, che agisce sotto l’autorità dell’Assemblea Generale essendo un organo sussidiario della stessa, consiste nell’assicurare, su base umanitaria e apolitica, protezione internazionale17 ai rifugiati e ricercare soluzioni permanenti per i soggetti che rientrano nella sua competenza, come il rimpatrio volontario, l’integrazione nella comunità del paese d’asilo o il reinsediamento in un paese terzo. Benché lo Statuto dichiarasse che l’UNHCR si sarebbe dovuto occupare, di regola, di categorie e gruppi di rifugiati, piuttosto che d’individui, conteneva una definizione della competenza generale, ma di individuale applicazione. Il fulcro della definizione, contenuta nell’art. 6(B), è il fondato motivo di persecuzione a causa di razza, religione, nazionalità, 13 o opinione politica, associato GOODWIN-GILL G., The refugee in International Law, Oxford University Press, 1996, p. 211. Il risultante Statuto costitutivo chiaramente riflette gli interessi delle maggiori potenze all’interno della comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e il Regno Unito. V. LOESCHER G., BETTS A., MILNER J., The United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR): The Politics and Practice of Refugee Protection, Routledge, 2008, p. 13. 15 ONU, Assemblea Generale, Risoluzione 428(V), 12 dicembre 1950, Statute of the Office of the United Nation High Commisioner for Refugees, Annex, UN Doc. A/1775, par. 1, disponibile all’indirizzo www.unhcr.org/3b66c39e1.html. 16 ONU, Assemblea Generale, Risoluzione 58/153, 22 dicembre 2003, par. 9. 17 L’espressione protezione internazionale deve essere intesa in riferimento alla mancanza di protezione diplomatica che riguarda i rifugiati, i quali, ritrovandosi all’estero senza le garanzie 14 9 all’impossibilità o al rifiuto di avvalersi della protezione diplomatica del proprio paese. Emerge, da queste parole, la vocazione universale dell’UNHCR. Attualmente i soggetti che ricadono nel mandato dell’Agenzia sono: • i rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo del 1967; • i rifugiati ai sensi della Convenzione OUA del 1969 e della Dichiarazione di Cartagena del 1984; • i richiedenti asilo, ovvero coloro che, lasciato il proprio paese d’origine e avendo inoltrato una richiesta di protezione internazionale, sono in attesa di una decisione da parte delle autorità del paese ospitante riguardo al riconoscimento dello status di rifugiato; • i rimpatriati, ovvero i rifugiati che hanno fatto volontario ritorno nel proprio paese di origine; • gli apolidi18; • gli sfollati all’interno del proprio paese (Internally Displaced People, IDP), ovvero persone in una situazione simile a quella dei rifugiati che non hanno però attraversato un confine internazionale19. Non rientravano nella missione dell’UNHCR i rifugiati determinati dalla guerra di Corea, sotto mandato dell’United Nations Korean Reconstruction Agency (UNKRA), e i rifugiati palestinesi, sotto protezione dell’United Nations Relief and Work Agency (UNRWA), quest’ultima tuttora operante. offerte dalla presenza di uno Stato competente a salvaguardarne gli interessi, possono subire abusi da parte dello Stato in cui si trovano. 18 L’apolidia è la condizione giuridica dell’individuo che nessuno Stato considera come cittadino sulla base del proprio ordinamento. L’apolide si trova in una posizione assai svantaggiosa rispetto al cittadino perché, oltre a non possedere i diritti connessi con lo status civitatis, non può beneficiare della protezione diplomatica che lo Stato può esercitare a tutela dei propri cittadini. V. BAREL B., voce Apolidia, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. II, tomo I, Roma, 2007, p. 1. 19 Questa nuova categoria di migranti forzati è stata formalmente definita, nel documento Guiding Principles on Internal Displacement del 1998 (E/CN.4/1998/53/Add.2), come “[people] who have been forced or obliged to flee or to leave their homes or places of habitual residence in particolar as a result of generalized violence, violations of human rights or natural or man-made disasters, and who have not crossed an internationally recognized state border”. A causa dell'assenza di un mandato generale finalizzato alla loro assistenza, la maggior parte degli sfollati non riceve protezione o assistenza internazionale. Negli ultimi anni, il mutamento della natura dei conflitti ha condotto ad un progressivo aumento delle persone sfollate all'interno del proprio paese e su specifica richiesta del Segretario Generale o dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dopo il consenso dello stato interessato o quanto meno il suo impegno a non ostacolare le operazioni di assistenza, l'UNHCR ha progressivamente assunto l'incarico di assistere le popolazioni sfollate di alcuni paesi. Non esistono statistiche certe sul numero degli sfollati nel mondo. Il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per gli Sfollati stima che il numero attuale si attesti intorno ai 27,5 milioni. 10 Dal punto di vista strutturale, lo Statuto precisa che l’Alto Commissario viene eletto dall’Assemblea Generale su raccomandazione del Segretario Generale con un mandato di cinque anni. Egli deve condurre la propria attività conformemente alle linee guida emanate dall’ECOSOC e dall’Assemblea Generale, ai quali riferisce annualmente. Nel 1958 è stato istituito dall’Assemblea Generale l’organo di maggior rilievo dell’organizzazione: il Comitato Esecutivo del Programma dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ExCom). L’ExCom è composto da Stati membri dell’ONU selezionati dall’ECOSOC “on the widest possible geographic basis from those States with a demonstrated interest in, and devotion to, the solution of the refugee problem”20 e si riunisce annualmente per una settimana, nel mese di ottobre. I suoi compiti principali sono l’approvazione del bilancio e dei programmi d’azione dell’UNHCR relativi agli anni successivi, l’emanazione di risoluzioni sulla politica di protezione internazionale dei rifugiati e la direzione dell’UNHCR nel suo complesso (amministrazione, obiettivi e priorità)21. Per quanto concerne il finanziamento dell’organizzazione, come specificato all’art. 20 dello Statuto, unicamente le spese amministrative necessarie al funzionamento dell’Alto Commissario sono imputate al budget delle Nazioni Unite, tutte le altre voci di spesa sono coperte da contributi volontari. Le caratteristiche strutturali appena ricordate evidenziano come, attraverso una serie di limitazioni, gli Stati hanno voluto porre in essere un’organizzazione che non avrebbe creato né una minaccia alla loro sovranità, né generato in capo agli stessi obblighi finanziari. 1.2 I lavori preparatori: la nascita della Convenzione di Ginevra e il Protocollo del 1967 Con la risoluzione 248 B (IX) dell’8 agosto 1949, il Consiglio Economico e Sociale istituì un Comitato di Esperti per i Rifugiati e gli Apolidi con il compito di studiare una nuova convenzione internazionale relativa allo status dei rifugiati e degli apolidi. Il testo approvato dal Comitato rifletteva il precedente sistema delle “categorie”, essendo la definizione di rifugiato ancora legata all’appartenenza a 20 ONU, Assemblea Generale, Risoluzione 1166 (XII), International Assistance to Refugees within the Mandate of the United Nations High Commissioner for refugees, 26 novembre 1957. 21 Cfr. LOESCHER G., BETTS A., MILNER J., op. cit., p. 77. 11 determinati gruppi nazionali. Fu proprio questo il punto maggiormente discusso, su cui si confrontarono due orientamenti contrapposti. Gli Stati Uniti erano favorevoli a una limitazione della responsabilità degli stati sottoscrittori e al conseguente mantenimento del precedente sistema; al contrario, Francia e Regno Unito, alla luce della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo22, sostennero una definizione di rifugiato avente valore universale, che ricoprisse qualsiasi potenziale situazione, presente e futura, privilegiando l’individualità dei rifugiati in quanto persone e non in quanto appartenenti a determinati gruppi nazionali. La discussone venne portata avanti e finì con il concretizzarsi nel corso della Conferenza dei Plenipotenziari, tenutasi a Ginevra dal 2 al 25 luglio 1951. La Conferenza fu convocata dall’Assemblea Generale per ottenere il maggior numero di consensi circa il nuovo strumento. Si volevano evitare gli errori del passato, in cui erano comitati di esperti, sia pure rappresentanti dei governi, ad adottare gli accordi, che furono cosi sottoscritti solo da un esiguo numero di Stati. I 26 Stati partecipanti approvarono il testo dell’attuale Convenzione il 25 luglio, con 24 voti a favore e 2 astensioni23. Aperta alla firma presso l’Ufficio Europeo delle Nazioni Unite a Ginevra, la Convenzione entrò in vigore il 22 aprile 1954, in conformità all’art. 43, in seguito al deposito del sesto strumento di ratificazione24. Considerata la Magna Charta dei rifugiati, la Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 rappresenta il tentativo, unico nella storia della normativa internazionale sui rifugiati, di istituire un codice dei diritti che copra ogni aspetto fondamentale della vita e che garantisca ai rifugiati un trattamento minimo, non inferiore a quello accordato agli stranieri residenti legalmente nel paese d’asilo. Inoltre si tratta del primo strumento convenzionale contenente una definizione generale dei soggetti da considerarsi rifugiati, le cui clausole sono quindi applicabili nei confronti di chiunque presenti oggettivamente gli elementi da esso richiesti affinché possa essere incluso in tale categoria, a prescindere dalla nazionalità e, seppur inizialmente con certi limiti, dall’area geografica di provenienza. 22 Proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 a Parigi, GA Res. 217 A (III) 23 Espressero un voto favorevole: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Principato di Monaco, Repubblica Federale di Germania, Regno Unito di Gran Bretagna, Irlanda del Nord, Santa Sede, Svezia, Svizzera, Turchia, Jugoslavia, Brasile, Canada, Colombia, Venezuela, Israele, Egitto, Australia. Astenuti: Stati Uniti e Iraq. 12 Gli Stati furono originariamente riluttanti a sottoscrivere un “assegno in bianco” circa la futura protezione di un numero indefinito di rifugiati. Per questa ragione furono incluse nell’articolo 1, contenente la definizione di rifugiato, limitazioni temporali e geografiche. I soggetti rientranti nell’ambito di applicazione della Convenzione erano soltanto quelli divenuti rifugiati per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 195125, da intendersi, come specificato alla lettera B dello stesso articolo, nel senso di “avvenimenti26 accaduti anteriormente al 1°gennaio 1951 in Europa” o “avvenimenti accaduti anteriormente al 1°gennaio 1951 in Europa o altrove”. Fu quindi lasciata agli stati la possibilità di interpretare restrittivamente la clausola ai soli eventi occorsi nel territorio europeo. Ciascuno stato all’atto della firma, della ratifica o dell’accessione della Convenzione, avrebbe dichiarato l’estensione che intendeva attribuire all’espressione, potendo in ogni tempo modificarla mediante notificazione al Segretario generale delle Nazioni Unite27. Negli anni successivi all’adozione della Convenzione emersero nuovi gruppi di rifugiati, in particola modo in Africa e in Asia, in seguito ai conflitti legati al processo di decolonizzazione avviato negli anni ’50. Divenne pertanto necessario estendere a questi ultimi rifugiati la protezione offerta dalla Convenzione. A tale scopo venne elaborato e presentato all’Assemblea Generale nel 1966, un Protocollo Relativo allo Status di Rifugiato. Con la risoluzione n. 2198 (XXI) del 16 dicembre 1966, l’Assemblea prese atto di questo Protocollo e pregò il Segretario Generale di sottoporre il testo agli Stati in modo da permettere loro di aderirvi. Il testo originale fu firmato a New York il 31 gennaio 1967 ed entrò in vigore il 4 ottobre dello stesso anno. 24 Al 28 luglio 2011 gli Stati firmari sono 148, compresi i paesi aderenti unicamente al Protocollo del 1967. Fonte: www.unhcr.org/protect/PROTECTION/3b73b0d63.pdf. 25 La convenzione si applica tuttavia a persone divenute rifugiate dopo questa data, se possono dimostrare che il motivo della loro fuga è da imputare a tali eventi. V. Nota introduttiva dell’Alto Commisario delle Nazioni Unite per i Rifugiati reperibile al sito www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/13/convenzione_Ginevra_rifugiat o.pdf. 26 Il termine ‘avvenimenti’ non è definito nella Convenzione ma è inteso come designante “avvenimenti della più grande importanza che hanno provocato modifiche territoriali o cambiamenti politici profondi, così come le persecuzioni sistematiche intervenute a seguito di cambiamenti pregressi”, v. Documento ONU E/1618 27 Gli Stati che tuttora mantengono la limitazione sono: Repubblica Democratica del Congo, Madagascar, Principato di Monaco, Malta, Turchia, e fino al 31 dicembre 1989 anche l’Italia. FERRARI G., op. cit., p. 5. 13 Gli stati aderenti al Protocollo si impegnano ad applicare le disposizioni fondamentali della Convenzione del 1951 ai rifugiati, come definiti nella Convenzione, senza tener conto della limitazione temporale del 1°gennaio 1951. L’articolo I del Protocollo dispone infatti: “1. The States Parties to the present protocol undertake to apply Articles 2 to 34 inclusive of the Convention to refugees as hereinafter defined. 2. For the purpose of the present protocol, the term ‘refugee’ shall, except as regards the application of paragraph 3 of this Article, mean any person within the definition of Article 1 of the Convention as if the words ‘As a result of the events occurring before 1 January 1951 and …’ and the words ‘…a result of such events’, in Article 1 (A)2 were ometted”28. Il Protocollo, inoltre, al par. 3 dello stesso articolo I rimuove la limitazione geografica prevista dall’articolo 1B(1)(a) della Convenzione, facendo tuttavia salve le eventuali dichiarazioni già rese in virtù del citato articolo, che si applicheranno anche sotto il regime del nuovo strumento29. Si tratta di un accordo nuovo e autonomo per i paesi che non avevano aderito alla precedente Convenzione. Insieme la Convenzione del 1951 e il Protocollo coprono tre temi fondamentali: • la definizione del termine di rifugiato, così come le condizioni di cessazione e di esclusione dallo status relativo; • lo status giuridico dei rifugiati nei paesi di asilo, i loro diritti e doveri; • gli obblighi degli Stati, compresi quelli di cooperazione con l’UNHCR nell’espletamento dei compiti che gli sono propri30. 2. La definizione di rifugiato: le clausole di inclusione La definizione di rifugiato è fornita dall’articolo 1 della Convenzione del 1951 il quale dispone che: “A. For the purpose of the present Convention, the term ‘refugee’ shall apply to any person who: (1) Has been considered refugee under the Arrangements of 12 May 1926 and 30 June 1928 or under the Conventions of 28 October 1933 and 10 February 1938, the Protocol of 14 september 1939 or the 28 ONU, Protocol relating to the Status of Refugees, UNTS, vol. 606, p. 267. Ciò a meno che, naturalmente, uno Stato che avesse optato per l’ambito di applicazione della Convenzione più ristretto, non avesse poi esteso i suoi obblighi conformemente all’articolo 1B(2). 29 14 Constitution of the International Refugee Organization; Decisions of noneligibility taken by the International Refugee Organization during the period of its activities shall not prevent the status of refugee being accorded to persons who fullfil the conditions of paragraph 2 of this section; (2) As a result of events occurring before 1 January 1951 and owing to well-founded fear of being persecuted for reasons of race, religion, nationality, membership of a particolar social group or political opinion, is outside the country of his nationality and is unable, or, owing to such fear, unwilling to avail himself of the protection of that country; or who, not having a nationality and being outside the country of his former habitual residence as a result of such events, is unable or, owing to such fear, is unwilling to return to it […]”31. La prima parte della norma tratta dei rifugiati c.d “statutari” cioè riconosciuti tali da trattati precedenti l’entrata in vigore della Convenzione. Il richiamo dei suddetti strumenti internazionali ha lo scopo di stabilire un legame con il passato e di assicurare la continuità della protezione a vantaggio dei soggetti già oggetto di interessamento da parte della comunità internazionale 32. Nella seconda parte, contenente la definizione universalmente accettata di rifugiato, sono indicate in modo generale e astratto una serie di condizioni, la cui verifica nel caso concreto viene chiamata “eleggibilità”. A questi requisiti di eleggibilità si contrappongono le situazioni che conducono alla cessazione dello status di rifugiato (lettera C del medesimo articolo), da un lato, e quelle situazioni la cui presenza esclude la possibilità del riconoscimento dello status (lett. D), dall’altro33. Prima di passare all’analisi delle singole clausole di inclusione occorre ricordare che la determinazione dello status di rifugiato è di tipo dichiarativo e 30 ODELLO M., Il diritto dei rifugiati. Elementi di diritto internazionale, europeo e italiano, Franco Angeli Editore, Milano, 2013, p. 61. 31 ONU, Convention Relating to the Status of Refugees, UNTS, vol. 189, I2545. 32 Nonostante la non attualità della previsione, ai fini dell’interpretazione del concetto di rifugiato, tale inclusione di gruppi di persone è interessante per i possibili aspetti applicativi della Convenzione e per un’interpretazione che sia consona alle esigenze di protezione di persone che sfuggono da situazioni di persecuzione, non sempre direttamente dimostrabili dal punto di vista individuale. Cfr. ODELLO M., op.cit., p. 60. 33 L’analisi delle definizione di rifugiato condotta attraverso la scomposizione e lo studio dei suoi elementi costitutivi non deve far perdere di vista l’unitarietà delle definizione in questione. Essa deve essere infatti interpretata in modo “olistico” sulla base del significato ordinario del complesso dei termini che la compongono e alla luce dell’oggetto e dello scopo della Convenzione di Ginevra (in conformità all’art. 31 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati), v. UNHCR, The international protection of refugees: interpreting article 1 of the 1951 Convention, 2001, p. 2. 15 non costitutivo. Quando si parla di status di rifugiato si fa riferimento ad una condizione preesistente a qualsiasi riconoscimento ufficiale e che anzi viene riconosciuta proprio perché già esiste. La Convenzione impone infatti agli Stati parte di valutare la peculiare situazione di ogni singolo richiedente asilo, tenuto conto di tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto. Le competenti autorità devono avere sia un quadro completo della personalità del richiedente asilo, del suo background e delle sue esperienze personali, che una conoscenza aggiornata di tutte le circostanze oggettive presenti nel paese di origine34. Una volta che si siano verificate e accertate le condizioni previste dalla Convenzione, il soggetto che richiede asilo deve aver riconosciuto lo status di rifugiato. 2.1 Il fondato motivo di persecuzione sulla base dei motivi elencati nell’art. 1A Le parole “ temendo a ragione di essere perseguitato” contenute nell’art. 1 costituiscono la chiave della definizione. Vi possono essere numerose cause che spingono una persona ad emigrare, ma solo un motivo viene identificato per definire un rifugiato. Il richiesto fondato timore di essere perseguitato per uno dei cinque motivi indicati nella Convenzione, enunciando una causale ben precisa, esclude automaticamente dalla definizione tutte le altre cause di abbandono del paese di origine35. Essendo il timore un fatto personale, emerge un primo aspetto soggettivo che richiederà anzitutto una valutazione della personalità e delle dichiarazioni del richiedente, piuttosto che un giudizio sulla situazione esistente nel suo paese di provenienza. Data l’importanza che la definizione attribuisce a questo elemento, una valutazione circa l’attendibilità del richiedente asilo si renderà necessaria ogni volta che, dalle circostanze di fatto accertate, la situazione non risulti sufficientemente chiara. Dovranno essere presi in considerazione i precedenti personali e familiari dell’individuo, la sua appartenenza a un gruppo razziale, religioso, nazionale, politico o sociale, la sua interpretazione della situazione e la sua personale esperienza. 34 UNHCR, ibidem, p. 2. Il requisito esclude, ad esempio, persone che sono vittime di carestie o di calamità naturali, a meno che ovviamente non ricorra anche il fondato timore di persecuzione per uno dei motivi indicati. V. UNHCR, Handbook of procedures and criteria for determining refugee status under the 1951 Conventione and the 1967 Protocol relating to the status of refugees, HCR/IP/4/Eng/REV.1 Reedited, Geneva, January 1992, UNHCR 1979. 35 16 All’elemento del timore si aggiunge quello della fondatezza (“a ragione”), ciò implica che il semplice stato d’animo del richiedente non è sufficiente al riconoscimento dello status di rifugiato, ma deve essere fondato su una situazione oggettiva36. L’elemento oggettivo richiede la sussistenza di una situazione in cui, una persona ragionevole avrebbe effettivamente paura di subire una persecuzione. Vengono così in rilievo elementi di verifica quali la prova ragionevole che la vita nel paese di origine è diventata insostenibile e la verifica della sorte subita da parenti, amici o membri del medesimo gruppo sociale. L’onere di fornire prove sufficienti per dimostrare la fondatezza del timore sono poste a carico del richiedente asilo37, tuttavia la natura stessa del requisito in esame e la condizione traumatica che accompagna la fuga, impediscono spesso di poter giungere all’eliminazione di ogni dubbio circa la sussistenza della condizione. Una considerazione ad hoc merita il termine “persecuzione”. Non esiste di questo termine una definizione universalmente accettata e i vari tentativi di esplicitazione hanno avuto poco successo. Sulla base dell’art. 33 della Convenzione si può dedurre che ogni minaccia alla vita o alla libertà per motivi di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato gruppo sociale costituisce una persecuzione. Alla luce degli strumenti internazionali rilevanti in materia di diritti umani e degli statuti dei tribunali penali internazionali38, si può ritenere, inoltre, che il termine persecuzione includa anche la privazione intenzionale e grave di diritti fondamentali della persona o altri danni seri perpetrati con frequenza, anche se non sempre in forma sistematica o ripetitiva. La questione dell’equivalenza di queste azioni pregiudizievoli a forme 36 L’interpretazione del requisito in esame come composto da un elemento soggettivo ed uno oggettivo è ormai consolidata nella giurisprudenza più recente, come è stato ribadito dalla High Court Australiana nel caso Ex Parte Miah e dalla Corte d’Appello statunitense nel caso Said Guirguis v. John Ashcroft. Non mancano però opinioni discordanti; secondo un’autorevole posizione dottrinale, l’elemento soggettivo, come comunemente interpretato, sarebbe sostanzialmente superfluo e potrebbe condurre ad una distorsione del processo di determinazione dello status di rifugiato. L’esistenza di un timore soggettivo inteso come trepidazione non dovrebbe né essere una condizione preesistente al riconoscimento dello status, né avvantaggiare un richiedente asilo nel caso in cui il rischio di persecuzione non sia ben fondato. Cfr. HATHAWAY J., HICKS W., Is there a subjective element in the refugee Convention’s requirement of ‘well-founded fear’?, in Michigan Journal of International Law 26, n.2 2005 p. 505-562. 37 In particolare il ricorrente dovrà vincere un “doppio test”,così come definito dai giudici della House of Lords nel caso Adan v. Secretary of State for the Home Department, consistente nel dimostrare la sussistenza di un timore di essere sottoposto ad una persecuzione (fear test) e la contestuale mancanza di adeguata protezione da parte dello Stato di provenienza (protection test). V. LENZERINI F., Asilo e diritti umani, op. cit. 38 Si veda ad esempio l’art. 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale. 17 di persecuzione andrà valutata caso per caso, tenendo conto della percezione dell’individuo che ne sia oggetto39. Alcuni Stati tendono a restringere il concetto di persecuzione, ai sensi della Convenzione, ai danni inflitti dalle autorità statali o da entità riconducibili alla responsabilità dello Stato (cd. accountability theory). Questa teoria è però sconfessata dalla posizione adottata in merito dall’UNHCR. L’Alto Commissario sottolinea come le persecuzioni perpetrate da soggetti non statali rientrano nella definizione convenzionale di rifugiato, coerentemente a quello che è lo scopo primario della Convenzione, assicurare la protezione dei rifugiati. Un ulteriore aspetto controverso circa la definizione di persecuzione riguarda la determinazione del suo confine rispetto alla nozione di atto di discriminazione. Normalmente la discriminazione, intesa come diversità di trattamento tra vari gruppi sociali, non costituisce una forma di persecuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra. Solo in circostanze particolari, quando le misure discriminatorie comportano conseguenze gravemente pregiudizievoli per la persona colpita, come ad esempio restrizioni alla possibilità di guadagnarsi da vivere, al diritto di praticare la propria religione o all’accesso alle istituzioni scolastiche a disposizione della popolazione, la discriminazione determina persecuzione. L’art. 1A(2) enuncia cinque motivi di persecuzione rilevanti per il riconoscimento dello status di rifugiato: razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale particolare ed opinione politica. La persona che chiede il riconoscimento deve dimostrare un fondato timore di persecuzione basato su uno di questi ultimi40. • Razza In questo contesto, come affermato dal Comitato Esecutivo dell’UNHCR, la razza deve essere intesa nel senso più ampio, tale da includere ogni tipo di gruppo 39 Per meglio intendere la portata del concetto di persecuzione nel diritto internazionale si possono analizzare gli sviluppi della giurisprudenza dei tribunali penali internazionali, in particolare dopo il caso Blaskic deciso dal Tribunale Penale per l’Ex-Jugoslavia. Dall’analisi emerge una costante scomposizione del concetto in due elementi principali: la violazione sufficientemente grave di diritti umani fondamentali accompagnata dall’incapacità dello Stato di proteggere l’individuo. V. ODELLO M., op. cit., p. 78. 40 Essa, tuttavia, non è tenuta ad analizzare il proprio caso al punto da poter identificare il motivo in modo preciso. Spetta a chi esamina il caso concreto, indagando sulle circostanze di fatto, accertare il motivo o i motivi di persecuzione e stabilirne la rispondenza ai criteri stabiliti dalla Convenzione del 1951. V. UNHCR, Handbook…, cit, p. 18. 18 etnico a cui nel linguaggio corrente viene riferito il termine “razza” 41 . Spesso questa nozione comprende anche l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale di origine comune, costituente una minoranza nell’ambito di una popolazione più vasta. Generalmente la semplice appartenenza ad un determinato gruppo razziale non è sufficiente per giustificare la concessione dello status. Occorre che vi sia una discriminazione fondata sulla razza tale da offendere la dignità della persona e quindi risultare in violazione dei più fondamentali diritti dell’uomo. • Religione Il concetto di religione comprende qualsiasi tipo di credenza posseduta dall’individuo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e il relativo Patto sui diritti civili e politici affermano la libertà di cambiare religione e quella di manifestarla sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche e nell’osservanza dei riti. La persecuzione per motivi religiosi può assumere diverse forme e solo in circostanze particolari, la semplice appartenenza ad una determinata confessione può da sola essere sufficiente ai fini del riconoscimento dello status. • Nazionalità Il termine nazionalità non va interpretato solo nel senso giuridico di cittadinanza, ma comprende altresì l’appartenenza ad un gruppo etnico, religioso o linguistico e in certi casi può sovrapporsi al concetto di razza. La persecuzione per motivi di nazionalità può consistere in misure e politiche dirette contro una minoranza nazionale42. Spesso può risultare difficile distinguere persecuzioni per motivi di nazionalità e persecuzioni per motivi politici, ciò accade quando il movimento politico è identificato con una determinata nazionalità (es. movimenti separatisti). • Appartenenza ad un determinato gruppo sociale Il criterio in questione non è di facile definizione. Si tratta di una clausola aperta che consente un’interpretazione evolutiva dei possibili motivi che possono costituire la causa di una discriminazione ai sensi della Convenzione43. Vi sono 41 Mentre gli estensori della Convenzione non specificarono il significato del termine, il contesto storico chiarì che il loro intento era quello di includere quegli ebrei vittime del regime nazista, che furono perseguiti a causa della loro etnia, indipendentemente dal fatto che praticassero attivamente il loro credo. HATHAWAY J., The law of refugee status, Butterworths, 1991 p. 141. 42 Ne sono esempi il conflitto del Ruanda, la guerra dei Balcani e la situazione del Kosovo. 43 Fu introdotta come emendamento dell’ultimo minuto su proposta del delegato svedese, per far si che potessero usufruire della protezione anche coloro che facevano parte di determinate classi 19 due possibili forme di identificazione di un gruppo sociale. La prima, basata su “caratteristiche protette”, prende in considerazione l’esistenza di elementi immutabili, considerati essenziali per il riconoscimento di diritti fondamentali. La seconda è invece fondata sulla “percezione sociale” del gruppo, soffermandosi sull’esistenza di caratteristiche che lo rendano riconoscibile all’interno della società. L’UNHCR raccomanda un approccio che prenda in considerazione entrambi gli aspetti. Il tentativo di delineare i contorni del concetto in esame ha costituito l’oggetto di una notevole produzione giurisprudenziale, soprattutto dei tribunali di common law. Merita una particolare menzione l’approccio esemplificato nel caso Acosta, in cui il Board of Immigration Appeal, definì il gruppo sociale come un gruppo di persone che condividono una caratteristica comune e immutabile, che può essere innata o derivare da una precedente esperienza comune. Gli elementi distintivi devono essere considerati dai membri del gruppo fondamentali per la loro identità o la loro coscienza44. Nel corso degli anni sono stati riconosciuti gruppi sociali: i disabili, gli omosessuali e le donne45, classi socialmente e culturalmente definite come la classe “borghesecommerciante” durante la rivoluzione dei Khemer Rossi in Cambogia e, in determinate circostanze, i disertori46. • Opinione politica L’opinione politica comprende ogni opinione riguardante qualunque materia nell’ambito della quale l’apparato politico governativo sia in qualsiasi modo coinvolto. Il fatto di avere idee politiche diverse da quelle del governo non è di per se sufficiente per l’accoglimento della richiesta di rifugio, in quanto occorre una relazione tra queste e le misure sofferte o temute dal richiedente asilo. Come sociali, che soprattutto nell’area sovietica, erano ipso facto soggetti a persecuzione. V. Statements of Mr. Petren of Sweden, U.N.Doc. A/CONF.2/SR.3, p. 14, 19 novembre 1951. 44 Questo approccio è comunemente definito “protected characteristic approach” ed è condiviso anche dalla direttiva comunitaria 2004/83/CE. 45 Una forma di iniziale attenzione verso la protezione delle donne è costituita dalla Conclusione n° 39 dell’EXCOM dell’UNHCR, la quale richiedeva agli stati d’interpretare il concetto di gruppo sociale con il fine di includervi le donne che ricevevano trattamenti inumani, per aver trasgredito le pratiche sociali della loro comunità. Soltanto in tempi recenti si è avuto il riconoscimento dello status di rifugiato basato sul genere in due casi importanti nel Regno Unito (Shah e Islam v. Secretary of State for the Home Department), i quali hanno stabilito che le donne possono essere considerate un gruppo sociale in base alla Convenzione. Cfr. ODELLO M., op. cit., p. 95. 46 Particolare rilievo è stato dato al caso di rifiuto di partecipare ad un conflitto armato che sia stato condannato dalla comunità internazionale, in quanto condotto nel disprezzo del diritto internazionale umanitario. L’UNHCR considera che le sanzioni comminate ad un individuo che si rifiuta di prendervi parte siano da considerare una forma di persecuzione e i principali casi decisi da Gran Bretagna e Canada hanno fatto riferimento a tali considerazioni. 20 osservato dalla Corte Suprema Canadese nel caso Ward, in linea di principio non è necessario che l’opinione sia espressa, ma può anche desumersi dal comportamento del ricorrente, quando questo sia associato ad un orientamento politicamente rilevante suscettibile di innescare la condotta persecutoria47. 2.2 L’allontanamento dal Paese di origine Il secondo elemento di inclusione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato è costituito dall’allontanamento dal Paese di nazionalità o di residenza abituale. In questo contesto il concetto di nazionalità corrisponde a quello di cittadinanza cioè il legame di un soggetto con un determinato stato. Si tratta di un requisito essenziale ed inderogabile poiché la protezione internazionale non può divenire operante finché la persona non ha lasciato il suddetto territorio48. Ai fini della concessione dello status di rifugiato occorrerà quindi previamente verificare l’effettiva nazionalità del richiedente asilo, in quanto il timore di persecuzione deve essere valutato in relazione al Paese di nazionalità. Qualora non fosse possibile identificare chiaramente il paese di cittadinanza dell’individuo, questo dovrà essere valutato come una persona apolide, ovvero facendo riferimento al Paese di residenza abituale. Il timore di essere perseguitato non deve necessariamente riferirsi a tutto il territorio del Paese di origine. Durante le guerre civili o i conflitti etnici, la persecuzione di uno specifico gruppo etnico può avvenire anche solo in un’area del territorio dello Stato. In tali circostanze la domanda di asilo non deve essere rigettata semplicemente sulla base del fatto che si sarebbe potuto ottenere protezione in un’altra parte del territorio nazionale, ma deve essere presa in considerazione, quando valutate le circostanze del caso concreto, non si poteva ragionevolmente pretendere che l’individuo agisse in questo modo. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, per limitare i flussi di richiedenti asilo, alcuni Stati hanno negato lo status di rifugiato sostenendo che la persona avrebbe potuto 47 L’orientamento è condiviso da altre Corti tra cui la Refugee Status Appeals Authority neozelandese e la Corte d’Appelo degli Stati Uniti, oltre che esplicitato nella direttiva Comunitaria 2004/83/CE. V. LENZERINI F., op. cit., p. 302-303. 48 In alcuni paesi, soprattutto dell’America Latina, esiste la consuetudine dell’“asilo diplomatico”, cioè della concessione di asilo ai profughi politici nelle ambasciate estere. L’asilo diplomatico non è previsto dalla Convenzione di Ginevra e non ha un regime definito nel diritto internazionale. La persona cui sia stato concesso asilo in un’ambasciata, pur non essendo soggetta alla giurisdizione 21 trovare asilo in altre regioni del proprio paese, senza dover necessariamente fuggire all’estero. Si tratta di una possibilità denominata “internal flight alternative” o “relocation principle”, particolarmente invocata per impedire l’accesso alle procedure di asilo ad interi gruppi di individui. Questa limitazione, stando anche alle linee guida dell’UNHCR49, può essere applicata solo in presenza di determinate circostanze, in cui il rischio di persecuzione promana da agenti non statali, come gruppi di guerriglieri o organizzazioni terroristiche, che controllano solo una determinata aerea del Paese. In questi casi è possibile che vi siano regioni in cui non sussiste il timore di persecuzione e quindi gli individui possono ragionevolmente trovarvi rifugio. Il requisito dell’allontanamento dal Paese di origine non significa che il soggetto abbia necessariamente dovuto lasciare quest’ultimo per il fondato timore di essere perseguitato, ma include anche la possibilità che la persona abbia deciso di chiedere lo status di rifugiato dopo aver vissuto all’estero per un certo periodo. La persona che non era rifugiata al momento dell’abbandono del proprio Paese, ma lo diventa in seguito, viene definita rifugiato “sur place”. La dottrina distingue due tipi di rifugiato “sur place”. In primis colui che vi diventa a causa di circostanze occorse nel Paese d’origine da lui indipendenti, come ad esempio un colpo di stato, un cambio di governo o un conflitto armato. Da questo tipo si distingue colui che diviene rifugiato “sur place” in conseguenza di azioni che siano da lui commesse durante il periodo di permanenza all’estero. In relazione a questa seconda situazione non si registra una prassi uniforme degli Stati circa la concessione dello status di rifugiato, ne vi sono riferimenti all’interno del testo della Convenzione di Ginevra50. Secondo l’UNHCR occorre determinare di volta del suo paese, non è comunque fuori dal territorio del medesimo, quindi non può essere considerata rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951. 49 L’UNHCR ha definito in maniera puntuale le condizioni da accertarsi in tali circostanze: il richiedente deve poter accedere all’area in modo pratico, legale e sicuro; se l’agente di persecuzione è l’autorità statale, l’alternativa interna non è praticabile; è necessario verificare l’effettiva capacità dello Stato di garantire protezione nell’area individuata; se non è ragionevole presumere che il soggetto possa condurre una vita normale, il ricollocamento interno non è un’alternativa praticabile. V. UNHCR, Guidelines on International Protection No.4: “Internal Flight or Relocation Alternative” within the context of Article 1A(2) of the 1951 Convention and/or 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, 23 luglio 2003, disponibile all’indirizzo www.unhcr.org/refworld/docid/3f2791a44.html. 50 In ambito europeo la direttiva qualifiche 2011/95/UE all’art. 5(2) prevede la valutazione delle attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d’origine, al fine di stabilire se queste abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale. L’art. 5(3) accorda agli Stati, fatta salva la Convenzione di Ginevra, la possibilità di non riconoscere di norma lo status di rifugiato a 22 in volta quale sia l’effettivo rischio per l’individuo e il conseguente timore di persecuzione, sulla base di accurate analisi delle circostanze concrete51. 2.3 La mancanza di protezione da parte dello Stato di origine L’ultima condizione posta dall’articolo 1(A)(2) della Convenzione di Ginevra affinché un richiedente asilo soddisfi i requisiti necessari per il riconoscimento dello status di rifugiato consiste nella circostanza che la persona interessata sia incapace (unable) o non voglia (unwilling), a causa del fondato timore di essere perseguita per uno dei motivi precedentemente analizzati, usufruire della protezione del proprio paese di cittadinanza. In termini strettamente interpretativi, incapacità (inability) significa che l’assenza di protezione scaturisce da circostanze che la persona interessata non può controllare, ad esempio una guerra civile o uno stato di grave disordine, e che impediscono alle autorità del paese di cittadinanza di fornire una protezione adeguata o rendono tale protezione inefficace. La tutela del paese di cui l’individuo è cittadino può anche essergli stata rifiutata. Questo diniego di protezione può confermare o accrescere il timore di persecuzione e costituire, in determinati casi, esso stesso motivo di persecuzione52. Riluttanza (unwillingness), invece, indica il rifiuto del rifugiato di accettare la protezione del proprio paese di origine. La facoltà di rifiuto è qualificata dalle parole “a causa di questo timore”, è cioè condizionata dalla sussistenza di un ben fondato motivo di persecuzione. Questo implica che, quando la protezione da parte del paese di origine sia disponibile ed adeguata, e non vi sia alcun motivo valido per rifiutarla, alla persona non possa essere riconosciuto lo status di rifugiato. Alla luce di quanto esposto, appaiono di dubbia legittimità soluzioni normative che consentono agli Stati di negare il riconoscimento dello status di rifugiato, quando la protezione dell’individuo possa essere offerta, invece che dallo Stato, da organizzazioni o partiti che controllano lo Stato o una parte un richiedente che abbia introdotto una domanda successiva, se il rischio di persecuzione è basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine. 51 UNHCR, Handbook …, cit, p. 24, par. 96. 52 Ciò che costituisce rifiuto di protezione deve essere determinato secondo le circostanze del caso. Se risulta che al soggetto sono stati negati diritti normalmente riconosciuti ai suoi concittadini (ad 23 consistente del territorio53. Queste autorità non statali non forniscono una garanzia adeguata, non essendo parti di trattati internazionali in tema di tutela della persona e quindi non potendo essere considerate eventualmente responsabili per il mancato rispetto dei diritti fondamentali da questi protetti. Nel caso di individuo apolide, il “paese di cittadinanza” è sostituito dal “paese in cui aveva residenza abituale” e le parole “non vuole avvalersi della protezione di questo paese” sono sostituite da “non vuole tornarvi”. La differenza fondamentale, rispetto alla situazione delle persone aventi la cittadinanza di almeno uno Stato, risiede nel fatto che, nel caso di apolidi, non si può parlare di assenza di protezione da parte del paese di provenienza54. È normalmente sufficiente che l’apolide abbia abbandonato il paese di precedente residenza abituale in ragione della sussistenza di un ben fondato motivo di persecuzione, nel qual caso la persona interessata non sarà generalmente in grado di ritornarvi. 3. Le clausole d’esclusione e di cessazione dalla protezione La Convenzione di Ginevra non definisce soltanto le condizioni relative alla definizione dello status di rifugiato ma anche le circostanze che determinano la cessazione o il diniego della protezione internazionale. Le clausole di esclusione devono essere prese in considerazione nella fase di determinazione dello status di rifugiato, mentre quelle di cessazione vengono in rilievo durante il periodo in cui l’individuo già gode della protezione, per valutare un eventuale mutamento delle circostanze che ne hanno determinato la concessione e la sua sopravvenuta non necessità55. esempio il rilascio del passaporto o l’ammissione nel territorio nazionale) ciò può costituire un risfiuto di protezione ai sensi della definizione. V. UNHCR, Handbook, cit, p. 24, par. 98. 53 Un esempio può essere fornito dall’art. 7 della direttiva comunitaria 2004/83/CE recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. 54 Occorre ricordare che la Convenzione di Ginevra è stata adottata in un periodo storico in cui il diritto internazionale dei diritti umani era in uno stato ancora embrionale, ed erano quindi difficilmente configurabili obblighi a carico di uno Stato nei confronti di soggetti che non ne avevano la cittadinanza (fatte salve le norme sul trattamento degli stranieri, che escludevano per loro natura gli apolidi). V. LENZERINI F., op. cit., p. 319. 55 Esiste anche la possibilità di annullamento dello status di rifugiato. Si tratta di una misura eccezionale che può essere presa soltanto in presenza di due condizioni: quando si viene a conoscenza del fatto che l’individuo ha intenzionalmente occultato o distorto fatti materiali allo scopo di ottenere la protezione; quando emergono fatti costituenti motivo di esclusione solo dopo 24 Le clausole di esclusione sono contenute negli articoli 1(D), 1(E) e 1(F) della Convenzione. Le prime due sezioni del suddetto articolo si riferiscono a persone che non hanno bisogno della protezione internazionale, mentre la terza considera soggetti non meritevoli di protezione. Occorre preliminarmente sottolineare come queste previsioni abbiano natura di eccezione rispetto alla finalità umanitaria dello strumento internazionale. Devono pertanto essere applicate in maniera scrupolosa e restrittiva per proteggere l’integrità dell’istituto dell’asilo56 e soltanto dopo una piena valutazione delle circostanze individuali del caso, in ragione delle serie conseguenze per gli individui che ne sono colpiti. La sezione D afferma che la Convenzione “shall not apply to persons who are at present receiving from organs or agencies of the United Nations other than the United Nations High Commisioner for Refugees protection or assistance” specificando inoltre che “when such protection or assistance has ceased for any reason, without the position of such persons being definitively settled in accordance with the relevant resolutions adopted by the General Assembly of the United Nations, these persons shall ipso facto be entitled to the benefits of this Convention”. La protezione ed assistenza richiamata dalla disposizione è stata accordata in passato dall’Agenzia delle Nazioni Unite per la Ricostruzione della Corea (UNKRA) ed attualmente viene fornita dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati di Palestina nel Medio Oriente (UNRWA)57. Ulteriori casi analoghi potrebbero verificarsi nel futuro. L’art. 1(E) definisce in termini generali le persone per le quali non si considera necessaria una protezione internazionale come coloro che sono considerati dalle autorità competenti del paese in cui hanno stabilito la loro residenza “as having the rights and obligations which are attached to the possession of the nationality of that country”. Questa clausola si applica a chi, pur rientrando nelle condizioni previste per il riconoscimento dello status di rifugiato, abbia ricevuto da parte di uno Stato diverso da quello di origine, il riconoscimento della maggior parte dei diritti solitamente connessi al possesso della cittadinanza di quel paese (cd. che il soggetto ha ottenuto la qualifica di rifugiato. V. ODELLO M., op. cit., p. 100; UNHCR, Handbook, cit., p. 34. 56 UNCHR, Executive Commitee Conclusion n.82 (XLVIII), 1997 57 Questa agenzia opera solamente in favore dei rifugiati palestinesi in Giordania, Libano, Siria e nei territori occupati da Israele. Un rifugiato palestinese che si trovi al di fuori di questa area, non beneficiando della protezione dell’UNRWA, può essere preso in considerazione ai fini del 25 “rifugiati nazionali”)58. L’ultima clausola di esclusione è quella che da luogo ai maggiori problemi interpretativi. La lettera F dell’articolo 1 esclude ogni persona nei confronti della quale si hanno serie ragioni per ritenere che: “(a) he has committed a crime against peace, a war crime, or a crime against humanity, as defined in the international instruments drawn up to make provision in respect of such crimes; (b) he has committed a serious non-political crime outside the country of refuge prior to his admission to that country as a refugee; (c) he has been guilty of acts contrary to the purposes and principles of the United Nations”59. La ratio di questa disposizione è di impedire che la protezione internazionale del rifugiato sia posta a vantaggio di coloro che si siano resi responsabili di atti odiosi e di garantire che siffatte persone non abusino dell’istituzione dell’asilo, allo scopo di sfuggire alla responsabilità per i loro atti criminosi. Ai fini dell’applicazione della clausola è sufficiente stabilire che vi sono “serie ragioni di ritenere” che uno degli atti previsti sia stato realmente commesso, non è quindi necessaria una prova formale. Si rammenta inoltre che, trattandosi di un’elencazione esaustiva e non esemplificativa, la normativa nazionale non dovrebbe apportarvi variazioni, o aggiunte di tipo limitativo, che comporterebbero una riduzione del riconoscimento dello status di rifugiato. L’art. 1(F)(a) deve essere interpretato alla luce degli strumenti internazionali rilevanti. Occorre fare riferimento non solo agli Statuti dei Tribunali di Norimberga e di Tokio, ma anche alle norme successive, come le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 sulla protezione delle vittime di guerra e i due Protocolli aggiuntivi del 1977, gli Statuti dei Tribunali Penali ad hoc per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda e lo Statuto della Corte penale Internazionale, oltre che alle relative decisioni e alla giurisprudenza. Per quanto concerne i crimini di diritti comune, la relativa inclusione ha lo scopo sia di proteggere la popolazione del Paese di accoglimento dal pericolo di ammettere un rifugiato che abbia commesso un grave reato, sia quello di riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951. Cfr. UNHCR, Handbook, cit., p. 35. 58 Ne sono un esempio la protezione riconosciuta durante la guerra fredda dalla Repubblica Federale Tedesca ai cittadini della Repubblica Democratica Tedesca e, sino al 1962, il libero ingresso, la libera circolazione e il divieto di espulsione nel Regno Unito garantiti a tutti i sudditi britannici e cittadini del Commonwealth (British Nationality Act, 1948, Section 1.2). 26 salvaguardare i rifugiati responsabili di crimini di gravità minore o di reati politici60. Rientrano nella clausola solo i reati commessi dal soggetto al di fuori del paese di accoglimento prima di esservi ammesso come rifugiato, quelli commessi nel paese di asilo saranno accertati mediante un regolare processo in tale paese. L’ultimo comma della sezione F non introduce specifici elementi nuovi, ma prende in considerazione in generale le azioni, parimenti di natura criminale, contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite che non rientrino integralmente nei due precedenti commi. I fini e i principi sono definiti negli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite61, i quali regolano la condotta degli Stati Membri tanto nei loro reciproci rapporti quanto nelle relazioni con la comunità internazionale nel suo insieme. I travaux préparatoires riflettono una mancanza di chiarezza rispetto all’utilizzo di questa previsione. I commenti dei delegati suggeriscono un’interpretazione di questa come di una clausola di rara applicazione, e riferibile solo a soggetti che si trovino in una posizione di potere all’interno di uno Stato, tale da poterlo condurre alla violazione delle suddette disposizioni della Carta delle Nazioni Unite62. Lo status di rifugiato, che assicura ai beneficiari una protezione internazionale in assenza di quella del paese di origine, opera in una logica di temporaneità63. La Convenzione contempla non già una protezione permanente, bensì una condizione destinata a risolversi al verificarsi di uno dei casi di cessazione disciplinati dall’articolo 1C. Come sottolineato nel Manuale dell’UNHCR, le clausole di cessazione, la cui applicazione è di competenza esclusiva degli Stati, enunciano 59 Un’analoga clausola è prevista anche dall’art. I(5) della Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana che disciplina determinati aspetti dell problema dei rifugiati in Africa. 60 Data l’incertezza interpretativa circa i termini della previsione, l’UNHCR ha sottolineato la necessità di stabilire “un rapporto tra la natura del reato presumibilmente commesso da colui che chiede lo status di rifugiato e il grado di persecuzioni da esso temute”. V. UNHCR, Handbook,cit., p. 156. È stato inoltre chiarito che la gravità del reato deve essere valutata sulla base di determinati criteri, quali la natura dell’atto, il danno effettivamente causato, le procedure adottate per giudicare il reato, la considerazione dell’illecito da parte degli altri ordinamenti giuridici. V. UNHCR, Guidelines on international protection No. 5: Application of the Exclusion Clauses: Article 1F of the 1951 Convention relating to the Status of Refugees, 4 settembre 2003. 61 ONU, Carta di San Francisco, firmata da 51 membri originari e adottata per acclamazione a San Francisco il 26 giugno 1945, entrata in vigore il 24 ottobre 1945, ratificata dall’Italia con legge 17 agosto 1957 n. 848 (Suppl. Ord. GU n. 238 del 25 settembre 1957). 62 UNHCR, The international protection of refugees: Interpreting article 1 of the 1951 Convention relating to the status of refugees, cit., par. 50. 63 BENVENUTI P., La convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, in PINESCHI L. (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 151-173. 27 delle condizioni negative identificate estensivamente, sono perciò da interpretare restrittivamente e nessun’altra ragione può essere invocata in via analogica dagli Stati per giustificare la revoca dello status di rifugiato. Le clausole si sogliono suddividere in due aree. Nella prima (art. 1C paragrafi 1-4) si includono i cambiamenti nella situazione del rifugiato di cui egli stesso ha preso l’iniziativa, ovvero: 1) riassunzione volontaria della protezione del Paese di cui ha la cittadinanza; 2) riacquisto volontario della cittadinanza; 3) acquisto di una nuova cittadinanza e conseguente godimento della protezione del Paese della cui cittadinanza si tratta; 4) ristabilimento volontario della residenza nel Paese rispetto al quale sussisteva il fondato motivo di persecuzione. Si tratta di azioni, in particolare quelle previste dai paragrafi 1, 2 e 4, che devono essere intraprese volontariamente dall’individuo e comportare per quest’ultimo la possibilità di beneficiare di una protezione nazionale, effettiva e duratura, altrimenti egli non cesserà di essere un rifugiato64. La seconda area riguarda i paragrafi 5 e 6 dell’art. 1C, i quali stabiliscono che la Convenzione del 1951 cesserà di applicarsi qualora si presentino mutamenti delle circostanze in base alle quali il rifugiato aveva ottenuto lo status, per cui non può continuare a rifiutare di avvalersi della protezione del Paese di cui ha la cittadinanza (o di residenza abituale, se trattasi di un soggetto apolide). Le maggiori questioni interpretative in merito a queste clausole riguardano la natura e il grado dei mutamenti necessari. Il Comitato Esecutivo dell’UNHCR ha affermato che i suddetti mutamenti devono essere fondamentali, stabili, duraturi e relativi alle circostanze in base alle quali sussisteva il timore di persecuzione65. Sono inoltre stati identificati una serie di fattori che devono essere tenuti in considerazione dagli Stati nella valutazione dei singoli casi, tra cui: il livello di sviluppo democratico del Paese d’origine, l’esistenza di norme che tutelino le libertà e i diritti fondamentali, la ratifica dei trattati sui diritti umani e il livello di 64 Per quanto concerne in particolare il paragrafo 1, la semplice presa di contatto del rifugiato con le autorità diplomatiche del proprio paese di origine, ad esempio per la richiesta di rilascio di un passaporto nazionale o del certificato di cittadinanza, non accompagnata dall’intenzione di volersi riavvalere della protezione nazionale, può non comportare la cessazione dello status. Come affermato da GOODWAY-GILL in The refugee in International law, “Sometimes, however, a refugee may be unwillingly obliged to seek a measure of protection from [his country of origin], as where a passport or travel document is essential to obtain the issue of a residence permit in the country of asylum. Being involuntary, the protection obtained should not bring refugee status to an end”. 65 Executive Committee Conclusion No.69 (XLIII), 1992. 28 accesso sia alle istituzioni nazioni che internazionali che ne assicurano l’osservanza66. La questione centrale consiste quindi nel chiarire le cause che hanno determinato la fuga dell’individuo dal Paese di origine; successivamente occorre verificare se i mutamenti radicali intercorsi hanno rimosso il rischio di persecuzione per quel soggetto, e se sussiste un’effettiva protezione dal parte del Paese di provenienza. Entrambi i paragrafi enunciano al secondo comma un’eccezione alle ipotesi di cessazione per i cosiddetti “rifugiati statutari”, ossia riconosciuti in base all’art. 1A(1) della Convenzione di Ginevra, “che possano invocare motivi imperiosi derivanti da precedenti persecuzioni per rifiutare di tornare nel paese in cui avevano la residenza abituale”. L’intenzione degli estensori del trattato era duplice: dal un lato, riconoscere la sussistenza del disagio psicologico affrontato dalle vittime di persecuzione in caso di ritorno nel Paese responsabile dei loro maltrattamenti; dall’altro, proteggere le vittime di atrocità passate dagli atteggiamenti ostili della popolazione, le cui attitudini potrebbero non essere mutate malgrado il cambio di regime67. Nonostante la limitazione ai “rifugiati statutari”, l’eccezione esprime un principio umanitario più generale, che potrebbe, e dovrebbe, essere applicato anche agli altri rifugiati. 4. L’estensione della definizione di rifugiato negli strumenti regionali La Convenzione di Ginevra è l’unico strumento universale che include gli standard e gli obblighi degli Stati in materia di protezione dei rifugiati a livello internazionale, tuttavia sono stati elaborati accordi a livello regionale, da parte di organizzazioni che operano su base continentale, soprattutto in Africa e America. Il principale accordo è costituito dalla Convenzione che regola gli aspetti specifici dei rifugiati in Africa, adottata il 10 settembre 1969 dall’Organizazione 66 Altri fattori specifici includono: le possibili amnistie, l’abrogazione di norme repressive, l’annullamento di sentenze adottate contro oppositori politici e il generale ristabilimento di protezione e garanzie legali, v. UNHCR, Guidelines on international protection: cessation of refugee status under article 1c(5) and (6) of the 1951 Convention relating to the status of refugees, 10 febbraio 2003. 67 HATHAWAY J., The law of refugee status, Butterworths, Canada, 1991, p. 203. 29 per l’Unità Africana (OUA, oggi sostituita dall’Unione Africana, UA)68. A causa dei conflitti che accompagnarono la fine dell’epoca coloniale in Africa, gli Stati del continente ritennero opportuna una regolamentazione del fenomeno dei rifugiati che tenesse in considerazione le specifiche condizioni africane69. La Convenzione non si pone, come inizialmente temuto dall’UNHCR, come uno strumento alternativo o in concorrenza con la Convenzione di Ginevra, ma come un’integrazione di essa, che considera “the basic and universal instrument relating to the status of refugees”70. La definizione di rifugiato contenuta nell’accordo in esame è ben più ampia di quella tracciata dalla Convenzione del 1951. L’articolo 1 dispone infatti, dopo aver ripetuto al primo paragrafo la definizione del Protocollo del 1967 (cioè la definizione della Convenzione del 1951 senza data limite né limitazione geografica), che il termine rifugiato si applichi anche “to every person who, owing to external aggression, occupation, foreign domination or events seriously disturbing public order in either part or the whole of his country of origin or nationality, is compelled to leave his place of habitual residence in order to seek refuge in another place outside his country of origin or nationality”71. Si tratta di un’importante estensione, perché permette alle persone in fuga da guerre civili, situazioni di violenza generalizzata, ma anche carestie ed epidemie, di richiedere lo status di rifugiato negli Stati parte della Convenzione africana, senza dover dimostrare il fondato timore di persecuzione. Questo allargamento determina una diversità nel processo di accertamento dello status. Laddove la Convenzione di Ginevra risulta essere applicata su base strettamente individuale, quella dell’OUA valuta condizioni di affluenza di massa. Verificate quindi certe circostanze oggettive nel Paese di origine, si ritiene che 68 UNIONE AFRICANA, Convenzione che regola aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, adottata ad Addis Abeba il 10 settembre 1969 dalla Conferenza dei Capi di Stato e di Governo, entrata in vigore il 20 giugno 1974, UNTS, vol. 45, p. 1001 ss. 69 In Africa il problema dei rifugiati fu il prodotto della decolonizzazione e della lotta per l’indipendenza delle nazioni. I rifugiati provenienti dalle colonie scappavano alle oppressioni ed al razzismo; l’intensificazione delle lotte in Angola, Mozambico e nella Guinea Portoghese produssero una brutale repressione da parte del governo portoghese. Casi simili si ebbero in Sud Africa e in Rodesia a causa della discriminazione razziale e dell’apartheid. Gli esodi tuttavia non provenivano solo dalle colonie, ma anche dai paesi indipendenti, in cui spesso la convivenza tra etnie e culture diverse originava tensioni e conflitti. La situazione era inoltre aggravata dall’instabilità dei nuovi governi e dal saltuario intervento di poteri esterni. Questa condizione accrebbe il numero di sfollati che passò da quattrocentomila nel 1964 a settecentomila nel 1967. V. Final report of the Conference on the Legal, economic and social aspects of the African Refugee problems, 9-18 Ottobre 1967, p. 9. 70 Preambolo, 9, Convenzione OUA del 1969. 71 Art. 1(2), Convenzione OUA. 30 tutti coloro siano in fuga da detto Stato siano rifugiati, fatta salva la prova contraria. Un ulteriore strumento regionale è costituito dalla Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati del 1984. La Dichiarazione è stata adottata come atto finale di una riunione tra i delegati di dieci Paesi72 ed eminenti giuristi latino-americani, organizzata in Colombia per discutere sul tema dei rifugiati nel continente, soprattutto riguardo al fenomeno delle dittature e delle guerre civili che affliggevano vari Stati in quel periodo73. Pur essendo strutturata sulla falsariga della Convenzione della Nazioni Unite del 1951, anch’essa raccomanda un’estensione della nozione di rifugiato contenuta nello strumento ONU, alle “persone fuggite dal loro paese perché la loro vita, la loro sicurezza e la loro libertà erano minacciate da una violenza generalizzata, un'aggressione straniera, conflitti interni, una violazione massiccia dei diritti dell'uomo o altre circostanze che abbiano gravemente turbato l'ordine pubblico”74. Questa definizione ha dei punti in comune con la Convenzione OUA, essa infatti legittima la rivendicazione dello status in base all’aggressione straniera e accetta la nozione di determinazione per gruppi. Inoltre il riferimento alle massicce violazioni di diritti umani rende la Dichiarazione decisamente moderna e ne estende il campo applicativo: non è necessario che il proprio Paese di provenienza sia percorso da conflitti per essere legittimamente riconosciuti rifugiati. Tuttavia la necessità di dimostrare che le suddette violazioni minaccino la vita, la sicurezza o la libertà dell’individuo, ovvero una connessione personale, può circoscrivere la portata innovativa della definizione. Nonostante la Dichiarazione del 1984 non sia giuridicamente vincolante, essa non manca di esercitare un notevole peso: la maggior parte degli Stati centroamericani, oltre ad aver aderito alla Convenzione di Ginevra e al Protocollo del 1967, applica regolarmente la Dichiarazione, ed in alcuni casi essa è stata recepita nella legislazione nazionale. Lo strumento inoltre è stato approvato dall’ExCom dell’UNHCR, dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. 72 Belize, Colombia, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama e Venezuela. 73 Coloquio Sobre la Protección Internacional de los Refugiados en América Central, México y Panamá: Problemas Jurídicos y Humanitarios, celebrato a Cartagena de Indias, Colombia, dal 19 al 22 novembre 1984. 31 5. Il principio di non-refoulement L’interesse primario del rifugiato consiste nell’aver accesso al territorio di uno Stato diverso da quello da cui fugge e in cui può trovare, o almeno cercare, protezione. La prima forma di tutela di questo interesse consiste nell’assicurare al soggetto che egli non sarà rinviato forzosamente nel territorio da cui è fuggito. Tale garanzia è affermata dal cosiddetto principio di non-refoulement75, enunciato all’articolo 33(1) della Convenzione di Ginevra: “No Contracting State shall expel or return (‘refouler’) a refugee in any manner whatsover to the frontiers of territories where his life or freedom would be threatened on account of his race, religion, nationality, membership of a particolar social group or political opinion”. Il principio di non refoulement è considerato “la pietra angolare” della protezione internazionale dei rifugiati, qualificabile come norma consuetudinaria di diritto internazionale generale76. La sua importanza si riflette nell’art. 42(1) della Convenzione del 1951 e nell’art. VII(1) del Protocollo del 1967, che precludono agli Stati contraenti di apporre riserve, inter alia, all’art. 33. Il carattere fondamentale e inderogabile del principio di non-refoulement è stato ulteriormente riaffermato in numerose conclusioni del Comitato Esecutivo dell’UNHCR77. Occorre inoltre evidenziare come l’obbligo di non-refoulement non coincide con il diritto di ottenere asilo78 per almeno due ragioni. In primo luogo, l’art. 33 74 Raccomandazione III, 3, Dichiarazione di Cartagena del 1984. Il termine non-refoulement deriva dal francese refouler, letteralmente allontanare con forza, respingere. 76 Sono due i requistiti richiesti ad una norma di fonte convenzionale per assurgere al rango di norma consuetudinaria, entrambi elencati dalla Corte Internazionale di Giustizia nella nota sentenza North Sea continental shelf (Federal Republic of Germany/Denmark, Federal Republic of Germany/Netherlands), del 20 febbraio 1969 (I.C.J. Reports 1969, p. 3). Innanzitutto la partecipazione internazionale alla convenzione, in cui figura la disposizione in esame, deve essere ampia e rappresentativa, specialmente con riguardo a quelli tra gli Stati maggiormente colpiti nei loro interessi dal trattato. Inoltre, devono esservi riscontri dell’esistenza di una generale opinio juris, che attesti il riconoscimento internazionale della natura vincolante della regola espressa nella disposizione. 77 Si vedano ad esempio, ExCom, Conclusion No.6 (XXVIII), nota 9, par. (c); Conclusion No.17 (XXXI), 1980, par. (b); Conclusion No.25 (XXXIII), 1982, par. (b); Conclusion No.65 (XLII), 1981, par. (b); Conclusion No. 68 (XLIII), 1982, par. (f); Conclusion No. 103 (LVI), 2005. 78 Né la Convenzione di Ginevra, né il successivo protocollo hanno come oggetto il diritto d’asilo, ma il solo regime giuridico applicabile a coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato. Alla definizione di rifugiato non segue quindi l’attribuzione di un diritto soggettivo all’asilo territoriale. L’art. 14 della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 (non vincolante) stabilisce che: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni. Questo 75 32 vieta unicamente le misure che comporterebbero per il rifugiato un rischio di persecuzione, non costituisce un obbligo positivo di accettazione del rifugiato a carico delle Parti contraenti. Essendo infatti formulato in termini negativi, limita, ma non elimina, la tradizionale prerogativa degli stati di regolare l’entrata degli stranieri nel loro territorio. In secondo luogo, il principio di non-refoulement è strettamente connesso alla concreta esistenza del rischio di persecuzione. Lo status di rifugiato è essenzialmente transitorio, non vi è alcun obbligo per gli Stati di permettere ai rifugiati di rimanere all’interno del loro territorio se e quando il rischio di persecuzione è cessato79. 5.1 L’estensione applicativa del principio ratione personae e ratione loci Come testimoniato dai travaux préparatoires80, l’identificazione dei soggetti a vantaggio dei quali il principio deve trovare applicazione, fu una della questioni maggiormente dibattute durante l’estensione della Convenzione. Nonostante un’interpretazione restrittiva dell’art. 33(1) potrebbe condurre a ritenere che non tutti i rifugiati rientrino nel suo campo di applicazione, in quanto la norma proibisce esclusivamente il respingimento dei rifugiati verso luoghi in cui “la loro vita o la loro libertà sarebbero minacciate”, la protezione dal refoulement è garantita ad ogni soggetto rientrante nella definizione di rifugiato contenuta nell’art. 1(A) della Convenzione, ovvero che soddisfi i requisiti in essa enunciati, indipendentemente da una formale attribuzione dello status da parte delle Autorità statali81. Questa tutela prodromica rispetto all’esito della procedura consegue alla natura declaratoria, e non costitutiva, del riconoscimento dello status di rifugiato. Occorre rammentare che recentemente è stata avanzata da alcuni autori un’interpretazione più ampia della minaccia contemplata dall’art. 33, che include, diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”. 79 HATHAWAY J., The rights of refugee under international law, cit., p. 302. 80 WEIS P., The Refugee Convention, 1951: The Travaux Préparatoires analysed with a commentary by Dr. Paul Weis, Cambridge University Press, 1995, disponibile all’indirizzo www.unhcr.org/4ca34be29.html. 81 Il principio in questione rientra in quella limitata categoria di diritti conferiti dalla Convenzione a tutti coloro che semplicemente si siano dichiarati rifugiati, ossia che abbiano manifestato alle autorità dello Stato di asilo l’intenzione di domandare protezione. V. MASTROMARTINO F., Il diritto di asilo. Teoria e storia di un istituto giuridico controverso, Giappichelli, Torino, 2012. A sostegno di quanto affermato si rammenta la Conclusione No.6 (1977) in cui il Comitato Esecutivo dell’UNHCR ha statuito “the foundamental importance of the principle of non-refoulement […] irrespective of whether or not individuals have been formally recognized as refugees”. 33 oltre al rischio di persecuzione, “a threat to life or freedom [that] may arise other than in consequence of persecution”. A sostegno di questa tesi vengono affermate l’ampiezza della competenza dell’UNCHR, gli scopi umanitari della Convenzione di Ginevra e la presenza di vari strumenti regionali a tutela dei diritti fondamentali che garantiscono più estese forme di protezione contro il refoulement82. Ugualmente irrilevante, ai fini del godimento del diritto di non-refoulement, è l’ingresso illegale o clandestino del richiedente asilo nello Stato in cui intende cercare la protezione internazionale. L’articolo 31 della Convenzione afferma infatti, “The Contracting States shall not impose penalties, on account of their illegal entry or presence, on refugees who, coming directly from a territory where their life or freedom was threatened in the sense of article 1, enter or are present in their territory without authorization […]”. Il soggetto gode di un presumptive refugee status e del conseguente diritto di accedere ad una procedura che valuti la sussistenza dei requisiti prescritti per la sua qualificazione come rifugiato83. Connessa al problema dell’individuazione dei soggetti protetti dal principio in esame è la questione relativa al concetto di respingimento e all’estensione del suo ambito semantico. Nonostante la disposizione contempli espressamente solo l’espulsione e il respingimento, nella fattispecie della norma devono rientrare anche altre condotte, come l’estradizione, che sono suscettibili di comportare le conseguenze che il principio vuole scongiurare84. Ciò è d’altronde riaffermato 82 LAUTHERPACHT E. e BETHLEHEM D. osservano che “the words ‘where is life or freedom would be threatened’ must be construed to encompass circumstances in which a refugee or asylum seeker (a) has a well-founded fear of being persecuted, (b) faces a real risk of torture or cruel, inhuman or degrading treatment or punishment, or (c) faces other threats to life, physical integrity, or liberty”. V. LAUTHERPACHT E., BETHLEHEM D., The scope and content of the principle of non-refoulement: Opinion in FELLER E., TÜRK V., NICHOLSON F. (edited by), Refugee protection in international law: UNHCR’s global consultations on international protection, Cambridge University Press, 2003, p. 125. 83 V. GOODWING-GILL G., Article 31 of the Convention relating to the status of refugees: nonpenalization, detention, and protection, in FELLER E., TÜRK V., NICHOLSON F. (edited by), Refugee protection in international law: UNHCR’s global consultations on international protection, Cambridge University Press, 2003, p. 196 e 233. Si veda, inoltre, la Conclusione n. 58 (XL) del 1989 del Comitato Esecutivo dell’UNHCR (The problem of refugees and asylum seekers who move in an irregular manner from a country in which they had already found protection) in cui, al par. (f), si afferma che “[w]here refugees and asylum-seekers […] move in an irregular manner from a country where they have already found protection, they may be returned to that country if (i) they are protected there against refoulement and (ii) they are permitted to remain there and to be treated in accordance with recognized basic human standards until a durable solutions is found for them”. 84 Nella Conclusione n. 17 (XXXI) del 1980, relativa ai problemi dell’estradizione concernenti i rifugiati, il Comitato Esecutivo dell’UNHCR rileva che non dovrebbe essere concessa l’estradizione dei rifugiati verso un paese in cui essi avrebbero un fondato timore di persecuzione per uno dei motivi enunciati dall’art. 1A(2) della Convenzione di Ginevra, e raccomanda agli Stati 34 dalle parole dell’art. 33 in cui si prescrive che il rinvio del soggetto verso i territori di uno Stato ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate non deve “in nessun modo” realizzarsi. La dottrina si è divisa, in particolare, sulla possibilità di applicazione del divieto di refoulement non solo nei confronti dei soggetti già presenti nel territorio dello Stato in cui intendono presentare la domanda di asilo, ma anche a coloro che non hanno fatto ingresso nel Paese, ma sono presenti alle sue frontiere. La lettura restrittiva del divieto è all’origine del fenomeno dei cosiddetti “rifugiati in orbita”. I richiedenti asilo sono respinti dalle autorità di frontiera dalla “zona di transito” di porti e aeroporti verso altro Stato, in cui hanno soggiornato una volta fuggiti dal Paese di origine, ritenuto per questa ragione competente per l’esame della richiesta di asilo (safe third country o country of first asylum), le cui autorità statali in frontiera impediscono a loro volta l’ingresso e la conseguente richiesta di protezione: si realizza in tal modo un gioco di rinvii di dubbia compatibilità con il principio di non-refoulement. Quanti sostengono questa visione riduttiva degli obblighi degli stati imposti dall’art. 33 si basano sulle osservazioni dei delegati svizzeri e olandesi alla Conferenza dei Plenipotenziari del 1951, i quali sostenevano un’interpretazione del principio che ne limitava l’applicazione a coloro che avevano già varcato i confini nazionali e che non copriva i flussi massicci di migranti85. È stato perfino sostenuto che le divergenti vedute dottrinali sono dovute all’ambiguità dell’art. 33, il cui significato varierebbe secondo la versione, francese86 o inglese, del testo. Esaminando entrambi i documenti, dove il respingimento è indicato rispettivamente con i termini “refouler” e “return”, può invece desumersi come la formulazione include anche il respingimento alla frontiera. Tali termini sono aggiunti alla parola “expulsera”(nel testo inglese: “expel”), che già di per sé copre la fattispecie dell’allontanamento dello straniero presente nel territorio dello Stato, presupponendo così una situazione diversa da quella definita. Dal punto di vista logico-giuridico, altri due elementi fanno propendere verso l’indirizzo maggiormente estensivo: a) la ratio del principio di non-refoulement si di tenere in debita considerazione “the generally recognized principle of non-refoulement” durante la redazione dei trattati di estradizione e nella fase applicativa degli stessi. V. LENZERINI F., op. cit., p. 341. 85 GOODWIN-GILL G., The refugee in international law, Oxford University Press, 1996 p. 122. 35 fonda sulla necessità di proteggere un valore, che alla luce del diritto internazionale odierno, assume rilevanza fondamentale in quanto tale, non potendo essere intaccato dall’elemento territoriale della fattispecie concreta; b) l’interpretazione qui sostenuta è confortata dalla prassi successiva all’emanazione della Convenzione del 1951, che vede la maggior parte degli strumenti internazionali in materia di asilo e di protezione dei rifugiati, includere espressamente nel concetto di non-refoulement il respingimento alla frontiera87. Come sottolineato da alcuni autorevoli autori, si tratterebbe in realtà di un problema più apparente che reale, in quanto le persone che richiedono la protezione internazionale alle autorità statali si trovano nella maggior parte dei casi in luoghi, quali dogane, porti o aeroporti, che sono già parte del territorio statale e quindi soggetti alla sua giurisdizione. Il richiedente protezione ha quindi già fatto ingresso, fisicamente, nel suddetto territorio. 5.2 Extraterritorialità Altra questione lungamente dibattuta è quella relativa alla natura extraterritoriale del principio, ovvero se il divieto di refoulement si applichi non solo alle condotte poste in essere dallo Stato nel suo territorio o nelle sue frontiere, ma anche ad interventi realizzati dalle autorità statali all’esterno dei propri territori. Il problema è stato affrontato nel celebre caso dei profughi di Haiti, riguardante le operazioni di intercettazione in acque internazionali di imbarcazioni provenienti dall’isola, realizzate dagli Stati Uniti in esecuzione di un ordine emanato dall’allora presidente Bush nel maggio del 1992. Il provvedimento comandava alla guardia costiera di rinviare le navi cariche di richiedenti asilo direttamente verso il paese d’origine, senza condurre alcuna verifica della situazione individuale dei migranti88. La Corte d’Appello federale aveva ritenuto che l’ordine presidenziale integrasse una violazione dell’art. 33(1) della 86 Il testo francese della norma riporta che “[a]ucun des États contractants n’expulsera ou ne refoulera […]”. 87 Si vedano in ordine cronologico, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’asilo territoriale del 1967, art. 3(1), i Principi Concernenti il Trattamento dei Rifugiati del Comitato Consultivo AfroAsiatico, art. III par. 1 della versione rivista nel 2001, la Convenzione africana del 1969, art. II par. 3 e la Dichiarazione di Cartagena del 1984, n. III, par. 5. 36 Convenzione di Ginevra, considerando il principio di non-refoulement applicabile ad ogni rifugiato, indipendentemente dal luogo in cui egli si trovi al momento del respingimento89. La Corte Suprema, investita del ricorso avverso la pronuncia, ha rovesciato tale conclusione, decretando la legittimità del provvedimento in discussione, attraverso una lettura restrittiva del principio in esame. Argomentando a contrario sul testo della disposizione convenzionale, la Corte ha sostenuto che “because the text of Article 33 cannot reasonably be read to say anything at all about a nation’s actions toward aliens outside its own territory, it does not prohibit such actions”90. La sentenza della Corte, adottata con larga maggioranza91, afferma quindi che uno Stato – sebbene sia obbligato a non respingere verso un paese dove la loro vita o libertà sarebbero minacciate, gli stranieri che si trovino già sul territorio nazionale o alle frontiere – manterrebbe la possibilità di impedire ad aspiranti rifugiati che si trovino ancora in acque internazionali di pervenire nel proprio mare territoriale, prevenendo in questo modo il formarsi dell’obbligo di non-refoulement. La decisione contrasta apertamente con i principi ispiratori della materia, nonché con lo spirito e la lettera dell’art. 33 e non tiene in alcun modo in considerazione gli sviluppi della prassi successivi ai lavori preparatori della Convenzione del 1951. Sia l’UNHCR, che la Commissione Inter-Americana dei diritti umani, in opposizione alle motivazioni contenute nella sentenza, hanno affermato la natura extraterritoriale del principio di non-refoulement, dichiarando che il divieto di respingimento si applica ovunque lo Stato eserciti la sua giurisdizione, indipendentemente dal fatto che esso agisca all’interno o all’esterno 88 Ordine Esecutivo n. 12.807, International legal materials, 32, 1993, p. 1046 in cui si autorizza “the U.S. Coast Guard to return the Haitians picked up at sea directly to Haiti without first determining if they qualify as refugees”. 89 Haitian Centers Council, Inc. v. McNary, Corte d’Appello, 2nd Cir., 1992, 969 F. 2d 1350, p. 1362. 90 Sale v. Haitian Centers Council, Inc., Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, 1993, in International legal materials, 32, 1993, p. 1039. 91 Dei nove giudici che componevano il collegio giudicante, soltanto uno, il giudice Blackmun ha espresso un’opinione dissenziente, in cui si legge, tra l’altro, che “[a]rticle 33.1 is clear not only in what it says, but also in what it does not says: it does not include any geographical limitation. It limits only where a refugee may be sent ‘to’, not where he may be sent from. This is not surprising, given that the aim of the provision is to protect refugees against persecution”. V. Sale v. Haitian centers Council, Inc., cit., p. 1061. 37 dei propri confini territoriali92. Alla luce della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in cui è stabilito che le convenzioni internazionali devono essere interpretate in buona fede, attraverso l’esame del significato ordinario dei termini impiegati, alla luce del contesto, dell’oggetto e dello scopo del trattato, questa diversa interpretazione appare coerente con la ratio dell’art. 3393. Appare d’altronde irragionevole, sotto il profilo del principio di uguaglianza, una discriminazione basata sull’elemento territoriale, da cui risulti un trattamento diverso secondo che il rifugiato, trovandosi in ogni caso all’esterno del territorio del suo Paese di origine come richiesto dall’art. 1A(2) della Convenzione di Ginevra, si trovi all’interno o all’esterno dei confini territoriali dello Stato in cui intende presentare la richiesta di protezione internazionale. L’UNHCR ha ulteriormente ribadito la sua posizione in un recente parere, in cui afferma che “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano di quello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”94. 5.3 Eccezioni al divieto di refoulement Il principio di non-refoulement enunciato nella Convenzione di Ginevra non è assoluto, inderogabile, in quanto sono previste alcune circostanze eccezionali nelle quali lo Stato è autorizzato a derogare al divieto stabilito nel primo comma dell’articolo 33. Il secondo comma dispone infatti che “the benefit of the present provision may not, however, be claimed by a refugee whom there are reasonable grounds for regarding as a danger to the security of the country in which he is, or who, having been convinted by a final judgment of a particularly serious crime, constitutes a danger to the community of that country”. 92 Si vedano: Caso n. 10.675, 17 marzo 1993, par. 183 e 188, deciso dalla Commissione InterAmericana dei diritti umani; UNHCR, UN High Commissioner for Refugees responds to U.S. Supreme Court decision in Sale v. Haitian Centers Council, in International legal materials, 32, 1993, p. 1215. 93 V. articolo 31(1) della Convenzione sul diritto dei trattati, conclusa a Vienna il 23 maggio 1969 ed entrata in vigore il 27 gennaio 1980, 1155 U.N.T.S. 331. 38 Come affermato in dottrina, essendo tali eccezioni previste in deroga ad un fondamentale principio di carattere generale, esse devono essere interpretate restrittivamente95. Tuttavia è evidente che, data la generalità della formulazione convenzionale, ampio spazio è concesso alle autorità statali nella determinazione dell’effettiva pericolosità del rifugiato per la sicurezza del paese e della comunità dei cittadini. Ciò ovviamente non significa che tali autorità possano decidere arbitrariamente, in quanto, come già emerso durante i lavori preparatori della Convenzione, il principio da applicare alla circostanza in esame è quello di proporzionalità, che funge da parametro di una valutazione comparativa tra la gravità del pericolo che si prospetta a danno del rifugiato in caso di allontanamento e la minaccia alla sicurezza dello Stato determinata dalla presenza del soggetto sul proprio territorio96. Se l’esito della valutazione conferma una preminenza del secondo elemento sul primo, il mancato riconoscimento della protezione al rifugiato comporterebbe una violazione del principio di nonrefoulement. Vi è inoltre una frequente confusione tra il diritto di uno Stato di espellere o respingere rifugiati pericolosi, previsto dall’art. 33(2) e le clausole di esclusione dal riconoscimento dello status di rifugiato disposte dall’art. 1F della Convenzione. Come puntualmente osservato dal giudice Justice Bastarache della Corte Suprema Canadese, la distinzione tra questi due precetti deve essere riconosciuta: “the general purpose of Art. 1F is to exclude ab initio those who are not bona fide refugees at the time of their claim for refugee status. The purpose of Art. 33 of the Convention, by contrast, is to allow for the refoulement of a bona fide refugee to 94 UNHCR, Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal suo Protocollo del 1967, 26 gennaio 2007, par. 35. 95 V. LAUTERPACHT E., BETHLEHEM D., The scope and content of the principle of nonrefoulement, op. cit., p. 134, in cui si afferma “given the humanitarian character of nonrefoulement and the serious consequences to a refugee or asylum seeker of being returned to a country where he or she is in danger, the exceptions to non-refoulement must be interpreted restrictively and applied with particular caution”. 96 Ai fini di una valutazione coerente con il principio di proporzionalità occorre tenere in considerazione fattori quali: la gravità del pericolo per la sicurezza dello Stato; la probabilità del verificarsi del pericolo e la sua imminenza; se il pericolo per la sicurezza dello Stato sarebbe eliminato o significativamente ridotto con l’allontanamento dell’individuo interessato; la natura e la serietà del rischio per l’individuo derivante dal refoulement; se altri soluzioni in armonia con il divieto di refoulement sono disponibili e possono essere adottate, sia nel paese di rifugio sia mediante il trasferimento dell’individuo interessato in un paese terzo sicuro. Cfr. LAUTHERPACHT E., BETHLEHEM D., op. cit., p. 137. 39 his native country where he poses a danger to the security of the country of refuge, or to the safety of the community. Although all of the acts described in Art. 1F could presumably fall within the grounds for refoulement described in Art. 33, the two are distinct”97. L’art. 33(2) stabilisce una soglia più elevata, in quanto richiede la dimostrazione che il rifugiato costituisca un pericolo per la sicurezza o per la comunità del paese di rifugio, focalizzandosi quindi su una futura minaccia proveniente dall’individuo piuttosto che sulla commissione da parte di quest’ultimo di atti deplorevoli nel passato. Secondariamente, mentre l’art. 1F(b) afferma che la Convenzione non si applica a coloro che hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori dal paese ospitante prima di essere ammessi come rifugiati, l’art. 33(2) richiede una condanna definitiva per un crimine particolarmente grave, nulla affermando circa il luogo e il momento della commissione di quest’ultimo. Una lettura corretta dell’art. 33(2) alla luce dell’art. 1F(b), comporta che esso debba essere interpretato come riguardante circostanze non “coperte” dall’art. 1F(b). Ciò porta alla conclusione che, all’interno del sistema delineato dalla Convenzione del 1951, l’art. 33(2) deve applicarsi nei casi di condanna definitiva per un crimine particolarmente grave commesso dall’individuo nel paese di asilo, o altrove, successivamente all’ingresso come rifugiato98. Per quanto concerne la prima eccezione prevista dalla Convenzione di Ginevra, relativa al pericolo per la sicurezza dello Stato, può essere rilevato come il rischio deve riferirsi precipuamente allo Stato ospite, non avendo alcuna rilevanza circostanze riguardanti altri paesi o la comunità internazionale in generale e devono esservi motivi seri99, sufficientemente dimostrati, per ritenere il rifugiato una minaccia imminente e reale. La nozione di sicurezza nazionale pur 97 Pushpanathan v. Minister of Citizenship and Immigration, Supreme Court of Canada, June 4, 1998, disponibile all’indirizzo www.scc-csc.lexum.com/decisia-scc-csc/scc-csc/scc-csc/en/item/1627/index.do. 98 Come affermato da HATHAWAY J., “So construed, Art. 1(F)(b) and Art. 33(2) form a coherent and logical system”. Cfr. HATHAWAY J., The rights of refugees under international law, cit., p. 344. 99 La nozione di “reasonable grounds” è stata sapientemente definita dal giudice Justice Glazebrook della Corte d’Appello neozelandese: “It means that the State concerned cannot act either arbitrally or capriciously and that it must specifically address the question of whether there is a future risk and the conclusion on the matter must be supported by evidence”. Cfr. Attorney General v. Zaoui and Others, September 30, 2004, CA20/04, par. 133, disponibile all’indirizzo www.refworld.org/docid/49997af11a.html. 40 non essendo precisamente definita nei travaux préparatoires, alla luce dei moderni orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, deve essere intesa come riguardante “the host state’s most basic interests, including the risk of an armed attack on its territory or its citizens, or the destruction of its democratic institutions”. Il refoulement è inoltre ammesso, come previsto dall’ultima parte dell’art. 33(2), anche nel caso in cui il rifugiato sia stato condannato definitivamente per un crimine o un delitto particolarmente grave, nel qual caso il fatto che l’individuo rappresenti un pericolo per la comunità dello Stato territoriale è, in base al testo della norma, presunto100. La doppia qualificazione – particolarmente e grave – del crimine è coerente con la portata restrittiva dell’eccezione ed enfatizza come il refoulement deve essere contemplato, ai sensi della norma in esame, solo nella più estrema delle circostanze, quando non vi è nessuna possibile alternativa per proteggere la popolazione del paese di asilo dal rischio di un danno inaccettabile. È necessario evidenziare infine che l’applicazione di queste eccezioni è preclusa laddove il refoulement di un richiedente asilo sia suscettibile di comportare la soggezione dello stesso a trattamenti vietati dal diritto cogente, quali la tortura o la riduzione in schiavitù. Alla luce di quanto appena affermato, il refoulement potrà essere disposto solo in seguito ad un’attenta analisi delle circostanze individuali del soggetto coinvolto e nel rispetto della procedura prevista dalla legge101. 100 Come eloquentemente sostenuto da LENZERINI F., ciò si desume dall’art. 33(2) nel suo complesso. Egli afferma che “se la locuzione ‘having been convicted by a final judgement of a particularly serious crime, constitutes a danger to the community of that country’ dovesse essere intesa come implicante la necessità di accertare la pericolosità degli individui ricompresi nel suo ambito di applicazione, allora essa non avrebbe alcun senso di esistere, in quanto assorbita dalla statuizione più generale contenuta nel periodo precedente della norma in questione. Il fatto che la persona sia stata condannata in modo definitivo per un crimine particolarmente grave deve quindi essere inteso quale presunzione della sussistenza di un ‘reasonable ground’ di pericolosità della persona interessata”. Cfr. LENZERINI F., op.cit., p. 391. 101 La conformità alla procedura prevista dalla legge è espressamente richiesta dall’art. 33(2) della Convenzione del 1951 riguardo all’espulsione. Dal momento che il refoulement espone il rifugiato o il richiedente asilo ad una minaccia potenzialmente maggiore rispetto all’espulsione, le garanzie del giusto processo previste in quest’ultimo caso devono essere accordate nell’applicazione delle eccezioni al divieto di refoulement. 41 CAPITOLO II LA TUTELA DEI RIFUGIATI NELL’AMBITO DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO 1. Osservazioni introduttive Né la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU) né i relativi Protocolli addizionali contengono previsioni quali, a livello universale, l’articolo 14 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo1 o l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sullo status del rifugiati del 1951 o, a livello regionale, l’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea2. Dal canto suo, la Corte europea dei diritti umani (e precedentemente anche la Commissione) ha sempre ribadito nella proprie pronunce che il diritto d’asilo non è garantito in quanto tale dalla CEDU o dai suoi Protocolli e che, all’opposto, gli Stati sottoscrittori hanno il diritto, in conformità a consolidate norme di diritto internazionale generale, di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri3. In realtà, l’interpretazione funzionalistica della CEDU quale strumento di garanzia di “diritti concreti ed effettivi, e non teorici ed illusori”, ha permesso alla Corte di Strasburgo, a partire dalla fine degli anni ’80, di creare un sistema di limiti al potere degli Stati contraenti di estradare, espellere o più generalmente, allontanare, gli stranieri verso Paesi in cui vi è un’alta possibilità di violazione dei 1 L’art. 14 afferma “everyone has the right to seek and to enjoy in other countries asylum from pesecution. This right may not be invoked in the case of prosecutions genuinely arising from nonpolitical crimes or from acts contrary to the purposes and principles of the United Nations”, Dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre 1948, GA Res. 217 A (III). 2 L’art. 18 statuisce che “The right to asylum shall be guaranteed with due respect for the rules of the Geneva Convention of 28 July 1951 and the Protocol of 31 January 1967 relating to the status of refugees and in accordance with the Treaty establishing the European Community”. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è stata sottoscritta e proclamata ufficialmente dai Presidenti di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione in occasione del Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000, GUCE n. C 364/01. 3 Si vedano, tra le più rilevanti, Corte EDU, sent. 30 ottobre 1991, Vilvarajah c. Regno Unito, ric. 13163/87, par. 102-103; sent. 11 gennaio 2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi, ric. 1948/04, par. 135 e sent. 20 luglio 2010, A. c. Paesi Bassi, ric. 4900/06, par. 141. Tutte le pronunce che si analizzeranno nel presente capitolo sono reperibili nella banca dati della giurisprudenza della Corte EDU all’indirizzo www.hudoc.echr.coe.int. 42 diritti protetti in seno alla Convenzione4. In tal modo, la giurisprudenza della Corte, oltre ad ampliare l’applicazione delle norme internazionali relative alla protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, ha sviluppato un vero e proprio sistema “parallelo” e “autonomo” di protezione dello straniero che, al giorno d’oggi, rappresenta sicuramente lo standard di tutela più progredito sul piano europeo5. È opportuno ricordare che la CEDU costituisce il principale strumento giuridico adottato nell’ambito del Consiglio d’Europa con l’obiettivo di garantire la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali a ciascun individuo sotto la giurisdizione dei suoi Stati membri. L’adozione di uno strumento vincolante a tutela dei diritti umani era necessario perché il Consiglio d’Europa potesse realizzare il suo scopo, ovvero “[…] a greater unity between its members for the purpose of safeguarding and realizing the ideals and priciples which are their common heritage and facilitating their economic and social progress”6. L’ambito generale di applicazione della Convenzione è stabilito dall’articolo 1, il quale impone agli Stati di riconoscere i diritti enunciati nella prima sezione della CEDU “to everyone within their jurisdiction”, previsione che comprende ogni individuo, indipendentemente dallo status giuridico riconosciutogli dagli Stati contraenti. L’espressione “jurisdiction” è stata interpretata dagli organi di Strasburgo, sia pur con qualche oscillazione, a partire dal celebre caso Loizidou7, come includente il cosiddetto “paradigma territorialista”: uno Stato parte può essere in astratto chiamato a rispondere di comportamenti in violazione della Convenzione anche quando questi abbiano luogo non sul suo territorio, ma in un 4 Ex multis, MOLE N., MEREDITH C., Asylum and the European Convention on Human Rights, Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2010, p. 19. 5 In tal senso SACCUCCI A., Diritto d’asilo e Convenzione europea dei diritti umani, in FAVILLI, C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, CEDAM, Milano, 2011, p. 149. 6 Art. 1(a) dello Statuto del Consiglio d’Europa, Londra, 5 aprile 1949, ETS n. 1. 7 Il caso verte sull’applicabilità della CEDU nei territori sui quali, in seguito all’occupazione delle truppe turche del 1974 si è costruita la Repubblica Turca di Cipro Settentrionale, Stato non riconosciuto dalla comunità internazionale. La signora Loizidou, proprietaria di terre situate nella parte settentrionale dell’isola di Cipro, se ne era allontanata al tempo dell’invasione turca. Successivamente propose ricorso a Strasburgo contro la Turchia, sostenendo che la presenza delle truppe turche sul territorio cipriota le impedisse di raggiungere le sue proprietà. La Turchia resistette affermando che il territorio in questione era sottoposto alla sovranità della Repubblica Turca di Cipro Settentrionale. La Corte asserì, sulla base del grande dispiegamento di truppe turche sul territorio cipriota, l’obbligo per la Turchia di garantire i diritti e le libertà enunciate nella CEDU, e ciò indipendentemente dalla legalità della suddetta situazione e anche prescindendo dalle modalità in cui si esercitasse concretamente il controllo di fatto. Sentenza 18 dicembre 1996, Loizidou c. Turchia, ric. 15318/89, par. 56. 43 territorio su cui esso eserciti complessivamente un controllo di fatto (“effective overall control”)8. Nel contesto del presente studio, particolarmente rilevante è l’ipotesi di individui in fuga dai propri Paesi di cittadinanza, ma non presenti nel territorio di uno Stato parte, che vengano in contatto con i rappresentanti diplomatici e consolari di uno di questi ultimi. In questo tipo di situazione, la giurisprudenza della Corte EDU e quella dei tribunali nazionali ha in molti casi stabilito che uno Stato parte avrà giurisdizione sugli individui entrati in contatto con i suoi rappresentanti diplomatici e consolari, a condizione che questi ultimi esercitino su di essi un sufficiente livello di autorità. Sarà quindi possibili per i suddetti individui invocare l’applicazione, nei loro confronti, di tutti i diritti enunciati nella CEDU, compresi quelli che sono stati interpretati come contemplanti implicitamente un divieto di rinvio verso Stati dove quegli stessi diritti siano a rischio di violazione9. Nonostante l’art. 1 della CEDU imponga agli Stati parte di garantire il pieno godimento di tutti i diritti e le libertà sancite dagli articoli dal 2 al 18 della Convenzione, l’art. 15 stabilisce che, in particolari circostanze, uno Stato possa derogare alle obbligazioni da esso assunte a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Nel primo paragrafo dell’art. 15 sono enunciate le situazioni in cui è previsto il diritto di deroga: il coinvolgimento di uno Stato parte in un conflitto armato e altre situazioni di emergenza in cui la sopravvivenza stessa della nazione sia in pericolo10. Lo stesso articolo, oltre a stabilire alcune garanzie procedurali 8 Nella giurisprudenza successiva si vedano, tra le altre, Corte EDU, sentenza 12 dicembre 2001, Bankovic, Stojanovic, Stoimenovski, Joksimovic e Sukovic c. Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Pesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, Turchia ed Ungheria, ric. 52207/99; sent. 8 luglio 2004, Ilascu e altri c. Moldavia e Federazione Russa, ric. 48787/99; sent. 16 novembre 2004, Issa c. Turchia, ric. 31821/96; sent. 7 luglio 2011, Al Skeini e altri c. Regno Unito, ric. 55721/07. 9 La sentenza X c. Repubblica Federale di Germania del 25 settembre 1965, ric. 1611/62, Yearbook of the European Convention on Human Rights, vol. 8 (1965), p. 158, rappresenta un primo esempio di questa ricostruzione. Il caso riguardava un cittadino tedesco residente in Marocco, che lamentava di aver subito numerose violazioni di articoli della CEDU da parte delle autorità diplomatiche e consolari della Germania e riteneva quest’ultima responsabile delle suddette violazioni. Il ricorso venne dichiarato inammissibile dalla Commissione che, tuttavia, riconobbe come “the nationals of a Contracting State are within its ‘jurisdiction’ even when domiciled or resident abroad; whereas, in particolar, the diplomatic and consular representatives of their country of origin perform certain duties with regard to them which may in certain circumstances, make that country liable in respect of the Convention”, ibidem, p. 168. 10 Dalla giurisprudenza degli organi di Strasburgo si evince che il pericolo deve avere carattere eccezionale, imminente e concreto, coinvolgere non una parte ma l’intera popolazione, e costituire una minaccia per la sopravvivenza della comunità nel suo complesso (sentenza 1 luglio 1961, Lawless c. Irlanda, ric. 332/57, disponibile al sito www.echr.ketse.com/doc/332.57-en- 44 contro l’abuso di tale facoltà di deroga11, sancisce inoltre due limiti fondamentali alla medesima: in base al primo limite, contenuto nel primo paragrafo, le deroghe devono essere strettamente necessarie per fronteggiare le situazioni di emergenza; il secondo stabilisce che nessuna deroga, in nessuna circostanza, è ammessa per alcuni diritti previsti dalla Convenzione12. Le norme inderogabili sono: l’articolo 2, che tutela il diritto a non essere privato illegalmente della propria vita; l’articolo 3, che proibisce la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti; il primo paragrafo dell’articolo 4, che tutela il diritto a non essere tenuti in condizioni di schiavitù o di servitù e l’articolo 7, che sancisce il principio di legalità/irretroattività delle norme penali. Anche se non richiamate nell’articolo 15, vi sono altre due norme che hanno espressamente riconosciuto l’inderogabilità di altri diritti fondamentali. Si tratta dell’articolo 2 del Protocollo n. 13 alla CEDU13, relativo all’abolizione della pena di morte in ogni circostanza e dell’articolo 4(3) del Protocollo n. 714, che afferma la garanzia del principio del ne bis in idem. Poiché si tratta di norme che attribuiscono agli individui diritti inderogabili, “presumibile espressione di principi di jus cogens”15, tali articoli possono essere considerati come costituenti il c.d. “nocciolo duro” della Convenzione. 19610701/view/). Nel caso in cui l’evento eccezionale è circoscritto ad una parte del territorio dello Stato, la deroga dovrà avere efficacia solo in quell’area (sentenza 26 novembre 1997, Sakik e altri c. Turchia, ric. 23878/94; 23879/94; 23880/94; 23881/94; 23882/94; 23883/94, disponibile al sito www.echr.ketse.com/doc/23878.94-23879.94-23880.94-23881.94-etc-en-19971126/). 11 CEDU, art. 15(3): “Any High Contracting Party availing itself of this right of derogation shall keep the Secretary General of the Council of Europe fully informed of the measures which it has taken and the reasons therefore. It shall also inform the Secretary General of the Council of Europe when such measures have ceased to operate and the provisions of the Convention are again being fully executed”. 12 CEDU, art. 15(1) e (2): “In the time of war or other public emergency threatening the life of the nation any High Contracting Party may take measures derogating from its obligations under this Comvention to the extent strictly required by the exigencies of the situation, provided that such measures are not inconsistent with its other obligation under international law. No derogation from Article 2, except in respect of deaths resulting from lawful acts of war, or from Articles 3, 4 (paragraph 1) and 7 shall be made under this provision”. 13 CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 13 to the Convention for the protection of Human Rights and Fundamental Freedoms Concerning the Abolition of the Death Penalty in All Circumstances, aperto alla firma a Vilnius il 3 maggio 2002 ed entrato in vigore il 1° luglio 2003, ETS, vol. 187. 14 CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 7 to the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, così come modificato dal Protocollo n. 11, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, entrato in vigore il 1° novembre 1988, ETS, vol. 117. 15 BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, CEDAM, Padova, 2012, p. 560. 45 2. Il principio di non-refoulement e la CEDU Il principio di non-refoulement che, come affermato nel primo capitolo, può essere considerato un principio consuetudinario di diritto internazionale generale, impone a tutti gli Stati l’obbligo di non porre un individuo in cerca di rifugio in una situazione in cui i suoi diritti umani fondamentali sarebbero a rischio di violazione. Nonostante non vi sia alcuna norma nella CEDU che si riferisca esplicitamente al principio in esame, il Consiglio d’Europa ne ha espressamente riconosciuta l’effettività nella sua raccomandazione n. 1 del 198416, in cui agli Stati membri è stato chiesto di rispettare il divieto di refoulement in ogni circostanza e senza riguardo al formale riconoscimento degli individui come rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951. Sia la Commissione europea dei diritti dell’uomo che la Corte europea dei diritti dell’uomo, facendo ampio ricorso a quella che è stata definita in dottrina la tecnica di protezione “par ricochet”17, hanno utilizzato alcuni articoli della CEDU (in particolare gli articoli 2, 3, 5, 8) per affermare la responsabilità degli Stati parte, in caso di refoulement di individui verso Paesi in cui è probabile che siano soggetti a violazioni dei loro diritti fondamentali18. I diritti individuati dalla Corte di Strasburgo come rilevanti in questo caso, possono essere distinti in due categorie: i diritti che possono essere violati 16 CONSIGLIO D’EUROPA, Recommendation No. R(84)1 on the protection of persons satisfying the criteria in the Geneva Convention who are not formally recognized as refugees, adottata dal Comitato dei Ministri il 25 gennaio 1984. Reperibile all’indirizzo www.legislationline.org/download/action/download/id/1490/file/454ba81fc5306ab95fc8b65ef38b 0c1f.pdf. 17 La cosiddetta “protection par ricochet” o “di riflesso” si ha quando viene affermata la necessità di protezione di un interesse o diritto non contemplato dalla Convenzione, al quale si appresta una protezione indiretta, attraverso una tutela predisposta ad altri fini. V. BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., op. cit., p. 16. 18 Si veda BORELLI S., Estradizione, espulsione e tutela dei diritti fondamentali, in PINESCHI L. (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, Giuffrè editore, Milano, 2006, p. 728-729: “ La prima categoria di situazioni in cui le norme internazionali a tutela dei diritti umani possono costituire un limite alla libertà degli Stati di allontanare individui dal proprio territorio è costituita dai casi in cui la decisione di allontanare l’individuo dia luogo a violazioni dei diritti dell’individuo ascrivibili direttamente allo Stato che procede all’allontanamento. […] La responsabilità dello Stato per un’eventuale violazione deriva dalla normale applicazione del principio per cui gli Stati parti ai trattati sui diritti umani sono tenuti a garantire il rispetto dei diritti e delle libertà tutelati in tali strumenti nei confronti di ogni individuo sottoposto alla loro giurisdizione. […] La seconda categoria di situazioni in cui il diritto internazionale dei diritti umani risulta rilevante nel contesto di procedimenti di estradizione o espulsione o, più in generale, di qualunque azione dello Stato volta a trasferire un individuo sotto 46 direttamente dallo Stato con la sola decisione di allontanamento di un individuo e i diritti che uno Stato può violare indirettamente con l’allontanamento. Poiché la seconda categoria include diritti che si trovano ad essere solo a rischio di violazione, in tali casi la Corte dovrà compiere un’accurata valutazione del livello di rischio, per poter eventualmente affermare la responsabilità degli Stati parte19. È opportuno osservare, comunque, che né la Commissione né la Corte hanno mai utilizzato il termine refoulement; entrambe hanno sempre analizzato la colpevolezza potenziale degli Stati parte in relazione a specifici atti idonei a ricadere, a seconda delle circostanze del caso, nella nozione di refoulement, ovvero l’estradizione, il trasferimento e l’espulsione. Sin dai primi casi sottoposti al suo esame, la Commissione ha affermato che il diritto a restare nel territorio degli Stati contraenti e il diritto a non essere estradato non rientravano, come tali, fra i diritti e le libertà riconosciute nella CEDU, sottolineando, tuttavia, che mediante la ratifica della stessa, gli Stati avevano comunque accettato di limitare il libero esercizio dei poteri loro riconosciuti dal diritti internazionale generale, incluso il potere di controllare l’ingresso e l’allontanamento degli stranieri, e che, quindi, “the extradition of a person may, in certain exceptional cases, be contrary to the Convention and in particolar to Article 3”20. Ma il vero punto di svolta nella giurisprudenza in questa materia è rappresentato dal caso Soering c. Regno Unito21. Il ricorrente era un cittadino tedesco fuggito in Europa dopo aver commesso due omicidi negli Stati Uniti, in la sua giurisdizione a un altro Stato, è quella in cui l’individuo allontanato dal territorio dello Stato rischia di essere vittima di violazioni dei proprio diritti fondamentali nello Stato di destinazione”. 20 Commissione EDU, sentenza 30 giugno 1959, X c. Svezia, ric. 434/58. Il caso riguardava un rifugiato polacco residente nella Repubblica Federale di Germania che si era rivolto all’ambasciata svedese a Bonn al fine di ottenere un permesso di entrata in Svezia, paese di residenza del figlio. Contemporaneamente il ricorrente si era rivolto ad un tribunale svedese per il riconoscimento del suo diritto di visita al figlio. Le autorità svedesi negarono al soggetto il permesso d’entrata e il tribunale svedese non gli permise di apparire personalmente nelle udienze del processo per il riconoscimento del diritto di visita. Nel suo ricorso alla Commissione il ricorrente lamentava la violazione da parte della Svezia di numerosi articoli della CEDU, tra cui l’art. 6, a garanzia di un equo processo e l’art. 8, a tutela del diritto al rispetto della vita familiare. Il ricorso venne dichiarato inammissibile per mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni. In senso conforme si vedano anche Comm. EDU, sent. 29 maggio 1961, X c. Belgio, ric. 984/61; sent. 6 ottobre 1962, X c. Repubblica Federale di Germania, ric. 1465/62; sent. 26 marzo 1963, X c. Repubblica Federale di Germania, ric. 1802/62; sent. 30 giugno 1964, X c. Austria e Yugoslavia, ric. 2143/64; sent. 6 ottobre 1976, Lynas c. Svizzera, ric. 7317/75; sent. 3 maggio 1983, Altun c. Repubblica Federale di Germania, ric. 10308/83; sent. 12 marzo 1984, E. M .Kirkwood c. Regno Unito, ric. 10479/83; sent. 14 aprile 1986, A. c. Svizzera, ric. 11933/86. 47 seguito arrestato dalle autorità del Regno Unito. Successivamente alla cattura, le autorità statunitensi avevano richiesto, in base al trattato di estradizione fra gli Stati Uniti e il Regno Unito, l’estradizione di Soering, nei confronti del quale era in corso, davanti ad un tribunale statunitense, un procedimento per omicidio volontario e premeditato, reato punito con la pena capitale. A fronte dell’intenzione delle autorità britanniche di concedere l’estradizione, il soggetto presentò un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel suo ricorso alla Corte, egli sostenne che, se estradato, sarebbe stato soggetto ad un ritardo nell’esecuzione della pena capitale così prolungato da esporlo alla cosiddetta “sindrome del braccio della morte”22. Nell’opinione del ricorrente tale sindrome costituiva una violazione dell’articolo 3 della CEDU, di cui il Regno Unito doveva essere ritenuto responsabile in caso di estradizione. La Corte, accogliendo il ricorso, affermò che: “[…] the decision by a Contracting State to extradite a fugitive may give rise to an issue under Article 3, and hence engage the responsability of that State under the Convention, where substantial grounds have been shown for believing that the person concerned, if extradited, faces a real risk of being subjected to torture or to inhuman or degrading treatment or punishment in the requesting country”23. In questa sentenza, la Corte ha utilizzato per la prima volta l’espressione “substantial grounds” per indicare il livello di prova che il ricorrente deve soddisfare per dimostrare la presenza di un rischio reale di violazione dei diritti umani in caso di allontanamento nello Stato di destinazione. La nozione è stata poi sviluppata in successive pronunce della Corte. Nella sentenza Cruz Varas e altri c. Svezia24, il primo caso concernente l’espulsione di un richiedente asilo, la Corte dichiarò che: “in determing whether substantial grounds have been shown 21 Corte EDU, sentenza 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, ric. 14038/88. Per un approfondimento del concetto si veda ONU, Rapporto del Relatore speciale sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti, Manfred Nowak, UN Doc. E/CN.4/200 6/6/Add.4 (2005), par. 100. 23 Soering c. Regno Unito, sent. cit. par. 91. 24 Corte EDU, sentenza 20 marzo 1991, Cruz Varas e altri c. Svezia, ric. 15576/89. Il caso aveva ad oggetto l’espulsione dalla Svezia di un cittadino cileno e della sua famiglia. Il ricorrente, un attivo dissidente nei confronti del regime politico del generale Pinochet, affermava di aver subito in passato, per tale ragione, tortura, abusi sessuali ed altri maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine cilene. Sosteneva inoltre che queste violazioni dei suoi diritti umani erano la ragione per cui era fuggito dal Cile e aveva presentato richiesta di asilo politico in Svezia. Dopo la decisione delle autorità svedesi di rigettare la richiesta di protezione internazionale, egli fece ricorso alla Corte di Strasburgo, lamentando che l’esecuzione dell’ordine di espulsione emanato nei suoi confronti costituiva una violazione dell’art. 3 della CEDU. 22 48 for believing in the existence of a real risk of treatment contrary to Article 3 the Court will assess the issue in the light of all the material placed before it or, if necessary, material obtained proprio motu. The existence of the risk must be assessed primarily with reference to those facts which were known or ought to have been known by the Contracting State at the time of the expulsion; the Court is not precluded, however, from having regard to information which comes to light subsequent to the expulsion”25. I giudici di Strasburgo, dopo aver esaminato tutte le circostanze del caso, conclusero che il ricorrente non aveva allegato prove sufficienti a dimostrare gli elementi sostanziali di un rischio ben fondato di essere soggetto ad una violazione dei diritti tutelati nella Convenzione, in particolare dall’art. 3, e che quindi la Svezia non avrebbe infranto nessuna norma della CEDU in caso di sua espulsione. Il rischio, oltre ad essere reale, deve essere personale, ovvero riguardare personalmente l’individuo nei cui confronti è emanato l’ordine di espulsione, trasferimento o estradizione, non essendo sufficiente un pericolo riguardante esclusivamente la situazione generale degli individui presenti nello Stato di destinazione. Nel caso Vilvarajah e altri c. Regno Unito26, la Corte ha affermato, accogliendo in parte le argomentazioni delle autorità britanniche, che “a mere possibility of ill-treatment […]is not in itself sufficient to give rise to a breach of Article 3”, facendo ricadere sul ricorrente l’onere di provare l’esistenza di “special distinguishing features” tali da rendere la sua posizione peggiore rispetto a quella della generalità della popolazione o del gruppo a cui appartiene27. In tal modo, la Corte ha escluso la violazione dell’articolo 3 della Convenzione sostenuta dai ricorrenti, in quanto essi non avevano dimostrato di trovarsi in una condizione “any worse than the generally of the others members of the Tamil community or other young male Tamils who were returning to their country”, anche se fossero stati effettivamente sottoposti a trattamenti contrari all’art. 3 dopo il loro rimpatrio. 25 Ibidem, par. 75-76. Corte EDU, sentenza 30 ottobre 1991, Vilvarajah e altri c. Regno Unito, ric. 13163/87, 13164/87, 13165/87, 13447/87, 13448/87. Il caso trattava dell’espulsione dal territorio britannico di cinque cittadini dello Sri Lanka, appartenenti all’etnia tamil. I ricorrenti sostenevano che, nel caso di un ritorno nel loro paese di origine, avrebbero corso il rischio effettivo di subire trattamenti contrari all’art. 3 della CEDU. 27 Ibidem, par. 111. 26 49 La Corte ha inoltre chiarito quale sia il momento temporale rilevante per la valutazione del rischio di violazione dei diritti umani fondamentali, qualora l’ordine di espulsione, estradizione o trasferimento non sia ancora stato adempiuto. Nella sentenza relativa al caso Chahal c. Regno Unito28, la Corte di Strasburgo ha sottolineato come “[…]Since he [the applicant]has not yet been deported, the material point in time must be that of the Court’s consideration of the case. It follows that, although the historical position is of interest in so far as it may shed light on the current situation and its likely evolution, it is the present conditions which are decisive”29. Ciò che i giudici ritengono rilevante è, quindi, la presenza di un futuro rischio di violazione, che deve essere valutato tenuto conto di tutte gli elementi rilevanti presentati dalle parti ed eventualmente, come specificato nel caso Cruzas Varas c. Regno Unito, ricercati autonomamente dalla Corte stessa30. Nei casi fino ad ora discussi, il diritto considerato a rischio di violazione in caso di estradizione, espulsione o trasferimento è stato il diritto a non essere soggetti a tortura e trattamenti o pene inumani o degradanti, contemplato dall’articolo 3 della Convenzione. Come affermato dalla Commissione nel caso E.M. Kirkwood c. Regno Unito, “[…]Article 3 is not subject to any qualification. Its terms are bald and absolute. This fundamental aspect of Article 3 reflects its key position in the structure of the rights of the Convention”31. Attraverso le 28 Corte EDU, sentenza 15 novembre 1996, Chahal c. Regno Unito, ric. 22414/93. Il signor Chahal era un cittadino indiano domiciliato nel Regno Unito fin dal 1971; durante un viaggio in India nel 1984, si convertì alla religione Sikh, fu arrestato e, come da egli affermato, sottoposto a torture, a causa della sua partecipazione a manifestazioni in difesa dell’autonomia del Punjab. Al suo rientro nel Regno Unito iniziò ad essere attivamente coinvolto nella comunità inglese dei Sikh e fu più volte arrestato e detenuto dalle autorità britanniche in ragione delle sue attività politiche. Il 14 agosto del 1990 il ministro dell’Interno britannico decise di espellere il signor Chahal perché la sua presenza nel territorio del Regno Unito costituiva un pericolo per la sicurezza nazionale. L’interessato che, nel caso di ritorno in India, temeva di essere oggetto di persecuzione, presentò una domanda di asilo, respinta per l’infondatezza del timore di persecuzione. La Corte, dopo aver considerato tutte le circostanze del caso e ritenute le assicurazioni fornite dal governo indiano non sufficienti per la sicurezza del ricorrente, a causa della polizia del Punjab, i cui membri “erano abituati ad agire senza nessuna considerazione verso i diritti umani dei sospetti militanti Sikh”, ha dichiarato che in caso di espulsione il ricorrente sarebbe stato esposto a trattamenti contrari all’art. 3 della CEDU. 29 Corte EDU, Chahal, cit. par. 86. 30 La Corte ha inoltre fornito delle linee guida sulla tipologia di documentazione che può essere ritenuta attendibile al momento dell’esame delle condizioni del paese di destinazione, come le relazioni dell’UNHCR e delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Detta documentazione è giudicata inattendibile quando le fonti internazionali sono sconosciute e le conclusioni contrastanti rispetto ad altri rapporti ritenuti credibili. Si veda Corte EDU, sentenza 28 giugno 2011, Sufi e Elmi c. Regno Unito, ric. 8319/07 e 1149/07, par. 230-234. 31 Comm. EDU, E.M. Kirkwood, cit. 50 parole della Commissione diviene di facile comprensione il motivo per cui la violazione di tale articolo sia stata la prima ad essere considera dagli organi di Strasburgo come capace di far sorgere la responsabilità degli Stati parte in caso di refoulement di individui. La violazione dell’articolo 3 non è comunque l’unica in grado di far sorgere tale tipo di responsabilità. Nelle successive pronunce la Corte ha considerato il rischio di violazione di altre norme della CEDU, come causa di un’eventuale condanna degli Stati parte in caso di allontanamento di individui in fuga da territori in cui siano a rischio di subire gravi violazioni dei loro diritti umani. Le norme rilevanti della CEDU che saranno analizzate nei paragrafi successivi sono l’articolo 2 e l’articolo 3, a tutela rispettivamente della vita e dell’integrità fisica; l’articolo 5, che sancisce il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, e l’articolo 8, a tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare della persona. Prima di passare all’analisi delle singole norme, non si può ignorare che la tutela offerta dalla CEDU si limita al divieto di allontanamento verso paesi a rischio, ma non impone in alcun modo allo Stato ospitante l’obbligo di riconoscere allo straniero un determinato status giuridico nell’ambito del proprio ordinamento, simile a quello previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Di conseguenza, lo straniero bisognoso di protezione potrà reclamare un diritto a restare nel territorio dello Stato membro interessato, ma non un diritto all’inclusione nella società di quest’ultimo, che potrà essere offerto soltanto a coloro che rientrano nel campo di applicazione di altri strumenti giuridici internazionali, che tale diritto contemplano. 3. Il diritto fondamentale alla vita come limite all’allontanamento degli stranieri L’articolo 2 della CEDU afferma che “1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla 51 forza resosi assolutamente necessario: (a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; (b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; (c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione”. Il diritto alla vita è l’unico diritto effettivamente originario, essendo valore prodromico al godimento di tutti gli altri diritti fondamentali della persona umana32. Soltanto uno Stato che tuteli la vita degli individui rientranti nella sua giurisdizione potrà garantire le altre libertà fondamentali. L’importanza dell’art. 2, quale parte del nucleo essenziale del sistema costituito dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, è confermata dal fatto che la norma in esame rientra tra quelle previste dal secondo comma dell’art. 15, come dotate del carattere dell’inderogabilità. Ciò implica che gli Stati saranno sempre tenuti a garantire tale diritto, anche in caso di guerra o di altro pericolo che minacci la vita della nazione. L’art. 2 CEDU, pur aprendosi con un generale obbligo negativo, rivolto alle autorità statali, di astensione da atti che possano intenzionalmente provocare la morte degli individui soggetti alla loro giurisdizione, è stato ricostruito nella maggioranza delle decisioni della Corte di Strasburgo, come includente per gli Stati obblighi positivi di intervento con misure di protezione e repressione33. La tutela del diritto alla vita previsto dalla Convenzione non ha però carattere assoluto. Accanto al divieto generale di ogni privazione intenzionale della vita, la norma contiene nel secondo paragrafo una lista tassativa di eccezioni, comprendenti i casi in cui l’uso della forza sia legittimato ex lege e la privazione della vita di un individuo sia assolutamente necessaria per difendere un altro 32 Ex multis, FANOTTO L., Il diritto fondamentale alla vita nella prospettiva della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in MEZZETTI L., MORRONE A. (a cura di), Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo. Nei sessant’anni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950-2010). Atti del Convegno internazionale di studi. Bologna, 5 marzo 2010, Giappichelli Editore, Torino, 2011: “Nel tentativo di approssimare alcune delle fondamentali caratteristiche del diritto alla vita, è stato attentamente notato come lo stesso presenti gli elementi del diritto autenticamente indisponibile, in quanto essenzialmente dotato di originarietà, socialità e processualità”, p. 207. 33 Come osservato da PITEA C., “La Corte ha ricavato dall’art. 2 una serie molto ampia di ‘obblighi positivi’ che hanno trasformato radicalmente la nozione di diritto alla vita. Essi possono essere suddivisi in due categorie. La prima comprende obblighi di protezione che intervengono prima che sia lamentata la violazione, con funzione preventiva, e hanno carattere sostanziale, richiedendo l’adozione di misure protettive a carattere generale e, a determinate condizioni, in relazione a specifici rischi. La seconda categoria comprende invece obblighi, definiti ‘procedurali’ dalla Corte stessa, che intervengono dopo che sia lamentata la violazione davanti alle autorità 52 individuo da atti di violenza illegali nei suoi confronti o per effettuare un arresto legale o per impedire la fuga di persone legalmente detenute o durante azioni compiute legalmente per sopprimere una rivolta o un’insurrezione. Inoltre, la pena di morte è menzionata espressamente in apertura dell’art. 2, come un’eccezione all’obbligo generale di proteggere il diritto alla vita. La norma in esame prevede la possibilità per gli Stati membri di infliggere la pena capitale, se irrogata con una sentenza di condanna, per un reato rispetto al quale l’ordinamento giurisdizionale prevede tale pena. La previsione è stata però oggetto di un’interpretazione evolutiva che ha sostanzialmente portato a ritenere in vigore una proibizione generale della pena di morte tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa. Ricostruzione avvalorata dapprima con l’adozione del Protocollo n. 6 alla CEDU34, riguardante l’abolizione della pena di morte in tempo di pace, e successivamente del Protocollo n. 1335, il cui articolo 1 afferma che, inderogabilmente e senza possibilità di riserve, “The death penalty shall be abolished. No one shall be condemned to such penalty or executed”. Dopo aver brevemente descritto il sistema di tutela del diritto alla vita stabilito dall’articolo 2 della CEDU e dai Protocolli n. 6 e n. 13, è possibile analizzare come questa norma sia stata applicata nei casi relativi all’allontanamento di individui dal territorio di uno Stato parte. Il primo caso in cui la Commissione dovette decidere circa l’applicabilità dell’art. 2 nel caso di allontanamento di un individuo verso uno Stato in cui sarebbe stato a rischio di subire violazioni del suo diritto alla vita fu F. c. Svizzera36. Il ricorrente era un cittadino libanese che, entrato illegalmente in Svizzera, aveva avanzato richiesta di asilo politico. Le autorità svizzere negarono la protezione internazionale sostenendo che le sue passate attività politiche non avrebbero costituito un reale pericolo per la sua vita e di conseguenza il timore di persecuzione era infondato. L’individuo, oggetto di un provvedimento di nazionali”, PITEA C., Diritto alla vita, in PINESCHI L. (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani, cit., p. 315. 34 CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 6 to the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms concerning the Abolition of the Death Penalty, Strasburgo, 28 aprile 1983, entrato in vigore il 1°marzo 1985 (per tutti gli Stati membri, eccetto la Russia), ETS, vol. 114. 35 CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 13 to the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, concerning the Abolition of the Death Penalty in all Circumstances, Vilnius, 3 maggio 2002, entrato in vigore il 1° luglio 2003, ETS, vol. 187. 36 Comm. EDU, sentenza 1 ottobre 1990, F. c. Svizzera, ric. 14912/89. 53 espulsione, tentò invano di appellarsi contro questa decisione e, dopo aver esaurito i mezzi di ricorso previsti dall’ordinamento interno, presentò un ricorso alla Commissione, lamentando che la sua espulsione dal territorio svizzero l’avrebbe esposto al rischio reale di subire violazioni degli articoli 2 e 3 della CEDU. Nonostante il ricorso venne dichiarato inammissibile, in quanto l’ordine non era ancora stato eseguito e il governo svizzero aveva presentato sufficienti garanzie sulla possibilità di appellare la sua futura ed eventuale esecuzione, la Commissione affermò che: “[…]expulsion may in exceptional circumstances involve a violation of the Convention, for instance where there is a serious fear of treatment contrary to Articles 2 and 3 of the Convention”37. Successivamente, la Commisione nella sua relazione al caso Bahaddar c. Paesi Bassi, valutò attentamente se dall’articolo 2 potesse scaturire la responsabilità di uno Stato parte, nel caso in cui la vita di una persona sia in pericolo a causa della sua estradizione, espulsione o trasferimento. Nella relazione si legge: “As to the proibition of intentional deprivation of life, the Commision does not exclude that an issue might be raised under Article 2 in circumstances in which the expelling State knowingly puts the person concerned at such high risk of losing his life. ‘Real risk’ – within the meaning of the case-law concerning Article 3 – of loss of life would not as such necessarily suffice to make expulsion an ‘intentional deprivation of life’ prohibited by Article 2, although it would amount to inhuman treatment within the meaning of Article 3”38. La Comissione stabilì quindi necessario, affinchè possa essere invocata la responsabilità di uno Stato ai sensi dell’art. 2, un così alto livello di prova del rischio per il ricorrente di perdere la vita, tale da raggiungere sostanzialmente la certezza. Come osservato dinanzi, una violazione del diritto alla vita può spesso implicare una violazione dell’articolo 3, che proibisce la tortura e i trattamenti o le punizioni inumani o degradanti. Nella maggior parte casi successivi, in cui il ricorrente asseriva di correre un rischio reale di subire violazioni sia dell’art. 2 che dell’art. 3, la Corte, data la maggior gravosità dell’onere della prova richiesto per l’applicazione dell’art. 2, ha reputato non necessario esaminare il ricorso sotto la prospettiva di quest’ultimo articolo, dopo aver giudicato la stessa sotto il profilo 37 F. c. Svizzera, cit. Commissione EDU, Relazione al caso Bahaddar c. Paesi Bassi, sent. corte EDU 22 maggio 1995, ric. 25984/94, in European Human Rights Reports, vol.23 (1998), p.278. 38 54 dell’art. 3. Sono esempi di questa ricostruzione interpretativa i casi H.L.R. c. Francia39, D. c. Regno Unito40 e S.R. c. Svezia41. Come già evidenziato, l’art. 2 non è la sola norma all’interno della CEDU che tutela il diritto alla vita. I Protocolli n. 6 e n. 13 alla Convenzione sanciscono espressamente il diritto individuale a non essere sottoposto alla pena di morte. Il problema di una possibile violazione del diritto alla vita, sotto il profilo dell’inflizione della pena capitale, è stato analizzato dalla Corte soprattutto in riferimento all’allontanamento di una persona verso un paese terzo nel quale potrebbe essere esposta al rischio reale di essere giustiziata. Nel caso Ismaili c. Germania42 la Corte riconobbe per la prima volta l’obbligo per gli Stati parte, ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 6, di non estradare, espellere o trasferire un individuo in uno Stato dove egli corra il rischio reale di essere condannato alla pena di morte43. Il ricorrente era un cittadino marocchino, entrato nel territorio tedesco dopo che le autorità del Marocco avevano emanato nei suoi confronti un mandato d’arresto per il coinvolgimento nell’uccisione di un membro della polizia locale e per il grave ferimento di un secondo. Le autorità tedesche rifiutarono la sua richiesta di asilo politico. Successivamente, mentre il ricorrente si trovava in stato di detenzione per non aver rispettato il domicilio che gli era stato assegnato, il governo tedesco decise di accettare la richiesta di estradizione inviatagli dalle autorità marocchine. Dopo essersi appellato in vano contro tale decisione, il ricorrente aveva adito la Corte di Strasburgo asserendo che la sua estradizione in Marocco lo avrebbe esposto al rischio di essere condannato a morte e di subire trattamenti inumani. La Corte, pur avendo dichiarato il ricorso inammissibile sulla base delle garanzie offerte dalle autorità marocchine, affermò: “Ainsi, lorsqu’il y a des motifs sérieux et avérés de croire que l’intéressé, si on le livre à l’État en question, y courra un risque réel d’être 39 Corte EDU, sent. 29 aprile 1997, H.L.R. c. Francia, ric. 24573/94. Corte EDU, sent. 2 maggio 1997, D. c. Regno Unito, ric. 30240/96. 41 Corte EDU, sent. 23 aprile 2002, S.R. c. Svezia, ric. 62806/00. 42 Corte EDU, sentenza 15 marzo 2001, Ismaili c. Germania, ric. 58128/00. 43 Il riconoscimento dell’art. 1 del Protocollo n. 6 come norma applicabile nel caso in cui l’allontanamento di un individuo lo esponga al rischio di essere giustiziato è stato ribadito dalla Corte anche nella sentenza 20 gennaio 1994, Aylor Davis c. Francia, ric. 22742/93 e nella sent. 4 settembre 1995, Raidl c. Austria, ric. 25342/94, in cui la Corte ha dichiarato: “Article 1 of Protocol No. 6 provides that the death penalty shall be abolished and that no one shall be condamned to such a penalty or executed. Thus, the question arises whether this provision, like Article 3 of the Convention, engages the responsability of a Contracting State where, upon extradition, the person concerned faces a real risk of being subjected to the death penalty in the receiving State”. 40 55 soumis à la peine de mort contraire à l’aricle 1 du Protocol No. 6, cette disposition implique-t-elle l’obligation de ne pas extrader la personne en question vers ce pays”44. Nel successivo caso Bader e Kanbor c. Svezia45, riguardante un cittadino siriano, la cui richiesta d’asilo era stata rifiutata dalle autorità svedesi e che era stato condannato durante la sua assenza alla pena di morte per concorso in un omicidio, la Corte, riferendosi alla sua precedente giurisprudenza e in particolare a quanto affermato in Öcalan c. Turchia46, concluse che la sentenza di morte emanata al termine di un processo iniquo, provocherebbe ulteriori angosce e paure per il ricorrente e la sua famiglia, se questi fosse costretto a ritornare nel suo paese d’origine. L’espulsione del soggetto verso la Siria, se eseguito, darebbe luogo alla violazione degli art. 2 e 3 della Convenzione47. In conclusione, per valutare l’esistenza del rischio di subire una lesione del diritto alla vita in uno Stato terzo, gli Stati parte della CEDU sono tenuti a prendere in considerazione sia la situazione generale degli Stati verso i quali le persone dovrebbero essere rinviate, sia le condizioni individuali delle persone di cui si tratta. Se l’estradizione o l’espulsione sono già state effettuate, la Corte di Strasburgo prende in considerazione le condizioni di pericolo per la vita, che lo Stato conosceva o avrebbe dovuto conoscere al momento dell’allontanamento 44 CORTE EDU, Ismaili c. Germania, cit. Corte EDU, sent. 8 febbraio 2006, Bader e Kanbor c. Svezia, ric. 13284/04. 46 Corte EDU, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan c. Turchia, ric. 46221/99. Nella pronuncia è stato notato dalla Corte come l’art. 2 precluda l’esecuzione della pena di morte nei confronti di un soggetto a cui non sia stato garantito un giusto processo secondo la legge. Inoltre, l’esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata al termine di un processo nel quale l’indipendenza e l’imparzialità della corte erano in dubbio, deve essere considerata un trattamento inumano ai sensi dell’art. 3. 47 Degna di nota è l’opinione alla sentenza in esame del giudice Cabral Barreto, il quale ha affermato: “I joined the majority in finding a violation of Article 2 of the Convention as I had no other means of expressing my opinion that there had been a violation not of that provision, but of Article 1 of Protocol No. 13. Allow me to explain. In my opinion, this is the first time the Court has plainly stated that the extradition or deportation of a person to a country where he or she risks an unfair trial followed by capital punishment will violate Article 2 of the Convention. […]The States that have already ratified Protocol No. 13 wished to replace the obligation arising under Article 2 of the Convention by a stronger one, namely an obligation to abolish the death penalty in all circumstances. The second sentence of Article 2 has, as it were, been abrogated, or at least rendered redundant, by the entry into force of Protocol No. 13. The States that have ratified Protocol No. 13 have undertaken not only never to implement capital punishment but also not to put anyone at risk of incurring that penalty. Consequently, there is no need to examine the trial or the situation of the person sentenced to death prior to the sentence being carried out because there will always be a violation of Article 1 of Protocol No. 13. Sweden has already ratified Protocol No. 13. I would therefore prefer to find that, in the instant case, the applicants' expulsion to Syria would entail a violation of Article 1 of Protocol No. 13, in addition to a violation of Article 3 of the Convention”. Si veda inoltre MOLE N., MEREDITH C., op. cit., p. 91. 45 56 della persona dal proprio territorio. Invece, nel caso in cui le operazioni di trasferimento non siano ancora state eseguite, occorre prendere in considerazione le circostanze sintomatiche del rischio per la vita esistenti nel momento in cui il caso è sottoposto alla Corte. Come emerge dalla giurisprudenza precedentemente analizzata, la violazione del diritto alla vita può riguardare situazioni molto diverse tra loro: il rischio di essere intenzionalmente privati della propria vita dalle autorità dello stato di destinazione o da individui che non sono organi statati, quando lo Stato ricevente non sia in grado di impedire la tale violazione; il rischio di subire l’esecuzione di una condanna alla pena di morte ex se o di essere condannati alla pena capitale al termine di un processo iniquo, se gli Stati membri del Consiglio d’Europa che stiano per espellere l’individuo abbiano ratificato i Protocolli n. 6 e 13 alla CEDU. 4. Il divieto di espulsione verso paesi in cui lo straniero rischia di subire trattamenti contrari all’articolo 3 della CEDU Il divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti, contenuto nell’articolo 3 della CEDU, rappresenta uno dei valori fondamentali delle società democratiche, in quanto espressione diretta dell’intangibile valore della dignità umana48. Il divieto in esame è contenuto in specifiche disposizioni contemplate in numerosi accordi sulla tutela dei diritti umani, operanti a livello universale (art. 5 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo; art. 7 del Patto ONU sui diritti civili e politici del 1966) e a livello regionale (oltre all’art. 3 della CEDU, l’art. 5 della Convenzione interamericana sui diritti dell’uomo del 1969 e l’art. 5 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981). Vi sono inoltre convenzioni internazionali specificamente finalizzate a proibire la tortura e i trattamenti inumani e degradanti; tra queste merita un cenno particolare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, primo atto internazionale dedicato specificamente al divieto di tortura. Tale accordo, non solo contiene all’articolo 1, una definizione dettagliata e articolata del fenomeno 57 da abolire, ma impone agli Stati, oltre ad un generico obbligo di far rispettare il divieto de quo, anche una serie di obblighi specifici di comportamento e di prevenzione49. È inoltre opinione comune che il divieto di tortura sia espressione non solo di una norma di diritto internazionale consuetudinario, ma anche di una norma di jus cogens. Quanto dell’Assemblea appena Generale affermato è dell’ONU50, avvalorato tanto quanto dalla da risoluzioni giurisprudenza internazionale51. In quanto norma cogente, il divieto di tortura è istitutivo di obblighi erga omnes, cioè verso la comunità internazionale nel suo complesso52. Per quanto riguarda l’oggetto della presente trattazione, l’art. 3 della CEDU, occorre subito evidenziare il carattere assoluto del divieto posto dalla norma in esame. Il testo dell’art. 3, “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, non lascia spazio ad alcuna limitazione, eccezione o deroga; ulteriore prova di tale carattere consiste nell’essere, la norma, una di quelle elencate nel secondo paragrafo dell’art. 15. La Corte europea, attraverso un percorso interpretativo, ha connotato il contenuto dell’articolo in esame sia “in ampiezza” che “in profondità”, cercando di individuare l’estensione massima e minima che la condotta deve assumere per integrare le tre diverse forme di violazione: il trattamento degradante, il 48 V. POLACCHINI F., Il divieto di tortura nell’ordinamento CEDU, in MEZZETTI L., MORRONE A. (a cura di), Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo, op. cit., p. 237. 49 ONU, Convention against torture and Other Cruel, Inuhuman or Degrading Treatment or Punishment, adottata dall’Assemblea Generale il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987. L’art. 1 dispone quanto segue: “1. For the purposes of this Convention, torture means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or a confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to lawful sanctions. 2. This article is without prejudice to any international instrument or national legislation which does or may contain provisions of wider application”. 50 ONU, Risoluzione n. 61/153 del 19 dicembre 2006 e Risoluzione n. 62/148 del 18 dicembre 2007. 51 Si veda ad esempio, Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Camere di prima istanza), sentenza 10 dicembre 1998, Prosecutor c. Anto Furundzija, n. IT-95-17/1-T, disponibile al sito www.icty.org/x/cases/furundzija/tjug/en/fur-tj981210e.pdf: “Because of the importance of the values it protects, this principle [the proibition of torture] has envolved into a peremptory norm or jus cogens, that is, a norm that enjoys a higher rank in the international hierarchy than treaty law and even ‘ordinary’ customary rules”, par. 153. 52 Per un approfondimento in materia si veda DE STEFANI P., Il diritto internazionale dei diritti umani, CEDAM, Padova, 1994, p. 68 e ss. 58 trattamento inumano e la tortura. L’elemento comune a questi tre concetti è il loro essere espressione di un vulnus al principio del rispetto della dignità umana, mentre diversa è la profondità delle condotte integranti le tre violazioni53. Come affermato dalla Corte nel caso Aksoy c. Turchia, può essere definito tortura soltanto “[a]deliberate inhumane treatment causing very serious and cruel suffering”54. A differenza della tortura che è sempre intenzionale, il trattamento degradante, definito come quello tale da suscitare nella vittime sentimenti di angoscia, paura ed inferiorità volti alla loro umiliazione e al loro avvilimento, può anche risultare da una serie di circostanze non volutamente create. È infine considerato trattamento inumano quello che cagiona una sofferenza fisica o psichica di notevole entità55. Al fine di valutare se un trattamento ricada o meno tra quelli proibiti dall’art. 3, la Corte è ricorsa al criterio della c.d. soglia minima di gravità. L’accertamento del superamento di questa soglia minima è il risultato di un’analisi relativa, da compiere caso per caso, che tenga conto sia delle circostanze oggettive del fatto, sia delle caratteristiche soggettive dell’individuo56. Come evidenziato nel secondo paragrafo, l’art. 3 è stata la prima norma della CEDU considerata dalla Corte, nel caso Soering, come idonea a rendere gli Stati parte responsabili in caso di allontanamento di individui verso Stati in cui vi siano sufficienti elementi per ritenere che essi subiranno trattamenti contrari all’art. 3. In questa sentenza i giudici della Corte hanno riconosciuto la responsabilità degli Stati contraenti per una violazione solo potenziale e indiretta dell’art. 357: “it is 53 V. TRIONE F., La tortura nel diritto internazionale, reperibile all’indirizzo www.centrodirittiumani.unina.it/curr_temi/TRIONE_Progetto.htm, p. 2. L’autore afferma “A parere della Corte europea, infatti, necessariamente una condotta che integra il crimine di tortura contiene in sé tutti gli elementi del trattamento inumano oltre, chiaramente, un quid pluris idoneo ad elevare la violazione al grado superiore di tortura. Così anche ogni trattamento inumano contiene in sé gli elementi del trattamento degradante, e, ex adverso, la configurazione di un trattamento degradante non è detto che abbia in sé tutti gli elementi necessari ad integrare un trattamento inumano”. 54 Corte EDU, sentenza 18 dicembre 1996, Aksoy c. Turchia, ric. 21987/93. 55 Si veda la relazione della Commissione sul c.d. caso greco, 5 novembre 1969, Danimarca c. Grecia, Norvegia c. Grecia, Paesi Bassi c. Grecia, Svezia c. Grecia, ric. 3321/67, 3322/67, 3323/67, 3344/67, Yearbook of the European Convention on Human Rights, vol. 12 (1969). 56 Il criterio della valutazione relativa è stato introdotto per la prima volta dalla Corte nel caso Irlanda c. Regno Unito (sent. 18 gennaio 1978, ric. 5310/71) e in seguito ripreso in tutta la successiva giurisprudenza. 57 Come sottolineato da STARACE V., “la Corte ha delineato, da un lato, una responsabilità per concorso causale rispetto a prevedibili violazioni del diritto a non subire torture o pene o trattamenti disumani o degradanti, dall’altro, ha configurato la categoria delle violazioni virtuali della Convenzione, le quali comportano, al pari delle violazioni attuali, la responsabilità dello Stato contraente”. STARACE V., Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed estradizione, in 59 not normally for the Convention institutions to pronounce on the existence or otherwise of potential violations of the Convention. However, where an applicant claims that a decision to extradite him would, if implemented, be contrary to Article 3 by reason of its foreseeable consequences in the requesting country, a departure from this principle is necessary, in view of the order to ensure the effectiveness of the safeguard provided by that Article”58. Si è in precedenza evidenziato che l’art. 3 sancisce in termini assoluti il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Nel celebre caso Chahal, la Corte ha avuto modo per la prima volta di affermare la natura assoluta del divieto di espulsione o respingimento verso Stati a rischio, respingendo in toto le obiezioni sollevate dal Governo britannico. Quest’ultimo aveva sostenuto che le garanzie offerte dall’art. 3 non fossero totali nel caso di misure volte ad allontanare un individuo dal territorio di un paese contraente, dovendosi prendere in considerazione vari fattori, incluso il pericolo che la persona in questione pone per la sicurezza dello Stato ospitante. La Corte ha, invece, sostenuto l’assolutezza del principio in questione, con la conseguenza che se vi sono fondati motivi per ritenere che un individuo andrebbe incontro ad un rischio reale di essere assoggettato a trattamenti contrari all’art. 3 se espulso, lo Stato membro sarà ritenuto responsabile in caso di allontanamento, senza che possano assumere rilievo “the activities of the individual in question, however undesirable or dangerous”59. L’assolutezza di tale affermazione è stata messa a dura prova dalla tendenza degli Stati a comprimere l’esercizio di taluni diritti fondamentali per contrastare il terrorismo internazionale, a seguito degli eventi del settembre 2001, tendenza che ha riguardato soprattutto le garanzie previste dal diritto internazionale a tutela degli stranieri, e in particolare il principio di non-refoulement. Gli Stati hanno tentato di rimettere in discussione il carattere assoluto ed inderogabile del divieto di refoulement affermato dalla Corte, sostenendo la necessità di attuare un SALERNO F., Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione. Atti del Convegno di studio organizzato dall’Università di Ferrara per salutare Giovanni Battaglini, CEDAM, Padova, 2003, p. 103 e ss. 58 Soering c. Regno Unito, sent. cit. par. 90. 59 Chahal c. Regno Unito, sent. cit. par. 80.Questa interpretazione dell’obbligo posto a carico degli Stati parte dall’art. 3 è stata utilizzata dalla Corte anche nella sent. 17 dicembre 1996, Ahmed c. Austria, ric. 25964/94. 60 bilanciamento fra la tutela dello straniero destinatario della misura di allontanamento e le esigenze legate alla salvaguardia della sicurezza nazionale. Sul tema la Corte si è pronunciata con la sentenza resa nel caso Saadi c. Italia60, riguardante un cittadino tunisino regolarmente residente in Italia ed espulso sulla base nelle nuove norme anti-terrorismo del 2005. Si tratta senz’altro di una sentenza storica con cui i giudici di Strasburgo hanno ribadito con fermezza la natura assoluta ed inderogabile del divieto di refoulement. La Corte ha, in particolare, negato la possibilità di introdurre elementi ulteriori, rispetto al rischio di tortura, nella valutazione della liceità dell’espulsione. Sia la condotta dell’individuo che il tipo di reato che gli è contestato sono irrilevanti ai fini dell’art. 3 CEDU. I giudici hanno quindi ritenuto inammissibile qualsiasi giudizio di bilanciamento (c.d. balancing test) tra l’esposizione al rischio di tortura e le esigenze di sicurezza nazionale61. La natura assoluta del divieto di refoulement ai sensi dell’art. 3 è stata affermata dalla Corte anche sotto altri punti di vista. Nel caso H.L.R. c. Francia62, il ricorrente, un cittadino colombiano arrestato per possesso di stupefacenti e oggetto di un ordine di espulsione da parte delle autorità svedesi, sosteneva che in seguito al rimpatrio avrebbe subito trattamenti contrari all’art. 3 da parte dei trafficanti di droga che lo avevano reclutato. Nella sentenza si legge che “owing to the absolute character of the right guaranteed, the Court does not rule out the possibility that Article 3 of the Convention may also apply where the danger emanates from persons or group of persons who are not public officials”63. La Corte affermò, tuttavia, che il rischio di trattamenti contrari all’art. 3 da parte di privati è più difficile da stabilire rispetto a quello che può provenire da autorità pubbliche. In questi casi lo Stato che espelle l’individuo gode quindi di un 60 Corte EDU, sent. 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia, ric. 37201/06. Nello specifico il caso riguardava un cittadino tunisino, già condannato in sua assenza dal proprio paese per associazione ad un’organizzazione terroristica e per incitazione al terrorismo. Le autorità italiane ne avevano disposto l’espulsione per ragioni di sicurezza nazionale in base all’art. 3 della l. 155/2005, a seguito di una sentenza della Corte d’Assise di Milano che lo aveva condannato per associazione a delinquere, per falsificazione di documenti e per ricettazione, escludendo però la presenza di elementi sufficienti per una condanna per partecipazione ad atti di terrorismo internazionale. Per un esame dettagliato degli argomenti sviluppati dal Governo Italiano e dal Regno Unito (terzo interveniente), si vedano rispettivamente i par. 102-116 e 117-123. 61 Le conclusioni della Corte in Saadi c. Italia sono state in seguito riaffermate in numerosi casi, si vedano, tra gli altri: sent. 1° dicembre 2008, Ismoilov e altri c. Russia, ric. 2947/06; sent. 20 ottobre 2010, Ramzy c. Paesi Bassi, ric. 25424/05; sent. 20 ottobre 2010, A c. Paesi Bassi, ric. 4900/06. 62 Corte EDU, sent. 29 aprile 1997, H.L.R. c. Francia, ric. 24573/94. 61 margine di apprezzamento più ampio. Il ricorrente deve dimostrare non solo l’esistenza di un rischio reale ma anche l’incapacità delle autorità dello Stato di destinazione di eliminarlo attraverso un’adeguata protezione64. Inoltre, una nuova dimensione è stata conferita alla portata applicativa dell’art. 3 dalla pronuncia sul caso D. c. Regno Unito65. Nel caso in esame, riguardante un individuo affetto da HIV in fase terminale, i giudici di Strasburgo hanno qualificato come trattamento inumano, il trasferimento del ricorrente verso un’isola delle Antille in cui non avrebbe potuto ricevere, a causa della carenza delle strutture sanitarie, le cure che richiedeva il suo stato di salute. La Corte, quindi, ritenne che un’espulsione può rivelarsi incompatibile con l’art. 3, non solo in ragione di comportamenti imputabili alle autorità pubbliche o a soggetti privati, ma a causa di situazioni oggettive66. È opportuno segnalare come i giudici di Strasburgo, in alcune recenti pronunce, hanno avuto modo di analizzare la compatibilità con il divieto imposto dall’art. 3 di due fenomeni peculiari nell’ambito della protezione internazionale di rifugiati e richiedenti asilo: la ricollocazione interna (c.d. internal flight alternative) e il concetto di paese terzo sicuro (c.d. safe third country). Il concetto di internal flight o relocation alternative si riferisce ad una specifica area del paese di provenienza dell’individuo richiedente protezione internazionale, dove non vi è per il soggetto il rischio di un fondato pericolo di persecuzione e in cui può ragionevolmente volersi insediare e vivere 63 H.L.R. c. Francia, sent. cit., par. 40. Si veda MALINVERNI G., I limiti all’espulsione secondo la Convenzione europea, in SALERNO F., Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione, cit., p. 175. 65 Corte EDU, sent. 2 maggio 1997, D. c. Regno Unito, ric. 30240/96. 66 In particolare nella sentenza si afferma “aside from these situations and given the fundamental importance of Article 3 in the Convention system, the Court must reserve to itself sufficient flexibility to address the application of that Article in other contexts which might arise. It is not therefore prevented from scrutinising an applicant’s claim under Article 3 where the source of the risk proscribed treatment in the receiving country stems from factors which cannot engage directly or indirectly the responsability of the public authorities of that country, or which, taken alone, do not in themselves infringe the standards of that Article. To limit the application of Article 3 in this manner would be to undermine the absolute character of its protection”, ibidem, par. 49. In successivi casi presentati al suo esame, la Corte ha in conclusione sostenuto che l’estradizione, l’espulsione o il trasferimento di un individuo affetto da una grave malattia equivale a una violazione dell’art. 3 CEDU, solamente se quella malattia sia ad uno stadio così avanzato che il trasferimento dell’individuo, o il conseguente indebolimento delle sue condizioni di salute, andrebbero in maniera diretta a diminuirne l’aspettativa di vita. Si vedano: sent. 6 febbraio 2001, Bensaid c. Regno Unito, ric. 44599/98; sent. 24 giugno 2003, Arcila Henao c. Paesi Bassi, ric. 13669/03; sent. 22 giugno 2004, Ndangoya c. Svezia, ric. 17868/03; sent. 25 novembre 2004, Amegnigan c. Paesi Bassi, ric. 25629/04; sent. 27 maggio 2008, N. c. Regno Unito, ric. 26565/05; sent. 29 gennaio 2013, S.H.H. c. Regno Unito, ric. 60367/10. 64 62 normalmente67. Nel caso Salah Sheekh c. Paesi Bassi, la Corte ha analizzato nel dettaglio la questione. Il ricorrente, un cittadino somalo, membro della minoranza Ashraf, che aveva richiesto asilo alle autorità neerlandesi, era stato espulso ritenendo insufficienti i motivi della richiesta e possibile il rinvio dello stesso in una zona “relativamente sicura” della Somalia. Nel suo ricorso alla Corte egli sostenne che, quale membro di una minoranza, non solo era a rischio nelle aree ritenute sicure dal Governo dei Paesi Bassi, ma rischiava di essere trasferito da queste ultime nelle zone della Somalia considerate pericolose. La Corte, citando le precedenti pronunce nei casi Chahal68 e Hilal69, affermò: “as a pre-condition for relying on an internal flight alternative, certain guarantees have to be in place: the person to be expelled must be able to travel to the area concerned, to gain admittance and be able to settle there, failing which an issue under Article 3 may arise, the more so if in the absence of such guarantess there is a possibility of the expellee ending up in a part of the country of origin where he or she may be subjected to ill-treatment”70. La ricostruzione della Corte è stata confermata, oltre che in successive pronunce, da ultimo nella sentenza sul caso Sufi e Elmi c. Regno Unito71, dove viene dichiarato che, in astratto, l’art. 3 della CEDU non impedisce agli Stati membri di ricorrere alla possibilità della ricollocazione interna, a condizione però che il rimpatriato possa evitare l’esposizione a un rischio concreto di maltrattamenti durante il viaggio o al momento dell’accettazione o del suo insediamento nella zona in questione. Per quanto concerne la pratica di espellere un richiedente asilo verso un “safe third country”, ovvero uno Stato diverso da quello in cui l’individuo affermi essere a rischio di trattamenti proibiti, questa è stata comunemente impiegata dagli Stati europei a partire dagli anni ’80. In seguito all’adozione della Convenzione di Dublino72, molti Stati hanno allontanato i richiedenti asilo, non 67 Per un ulteriore approfondimento si veda UNHCR, Guidelines on International Protection: “Internal Flight or Relocation Alternative” within the Context of Article 1A(2) of the 1951 Convention and/or 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, Ginevra, 2003, disponibile all’indirizzo www.unhcr.org/3f28d5cd4.html. 68 Chahal c. Regno Unito, cit. 69 Corte EDU, sent. 6 giugno 2001, Hilal c. Regno Unito, ric. 45276/99. 70 Corte EDU, sent. 23 maggio 2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi, ric. 1948/04, par. 141. 71 Corte EDU, sent. 28 novembre 2011, Sufi e Elmi c. Regno Unito, ric. 8319/07 e 11449/07. 72 Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità Europee, firmata a Dublino il 15 giugno 1990 63 direttamente verso Stati in cui rischiavano trattamenti vietati ai sensi dell’art. 3, ma verso paesi che avrebbero potuto trasferirli in questi ultimi. In T.I. c. Regno Unito73, la Corte ha considerato che la responsabilità di uno Stato può derivare dal rinvio di un richiedente asilo verso un terzo paese secondo il Regolamento Dublino, se, date le circostanze, vi è il pericolo reale che il soggetto verrà trasferito in un paese in cui rischia trattamenti contrari all’art. 3. Nel successivo caso M.S.S. c. Belgio e Grecia74, la Corte ha dichiarato che le condizioni di vita e di detenzione in Grecia costituivano una violazione dell’art. 3. Secondo autorevoli rapporti non era possibile accedere alla procedura di asilo e sussisteva il rischio di un successivo respingimento. Pertanto, le autorità belghe sono state ritenute responsabili, ai sensi dell’art. 3, di un trasferimento a norma del regolamento Dublino verso la Grecia, posto che, in base alle prove a disposizione, esse erano, o avrebbero dovuto essere, a conoscenza che i richiedenti asilo trasferiti in Grecia correvano il rischio di essere sottoposti ad un trattamento degradante. Dall’analisi della giurisprudenza citata si evince come il diritto a non subire tortura o altri trattamenti inumani o degradanti riveste un ruolo centrale nell’architettura del sistema di protezione offerto dalla Convenzione, al punto che il rischio solo potenziale di una sua violazione, in caso di allontanamento di un individuo verso un altro Stato, fa sorgere la responsabilità dello Stato rinviante. E ciò indipendentemente dalla fonte d’origine del maltrattamento e dall’eventuale condotta penalmente rilevante dell’individuo del cui trasferimento si tratta. In definitiva, la Corte di Strasburgo, attraverso un’interpretazione evolutiva del divieto posto dall’articolo 3, ha configurato una protezione dal refoulement avente carattere assoluto e quindi, come affermato dalla Corte stessa, più ampia di quella fornita dagli articoli 32 e 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951. 4.1 Respingimenti in mare: la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Hirsi La sentenza del 23 febbraio 2012 della Corte europea dei diritti dell’uomo, relativa al caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia75, resa in Grande Chambre, e quindi ed entrata in vigore il 1° settembre 1990, disponibile www.camera.it/_bicamerali/schengen/fonti/convdubl.htm. 73 Corte EDU, sent. 7 marzo 2000, T.I. c. Regno Unito, ric. 43844/98. 74 Corte EDU, sent. 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, ric. 30696/09. 75 Corte EDU, sent. 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ric. 27765/09. 64 all’indirizzo definita, costituisce il primo intervento dei giudici di Strasburgo avente ad oggetto la legittimità di un respingimento in alto mare. I fatti, in breve, sono i seguenti. In attuazione della strategia di controllo dell’immigrazione irregolare via mare, imperniata principalmente sulla collaborazione bilaterale con i paesi di origine dei migranti, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato italo-libico di “amicizia, partenariato e cooperazione”76, il 6 maggio 2009 tre imbarcazioni provenienti dalla Libia con a bordo circa duecento migranti venivano intercettate dalla Guardia di finanza e dalla Guardia costiera, nelle acque internazionali a sud di Lampedusa. Gli occupanti furono trasferiti sulle navi militari italiane e riportati a Tripoli, senza essere sottoposti a nessuna procedura d’identificazione, senza avere informazioni in merito alla loro destinazione reale e dopo aver subito la confisca di tutti i loro effetti personali, compresi i documenti attestanti la loro identità. All’arrivo nel porto di Tripoli, i migranti furono consegnati alle autorità libiche senza potersi opporre a tale decisione. Fu a quel punto che undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei decisero di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per denunciare la violazione degli articoli 3 e 13 della CEDU, e dell’articolo 4 del Protocollo addizionale n. 4 alla Convenzione77, dal momento che furono respinti senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza che fosse permesso loro di presentare richiesta di asilo e tantomeno di poter fare ricorso presso un giudice. E vennero respinti in Libia, dov’è documentata la pratica di torture e trattamenti inumani e degradanti nei campi di detenzione78. La Corte ha ritenuto sussistenti tutte le violazioni, affermando principi che contribuiscono ad rafforzare le tendenze evolutive della giurisprudenza di Strasburgo su alcuni profili di massima 76 Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 e ratificato con legge n. 7/09 del 6 febbraio 2009, GU n. 40 del 18 febbraio 2009. Il testo integrale è disponibile all’indirizzo www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/16/0769_trattato_lib ia_2.pdf. 77 CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 4 to the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, securing certian rights and freedoms other than those already included in the Convention and in the first Protocol thereto, Strasburgo, 16 settembre 1963, entrato in vigore il 2 maggio 1968, ETS, vol. 46. 78 A favore dei ricorrenti sono intervenuti come terzi l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Human Rights Watch, la Columbia Law School Human Rights Clinic, l’AIRE Centre, Amnesty International e la Federazione Internazionale dei diritti umani (FIDH). 65 importanza, quali i limiti al potere degli Stati di respingere ed espellere gli stranieri che tentano irregolarmente di raggiungere i loro territori79. Preliminarmente i giudici di Strasburgo hanno dovuto affrontare la questione relativa alla giurisdizione dello Stato italiano, ai fini dell’applicabilità o meno delle norme della Convenzione in favore dei ricorrenti, dal momento che i fatti sono occorsi in acque internazionali. La Corte ha osservato come, nel periodo compreso tra l’imbarco sulle navi italiane e la consegna alle autorità libiche, i ricorrenti si sono trovati sotto il controllo esclusivo di un equipaggio italiano (controllo de facto) e a bordo di imbarcazioni battenti bandiera italiana (controllo de jure). Di conseguenza, i fatti che hanno dato luogo alle violazioni rientrano nell’ambito della giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, senza che in alcun modo rilevino la natura e lo scopo dell’intervento80. Per quanto concerne la violazione dell’art. 3 della CEDU, la Corte ha sottolineato come il respingimento italiano abbia esposto i ricorrenti ad un duplice rischio: da un lato quello di subire trattamenti inumani e degradanti direttamente per opera delle autorità libiche; dall’altro quello di essere rimpatriati sempre dalle autorità medesime, in Eritrea e in Somalia. Dopo aver ribadito il consolidato principio secondo cui dall’art. 3 discende il divieto di eseguire estradizioni, espulsioni o altre misure di allontanamento quando vi siano fondati motivi di ritenere che, nel paese di destinazione, lo straniero rischierebbe di subire torture o 79 Si ritiene opportuno ricordare che il Commissario dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, nel suo Rapporto a seguito della visita in Italia dal 3 al 6 luglio 2012, ha accolto molto positivamente le dichiarazioni fatte dai vertici politici italiani secondo le quali la politica dei respingimenti non sarà più seguita, alla luce della sentenza qui analizzata. Tuttavia, citando la Risoluzione 1821 del 2011 dell’Assemblea Parlamentare, “The interception and rescue at sea of asylum seekers, refugees and irregular migrants” (le cui affermazioni sono state ribadite nella successiva Risoluzione 1872 del 2012 intitolata “Lives lost in the Mediterranean Sea: Who is responsible?”), invita l’Italia “a sospendere gli accordi bilaterali che possono essere conclusi con Stati terzi laddove non siano garantiti adeguatamente i diritti umani delle persone intercettate e, in particolare, il diritto di esperire la procedura di asilo, e laddove gli accordi stessi possano essere assimilati ad una violazione del principio di non-respingimento, e a concludere nuovi accordi bilaterali contenenti espressamente tali garanzie in materia di diritti umani e misure finalizzate al loro controllo regolare ed effettivo”. V. COMMISSIONER FOR HUMAN RIGHTS, Rapporto di Nils Muižnieks, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, a seguito della visita in Italia dal 3 al 6 luglio 2012, CommDH(2012)26, p. 4. 80 NASCIMBENE B., afferma che la Corte è ricorsa a “un’interpretazione teleologica e funzionale della CEDU, conforme alla propria giurisprudenza (ma anche alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati), che si fonda sul significato ampio di giurisdizione esercitata dallo Stato ai sensi dell’art. 1 della CEDU. Lo Stato esercita, disponendo il refoulement degli stranieri, un potere pubblico e sovrano e quindi esercita la propria giurisdizione sulle persone, impedendo loro di sbarcare sulle coste nazionali, con conseguente assunzione di responsabilità per le misure adottate”, in NASCIMBENE B., Condanna senza appello della “politica dei respingimenti”? La 66 altri trattamenti disumani e degradanti, si legge nella motivazione, come il contesto libico e, in particolare, la sistematica detenzione degli stranieri, ivi compresi i richiedenti asilo, in condizione igienico-sanitarie inumane e la loro esposizione al rischio di subire torture e atti di razzismo e xenofobia, fosse ben noto nella Comunità internazionale81. L’Italia, sapeva o avrebbe dovuto sapere, i rischi corsi dai migranti respinti. Come accennato, un’ulteriore ed autonoma violazione dell’art. 3 deriva dal fatto che in Libia, i ricorrenti, sono stati esposti al pericolo di essere rimpatriati nei rispettivi paesi di origine. Ciò in quanto l’obbligo di garantire che i destinatari di misure di allontanamento non subiscano torture o altri maltrattamenti, comprende anche i c.d. rimpatri indiretti, ovvero le ipotesi in cui lo Stato ricevente, a sua volta, disponga l’espulsione dello straniero verso un paese terzo, di solito quello di origine dell’individuo coinvolto. Nel caso in esame, il pericolo per i ricorrenti di essere esposti, rispettivamente in Eritrea e in Somalia, a trattamenti vietati dall’art. 3, è stato ritenuto sussistente dalla Grande Camera sulla base dei reports di autorevoli organizzazioni non governative a difesa dei diritti umani e della precedente giurisprudenza della Corte, in particolare il caso Sufi e Elmi82. Inoltre, la Libia, non disponendo di nessuna procedura per l’asilo politico e non riconoscendo lo status di rifugiato assegnato dal locale ufficio dell’UNHCR, non offriva nessuna ragionevole garanzia per la prevenzione delle espulsioni arbitrarie83. La Corte ha inoltre riscontrato la violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, ai sensi del quale sono vietate le espulsioni collettive. Dal punto di vista letterale, la norma si riferisce soltanto alle espulsioni che, secondo la tesi avanzata dal governo italiano, presupporrebbero l’avvenuto ingresso dello straniero nel territorio nazionale. L’argomento tuttavia non ha convinto i giudici di Strasburgo, che hanno privilegiato una lettura sistematica e teleologica del disposto sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Hirsi e altri c. Italia, documenti IAI 12 I 02, marzo 2012, p. 3, reperibile all’indirizzo http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iai1202.pdf. 81 Il contesto era, in ogni caso, facilmente verificabile alla luce di numerosi autorevoli reports, a cura del Comitato contro la Tortura, di Human Rights Watch e di Amnesty International, e sulla base delle dichiarazioni dell’UNHCR. 82 Sent. cit. 83 V. ZIRULIA S., I respingimenti nel Mediterraneo tra diritto del mare e diritti fondamentali, in Rivista telematica giuridica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 2/2012, p. 3, disponibile all’indirizzo www.associazionedeicostituzionalisti.it/sites/default/files/rivista/articoli/allegat i/Zirulia.pdf. 67 dell’articolo in esame, capace di rendere il diritto fondamentale in esso sancito concreto ed effettivo, e non solo teorico. Per la prima volta è stato quindi affermato che il divieto di espulsioni collettive trova applicazione anche nel caso in cui la misura di allontanamento sia disposta fuori dal territorio nazionale, quindi anche in alto mare. L’espulsione si considera collettiva, e di conseguenza illegittima, quando viene adottata senza considerare in concreto la situazione di ciascuno degli stranieri interessati84. Al contrario, l’espulsione non è da considerarsi collettiva per il solo fatto che più soggetti siano destinatari di provvedimenti di rimpatrio aventi il medesimo contenuto, se a ciascuno dei soggetti interessati sia stata data la possibilità di contestare il proprio allontanamento davanti alle competenti autorità. Nel caso in esame, durante le operazioni di respingimento verso la Libia, non vi è stata né una valutazione delle circostanze individuali dei ricorrenti, né, tantomeno, questi ultimi sono stati ascoltati dalle autorità italiane85: osservazioni sufficienti per affermare la responsabilità dell’Italia anche per la violazione della norma in esame. In ragione delle condizioni appena descritte, la Corte ha infine affermato anche la violazione dell’art. 13, in quanto i ricorrenti non hanno avuto accesso ad alcun rimedio effettivo con cui lamentare l’incompatibilità del trasferimento in Libia con gli artt. 3 e 4 Prot. 4 alla CEDU86. In conclusione si può affermare che la sentenza in esame è una pietra miliare perché rafforza e favorisce il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali in Europa e pone fine a misure extraterritoriali di controllo delle migrazioni che non rispettano il principio di non-refoulement, contribuendo all’effettività di 84 Nell’affermare ciò, la Corte si è basata essenzialmente su quanto da essa affermato nel caso Conka c. Belgio (sent. 5 febbraio 2002, ric. 51564/99), unica pronuncia, prima di quella in esame, ad aver affermato una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4. 85 A queste conclusioni la Corte perviene osservando che i migranti intercettati non sono nemmeno stati identificati e che il personale di bordo non era addestrato a condurre interviste, né assistito da interpreti o esperti legali. Si vedano i paragrafi 159-186 della sentenza. 86 Nella pronuncia si afferma che un rimedio, per essere considerato effettivo, deve prevedere un effetto sospensivo dell’esecuzione delle misure che minacciano di violare i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU. Tale affermazione consente di superare l’eccezione di mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni, sollevata dal Governo italiano, secondo cui i ricorrenti avrebbero potuto adire ex post le competenti autorità italiane. Essendo questa possibilità disponibile appunto solo ex post e quindi priva di effetto sospensivo, essa non può essere posta alla base di un’eccezione di irricevibilità ex art. 35 CEDU. 68 quest’ultimo, nella sua più estesa affermazione scaturente dalla giurisprudenza di Strasburgo. 5. Il diritto alla libertà e alla sicurezza personale: la legittimità della detenzione dei richiedenti asilo L’articolo 5 della CEDU dispone “1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: (a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; (b) se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; (c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averli commesso; (d) se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente; (e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; (f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione. 2. Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico. 3. Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1(c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o un altro magistrato autorizzato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata a garanzie che assicurino la comparizione dell’interessato all’udienza. 4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, 69 affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima. 5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione”. La prima parte dell’art. 5 riconosce a ciascuno il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona. Si tratta di un diritto di primaria rilevanza in una società democratica e a che deve essere ricompreso tra i diritti fondamentali che tutelano la sicurezza fisica dell’individuo. Ciò nonostante, l’art. 5 non è incluso tra quelli sottratti alla deroga nel caso di stato di urgenza, contemplati dal secondo comma dell’art. 15. Come affermato dalla Corte nella sentenza relativa al caso Amuur c. Francia87, “in proclaiming the right to liberty, paragraph 1 of Article 5 contemplates the physical liberty of the person”, ossia la libertà nella sua più classica accezione88. Per quanto concerne, invece, il riferimento alla sicurezza della persona, dall’analisi della giurisprudenza dei giudici di Strasburgo, emerge una concezione accessoria e procedurale della sicurezza, quale bene strumentale alla tutela del diritto primario costituito dalla libertà personale. L’espressione “liberty and security of person” deve essere riferita ad un singolo diritto, in cui la clausola della sicurezza richiama le autorità nazionali all’obbligo di rispettare le garanzie fondamentali dello Stato di diritto e le altre forme elementari di protezione dell’individuo quando è in corso una restrizione della sua libertà89. Il paragrafo procede poi enumerando le ipotesi in cui il diritto tutelato può essere legittimamente limitato dagli Stati parte. Si tratta di un’elencazione esaustiva e solo un’interpretazione restrittiva di queste eccezioni può ritenersi coerente con lo scopo della previsione, che è quello di assicurare che nessuno venga arbitrariamente privato della sua libertà90. Nei successivi paragrafi vengono in rilievo talune garanzie, connesse alla tutela processuale della libertà personale. Si tratta di garanzie tutte autonome e 87 Corte EDU, sentenza 25 giugno 1996, Amuur c. Francia, ric. 19776/92. Come osservato da MURDOCH J., in L’article 5 de la Convention européenne des droits de l’homme, Editions du Conseil de l’Europe, 2003, p. 16: “l’article 5 met l’accent sur la protection de la liberté dans son acception ‘classique’, c’est-à-dire la perte de la liberté individuelle. Il vaut, par conséquent, mieux appréhender le droit ‘à la liberté et à la sûreté’ de la personne comme une notion monolithique”. 89 V. BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., op. cit., p. 109. 90 Si veda quanto affermato dalla Corte nel caso Quinn c. Francia, sent. 22 marzo 1995, ric. 18580/91, par. 42. 88 70 indipendenti, in quanto può riconoscersi la violazione di una di queste previsioni anche se la detenzione risulta regolare ai sensi del primo paragrafo dell’art. 5. Fino ad ora, l’articolo 5 non è stato interpretato dalla Corte come implicante un divieto al trasferimento o all’estradizione o all’espulsione di persone a rischio, nello Stato di ricezione, di subire una violazione dei diritti in esso previsti. Nel caso Tomic c. Regno Unito, la Corte affermò che per l’applicazione extraterritoriale dell’art. 5 “the risk must be of arbitrary detention that reaches the flagrant level necessary for the expulsion to raise issues under that article – mere tecnical imperfections will not suffice”91. Tuttavia, la detenzione dei richiedenti asilo è stata considerata come rientrante nella previsione della lettera (f) del primo paragrafo. Il punto, pur prevedendo la legittimità della detenzione di individui volta a impedire il loro ingresso nel territorio dello Stato parte e la legittimità della detenzione di individui che stiano per essere trasferiti o estradati, impone agli Stati parte l’obbligo di garantire ai medesimi i diritti previsti nei paragrafi successivi della norma. Nonostante soltanto pochi casi riguardanti richiedenti asilo siano stati portati davanti alla Corte di Strasburgo sulla base dall’articolo in esame, sono stati affermati alcuni principi fondamentali. Con riguardo in particolare al trattenimento diretto ad impedire l’ingresso irregolare nel territorio dello Stato, la Corte si è pronunciata con un’importante sentenza nel caso Saadi c. Regno Unito, avente ad oggetto un cittadino curdo richiedente asilo, trattenuto per sette giorni in un centro di accoglienza, al fine di facilitare l’esame della sua richiesta di protezione internazionale. Il primo punto fissato dalla Corte, e criticato dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, dall’European Council on Refugees and Exiles e dall’AIRE Centre, è costituito dall’affermazione che fino a quando lo Stato non ha autorizzato l’entrata, qualsiasi ingresso, anche quello di un richiedente asilo, è illegale. L’ammissione temporanea che segue alla domanda di asilo non rende regolare l’ingresso del richiedente asilo, la cui posizione è quindi equiparata a quella del migrante ordinario e la sua detenzione può essere giustificata ex art. 5(1)(f)92. Il secondo principio di diritto desumibile dalla sentenza è che la disposizione in 91 Corte EDU, sent. 14 ottobre 2003, Tomic c. Regno Unito, ric. 17837/03. Queste affermazioni sono state ribadite dalla Corte anche nel recente caso Seforovic c. Italia (sent. 8 febbraio 2011, ric. 12921/04). 92 71 esame non prevede un requisito di necessarietà della detenzione, in forza del quale questa sarebbe giustificata solo nei confronti dei soggetti che abbiano tentato di eludere le norme relative all’ingresso. La detenzione deve però essere lawful, ossia non arbitraria e in linea con il diritto nazionale. Secondo lo specifico test messo a punto dalla Corte, la detenzione non è arbitraria se: viene eseguita in buona fede; è strettamente connessa con il fine di evitare un ingresso non autorizzato nel territorio nazionale; il luogo e le condizioni della detenzione risultano appropriati, tenuto conto che la misura di restrizione è applicata non a persone che hanno commesso un illecito, ma a stranieri, nel caso di specie un richiedente asilo; la durata della stessa non eccede quella ragionevolmente richiesta dalla circostanza considerata. Nel caso Saadi la Corte ha ritenuto rispettate tutte le condizioni e quindi escluso la violazione dell’art. 5, tenuti in considerazione anche i problemi amministrativi legati alla crescita del numero delle domande di asilo93. Nel caso Amuur c. Francia, la Corte considerò per la prima volta se il trattenimento di stranieri, nel caso di specie richiedenti asilo, nella zona di transito degli aeroporti possa essere considerato una privazione della libertà94. La Corte sostenne che il mero fatto che fosse possibile per i ricorrenti lasciare volontariamente il paese in cui stavano cercando rifugio non può escludere una restrizione della libertà. A maggior ragione se, nessun altro paese che offra una protezione equivalente a quella che gli individui si aspettano di riceve nel paese in cui cercano asilo, sia disposto o preparato ad accoglierli. Fu così deciso che “holding the applicants in the transit zone […] was equivalent in practice, in view of the restriction suffered, to a deprivation of liberty”. Successivamente, gli organi di Strasburgo, nel considerare se la privazione della libertà fosse avvenuta nel rispetto delle garanzie enumerate dall’art. 5, includenti il requisito della conformità alla legge nazionale, sostennero come quest’ultimo si riferisse anche 93 Hanno espresso un’opinione parzialmente dissenziente i giudici Rozakis, Tulkens, Kovler, Hajiyev, Spielmann e Hirvelä. Essi hanno sottolineato come la detenzione prevista dalla prima parte della lett. (f) dovrebbe essere finalizzata esclusivamente a prevenire che il richiedente asilo entri o rimanga nel paese per uno scopo diverso da quello alla base dell’ammissione temporanea, e non potrebbe mai essere giustificata sulla base di esigenze amministrative dello Stato. 94 Corte EDU, sent. 25 giugno 1996, Amuur c. Francia, ric. 19776/92. Il caso riguardava quattro cittadini somali arrivati all’aeroporto di Paris-Orly dalla Siria, dove avevano risieduto per due mesi dopo aver abbandonato il loro paese d’origine. Asserivano di aver abbandonato la Somalia a causa del timore ben fondato di perdere le loro vita, dopo il rovesciamento del regime politico. Le autorità francesi rifiutarono di ammetterli nel territorio francese, in quanto i loro passaporti erano stati falsificati, e le loro istanze per il riconoscimento dello status di rifugiati furono respinte. 72 alla qualità della legislazione nazionale. Nelle parole della Corte, “quality in this sense implies that where a national law authorised deprivation of liberty – especially in respect of a foreign asylum-seeker – it must be sufficiently accessibile and precise, in order to avoid all risk of arbitrariness”95. La Corte, dopo aver ritenuto che la legislazione francese vigente all’epoca non avesse una qualità sufficiente e considerato tutte le circostanze del caso, stabilì che i ricorrenti avevano subito una violazione del loro diritto alla libertà, così come tutelato dall’art. 5 della CEDU96. Per quanto concerne, invece, la detenzione nel corso del procedimento di espulsione o estradizione, dalla giurisprudenza della Corte si evince come, ai fini della sua legittimità, è irrilevante l’esito del procedimento, ossia se questo condurrà effettivamente a una decisione di espulsione o estradizione e se questa verrà poi eseguita. Ma bensì, come si legge nel caso Caprino c. Regno Unito97, “[…]deprivation of liberty under this sub-paragraph will be justified only for as long as extradition proceedings are been conducted. It follows that if such proceedings are not being prosecuted with due diligence, the detention will cease to be justified under Article 5(1)(f)”. Nelle successive sentenze sui casi Chahal c. Regno Unito98 e Čonka c. Belgio99, la Corte ha avuto modo di ribadire che l’unico requisito da soddisfare, affinché una detenzione in vista di un trasferimento possa considerarsi legittima, è quello dell’essere, la procedura di trasferimento, effettivamente in corso. Appare quindi decisiva la valutazione circa la durata della detenzione: se questa si giustifica solo per il periodo durante il quale pende il procedimento di allontanamento, siffatto procedimento dovrà essere condotto con “due dilingence”. Se questa non sussiste la detenzione cesserà di essere legittima ai sensi dell’art. 5(1)(f). Tra i criteri per valutarne il rispetto vengono in rilievo la condotta delle autorità, tenuto conto delle circostanze del caso e della complessità del procedimento, e la condotta dell’interessato, il quale può determinare un ritardo nella decisione. 95 Recentemente tale condizione è stata ribadita nella sentenza del 27 novembre 2008, relativa al caso Rashed c. Repubblica Ceca (ric. 298/07, par. 73). 96 Per una completa analisi del caso di veda SEATZU, F., On some general theoretical and practical questions arising from the application of the European convention on human rights in asylum cases in A.E.D.I., vol. XXV, 2009, p. 478. 97 Corte EDU, sent. 3 marzo 1978, Caprino c. Regno Unito, ric. 6871/75, par. 48. 98 Chahal c. Regno unito, sent. cit. 73 In conclusione è opportuno osservare che, considerata la crescita esponenziale dei casi di detenzione dei richiedenti asilo (oltre che dei migranti irregolari), dovuta non soltanto all’incremento del numero di migranti, ma anche all’utilizzo della detenzione come politica di contrasto agli arrivi, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato due importanti atti, una raccomandazione e una risoluzione aventi ad oggetto la detenzione dei richiedenti asilo e dei migranti irregolari in Europa100. Dopo aver sottolineato la preoccupazione per l’applicazione meccanica della detenzione come deterrente, l’Assemblea Parlamentare ha riaffermato con vigore il principio per cui la detenzione è l’ultima possibilità, a cui è possibile ricorrere solo nel caso in cui misure meno invasive siano state provate e risultate insufficienti. Agli Stati membri del Consiglio d’Europa è stato quindi raccomandato il rispetto di dieci principi guida, tra cui si ricordano: il canone secondo cui la detenzione è una misura eccezionale che può essere adottata solo dopo aver verificato che tutte le altre alternative sono inefficaci (n. 1); quello che prescrive la distinzione tra richiedenti asilo e migranti irregolari e impone un dovere di protezione dei richiedenti asilo da sanzioni connesse alla loro presenza o al loro ingresso irregolare (n. 2); quello secondo cui la detenzione deve essere disposta sulla base di una procedure prevista dalla legge, autorizzata da un’autorità giudiziaria e sottoposta periodicamente a controlli da parte di quest’ultima (n. 3). 6. Il necessario equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata e familiare del richiedente asilo e gli interessi primari dello Stato Ai sensi della CEDU, il diritto al rispetto della vita privata e familiare è garantito dall’articolo 8. La norma dispone “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e 99 Corte EDU, sent. 5 febbraio 2002, Čonka c. Belgio, ric. 51564/99 ASSEMBLEA PARLAMENTARE, Raccomandazione 1900 (2010) e Risoluzione 1707 (2010), emanate il 28 gennaio 2010, disponibili rispettivamente agli indirizzi 100 74 costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Per quanto concerne i rifugiati, la norma in esame può venire in rilievo sotto due aspetti. Innanzitutto, relativamente ad individui che abbiano vissuto per lungo tempo nel territorio di uno Stato parte o che vi risiedono insieme a membri della propria famiglia, il diritto sancito dall’art. 8 è stato interpretato dalla Corte come limite all’espulsione dal territorio nazionale. Inoltre, una violazione della norma è stata ravvisata anche nei casi d’impedimento all’ingresso nel territorio di uno Stato membro di un soggetto, nel caso in cui i membri del suo nucleo famigliare risiedono in quest’ultimo, e non possono abbandonare quel territorio a causa del rischio reale di subire violazioni dei loro diritti fondamentali che correrebbero se trasferiti altrove. Occorre previamente analizzare il significato dei concetti di vita privata e famigliare così come sviluppati dalla Corte. La nozione di vita privata è ampia e non è possibile individuarne una definizione completa, si legge infatti nella sentenza relativa al caso Niemietz c. Germania, “the Court does not consider it possible or necessary to attempt an exhaustive definition of the notion ‘private life’. However, it would be too restrictive to limite the notion to an ‘inner circle’ in which the individual may live his own personal life as he chooses and to exclude therefrom entirely the ouside world not encopassed within that circle. Respect for private life must also comprise to a certain degree the right to establish and develop relationships with other human beings”101. Essa include quindi sia il diritto a godere di una esclusiva intimità personale, sia il diritto a sviluppare la propria personalità tramite le relazioni con gli altri esseri umani. Vi rientrano così molteplici aspetti legati tanto all’identità personale quanto a quella sociale102. Per quanto concerne, invece, la nozione di vita familiare, la Corte ha progressivamente dato rilievo alle relazioni de facto esistenti tra gli individui, www.assembly.coe.int/Main.asp?link=/Documents/AdoptedText/ta10/EREC1900.htm e www.assembly.coe.int/Main.asp?li nk=/Documents/AdoptedText/ta10/EREC1900.htm. 101 Corte EDU, sentenza 16 dicembre 1992, Niemietz c. Germania, ric. 13710/88, par. 29. 102 Per una completa analisi dell’art. 8 della CEDU si veda BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., op. cit., p. 297-369. 75 attribuendo sempre meno rilevanza al riconoscimento giuridico di tali relazioni. In K. e T. c. Finlandia, la Corte ha infatti affermato che “[…]the existence or nonexistence of ‘family life’ is essentialy a question of fact depending upon the real existence in practice of close personal ties”103. La nozione in esame comprende, ad esempio, anche in assenza di coabitazione, i rapporti tra una persona e il proprio figlio, sia questi riconosciuto legittimo o illegittimo, e ancora, come dichiarato nel caso Marckx c. Belgio, essa include “at least the ties between near relatives, for instance those between grandparents and grandchildren, since such relatives may play a considerable part in family life”104. In conclusione il concetto racchiude, dal punto di vista soggettivo, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate, sia le relazioni fondate sul dato biologico, sia quelle che costituisco un unione in senso sociale, a condizione che queste siano effettive105. Dal linguaggio di questo articolo si desume che il diritto in esso sancito appartiene alla categoria dei c.d. “diritti qualificati”. Il secondo comma, infatti, enuncia tassativamente i casi in cui un’ingerenza da parte degli Stati membri nell’esercizio di quest’ultimo, può essere considerata legittima. In primis, tale possibilità d’ingerenza deve essere prevista dal diritto nazionale degli Stati; inoltre deve essere strumentale alla tutela di altri interessi fondamentali della comunità nazionale e considerata come una misura necessaria in una società democratica. La conseguenza è che la giurisprudenza relativa all’art. 8 si caratterizza per la necessità di mantenere un giusto equilibrio tra due interessi: da un lato, l’interesse della persona espulsa a non essere separata dalla propria famiglia o quello di poter far ingresso nel territorio in cui risiedono membri del proprio nucleo famigliare; dall’altro, l’interesse dello Stato ad allontanare o a non fare entrare nel proprio territorio una persona che metta in pericolo interessi primari della comunità. La Corte valuterà il contemperamento di questi due opposti interessi mediante un giudizio sulla proporzionalità della decisione adottata dagli Stati membri. In relazione alla violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare in caso di espulsione o allontamento di un individuo, la Corte ha avuto modo di 103 Corte EDU, sentenza 12 luglio 2001, K.e T. c. Finlandia, ric. 25702/94, par.150. Corte EDU, sent. 27 aprile 1979, Marckx c. Belgio, ric. 6833/74, par. 45. 105 Come sottolineato da MALINVERNI G., le nozioni di famiglia e di vita familiare “hanno un contenuto autonomo e sono quindi interpretate indipendentemente dalle definizioni che ne danno gli ordinamenti interni degli Stati”, in MALINVERNI G., op. cit., p. 177. 104 76 esprimersi nel caso Mustaquim c. Belgio106. Il ricorrente era un cittadino marocchino che aveva vissuto in Belgio con la sua famiglia, fin dalla tenera età. Il ricorrente fu obbligato a lasciare il paese, dopo aver scontato una condanna a due anni di detenzione per vari reati che aveva commesso quando era minorenne. Nonostante l’ordine di trasferimento venne successivamente sospeso, il ricorrente aveva presentato ricorso alla Corte lamentando una violazione dell’articolo 8. I giudici di Strasburgo dapprima osservarono che l’ordine costituiva un’ingerenza nella vita familiare del ricorrente, così come intesa dal primo paragrafo della norma, quindi valutarono se tale ingerenza potesse ritenersi legittima alla luce del disposto del secondo paragrafo dell’art. 8. Nessun dubbio venne sollevato con riguardo alla conformità dell’ordine con l’ordinamento giuridico belga e al perseguimento, mediante il medesimo, di una legittima finalità, specificatamente la prevenzione dei reati e la difesa dell’ordine pubblico. La questione di più difficile risoluzione era se l’ordine potesse essere considerato necessario in una società democratica, tenuto conto del margine di apprezzamento lasciato agli Stati nel determinare la proporzionalità della misura di allontanamento. Nella sentenza si legge: “The Court does not in any way underestimate the Contracting States’ concern to maintain public order, in particolar in exercising their right to control the entry, residence and expulsion of aliens. However, in cases where the relevant decisions would constitute an interference with the rights protected by paragraph 1 of Article 8, they must show to be ‘necessary in a democratic society’, that is to say justified by a pressing social need and, in particular, proportionate to the legitimate aim pursued”107. Soltanto nella sentenza sul caso Amrollahi c. Danimarca108, concernente l’espulsione di un rifugiato iraniano, i giudici di Strasburgo hanno fornito una lista dei criteri da tenere in considerazione per determinare quando un’espulsione è necessaria in una società democratica e quindi proporzionata. Riprendendo le 106 Corte EDU, sent. 18 febbraio 1991, Mustaquim c. Belgio, ric. 12313/86. Mustaquim c. Belgio, sent. cit., par. 43. La Corte ha ribadito questo principio in numerose sentenze successive tra cui, si vedano: sent. 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera, ric. 54273/00; sent. 31 ottobre 202, Yildiz c. Austria, ric. 37295/97; sent. 10 luglio 2003, Benhebba c. Francia, ric. 53441/99. 108 Corte EDU, sent. 11 luglio 2002, Amrollahi c. Danimarca, ric. 56811/00. Il ricorrente era un rifugiato iraniano, titolare prima di un permesso di residenza temporaneo e, successivamente, definitivo, che dopo aver disertato la chiamata alle armi durante il conflitto tra Iran e Iraq, scappò in Danimarca alla ricerca di asilo. Qui conobbe una donna danese che in seguito sposò e da cui ebbe due figli. Più tardi il soggetto venne condannato a 3 anni di reclusione per traffico di stupefacenti, a cui seguì l’emanazione di un ordine permanente di espulsione dal territorio danese. 107 77 parole della Corte questi sono: “the nature and the seriousness of the offence committed by the applicant; the lenght of the applicant’s stay in the country from which he is going to be expelled; the time elapsed since the offence was committed and the apllicant’s conduct during that period; the nationalities of the various persons concerned; the applicant’s family situation, such as the lenght of the marriage; and other factors expressing the effectiveness of a couple’s family life; whether the spouse knew about the offence at the time when he or she entered into a familty relationship; whether there are children in the marriage, and if so, their age;[…]the seriousness of the difficulties which the spouse is likely to encounter in the country of origin, thought the mere fact that a person might face certain difficulties in accompanying her or his spouse cannot itself exclude an expulsion”109. La decisione del caso in esame mostra come l’applicazione dell’art. 8 alle espulsioni concernenti in particolare richiedenti asilo, sia argomentata facendo riferimento alle conseguenze della misura di allontanamento sulla vita privata o familiare dell’individuo nel territorio dello Stato membro, se il soggetto coinvolto vi abbia trascorso tempo sufficiente per sviluppare una vita privata o familiare. La Corte considerò, da un lato, che il traffico di stupefacenti era un crimine grave e che il ricorrente aveva mantenuto dei forti rapporti con il suo paese d’origine; dall’altro, che la sua relazione con la moglie era effettiva e che era impossibile, sia il trasferimento di quest’ultima in Iran, sia il loro stabilimento in un altro paese. I giudici conclusero quindi che “[…]the expulsion of the applicant to Iran would be disproportionate to the aims pursued. The implementation of the expulsion would accordingly be in breach of Article 8 of the Convention”110. Il bilanciamento tra interessi contrapposti appena illustrato, deve essere ricercato dagli Stati parte non solo quando è in gioco l’obbligo negativo, imposto dall’art. 8, di non allontanare individui dai loro territori, ma anche quando il caso riguardi l’obbligo positivo, imposto dalla stessa norma, di ammettere individui all’interno dei confini nazionali, quando questo sia essenziale al mantenimento della vita familiare di altri soggetti già ivi residenti111. 109 Amrollahi c. Danimarca, sent. cit., par. 35. Ibidem, par. 44. 111 Nel caso Gül c. Svizzera, la Corte ha riconosciuto che “[…] the boundaries between the State’s positive and negative obligations under this provision do not lend themselves to precise definition. The applicable principles are, nonetheless, similar. In both contexts regard must be had to the fair 110 78 Innanzitutto occorre notare come, nei casi di riunificazione coinvolgenti rifugiati o altre persone richiedenti protezione internazionale, la Corte ha interpretato restrittivamente il testo dell’art. 8, richiedendo severe condizioni ai fini della sua applicazione. Essenzialmente gli organi di Strasburgo cercano di determinare se vi sono elementi che possano ostacolare la conduzione della vita familiare all’estero, insieme ai membri del nucleo familiare che stanno tentando di fare ingresso nel territorio di uno degli Stati contraenti. Questo “returnability test” viene applicato costantemente112. Se esso stabilisce che la famiglia può vivere unita nel territorio d’origine, la Corte non sancirà una violazione dell’art. 8. Ulteriormente, nel caso Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, la Corte sostenne che “the duty imposed by Article 8 cannot be considered as extending to a general obligation on the part of a Contracting State to respect the choice by married couples of the country of their matrimonial residence and to accept the non-national spouses for settlement in that country”113. Questa giurisprudenza restrittiva è stata allentata nel caso Sen c. Paesi Bassi114, in cui la Corte decise che il rifiuto di permettere ad una minore turca di raggiungere i propri genitori risiedenti legalmente nel Paesi Bassi costituiva una violazione dell’art. 8 della Convenzione. In questo caso, i giudici riscontrarono maggiori ostacoli nel ritorno della famiglia in Turchia: i genitori vivevano da lungo tempo nel paese e avevano due ulteriori figli nati in territorio olandese e cresciuti in quell’ambiente culturale. Rigettando gli argomenti del governo olandese che sosteneva la possibilità per la famiglia di ritornare in Turchia, oltre che la sua estraneità circa eventuali obblighi positivi, dal momento che la minore non dipendeva dai suoi genitori per le cure e l’educazione, la Corte sostenne che permettere alla terza figlia di giungere nei Paesi Bassi fosse l’unico modo per sviluppare una vita familiare, considerata la sua giovane età e la necessità di balance that as to be struck between the competing interests of the individual and the community as a whole; and in both contexts the State enjoys a certain margin of appreciation”, Corte EDU, sent. 19 febbraio 1996, ric. 23218/94, par. 38. 112 V. UNHCR, UNHCR manual on refugee protection and the European Convention on Human Rights. Facts sheet on Article 8, Regional Bureau for Europe Department of International Protection, 2006, p.4; SEATZU F., op. cit., p. 484; CONSIGLIO D’EUROPA, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, Lussemburgo, 2013, p. 133. 113 Corte EDU, sent. 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, ric. 9214/8 0; 9473/81; 9474/81, par. 68. Per ulteriori esempi di questa interpretazione si vedano, tra gli altri: Corte EDU, sent. 26 marzo 1992, Beldjoudi c. Francia, ric. 12083/86 e sent. 13 luglio 1995, Nasri c. Francia, ric. 19465/92. 114 Corte EDU, sent. 21 dicembre 2001, Sen c. Paesi Bassi, ric. 31465/96. 79 integrarsi nell’unità della sua famiglia naturale. I Paesi Bassi avevano, in conclusione, fallito nel bilanciare l’interesse dei ricorrenti con la loro politica di controllo dell’immigrazione. Queste pronunce mostrano come la Corte per affermare una violazione dell’art. 8 deve svolgere un’attenta analisi della situazione del ricorrente. Per determinare se una famiglia può o meno ritornare nel proprio paese di origine per riunirsi con gli altri membri che desiderano raggiungerla, devono considerarsi, tra le altre circostanze, la lunghezza della permanenza nello Stato ospitante, l’età e lo sviluppo culturale dei figli, l’età dei figli rimasti nel paese di provenienza e il tipo di permesso di residenza di cui la famiglia è beneficiaria. 80 CAPITOLO III LA NORMATIVA DELL’UNIONE EUROPEA IN MATERIA D’ASILO 1. L’evoluzione della politica comunitaria in materia d’asilo Le politiche europee sull’asilo e la conseguente disciplina normativa sono maturate in tempi relativamente recenti, contraddistinte da uno sviluppo lento e scandito da varie tappe evolutive. Nei Trattati istitutivi delle Comunità Europee1, data la loro vocazione esclusivamente economica e finalizzata alla creazione del mercato comune, la disciplina del trattamento dei cittadini di paesi terzi fu riservata alla competenza esclusiva degli Stati membri2. La politica migratoria, cui la tematica dell’asilo è strettamente legata, veniva, e viene tuttora, considerata dagli Stati come “una leva fondamentale dell’azione statale e, quindi, un settore in cui l’esercizio della sovranità dello Stato tende ad esplicarsi in modo il più possibile autonomo, in ragione di considerazioni, spesso contingenti, di politica interna ed internazionale”3. Negli anni ’50, inoltre, il fenomeno migratorio aveva carattere tipicamente economico, l’immigrazione c.d “umanitaria” e quella non comunitaria erano realtà marginali. Soltanto a partire dalla fine degli anni ’70, quando il fenomeno cominciò ad assumere la portata, ma soprattutto, le peculiari dinamiche attuali, venne percepito come necessario lo sviluppo di politiche comuni in materia di visti, asilo e immigrazione, in quanto funzionale alla realizzazione di uno spazio europeo senza frontiere interne, in cui fosse assicurata la libera 1 Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrato in vigore il 23 luglio 1952 (giunto a scadenza il 23 luglio 2002); Trattati di Roma, istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea per l’energia atomica (EURATOM), firmati a Roma il 25 marzo 1957 ed entrati in vigore il 1° gennaio 1958. I testi integrali dei Trattati sono disponibili all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/in dex-old.htm 2 Come osservato da SAULLE, “la scelta tipicamente economica, che contrassegnò gli albori della Comunità, determinò la necessità di escludere dall’ambito comunitario la trattazione di questioni di carattere umanitario nelle quali rientra certamente quella della tutela dei rifugiati”, in SAULLE M.R., Lezioni di organizzazione internazionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1993, p. 131 e ss. 81 circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, per cui era necessario il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne4. Nell’evoluzione della politica comunitaria in materia di asilo e di protezione dei rifugiati possono distinguersi tre momenti ben definiti. Il primo periodo, antecedente al 1999, vede il fulcro degli sviluppi comunitari nell’individuazione della responsabilità degli Stati membri in merito alle domande d’asilo, basata sulla Convenzione di Schengen prima, e sulla Convenzione di Dublino del 1990 poi, cui si aggiungono, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, alcune risoluzioni del Consiglio europeo. La seconda fase prende avvio con il Consiglio europeo di Tampere del 1999 in cui venne stabilito un programma, il cui obiettivo, da attuarsi in due momenti, era la creazione di un Sistema europeo comune d’asilo (CEAS, Common European Asylum System). Infine, il terzo periodo vede la luce con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, in cui è sancita la piena armonizzazione della legislazione in materia d’asilo, sulla base dei principi affermati a Tampere e ora inclusi nel corpus del Trattato. Nei successivi paragrafi, prima dell’analisi della disciplina legislativa ad oggi in vigore, verranno esaminate nel dettaglio le principali tappe di questo lento percorso evolutivo. 1.1 Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia: dall’Atto Unico Europeo alla Convenzione di Dublino del 1990 L’interesse degli Stati membri nei confronti del fenomeno migratorio e del diritto d’asilo comincia a manifestarsi per la prima volta a partire dagli anni ’70, come parte di una politica estera e di sicurezza comune. Nel 1975 viene costituito il c.d gruppo TREVI5, composto dai ministri degli Stati membri e finalizzato a 3 BENEDETTI E., Il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati nell’ordinamento comunitario dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, CEDAM, Padova, 2010, p. 101. 4 V. PALERMO P., Il diritto d’asilo nello spazio europeo: tra rifugio, asilo comunitario e convenzione europea dei diritti umani, Forum di quaderni costituzionali, 22 luglio 2009, p. 3, reperibile al sito www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0135_palermo.pdf. 5 Il gruppo TREVI, acronimo di “Terrorismo, Radicalismo, Eversione, Violenza Internazionale”, costituito su proposta britannica dal Consiglio europeo di Roma del 1975, riuniva inizialmente i ministri degli Affari Interni dei 12 Stati membri, affiancati successivamente da quelli della Giustizia. Ai lavori parteciparono anche paesi europei allora esterni alla Comunità (Austria, Svezia, Finlandia, Svizzera e Norvegia) e paesi non europei (Stati Uniti, Canada e Marocco). Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, l’attività del gruppo è stata assorbita dalla prevista cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni. 82 contrastare il terrorismo e la criminalità organizzata, mediante la collaborazione delle forze di polizia; tra le varie tematiche analizzate vi erano anche quelle relative alla disciplina dei visti d’ingresso e all’elaborazione di misure volte ad evitare l’abuso del diritto d’asilo. Negli anni ’80, il crescente numero delle richieste d’asilo condusse ad un’inversione di tendenza rispetto alle precedenti politiche di accoglienza degli Stati membri. Questi ultimi adottarono una politica restrittiva, consistente prevalentemente in misure preventive volte a limitare o impedire l’accesso al territorio dei paesi europei, tra cui, ad esempio, l’introduzione di visti di controllo sui passaporti e la previsione di sanzioni per i vettori aerei o marittimi che trasportassero passeggeri in cerca di asilo o non muniti di validi documenti, oltre all’inasprimento dei criteri di ammissione nel territorio degli Stati. Nei medesimi anni le istituzioni comunitarie manifestarono un sempre maggiore interessamento nei confronti del problema, soprattutto in vista del completamento del mercato unico europeo e dell’abolizione delle frontiere interne. In quest’ottica, nel 1985, la Commissione europea, presieduta da Jacques Delors, elaborò il Libro Bianco sul mercato interno6, in cui venne fissato un preciso calendario circa le varie iniziative necessarie per il ravvicinamento e l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di libera circolazione delle persone e di controlli alle frontiere esterne7. Tra queste, si ricorda l’intenzione di presentare una proposta di direttiva relativa a rifugiati e richiedenti asilo entro il 1988, mai realizzatasi. Nel 1986 un’ulteriore tappa verso la costituzione del mercato unico europeo è costituita dalla firma dell’Atto unico europeo8, che rappresenta la prima modifica sostanziale al Trattato CEE. Il Preambolo conteneva un generico riferimento alla promozione dei diritti dell’uomo, come definiti dalla CEDU e dalla Carta sociale europea del 19619, aprendo così un varco verso una politica comunitaria che 6 COMMISSIONE EUROPEA, Il completamento del mercato interno: Libro bianco della Commissione per il Consiglio europeo (Milano, 28-29 giugno 1985), COM(85) 310, 14 giugno 1985. 7 È opportuno ricordare che si trattava di materie che rientravano nella competenza esclusiva degli Stati membri e quindi disciplinate dagli ordinamenti giuridici di questi ultimi. 8 UE, Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 da 9 Stati membri e a L’Aia il 28 febbraio 1986 da Danimarca, Italia e Grecia. GUCE n. L 169 del 29 giugno 1987. 9 CONSIGLIO D’EUROPA, Carta sociale europea, approvata nel 1961 e riveduta nel 1996. L’art. 19 sancisce la protezione e il diritto all’assistenza dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. CETS n. 163. 83 tenesse in maggiore considerazione le norme internazionali sui diritti umani. Inoltre, nella “Dichiarazione politica dei Governi degli Stati membri relativa alla libera circolazione delle persone” allegata all’Atto unico, si affermava che “per promuovere la libera circolazione delle persone gli Stati cooperano senza pregiudizio delle competenze della Comunità in particolare per quanto riguarda l’ingresso, la circolazione ed il soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi” ma allo stesso tempo si precisava, con riferimento alle prescrizioni relative al mercato interno, che “nulla in queste disposizioni pregiudica il diritto degli Stati membri di adottare le misure che essi ritengono necessarie in materia di controllo dell’immigrazione da paesi terzi”10. In seguito, lo studio delle misure compensatorie necessarie alla creazione di uno spazio di libera circolazione all’interno della Comunità venne affidato al “Gruppo dei Coordinatori – Libera circolazione delle persone”, meglio noto come Gruppo di Rodi, istituito dal Consiglio europeo di Rodi del 1988. Le soluzioni elaborate vennero formalizzate al Consiglio europeo di Madrid del giugno del 1989, nel c.d. Documento di Palma di Majorca, che rimase la base programmatica della materia anche per le successive Convenzioni di Schengen e di Dublino del 1990. Per ogni settore coinvolto nella costituzione del mercato interno, il Documento individuava le misure da adottare, distinte in “essenziali” e “auspicate”, a seconda del grado di importanza, le sedi opportune in cui discuterne le modalità attuative e un calendario di realizzazione11. Il Gruppo ad hoc Immigrazione non fu l’unico istituito in quegli anni12. Il modus operandi dei Paesi membri all’epoca si concretizzò, infatti, tramite 10 Dichiarazione generale relativa agli articoli da 13 a 19 dell’Atto unico europeo, allegata all’Atto unico del 1986. 11 Per quanto concerne in particolare l’asilo, nel Documento si raccomandava la predisposizione, entro un determinato periodo di tempo, di misure volte ad una gestione comune delle problematiche dell’asilo, in conformità ai principi enunciati nella Convenzione di Ginevra del 1951. In particolare, le proposte avanzate erano quelle di predisporre un sistema comunitario per la determinazione dello Stato responsabile per l’esame di una domanda di asilo, di normalizzare gli obblighi gravanti sugli stati in materia, di stabilire delle regole per le domande manifestatamente infondate e per la circolazione dei richiedenti asilo nel territorio comunitario. V. LENZERINI F., Asilo e diritti umani. L’evoluzione del diritto d’asilo nel diritto internazionale, Giuffrè editore, Milano, 2009, p.122. 12 Si ricorda in particolare, oltre al già citato Gruppo TREVI (affiancato successivamente dal Gruppo TREVI II, avente l’obbiettivo di favorire la collaborazione tra le diverse polizie nazionali in materia di ordine pubblico, TREVI III, per la lotta congiunta al traffico di stupefacenti e alla criminalità organizzata e TREVI 1992, finalizzato al rafforzamento della cooperazione delle forze di polizia in vista dell’abbattimento delle frontiere interne), il Gruppo ad hoc Immigrazione, costituito a Londra nel 1986. Composto dai ministri degli Interni e della Giustizia degli Stati membri, si caratterizzava per il particolare collegamento con la Comunità, assicurato dalla 84 iniziative a carattere intergovernativo, che portarono alla costituzione di Gruppi di lavoro a cui venivano assegnate le competenze relative ai diversi profili funzionali alla libera circolazione delle persone: lotta alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, al terrorismo; cooperazione giudiziaria in materia penale; controllo delle frontiere esterne, politiche in materia di visti, immigrazione, asilo e rifugiati. In questa fase, caratterizzata dalla cooperazione intergovernativa, fu realizzato uno degli accordi che più influirono sulla creazione di uno spazio comune europeo: il c.d. Accordo di Schengen del 198513, concluso al di fuori dell’ambito strettamente comunitario ed in seguito definito come uno dei maggiori esempi di “cooperazione rafforzata”14. L’Accordo fu siglato il 14 giugno 1985 da Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Germania e Francia, con l’obiettivo di dar vita ad un territorio senza frontiere interne, il c.d. Spazio Schengen15, vista l’impossibilità di raggiungere un simile risultato in sede comunitaria. Successivamente, il 19 giugno 1990, venne firmata, a completamento dell’Accordo, la Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen16, che definisce le condizioni di applicazione e le garanzie relative alla libera circolazione. L’Accordo e la Convenzione, unitamente alle misure di esecuzione adottate e agli accordi connessi ai medesimi, formano il c.d. acquis di Schengen, che sarà integrato, in partecipazione della Commissione ai lavori (a quest’ultima era stata attribuita la qualifica speciale di “membro” che le permetteva di partecipare e contribuire ai dibattiti) e dalla possibilità di avvalersi di un segretariato permanente presso il Consiglio della Comunità Europea. Il Gruppo svolse un ruolo determinante nell’affrontare le questioni “essenziali” in materia di frontiere esterne, visti e asilo, elaborate nel Documento Palma. 13 Il testo dell’Accordo è reperibile al seguente indirizzo www.camera.it/bicamerali/schengen/fonti/ACCSCHEN/infdx.htm. 14 Come affermato da BENEDETTI E., la cooperazione rafforzata permette “una cooperazione più stretta tra i paesi dell’Unione che desiderano approfondire la costruzione europea nel rispetto del quadro istituzionale unico dell’Unione. Gli Stati membri interessati possono quindi progredire secondo ritmi e/o obiettivi diversi. Tuttavia essa non permette di estendere le competenze che sono previste dai Trattati” in BENEDETTI E., op. cit., p. 117. Questa procedura decisionale è stata istituzionalizzata con il Trattato di Amsterdam e attualmente è disciplinata dagli articoli 20 TUE e 326, 327, 328 TFUE, nella versione consolidata con il Trattato di Lisbona. 15 Odiernamente lo Spazio Schengen comprende i territori di quasi tutti gli Stati membri: l'Italia ha firmato gli accordi nel 1990 (legge di ratifica 30 settembre 1993, n. 388), la Spagna e il Portogallo nel 1991, la Grecia nel 1992, l'Austria nel 1995, la Finlandia, la Danimarca (con uno statuto adattato), la Svezia nel 1996, mentre la Repubblica ceca, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, l’Ungheria, Malta, la Polonia, la Slovenia e la Slovacchia nel 2007. L'Irlanda e il Regno Unito partecipano, invece, solo parzialmente all'acquis di Schengen, in quanto non hanno abolito i controlli alle loro frontiere. Per approfondire si veda CELLAMARE G., La disciplina dell’immigrazione nell’Unione europea, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 57 e ss. 16 Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione Economica Benelux, della Repubblica Federale di Germania e della Repubblica 85 seguito all’adozione di uno specifico Protocollo17 al Trattato di Amsterdam del 1997, nel quadro istituzionale e giuridico dell’Unione Europea. Tra le previsioni di maggior rilievo contenute negli accordi di Schengen, oltre a quelle relative all’abolizione dei controlli alle frontiere interne e il loro trasferimento all’unica frontiera esterna, alla definizione di una procedura uniforme in materia di controllo degli ingressi e delle condizioni di attraversamento delle frontiere esterne, è contemplata l’adozione di misure uniformi in materia d’asilo. Tali misure, contenute nel Titolo II al capitolo 7 negli articoli dal 28 al 3818, concernono il tema della competenza per l’esame delle domande di asilo. Dopo aver affermato, all’art. 28, gli obblighi a carico degli Stati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo del 1967 (di cui tutti i paesi dell’area Schengen sono firmatari) e il loro impegno a collaborare con l’UNHCR, la Convenzione, all’art. 29, afferma che “le Parti contraenti si impegnano a garantire l'esame di ogni domanda di asilo presentata da uno straniero nel territorio di una di esse”, escludendo tuttavia l’obbligo delle medesime di autorizzare in ogni caso l’ingresso e il soggiorno del richiedente asilo. La norma prosegue stabilendo il principio fondamentale della materia, ovvero la competenza di un solo Stato membro per l’esame della richiesta di asilo19, individuato secondo i criteri enunciati all’art. 30. Quest’ultimo articolo stabilisce francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, GUUE n. L 239 del 22 settembre 2000 p. 19-62. 17 In seguito all’adozione del Protocollo n. 2 al Trattato di Amsterdam il sistema Schengen venne integrato in parte nel terzo pilastro del TUE (Titolo VI) e in parte nel Titolo IV del Trattato CE, relativo alla libera circolazione delle persone (il testo integrale del Protocollo è reperibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/11997D/htm/11997D.html). Successivamente, con la firma nel 2007 del Trattato di Lisbona, il Protocollo sull’acquis di Schengen ha assunto rilevanza autonoma e, dopo essere stato modificato in conformità alla nuova struttura dell’Unione, è stato allegato come Protocollo n. 19 ai nuovi TUE e TFUE, divenendo parte integrante dell’acquis comunitario. 18 Convenzione di applicazione degli Accordi di Schengen, Capitolo 7 “Responsabilità per l’esame delle domande di asilo”, art. 28-38, reperibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:42000A0922(02):it:HTML. 19 Come affermato da BARONTINI G., con la locuzione ‘richiesta d’asilo’ si intende “la domanda con cui sia stata rivendicata la condizione di ‘rifugiato’ ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 ed invocata la tutela predisposta da tale Convenzione”. Viene di conseguenza accolta una nozione di rifugiato tradizionale che, oltre a non ricomprendere figure quali i rifugiati economici o le c.d. displaced persons, non include tutti coloro che soffrono in concreto dell’impossibilità di esercizio delle loro libertà democratiche, anche se in assenza di specifiche vicende persecutorie. V. BARONTINI G., Sulla competenza per l’esame delle domande di asilo secondo le Convenzioni di Schengen e di Dublino, in Rivista di diritto internazionale, n. 2/1992, p. 336-337. 86 un criterio gerarchico per la determinazione dello Stato competente ad esaminare la domanda, sulla base del principio che quest’ultimo deve identificarsi con il paese che ha svolto il ruolo principale riguardo all’ingresso della persona interessata nell’area Schengen. E questo sia nell’ipotesi in cui lo Stato abbia rilasciato visti o permessi di soggiorno, sia nell’eventualità di un comportamento meramente negativo che abbia permesso l’ingresso illegale della persona20. È importante notare come la Convenzione di Schengen e il sistema che ne è conseguito abbiano lasciate insolute almeno due importanti questioni relative alla protezione dei rifugiati21. Innanzitutto, l’ampio spazio lasciato alle legislazioni nazionali circa le procedure di istruzione della domande d’asilo22 non pone rimedio al problema dei c.d. “rifugiati in orbita”, persone potenzialmente o effettivamente perseguitate, che vengono rinviate da uno Stato all’altro, a cause delle continue declinazioni di responsabilità da parte delle istituzioni competenti, “struck to and fro like tennis balls”23. L’altro rilevante fenomeno, cui non è stata trovata una soluzione, è quello delle “domande multiple”, anche definito come asylum shopping, ossia i casi in cui il medesimo soggetto presenta reiterate domande d’asilo in diversi Stati membri. Il principio di esclusività affermato nel Capitolo 7 della Convenzione, non solo determinava quale Stato fosse competente per l’esame della domanda di asilo, ma garantiva inoltre che il richiedente non avanzasse altre domande. Spesso i governi nazionali giudicarono le molteplici domande di asilo presentate dal medesimo soggetto come abuso di diritto, in quanto espressione delle intenzioni fraudolente del richiedente che cercava di stabilirsi nello Stato membro economicamente più avanzato. Tuttavia, tra le principali cause di questo 20 Solo in due casi è possibile derogare ai criteri sanciti dall’art. 30. Il primo caso è previsto dal paragrafo 4 dell’art. 29 in cui si afferma che “ogni Parte contraente conserva il diritto, per ragioni particolari attinenti soprattutto alla legislazione nazionale, di esaminare una domanda d'asilo anche se la responsabilità ai sensi della presente Convenzione, incombe ad un’altra Parte contraente”. Il secondo caso è invece contemplato dall’art. 35, che in caso di ricongiungimento familiare, stabilisce la responsabilità per l’esame della domanda d’asilo in capo allo Stato membro che abbia riconosciuto lo status di rifugiato e il diritto di soggiorno ad un membro della famiglia del richiedente. 21 Si ricordano invece le parole della Commissione che salutavano la Convenzione di Schengen come “il primo testo nel diritto internazionale che garantiva ai richiedenti asilo che uno Stato al massimo si occupasse della loro domanda, e che essi non sarebbero più stati respinti da un Paese all’altro, con il dramma umano che questo comportava”, CE COM n. 5276, 19 giugno 1990. 22 L’art. 32 della Convenzione afferma infatti “La Parte contraente responsabile per l'esame della domanda di asilo effettua tale esame conformemente al proprio diritto nazionale”. 87 fenomeno, vi era sicuramente la totale assenza di armonizzazione tra le normative nazioni per quanto concerne le procedure di riconoscimento del diritto d’asilo, che spesso conduceva a giudizi contrastanti riguardo alla medesima domanda24. Parallelamente allo sviluppo del sistema delineato dalla Convenzione di Schengen, il 15 giugno 1990, venne firmata a Dublino la Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, meglio nota come Convenzione di Dublino25. Tale Convenzione, il cui scopo essenziale era quello di scongiurare successive o concomitanti richieste d’asilo in diversi Stati della Comunità e quindi prevenire il trasferimento dei richiedenti da un paese all’altro, ripropone i criteri individuati in materia dalla Convenzione di Schengen, anche se con disposizioni più dettagliate, maggiormente vincolanti per gli Stati e al tempo stesso più garantiste per i richiedenti asilo. I criteri per stabilire lo Stato competente ad esaminare la richiesta d’asilo sono fissati, in ordine di priorità, negli articoli da 4 a 8 della Convenzione; nella loro applicazione verrà seguito “l’ordine in cui sono presentati”, fatta salva la possibilità per lo Stato di esaminare una domanda di cui non sia responsabile con il consenso del richiedente, se sussistono ragioni di carattere umanitario (in particolare familiari o culturali)26. Oltre al richiamo dell’eccezione della riunificazione familiare, il testo della Convenzione presenta un elemento di novità all’art. 6 in cui è stabilito che, “se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso 23 BOCCARDI I., Europe and Refugees. Towards an EU Asylum Policy, Kluwer Law International, The Hague, 2002, p. 42. 24 Occorre tuttavia notare che l’UNHCR si era espresso in favore del riesame da parte di un altro Stato della domanda di asilo rigettata in uno Stato parte della Convenzione di Ginevra, sostenendo che “[…]a decision by a Contracting State not to recognize refugee status does not preclude another Contracting State from examining a new request for refugee status made by the person concerned”. UNHCR-ExCom, Conclusion n. 12 (XXIX) on the Extra-territorial effect of the determination of refugee status, 17 ottobre 1978, par. (h), disponibile all’indirizzo www.refworld.org/docid/3ae68c4447.html. 25 Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee – Convenzione di Dublino, OJ C 254, 19 ottobre 1997, p. 1-12. Il testo è reperibile sul sito www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:41997A0819(01):EN:NOT. 26 Convenzione di Dublino, art. 9: “Ogni Stato membro, anche se non competente per l'esame in base ai criteri previsti nella presente convenzione, può esaminare per motivi umanitari, in particolare di carattere familiare o culturale, una domanda di asilo a richiesta di un altro Stato membro, a condizione tuttavia che il richiedente l'asilo lo desideri. Se lo Stato membro interpellato accetta detta richiesta, la competenza in merito viene ad esso transferita”. 88 attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro”, salvo che il richiedente abbia soggiornato per almeno sei mesi nello Stato in cui ha presentato la domanda. Infine è opportuno sottolineare come, all’interno della Convenzione di Dublino, non sia presente nessuna disposizione che affermi la mancanza di obblighi di ammissione dei richiedenti asilo a carico degli Stati contraenti27; tale omissione non sembra tuttavia essere sufficiente per affermare un diritto dei richiedenti asilo all’ammissione temporanea nel territorio dello Stato in cui abbiano presentato richiesta d’asilo. Il sistema cui hanno dato vita, rispettivamente, le Convenzioni di Schengen e di Dublino, desta forti perplessità circa la sua compatibilità con il diritto internazionale dei rifugiati. Tutti gli Stati firmatari di questi due strumenti sono infatti parti della Convenzione di Ginevra del 1951, con la quale hanno assunto l’impegno di garantire un certo livello di protezione a coloro che rientrino nella definizione di rifugiato di cui all’art. 1 della medesima (in particolare l’obbligo di non-refoulement e il divieto di espulsione dei rifugiati regolarmente residenti). Il fatto che un solo Stato esamini la richiesta presentata all’interno dell’area Schengen o del territorio comunitario, con il conseguente venir meno di qualsiasi responsabilità a carico degli altri Stati contraenti, non appare compatibile con l’obbligo di protezione gravante su ciascuno di essi in quanto parti della Convenzione di Ginevra. E ciò sia nell’eventualità che la richiesta sia stata respinta dall’unico Stato competente e non vi sia così la possibilità di una nuova istruzione da parte di altri Stati membri, le cui leggi e procedure diverse potrebbero condurre ad un esito opposto; sia nel caso in cui lo Stato di asilo risulti incapace di garantire al rifugiato la protezione ufficialmente accordata (si pensi al caso di episodi a carattere etnico o razziale verificatesi in alcuni Stati europei), in quanto nessuna possibilità di chiedere asilo in altri paesi è contemplata dalla normativa convenzionale28. 27 Tale disposizione è invece contenuta nell’art. 29 par. 2 della Convenzione di Schengen dove si legge, inoltre, al secondo capoverso che “ciascuna Parte contraente conserva il diritto di respingere o di allontanare un richiedente asilo verso uno Stato terzo, conformemente alle proprie disposizioni nazionali e ai propri obblighi internazionali”. La dottrina ha più volte sottolineato la possibilità di un eventuale contrasto di tale disposizione con il divieto di refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951. Si veda BOCCARDI I., op. cit., p. 45-46. 28 V. BARONTINI G., op, cit., p. 346-347. 89 1.2 L’asilo nell’Unione europea: i Trattati di Maastricht e Amsterdam Tra le libertà sancite dal Trattato29, l’obiettivo della libera circolazione delle persone è quello che ha incontrato le maggiori difficoltà di realizzazione. L’abbattimento delle frontiere interne non riguarda solo la libera circolazione dei cittadini comunitari ma anche di quelli provenienti da Stati terzi, per la cui concretizzazione è preliminarmente necessaria un’armonizzazione delle normative nazionali in materia di ingresso e di attraversamento delle frontiere esterne della Comunità. Ed è soprattutto in quest’ultimo processo di avvicinamento delle legislazioni nazionali che si sono riscontrate le maggiori resistenze degli Stati membri, che hanno determinato la scelta di procedere mediante forme di cooperazione intergovernativa, di cui l’acquis di Schengen è il principale esempio. Nonostante ciò occorre ricordare, quale esempio della politica di armonizzazione in materia d’asilo e della protezione dei rifugiati dei primi anni ’90, la Risoluzione sulle domande d’asilo manifestamente infondate e la Risoluzione riguardante “un approccio armonizzato sulle questioni concernenti i Paesi terzi d’asilo” che, insieme alle Conclusioni sui “Paesi nei quali non vi è alcun rischio di persecuzione”, costituiscono le c.d. “Risoluzioni di Londra”30, adottate dal Consiglio dei ministri degli Stati membri della Comunità europea. Un importante passo avanti nel processo di integrazione è dato dalla firma a Maastricht, il 7 febbraio 1992, del Trattato sull’Unione Europea (TUE)31, entrato in vigore il 1° novembre 1993. Il Trattato rappresenta una soluzione di compromesso tra chi si opponeva all’attribuzione all’Unione di competenze specifiche in materia di immigrazione, e chi invece propendeva per un maggior ruolo delle istituzioni comunitarie in materia, superando l’approccio meramente intergovernativo. Viene così istituita una struttura complessa denominata Unione 29 Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE), Roma, 25 marzo 1957, art. 3, par. 1: “Ai fini enunciati all’articolo 2, l’azione della Comunità comporta, alle condizioni e secondo il ritmo previsti dal presente trattato: c) un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali” 30 Entrambe le Risoluzioni, approvate il 30 novembre 1992, non sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, ma nel Bollettino CE 12/92 al punto 1.5.12. Per un approfondimento in materia si veda ELSPETH G., The Europeanisation of Europe’s Asylum Policy, in International Journal of Refugee Law, Oxford University Press, vol. 18, n. 3-4, September 2006, p. 638. 31 Trattato sull’Unione Europea (TUE), approvato dal Consiglio europeo riunitosi a Maastricht dal 9 dicembre 1991 al 7 febbraio 1992, Gazzetta ufficiale n. C 191 del 29 luglio 1992. Il testo integrale è reperibile al sito www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/11992M/htm/11992M.html. 90 europea e fondata sui c.d. “tre pilastri”: la Comunità europea, la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione nel campo dei settori della Giustizia e degli Affari Interni32. Per la prima volta il tema dell’asilo è contemplato espressamente, all’interno del Titolo VI denominato “Disposizioni relative alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni”, ove si precisa che “la politica di asilo”, insieme alla “politica d’immigrazione” e alla “politica da seguire nei confronti dei cittadini dei paesi terzi”, viene considerata dagli Stati membri come una questione di interesse comune, “ai fini delle realizzazione degli obiettivi dell’Unione, in particolare della libera circolazione delle persone, fatte salve le competenze della Comunità europea”33. Si tratta di un approccio nuovo al problema che fa presumere la presa di coscienza, da parte della Comunità, di questioni che per lo spessore raggiunto, non possono più essere sottovalutate. Inoltre, come affermato nell’articolo K.2, la cooperazione tra gli Stati membri nei settori di “interesse comune” deve realizzarsi nel rispetto della Convenzione relativa allo status di rifugiato del 1951 e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fatte salve però le “responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna” (art. K.2, par. 2)34. 32 Il primo pilastro era costituito dalla Comunità europea, dalla CECA e dall’EURATOM e riguardava i settori in cui gli Stati esercitavano le proprie competenze mediante le istituzioni comunitarie. Si applicava il c.d. metodo comunitario che prevedeva la proposta di atti (direttive o regolamenti) da parte della Commissione europea, la loro adozione da parte del Consiglio e del Parlamento europeo, sotto il controllo della Corte di Giustizia. Con il secondo pilastro venne instaurata la Politica estera e di sicurezza comune, PESC, prevista dal Titolo V del TUE. Era quindi consentito agli Stati di avviare azioni comuni in materia di affari esteri mediante il ricorso al c.d. metodo intergovernativo, in cui si faceva largamente ricorso al voto all’unanimità e gli strumenti a disposizione erano poco incisivi. Inoltre, la Commissione e il Parlamento svolgevano un ruolo limitato e il settore non era compreso nella giurisdizione della Corte di Giustizia. Il terzo pilastro, disciplinato nel Titolo VI e riguardante la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni, aveva come obiettivo il perseguimento di un’azione congiunta a livello comunitario per offrire ai cittadini un’elevata protezione all’interno di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia. Anch’esso era caratterizzato da un processo decisionale di tipo intergovernativo. Tale struttura “a pilastri” è stata abolita con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Per un ulteriore approfondimento si vedano: ADAM, R., TIZZANO, A., Lineamenti di diritto dell’Unione europea, Giappichelli Editore, Torino, 2010, p. 3 e ss., DRAETTA, U., PARISI, N., Elementi di diritto dell’Unione europea. Parte speciale. Il diritto sostanziale, Giuffrè Editore, Milano, 2010, p. 306 e ss. 33 Trattato sull’Unione europea, Titolo VI, art. K.1, n. 1 e 3. 34 Come affermato da SAULLE M. R., si tratta di un rinvio recettizio, “nel senso che questi due Trattati internazionali entrerebbero a far parte – nei settori in cui sono rilevanti – del Trattato sull’Unione con le uniche eccezioni determinate dal mantenimento dell’ordine pubblico e della salvaguardia della sicurezza interna”. V. SAULLE M. R., Migrazione e asilo nella Comunità e 91 Per quanto concerne le altre disposizioni rilevanti del Trattato, occorre rilevare che, oltre al reciproco scambio di informazioni e alla consultazione tra gli Stati membri, è prevista la possibilità per il Consiglio di adottare posizioni o azioni comuni e di promuovere qualsiasi forma di cooperazione al fine di raggiungere gli obiettivi previsti. Allo scopo di organizzare e contribuire alla preparazione delle discussioni del Consiglio è poi contemplata l’istituzione di un Comitato di coordinamento composto da alti funzionari (art. K.4). Altre due disposizioni meritano di essere richiamate data la loro importanza nel processo di cooperazione. In primis, l’art. K.7 in cui si afferma che “le disposizioni del presente titolo non ostano all’instaurazione o allo sviluppo di una cooperazione più stretta tra due o più stati membri”, allo scopo di tenere in considerazione l’esistenza di Accordi, come quelli di Schengen, che consentivano un ulteriore sviluppo della cooperazione e quindi un maggior livello di integrazione, senza ovviamente entrare in contrasto con le disposizioni contenute nel Trattato. Infine, di particolare interesse è il contenuto dell’art. K.9. Esso prevede che il Consiglio, deliberando all’unanimità su iniziativa della Commissione o di uno Stato membro, possa rendere applicabile l’art. 100C all’art. K.1 in precedenza citato, precisando allo stesso tempo le condizioni di voto. In questo modo viene lasciata la possibilità di estendere le competenze dell’Unione anche a materie riguardanti lo spazio di sicurezza e giustizia, ampliando così il grado di cooperazione in questi settori. Al fine di sottolineare l’importanza data nel Trattato di Maastricht alla questione dell’asilo, occorre menzionare anche la Dichiarazione n. 31 allegata al Trattato medesimo, dedicata specificatamente al diritto d’asilo. La Dichiarazione affermava la priorità data a questa materia nell’ambito della politica riguardante il Terzo pilastro e prevedeva, oltre all’adozione di misure di armonizzazione in tempi rapidi, di ricondurre la materia di asilo nella competenza comunitaria, trasferendola dal Terzo al Primo pilastro, attraverso il meccanismo “passerella” predisposto dall’art. K.9. Durante gli anni ’90 gli Stati membri di fronte all’ingente numero di profughi determinato dal dissolvimento della Repubblica federale di Jugoslavia e dalla crisi nei Balcani, diedero vita ad una serie di iniziative che svilupparono ulteriormente nell’Unione europea, in SAULLE M. R., MANCA L. (a cura di), L’integrazione dei cittadini di paesi terzi nell’Europa allargata, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006, p. 12. 92 la cooperazione in materia d’asilo e di protezione dei rifugiati. Tra le misure adottate si ricordano: la Risoluzione sull’armonizzazione delle politiche nazionali relative al ricongiungimento familiare35; la Risoluzione del Consiglio dei Ministri per l’Immigrazione del 1993 che stabiliva alcune linee guida rispetto all’ammissione di persone provenienti dall’ex Jugoslavia36; il Rapporto della Commissione delle Comunità europee al Consiglio sulla possibilità di applicare l’art. K.9 del TUE alla politica di asilo del 4 novembre 1993; la Risoluzione del Consiglio sulle garanzie minime delle procedure d’asilo emanata nel giugno del 199537; la Posizione comune per l’applicazione armonizzata del termine “rifugiato”38, definita sulla base dell’art. K.3 del TUE e dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Soltanto con il Trattato di Amsterdam del 199739, il cui scopo principale era di “conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui si assicura la libera circolazione delle persone, insieme a misure appropriate per quanto concerne l’immigrazione, l’asilo, i controlli alle frontiere, la prevenzione e la lotta alla criminalità”, la materia dei visti, dell’asilo e dell’immigrazione è stata “comunitarizzata”, ossia spostata dal Terzo al Primo pilastro (Titolo IV TCE, art. 61-69), e si è provveduto all’incorporazione dell’acquis di Schengen40; mentre nel Titolo VI del TUE sono contenute le disposizioni sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Si 35 Risoluzione adottata dal Consiglio dei Ministri dell’Immigrazione il 1° giugno 1993. UE, Resolution on certain common guidelines as regards the admission of particularly vulnerable groups of persons from the Former Yugoslavia, 2 giugno 1993, OJ 1995 C 262. 37 Risoluzione del Consiglio dei Ministri del 20 giugno 1995, GU n. C274 del 19 settembre 1996 p. 13-17. 38 Posizione comune del 4 marzo 1996 definita dal Consiglio in base all’art. K.3 del TUE relativa all’applicazione armonizzata della definizione del termine “rifugiato” ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, GU L 63 del 13 marzo 1996, p. 2-7. 39 Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione europea, i Trattati che costituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi, firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999. GU n. C 340 del 10 novembre 1997. 40 Il Protocollo n. 2 allegato al TCE e al TUE ha disciplinato l’integrazione nell’Unione dell’acquis di Schengen. L’acquis è costituito dalla Convenzione di Dublino del 1990, dall’Accordo di Schengen del 1985, dalla Convenzione del 1990 di applicazione dello stesso Accordo, dalle decisioni e dichiarazioni adottate dal Comitato esecutivo istituito dalla Convenzione del 1990, nonché dagli atti per l’attuazione della Convenzione adottati dagli organi ai quali il Comitato esecutivo ha conferito poteri decisionali. Con le decisioni 1999/435 e 1999/436 (GUCE L 176 del 10 luglio 1999, p. 1-16 e 17-30), il Consiglio ha precisato il contenuto dell’acquis e ha ripartito la base giuridica delle disposizioni dello stesso tra i Titoli IV TCE e VI TUE. In particolare al Titolo IV TCE sono state riportate le disposizioni sui controlli alle frontiere e sugli ingressi; al Titolo VI TUE la parte dell’acquis in materia di cooperazione di polizia. V. CELLAMARE G., op. cit., p. 64 e ss. 36 93 permetteva quindi agli organi dell’Unione, al termine di un periodo di transizione di 5 anni dall’entrata in vigore del Trattato, di sviluppare una politica comune in queste materie, mediante l’adozione di norme giuridiche comunitarie, anziché utilizzare i meccanismi della cooperazione intergovernativa. In particolare, per quanto concerne l’asilo, notevole importanza è rivestita dall’art. 63 del Trattato. Questa norma infatti incorpora, all’interno del sistema di libera circolazione delle persone, le disposizioni in materia di protezione e trattamento dei rifugiati, stabilendo una serie di misure da attuare nei 5 anni successivi all’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. Più in dettaglio, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, ex art. 67, dovrà adottare norme precise in materia di competenza ad esaminare le domande d’asilo, accoglienza e trattamento dei richiedenti asilo nel territorio degli Stati dell’Unione, definizione del concetto di rifugiato e delle procedure di concessione e revoca del relativo status, nonché criteri e modalità per consentire la libera circolazione dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro. Inoltre, il citato articolo affronta tre ulteriori aspetti: considera l’asilo facendo esplicito riferimento alla Convenzione di Ginevra e al Protocollo del 1967, assimilando così i principi e i diritti riconosciuti in tali atti all’interno dell’ordinamento dell’Unione europea; introduce lo strumento della protezione temporanea per gli sfollati di paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine o per individui comunque bisognosi di protezione internazionale41; afferma il c.d. burden sharing, ovvero il principio solidaristico volto a ripartire tra gli Stati membri i costi, sia finanziari che sociali, derivanti dall’accoglienza dei rifugiati42. Merita una breve menzione anche il Protocollo, annesso al Trattato, in materia di richieste d’asilo depositate da cittadini degli Stati membri. Prendendo le mosse 41 Gli Stati hanno in questo modo dato ascolto ad istanze di tutela non soddisfatte nel vigente sistema convenzionale, elaborando forme di protezione complementare e sussidiaria, ai fine di offrire protezione ai richiedenti asilo che non rientravano nella definizione di rifugiato, ma che necessitavano di una tutela internazionale. L’estensione del concetto di asilo si ricava facilmente dal confronto delle norme vigenti con gli abrogati art. K.1 e K.2 del Trattato di Maastricht. V. NASCIMBENE B., Il futuro della politica europea di asilo, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), giugno 2008, p. 3. L’opera è reperibile all’indirizzo www.ispionline.it/it/documents/wp_25_2008.pdf. 42 Per un approfondimento del concetto si veda ROSSI E., VITALI L., I rifugiati in Italia e in Europa. Procedure di asilo fra controllo e diritti umani, Giappichelli Editore, Torino, 2011, p. 130. 94 dal concetto di paese d’origine sicuro43, il Protocollo afferma che “gli Stati membri dell’Unione europea, dato il livello di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali da essi garantito, si considerano reciprocamente Paesi di origine sicuri a tutti i fini giuridici e pratici connessi a questioni inerenti all’asilo”44, limitando in questo modo il diritto d’asilo dei cittadini europei45. Nonostante il Protocollo sullo status dei rifugiati del 1967 mirasse a far cadere ogni limitazione temporale o geografica circa l’applicazione degli strumenti di tutela, viene in questo modo reintrodotto un limite geografico all’esercizio del diritto d’asilo, giustificato sulla base dell’elevato standard di tutela dei diritti umani richiesto per ottenere la membership dell’Unione. 2. Verso un Sistema europeo comune d’asilo Alla fine degli anni ’90 le politiche europee in materia di asilo e immigrazione ricevettero un nuovo impulso. Da un lato infatti vi era l’esigenza di attuare i principi stabiliti dal Trattato di Amsterdam, che per primo aveva posto le basi per un effettiva regolamentazione del fenomeno migratorio e dei rifugiati a livello comunitario, accompagnata dalle critiche manifestate dall’UNHCR, dal Consiglio europeo per i rifugiati (ECRE) e dalla stessa Commissione europea, che chiedevano una nuova politica in materia. Dall’altro la crisi del Kosovo, con decine di migliaia di profughi provenienti dall’area balcanica che premevano alle frontiere europee46. Gli Stati membri decisero quindi, durante il summit di Vienna del dicembre 1998, di convocare una riunione straordinaria del Consiglio europeo, 43 Il concetto è stato elaborato durante il Consiglio dei ministri dell’Immigrazione, tenutosi a Londra dal 30 novembre al 1° dicembre 1992 ed è stato formalizzato nella Conclusione “Sui Paesi dove non vi è generalmente un grave rischio di persecuzione”. V. SONNINO S., MASIELLO S., Politiche europee sull’asilo e i rifugiati, in Gli stranieri. Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, n. 2, marzo-aprile 2005, p. 21. 44 Trattato di Amsterdam, Protocollo n. 24 sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea. 45 La ratio del Protocollo va ricerca nell’esigenza di impedire che alcuni presunti terroristi dell’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, organizzazione indipendentista basca), che avevano inoltrato richiesta d’asilo in Belgio e in Francia, si servissero di questo strumento di protezione per sfuggire alla giustizia spagnola. Cfr. Parlamento europeo, Risoluzione sulla ricevibilità da parte del commissario generale belga per i profughi e gli apolidi della domanda di asilo di due presunti membri della banda terroristica ETA, GU n. C 20 del 24 gennaio 1994. 46 Per un’analisi dell’emergenza kosovara si veda il documento dell’ECRE “Kosovo refugees.Protection, reception conditions and return policies in some european country”, 31 agosto 1999, disponibile sul sito ufficiale del Consiglio europeo per i rifugiati, www.ecre.org. 95 al fine di giungere ad una definizione delle prospettive circa il futuro della politica europea in materia. I Capi di Stato e di Governo si riunirono a Tampere, in Finlandia, il 15 e 16 ottobre 1999 e affermarono alcuni importanti principi per il rafforzamento e la concreta attuazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (i c.d. capisaldi di Tampere). In particolare, si asserì che i vantaggi derivanti dalla libera circolazione delle persone non avrebbero dovuto essere appannaggio esclusivo dei cittadini comunitari, ma “sarebbe contrario alle tradizioni europee negare tale libertà a coloro che sono stati legittimamente indotti dalle circostanze a cercare accesso nel nostro territorio. Ciò richiede a sua volta che l’Unione elabori politiche comuni in materia di asilo e immigrazione, considerando nel contempo l’esigenza di un controllo coerente alle frontiere esterne per arrestare l’immigrazione clandestina e combattere coloro che la organizzano […]. L’obiettivo è un’Unione europea aperta, sicura, pienamente impegnata a rispettare gli obblighi della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e di altri importanti strumenti internazionali per i diritti dell’uomo”47. Tampere segna un punto di svolta per le politiche d’asilo in Europa. Si affermò l’importanza sostanziale dello sviluppo di forme di cooperazione con gli Stati terzi che consentissero loro un miglioramento delle condizioni di vita e un più elevato rispetto dei diritti umani fondamentali, al fine di limitare all’origine le principali cause dei flussi di sfollati e rifugiati48. Venne elaborato un Programma che indicava le azioni che le Istituzioni europee e gli Stati membri avrebbero dovuto implementare per la creazione di un regime comune in materia di asilo, basato sulla piena applicazione dei principi affermati nella Convenzione di Ginevra, primo fra tutti il non-refoulement. Il piano per la realizzazione di tale regime consisteva nell’istituzione di una procedura comune in materia di asilo e di uno status uniforme, validi nel territorio dell’intera Unione, e si suddivideva in due fasi: • una prima fase, di breve periodo, si prefissava di armonizzare gli ordinamenti giuridici nazionali mediante l’adozione di norme minime che garantissero 47 Consiglio europeo di Tampere, Conclusioni della presidenza, sez. Verso un’Unione di libertà, sicurezza e giustizia: i capisaldi di Tampere, n. 3-4. Il testo completo è reperibile all’indirizzo www.europarl.europa.eu/summits/tam_it.htm. 48 Consiglio europeo di Tampere, Conclusioni della presidenza, sez. A. Politica comune dell’UE in materia di asilo e immigrazione, n. 11. 96 imparzialità, efficienza e trasparenza. I quattro nodi fondamentali erano: la determinazione dello Stato responsabile per l’esame della domanda di asilo, l’elaborazione di norme minime riguardanti le procedure di riconoscimento, condizioni comuni per l’accoglienza dei richiedenti asilo, la qualifica e il contenuto dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria49; • una seconda fase, nel lungo periodo, con l’obiettivo dell’effettiva creazione di una procedura comune in materia d’asilo e uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto l’asilo o la protezione sussidiaria50. Il Consiglio raccomandava inoltre, quale corollario di tale politica comune, la rapida implementazione di un sistema unico a livello europeo per l’identificazione dei richiedenti asilo (EURODAC)51. Dopo questa breve fase di slancio, il mutamento del clima e delle relazioni internazionali in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, influenzarono anche le politiche europee in tema di immigrazione e soprattutto di controlli alle frontiere esterne. Nei successivi vertici di Laeken del 2001, di Siviglia del 2002 e di Salonicco del 2003 si posero al centro del dibattito il controllo dell’immigrazione clandestina e la prevenzione dei movimenti irregolari nell’Unione europea, al fine di contrastare il rischio rappresentato dal terrorismo internazionale. In questo modo, nonostante la riaffermata esigenza di un’adeguata tutela dei richiedenti asilo e dei rifugiati a livello comunitario, il controllo delle frontiere, come presupposto della sicurezza interna degli Stati membri, si tramutava spesso in un vera e propria barriera all’ingresso dei richiedenti asilo. Come sottolineato dall’ECRE: “l’accesso al territorio dell’Unione è il nucleo della protezione dei rifugiati, e senza la possibilità di accesso al territorio, il diritto di chiedere asilo è privo di significato”52. 49 Ai fini dell’adozione delle misure prospettate, nella Conclusione n. 14 “il Consiglio europeo fa presente quanto sia importante la consultazione dell’UNHCR e di altre organizzazioni internazionali”. 50 V. NASCIMBENE B., Il futuro della politica europea di asilo, cit., p. 4. 51 Consiglio europeo di Tampere, Conclusioni della presidenza, sez. A, n. 17. 52 L’ECRE (European Council on refugees and Exiles), network di organizzazioni non governative impegnate nel promuovere la protezione e l’assistenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, ha sottolineato inoltre come lo sviluppo della c.d. Fortress Europe, ha provocato un incremento degli ingressi illegali, tramite anche l’affidamento a reti criminali, e l’aumento del numero dei morti sulle coste europee, oltre all’emersione di nuove forme di schiavitù e sfruttamento. V. ECRE, Evaluation on the asylum system in the EU, Siviglia, 2000, reperibile sul sito ufficiale dell’organizzazione www.ecre.org. 97 Inoltre, l’allargamento dell’Unione europea a dieci nuovi Stati membri53, avvenuto nel 2004, pose le istituzioni europee di fronte a nuove sfide, in particolare per quanto concerne il controllo delle frontiere. Come sottolineato anche dall’UNHCR54, l’ingresso dei nuovi Stati avrebbe potuto modificare gli assetti delle richieste d’asilo, portando ad un aumento delle stesse negli Stati che avrebbero costituito i nuovi confini esterni. La politica in materia d’asilo richiedeva pertanto nuove soluzioni, anche dal punto di vista legislativo. Con il fine fondamentale di predisporre le riforme istituzionali necessarie per garantire il buon funzionamento delle istituzioni europee, una volta effettuato l’allargamento a 25 stati membri, venne firmato il 26 febbraio 2001 il Trattato di Nizza, entrato in vigore il 1° febbraio 2003. Il Trattato modificò solo in minima parte le disposizioni in materia d’asilo previste dal Trattato di Amsterdam. La principale innovazione consiste nel contemplare per la tematica dei visti, dell’asilo e delle altre politiche collegate alla libera circolazione delle persone (Titolo IV TCE), il passaggio, anche se parziale e differito, dal criterio dell’unanimità a quello della maggioranza qualificata per l’adozione delle misure in merito a determinati aspetti della materia55. Tra il 4 e il 5 novembre 2004, il Consiglio europeo, riunitosi a Bruxelles, approvò così il c.d. Programma dell’Aia56, successivamente affiancato dal Piano 53 Con delibera del 13 dicembre 2002, il Consiglio dell’Unione europea approva l’adesione di Cipro, Malta, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia. Il Trattato di adesione sarà firmato il 16 aprile 2003 ad Atene. 54 L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Ruud Lubbers, rivolgendosi ai ministri degli Stati membri ha affermato che “se non si è attenti, si rischia di sopraffare i sistemi di asilo fragili e con risorse insufficienti dei nuovi Stati membri dell’Unione europea”. Il comunicato stampa è disponibile all’indirizzo www.unhcr.it/news/print/456/27/unhcr-nuovo-problemasullasilo-nellue-allargata.html. 55 Dichiarazione relativa all’articolo 67 del trattato che istituisce la Comunità europea allegata al Trattato di Nizza. “Le Alte Parti Contraenti esprimono il loro accordo affinché il Consiglio, nella decisione che deve adottare in virtù dell'articolo 67, paragrafo 2, secondo trattino: – stabilisca di deliberare, a decorrere dal 1o maggio 2004, secondo la procedura di cui all'articolo 251 per adottare le misure previste all'articolo 62, punto 3) e all'articolo 63, punto 3), lettera b); – stabilisca di deliberare secondo la procedura di cui all'articolo 251 per adottare le misure previste all'articolo 62, punto 2), lettera a), a decorrere dalla data in cui sia conseguito un accordo sul campo di applicazione delle misure relative all'attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri da parte delle persone. Il Consiglio si adopererà inoltre per rendere la procedura di cui all'articolo 251 applicabile, dal 1° maggio 2004 o al più presto dopo tale data, agli altri settori previsti dal titolo IV o ad alcuni di essi”. Il testo integrale del Trattato di Nizza è reperibile all’indirizzo www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/it_nice.pdf. 56 Consiglio europeo, Programma dell’Aia: rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia nell’Unione europea, GU C 53/1 del 3 marzo 2005. Il testo è disponibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2005:053:0001:0014:IT:PDF 98 d’azione57 predisposto con l’ausilio della Commissione, con l’obiettivo di stabilire il quadro generale della politica in materia di asilo e immigrazione per il quinquennio 2005-2010. Il documento conteneva l’elenco delle priorità dirette a consolidare lo spazio di libertà sicurezza e giustizia, tra cui vi era l’espresso impegno a sviluppare ulteriormente il Sistema europeo comune d’asilo, attraverso la modifica del quadro normativo e il rafforzamento della cooperazione, e a instaurare uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto l’asilo e la protezione sussidiaria58. Al fine di facilitare la cooperazione fattiva e concreta, il Programma prevedeva l’istituzione di strutture appropriate per il coinvolgimento dei servizi nazionali competenti in materia d’asilo, oltre che un ausilio agli Stati per l’introduzione di una procedura unica di valutazione delle domande di protezione internazionale. Una volta istituita una procedura comune in materia d’asilo, era prevista la trasformazione delle strutture esistenti in un Ufficio europeo, incaricato di fornire sostegno a ogni forma di cooperazione tra gli Stati membri riguardante il regime europeo comune d’asilo. Tra il 1999 e il 2005, gli strumenti adottati per la protezione dei rifugiati sono stati molteplici: • quattro direttive: la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea, la direttiva 2003/9/CE sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, la direttiva 2004/83/CE sulla qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, la direttiva 2005/85/CE sulle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato. A queste si aggiunge inoltre la direttiva 2003/86/CE sul diritto al ricongiungimento familiare. • quattro regolamenti che compongono il c.d. Sistema Dublino: il regolamento CE 343/2003 (c.d. Dublino II), il regolamento CE 2725/2000 (istitutivo del sistema EURODAC) e i rispettivi regolamenti di applicazione (regolamenti CE 407/2002 e 1560/2003)59. Si è così ultimata la “prima fase” della creazione del Sistema europeo comune di asilo, il cui obiettivo, come in precedenza detto, era quello dell’armonizzazione 57 Piano d’azione del Consiglio e della Commissione sull’attuazione del Programma dell’Aia inteso a rafforzare la libertà, la sicurezza e la giustizia dell’Unione europea, GU C 198 del 12 agosto 2005, p. 1-22. Il documento è reperibile al seguente indirizzo: www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:52005XG0812(01):IT:NOT. 58 V. SATVINDER S. J., The decline and decay of european refugee policy, in Oxford Journal of Legal Studies, vol. 25, issue 4, 2005, p. 765. 99 sostanziale e procedurale degli ordinamenti nazionali, mediante la fissazione di norme minime comuni e con l’obbligo per gli Stati di adeguare i propri ordinamenti. La Commissione, nella comunicazione “relativa alla politica comune in materia di asilo e all’Agenda per la protezione”60 ha compiuto le prime riflessioni in merito all’attuazione di questa prima fase, evidenziando il basso livello delle norme concordate e il conseguente ridimensionamento degli effetti utili dell’armonizzazione. Tale risultato è però considerato il “prezzo da pagare” all’adozione all’unanimità degli strumenti comunitari in questo settore e alla scarsa disponibilità degli Stati membri a limitare le proprie competenze e valutazioni in una materia così sensibile (e tradizionalmente rientrate nella sovranità statale), quale è la politica d’asilo61. 2.1 La seconda fase della politica in materia d’asilo: il Trattato di Lisbona e il Programma di Stoccolma Firmato il 13 dicembre 2007 dai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell’Unione europea, il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il 1° dicembre 2009, con il fine “di completare il processo avviato dal Trattato di Amsterdam e dal Trattato di Nizza al fine di rafforzare l’efficienza e la legittimità democratica dell’Unione nonché di migliorare la coerenza della sua azione”62. In sostanza, il nuovo Trattato ha comportato una “successione” dell’Unione europea alla Comunità europea ed una revisione del TUE e del Trattato CE, la cui denominazione è mutata in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea63. Tra i numerosi emendamenti apportati ai previgenti Trattati, diversi hanno interessato la materia dell’asilo. Nel nuovo Titolo V del Trattato sul 59 Tali norme saranno esaminate nel dettaglio nel terzo paragrafo, ove si analizzerà la legislazione in vigore nell’Unione. 60 Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo relativa alla politica comune in materia d’asilo e all’Agenda per la protezione. COM(2003)152 del 26 marzo 2003, consultabile sul sito www.eurlex.europa.eu/smartapi/cgi/sga_doc?smartapi!celexplus!prod!DocNumber&lg=it&type_d oc=COMfinal&an_doc=2003&nu_doc=152. 61 NASCIMBENE B., Il futuro della politica europea di asilo, cit., p. 4. 62 Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, Gazzetta Ufficiale n. C 306 del 17 dicembre 2007. Il testo integrale del Trattato è reperibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/12007L/htm/12007L.html. 63 V. TESAURO G., Diritto dell’Unione europea, CEDAM, Padova, 2010, p. 17. 100 funzionamento dell’Unione europea (TFUE, che sostituisce il Trattato CE)64, intitolato “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, non è più prevista l’adozione di “misure” serventi rispetto alla creazione di uno spazio interno senza frontiere (art. 61 TCE), ma lo sviluppo, da parte dell’Unione, di “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà fra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi” (art. 67 TFUE). Si tratta della maggiore differenza della nuova base giuridica rispetto alla precedente, frutto della codificazione di quanto affermato dal Consiglio europeo da Tampere in poi. In particolare per quanto riguarda i rifugiati, l’art. 78 TFUE (che sostituisce l’art. 63 TCE), al primo paragrafo, afferma che: “l’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento”, in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al Protocollo del 1967, relativi allo status dei rifugiati. Rilevante è la modifica dell’espressione che introduce l’elenco delle misure da adottare in materia d’asilo, contenute nel secondo paragrafo del medesimo articolo: le parole “nelle seguenti materie”, indicanti un elenco di competenze da considerarsi esaustivo, sono sostituite dall’espressione “che includa”, come premessa di un’indicazione non esaustiva, che fornisce la base giuridica per qualsiasi misura destinata alla realizzazione di un’effettiva politica europea comune in materia d’asilo. Nel Trattato si sottolinea inoltre l’esigenza che l’applicazione delle norme comunitarie in materia d’asilo avvenga nel rispetto dei diritti fondamentali. La norma di apertura del Titolo V, pone infatti l’accento sull’obbligo dell’Unione di realizzare lo “spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”. Tale vincolo è ulteriormente rafforzato dal riconoscimento, anche formale, del valore vincolante della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza nel 200065: ai sensi 64 Versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea n. C 115/47 del 9 maggio 2008. Il testo è consultabile sul sito www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2008:115:0058:0199:it:PDF. 65 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Gazzetta Ufficiale n. C 346/1 del 18 dicembre 2000. Il testo è consultabile all’indirizzo www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf. 101 dell’art. 6 TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona, la Carta ha infatti lo stesso valore giuridico dei Trattati. La Carta di Nizza è il risultato di una procedura originale, senza precedenti nella storia dell’Unione europea66, e costituisce la prima enunciazione ufficiale del patrimonio spirituale e morale dell’Unione, basato sui fondamentali valori dell’uguaglianza, della libertà, della dignità umana, della solidarietà e dello stato di diritto. L’art. 18 sancisce il diritto d’asilo, sopperendo così alla mancato inserimento di quest’ultimo nel testo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nonostante la novità della previsione, la norma non contiene una definizione della posizione soggettiva tutelata, ma si limita a richiamare la definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra67. Nel successivo art. 19 vengono sanciti sia il divieto di espulsioni collettive, sia il divieto di allontanamento, estradizione o espulsione di un individuo verso paesi in cui esiste un serio rischio che quest’ultimo sia sottoposto alla pena di morte o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Occorre sottolineare che, come più volte 66 Per un’analisi approfondita del processo redazionale della Carta di Nizza si veda GARABELLO R., La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in PINESCHI L., La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie e prassi, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 548. 67 L’art. 18 dispone infatti: “Il diritto d’asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del Trattato che istituisce la Comunità europea. Come sostenuto da BRUNELLI G., “il richiamo alla Convenzione di Ginevra, […] sembra indicare che un accordo sia stato raggiunto, in sede di elaborazione e adozione della Carta, soltanto su uno standard minimo di tutela, cioè sulla specificazione del genus diritto d’asilo contenuta nella Convenzione: un diritto d’asilo particolare, cui corrisponde uno statuto disciplinato da norme internazionali e da norme interne dei diversi Stati”. V. BRUNELLI G., L’art. 18. Diritto d’asilo, in BIFULCO R., CARTABIA M., CELOTTO A., (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il Mulino, Bologna, 2001, p. 154. Merita tuttavia una menzione il recente intervento dell’UNHCR davanti alla Corte di Giustizia UE nella causa Halaf (c-528/11, decisa con sentenza il 30 maggio 2013), avente ad oggetto la domanda di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, proposta alla Corte dall’Administrativen sad Sofia-grad (Bulgaria) circa il contenuto del diritto d’asilo ai sensi dell’art. 18 della Carta. A parere dell’UNHCR, sulla base dei trattati e della normativa secondaria che attualmente compone il Sistema europeo comune d’asilo, il diritto d’asilo di cui all’art. 18 della Carta, contiente i seguenti elementi: “(i) protection from refoulement, including non-rejection at the frontier; (ii) access to territories for the purpose of admission to fair and effective processes for determining status and international protection needs; (iii) assessment of an asylum claim in fair and efficient asylum processes […]and an effective remedy […]in the receiving state; (iv) access to UNHCR (or its partner organizations); and (v) treatment in accordance with adequate reception conditions; (vi) the grant of refugee or subsidiary protection status when the criteria are met; (vii) ensuring refugees and asylum-seekers the exercise of fundamental rights and freedoma; and (viii) the attainment of a secure status”. V. UNHCR, UNHCR Statement on the right to asylum, UNHCR’s supervisory responsability and the duty of States to cooperate with UNHCR in the exercise of its supervisory responsibility. Issued in the context of a reference for a preliminary ruling addressed to Court of Justice of the European Union by the Administrative Court of Sofia lodged on 18 October 2011 – Zuheyr Freyeh Halaf v. the Bulgarian State Agency for Refugees (C-528/11), disponibile all’indirizzo www.refworld.org/pdfid/5017fc202.pdf. 102 ribadito anche dalla Corte di Giustizia, i diritti sanciti dalla Carta devono essere garantiti a tutte gli individui presenti nel territorio dell’Unione, siano essi cittadini comunitari o provenienti da paesi terzi e ivi residenti regolarmente o irregolarmente. Questi ultimi possono quindi invocarli come parametro di legittimità degli atti comunitari e i giudici nazionali potranno farvi riferimento nel riconoscere ai singoli diritti previsti dalle norme dell’Unione. Al fine di sviluppare la politica comune in materia d’asilo, espressamente affermata ora anche dal TFUE, e di rilanciare l’approccio globale in materia contemplato dal Programma dell’Aia, sono stati adottati dalla Commissione, il 17 giugno 2008, la Comunicazione e il Piano strategico sull’asilo, documenti alla base del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. Nella Comunicazione “una politica d’immigrazione comune per l’Europa: principi azioni e strumenti”68 sono affermati i principi alla base della politica dell’immigrazione, suddivisi in tre aree: prosperità, solidarietà e sicurezza. Il Piano strategico sull’asilo69 traccia invece una “road-map” per il completamento della seconda fase del Sistema europeo comune di asilo, indicando le misure necessarie al fine di perseguire gli obiettivi fissati all’Aia. Tra queste si ricordano il rinnovato sostegno alla proposta di creazione di un Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, come supporto alla cooperazione pratica tra gli Stati, e la volontà di adottare “una serie di meccanismi di solidarietà” per risolvere i problemi dei paesi che per varie ragioni, tra cui la loro posizione geografica, subiscono maggiormente le pressioni dei flussi di richiedenti asilo. Come accennato, alla luce di questi due documenti, durante il Consiglio europeo di Bruxelles del 17-18 ottobre 2008, venne proposta dalla presidenza di turno francese, l’adozione di un Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo70, 68 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 17 giugno 2008 – Una politica d’immigrazione comune per l’Europa: principi, azioni e strumenti, COM(2008) 359, non pubblicata sulla G.U. Il testo è comunque disponibile al seguente indirizzo: www.europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asyl um_immigration/jl0001_it.htm. 69 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 17 giugno 2008 – Piano strategico sull’asilo: un approccio integrato in materia di protezione nell’UE, COM(2008) 360, non pubblicata sulla G.U., www.europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asyl um_immigration/jl0002_it.htm. 70 Consiglio europeo, Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo del 24 settembre 2008, approvato il 16 ottobre 2008, doc. 13440/08. Il testo non è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale ma è reperibile all’indirizzo: 103 approvato dai Capi di Stato e di Governo di tutti i 27 Stati membri. Il documento non introduce nessuna novità rilevante, la sua importanza risiede nell’essere un nuovo impegno unanime, anche se non vincolante, per “il fondamento di una politica comune dell’immigrazione e dell’asilo, ispirata a uno spirito di solidarietà tra gli Stati membri e di cooperazione con i paesi terzi”71. Il Consiglio assume pertanto cinque impegni fondamentali la cui concretizzazione sarà proseguita nel nuovo programma che farà da seguito a quello dell’Aia: 1. la gestione dell’immigrazione legale, allo scopo di favorirne l’integrazione; 2. la lotta all’immigrazione clandestina, garantendo il rimpatrio di coloro che si trovano in posizione irregolare; 3. Il rafforzamento dell’efficacia dei controlli alle frontiere esterne; 4. la costituzione di “un’Europa dell’asilo”; 5. l’implementazione di una partnership con i paesi di provenienza e di transito, al fine di incoraggiare la sinergia tra migrazione e sviluppo. Al Patto è seguito il nuovo piano politico-strategico dell’Unione europea per lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014, il c.d. Programma di Stoccolma72, adottato dal Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2009. Il nuovo programma, alla luce dei risultati conseguiti dai Programmi di Tampere e dell’Aia, si pone l’obiettivo generale di sviluppare una politica migratoria “lungimirante e articolata, fondata sulla solidarietà e la responsabilità”, individuando le priorità per il rafforzamento dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Per quanto concerne nello specifico la materia dell’asilo, il Sistema comune europeo di asilo, che resta un “obiettivo politico chiave”, dovrebbe prevedere elevati standard di protezione e procedure eque ed efficaci che permettano di prevenire eventuali abusi. È inoltre essenziale che ai richiedenti asilo, indipendentemente dal paese di inoltro della domanda di protezione, “sia riservato un trattamento di livello equivalente quanto a condizioni di accoglienza, e di pari livello per quanto riguarda le disposizioni procedurali e la determinazione dello www.register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=IT&t=PDF&gc=true&sc=false&f=ST%2013440%20 2008%20INIT&r=http%3A%2F%2Fregister.consilium.europa.eu%2Fpd%2Fit%2F08%2Fst13%2 Fst13440.it08.pdf. 71 Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Bruxelles, 15 e 16 ottobre 2008, doc. 14368/08, punti 19-20. Il testo integrale è consultabile all’indirizzo www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/103439.pdf. 72 Programma di Stoccolma – Un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini, GUUE n. C 115 del 4 maggio 2010. 104 status”. L’obiettivo da raggiungere è quello del medesimo trattamento dei casi analoghi, per ottenere lo stesso risultato al termine delle procedure di esame73. Partendo inoltre dal presupposto che il grado di armonizzazione raggiunto non è ancora soddisfacente, nel Programma viene ripetuto l’intento di giungere, entro il 2012, “ad una procedura comune in materia di asilo” e “ ad uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale”. A tal fine viene riaffermata come necessaria la creazione dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (European Asylum Support Office – EASO)74 che, oltre a rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri, dovrebbe sviluppare una “piattaforma educativa comune” per gli operatori nazionali che si occupano di asilo (c.d. curriculum europeo di asilo – EAC). Come precisato nel punto 6.2.1 del Programma, regole comuni, elaborate in ossequio ai principi affermati dalla Convenzione di Ginevra e dal Protocollo del 1967 e applicate scrupolosamente, dovrebbero “prevenire o ridurre i movimenti secondari all’interno dell’Unione europea ed accrescere la fiducia reciproca fra gli Stati membri”. Nei successivi punti 6.2.2, intitolato “Condivisione delle responsabilità e solidarietà tra gli Stati membri” e 6.2.3, inerente alla dimensione esterna dell’asilo, vengono fissati due principi cardine per il futuro della politica europea in materia. In primis, si afferma l’esigenza di un’effettiva solidarietà con i paesi sottoposti a maggiori richieste di protezione, mediante lo sviluppo di “meccanismi di condivisione volontaria e coordinata delle responsabilità tra Stati membri”. A tal fine sarà necessario non solo lo sviluppo reciproco delle capacità dei vari sistemi di asilo nazionali, ma anche un più efficace utilizzo degli strumenti finanziari dell’Unione. In secondo luogo, viene sottolineata l’importanza della cooperazione e del partenariato con i paesi terzi che accolgono flussi massicci di rifugiati. Una politica comune in questo settore, con il contributo dell’UNHCR e il coinvolgimento dell’EASO, porterebbe ad una gestione più efficiente delle 73 Per aumentare l’omogeneità dei giudizi, tutti gli agenti investiti del compito di esaminare le domande di asilo nei diversi Stati membri, dovranno seguire schemi formativi comuni e accedere alle medesime informazioni sui paesi di origine dei richiedenti (Country of Origin Information – COI). V. ROSSI E., VITALI L., op.cit., p. 127. 74 Il 19 maggio 2010, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno approvato il regolamento 439/2010 che istituisce l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo “al fine di intensificare il coordinamento della cooperazione operativa fra gli Stati membri, in modo da attuare efficacemente le norme comuni”. Il testo del regolamento è disponibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32010R0439:IT:NOT. 105 situazioni in cui la condizione di rifugiato si prolunga nel tempo. In tal senso, il Programma invita a promuovere lo sviluppo della capacità dei paesi terzi di fornire effettiva protezione a rifugiati e richiedenti asilo, nonché incoraggia la partecipazione volontaria degli Stati membri ai programmi europei di reinsediamento. Occorre infine sottolineare che, tra gli obiettivi dichiarati nel Programma di Stoccolma, vi è anche l’adesione dell’Unione alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al Protocollo del 1967, reso possibile dalle previsioni del Trattato di Lisbona che conferiscono all’Unione personalità giuridica propria75. Al fine di trasformare le priorità politiche stabilite dal Programma di Stoccolma, in azioni e risultati concreti, la Commissione ha presentato un Piano d’azione76 nell’aprile 2010. In attuazione di quanto previsto dal Programma e dal predetto Piano di attuazione, e a conclusione della seconda fase della creazione del Sistema europeo comune d’asilo, tra il 2010 e il 2013, sono stati approvati una serie di provvedimenti destinati a riformare l’intera disciplina: il nuovo regolamento Dublino, c.d. Dublino III (regolamento UE n. 604 del 26 giugno 2013, entrato in vigore, 1° gennaio 2014), la nuova direttiva qualifiche (direttiva 2011/95/UE del 13 dicembre 2011), la nuova direttiva procedure (direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013) e la nuova direttiva accoglienza (direttiva 2013/33/UE del 26 giugno 2013). Completano il quadro della disciplina: il nuovo regolamento EURODAC per il confronto delle impronte digitali al fine dell’applicazione del regolamento Dublino III (regolamento UE n. 603/2013 del 26 giugno 2013) e il regolamento EASO, istitutivo dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (regolamento UE n. 439/2010 del 19 maggio 2010)77. 75 L’art. 47 del TUE riconosce espressamente la personalità giuridica dell’Unione europea. L’attribuzione della personalità giuridica implica il riconoscere all’Unione la capacità di negoziare e concludere accordi internazionali nel rispetto delle sue competenze esterne, di aderire alle convenzioni internazionali (come ad esempio la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) e di divenire membro di un organismo internazionale. 76 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 20 aprile 2010 - Creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia per i cittadini europei - Piano d'azione per l'attuazione del programma di Stoccolma, COM(2010) 171. La Comunicazione non è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale, ma è reperibile all’indirizzo www.europa.eu/legislation_summaries/human_rights/fundamental_rights_within_european_union /jl0036_it.htm. 77 Per una puntuale analisi della normativa, si veda infra, par. 3. 106 3. L’acquis comunitario sull’asilo Dopo aver descritto l’evoluzione delle politiche, della Comunità prima e dell’Unione europea poi, in materia di asilo e di protezione dei rifugiati, occorre ora analizzare la normativa costituente il c.d. acquis comunitario78 sull’asilo, alla luce delle recenti innovazioni normative introdotte a conclusione della seconda fase di elaborazione del Sistema europeo comune d’asilo. Come affermato dal vicepresidente della Commissione, Jacques Barrot, in una lettera datata 15 luglio 2009, in relazione al caso Hirsi79, “the Community acquis in the field of asylum is intended to safeguard the right of asylum, as set forth in Article 18 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union, and in accordance with the 1951 Geneva Convention relating to the Status of Refugees and with other relevant treaties”. 3.1 La protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di profughi prevista dalla direttiva 2001/55/CE La direttiva sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi80, del 20 luglio 2001, è 78 L’acquis comunitario (dalla locuzione francese “[droit]acquis communautaire” ossia “[diritto] acquisito comunitario) è l’insieme dei diritti, degli obblighi, dei principi e dei valori che i paesi membri dell’UE hanno deliberatamente scelto di condividere. Corrisponde pertanto ad una piattaforma comune di diritti e di obblighi, vincolanti per tutti gli Stati membri ed in continua evoluzione. In concreto, l’acquis comunitario è costituito dai principi e dagli obiettivi espressi nei trattati istitutivi, dalla legislazione adottata in applicazione di questi ultimi, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, dalle conclusioni e dalle risoluzioni adottate nel contesto dell’Unione, dagli accordi internazionali stipulati dall’Unione e da quelli conclusi dagli Stati membri tra essi nelle materie rientranti nella competenza comunitaria. Comprende inoltre, le iniziative intraprese dai governi dell’UE nei settori “politica estera e di sicurezza comune” e “giustizia e affari interni”. L’acquis deve essere integralmente accettato dai paesi che si candidano all’ingresso nell’Unione, mediante la sua recezione negli ordinamenti giuridici nazionali. V. AJANI G., Acquis comunitario, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile. Aggiornamento, IV ed., 2010, p. 1. 79 Corte EDU, sent. 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ric. 27765/09. Si veda supra capitolo II, par. 4.1. 80 Direttiva 2001/55/CE del Consiglio, Gazzetta Ufficiale L 212/12, del 7 agosto 2001. Il termine stabilito per la trasposizione negli ordinamenti giuridici nazionali era il 31 dicembre 2002. L’Italia ha dato attuazione alla direttiva solo con il d. lgs. 7 aprile 2003, n. 85, Gazzetta Ufficiale n. 93 del 22 aprile 2003. A norma dell’art. 3 del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda allegato al TUE e al TFUE, la Gran Bretagna ha notificato la volontà di aderire e di applicare la direttiva. Al contrario, le disposizioni della presente direttiva, fatto salvo l’art. 4 di detto protocollo, non si applicano all’Irlanda. Ai sensi del protocollo sulla posizione della Danimarca allegato al TUE e al TFUE, la Danimarca non è vincolata dalla direttiva. 107 stato uno dei primi atti normativi adottati dall’Unione europea in materia d’asilo. A differenza delle altre disposizioni normative, la sua adozione non fu problematica, sia perché le legislazioni nazionali degli Stati membri prevedevano misure dirette a regolare il fenomeno degli sfollati che non potevano fare ritorno nel proprio paese d’origine, sia perché lo strumento si proponeva come soluzione ad un problema particolarmente attuale all’epoca, l’arrivo di migliaia di profughi provenienti dal Kosovo. La protezione temporanea consiste in una procedura a carattere eccezionale che conferisce una tutela immediata e transitoria alle persone sfollate, nelle situazioni in cui, a causa delle condizioni di emergenza, l’efficacia del sistema di asilo potrebbe essere compromessa81 e occorre provvedere ad una forma di soccorso generalizzato, al fine di garantire i bisogni essenziali delle persone. L’ambito di applicazione ratione personae è ristretto: deve trattarsi di cittadini di paesi terzi o apolidi che hanno dovuto abbandonare il loro paese d’origine o sono stati evacuati e che non possono farvi ritorno in condizioni sicure a causa della situazione nel Paese medesimo. Le ragioni alla base della fuga possono essere varie anche se l’art. 2, lettera c), prende in considerazione in particolare le persone fuggite da conflitti armati o situazioni di violenza endemica, e coloro che siano soggetti a un grave rischio di violenze sistematiche o generalizzate dei diritti umani, o che ne siano già state vittima82. Il ricorso alla protezione temporanea si giustifica a causa dell’elevato numero di persone coinvolte (“afflusso massiccio di sfollati”), che non renderebbe possibile 81 Il richiamo, tra i criteri che possono giustificare il riconoscimento della protezione temporanea, al “rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli per il suo corretto funzionamento”, può far sorgere un dubbio interpretativo in relazione all’istituto dell’asilo. Come osservato da ADINOLFI A., tuttavia, “tale criterio non dovrebbe portare ad intendere la protezione temporanea come una forma di tutela alternativa rispetto al sistema dell’asilo nelle ipotesi in cui quest’ultimo non sia in grado di funzionare; essa deve piuttosto essere intesa come una forma di tutela di emergenza da utilizzare, qualora lo straniero presenti domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, anche nel periodo di espletamento della relativa procedura”. V. ADINOLFI A., Riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria: verso un sistema comune europeo?, in Rivista di diritto internazionale, n. 3/2009, p. 683-684. 82 Nonostante non vi sia nessuna indicazione in proposito, nella nozione di sfollati di cui all’art. 2, lett. c) è possibile includere anche coloro che abbandonano il loro paese o la loro regione d’origine a seguito di calamità naturali. Come sottolineato da FAVILLI C., “si tratta di situazioni nelle quali un elevato numero di persone necessita di accoglienza per una durata temporanea. Tuttavia nelle più recenti situazioni di accoglienza generate da catastrofi naturali il meccanismo della protezione temporanea non è stato utilizzato”. La prassi è quindi costante nell’escludere questa forma di protezione ai c.d. sfollati ambientali. V. FAVILLI C., La protezione internazionale nell’ordinamento dell’Unione europea, in FAVILLI C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, CEDAM, Padova, 2011, p. 128. 108 l’esame individuale necessario per il riconoscimento del diritto d’asilo. Il concetto di “afflusso massiccio” non viene tuttavia specificato nel testo delle direttiva in esame. L’art. 2, lett. d) si riferisce genericamente ad “un numero considerevole di sfollati, provenienti da un paese determinato o da una zona geografica determinata”. L’esistenza di quest’ultimo e della conseguente necessità della forma di protezione in esame, è determinata con una decisione dal Consiglio a maggioranza qualificata, su proposta della Commisione e comunicata al Parlamento europeo. Come stabilito dall’art. 3, par. 4, l’applicazione della procedura è inoltre oggetto di consultazione con l’UNHCR e con altre organizzazioni internazionali competenti. La durata della protezione è di un anno, rinnovabile di sei mesi in sei mesi (fino ad un totale di due anni), se le condizioni nel paese di origine non sono migliorate. La breve durata della tutela è connessa alla presunta durata limitata della situazione di emergenza nel paese di provenienza, terminata la quale gli sfollati devono fare ritorno. Ne consegue che, se la situazione migliora prima dello scadere dell’anno solare, la protezione sarà anticipatamente revocata. Nell’ipotesi opposta, ossia nel caso in cui allo scadere della durata massima della protezione temporanea, la situazione nell’area d’origine non permette un rimpatrio sicuro degli sfollati, il Consiglio dovrà trovare soluzioni alternative, quali il ricorso alla protezione sussidiaria prevista dalla direttiva 2011/95/UE83. Ai sensi del Capo VI della direttiva, dedicato alla Solidarietà, nella decisione del Consiglio, oltre agli elementi previsti dall’art. 5, par. 3, devono essere indicate le capacità di accoglienza, comunicate dagli Stati membri, affinchè gli sfollati siano distribuiti tra questi ultimi. Viene così reso operativo il c.d. principio del burden-sharing, spesso invocato dai paesi che si trovano ai confini esterni dell’Unione, quindi maggiormente interessati dai flussi di asilanti. Tuttavia, l’operatività del principio potrebbe rivelarsi più apparente che reale, in quanto il meccanismo di “solidarietà” si basa su una dichiarazione volontaria di disponibilità da parte dei singoli Stati. Più concreta è la solidarietà finanziaria, in quanto le azioni intraprese dagli Stati sono supportate dal Fondo europeo per i 83 Come affermato dall’art. 6, par. 2, infatti la decisione del Consiglio in merito alla cessazione della protezione “si fonda sull’accertamento che la situazione nel paese d’origine consente un rimpatrio sicuro e stabile delle persone cui è stata concessa la protezione temporanea, nel rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché degli obblighi degli Stati membri in materia di non respingimento”. 109 rifugiati84, in misura proporzionale agli sforzi effettivamente sostenuti da questi ultimi. Gli Stati membri devono rilasciare alle persone ammesse alla protezione temporanea un titolo di soggiorno valido per l’intero arco della stessa. Si impegnano inoltre a garantire ai beneficiari: la possibilità di esercitare un’attività lavorativa, di accedere ai corsi di formazione professionale e ai tirocini nelle imprese (art. 12); l’accesso ad un alloggio adeguato e, in mancanza di risorse sufficienti, all’assistenza sociale, ai contributi di sostentamento e alle cure mediche (art. 13); la possibilità di accedere al sistema scolastico al pari dei cittadini dello Stato membro ospitante, ai minori, mentre agli adulti, l’accesso al sistema educativo generale (art. 14). I componenti di un medesimo nucleo familiare, come definito all’art. 15, che sono stati separati da circostanze legate all’afflusso di massa, possono usufruire del beneficio del ricongiungimento familiare; qualora i familiari siano stati ammessi alla protezione temporanea in differenti Stati membri, questi ultimi concorderanno, tenuto conto dei desideri dei soggetti coinvolti, il paese in cui deve avere luogo il ricongiungimento. Le condizioni in presenza delle quali viene concessa la protezione temporanea sono differenti dall’ambito applicativo della Convenzione di Ginevra, tuttavia tale condizione non pregiudica il riconoscimento dello status di rifugiato e i beneficiari della protezione temporanea devono poter essere in grado di presentare una domanda di asilo o di protezione sussidiaria. Cessata la protezione temporanea, gli sfollati che non abbiano diritto di soggiorno sulla base di altro titolo devono rientrare nel proprio paese. Nel caso di rimpatrio forzato, questo deve avvenire nel rispetto delle dignità umana e solo nel caso in cui non vi siano impellenti ragioni umanitarie che lo impediscano. In conclusione, se il meccanismo della protezione temporanea consente di prevedere una forma di tutela in un’ampia varietà di situazioni in cui non è possibile il rientro nel paese di origine, a causa delle condizioni in cui versa quest’ultimo, desta perplessità la circostanza che fino ad oggi non risulti nessuna decisione applicativa del Consiglio, benché vi siano state situazioni in cui il 84 Il Fondo europeo per i rifugiati è stato istituito con la decisione del Consiglio 2000/596/CE del 28 settembre 2000. Stabilito inizialmente per un quinquennio (2000-2004), è stato rinnovato per altri sei anni (2005-2010). Con la decisione 573/2007/CE (che abroga la decisione 2004/904/CE), nell’ambito del programma generale “Solidarietà e flussi migratori, è stato istituito il Fondo 110 meccanismo avrebbe potuto essere utilmente applicato85. La questione è di nuovo all’ordine del giorno a seguito della guerra civile siriana che sta costringendo milioni di persone ad abbandonare il paese e a cercare rifugio86. Il Consiglio italiano per i rifugiati ha richiesto al governo italiano di farsi promotore dell’applicazione, a livello comunitario, della protezione temporanea stabilita dalla direttiva in esame, nel caso in cui l’arrivo di profughi siriani nel territorio dell’Unione assuma le caratteristiche di un “afflusso di massa”. Come sottolineato dal presidente del CIR, Chistopher Hein, infatti, “lo strumento europeo non è mai stato applicato prima, ma era stato creato appositamente per chiare situazioni di pericolo e fuga massiva da aree di guerra. Qualora i numeri di profughi che arrivano in Europa divenisse ancora più alto, permetterebbe non solo di garantire da subito a tutti una protezione, ma anche una più equa distribuzione degli oneri di accoglienza dei profughi siriani tra i diversi Stati membri”87. 3.2 La direttiva in materia di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale Il 29 giugno 2013 è stata pubblica nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la nuova direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione)88, che modica le disposizioni contenute nella direttiva 2003/9/CE del Consiglio europeo del 27 gennaio 2003. europeo per i rifugiati per il periodo 2008-2013. Il testo della decisione è disponibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32007D0573:IT:NOT. 85 Nel 2011, il governo italiano aveva posto all’attenzione del Consiglio il fenomeno immigratorio proveniente dalla Tunisia (interessata all’epoca dalle rivolte contro il regime di Ben Ali, la c.d. rivoluzione dei gelsomini, che aveva costretto alla fuga verso le coste meridionali dell’Europa migliaia di tunisini), formulando espressamente la richiesta di attivazione della procedura prevista dalla direttiva in esame, in favore delle persone arrivate dal Nord Africa. Il Consiglio respinse la richiesta italiana. Per un approfondimento si veda NASCIMBENE, B., DI PASCALE, A., Italia fuori dall’UE?,in Affari Internazionali. Rivista online di politica, strategia ed economia, 13 aprile 2011, reperibile all’indirizzo www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1727. 86 Dal marzo 2011, data di inizio del conflitto siriano, sono 2.3 milioni i siriani che hanno abbandonato il loro paese. Il 98% è distribuito tra Libano, Giordania, Turchia e Iraq. Fonte: UNHCR. 87 Lettera del CIR al Presidente del Consiglio Letta, al Ministro dell’Interno Alfano e al Ministro degli Esteri Bonino, avente ad oggetto la richiesta di protezione temporanea per i profughi siriani che sono arrivati e che arriveranno nel prossimo futuro, in attuazione dell’art. 20 del T.U. Immigrazione (D.lgs. 286/1998). 88 Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, Gazzetta Ufficiale L 180/96 del 29 giugno 2013. Il termine di recepimento è il 21 luglio 2015. Il Regno Unito, l’Iralanda e la Danimarca non partecipano all’adozione della direttiva e non sono da essa vincolati, né soggetti alla sua applicazione. Il testo è disponibile all’indirizzo www.eurlex.europa.eu/LexUr iServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:180:0096:0116:IT:PDF. 111 Alla luce del Programma di Stoccolma, in cui viene reputato essenziale che ai richiedenti protezione internazionale, indipendentemente dallo Stato membro di inoltro della domanda, sia garantito un trattamento di livello equivalente, la direttiva si pone l’obiettivo dell’armonizzazione e del miglioramento delle condizioni di accoglienza, anche al fine di limitare i movimenti secondari dei richiedenti, determinati dalla non omogeneità del trattamento nei diversi Stati membri. Come sottolineato nei consideranda, al fine di garantire la parità di trattamento dei richiedenti, la direttiva dovrebbe applicarsi “in tutte le fasi e a tutti i tipi di procedure relative alla domanda di protezione internazionale, in tutti i luoghi e i centri di accoglienza dei richiedenti e purché siano autorizzati a soggiornare nel territorio degli Stati membri in qualità di richiedenti”89. Per quanto concerne l’ambito soggettivo di applicazione, l’art. 3 chiarisce che le disposizioni si applicano “a tutti i cittadini di paesi terzi e agli apolidi che manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro, comprese la frontiera, le acque internazionali o le zone di transito, purchè siano autorizzati a soggiornare in tale territorio in qualità di richiedenti, nonché ai familiari, se inclusi nella domanda di protezione internazionale ai sensi del diritto nazionale”90. Inoltre, anche allo scopo di assicurare la coerenza con l’acquis comunitario vigente in materia d’asilo e in particolare con la direttiva 2011/95/UE (c.d. direttiva qualifiche), l’ambito applicativo delle disposizioni in esame è stato esteso ai richiedenti protezione sussidiaria. Al capo II, vengono definiti, senza apportare modifiche rispetto alla previgente normativa, gli obblighi informativi posti a carico degli Stati membri, in merito ad ogni beneficio riconosciuto ai richiedenti, alle condizioni di accoglienza e alle organizzazioni che forniscono assistenza legale, oltre che supporto in generale. Si ribadisce inoltre l’obbligo delle autorità statali di fornire, entro tre giorni dalla presentazione della domanda di protezione, documenti attestanti lo status di richiedente, fatta salva l’ipotesi in cui il richiedente sia in stato di trattenimento, nel qual caso il rilascio è rimesso alla discrezionalità dello Stato membro ospitante. L’art. 7 sancisce il principio fondamentale della libera circolazione dei 89 Considerando n. 8. Per quanto concerne la definizione di familiari, contenuta nell’art. 1, lett. c), la nuova direttiva vi include i figli minori, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano a carico della coppia. 90 112 richiedenti nel territorio dello Stato membro ospitante o nell’area loro assegnata, pur lasciando agli Stati la possibilità di stabilire un luogo di residenza per motivi di pubblico interesse, ordine pubblico o, se necessario, per l’esame rapido ed efficace della domanda di protezione. Tali disposizioni consentono quindi agli Stati di confinare i richiedenti asilo in campi di accoglienza o di raccolta, limitando di fatto la loro libertà di circolazione. Inoltre qualora il soggetto lasci i luoghi assegnategli, ciò può comportare una revoca della condizioni materiali d’accoglienza (art. 20, lett. a). La direttiva contiene quattro articoli relativi al trattenimento, previsioni non previste dalla precedente direttiva in materia. Nella relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull’applicazione della direttiva 2003/9/CE, del novembre 2007, si denunciava che sette paesi, tra cui l’Italia, non applicavano la direttiva nei centri di permanenza temporanea91. Il documento, pur ribadendo la possibilità del trattenimento, ne affermava il carattere di misura eccezionale, cui è possibile fare ricorso solo “ove risultasse necessario” e previa valutazione della situazione della persona interessata. Si evidenziava inoltre la disparità di applicazione del provvedimento nei diversi Stati membri92. La direttiva 2013/33/UE interviene a regolare maggiormente la possibilità di trattenimento, stabilendo che nessuna persona può essere trattenuta per il solo fatto di chiedere protezione internazionale e che la misura può essere disposta solo a seguito di una specifica valutazione del caso, come extrema ratio. L’art. 8 par. 3 definisce restrittivamente le circostanze eccezionali che rendono legittimo il trattenimento, che deve avvenire in ogni caso nel pieno rispetto della dignità umana. Il trattenimento, la cui durata deve essere più breve possibile93, è disposto con atto scritto dell’autorità giudiziaria o amministrativa (in quest’ultimo caso l’autorità giudiziaria verifica la legittimità della misura, d’ufficio o su istanza di 91 Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull'applicazione della direttiva 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003, recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli stati membri, Bruxelles 26 novembre 2007, COM(2007) 745, p. 3, disponibile all’indirizzo www.eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2007:0745:F IN:IT:PDF. 92 “Tutti gli Stati membri prevedono il trattenimento per vari motivi, dalle circostanze eccezionali (Germania) al trattenimento di tutti i richiedenti asilo entrati illegalmente nel territorio dello Stato membro, salvo quelli aventi esigenze particolari (Malta). Analogamente, la durata del trattenimento varia da 7 giorni (Portogallo) a 12 mesi (Malta e Ungheria), o può addirittura essere a tempo indeterminato (Regno Unito e Finlandia). Ivi, p. 7. 113 parte, entro un termine stabilito dal diritto interno di ciascuno Stato membro), che verrà riesaminato periodicamente. Il soggetto interessato ha diritto all’assistenza e alla rappresentanza legale, gratuite nel caso non disponga di risorse sufficienti. L’art. 10 descrive inoltre le condizioni di trattenimento, sottolineando in particolare che, per quanto possibile, i richiedenti sono tenuti separati dagli altri cittadini di paesi terzi non richiedenti la protezione internazionale. Disposizioni particolari sono previste per i soggetti più vulnerabili o con esigenze particolari, quali i minori, i minori non accompagnati e i soggetti con problemi di salute, anche mentale. Gli Stati si impegnano inoltre a mantenere l’unità del nucleo famigliare (art. 12), consentono l’accesso al sistema educativo ai richiedenti minori e ai figli minori di richiedenti (art.13), garantiscono l’ingresso nel mercato del lavoro, anche se per ragioni connesse alle politiche comunitarie in materia possono privilegiare i cittadini dell’Unione o di paesi terzi regolarmente soggiornanti (art. 15)94, e possono autorizzare l’accesso alla formazione professionale, indipendentemente da quello al lavoro (art. 16). Le disposizioni relative alle condizioni materiali di accoglienza ribadiscono il diritto all’accoglienza, ovvero ad “una adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale”, dal momento in cui viene manifestata la volontà del soggetto di richiedere la protezione internazionale. Questo diritto può essere limitato solo nel caso in cui il soggetto disponga di risorse economiche adeguate alla sua sussistenza. Per quanto concerne le modalità relative all’accoglienza, tra le novità introdotte dalla direttiva del 2013, si sottolineano in particolare: la possibilità per i familiari dei richiedenti di aver accesso alle strutture al fine di fornire assistenza ai medesimi, prima limitata agli avvocati, ai consulenti legali e ai rappresentanti dell’UNHCR; l’attenzione nei confronti delle differenza di genere, di età e delle persone con bisogni particolari all’interno degli alloggi o nei campi di accoglienza; l’adozione di misure per prevenire in particolare la violenza di genere, compresa la violenza 93 L’art. 9, par. 1, secondo capoverso, specifica che “ritardi nelle procedure amministrative non imputabili al richiedente non giustificano un prolungamento del trattenimento”. 94 L’accesso al mercato del lavoro deve avvenire entro nove mesi dall’inoltro della domanda di protezione, nei casi in cui la competente autorità non abbia adottato una decisione in primo grado e il ritardo non è determinato dal comportamento del richiedente. Inoltre l’accesso non è revocato in caso di ricorso contro una decisione negativa in merito alla richiesta di protezione, quando il 114 sessuale e le molestie all’interno delle strutture di accoglienza; la possibilità per gli adulti dipendenti con esigenze particolare di alloggiare insieme a parenti stretti, o che ne sono comunque responsabili secondo le legge o la prassi del paese ospitante. Sono inoltre ridotti i casi in cui è possibile per gli Stati membri derogare a quanto previsto in questo ambito dalla direttiva. L’art. 18, par. 9 infatti consente diverse modalità di accoglienza, solo per un periodo di durata limitata, qualora: “a) sia richiesta una valutazione delle esigenze specifiche del richiedente, ai sensi dell’articolo 22, b) le capacità di alloggio normalmente disponibili siano temporaneamente esaurite”. Nel Capo III vengono elencati i casi in cui può essere disposta la riduzione o la revoca delle condizioni materiali di accoglienza, ovverosia: qualora il richiedente abbandoni il proprio luogo di residenza senza informare la prescritta autorità, contravvenga all’obbligo di presentarsi per fornire informazioni o di comparire ad un colloquio inerente alla procedura di esame della richiesta di protezione, abbia presentato una domanda reiterata ai sensi dell’art. 2, lett.q), della direttiva 2013/32/UE. In conclusione, tra le ulteriori novità introdotte dalla direttiva 2013/33/UE si segnalano, l’allargamento della categoria delle persone vulnerabili95, per cui è prevista un’apposita procedura volta alla valutazione delle esigenze particolari (che non deve essere di carattere amministrativo), e una disciplina maggiormente dettagliata in merito all’accesso all’assistenza e alla rappresentanza legali gratuite, in caso di ricorso avverso la decisione relativa alla concessione della protezione, contenuta nel Capo V. 3.3 La direttiva 2011/95/UE recante norme per l’attribuzione della qualifica di beneficiario di protezione internazionale Il 21 dicembre 2013 è scaduto il termine per il recepimento della direttiva 2011/95/UE recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme ricorso ha effetto sospensivo e fino alla notifica della decisione negativa in merito a quest’ultimo (art. 15, par. 1-3). 95 L’art. 21 include nella categoria delle persone vulnerabili, accanto a minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o 115 per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, del 13 dicembre 201196. Il testo, che modifica la precedente direttiva 2004/83/CE, non ne innova radicalmente il contenuto, ma ne specifica e precisa concetti, come a voler costruire una sorta di “glossario comune” per gli Stati membri dell’Unione, il cui scopo primario è il miglioramento degli standard medi di protezione internazionale. Per il perseguimento di quest’ultimo obiettivo la giurisprudenza, tanto della Corte di Giustizia dell’Unione europea, quanto della Corte europea dei diritti dell’uomo, riveste un ruolo fondamentale. Nel dodicesimo considerando si legge “lo scopo principale della presente direttiva è quello, da una parte, di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e, dall’altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri”. Il ravvicinamento delle legislazioni nazionali relative al riconoscimento e agli elementi fondamentali dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria dovrebbe limitare il c.d. asylum shopping, ovvero il movimento secondario dei richiedenti verso gli Stati membri dove le domande hanno maggiori probabilità di essere accolte o dove le condizioni di accoglienza sono più favorevoli97. Nel Capo I, dedicato alle disposizioni generali, è contenuta la definizione di protezione internazionale, una nozione composita, comprendente lo status di rifugiato e lo status di protezione sussidiaria (art. 2, lett. a)98. La qualifica di sessuale, quali le vittime di mutilazioni genitali femminili, anche le persone vittime della tratta degli esseri umani e le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali. 96 Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, Gazzetta Ufficiale L 337/9 del 20 dicembre 2011. Il Regno Unito e l’Irlanda non partecipano all’adozione del presente atto e non sono da quest’ultimo vincolati, tuttavia continuano ad applicare la precedente direttiva 2004/83/CE che hanno adottato in forza dell’art. 3 del Protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda, allegato al TUE e al TFUE. La Danimarca non partecipa all’adozione e non è vincolata dalla presente direttiva in virtù del protocollo sulla sua posizione allegato ai Trattati. Per quanto concerne il nostro paese, la Legge di delegazione europea 2013 (L. 6 agosto 2013, n. 96), all’art. 7, contiene principi e criteri direttivi per l’attuazione della presente direttiva. Il testo è reperibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:337:0009:0026:IT:PDF. 97 Anche la precedente direttiva del 2004 intendeva uniformare l’interpretazione e l’applicazione della definizione di rifugiato, per porre fine a quella che era stata definita la “lotteria euopea dell’asilo”. V. ECRE, Europe Must End Asylum Lottery, 4 november 2004, www.ecre.org. 98 Come osservato da FAVILLI, “la normativa adottata dall’Unione ha il merito di aver realizzato un inquadramento sistematico di queste diverse forme di protezione e di aver regolato le fattispecie diverse dal diritto d’asilo che non avevano ancora avuto un’autonoma e completa disciplina. […] La nozione di protezione internazionale risulta quindi essere più estensiva di quella 116 rifugiato, il cui riconoscimento è un atto meramente declaratorio, viene integralmente ripresa dalla definizione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra99, integrata tenendo conto della prassi e dalle linee-guida formulate dall’UNHCR. Anche la direttiva, come la Convenzione, non definisce il concetto di persecuzione ma stabilisce cosa si debba intendere per atti persecutori100, motivi di persecuzione101 e soggetti responsabili della persecuzione102. Quanto ai soggetti che possono offrire protezione, l’art. 7 contempla, oltre allo Stato, partiti o organizzazioni, anche internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio e che abbiano la volontà e la capacità di offrire protezione. L’elencazione, da considerarsi esaustiva, è completata al secondo paragrafo del medesimo articolo, dalla specificazione che la protezione offerta deve essere effettiva e non temporanea103. di asilo e come tale tende a fornire ai richiedenti protezioni maggiori possibilità di tutela”. V. FAVILLI C., op. cit., p. 125-126. 99 La Convenzione di Ginevra e il Protocollo del 1967 sono definiti nel quarto considerando, “la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati”. 100 L’art. 9 afferma che sono atti di persecuzione ai sensi dell’art 1A della Convenzione quelli che “sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da costituire una violazione grave dei diritti umani fondamentali” o che “costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani” di elevata gravità. Il medesimo articolo, al secondo paragrafo, elenca la forma che possono assumere gli atti rientranti nella definizione. 101 I motivi di persecuzione sono la razza, la religione, la nazionalità, l’opinione politica e l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, puntualmente definiti dall’art. 10. Una novità rispetto alla previgente direttiva, per quanto attiene alla definizione dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, è la necessaria valutazione delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere. Nella recente sentenza sul caso X, Y e Z c. Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel (cause C-199/12, C200/12 e C-201/12, riunite) del 7 novembre 2013, la Corte di Giustizia ha inoltre affermato che i richiedenti asilo possono configurare un particolare gruppo sociale e che l’esistenza nel paese di origine di una pena detentiva per atti omosessuali qualificati come reato può, di per se, costituire un atto di persecuzione, purché tale pena trovi effettivamente applicazione. 102 Per quanto attiene alla definizione dei soggetti rientranti nella nozione di agente di persecuzione, prima dell’adozione della direttiva 2004/83/CE si registrava una notevole divergenza tra gli Stati membri. Alcuni ritenevano ammissibile la protezione solo contro persecuzioni perpetrate da organi statali, altri invece ritenevano sufficiente l’incapacità dello Stato di garantire protezione, indipendentemente dalla fonte, pubblica o privata, della persecuzione. L’art. 6 sancisce che gli autori della persecuzione possono essere, oltre allo Stato e a partiti o organizzazioni che hanno il controllo del territorio, anche soggetti non statuali, se è dimostrato che lo Stato o le organizzazioni suddette, non siano in grado o non vogliano fornire protezione. 103 Questa precisazione, introdotta dalla direttiva 2011/95/UE è di grande importanza. La Commisione nella proposta di modifica della precedente direttiva, aveva infatti osservato che alcuni Stati avevano interpretato estensivamente la norma, al punto da rischiare di vanificare la nozione di protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra, affermando che “la semplice volontà di proteggere non è sufficiente se manca la capacità di proteggere”. Si veda COMMISSIONE, proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione), COM(2009)551 del 21 ottobre 2009, p. 7, disponibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2009:0551:FIN:IT:PDF. 117 L’art. 8 dell’abrogata direttiva consentiva agli Stati membri di negare al richiedente la protezione internazionale se, in un’area del paese d’origine, non vi era il rischio fondato di persecuzioni o di altri danni gravi, indipendentemente dalla presenza di ostacoli tecnici al rientro del soggetto interessato. In seguito alle critiche sollevate dall’UNHCR e a quanto affermato dalla Corte europea dei diritti umani, che ha chiaramente ribadito come le aree di un paese per essere considerate sicure devono garantire che la persona non corra alcun rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3 CEDU104, la nuova direttiva del 2011 ha introdotto delle clausole maggiormente restrittive per l’operare della c.d. protezione interna. Il richiedente deve poter, “legalmente e senza pericolo”, raggiungere l’area ritenuta sicura, esservi ammesso e deve potersi ragionevolmente presumere che vi si stabilisca105. Viene inoltre aggiunto l’obbligo per gli Stati di disporre di informazioni precise e aggiornate provenienti da fonti appropriate, quali l’UNHCR e l’EASO. Per quanto concerne la cessazione dello status di rifugiato (e di protezione sussidiaria, art. 16, par. 3), viene introdotta un’eccezione, nel caso in cui pur essendo venute meno le circostanze che ne hanno determinato il riconoscimento, il soggetto interessato “possa invocare l’esistenza di motivi di imperio derivanti da precedenti persecuzioni tali da rifiutare di avvalersi della protezione del proprio paese di origine106. Una delle maggiori innovazioni del sistema europeo d’asilo è la previsione dell’istituto della protezione sussidiaria, introdotto dalla direttiva qualifiche del 2004, con l’obiettivo di offrire protezione anche alle situazioni che non sono riconducibili al limitato ambito applicativo della Convenzione di Ginevra. Tale istituto, sussidiario rispetto all’asilo, disciplina l’ipotesi in cui il cittadino di un paese terzo o apolide, pur non possedendo i presupposti per la concessione dello status di rifugiato, abbia comunque “fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno” e quindi non può o non vuole avvalersi della protezione di detto paese. A norma dell’art. 15, “sono considerati danni gravi: a) la condanna o 104 Corte EDU, sent. 11 gennaio 2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi, ric. 1948/04, par. 138-149. È stato eliminato il terzo paragrafo che prevedeva la possibilità per gli Stati di ricorre alla protezione interna “nonostante ostacoli tecnici al ritorno nel paese d’origine”. 105 118 l’esecuzione della pena di morte; o b) la tortura o alta forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese d’origine; o c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Occorre notare che le prime due fattispecie sono chiaramente ispirate agli art. 2 e 3 della CEDU nonché agli art. 2 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Innovativa è invece la terza ipotesi che, riconoscendo un diritto alla protezione nei casi di rischio derivante da situazioni di violenza indiscriminata, quali i conflitti armati, ampia notevolmente le possibilità di tutela. L’interpretazione di quest’ultima fattispecie come un nuovo genus rispetto alla protezione offerta dalla Convenzione europea è stata avvalorata dalla Corte di Giustizia nella sentenza sul caso Elgafaji107. La Corte ha affermato che “l’art. 15 c) della direttiva è una disposizione con un contenuto diverso da quello dell’art. 3 della CEDU e deve pertanto essere interpretato autonomamente, salvo restando però il rispetto dei diritti fondamentali come garantiti dalla CEDU”. I giudici hanno inoltre dichiarato che il termine “individuale” deve intendersi “nel senso che esso riguarda danni contro civili a prescindere dalla loro identità, qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, […] raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la minaccia grave di cui all’art. 15, lett. c), della direttiva”108. In definitiva la Corte afferma che l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova che egli sia interessato in modo specifico in ragione della sua situazione personale109. Per quanto concerne il contenuto della protezione internazionale, va osservato 106 Convenzione di Ginevra, art. 1, lett. C(5). CGUE, sent. 17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, European Court Reports 2009, p. I-921. Il testo della sentenza è reperibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62007J0465:EN:NOT. 108 Sent. cit., par. 35. 109 Come osservato da ADINOLFI A., “l’orientamento accolto dalla Corte di Giustizia rafforza l’ambito applicativo di tale forma di protezione prescindendo dall’esigenza che sia dimostrato un ‘rischio soggettivo’; ciò valorizza il contributo che la Comunità fornisce all’estensione della protezione internazionale riguardo a rischi ulteriori rispetto a quelli coperti dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione europea dei diritti umani”, in ADINOLFI, A., op. cit., p. 686. 107 119 che la nuova direttiva avvicina il contenuto dello status di protezione sussidiaria a quello dello status di rifugiato, limitando di fatto la possibilità per gli Stati membri di riconoscere soltanto a questi ultimi taluni diritti. In primo luogo, il permesso di soggiorno ex art. 24, rilasciato ai beneficiari di protezione sussidiaria della durata di un anno, deve essere valido, in caso di rinnovo, per un periodo non inferiore a due anni. Si riduce in questo modo lo scarto in precedenza esistente tra quest’ultimo permesso e quello concesso ai titolari dello status di rifugiato, la cui durata è pari a tre anni110. Riguardo al documento di viaggio, rilasciato allo scopo di permettere ai beneficiari spostamenti al di fuori del loro territorio, per i titolari di protezione sussidiaria viene eliminata la clausola che ne consentiva il rilascio soltanto in caso di “gravi ragioni umanitarie che rendano necessaria la loro presenza in un altro stato”, mentre permane il requisito dell’impossibilità di ottenere un passaporto nazionale (art. 25, par. 2). In materia di accesso all’occupazione, all’assistenza sanitaria111, e agli strumenti di integrazione (art. 26, 30, 34), lo status di protezione sussidiaria è ora perfettamente equiparato a quello di rifugiato, come già accadeva, in virtù della precedente direttiva, in materia di accesso all’istruzione e all’assistenza sociale (art. 27, 29). Inoltre, relativamente al riconoscimento delle qualifiche, a cui la nuova normativa dedica un apposito articolo, gli Stati membri, oltre a garantire ai beneficiari di protezione internazionale la parità di trattamento con i cittadini, devono adoperarsi per facilitare, a coloro che non possiedono prove documentali delle qualifiche possedute, l’accesso a sistemi adeguati di valutazione, convalida e accreditamento della precedente formazione. Infine, in materia di alloggio, l’art. 32, oltre a ribadire il diritto di accesso a quest’ultimo per i titolari di protezione internazionale, alle stesse condizioni previste per i cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti, prevede, al secondo paragrafo, l’obbligo per gli Stati di impegnarsi per attuare politiche dirette a prevenire le discriminazioni e a garantire pari opportunità ai beneficiari della protezione. 110 È opportuno sottolineare la proposta, non accolta, della Commissione di prolungare la durata minima del permesso dei titolari di protezione sussidiaria a tre anni, come per i rifugiati. 111 Circa l’assistenza sanitaria, si aggiunge l’obbligo per gli Stati membri di fornire un adeguato trattamento dei disturbi psichici ai titolari di protezione internazionale che presentino particolari 120 3.4 Le procedure comuni per il riconoscimento o la revoca della protezione internazionale A seguito dei rilievi critici formulati oltre che dall’UNHCR112 e dall’ECRE113, anche dalla stessa Commissione europea114, in merito all’applicazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato115, e dell’impegno assunto con il Programma di Stoccolma, di garantire a coloro che necessitano di protezione internazionale l’accesso a procedure di asilo eque ed efficaci, uniformi in tutti gli Stati membri, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato la direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale116, che opera una rifusione della precedente direttiva. Come affermato nel dodicesimo considerando, l’obiettivo primario della nuova direttiva è l’ulteriore sviluppo delle norme relative alle procedure applicate negli Stati membri al fine del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale, così da istituire una procedura comune d’asilo nell’Unione. Il ravvicinamento delle normative nazionali in materia dovrebbe contribuire sia a limitare il fenomeno del c.d. asylum shopping, sia a creare condizioni uniformi per l’applicazione della c.d. direttiva qualifiche117. esigenze, quali le donne in stato di gravidanza, i disabili e coloro che sono stati vittime di torture, stupri e altre gravi forme di violenza fisica, psichica o sessuale (art. 30, par. 2). 112 UNHCR, Improving Asylum Procedures: Comparative Analysis and Recommendations for Law and Practice, marzo 2010, disponibile all’indirizzo www.unhcr.org/4ba9d99d9.html. 113 ECRE, Information Note on the Council Directive 2005/85/CE of 1 December 2005 on minimum standards on procedures in Member States for granting and withdrawing refugee status, IN1/10/2006/EXT/JJ, ottobre 2006, reperibile all’indirizzo www.refworld.org/pdfid/464317ab.pdf. 114 Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull'applicazione della direttiva 2005/85/ce del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, COM(2010) 465, Bruxelles, 8 settembre 2010, consultabile all’indirizzo http://www.parlamento.it/web/docuorc2004.nsf/a4f26d6d511195f0c12576900058cac9/e2ecf039d5 842953c125779d006295e5/$FILE/COM2010_0465_IT.pdf. 115 Direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005, Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 326/13 del 13 dicembre 2005. Il testo della direttiva è disponibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2005:326:0013:0034:IT:PDF. 116 Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 180/60 del 29 giugno 2013. La Danimarca, la Gran Bretagna e l’Irlanda, in forza dei rispettivi protocolli (n. 22 e n. 21) allegati al TUE e al TFUE, non partecipano all’adozione della direttiva né sono da quest’ultima vincolati o soggetti alla sua applicazione. Il termine per il recepimento della direttiva è il 21 luglio 2015. L’atto è disponibile all’indirizzo www.eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:180:0060:0095:IT:PDF. 117 Considerando n. 13. 121 Per quanto concerne l’ambito di applicazione, la nuova direttiva riguarda non solo le domande di protezione presentate nel territorio, alla frontiera o nella zone di transito degli Stati membri, ma anche quelle avanzate nelle acque territoriali. In merito all’accesso alla procedura, le domande possono essere presentate personalmente, anche dai minori in possesso della capacità di agire in giudizio, oppure, se la normativa nazionale lo consente, da un richiedente a nome delle persone a suo carico. L’art. 6, innovando rispetto alla previgente direttiva, impone agli Stati membri termini precisi per la registrazione della domanda di protezione: tre giorni lavorativi dalla data di presentazione, se questa è effettuata a un’autorità competente a registrare tali domande; sei giorni lavorativi, se la domanda è stata presentata a un’autorità preposta a riceverla ma non competente per la registrazione. Nel caso in cui vi sia un elevato numero di domande simultanee di protezione, tali termini possono essere prorogati di dieci giorni lavorativi. Un’ulteriore novità è la previsione, contenuta nell’art. 8, dell’obbligo per gli Stati membri di fornire informazioni e consulenza ai cittadini di paesi terzi o apolidi presenti nei centri di trattenimento o ai valichi di frontiera, che desiderino presentare una domanda di protezione internazionale118. Il Capo II prevede una serie di garanzie per i richiedenti, tra cui si ricordano: il diritto del richiedente di essere informato circa la procedura da seguire e dei suoi diritti e obblighi durante il corso della medesima (art. 12); la facoltà di sostenere un colloquio personale in merito alla domanda di protezione, in cui poter presentare tutti gli elementi necessari a motivare la domanda (artt. 14-17); la possibilità di disporre una visita medica concernente i segni che potrebbero indicare persecuzioni o danni gravi subiti119 (art. 18); l’accesso nelle procedure di primo grado ad informazioni giuridiche e procedurali gratuite o, in alternativa, all’assistenza e alla rappresentanza legali gratuite. Queste ultime sono concesse anche nelle procedure di impugnazione di cui al Capo V (art. 20). Maggiori cautele sono inoltre previste per i richiedenti che necessitano di garanzie 118 Ai sensi dell’art. 8, par. 2, l’accesso ai valichi di frontiera da parte di organizzazioni o persone che prestano assistenza e consulenza può essere limitato solo se necessario per la sicurezza, l’ordine pubblico o la gestione amministrativa dei valichi. I limiti non devono in ogni caso rendere l’accesso eccessivamente ristretto o impossibile. 119 Nel caso sia ritenuto necessaria al fine della valutazione della domanda, la visita medica può essere disposta dagli Stati membri, previo consenso del richiedente, o in caso contrario può essere richiesta direttamente da quest’ultimo. Gli esiti della visita saranno valutati dall’autorità accertante insieme agli altri elementi della domanda (art. 18, par. 3). 122 procedurali particolari120 e per i minori non accompagnati. L’art. 26, relativo al trattenimento, ribadisce che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo motivo che si tratta di un richiedente”. La presente direttiva, innovando rispetto alla precedente, che prevedeva soltanto la possibilità, in caso di trattenimento, di un rapido sindacato giurisdizionale, aggiunge che i motivi, le condizioni del trattenimento e le garanzie per i richiedenti trattenuti sono conformi alla direttiva 2013/33/UE121. Il Capo III della direttiva è dedicato alle norme che regolano le procedure di esame della domanda di protezione internazionale in primo grado. Per quanto concerne specificamente i termini per l’espletamento della procedura, l’art. 31, dopo aver affermato che quest’ultima deve essere espletata entro sei mesi dalla presentazione della domanda, decorrenti in caso di domanda oggetto della procedura Dublino ai sensi del regolamento 604/2013, dal momento in cui è determinato lo Stato membro competente, prevede varie possibilità di proroga122. Una novità rilevante consiste nella possibilità per gli Stati di esaminare in via prioritaria una domanda di protezione internazionale, qualora questa sia verosimilmente fondata o nel caso il cui il richiedente necessiti di particolari garanzie procedurali o si tratti di minore non accompagnato (art. 31, par. 7). Viene ribadita inoltre la possibilità per gli Stati di prevedere, al verificarsi di determinate circostanze enunciate nel paragrafo 8, una procedura d’esame accelerata e/o svolta alla frontiera123 o nelle zone di transito124. 120 Ai sensi dell’art. 2, lett. d), per richiedente che necessita di garanzie procedurali particolari, si intende il richiedente la cui capacità di godere dei diritti e adempiere agli obblighi previsti dalla presente direttiva è limitata a causa di circostanze individuali. 121 Direttiva recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione), artt. 8-10, vedi supra, p. 113. 122 Ai sensi dell’art. 31, par. 3, terzo comma, gli Stati membri possono prorogare il temine di sei mesi per ulteriori nove mesi, se: il caso concerne questioni complesse (in fatto e/o in diritto); vi è un gran numero di richieste simultanee di protezione; il ritardo è attribuibile alla mancata osservanza degli obblighi previsti dall’art. 13 da parte del richiedente asilo. In circostanze eccezionali opportunamente motivate, quest’ultimo termine può essere superato di tre mesi, laddove sia necessario per un esame adeguato e completo della domanda di protezione. Il quarto paragrafo prevede inoltre che gli Stati membri inoltre possono rimandare la conclusione della procedura “se non si può ragionevolmente attendere che l’autorità accertante decida entro i termini previsti al paragrafo 3 a causa di una situazione incerta nel paese di origine che sia presumibilmente temporanea”. Anche in quest’ultimo caso è previsto un termine massimo per la conclusione della procedura, 21 mesi dalla presentazione della domanda. 123 È opportuno sottolineare che non è più possibile per gli Stati mantenere in vigore procedure che derogano ai principi fondamentali e alla garanzie di cui al Capo II della direttiva, come previsto dall’art. 35, par. 2 della direttiva 2005/85/CE. 124 Gli Stati devono prevedere in ogni caso dei termini ragionevoli entro cui la procedura d’esame deve concludersi. 123 Tra le disposizioni contenute nel Capo III si trovano anche quelle maggiormente criticate, che presentano i concetti di “paese di primo asilo”, “paese di origine sicuro”, “paese terzo sicuro” e “paese terzo europeo sicuro”125, rilavanti circa la valutazione di una domanda come infondata o inammissibile. L’art. 26 definisce il concetto di paese di primo asilo, affermando che può essere considerato tale per un richiedente, lo Stato in cui quest’ultimo sia stato riconosciuto “quale rifugiato e possa ancora avvalersi di tale protezione” o in cui goda altrimenti di protezione sufficiente (ivi compresa la possibilità di beneficiare del principio di non-refoulement), purché sia ammesso in tale paese. Per quanto concerne il concetto di paese terzo sicuro, è tale per un richiedente lo Stato in cui: non vi sono minacce alla sua vita o alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato gruppo sociale; non sussiste il rischio di un danno grave, come definito nella direttiva 2011/95/UE; è rispettato il principio di non-refoulement; è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture o altri trattamenti inumani o degradanti; esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e di ottenere protezione in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951126. Nel caso in cui un paese non membro dell’Unione europea è considerato paese terzo sicuro o paese di primo asilo per il richiedente, gli Stati membri possono giudicare la domanda di protezione presentata da quest’ultimo inammissibile, ferma restando la possibilità per il richiedente di contestare l’applicazione di questi concetti a motivo delle circostanze specifiche che lo riguardano. Nella circostanza in cui un paese terzo designato come paese di origine sicuro ai sensi dalla direttiva in esame127, può essere considerato paese di origine sicuro per un determinato richiedente, la sua domanda può essere ritenuta infondata 125 V. SPATTI M., La disciplina comunitaria relativa all’allontanamento dei richiedenti asilo verso “Paesi sicuri”, in Diritto pubblico comparato europeo, n. 1, 2007, p. 217 ss. 126 Art. 38, par. 1, lett. a) – e). 127 I criteri di “sicurezza”, indicati nell’allegato I, consistono nella valutazione dell’inesistenza di persecuzioni, torture o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, pericoli a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o internazionale. La valutazione deve essere compiuta avendo riguardo: alle norme e prassi nazionali; al rispetto dei diritti e delle libertà sanciti nella CEDU e/o nel Patto internazionale sui diritti civili e politici e/o nella Convenzione ONU contro la tortura; al rispetto del principio di non-refoulement come stabilito nelle Convenzione di Ginevra; all’esistenza di rimedi efficaci contro le violazioni di tali diritti e libertà. Occorre notare che la presente direttiva non contempla più l’adozione di un elenco comune 124 dall’autorità accertante (art. 32). Il richiedente, come stabilito dall’art. 36, deve essere in possesso della cittadinanza di quel paese ovvero in caso di apolide, avervi soggiornato abitualmente in precedenza, e non deve aver invocato gravi motivi per ritenere che, in riferimento alle sue circostanze specifiche, quel paese non sia un paese di origine sicuro. L’art. 39, elabora il concetto di paese terzo europeo sicuro, affermando che, se il richiedente sta cercando di entrare o è entrato illegalmente da un paese che “ha ratificato o osserva la Convenzione di Ginevra senza limitazioni geografiche; dispone di una procedura di asilo prescritta dalla legge; e ha ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e ne rispetta le disposizioni, comprese le norme riguardanti i ricorsi effettivi”, lo Stato membro a cui è stata presentata la domanda, può prevedere che l’esame di quest’ultima non sia svolto o non sia condotto in maniera esauriente128. Il richiedente ha la facoltà di impugnare l’applicazione del concetto in esame se ritiene che il paese non è sicuro in relazione alle sue condizioni specifiche. Il Capo IV disciplina le procedure di revoca della protezione internazionale qualora emergano elementi o risultanze nuovi, dai quali risulti che vi sono motivi per procedere al riesame della validità della protezione accordata. Il richiedente deve essere informato per iscritto in merito alla procedura di riesame e deve poter esporre in un colloquio personale o dichiarare per iscritto i motivi che ostano alla revoca della protezione (art. 45, par. 1). Le procedure di impugnazione sono disciplinate nel Capo V. Come affermato dall’art. 46, il richiedente ha diritto ad un ricorso effettivo avverso le seguenti ipotesi: la decisione sulla domanda di protezione internazionale, compresi i casi in cui questa è dichiarata inammissibile, infondata, presa alla frontiera o nelle zone di transito, non esaminata ai sensi dell’art. 39; il rifiuto di continuare l’esame della minimo dei paesi terzi considerati dagli Stati membri paesi di origine sicuri, prevista dall’art. 29 della precedente direttiva procedura. 128 Come ha osservato parte della dottrina, da questa disposizione discendono conseguenze non trascurabili. Paesi come l’Albania, la Croazia, la Macedonia, la Bielorussia e la Serbia sembrerebbero infatti essere inclusi nel concetto di paese terzo europeo sicuro. Ma, come rilevato da COSTELLO C., “many of these countries, although they may have adopted asylum laws, implement them only in a very limited fashion and in effect cannot provide access to a proper procedure. As such, transferring applicants to these countries may amount to a denial of international protection. Indeed, there is much evidence to rebut any generalised assumption of safety in relation to these countries”. V. COSTELLO C., The Asylum Procedure Directive in Legal Context: Equivocal Standards Meet General Principles, in BALDACCINI A., GUILD E., TONER H. (edited by), Whose Freedom, Security and Justice? EU Immigration and Asylum Law 125 domanda, nel caso in cui questo sia stato sospeso per ritiro implicito o rinuncia alla stessa; la decisione di revoca della protezione a norma dell’art. 45. Innovando rispetto alla precedente direttiva, viene previsto per le persone ritenute ammissibili alla protezione sussidiaria, il diritto di ricorre avverso la decisione di inammissibilità in relazione allo status di rifugiato, nel caso in cui i diritti e i vantaggi riconosciuti ai beneficiari di protezione sussidiaria non siano equivalenti a quelli garantiti ai rifugiati. I richiedenti sono autorizzati a permanere nel territorio dello Stato membro fino alla scadenza del termine fissato per presentare ricorso e, nel caso di ricorso presentato nei termini prescritti, fino all’esito del medesimo129. 3.5 Il Sistema Dublino: il regolamento 604/2013, c.d. Dublino III e il regolamento Eurodac Il Sistema Dublino, considerato una “pietra miliare” nella costruzione del Sistema europeo comune d’asilo, è costituito dal regolamento 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio130, c.d. Dublino III, che stabilisce i criteri e i meccanismi per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, e dal regolamento 603/2013131 istitutivo dell’Eurodac, la and Policy, Hart Publishing, Oxford, 2007, p. 163. Ai sensi del par. 6, qualora la domanda sia stata dichiarata infondata, inammissibile, non sia stata esaminata ex art. 39 o la richiesta di riapertura del caso sia stata respinta, la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro sarà decisa da un giudice, su istanza di quest’ultimo o d’ufficio, a condizione che il richiedente disponga dell’assistenza legale necessaria e di almeno una settimana di tempo per preparare la domanda e gli argomenti da presentare al giudice a sostegno della sua richiesta di permanenza. In caso contrario il soggetto sarà in ogni caso autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato fino alla scadenza del termine per proporre ricorso o, in caso di ricorso proposto nei termini, fino all’esito di quest’ultimo. Ai sensi del par. 8 in attesa della decisione del giudice, il soggetto è autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato. 130 Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 180/32 del 29 giugno 2013. Ai sensi dell’art. 49, il regolamento si applica alle domande di protezione internazionale presentate dal 1° gennaio 2014; per le domande inoltrate prima di tale data si applicano le disposizioni del regolamento (CE) 1560/2003, c.d. Dublino II. Oltre ai paesi UE, il regolamento, in forza di accordi internazionali, vincola anche l’Islanda, la Norvegia, la Svizzera e il Liecthenstein. Il Regno Unito e l’Irlanda, in virtù del Protocollo sulla loro posizione allegato ai Trattati, hanno notificato la volontà di partecipare all’adozione e all’applicazione del regolamento; la Danimarca, a norma degli art. 1 e 2 del Protocollo n. 22 allegato al TUE e al TFUE non è vincolata dal regolamento. 131 Regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 180/1 del 29 giugno 2013. Ai sensi dell’art. 45 il regolamento abroga, con effetti a partire dal 20 luglio 2015, il regolamento (CE) 2725/2000 del Consiglio, che istituisce l’“Eurodac” per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione della Convenzione di Dublino e il regolamento (CE) 407/2002 del Consiglio che 129 126 banca dati europea per il confronto delle impronte digitali sia degli immigrati irregolari che dei richiedenti protezione, per l’efficace applicazione della c.d. procedura Dublino. Al fine di porre rimedio alle criticità riscontrate, sia per quanto riguarda l’attuazione pratica che l’efficacia del sistema132, e del raggiungimento dell’obiettivo, fissato dal Programma di Stoccolma, di costruire uno spazio comune di protezione e solidarietà per coloro che necessitano di protezione internazionale, il 26 giugno 2013 è stato approvato il nuovo regolamento Dublino III, che abroga il regolamento 1560/2003, c.d. Dublino II, a sua volta frutto della “comunitarizzazione” della Convenzione di Dublino del 1990. Come il precedente, il presente regolamento ha la funzione di garantire l’esame della domanda di protezione internazionale da parte di almeno uno Stato membro, evitando il fenomeno dei c.d. rifugiati in orbita e, al contempo, di impedire che il medesimo soggetto presenti domande multiple di protezione internazionale in diversi Stati dell’Unione, il c.d. asylum shopping. La soluzione a questi fenomeni è data dall’adozione della regola denominata one chance rule, secondo la quale ogni individuo, all’interno del territorio dell’Unione, ha diritto solo ad una possibilità di esame della domanda di riconoscimento dello status di protezione internazionale ed unicamente nello Stato individuato competente sulla base dei criteri stabiliti dal regolamento in esame. Questo meccanismo presuppone che gli Stati membri si considerino reciprocamente sicuri, attraverso il “mutuo riconoscimento” delle procedure di esame delle domande di protezione, e possano così trasferire la propria responsabilità allo Stato ritenuto competente133. Una prima innovazione riguarda l’oggetto del regolamento, che è più ampio, in quanto l’art. 1 da un lato fa riferimento alle domande di protezione definisce talune modalità di applicazione del Regolamento (CE) 2725/2000. Oltre ai paesi UE, il regolamento, in forza di accordi internazionali, vincola anche l’Islanda, la Norvegia, la Svizzera e il Liecthenstein. Il Regno Unito ha manifestato la volontà di partecipare all’adozione della presente normativa, al contrario, Danimarca e Irlanda, in forza dei rispettivi Protocolli allegati al TUE e al TFUE, non sono vincolate, né soggette all’applicazione del regolamento. 132 Per un’analisi dettagliata si vedano: Commissione europea, Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Relazione sulla valutazione del sistema Dublino, COM(2007) 299, Bruxelles, 6 giugno 2007 e ECRE, Dublin II Regulation. Lives on hold. European comparative report, febbraio 2013, disponibile all’indirizzo www.ecre.org/component/downloads/download s/701.html. 133 La compatibilità di tale meccanismo con la Convenzione di Ginevra ha da sempre sollevato numerosi dubbi, in quanto lo Stato si spoglia degli obblighi derivanti dalla Convenzione 127 internazionale, includendo quindi oltre alle richieste di asilo anche quelle volte al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, e, dall’altro, comprende anche la domanda presentata da un apolide. All’art. 3 viene enunciato il principio generale secondo cui gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata loro da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera, e in aggiunta rispetto al regolamento Dublino II, anche nelle zone di transito. Se lo Stato competente non può essere individuato sulla base dei criteri elencati nel Capo III, il secondo paragrafo sancisce la competenza del primo paese in qui la domanda è stata presentata. Nel medesimo paragrafo viene inoltre esplicitata, in ossequio alla giurisprudenza della Corte di Giustizia134, l’impossibilità di trasferire un richiedente verso uno Stato in cui “si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza” che determinino un rischio di trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nel Capo II vengono inoltre previste maggiori garanzie a tutela dei richiedenti: il contenuto del diritto di informazione è ampliato e precisato in un apposita disposizione (art. 4); viene introdotto l’obbligo per gli Stati di condurre un colloquio personale al fine di agevolare la procedura Dublino, salvo i casi espressamente previsti135; vengono ampliate le misure di garanzia per i minori, cui gli Stati membri devono garantire, non solo l’assistenza di un rappresentante avente accesso a tutte le informazioni pertinenti al caso, ma anche l’adozione di opportune disposizioni al fine di identificare in tempi brevi i familiari o i parenti (art. 6). demandando l’esame della domanda ad un altro Stato membro. Analoghe perplessità sono state riscontrate anche con riferimento alla CEDU. Si veda ADINOLFI A., op. cit., p. 677. 134 Nella sentenza sul caso N. S. e altri (cause 411-10 e C 493-10, riunite) del 21 dicembre 2011, la Corte di giustizia ha espressamente negato il carattere assoluto della presunzione che lo Stato membro competente rispetterà i diritti umani fondamentali, alla base del Sistema Dublino. Non ogni violazione delle disposizioni in materia di asilo è idonea a bloccare il trasferimento del richiedente verso tale Stato, ma solo nel caso in cui vi siano fondati e comprovati motivi di credere che il richiedente rischierebbe di subire trattamenti vietati ai sensi dell’art. 4 della Carta di Nizza. La sentenza citata è consultabile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do? uri=CELEX:62010CJ0411:IT:HTML. A conclusioni analoghe è pervenuta anche la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso M.S.S. c. Belgio e Grecia, ricorso 30696/09, sentenza 21 gennaio 2011, disponibile all’indirizzo www.hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-103050 135 Due sono i casi in cui gli Stati possono non effettuare il colloquio ai sensi dell’art. 5: il richiedente è un fuggitivo o, dopo aver ricevuto le informazioni di cui all’art. 4, ha già fornito le informazioni necessarie a determinare lo Stato competente. In quest’ultimo caso deve essere 128 I criteri per la determinazione dello Stato competente, elencati nel Capo III, devono essere applicati nell’ordine in cui sono presentati e sulla base della situazione esistente al momento della presentazione della domanda di protezione da parte del richiedente. In caso di minore non accompagnato è competente lo Stato dove si trova legalmente il padre, la madre, un altro adulto responsabile in base alla legge o alla prassi, un fratello (o sorella), un parente. In mancanza di familiari, è competente lo Stato in cui il minore ha presentato la domanda136 (art. 8). Se un familiare del richiedente, a prescindere dal fatto che la famiglia fosse già costituita nel paese di origine, ha ottenuto la protezione internazionale o ha presentato domanda di protezione sulla quale non è ancora stata presa alcuna decisione, è competente lo Stato che l’ha concessa o in cui si trova il familiare. È tuttavia necessario che il desiderio in tal senso sia manifestato dagli interessati per iscritto (art. 9, 10). Quando diversi familiari, o fratelli minori non coniugati, presentano domande di protezione congiuntamente o in date ravvicinate e queste ultime sarebbero di competenza di Stati diversi, è responsabile per tutte le domande lo Stato che sarebbe competente per la maggior parte di esse (art. 11). Se il richiedente è titolare di un titolo di soggiorno o di un visto, validi, è responsabile lo Stato che li ha rilasciati137 (art.12). Quando è accertato, sulla base di prove o di circostanze indiziarie di cui all’art. 22, par. 3 del regolamento, inclusi i dati di cui al regolamento Eurodac, “che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiere di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente”. La competenza cessa dopo 12 mesi dall’ingresso clandestino. Nella circostanza in cui non sia più possibile attribuire la competenza in base a quanto appena detto, ma è stato accertato che il richiedente, entrato nel territorio dell’Unione illegalmente, comunque data la possibilità al soggetto di fornire ogni altra informazione pertinente prima dell’adozione della decisione di trasferimento. 136 Nella sentenza sul caso MA, BT, DA (causa C-648/11) del 26 giugno 2013, la Corte di Giustizia ha chiarito che, nel caso in cui il minore privo di familiari abbia presentato più domande in diversi Stati, la competenza spetta “allo Stato nel quale si trova il minore dopo avervi presentato una domanda d’asilo”. La sentenza è consultabile all’indirizzo www.curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=138088&pageIndex=0&doclang =IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=839225. 137 Se il richiedente è titolare di più permessi di soggiorno o di più visti validi e rilasciati da paesi diversi, è responsabile nell’ordine: lo Stato che ha rilasciato il titolo più lungo, o con la scadenza più lontana; lo Stato che ha rilasciato il visto con scadenza più lontana se i titoli hanno la medisima natura; se si tratta di visti di natura diversa, lo Stato che ha rilasciato il titolo con validità più lunga, o se di validità uguale, con scadenza più lontana. Le medesime regole si applicano nel 129 abbia soggiornato per un periodo continuato di almeno cinque mesi in uno Stato membro prima di presentare la domanda, quest’ultimo Stato è responsabile (art. 13). Se il richiedente fa ingresso in uno Stato in cui è dispensato dal visto, tale Stato è competente, a meno che la domanda non sia presentata in un altro Stato in cui il soggetto è parimenti esentato dal visto, nel qual caso sarà quest’ultimo lo Stato responsabile (art. 14). Infine, qualora “la volontà di chiedere la protezione internazionale è manifestata” nella zona internazionale di transito di un aeroporto di uno Stato membro, quest’ultimo è lo Stato competente (art. 15). In deroga a quanto previsto dai succitati criteri, il regolamento inoltre ribadisce sia la c.d. clausola di sovranità che la c.d. clausola umanitaria. In base alla prima “ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda […] anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento”. Si tratta di una decisione assolutamente discrezionale degli Stati e non soggetta ad alcuna condizione, neppure al consenso dell’interessato138. La seconda clausola consente invece a qualsiasi Stato, pur non essendo competente in applicazione dei previsti criteri, di procedere al ricongiungimento di persone legate da qualsiasi vincolo di parentela, per ragioni umanitarie fondate soprattutto su motivi familiari o culturali. La procedura di determinazione dello Stato membro competente (c.d. Dublino) è avviata “non appena una domanda di protezione internazionale è presentata per la prima volta in uno Stato membro” cioè quando le autorità competenti ricevono un formulario presentato dal richiedente o un verbale delle autorità139. Se lo Stato che ha ricevuto la domanda ritiene che un altro Stato sia caso in cui i titoli di soggiorno siano scaduti da meno di due anni e i visti da meno di sei mesi. Se tali termini sono scaduti, è competente lo Stato in cui è presentata la domanda di protezione. 138 Inoltre, come affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza sul caso Zuheyr Frayeh Halaf del 30 maggio 2013 (causa C-528/11) la decisione di esaminare una domanda in deroga all’art. 3, par. 1, non dipende dal fatto che lo Stato membro competente in forza dei criteri di cui al Capo III, non abbia risposto ad una domanda di ripresa in carico del richiedente di cui trattasi. La sentenza citata è consultabile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62011CJ0528:IT:HTML. Questo orientamento è stato confermato anche nella recente sentenza sul caso Puid (causa C-4/11) del 14 novembre 2013. La sentenza è disponibile all’indirizzo www.curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=144489&pageIndex=0&doclang =IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=857888. 139 Nel caso in cui il soggetto si rechi in un altro Stato durante la procedura Dublino, lo Stato in cui è stata presentata per la prima volta la richiesta di protezione, deve, al fine di portare a termine la procedura, riprendere in carico tale persona, sia nel caso in cui quest’ultima non sia in possesso di un permesso di soggiorno, che in quello in cui l’interessato abbia presentato domanda di protezione nell’altro Stato dopo aver ritirato la prima domanda. Tale obbligo viene meno solo se lo 130 competente per l’esame della stessa, può chiedere a quest’ultimo di farsi carico del richiedente entro tre mesi dalla presentazione della domanda. Scaduto tale termine, la responsabilità per la valutazione della domanda ricade sullo Stato nel quale è stata presentata. Lo Stato membro richiesto procede alle verifiche necessarie e risponde circa la presa in carico del richiedente entro due mesi dal ricevimento della richiesta (un mese nel caso in cui lo Stato richiedente abbia sollecitato una risposta urgente ex art. 21, par. 2). La mancata risposta nei termini equivale ad accettazione della richiesta. Complessivamente la durata massima della procedura di presa in carico è di cinque mesi. Nel caso in cui lo Stato che ha ricevuto una domanda di protezione internazionale da parte di un soggetto che aveva già presentato una richiesta di protezione (in corso d’esame, ritirata o respinta) in un altro Stato, ritenga quest’ultimo competente, deve chiedere al medesimo la ripresa in carico entro due mesi dal ricevimento della risposta pertinente Eurodac ex art. 9, par. 5 del regolamento 603/2013, ovvero entro tre mesi dalla data di presentazione della domanda, se la richiesta di ripresa in carico è basata su prove diverse da quelle fornite dal sistema Eurodac. Se i termini previsti non vengono rispettati, la competenza spetta allo Stato in cui è stata presentata la nuova domanda. Se invece una persona che ha presentato richiesta di protezione internazionale (in corso d’esame, ritirata o respinta) soggiorna senza un titolo in un altro Stato, quest’ultimo può chiedere allo Stato di inoltro della domanda, la ripresa in carico del soggetto, nei medesimi termini previsti nella precedente ipotesi140. Se i termini non vengono rispettati, lo Stato presso cui soggiorna il soggetto dovrà consentire a quest’ultimo di presentare una nuova domanda. In entrambi i casi, la risposta dello Stato membro richiesto deve pervenire entro un mese dalla richiesta di presa in carico o, nel caso in cui quest’ultima sia basata sui dati provenienti dal sistema Eurodac, entro due settimane. L’assenza di risposta entro tali termini equivale ad accettazione della richiesta. L’accettazione della richiesta di presa o ripresa in carico comporta, per lo Stato richiedente, l’obbligo di notificare al soggetto Stato dimostra che il richiedente abbia lasciato il territorio dell’Unione per almeno 3 mesi oppure che un altro Stato gli ha rilasciato un titolo di soggiorno (art. 20, par. 5). 140 Ai sensi dell’art. 24, par. 4, qualora la domanda sia stata respinta con decisione definitiva in uno Stato membro, lo Stato in cui soggiorna il soggetto interessato, può alternativamente alla richiesta di ripresa in carico, disporre l’avvio di una procedura di rimpatrio in conformità alla direttiva 2008/115/CE. 131 interessato (o al suo avvocato o consulente legale) la decisione di trasferimento141. L’art. 27, concernente i mezzi di impugnazione, innovando rispetto al precedente regolamento, prevede “il diritto ad un ricorso effettivo avverso una decisione di trasferimento o a una revisione della medesima, in fatto e in diritto, dinanzi ad un organo giurisdizionale”142 e l’obbligo a carico degli Stati membri di stabilire un termine ragionevole entro cui l’interessato può esercitare tale diritto. Deve inoltre essere assicurato al soggetto l’accesso all’assistenza legale e, se necessario, all’assistenza linguistica. Il regolamento 343/2003 non disciplinava l’ipotesi del trattenimento dei richiedenti asilo soggetti alla procedura Dublino, consentendo di conseguenza agli Stati di fare ampio uso di tale possibilità143. Il nuovo regolamento, all’art. 28, dopo aver richiamato la regola generale per cui “gli Stati membri non possono trattenere una persona per il solo motivo che sia oggetto della procedura”, prevede che “ove sussiste un rischio notevole di fuga” gli Stati, al fine di assicurare l’efficacia delle procedure di trasferimento, possono trattenere il soggetto interessato “sulla base di una valutazione caso per caso e solo se il trattenimento è proporzionale e se non possano essere applicate efficacemente altre misure alternative meno coercitive”. Il trattenimento deve avere durata più breve possibile e non superare il tempo necessario per l’espletamento degli adempimenti amministrativi relativi al trasferimento144. Per quanto concerne i termini del trasferimento, questo deve avvenire entro sei mesi dall’accettazione della domanda di presa o ripresa in carico o dalla decisione 141 La decisione contiene informazioni sui mezzi di impugnazione disponibili, sul diritto di chiedere l’effetto sospensivo, ove disponibile, e sui termini per esperirli (art. 26, par. 2). 142 Tuttavia non è obbligatorio che il ricorso abbia effetto automaticamente sospensivo. L’art. 27, par. 3 stabilisce infatti che gli Stati membri debbano prevedere nel proprio ordinamento interno, alternativamente: che il ricorso conferisca il diritto a rimanere nel territorio dello Stato in attesa dell’esito; che il trasferimento sia automaticamente sospeso per un termine ragionevole, durante il quale un organo giurisdizionale ha adottato la decisione di concedere un effetto sospensivo al ricorso; che all’interessato sia offerta la possibilità di chiedere, entro un termine ragionevole, all’organo giurisdizionale di sospendere il trasferimento in attesa della decisione. 143 Anche la Commissione nella relazione COM 2007/299 citata (p. 7), ha sottolineato la frequente pratica degli Stati membri di introdurre misure cautelari, onde prevenire fughe prima del trasferimento. Pur riconoscendo la necessità di trovare soluzioni che migliorino l’efficacia dei trasferimenti, l’istituzione rammenta che le misure di custodia cautelare dovrebbero essere applicate solo in casi estremi, in cui vi è il rischio elevato di fuga del soggetto. 144 Ai sensi del considerando n. 20, le disposizioni in materia di garanzia e condizioni del trattenimento contenute nella nuova direttiva “accoglienza” dovrebbero applicarsi anche alle persone trattenute sulla base del presente regolamento. Questa tesi è avvalorata anche dalla recente sentenza della Corte di Giustizia sul caso Cimade e GISTI (causa C-179/11) del 27 settembre 2012. La sentenza è disponibile all’indirizzo www.curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=127563&doclang=IT. 132 “definitiva”145 su un ricorso o una revisione, nel caso in cui questi abbiano effetto sospensivo. Il termine è prorogato fino a 12 mesi se la persona è detenuta e fino a 18 mesi se la persona è fuggita. Il trasferimento di una persona trattenuta deve avvenire entro sei settimane dall’accettazione della richiesta di presa in carico, altrimenti la persona deve essere posta in libertà. Il nuovo regolamento ha inoltre previsto l’obbligo per lo Stato che procede al trasferimento di comunicare a quello di destinazione i dati della persona interessata idonei a garantire a quest’ultima un’assistenza adeguata e la continuità della protezione e dei diritti. Le informazioni concernenti eventuali esigenze specifiche, inclusi i dati sullo stato di salute fisica e mentale sono comunicati solo previo consenso esplicito dell’interessato (art. 31, 32). L’applicazione del regolamento Dublino II in un contesto caratterizzato da notevoli disparità quanto ad accoglienza, procedure, prospettive di inserimento nel contesto socio-economico tra i vari Stati membri, e le gravi conseguenze derivatene, avevano indotto la Commissione a introdurre nella proposta di modifica del regolamento146, un correttivo consistente in un meccanismo di sospensione temporanea dei trasferimenti. Nella fase dei negoziati la proposta è stata sostituita da “un meccanismo di allerta rapido, di preparazione e di gestione delle crisi”, suddiviso in due fasi, una preventiva e una d’azione. Per quanto concerne la prima fase, quando sulla base delle informazioni preventive ottenute dall’EASO, la Commissione stabilisce che l’applicazione del regolamento è ostacolata da un effettivo rischio di pressione sul sistema di asilo in uno Stato membro e/o da problemi di funzionamento del medesimo, essa invita lo Stato in questione ad elaborare un piano d’azione preventivo, contente tutte le misure necessarie per far fronte alla situazione, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti la protezione internazionale. Qualora la Commissione, sulla base della valutazione compiuta dall’EASO, ritenga che il suddetto piano non abbia 145 La specificazione “definitiva” è stata introdotta dal Regolamento Dublino III in ossequio alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare alla sentenza del 29 gennaio 2009 sul caso Petrosian (causa C-19/08). I giudici di Lussemburgo specificarono infatti che i termini di esecuzione del trasferimento decorrono a partire dalla decisione che si pronuncia sul merito della procedura. 146 Commissione europea, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (rifusione), COM(2008) 820, Bruxelles, 3 dicembre 2008, p. 51, disponibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2008:0820 :FIN:IT:PDF. 133 posto rimedio alle difficoltà riscontrate e vi sia il rischio che la situazione diventi critica, essa, in collaborazione con l’EASO, può chiedere allo Stato coinvolto la predisposizione di un piano d’azione per la gestione della crisi. Lo Stato deve intervenire nel termine di tre mesi e successivamente fornire periodicamente una relazione sull’attuazione del piano. Il regolamento non dispone nulla circa l’eventuale fallimento di quest’ultimo piano e il conseguente peggioramento della situazione. Come evidenziato da autorevoli esponenti, sarebbe stata forse preferibile l’introduzione di un meccanismo di sospensione temporanea dei trasferimenti, azionabile dalla Commissione e valido per tutti gli Stati147. Il principale obiettivo del regolamento Eurodac 603/2013, che abroga il precedente regolamento 2725/2000, è permettere di determinare rapidamente lo Stato membro responsabile per l’esame di una domanda di protezione internazionale. Gli Stati membri devono rilevare le impronte digitali di ogni cittadino di paese terzo o apolide di età superiore a 14 anni, che chiede protezione internazionale nel loro territorio o che è fermato mentre attraversa illegalmente la loro frontiera esterna; essi hanno inoltre la facoltà di rilevare le impronte digitali degli stranieri di età superiore a 14 anni che si trovano in posizione irregolare nel loro territorio, per accertare se abbiano presentato domanda di protezione. I dati raccolti148 devono essere immediatamente trasmessi all’unità centrale Eurodac, gestita dalla Commissione europea, che li inserirà nella banca dati centrale e li confronterà con i dati già registrati. Dal confronto possono emergere “risposte positive”, se i dati introdotti corrispondono a dati registrati in precedenza. Se risulta che il richiedente ha già presentato domanda di protezione internazionale o che è entrato clandestinamente nel territorio di uno Stato membro, gli Stati possono agire in conformità al regolamento Dublino. 147 Il professor Maiani ha recentemente affermato che, se di fronte al collasso del sistema d’asilo greco fosse stata disponibile una procedura di sospensione interna all’Unione, migliaia di persone non sarebbero state comunque trasferite in Grecia, fino alla pronuncia della Corte di Strasburgo sul caso M.S.S. c. Grecia e Belgio (sent. cit.) che ha stabilito che trasferire un richiedente in Grecia costituisce una violazione dell’art. 3 della CEDU. L’intervista è disponibile all’indirizzo www.asiloineuropa.blogspot.it/2011/11/tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere.html. 148 Ai sensi dell’art. 11, i dati trasmessi includono: lo Stato membro di origine, la data e il luogo in cui è stata presentata la richiesta di protezione internazionale; il sesso; il numero di riferimento assegnato dallo Stato membro; la data di rilevamento delle impronte digitali; la data di trasmissione dei dati al sistema centrale; il numero identificativo dell’operatore. Per quanto concerne la protezione dei dati a carattere personale, gli Stati membri devono garantire che le impronte siano rilevate nel rispetto della legalità e che tutte le successive operazioni di utilizzo, trasmissione e cancellazione avvengano anch’esse sempre nel rispetto della legalità. L’art. 29 134 La novità più rilevante introdotta dal nuovo regolamento del 26 giugno 2013, a lungo auspicata dagli Stati membri ed enunciata nel considerando n. 8, è la possibilità di utilizzo dei dati contenuti nel sistema Eurodac, da parte delle autorità designate dagli Stati membri e dall’Ufficio europeo di polizia (EUROPOL), al fine della prevenzione, dell’accertamento o di indagine dei reati di terrorismo di cui alla decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio149, o di altri reati gravi di cui alla decisione quadro del Consiglio 2002/584/GAI150. Tuttavia, come sottolineato dalla Commissione, “occorre che l’Eurodac sia interrogato a questo scopo soltanto quando prevalga l’interesse della sicurezza pubblica, vale a dire qualora il reato o l’atto terroristico del quale si cerca di identificare l’autore sia così riprovevole da giustificare l’interrogatorio di una banca dati contente dati relativi a persone con la fedina penale pulita”151. elenca i diritti del soggetto interessato, in particolare il diritto di essere informato circa le finalità, i destinatari dei dati, il responsabile del procedimento e il diritto di accesso ai dati custoditi. 149 Per reati di terrorismo ai sensi del regolamento Eurodac, si intendono reati che corrispondono o sono equivalenti a quelli di cui agli articoli da 1 a 4 della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 sulla lotta contro il terrorismo (2002/475/GAI), Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee L 164/3 del 22 giugno 2002. 150 Per reati gravi si intendono le forme di reato che corrispondono o sono equivalenti a quelle di cui all’art. 2, par. 2 della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (2002/584/GAI), Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee L 190 del 18 luglio 2002. 151 Regolamento (UE) 603/2013, considerando n. 10. 135 CAPITOLO IV ASILO E RIFUGIO NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 1. Il diritto d’asilo nella costituzione italiana I padri costituenti hanno scelto di introdurre il diritto d’asilo nella Carta costituzionale, collocandolo tra i principi fondamentali posti alla base del nuovo ordinamento democratico, all’articolo 10, comma 3. Per comprendere tale scelta, che non è il frutto di una svista, ma di una riflessione attenta e consapevole, è necessario tenere a mente il particolare contesto storico-sociale dell’epoca. Solo in Europa e solo nel corso della seconda guerra mondiale, furono 40 milioni le persone costrette a fuggire a causa delle feroci persecuzioni politiche e razziali, poste in atto dalle dittature europee. Inoltre, tra gli stessi deputati dell’Assemblea costituente, vi erano persone che durante il regime fascista avevano goduto del diritto d’asilo in altri paesi1 e ne conoscevano quindi in prima persona l’importanza e la necessità. La disposizione che disciplina il diritto d’asilo fu tuttavia oggetto di vivaci discussioni all’interno dell’Assemblea, a causa dei divergenti orientamenti circa il contenuto del diritto, espressi dai diversi schieramenti politici. Innanzitutto vi era la posizione assunta dai comunisti, i quali erano favorevoli al riconoscimento del diritto d’asilo “agli stranieri perseguitati per aver difeso i diritti della libertà e del lavoro”2. Secondariamente, si ricorda la tesi espressa dai socialisti e da alcuni deputati di centro-destra. Quest’ultima, rimanendo nel solco tracciato dalla precedente, ne specificava il contenuto, precisando che i diritti per la cui difesa uno straniero perseguitato doveva aver lottato, erano quelli garantiti dalla 1 Specificatamente: Pertini, Lussu, Nenni, Valiani, Di Vittorio, in Francia, Sturzo negli Stati Uniti d’America e Togliatti in URSS. V. BONETTI P., Il diritto di asilo nella Costituzione italiana, in FAVILLI C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, CEDAM, Padova, 2001, p. 35. 2 V. Assemblea, seduta antimeridiana dell’11 aprile 1947, in la Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, vol. I, Roma, 1970, p. 792. Come sottolinea RESCIGNO F., “ciò che era estraneo alla costruzione comunista era l’idea di garantire asilo a qualsiasi perseguitato politico per qualsiasi idea, rifiuto motivato dal timore che altrimenti anche coloro che avevano combattuto in altri paesi contro la democrazia avrebbero potuto trovare riparo nel nostro paese” in RESCIGNO F., Il diritto d’asilo, Carocci Editore, Roma, 2011, p. 213. 136 Costituzione italiana3. Alla posizione assunta dai comunisti da una parte e dai socialisti dall’altra, si contrappose quella dei socialdemocratici e dei democristiani, risultato della fusione degli emendamenti presentati in un primo momento separatamente da questi ultimi. Più garantista delle precedenti, la tesi eliminava qualsiasi riferimento alla “persecuzione”, riconoscendo il diritto di asilo agli stranieri cui fosse negato di fatto l’esercizio delle libertà previste dalla Costituzione italiana, anche se tali diritti di libertà fossero astrattamente previsti dalla Carta costituzionale del paese di origine del richiedente4. Al termine del dibattito, nell’Assemblea prevalse la posizione più liberale, al fine di offrire la più estesa garanzia possibile a chi si vede privato nel proprio paese del godimento delle libertà fondamentali, in linea con l’atteggiamento di amplissima apertura verso i diritti fondamentali dell’uomo che caratterizza l’intera Carta fondamentale5. Come affermato da autorevoli esponenti, la scelta in materia di asilo fu così “consapevole” che furono presi in considerazione anche gli eventuali problemi posti in caso di esodi di massa”6. Nel testo della disposizione venne infatti aggiunto l’importante riferimento alle “condizioni stabilite dalla legge”, al fine precipuo di consentire eventuali limitazioni massime al numero degli ingressi in caso di afflussi massicci di richiedenti asilo. A norma dell’art. 10, comma 3 della Costituzione, quindi, “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese d’origine l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. 3 Simile alla proposta avanzata dai socialisti nel contenuto, ma profondamente divergente quanto a motivazioni di fondo, fu inoltre l’emendamento presentato dal “Fronte dell’Uomo Qualunque”. L’accento era posto sulla necessità che lo straniero fosse “perseguitato” e che tale persecuzione fosse connessa ad azioni intraprese dal soggetto in difesa della libertà, consentendosi altrimenti al delinquente proveniente da un paese terzo di godere dell’asilo, semplicemente sostenendo che nel suo paese non erano rispettate le libertà garantite in Italia. V. CASSESE A., Commento all’art. 10, in BRANCA G. (a cura di), Commentario della Costituzione, I, Nicola Zanichelli Editore, Bologna – Roma, 1975, p. 530. 4 Si veda l’intervento dell’on. Treves, seduta antimeridiana dell’11 aprile 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, cit., p. 794. 5 Nelle parole di CASSESE A., “è sufficiente che uno straniero non goda effettivamente di quella libertà nel suo Stato, perché l’Italia gli apra le porte, per consentire di fruire di esse nel nostro Paese. Più dunque che nelle altre norme della nostra Costituzione, è nell’art. [10] 3° comma che viene alla luce la ‘filosofia’ del nostro costituente sui diritti della persona umana”, in CASSESE A., ibidem, p. 532. 6 Tra gli altri, BONETTI P., op. cit., p. 36. 137 1.1 L’ambito di applicazione del diritto di asilo costituzionale L’ampiezza della portata della previsione costituzionale si riscontra, in primo luogo, con riferimento all’ambito soggettivo di applicazione della garanzia offerta. L’art. 10, comma 3, Cost., riferendosi in senso lato agli “stranieri”, consente di comprendere in tale categoria non solo i cittadini di altri paesi, ma tutti coloro che non sono cittadini della Repubblica italiana, inclusi quindi gli apolidi. Nonostante non siano mancate in dottrina affermazioni in senso contrario, non pare esservi ragione per aderire alla tesi più restrittiva. In primis, il riferimento, contenuto nella norma, al “suo paese” è assolutamente compatibile con un’interpretazione della disposizione che includa tanto lo Stato di appartenenza dello straniero, quanto quello di provenienza dell’apolide. Secondariamente, a conferma di questa conclusione si aggiunge la recente disciplina legislativa in materia di stranieri, il cui ambito soggettivo pone sullo stesso piano i cittadini di paesi terzi e gli apolidi7. Il riconoscimento del diritto d’asilo deve quindi prescindere dal fatto che lo straniero abbia o meno la cittadinanza dello Stato nel quale non può esercitare le libertà democratiche, essendo a tal fine sufficiente che quest’ultimo sia lo Stato di residenza abituale8. Con riferimento all’ambito spaziale nel quale il diritto di asilo viene riconosciuto e si esercita, la norma in esame lo limita al territorio della Repubblica in senso stretto. La Costituzione sembra quindi aver scelto di tutelare essenzialmente il solo asilo c.d. territoriale, escludendo l’asilo c.d. extraterritoriale concesso nelle sedi di missioni diplomatiche, nei consolati, a bordo di navi da guerra o di Stato, e in basi o aeromobili militari9. Quest’ultimo potrebbe trovare 7 Da un punto di vista più strettamente sostanziale, è opportuno considerare che gli apolidi, essendo privi di qualsivoglia cittadinanza e non potendo di conseguenza beneficiare della protezione offerta dal proprio paese di provenienza, sono spesso soggetti al rischio di persecuzioni e vivono sovente in condizioni di illibertà. V. BENVENUTI M., Il diritto d’asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, CEDAM, Padova, 2007, p. 51. 8 Si evidenzia, inoltre, il silenzio serbato dalla disposizione in esame in merito a chi impedisca l’esercizio delle libertà democratiche. Come sostenuto da RESCIGNO F., data la formulazione “aperta” della norma costituzionale, il nostro paese potrebbe concedere asilo “anche a coloro che risultano impediti nell’esercizio dei diritti fondamentali non dallo Stato – definibile come tale ai sensi delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute – ma da forze militari o paramilitari che ad esso si affiancano o addirittura sostituiscono”. V. RESCIGNO F., op. cit., p. 216. 9 Per un approfondimento del concetto di asilo extraterritoriale si veda UDINA M., voce Asilo (diritto di). I) Diritto internazionale, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. III, tomo I, Bologna – Roma, 2007, p. 4. 138 un’indiretta garanzia costituzionale all’art. 2, Cost., per cui il nostro paese, al fine di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, dovrebbe dare aiuto e rifugio a coloro a cui sia impedito l’effettivo esercizio di tali diritti10. Il diritto d’asilo ha inoltre un ambito di applicazione oggettivo, in quanto allo straniero deve essere impedito, nel paese di origine, “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. La disposizione, riferendosi all’impedimento e all’effettività, allude ad una “situazione di fatto di carattere individuale, concreta ed attuale”11, che prescinde dalle norme formalmente in vigore in quel paese12. Da ciò deriva in primo luogo che non è sufficiente ai fini del riconoscimento del diritto, la provenienza del richiedente da un paese in cui vige una forma di Stato autoritario o dittatoriale, essendo necessario verificare nel caso concreto che il motivo determinante della richiesta di asilo sia l’esistenza di quell’impedimento all’effettivo esercizio delle libertà democratiche13. Per quanto concerne la nozione di “libertà democratiche”, i padri costituenti intendevano all’alludere a tutte le libertà garantite nel nostro ordinamento, tra cui sono incluse, oltre al diritto alla vita, presupposto necessario per l’esercizio di ogni altro diritto, le libertà connaturate alla stessa forma di Stato democratico14. Sorge spontaneo chiedersi se è necessario che siano menomate le libertà democratiche riconosciute dalla Costituzione nel loro complesso o se è sufficiente che lo straniero non possa effettivamente godere di una sola di esse. Appare 10 Tale riconoscimento ai sensi dell’art. 2 incontra tuttavia dei limiti in altre disposizioni costituzionali, in primis l’art. 10, comma 2, che rimette alle leggi la disciplina della condizione giuridica dello straniero in conformità alla normativa internazionale, sia di origine consuetudinaria che convenzionale. È quindi possibile che in forza di tale normativa venga limitata o negata la possibilità di asilo extraterritoriale, nonostante la tutela indiretta fornita a quest’ultimo diritto dall’art. 2, Cost. 11 NASCIMBENE B. (a cura di), Diritto degli stranieri, CEDAM, Padova, 2004, p. 1140-1141. 12 “L’accento posta dalla norma sull’effettività dell’esercizio implica che per l’acquisto del diritto sia sufficiente l’impedimento di fatto delle libertà fondamentali, quand’anche esse siano formalmente riconosciute nell’ordinamento estero”, COSSIRI A., Art. 10, in BARTOLE S., BIN R., Commentario breve alla Costituzione, CEDAM, Padova, 2008, p. 86. 13 Il fatto che la menomazione delle libertà democratiche debba assurgere a motivo determinante della fuga del richiedente dal proprio paese di origine risulta, inoltre, fondamentale per discernere la situazione dello straniero che potrà vedersi riconosciuto il diritto d’asilo, da quella del c.d. migrante economico, ossia colui che abbandona il proprio paese per motivi economico-sociali. 14 Tra queste rientrano: la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione, di uscita e di entrata nel proprio paese (art. 16 Cost.), la libertà di associazione (art. 17 Cost), la libertà di religione (art. 19 Cost), la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost), il diritto di agire in giudizio per la tutela dei proprio diritti e interessi (art. 24 Cost), la liberta di organizzazione sindacale (art. 39 Cost.), il diritto di sciopero (art. 40 Cost.), la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.). 139 preferibile quest’ultima opzione interpretativa, in quanto in circostanze particolari e determinate, anche il mancato godimento di una sola di tali libertà può determinare per lo straniero una di quelle “condizioni di invivibilità democratica nel paese di origine a cui la Costituzione a inteso fornire un esplicito rimedio con l’art. 10, co. 3, Cost. e la cui inalterata persistenza ripugnerebbe, in tutta evidenza, a un ordinamento che annovera tra i suoi fini primari il pieno sviluppo della persona umana”15. La questione del riconoscimento del diritto di asilo si pone in termini articolati qualora la richiesta di asilo provenga da un soggetto che sia perseguito per aver contribuito a sovvertire l’ordinamento costituzionale del proprio paese di origine. Se a prima impressione la possibilità di concedere l’asilo sembrerebbe inconciliabile con l’art. 54 Cost., che sancisce il dovere di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, occorrerà tuttavia verificare se nel caso concreto l’operato del soggetto era diretto a contrastare un ordinamento che non riconosce le libertà democratiche o le riconosce solo formalmente ma non sostanzialmente, o se invece tale contestazione era rivolta ad un ordinamento che garantisce le libertà democratiche fondamentali. L’asilo potrà essere concesso nel primo caso, in quanto le violazioni costituzionali sono legittimate dall’essere la Costituzione stessa non democratica. Infine il diritto di asilo deve essere negato a coloro che, pur provenendo da paesi in cui le libertà democratiche non sono garantite, richiedano l’ospitalità al fine di sottrarsi a pene detentive inflitte per reati comuni16 o per migliorare le proprie condizioni economiche e lavorative17. Potendo risultare in concreto difficoltoso verificare la causa di giustificazione della richiesta, se essa sia dettata dall’effettiva menomazione delle libertà fondamentali o al contrario, da altri motivi contingenti, la ratio sottesa all’art. 10, comma 3, Cost., induce a ritenere sufficiente, in caso di dubbio, la provenienza del soggetto da un paese illiberale. 15 BENVENUTI M., op. cit., p. 68. Non si può al contrario negare il diritto d’asilo allo straniero imputato o condannato per reati politici, in quanto la negazione dell’asilo costituirebbe, di fatto, il presupposto per l’estradizione dello straniero, vietata per i reati politici dall’art. 10, comma 4 della Costituzione. 17 La mera condizione di disoccupazione nel paese di origine non è sufficiente per la concessione dell’asilo, in quanto il diritto al lavoro è riconosciuto dall’art. 4 Cost. ai soli cittadini e in ogni caso 16 140 1.2 Il diritto di asilo costituzionale come diritto soggettivo perfetto Le intenzioni dei padri costituenti, concretizzatesi nell’enunciazione di un diritto di asilo quanto mai ampio ed esplicito, sono state sostanzialmente vanificate dal perdurante silenzio del legislatore circa la legge chiamata ad integrare la riserva (assoluta) posta dall’art. 10, comma 3, Cost18. L’assenza di un intervento normativo primario del legislatore ha portato, nel decennio successivo all’entrata in vigore della Carta costituzionale, all’inquadramento da parte di giudici amministrativi, dell’art. 10, comma 3, Cost. tra le norme programmatiche della Costituzione, escludendo così “l’azionabilità del diritto contemplato dalla norma stessa […] in assenza di una legge attuativa”19. Codesto iniziale atteggiamento giurisprudenziale, a cui si aggiungeva l’ingiustificata sopravvivenza dalla normativa fascista in materia di condizione giuridica dello straniero, costantemente applicata dall’apparato amministrativo, venne da subito censurato dalla più accorta dottrina e, su un piano più generale, dalla Corte costituzionale fin dalla sua prima sentenza del 1956. Tre furono i caratteri fondamentali dell’art. 10, comma 3, Cost. enucleati dalla dottrina: a) tale disposizione disciplina l’istituto in termini espliciti e completi e contiene una precisa delimitazione dei poteri della legge, deve pertanto essere considerata immediatamente precettiva; b) dal riferimento testuale all’asilo come diritto, conseguenze senza alcun dubbio, la sua immediata riferibilità soggettiva individuale e la sua piena garanzia in via giurisdizionale ordinaria; c) tale diritto non include il diritto ad un’occupazione effettiva. L’accesso al lavoro dello straniero è infatti regolato dalle restanti disposizioni del corpus normativo sulla condizione dello straniero. 18 Il tentativo più avanzato di disciplinare la materia è stato effettuato con il d.d.l. A.P. Senato n. 203-B, decaduto per il termine della legislatura, dopo essere stato approvato nel corso della XIII legislatura dal Senato e successivamente dalla Camera dei deputati il 7 marzo 2001. L’ultima proposta di legge in ordine cronologico è quella presentata nel corso dell’attuale legislatura (XVII) dal deputato Giacomelli (ed altri), Disciplina organica del diritto di asilo, dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, nonché disposizioni di attuazione delle direttive 2003/9/CE, 2005/85/CE e 2011/95/UE (n. 327). Il testo è disponibile all’indirizzo www.camera.it/_dati/leg17/l avori/stampati/pdf/17PDL0007390.pdf. Per una completa disamina delle proposte di legge presentate nelle legislature precedenti si veda NASCIMBENE B., Lo straniero nel diritto italiano, Giuffrè Editore, Milano, 1988, p. 130 ss. 19 CHIEFFI L., La tutela costituzionale del diritto d’asilo e di rifugio a fini umanitari, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2, 2004, p. 29-30. Una simile affermazione si ritrova anche in una giurisprudenza amministrativa straordinariamente recente, si veda TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 25 gennaio 2013, n. 109, disponibile all’indirizzo www.giustiziaamministrativa.it/DocumentiGA/Torino/Sezione%202/1993/199300172/Provvedimenti/TO_20030 0109_SE.DOC. 141 costituzionale soggettivo essendo corredato da una disciplina puntale presente nelle stessa Costituzione, deve considerarsi in sé perfetto20. L’impegno dottrinale volto ad affermare il pieno valore e l’applicabilità immediata della norma in esame, venne lentamente recepito dalla giurisprudenza amministrativa regionale solo a partire dalla metà degli anni ’80, anticipata in questo da quella ordinaria21. I giudici amministrativi regionali hanno riconosciuto nelle loro decisioni che il diritto d’asilo è frutto del “riconoscimento, chiaramente stabilito dalla nostra Costituzione, dei diritti fondamentali dell’uomo”22, e da ciò deriva l’immediata applicabilità dell’art. 10, comma 3, Cost. (soprattutto nel caso di provvedimenti di espulsione di stranieri perseguitati nel loro paese di provenienza) o, quantomeno, la sua capacità di influenzare e orientare l’attività dei pubblici poteri che intervengono nelle fasi precedenti all’adozione della decisione. Codeste argomentazioni sono state riprese in tempi recenti dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali affermando che l’art. 10, comma 3, Cost. “seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo”23, hanno ribadito che la giurisdizione in materia di diritto d’asilo spetta al giudice ordinario. In ultimo, anche il Consiglio di Stato si è 20 Tra gli altri: D’ORAZIO G., Lo straniero nella Costituzione italiana, CEDAM, Padova, 1992, p. 50 ss; NASCIMBENE B., Lo straniero nel diritto italiano, cit., p. 112; BENVENUTI M., op. cit., p. 35 ss; GRASSO L., L’asilo costituzionale in Europa: analogie e divergenze di un generalizzato declino, in Diritto pubblico comparato ed europeo, vol. IV, Giappichelli Editore, 2012, p. 1503. 21 Il 24 novembre 1964 la Corte d’Appello di Milano pronunciò una sentenza, considerata un leading case in materia, nella quale si legge: “il diritto d’asilo nell’ordinamento giuridico italiano integra un vero e proprio diritto soggettivo, azionabile e invocabile innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria”, in Foro italiano, 1965, II, p. 122 ss. Più recentemente, merita di essere ricordata la sentenza della Corte di Appello di Roma sul caso Ocalan c. Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell’Interno in cui i giudici, dopo aver precisato che il diritto di asilo si configura come diritto soggettivo perfetto, hanno affermato che la norma costituzionale in questione vieta di limitare tale diritto agli stranieri provenienti da determinati paesi o di prevedere, da parte del richiedente, la soddisfazione di particolari condizioni formali, perché “la legge ordinaria non può modificare il presupposto a cui il dettato costituzionale subordina il sorgere del diritto di asilo né, tantomeno, diversamente condizionarlo” (Corte d’appello di Roma, Sez. II civ., sent. 1 ottobre 1999, n. 49565). V. ODELLO M., Il diritto dei rifugiati. Elementi di diritto internazionale, europeo e italiano, Franco Angeli Editore, Milano, 2013, p. 258. 22 TAR Fiuli-Venezia Giulia, sentenza 13 marzo 1989, n. 53, in Il foro amministrativo, 1989, p. 1847 ss. In senso analogo: TAR Friuli-Venezia Giulia, sent. 18 dicembre 1991, n. 531, in I tribunali amministrativi regionali, 1992, I, p. 670 ss; TAR Friuli-Venezia Giulia, sent. 19 febbraio 1992, n. 91, in Il foro amm., 1992, p. 2021 ss. 23 Cassazione, Sezioni Unite, sent. 26 maggio 1997, n. 4674 disponibile all’indirizzo www.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/commissioni/allegati/01/01_al l_cass_1997_4674.pdf. 142 dovuto adattare, riconoscendo la competenza del giudice ordinario sul presupposto che il diritto in esame rientra tra gli status e i diritti soggettivi24. 1.3 Il contenuto necessario del diritto di asilo costituzionale: il diritto di ingresso e di soggiorno nel territorio della Repubblica La struttura e la funzione del diritto d’asilo, come configurato dall’art. 10, comma 3, Cost., unitamente al riferimento testuale al “territorio della Repubblica”, consentono di affermare che tale diritto si sostanzia in due diritti derivati, che ne costituisco quindi il contenuto necessario. Questi diritti devono poter spettare a chiunque si trovi nella condizione, prospettata dal dettato costituzionale, di impedimento dell’esercizio delle libertà democratiche, o sia in attesa del provvedimento definito volto al riconoscimento dell’asilo. Si tratta: • in primis, del diritto di ingresso nel territorio italiano o, id est, del divieto di respingimento; oppure, nel caso in cui lo straniero si trovi nel proprio paese, del diritto al rilascio da parte dei pubblici poteri italiani di un permesso di ingresso; • in secondo luogo, del diritto di soggiorno nel territorio repubblicano o, id est, del divieto di espulsione o rimpatrio25. Tale diritto sarà provvisorio fino all’accertamento della sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma costituzionale, e a tempo indeterminato una volta ottenuto il riconoscimento del diritto di asilo, nel caso in cui persista nel paese di provenienza del soggetto l’impedimento all’effettivo esercizio delle libertà democratiche26. Sono proprio tali prerogative a far emergere in tutta chiarezza, la rilevanza specifica della situazione soggettiva di coloro che chiedono e si vedono riconosciuto il diritto di asilo rispetto a quella degli stranieri in generale, di cui all’art. 10, comma 2, Cost27. Questi ultimi, a differenza dei primi, pur 24 Consiglio di Stato, sez. IV, decisione 15 dicembre 2000, n. 6710. Così anche: Cons. St., sez. IV, decisione 15 dicembre 2000, n. 6716; Cons. St., sez. per gli atti normativi, parere 19 aprile 2004, n. 200/04; Cons. St., sez. VI, decisione 25 settembre 2006, n. 5605, disponibili all’indirizzo www.giustizia-amminitrativa.it. 25 La Corte costituzionale ha infatti affermato che il diritto d’asilo, rispetto all’espulsione e al rimpatrio, esplica un’“efficacia paralizzante” (sentenza 13 gennaio 2004, n. 5, disponibile all’indirizzo www.giurcost.org/decisioni/2004/0005s-04.html). 26 Tra gli altri, si vedano: BENVENUTI M., Asilo (diritto di). II) Diritto costituzionale, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Vol. III, Tomo I, Bologna – Roma, 2007, p. 8; GAJA G., Diritti dei rifugiati e giurisdizione ordinaria, in Rivista di diritto internazionale, 1997, p. 791. 27 L’art. 10, comma 2, Cost. afferma: “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. 143 beneficiando dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost., godono di una tutela meno intensa, che si concreta “nel non avere di regola un diritto acquisitivo di ingresso e di soggiorno in altri Stati; lo straniero può entrarvi e soggiornarvi solo conseguendo determinate autorizzazioni, e per lo più, per un periodo determinato. […] Lo Stato ospitante può, pertanto, revocare in ogni momento il permesso di soggiorno o limitare la circolazione di esso straniero nel proprio territorio, così come l’ordinamento prevede, nella salvaguardia pur sempre dei diritti fondamentali”28. È opportuno precisare che il diritto di ingresso e il diritto di soggiorno, come contenuto necessario del diritto di asilo, essendo costituzionalmente riferibili alla libertà di circolazione e di soggiorno di cui all’art. 16 Cost.29, ne “attraggono” anche le rispettive limitazioni, “che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o sicurezza”. Un’accorta dottrina sottolinea come tali motivi potranno legittimare costituzionalmente un intervento del legislatore in ordine al diritto di asilo, che preveda tanto limiti di carattere quantitativo al medesimo, quanto l’introduzione di fattispecie di deroga, senza tuttavia poter inficiare il favor attribuito dal costituente agli stranieri di cui all’art. 10, comma 3, Cost30. Per quanto concerne invece gli altri diritti costituzionali spettanti ai titolari del diritto di asilo deve ritenersi, sia pur in assenza di una disciplina organica di tale diritto, che l’ordinamento italiano debba consentire quanto più possibile a chi ne risulta beneficiario l’effettivo godimento di quelle libertà democratiche impedite nel paese di provenienza, con il solo limite dei diritti costituzionali strettamente connessi con lo status civitatis31. In ogni caso, se come in precedenza osservato la 28 BENVENUTI M., Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 177. Ai sensi dell’art. 16 Cost.: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dai territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge”. 30 Si tratta dei soli limiti che il legislatore potrebbe legittimamente introdurre al diritto di asilo, in quanto nonostante la norma costituzionale faccia riferimento alle “condizioni stabilite dalla legge”, queste ultime sono state prospettate per rendere tale diritto il più effettivo possibile e non per limitarlo a priori. Da ciò deriva che la disciplina di tali “condizioni” non potrebbe in alcun modo introdurre tanto dei requisiti o dei presupposti di carattere qualitativo, quanto dei limiti di ordine quantitativo, senza porsi in contrasto con il disposto dell’art. 10, comma 3, Cost. e con il favor costituzionale nei confronti degli stranieri beneficiari del diritto d’asilo. Per un approfondimento della questione dei limiti al diritto in esame, con particolare riguardo al caso di asilo c.d. di massa, si vedano: BENVENUTI M., op. cit., p. 136 ss; RESCIGNO F., Il diritto d’asilo tra previsione costituzionale, spinta europea, e “vuoto” normativo, in Politica del diritto, n.1, 2004, p. 157 ss. 31 In questi termini si sono espressi i giudici della Corte costituzionale, nell’unica occasione in cui fino ad ora hanno avuto modo di pronunciarsi direttamente sull’art. 10, comma 3, Cost. In tale 29 144 posizione giuridica dei titolari del diritto di asilo è privilegiata rispetto a quella degli stranieri in generale, ai primi spetterà uno spettro di diritti non inferiore a quello enucleato dalla giurisprudenza costituzione con riferimento ai secondi. 1.4 Asilo costituzionale e rifugio convenzionale: due figure giuridiche distinte Oltre che dalla summenzionata mancanza di una legge organica di attuazione del disposto costituzionale relativo al diritto di asilo, un ulteriore rischio di menomazione della portata garantistica dell’art. 10, comma 3, Cost. deriva dalla perdurante confusione giurisprudenziale tra l’istituto dell’asilo costituzionale e quello del rifugio previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, a cui l’Italia aderisce. In verità, in primo momento la giurisprudenza sembrò correttamente indirizzarsi verso una netta distinzione dei due istituti. Nella già citata sentenza della Corte di appello di Milano del 27 novembre 1964, i giudici avevano infatti affermato come “la nozione di rifugiato […] concettualmente si identifi[chi] solo parzialmente con quella di straniero avente diritto di asilo nel territorio della Repubblica”, sottolineando tuttavia che l’inerzia del legislatore aveva fatto sì che nella prassi amministrativa le figure avessero finito con il confondersi. Tali argomentazioni vennero riprese anche dalle Sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 4674 del 1997, in cui i giudici, negando la possibilità, nonostante la mancanza di una specifica legge in materia, di applicare la disciplina normativa in materia di riconoscimento dello status di rifugiato al riconoscimento del diritto di asilo, dichiararono che “l’asilo costituzionale e la normativa sui rifugiati politici non coincidono dal punto di vista soggettivo perché la categoria dei rifugiati politici è meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo”32. sentenza la Corte ha ritenuto che la previsione legislativa della reciprocità per l’esercizio della professione giornalistica, sarebbe stata del tutto irragionevole se applicata anche nei confronti di stranieri a cui è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche nel paese di origine. L’art. 10, comma 3, della Costituzione nel riconoscere il diritto di asilo a tali soggetti infrange infatti la tradizionale regola della reciprocità. Corte Costituzionale, sentenza 23 marzo 1968, n. 11, disponibile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do. Per un’analisi approfondita si veda BENVENUTI M., op. cit., p. 186. 32 Corte di cassazione, Sez. Un., sentenza 26 maggio 1997, n. 4674, disponibile all’indirizzo www.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/commissioni/allegati/01/01_al l_cass_1997_4674.pdf. 145 Codesto iniziale e assolutamente condivisibile orientamento della giurisprudenza venne tuttavia ribaltato da numerose pronunce nel corso del decennio appena trascorso. Se già nel dicembre del 1999, le Sezioni Unite della Cassazione, sulla base di una ricostruzione del rapporto tra rifugio convenzionale e asilo costituzionale come di species a genus, assimilarono i due istituti dal punto di vista procedurale33, nella sentenza n. 25028 del 25 novembre 2005 i giudici della Suprema Corte ritennero ravvisabile “una perfetta simbiosi fra gli istituti in questione, con la conseguenza di una più semplice, oltre che più corretta ed incisiva, applicazione degli strumenti del diritto”. Da ciò deriva, nell’analisi della Corte, che in mancanza di una legge organica sull’asilo, il diritto d’asilo costituzionale potrebbe essere inteso, non tanto come un diritto all’ingresso nel territorio italiano, quanto piuttosto come il diritto di accedervi al fine di essere ammesso alla procedura di esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico34. Queste affermazioni sono state successivamente ribadite dalla Corte di Cassazione che ha continuato così a configurare, anche recentemente35, “un diritto di asilo che sarebbe da considerarsi come meramente ‘ancillare’ alla possibilità di accedere alle procedure necessarie al riconoscimento dello status di rifugiato, sancendo così il sostanziale svuotamento dell’istituto costituzionale”36. In accordo con la dottrina più influente sono da respingere non solo le conclusioni a cui è pervenuta la giurisprudenza, ma in primis le premesse da cui scaturiscono. Nonostante infatti gli istituti dell’asilo costituzionale e del rifugio convenzionale siano accumunati da identiche radici storiche, oltre che dai medesimi intenti umanitari e solidaristici, diversa è la fonte da cui derivano i due strumenti di 33 Corte di cassazione, Sez. Un., sentenza 17 dicembre 1999, n. 907, disponibile all’indirizzo www.asgi.it/public/parser_download/save/corte.cassazione.sezioni.unite.civili.8.ottobre.1999.pdf. 34 I giudici sostennero di conseguenza che “il diritto di asilo non avrebbe contenuto legale diverso e più ampio del diritto ad ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno per la durata dell’istruttoria della pratica attinente il riconoscimento dello status di rifugiato”. Corte di Cassazione, Sez. I, sentenza 25 novembre 2005, n. 25028, disponibile all’indirizzo www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniSemplici/SchedaNews.asp?ID=95 2. 35 Tra le altre, Corte di cassazione, Sez. I, sent. 18941/2006; 18549/2006 (per un’analisi precisa si veda MELICA L., La Corte di cassazione e l’asilo costituzionale: un diritto negato? Note alle recenti sentenze della 1^ sezione della Corte di Cassazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4, 2006, p. 57 ss); 26056/2010. Corte di cassazione, Sez. IV, ord. 10204/2011. 36 GRASSO L., op. cit., p. 1509. 146 protezione, oltre che la rispettiva causa di giustificazione37. Lo status di rifugiato è previsto nonché disciplinato organicamente dal diritto internazionale pattizio espresso dalla Convenzione di Ginevra e dal successivo Protocollo di New York del 1967, cui il legislatore italiano deve conformarsi ai sensi dell’art. 10, comma 2, Cost. Per quanto concerne le cause di giustificazione, al fine del riconoscimento della qualifica di rifugiato è necessario un requisito che non viene richiesto per l’accertamento del diritto di asilo. Lo straniero deve infatti poter dimostrare la sussistenza almeno di un fondato timore di essere perseguito nel proprio paese di origine, quando ai fini del riconoscimento del diritto di asilo è sufficiente anche solo un principio di prova in merito alla compressione dell’esercizio delle libertà fondamentali nello Stato di provenienza. In conclusione, la nozione di asilo accolta in costituzione è più ampia di quella di rifugio offerta dalla Convenzione, “nel senso che la formula costituzionale consente (e, giuridicamente, impone) allo Stato di concedere (ex art. 10, comma 3) più di quanto sia internazionalmente obbligato”38. 2. Lo status di rifugiato nella prassi anteriore alla legge n. 39/1990 L’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati con la legge n. 722 del 24 luglio 195439. E a questa che si rinvia per definire rifugiato lo straniero che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di appartenenza o, se apolide, di abituale residenza, e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione del proprio Stato (art. 1A). Per lungo tempo, il più grave limite al pieno recepimento della Convenzione nel nostro ordinamento, dopo che è venuto meno quello di ordine temporale a seguito della ratifica del Protocollo di New York del 196740, in base al quale la 37 V. RUOTOLO G. M., Diritto d’asilo e status di rifugiato in Italia alla luce del diritto internazionale e della prassi interna recente, in Diritto pubblico comparato ed europeo, vol. IV, Giappichelli Editore, 2008, p. 1831. 38 D’ORAZIO G., Condizione dello straniero e “società democratica” (sulle “ragioni” dello Stato), CEDAM, Padova, 1994, p. 84. 39 Gazzetta Ufficiale n. 196 del 27 agosto 1954. Il testo delle leggi citate in questo capitolo è disponibile all’indirizzo www.normattiva.it. 40 Legge 14 febbraio 1970, n. 95. Gazzetta Ufficiale n. 79 del 28 marzo 1970. 147 Convenzione si applica anche agli individui che hanno lasciato il proprio paese a seguito di avvenimenti verificatesi successivamente al 1° gennaio 1951 (data originariamente prevista), fu quello di ordine spaziale41. Fino al 1989, hanno in cui fu abolita la riserva geografica formulata all’atto della ratifica della Convenzione42, lo status di rifugiato venne infatti, di regola, riconosciuto nel nostro paese soltanto agli individui provenienti da paesi europei43. Tale limitazione, unitamente alla mancata adozione di una normativa volta a regolamentare compiutamente il diritto d’asilo, portò al delinearsi di due categorie distinte di rifugiati: i rifugiati “de iure” o “sotto Convenzione” e i rifugiati “de facto” o “sotto mandato dell’UNHCR”. Nella prima categoria rientravano i soggetti destinatari della Convenzione di Ginevra così come ratificata dall’Italia, a cui si applicava integralmente la disciplina prevista da quest’ultimo accordo. Nei decenni antecedenti all’entrata in vigore della legge n. 39 del 1990, si fecero alcune limitate e sporadiche eccezioni alla riserva, riconoscendo come rifugiati “de iure” anche cittadini non europei. Una prima deroga venne accordata nel settembre del 1973, quando il Governo italiano riconobbe lo status di rifugiato a circa un migliaio di cittadini cileni che chiesero protezione all’ambasciata italiana di Santiago del Cile. In seguito, furono riconosciuti come rifugiati circa tremilacinquecento cittadini provenienti dal Sud-est asiatico (cambogiani, laotiani e sud-vietnamiti) e alcuni cittadini iracheni, afghani e ghanesi44. La categoria dei rifugiati “de facto” o “sotto mandato dell’UNHCR” è invece di più difficile definizione e delineabile sostanzialmente per esclusione rispetto alla prima. Rientravano in questa categoria i rifugiati extraeuropei, quelli in 41 Si ricorda che, ai sensi dell’art. 1B, gli Stati contraenti all’atto della firma o della ratifica potevano limitare l’applicazione della Convenzione ai soli cittadini di provenienza europea. Tale facoltà venne soppressa dal Protocollo di New York del 1967, facendo tuttavia salve le dichiarazioni restrittive già formulate dagli Stati (art. I, par. 3 del Protocollo). 42 La riserva geografica è decaduta con l’entrata in vigore del decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 39 (Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28 febbraio 1990). 43 L’esclusione dei cittadini di paesi extraeuropei fu oggetto di incisive critiche. Le ragioni politiche che portarono a questa scelta e al suo mantenimento per diversi decenni, furono innanzitutto di ordine economico e di pubblica sicurezza. Le autorità argomentarono infatti sulla base della circostanza che l’Italia era l’unico paese occidentale che presentava una frontiera terrestre o marittima con due aree geografiche, l’Europa dell’est e l’area afro-asiatica, da cui provenivano flussi massicci di profughi. V. PETROVIĆ N., Rifugiati, profughi, sfollati. Breve storia del diritto d’asilo in Italia dalla Costituzione ad oggi, Franco Angeli Editore, Milano, 2011, p. 25. 44 Come osservato da NERI L., “queste eccezioni, in assenza di un preciso quadro normativo, furono frutto di accordi politici e del discrezionale interessamento dei governi in carica, con la conseguente incoerenza e la disparità di trattamento che ben si può immaginare”, in NASCIMBENE B. (a cura di), Diritto degli stranieri, cit., p. 1207. 148 transito nel territorio italiano e diretti in altri paesi, i soggetti già riconosciuti rifugiati da un altro Stato contraente (il c.d. Stato di primo asilo) e coloro che si trovavano comunque temporaneamente in Italia e chiedevano protezione all’UNHCR. Ad accumunare queste due tipologie di rifugiati vi era il diritto, sancito dall’art. 33 della Convenzione, a non essere respinto (il c.d. principio di nonrefoulement) e la possibilità di accedere alla protezione dell’UNHCR, il cui mandato statutario non era limitato ai soli rifugiati “sotto Convenzione”. A seconda della categoria di appartenenza, la procedura volta al riconoscimento dello status seguiva dal principio un percorso differente: la richiesta di asilo veniva depositata alla frontiera, presso le autorità di polizia o le Questure, e successivamente inoltrata al Ministero dell’Interno o all’UNHCR a seconda che si trattasse, rispettivamente, di profughi europei o extraeuropei. Le domande di asilo presentate dai primi erano istruite da un’apposita Commissione paritetica di eleggibilità (CPE), composta da due funzionari, di cui uno del Ministero degli Affari Esteri e uno del Ministero dell’Interno, e da un componente della delegazione italiana dell’UNHCR45. In attesa dell’esito della procedura, ai profughi europei, spesso inviati nei Centri di assistenza profughi stranieri (CAPS), era concesso un permesso di soggiorno ad interim, che in caso di riconoscimento dello status di rifugiato era sostituito da un altro, rinnovabile ogni quattro mesi. L’esito positivo del procedimento conduceva ad una dichiarazione di “eleggibilità”, che oltre a riconoscere lo status di rifugiato, permetteva ai beneficiari di fruire del diritto al soggiorno e al lavoro, e dell’equiparazione sotto il profilo assistenziale ai cittadini italiani46. In caso di esito negativo, vi era un'unica possibilità per il richiedente: qualora fossero emersi nuovi elementi di fatto, costui poteva chiedere la revoca del provvedimento e il riesame da parte della medesima Commissione. Nonostante le 45 La Commissione paritetica di eleggibilità venne istituita con uno scambio di note tra il Governo italiano e l’UNHCR, il 22 luglio 1952 e sancita ufficialmente con un decreto interministeriale del 24 novembre 1953. Si noti che la data di istituzione è antecedente a quella della ratifica della Convenzione di Ginevra da parte dello Stato italiano, in quanto l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati opera in Italia dal 15 aprile 1952. Si veda FERRARI, G., Rifugiati in Italia. Excursus storico-statistico dal 1945 al 1995, disponibile all’indirizzo www.unhcr.it/cms/attach/editor/PDF/escursus.pdf. 46 Per un’approfondita analisi della possibilità riconosciuta ai rifugiati “de iure” di esercitare un lavoro subordinato o autonomo si veda NASCIMEBENE B., Lo straniero nel diritto italiano, cit., p. 119. 149 reiterate raccomandazioni in tal senso avanzate dal Comitato esecutivo del programma dell’UNHCR, non vi era nessuna possibilità di ricorrere in via giurisdizionale contro il provvedimento di diniego emanato dalla Commissione. L’istanza dei richiedenti extraeuropei era inoltrata da parte dell’autorità ricevente alla Delegazione italiana dell’UNHCR, che avrebbe decretato il riconoscimento della qualifica di rifugiato “sotto mandato” oppure rigettato la domanda. La protezione fornita dell’UNHCR consisteva nell’assistenza sanitaria ed economica (tramite contributi e borse di studio), che poteva però essere garantita solo in misura limitata e per un periodo non superiore a sei mesi. Il rifugiato “sotto mandato” non vantava inoltre alcun diritto nei confronti dello Stato, che si limitava a rilasciargli un permesso di soggiorno provvisorio “in attesa di emigrazione”, eccezionalmente rinnovabile, con il quale era precluso l’accesso a qualsiasi attività lavorativa. Questi ultimi rifugiati erano perciò trattati alla stregua degli stranieri ordinari e soggetti alle disposizioni del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza47, sia per quanto concerne il soggiorno che l’eventuale allontanamento dal territorio dello Stato. Occorre notare, in conclusione, che seppur con le tratteggiate differenze di trattamento riservate ai rifugiati europei ed extraeuropei, la scelta dell’emigrazione accomunava entrambe le categorie48. L’Italia per quasi un quarantennio svolse pertanto il ruolo di paese di primo asilo, delegando ad altri paesi europei, come Francia, Gran Bretagna e Germania, il compito di offrire una più stabile e duratura protezione. 3. L’evoluzione normativa in materia di asilo e immigrazione: dalla legge Martelli alla legge n. 189 del 30 luglio 2002 Lo stallo sulla disciplina dell’asilo è perseguito per vari decenni fino a quando l’incremento dei flussi migratori non ha imposto di fatto all’Italia un ripensamento quantomeno parziale della propria legislazione. Fu così emanato il primo strumento legislativo che prevedeva espressamente disposizioni in materia di asilo 47 Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, Gazzetta Ufficiale n. 146 del 26 giugno 1931. Nel periodo tra il 1952 e il 1989 vengono presentate in Italia circa 188.188 domande di asilo. Al 31 dicembre 1991 soltanto 12.203 sono i rifugiati che risultano stabiliti in Italia. V. PETROVIĆ N., op. cit., p. 28-29. 48 150 e immigrazione: il decreto legge n. 416 del 1989 recante “Norme urgenti in materia di asilo politico, d’ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti nel territorio dello Stato”, convertito con alcune modifiche nella legge 28 febbraio 1990, n. 39 (c.d. legge Martelli, dal nome dell’allora vicepresidente del Consiglio che la propose)49.Si trattava tuttavia di una legislazione d’urgenza50, avente natura provvisoria, il primo passo verso l’attesa normativa organica in materia d’asilo. Ai rifugiati venne dedicato l’articolo 1. Nonostante infatti il titolo facesse riferimento all’“asilo politico”, la normativa si limitò ad integrare la legge di ratifica della Convenzione di Ginevra, riferendosi quindi esclusivamente ai rifugiati come definiti dall’art. 1A della Convenzione51. Come anticipato in precedenza, il primo elemento significativo della legge fu l’abolizione della riserva geografica apposta dall’Italia all’atto della ratifica della Convenzione di Ginevra. Per i rifugiati “de facto” il comma 3° dell’art. 1, aveva previsto la possibilità di beneficiare di una forma di riconoscimento automatico dello status di rifugiato52, acquisendo in questo modo la protezione effettiva del Governo italiano. I successivi commi dell’art. 1 erano invece dedicati a disciplinare la procedura volta al riconoscimento dello status di rifugiato, che com’è noto è lasciata dalla Convenzione all’iniziativa del legislatore nazionale53. 49 Al fine di dare attuazione ad alcune disposizioni contenute nella l. Martelli viene successivamente emanato il D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136, Gazzetta ufficiale dell’8 giugno 1990, n. 132. 50 La legge venne infatti approvata nei giorni successivi all’assassinio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, a cui seguì una forte mobilitazione della società civile che chiedeva una nuova legislazione in materia di immigrazione, capace di riflettere i cambiamenti in atto nel contesto internazionale e nella stessa società italiana. Nel 1989 vi era stata infatti la caduta del muro di Berlino, a seguito della quale veniva quasi a cessare completamente il flusso dei profughi provenienti dall’ex blocco sovietico. In secondo luogo, vi erano profondi mutamenti in atto nel contesto comunitario, che portarono all’abolizione delle frontiere interne e all’approvazione dei primi strumenti vincolanti in materia d’asilo. 51 Come sottolineato da BENEDETTI E., “da questo disposto si evince chiaramente come l’equivoco tra richiedenti asilo e rifugiati non sia stato in alcun modo risolto dal testo legislativo in questione”, in BENEDETTI E., Il diritto di asilo e la protezione dei rifugiati nell’ordinamento comunitario dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, CEDAM, Milano, 2010, p. 231. 52 Ai sensi dell’art. 1, comma 3, d.l. 416/1989: “agli stranieri extraeuropei ‘sotto mandato’ dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) alla data del 31 dicembre 1989 è riconosciuto, su domanda da presentare, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al Ministro dell’Interno, lo status di rifugiato. Tale riconoscimento non comporta l’erogazione dell’assistenza”. 53 Come tuttavia osservato da NASCIMBENE B., “la possibilità stessa di dare concreta attuazione alla Convenzione è inscindibilmente collegata alla strutturazione della procedura in termini tali da consentire l’identificazione dei beneficiari della tutela, […] prima e indipendentemente da ogni formale riconoscimento. Si può quindi ritenere che il rispetto di talune garanzie procedurali minime formi l’oggetto di un obbligo implicito, funzionale all’effettivo rispetto degli impegni 151 Per quanto concerne l’ingresso nel territorio italiano, la norma in esame, conformemente all’art. 31 della Convenzione, non faceva alcuna distinzione tra i richiedente asilo entrati regolarmente e coloro che si trovano invece in situazione irregolare. L’accesso era quindi consentito a tutti i richiedenti indistintamente, ad eccezione di quelli elencati nel 4° comma, che dovevano essere respinti dalla polizia di frontiera o comunque esclusi dall’accesso alla procedura. Tra le condizioni ostative, oltre a quelle già previste dall’art. 1F della Convenzione di Ginevra (aver commesso un crimine contro la pace, di guerra o contro l’umanità, un delitto comune accertato con sentenza passata in giudicato, essersi reso colpevole ai azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite), vi erano il riconoscimento dello status di rifugiato in un altro paese, la provenienza da un paese diverso da quello di appartenenza e contraente della Convenzione, dopo avervi soggiornato per un periodo di tempo54 e la condanna per uno dei reati previsti dall’art. 380, commi 1 e 2 del c.p.p. (tra cui l’associazione di tipo mafioso, il traffico di stupefacenti, e l’appartenenza ad organizzazioni terroristiche)55. Ai sensi del comma 5°, per essere riconosciuto rifugiato lo straniero doveva inoltrare un’istanza motivata e il più possibile documentata all’ufficio di polizia di frontiera. In seguito all’inoltro della domanda e all’elezione del domicilio nel territorio dello Stato, al soggetto veniva rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo, valido fino al termine della procedura di riconoscimento. Nel caso in cui il richiedente fosse privo dei mezzi necessari alla sussistenza e non potesse ricevere ospitalità, poteva fare domanda per un contributo di prima assistenza, che era concesso in ogni caso per un periodo di tempo non superiore a quarantacinque giorni (7° comma). Il comma 6° della legge Martelli prevedeva inoltre la possibilità di presentare ricorso giurisdizionale avverso la decisione di assunti sul piano internazionale”. V. NASCIMBENE B., La condizione giuridica dello straniero. Diritto vigente e prospettive di riforma, CEDAM, Padova, 1997, p. 123-124. 54 L’espulsione o il respingimento non erano in ogni caso consentiti se in detto paese o in quello in cui lo straniero era stato riconosciuto rifugiato, quest’ultimo corresse il rischio di essere oggetto di persecuzioni per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, oppure rischiasse di essere rinviato verso uno Stato terzo nel quale non fosse protetto dalla persecuzione. 55 È opportuno sottolineare che autorevoli esponenti hanno rilevato che le ipotesi di diniego alla procedure di cui alle lettere a)-d) dell’art. 1, sono almeno parzialmente incompatibili con quelle previste dalla Convenzione di Ginevra, determinando quindi l’esclusione ingiustificata di una fascia di richiedenti asilo. Tale tesi è stata inoltre condivisa da alcune pronunce giurisdizionali, tra 152 respingimento presa ai sensi dei due commi precedenti, non specificando tuttavia se quest’ultimo avesse effetto sospensivo56. La procedura per ottenere lo status di rifugiato era invece disciplinata nel decreto attuativo della legge in esame, D.P.R. n. 136 del 1990. La domanda dopo essere stata istruita dalla Questura competente, e completa del verbale delle dichiarazioni rese dai richiedenti, era inviata alla Commissione centrale, che la esaminava sulla base dei criteri di eleggibilità sanciti dalla Convenzione di Ginevra. Con riguardo alla Commissione centrale, quest’ultima era presieduta da un prefetto e composta da un funzionario della Presidenza del Consiglio, uno del Ministero degli affari esteri e due del Ministero dell’interno57. Vi partecipava inoltre, con funzioni meramente consultive, un rappresentante della delegazione italiana dell’UNHCR. Per quanto riguarda i diritti del richiedente durante la procedura, egli, previa richiesta formulata nel verbale, poteva essere sentito personalmente dalla Commissione; non aveva tuttavia diritto all’assistenza di un difensore o di un consulente dell’UNHCR ma solo, ove occorresse, all’ausilio di un interprete. La decisione, motivata, doveva essere notificata per iscritto all’interessato, che in caso di esito negativo poteva impugnarla, entro trenta giorni, davanti al giudice amministrativo territorialmente competente58. In seguito al riconoscimento dello status di rifugiato, il soggetto godeva oltre che dei diritti riconosciuti agli immigrati regolari, dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione di Ginevra. In particolare, i diritti relativi ai rapporti civili, di lavoro e di assistenza sociale, divenendo, di fatto, equiparabile a un cittadino italiano. cui si ricorda TAR Friuli-Venezia Giulia, sentenza 13 marzo 1989 n. 53. V. NASCIMBENE B., op. cit., p. 125. 56 Il ricorso contro i provvedimenti di diniego dello status di rifugiato e contro quelli di espulsione dal territorio dello Stato è inoltre previsto dall’art. 5 commi 2-3, che precisa la competenza del tribunale amministrativo regionale del luogo del domicilio eletto dall’interessato. Entrambe le norme non si esprimono circa l’effetto sospensivo del ricorso. Alla luce delle norme minime consacrate in sede internazionale, in particolare l’art. 13 della CEDU, l’effetto sospensivo, in quanto funzionale alla garanzia del principio di non refoulement, è essenziale alla garanzia stessa del ricorso (V. Corte EDU, Vilvarajah e altri c. Regno Unito, supra, Capitolo II). 57 Ai sensi dell’art. 2, D.P.R. n. 136/1990, la Commissione centrale è nominata con decreto del Presidente del Consiglio, su proposta congiunta dei Ministri dell’interno e degli esteri. Il comma 2, prevede la possibilità che della stessa siano costituite più sezioni, anche per aree geografiche di provenienza dei richiedenti. 58 In seguito ad un’eventuale notifica negativa, le Questure provvedono ad emanare i necessari provvedimenti di espulsione o in alternativa un invito a lasciare il paese. Contestualmente al ricorso contro il provvedimento di allontanamento, da proporsi sempre nel termine di 30 giorni dalla notifica al TAR del luogo di domicilio, il richiedente interessato può presentare istanza di sospensione dell’esecutorietà di quest’ultimo. 153 Il principale problema della normativa riguardava la durata della procedura di asilo, ossia il periodo compreso tra l’ingresso del richiedente nel territorio italiano e il provvedimento finale emanato dalla Commissione centrale. Secondo le stime di Medici Senza Frontiere, la durata media della proceduta superava regolarmente i due anni59. Durante tale periodo il richiedente era costretto a vivere nella più assoluta incertezza, non avendo né diritto al lavoro, né tanto meno un sussidio economico, se non per la durata limitata di quarantacinque giorni. A ciò si aggiunse, negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge Martelli, l’inizio dei flussi massicci di profughi che accompagnarono le crisi albanesi del 1991 e del 1997, la guerra civile somala del 1992 e gli eventi bellici della ex-Jugoslavia, che destabilizzarono ulteriormente il precario sistema d’asilo definito dalla legge. Per far fronte a tali emergenze, il legislatore si vide costretto ad emanare una serie di normative eterogenee che introdussero nell’ordinamento italiano alcune figure di asilo umanitario, distinte dallo status di rifugiato60. 3.1 Il Testo unico sull’immigrazione e la legge n. 189/2002 Alla luce delle criticità riscontrate e del costante aumento dei flussi migratori, nel 1998 il Governo ritenne opportuna l’emanazione di una nuova legge, con l’intento di disciplinare organicamente l’intera materia dell’immigrazione. Venne così approvata la legge n. 40 del 1998 (c.d. legge Turco-Napolitano, dai nomi degli allora Ministri della solidarietà sociale e dell’interno)61, poi confluita nel “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” (d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286)62 che sostituì la previgente l. n. 39/1990. Il solo articolo di detta legge a non essere 59 V. CODINI E., D’ODORICO M., GIOIOSA M., Per una vita diversa. La nuova disciplina italiana dell’asilo, Franco Angeli Editore, Milano, 2009, p. 31. 60 Si ricordano: decreto legge 24 luglio 1992, n. 350 recante “Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli sfollati delle Repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia, nonché misure urgenti in materia di rapporti internazionali e di italiani all’estero”, convertito nella legge 24 settembre 1992, n. 390 (G.U. del 26 settembre 1992, n. 227); decreto del Ministro degli Affari esteri 9 settembre 1992 recante “Norme sul rilascio del permesso temporaneo di soggiorno per motivi di lavoro o di studio ai cittadini somali privi del riconoscimento dello status di rifugiato” (G.U. del 26 ottobre 1992, n. 252); decreto legge 20 marzo 1997, n. 60 recante “Interventi straordinari per fronteggiare l’eccezionale afflusso di stranieri extracomunitari provenienti dall’Albania”, convertito nella legge 19 maggio 1997, n. 128 (G.U. del 19 maggio 1997, n. 114). 61 Legge 6 marzo 1998 n. 40 “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, Gazzetta Ufficiale del 12 marzo 1998 n. 59, Supplemento Ordinario n. 40. 154 abrogato fu proprio l’art. 1 relativo ai rifugiati, il cui contenuto rimase invariato. Nel 1998 infatti, contrariamente alla prassi precedente, si decise di scindere la disciplina della condizione giuridica dell’immigrato extracomunitario da quella del richiedente asilo e rifugiato, rinviando ad una distinta e successiva legge, poi non più approvata, la regolamentazione di quest’ultima materia63. Il Testo unico introdusse tuttavia alcune disposizioni di interesse per i rifugiati e i richiedenti asilo. Tra queste, l’art. 5, comma 6, forniva la base giuridica per il rilascio o il rinnovo, da parte del Questore, di un permesso di soggiorno per “motivi umanitari o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. In tal modo, la Commissione centrale, in caso di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato poteva, qualora ne riscontrasse l’esigenza, suggerire al Questore il rilascio di quest’ultimo permesso. L’art. 19, comma 1, ribadiva sia il principio di non-refoulement (diretto e indiretto) di cui all’art. 33 della Convenzione, sia il divieto di espulsione ex art. 32 della stessa. Nel successivo art. 20 era inoltre prevista la possibilità d’introdurre misure di protezione temporanea “per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in paesi non appartenenti all’Unione europea”64. Tali misure straordinarie di accoglienza erano stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d’intesa con i Ministri degli affari esteri, dell’interno, per la solidarietà sociale e con gli altri Ministri eventualmente interessati. Una norma di favore per il rifugiato rispetto all’immigrato extracomunitario, era contenuta nell’art. 29, comma 3, che nel disciplinare il diritto al ricongiungimento familiare esentava il primo dal 62 Gazzetta Ufficiale del 18 agosto 1998, n. 191, Suppl. Ordinario n. 139. Al fine di dare attuazione alle disposizioni del Testo unico è stato emanato il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, Gazzetta Ufficiale del 3 novembre 1999, n. 258, Suppl. Ordinario n. 190. 63 Nel disegno di legge originario erano previsti infatti due articoli in materia d’asilo che vennero stralciati dal testo a fronte dell’impegno del Governo a procedere con un apposito disegno legge in materia. Quest’ultimo tuttavia, nonostante i tre anni di dibattito parlamentare, non sarà approvato. 64 Tale forma di protezione temporanea è stata sperimentata per la prima volta in occasione dell’emergenza kosovara del 1999 (D.P.C.M. 12 maggio 1999, Gazzetta Ufficiale del 26 maggio 1999, n. 1219) e “riattivata” di recente con l’adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 5 aprile 2011, recante “Misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini provenienti dal Nord Africa” (Gazzetta Ufficiale dell’8 aprile 2011, n. 81). Per un approfondimento dell’istituto si veda CARBONE A., La protezione temporanea: l’evoluzione dell’istituto nell’ordinamento italiano e l’applicazione nell’emergenza Kossovo, in Gli stranieri. Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, n. 2, 2001, p. 85 ss. 155 soddisfacimento di determinati requisiti, richiesti invece al secondo65. Occorre richiamare infine l’art. 40 del Testo unico, che stabiliva la predisposizione ad opera degli enti locali, in collaborazione con le associazioni e le organizzazioni di volontariato, di strutture ricettive in grado di ospitare stranieri regolarmente soggiornanti “che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza”. L’obiettivo dei centri di accoglienza era di rendere lo straniero autosufficiente nel più breve tempo possibile, prevedendo servizi sociali e culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti66. Come annunciato, la legge che avrebbe dovuto disciplinare per la prima volta in modo organico la condizione di richiedenti asilo e rifugiati, non è stata approvata negli anni successivi all’entrata in vigore del Testo unico sull’immigrazione. Il legislatore si è invero limitato a intervenire, modificando e integrando il disposto ancora in vigore della legge Martelli, con la promulgazione il 30 luglio 2002 della legge n. 189, “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, (c.d. legge Bossi-Fini, dai nomi dell’allora Ministro delle riforme istituzionali e della devoluzione e del Vicepresidente del Consiglio)67, a cui è stata data completa attuazione in seguito all’emanazione di due decreti del Presidente della Repubblica68. Le nuove disposizioni vengono introdotte agli art. 31 e 32, rubricati “disposizioni in materia d’asilo”, che aggiungono al disposto dell’art. 1 della l. n. 39/90, ulteriori sei articoli, dall’art 1 bis a 1 septies. Si noti che la legge Bossi-Fini riproduce quella commistione tra il diritto di asilo costituzionale e l’istituto del rifugio convenzionale già operata a suo tempo dalla legge Martelli. Nonostante infatti la rubrica del Titolo II, la nuova 65 In particolare si tratta della disponibilità di un alloggio che rientri in determinati parametri minimi, stabiliti con legge regionale e di un reddito annuo, che non deve essere inferiore, per ogni familiare ricongiunto, all’importo annuo dell’assegno sociale. 66 Come osservato da BENEDETTI E., “È con la legge Turco-Napolitano che viene riconosciuto per la prima volta agli enti locali un ruolo strutturale nell’accoglienza e nell’integrazione sociale degli stranieri […]. Si delinea così un sistema di ripartizione delle competenze in materia di rifugiati tra Stato, regioni, province e comuni. In particolare, le regioni avrebbero dettato le linee generali d’azione, mentre gli enti locali avrebbero definito nello specifico i progetti”. V. BENEDETTI E., op. cit., p. 235-236. 67 Legge 30 luglio 2002, n. 189, Gazzetta Ufficiale del 26 agosto 2002, n. 199, Suppl. ordinario n. 173. 68 Ai sensi dell’art. 34 sono stati emanati il D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, “Regolamento di attuazione delle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato” (Gazzetta Ufficiale del 22 dicembre 2004, n. 299) e il D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334, “Regolamento reacnte modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione” (Gazzetta Ufficiale del 10 febbraio 2005, n. 33). 156 normativa si riferisce ancora una volta alla nozione di rifugiato di cui alla Convenzione di Ginevra. L’innovazione principale riguarda la procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato, differenziata a seconda della situazione soggettiva del richiedente asilo; resta inalterata la fase dell’accesso alla procedura che continua ad essere disciplinata dalla normativa precedente. Il nuovo articolo 1 bis della l. n. 39/1990 si apre escludendo che il richiedente asilo possa essere trattenuto al solo fine di esaminare la domanda; la medesima norma tuttavia contiene un numero tale di eccezioni da privare sostanzialmente di significato tale affermazione. Sono tre le ipotesi in cui il questore all’atto della presentazione della domanda di asilo può disporre il trattenimento del richiedente “per il tempo strettamente necessario”: la verifica, in assenza di documenti o in caso di falsità di questi, dell’identità e della nazionalità del richiedente; la verifica, “qualora tali elementi non siano immediatamente disponibili”, degli elementi su cui si fonda la domanda; la pendenza del procedimento in merito al riconoscimento del diritto di ammissione nel territorio italiano69. A queste ipotesi di trattenimento facoltativo, si affiancano i casi di trattenimento obbligatorio quando il soggetto è stato “fermato per aver eluso o tentato di eludere il controllo di frontiera o subito dopo, o, comunque, in condizioni di soggiorno irregolare” o è “già destinatario di un provvedimento di espulsione o respingimento”. Per quanto concerne i centri in cui i richiedenti possono (o devono) essere trattenuti la legge ne distingue due: i Centri di Permanenza temporanea e Assistenza (CPT)70 per i soggetti già colpiti da un provvedimento di espulsione o respingimento e i Centri di Identificazione (CID) per gli altri soggetti71. Un’altra novità importante introdotta dalla legge Bossi-Fini riguarda l’organo che deve esaminare la richiesta di asilo: il ruolo che era della Commissione centrale viene affidato alle Commissioni territoriali, istituite presso le Prefetture – 69 La dottrina maggioritaria ritiene che in questo caso ci si debba riferire all’accertamento delle cause ostative all’accesso alla procedura ex art. 1, comma 4, l. n. 39/1990. In ogni caso non vi rientrano le situazioni in cui sia da stabilire lo Stato competente per l’esame della domanda ai sensi del regolamento Dublino II (sostituito dal regolamento Dublino III a partire dal 1° gennaio 2014). 70 Istituiti ai sensi dell’art. 14 del Testo unico sull’immigrazione. 71 Tali Centri sono istituiti ai sensi dell’art. 1 bis, comma 3, l. n. 39/1990 e disciplinati dal D.P.R. n. 303/2004. Occorre notare che, al contrario di quanto accade per il trattenimento nei CPT, non è prevista la convalida da parte dell’autorità giudiziaria del provvedimento di trattenimento emesso dal Questore, né è fissato alcun limite alla durata di quest’ultimo (il limite temporale di trattenimento nei CPT ai sensi dell’art. 14, comma 5, T.U., è fissato in 30 giorni, prolungabile di altri 30, dalla richiesta di asilo). 157 Uffici territoriali del Governo e nominate con decreto del Ministro dell’interno72. Codeste Commissioni, presiedute da un funzionario di carriera prefettizia, sono composte da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante dell’ente territoriale designato dalla conferenza stato-città e autonomie locali ed, infine, da un rappresentante dell’UNHCR. La Commissione centrale viene trasformata in Commissione nazionale per il diritto di asilo, di cui mantiene la composizione ma con compiti sostanzialmente diversi. La legge affida a quest’ultima, infatti, compiti di indirizzo e coordinamento delle Commissioni territoriali, di formazione e aggiornamento dei membri delle medesime e di raccolta di dati statistici, oltre che il potere decisionale circa la revoca e la cessazione degli status concessi. Per quanto concerne la procedura per la definizione dell’istanza di riconoscimento dello status di rifugiato, la novità principale è contenuta nell’art. 1 ter che introduce una procedura semplificata, accanto a quella ordinaria. La prima si applica all’esame delle domande di asilo dei richiedenti obbligatoriamente trattenuti, la seconda nei restanti casi, inclusi quelli in cui è disposto comunque il trattenimento. Le differenze più rilevanti tra le due procedure riguardano la durata totale prevista73 e la possibilità di presentare un’istanza di riesame avverso il provvedimento di diniego dello status, in caso di procedura semplificata74. La richiesta di riesame, “adeguatamente motivata”, deve essere presentata dal richiedente alla Commissione territoriale competente entro cinque giorni dalla comunicazione della decisione. Tale Commissione, integrata da un componente 72 Secondo quanto previsto dal D.P.R. n. 303/2004 le Commissioni territoriali sono istituite presso le Prefetture di Gorizia, Milano, Roma, Foggia, Siracusa, Crotone e Trapani. Per quanto concerne i criteri di collegamento territoriale ai fini dell’individuazione della Commissione compente, questi dipendono dalla sussistenza o meno di un provvedimento di trattenimento del richiedente asilo. In caso di trattenimento è competente la Commissione nella cui circoscrizione territoriale si trova il Centro; negli altri casi, la Commissione nella cui circoscrizione è inoltrata la domanda (art. 12, comma 2, D.P.R., cit.). 73 Per la procedura semplificata è di venti giorni complessivi: il questore entro due giorni dal ricevimento dell’istanza deve trasmettere i documenti necessari per il riconoscimento dello status di rifugiato alla Commissione territoriale competente, quest’ultima deve disporre l’audizione dell’interessato nei quindici giorni successivi e adottare la decisione entro tre giorni dall’audizione. La procedura ordinaria prevedente un lasso di tempo maggiore per l’audizione del richiedente che deve avvenire nei trenta giorni successivi al ricevimento della documentazione da parte della Commissione territoriale. 74 Si rileva come non vi sia, in merito all’ambito di applicazione della procedura di riesame, un adeguato coordinamento tra il comma 1 dell’art. 1 ter, che dispone l’applicazione di tale procedura per le due categorie di richiedenti asilo soggette a trattenimento obbligatorio (i richiedenti trattenuti nei CPT e quelli trattenuti nei Centri di Identificazione), e il comma 6 del medesimo articolo, in cui si limita tale possibilità ai richiedenti appartenenti alla seconda categoria. V. NASCIMBENE B., Diritto degli stranieri, cit., p. 1237. 158 della Commissione nazionale, provvederà a confermare o annullare la decisione precedentemente adottata nei dieci giorni successivi. Il richiedente lo status, a prescindere dalla procedura seguita, entro quindici giorni dalla comunicazione del diniego, può proporre ricorso al tribunale in composizione monocratica territorialmente competente. La presentazione del ricorso non sospende tuttavia l’eventuale provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale disposto nei suoi confronti. Solo nelle ipotesi di procedura semplificata, il soggetto può infatti chiedere al prefetto l’autorizzazione a permanere in Italia in attesa dell’esito del ricorso75. Occorre sottolineare inoltre, che il comma 4 dell’art. 1 quater della l. n. 39/1990, esplicita la possibilità che la decisione di rigetto dell’istanza per mancanza dei requisiti previsti dalla Convenzione di Ginevra, sia integrata con la richiesta al questore del rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art. 5, comma 6, T.U., rendendo in tal modo effettivamente competente la Commissione circa la concessione della protezione umanitaria. Ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. c), la Commissione sarà tenuta a valutare “le conseguenze di un rimpatrio alla luce degli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali delle quali l’Italia è firmataria e, in particolare, dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”76. 75 La tutela giurisdizionale accordata ai richiedenti asilo dalla l. n. 189/2002 è stata duramente criticata dalla dottrina. Il termine di soli quindici giorni per la proposizione del ricorso, non solo priva di effettività la tutela offerta al richiedente, ma è in potenziale contrato con l’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Altrettanto grave è inoltre l’esplicita esclusione di ogni effetto sospensivo, a seguito della presentazione del ricorso. L’unico merito della legge Bossi-Fini, nell’aspetto in commento, è la scelta della giurisdizione ordinaria a discapito di quella amministrativa nel giudizio di impugnazione del provvedimento di diniego dello status, quindi di un giudizio di accertamento di quello che viene riconosciuto essere un diritto soggettivo. La sussistenza della giurisdizione ordinaria era già stata riconosciuta, a seguito dell’abrogazione dell’art. 5 della l. n. 39/1990 ad opera della l. n. 40/1998, dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 907 dell’8 ottobre1999. In tale occasione i giudici avevano osservato che se la qualifica di rifugiato costituisce uno status, un diritto soggettivo, “tutti i provvedimenti assunti dagli organi competenti in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, per cui le controversie concernenti il diritto d’asilo o la posizione del rifugiato rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario”. 76 Come osservato da VITALE G., l’art. 1 quater, comma 4, prevede che “la Commissione nell’esaminare la domanda ‘valuta’, e non ‘può valutare’, per i provvedimenti di cui all’art. 5, comma 6, del Testo unico. Ciò comporta che la Commissione deve esaminare la domanda sia quanto al riconoscimento dello status, sia quanto alla possibile indicazione relativa al rilascio di un permesso per motivi umanitari; da ciò discende l’obbligo – in caso di rigetto senza ulteriori indicazioni – di specificare in motivazione non solo i motivi di diniego del riconoscimento, ma anche i motivi per cui non si è ritenuto di dover disporre il rilascio del permesso per motivi umanitari”, VITALE G., La nuova procedura di riconoscimento dello status di rifugiato: dall’audizione avanti la Commissione territoriale all’impugnativa giurisdizionale”, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4, 2005, p. 48. 159 La legge Bossi-Fini, infine, abroga l’art. 1, comma 7, della l. n. 39/1990, che prevedeva un contributo in denaro ai richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza o di ospitalità in Italia, e al contempo istituisce, agli art. 1 sexies e 1 septies, il nuovo Sistema di protezione per i richiedenti asilo, i rifugiati e ogni altro soggetto destinatario di protezione umanitaria (SPRAR)77. Per il finanziamento di questo sistema viene costituito il Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, gestito direttamente dal Ministero dell’interno che provvede alla sovvenzione degli enti locali che prestano servizi finalizzati all’accoglienza dei richiedenti asilo e alla tutela dei rifugiati e degli stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria. 4. Il diritto d’asilo in Italia alla luce della normativa comunitaria Il quadro normativo italiano è profondamente mutato a seguito del recepimento della normativa europea in materia d’asilo. L’Italia ha provveduto infatti ad uniformarsi a quanto previsto dal legislatore comunitario mediante l’emanazione di una serie di decreti legislativi che sono intervenuti sulla frammentaria e disarticolata normativa esistente. Tali recenti interventi non hanno tuttavia posto rimedio alla mancanza di una legge organica in materia di asilo: la disciplina costituzionale dell’asilo, così come definita nell’art. 10, comma 3, Cost., è ancora oggi molto lontana dalla sua piena attuazione. La prima direttiva ad essere recepita in Italia, mediante il decreto legislativo n. 85 del 7 aprile 200378, è quella relativa alle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi degli Stati membri che ricevono gli sfollati, direttiva 2011/55/CE. Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 85/2003, la protezione temporanea è “quella procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati 77 La legge istituzionalizza il Piano nazionale per l’Asilo già concordato tra il Ministero dell’interno, l’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI) e l’UNHCR, mediante la firma di un protocollo d’intesa il 10 ottobre 2000. Per un’analisi approfondita e un bilancio dell’esperienza si veda CAPONIO T., Dal Programma nazionale asilo al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Bilancio di un’esperienza di governo territoriale dei flussi migratori, CeSPI (Centro Studi di Politica Internazionale), ottobre 2004, disponibile all’indirizzo www.cespi.it/anci/anci-asilo.pdf. 78 Gazzetta Ufficiale del 22 aprile 2003, n. 93. 160 provenienti da paesi non appartenenti all’Unione europea che non possono rientrare nel loro paese di origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora sussista il rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso” e i destinatari di tale procedura sono gli sfollati, ossia gli stranieri extracomunitari o gli apolidi “che hanno forzatamente abbandonato il loro paese o regione di origine o che sono stati evacuati, in particolare in risposta all’appello di organizzazioni internazionali, ed il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta momentaneamente impossibile in dipendenza della situazione del paese stesso”79. Le misure di protezione temporanea sono stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri adottato in base all’art. 20 del Testo unico sull’immigrazione, in seguito all’accertamento dell’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati con decisione del Consiglio europeo ai sensi dell’art. 5 della direttiva 2001/55/CE, per la durata massima di un anno, prorogabile con decisione del Consiglio europeo, per ulteriori dodici mesi. Si sottolinea che in base all’art. 7 del decreto legislativo l’ammissione alle misure di protezione temporanea non preclude la presentazione dell’istanza per il riconoscimento dello status di rifugiato, i cui tempi di esame sono stabiliti con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dispone tali misure. Tale decreto, nonostante sul piano legislativo rappresenti un pezzo del mosaico che compone il sistema nazionale d’asilo, ha avuto fino ad ora un impatto limitato sulla prassi, non essendo mai stato applicato80. Con il decreto legislativo n. 140 del 30 maggio 2005 è stata invece data attuazione alla direttiva europea 2003/9/CE sugli standard minimi di accoglienza dei richiedenti asilo. Numerose sono le innovazioni per quanto riguarda i diritti riconosciuti a questi ultimi. Innanzitutto il decreto stabilisce l’obbligo per lo Stato di dare accoglienza al richiedente in stato di necessità, fino al termine della procedura di valutazione della domanda. Inoltre, l’art. 11 del decreto, consente lo svolgimento di un’attività lavorativa a tutti i soggetti la cui domanda non è stata 79 Si tratta in particolare delle persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica, o ancora le persone che siano soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o siano state vittime di tali violazioni. 80 Il Governo italiano aveva sollecitato, senza buon fine, l’attivazione della procedura prevista dalla direttiva 2001/55/CE ai fini della concessione della protezione temporanea in occasione della c.d. emergenza Nord Africa, nella primavera del 2011. 161 valutata dalla Commissione competente entro sei mesi dalla presentazione, salvo che il ritardo non sia imputabile al richiedente stesso81. Il d.lgs. n. 140/2005 disciplina nel dettaglio i ruoli dei diversi attori operanti a livello nazionale nella gestione del fenomeno, ridefinendo le modalità operative dello SPRAR e assegnando alle Prefetture un ruolo attivo in relazione all’accertamento dell’effettivo stato di necessità dei richiedenti asilo e alla segnalazione di particolari esigenze di accoglienza di soggetti vulnerabili. Nel caso in cui al momento della presentazione della domanda, il richiedente asilo si dichiari privo di mezzi sufficienti a garantire il sostentamento proprio e dei propri familiari, la Prefettura dispone l’accesso alle strutture di accoglienza predisposte dallo SPRAR82, previo accertamento dell’effettivo stato di necessità e del rispetto del termine di otto giorni, tra l’ingresso nel territorio dello Stato e la presentazione della domanda di asilo (nel caso in cui ricorrente soggiorni già ad altro titolo legalmente in Italia, il termine decorre dal verificarsi dei motivi di persecuzione allegati alla domanda)83. Oltre a regolare l’accesso alle strutture, il decreto in esame stabilisce anche quali debbano essere le condizioni materiali di accoglienza dei richiedenti asilo, distinguendo tra i richiedenti quelli più vulnerabili, ossia i minori, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori e le persone che hanno subito stupri, torture o altre forme di grave violenza psicologica. In favore di questi ultimi sono approntati servizi speciali, che garantiscono misure assistenziali particolari e un adeguato supporto psicologico. Ai sensi dell’art. 9 d.lgs. n. 140/2005, le strutture di accoglienza devono in ogni caso garantire ai richiedenti: la tutela della vita e, ove possibile, dell’integrità del nucleo familiare; la possibilità di comunicare con i parenti, gli avvocati, e il 81 Come osservato da PETROVIĆ N., “quest’ultima predisposizione è introdotta con una volontà migliorativa rispetto a quanto disposto dalla direttiva 2003/9/CE” che prevede la possibilità di accesso al mercato del lavoro solo dopo un anno dalla presentazione della domanda di asilo. Il Governo italiano si è avvalso della facoltà prevista dall’art. 4 della direttiva, che consente ai singoli Stati membri di stabilire o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in merito alle condizioni di accoglienza, nel rispetto di quanto disposto dall’atto comunitario. V. PETROVIĆ N., op. cit., p. 85. 82 Nel caso di indisponibilità di posti all’interno delle strutture dello SPRAR, ai sensi del comma 3, art. 6 del d.lgs. n. 140/2005, l’accoglienza è predisposta nei Centri di identificazione o nei Centri di accoglienza istituiti ai sensi del decreto legge 30 ottobre 1995, n. 451 convertito dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563 (Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 1995, n. 303), per il tempo strettamente necessario all’individuazione di posti disponibili. 83 Avverso il provvedimento di diniego delle misure di accoglienza è ammesso ricorso al tribunale amministrativo territorialmente competente ex art. 6, comma 8, d. lgs. n. 140/2005. 162 personale dell’UNHCR; la massima riservatezza in ordine ai dati e alle notizie che li riguardano; la presenza di personale adeguatamente formato alle funzioni esercitate all’interno delle strutture. Per quanto concerne l’assistenza sanitaria e l’istruzione scolastica, i richiedenti e i loro familiari sono iscritti al Servizio sanitario nazionale ed è previsto per i minori richiedenti asilo e i minori figli di richiedenti asilo l’obbligo scolastico. Le misure di accoglienza terminano al momento della comunicazione della decisione in merito alla domanda di asilo. Prima di tale momento, tuttavia, le misure possono essere revocate al verificarsi di una delle circostanze previste dall’art. 12 d.lgs. n. 140/2005, ossia: mancata presentazione del richiedente asilo presso la struttura individuata, ovvero abbandono del centro di accoglienza senza previa comunicazione alla Prefettura competente; mancata presentazione all’audizione davanti alla Commissione competente, nonostante la comunicazione della convocazione presso il centro di accoglienza; presentazione in Italia di una precedente domanda di asilo; accertamento della disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici sufficienti alla sussistenza; violazione grave o ripetuta delle regole del centro di accoglienza o adozione di comportamenti eccessivamente violenti84. Accanto ai suddetti decreti legislativi relativi alla protezione temporanea e all’accoglienza dei richiedenti asilo, a comporre il mosaico normativo in materia di asilo concorrono due ulteriori decreti legislativi. Si tratta in primo luogo del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 25185, di recepimento della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. E, infine, il d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 2586, di attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. 84 La revoca è disposta con decreto motivato del Prefetto della provincia in cui ha sede il centro di accoglienza e ha effetto dal momento della sua comunicazione. Contro il decreto di revoca il ricorrente può proporre ricorso al tribunale amministrativo territorialmente competente (art. 12, comma 4, d.lgs. 140/2005). 85 Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 2008, n. 3. Il decreto legislativo ha abrogato l’art. 1, comma 4, lett. c) e d) della l. n. 39/1990. 163 4.1 Status di rifugiato e protezione sussidiaria nel d.lgs. n. 251/2007 Il d.lgs. n. 251/2007 ha innovato profondamente la previgente normativa introducendo, accanto allo status di rifugiato e alla possibilità del rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, una nuova forma di protezione internazionale per chi fugge da persecuzioni e situazioni di violenza generalizzata. All’art. 2, il decreto prevede infatti la possibilità di riconoscere al richiedente protezione internazionale “che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o nel caso di apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno […] e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese”, lo status di protezione sussidiaria. È prevista una richiesta “indistinta” di protezione internazionale, spetterà dunque alla Commissione territoriale competente la scelta di riconoscere lo status di rifugiato, se le persecuzioni addotte dal richiedente rientrino tra quelle previste dalla Convenzione di Ginevra, ovvero, in caso contrario, la protezione sussidiaria in considerazione dei danni gravi che il richiedente subirebbe in caso di rimpatrio nel paese di origine. L’art. 3 del decreto individua gli elementi della domanda di protezione internazione nelle dichiarazioni del richiedente e nella documentazione concernente quelle circostanze e condizioni da cui possono trarsi elementi utili di valutazione87, a cui si aggiungono i motivi della domanda stessa. Circa l’esame della domanda, quest’ultimo avviene su base individuale, in cooperazione con il richiedente, e prevede la valutazione: di tutti i fatti pertinenti relativi al paese di origine (incluse, ove possibile88, le disposizioni legislative e regolamentari in 86 Gazzetta ufficiale del 28 febbraio 2008, n. 40. Il decreto legislativo ha abrogato gli art. 1, commi 4, 5 e 6, 1 bis, 1 ter, 1 quater, 1 quinquies della l. n. 39/1990. 87 Si tratta in particolare della documentazione in possesso del richiedente relativa alla sua età, condizione sociale, anche dei congiunti, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui a soggiornato in precedenza, domande d’asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti d’identità e di viaggio (art. 3, comma 2). 88 Come osservato da BONETTI P., la previsione di tale inciso “appare assi opinabile perché acquisire e mantenere sempre aggiornate precise informazioni sulle norme e sulle prassi applicate in ogni paese è un preciso onere posto a carico dei pubblici poteri per assicurare che effettivamente sia svolta una valutazione sempre obiettiva di ogni domanda presentata da stranieri perseguitati o in pericolo di subire danni gravi”. V. BONETTI P., Il diritto di asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1, 2008, p. 31. 164 vigore in quest’ultimo e le relative modalità di applicazione); della dichiarazione e della documentazione presentate dal richiedente; della situazione individuale e delle circostanze personali di quest’ultimo (il quale deve rendere noto se ha subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi); dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente, dopo aver lasciato il paese di origine, abbiano mirato a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione (al fine di stabilire se tali attività, anche se funzionali in astratto ad abusare del diritto d’asilo, espongano comunque il ricorrente a persecuzione o a danno grave in caso di ritorno nel paese di provenienza); della possibilità che il richiedente, sulla base della documentazione prodotta o raccolta, possa far ricorso alla protezione di un altro paese, di cui potrebbe dichiararsi cittadino. Il decreto conferma inoltre all’art. 4, l’attribuzione della protezione internazionale anche nelle ipotesi in cui il rischio di persecuzione o di danno grave sia sorto in seguito ad avvenimenti verificatesi successivamente alla partenza del richiedente dal paese di origine, ovvero in seguito ad attività svolte da quest’ultimo dopo tale momento89. Nel successivo art. 5, sono individuati i soggetti che possono essere responsabili delle persecuzione o del danno grave, ossia: lo Stato, i partiti o le organizzazioni che lo controllano e i soggetti non statuali, nel caso in cui il ricorrente non possa godere della protezione dei primi ovvero delle organizzazioni internazionali. La possibilità che lo Stato o le organizzazioni internazionali forniscano una protezione adeguata, dovrebbe comportare il rigetto della domanda del richiedente per mancanza del fondato timore di subire persecuzioni o gravi danni. La protezione per essere adeguata deve consistere nell’adozione di misure volte ad impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, anche mediante un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire tali atti. Per quanto riguarda i presupposti della protezione internazionale, e nello specifico dello status di rifugiato, l’art. 7 del decreto, rinviando alla definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra, dispone che gli atti di persecuzione di cui si tratta debbono, in ragione della loro gravità o della loro pluralità, risolversi in una violazione grave dei diritti umani fondamentali. Per diritti umani fondamentali devono intendersi sia le libertà democratiche garantite 89 In particolare quando sia certo cha tali attività costituiscono l’espressione o la continuazione di condizioni od orientamenti già manifestati dal soggetto nel paese di origine. 165 dalla Costituzione italiana, sia i diritti fondamentali garantiti dalle Convenzioni internazionali di cui l’Italia è parte contraente, con particolare riguardo a quelli che l’art. 15, par. 2, della CEDU dichiara inderogabili. Il secondo comma dell’art. 7 contiene un’esemplificazione non esaustiva degli atti di persecuzione, in cui sono inclusi, tra gli altri: i provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio90; le azioni giudiziarie o le sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; il rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e la conseguente sanzione sproporzionata. I motivi di persecuzione sono quelli previsti dall’art. 1A della Convenzione di Ginevra, che il decreto si limita a definire nel contenuto. Per quanto concerne l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, si sottolinea che quest’ultimo può essere individuato anche sulla base della caratteristica comune dell’orientamento sessuale. Ai fini dell’accertamento della fondatezza del timore di persecuzione non rileva che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche per le quali è perseguitato, se tali caratteristiche gli sono attribuite dall’autore della persecuzione. Anche le cause di cessazione e di esclusione dallo status di rifugiato sono mutuate dalla Convenzione di Ginevra91. Le cause di diniego sono invece individuate dall’art. 12, oltre che nelle ipotesi in cui non sussistano i presupposti ovvero ricorra una causa di esclusione, anche quando il richiedente sia pericoloso per la sicurezza dello Stato92 ovvero per l’ordine e la sicurezza pubblica essendo 90 Il richiamo al concetto di discriminazione non deve indurre a ritenere di non considerare persecutoria la situazione di una legge che impedisce a chiunque di esercitare un determinato diritto fondamentale, in quanto paradossalmente così di per se non si discrimina tra le persone che si trovano in situazioni identiche. Infatti, in primis ogni atto di persecuzione è tale non perché discrimina, ma perché comporta la violazione di determinati diritti fondamentali. In secondo luogo, l’elenco di cui al comma 2 dell’art. 7 è meramente esemplificativo. Da ultimo si ricorda inoltre che la Convenzione di Ginevra non esige che una persecuzione sia in atto, ma richiede soltanto una situazione psicologica di fondato timore di persecuzione. V. BONETTI P., op. cit., p. 35. 91 In riferimento alla causa di esclusione consistente nell’aver commesso, il richiedente asilo, al di fuori del paese di accoglienza, un reato grave di diritto comune, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, occorre sottolineare come il d.lgs. in esame si riferisca ai reati per i quali la legislazione nazionale prevede la pena delle reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci (art. 10, comma 2, lett. b). Tale precisazione comporta una restrizione della protezione assicurata in quanto il d.lgs ha ampliato in tal modo lo spettro dei reati che fino al 2008 erano considerati come ostativi alla presentazione della domanda di asilo (ossia i reati indicati nell’art. 380 c.p.p.). 92 Onde evitare un’eccessiva compressione della protezione, tale ipotesi di diniego deve essere intesa come riferita a gravi motivi di carattere concreto e attuale, inerenti al comportamento della persona e non alla mera circostanza della sua presenza nel territorio dello Stato, circostanza che, come affermato da BONETTI P., “al fine di assicurare un’effettiva attuazione del diritto di asilo 166 stato condannato, con sentenza definitiva, per uno dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p. A fini del riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi ai sensi dell’art. 14: la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Il decreto si limita quindi a recepire in modo letterale tutte le circostanze che ai sensi della direttiva 2004/83/CE legittimano il riconoscimento della protezione sussidiaria. Tuttavia, si ritiene che esse debbano essere interpretate in maniera estensiva, in ossequio alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo93. La cessazione dello status di protezione sussidiaria è dichiarata su base individuale, quando le circostante che hanno indotto al riconoscimento sono venute meno o sono mutate al punto che la protezione non è più necessaria. Lo Stato deve dimostrare che tali mutamenti hanno natura così significativa e non temporanea da far escludere che la persona ammessa alla protezione sia esposta al rischio di danno grave; non devono sussistere inoltre gravi motivi umanitari che impediscono il rientro nel paese di origine94. L’art. 16 individua le cause di esclusione della protezione sussidiaria che in parte coincidono con quelle escludenti lo status di rifugiato95, a cui si aggiungono la commissione di un reato grave nel territorio italiano e la pericolosità del richiedente per la sicurezza dello Stato o per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il decreto richiede dunque per l’attribuzione dello status di protezione sussidiaria presupposti più rigorosi, in quanto il giudizio di pericolosità non rappresenta solo un motivo di diniego come per lo status di rifugiato, ma esclude la sussistenza stessa di questa forma di già non potrebbe essere considerata un atto di per se ostile da ogni altro Stato”. V. BONETTI P., op. cit., p. 40. 93 Non si può non notare infatti che le cause di pericolo grave per la vita previste dall’art. 14 sembrano recepire le norme inderogabili previste nell’art. 2 (diritto alla vita) e nell’art 3 (divieto di tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti) della CEDU. 94 Quest’ultima previsione è stata aggiunta dal decreto di recepimento della direttiva con il fine precipuo di evitare inutili usi dell’istituto della protezione umanitaria, non previsto nell’ordinamento comunitario. 95 L’aver commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini (art. 16, comma 1, lett. a); l’aver commesso un reato grave all’estero (art. 16, comma 1, lett. b); l’essersi reso colpevole di atti 167 protezione ed, inoltre, la pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica non è stabilita in una sentenza definitiva. La revoca della protezione internazionale accordata allo straniero è adottata se, successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, è accertata la sussistenza della cause di esclusione come previste dagli art. 10 e 16 del decreto, ovvero se tale riconoscimento è stato determinato, in modo esclusivo, da fatti presentati in modo erroneo, dalla loro omissione o da una falsa documentazione dei medesimi. Il contenuto della protezione internazionale è disciplinato nel Capo V del decreto, il quale innanzitutto ribadisce il principio di non-refoulement come sancito dall’art. 19, comma 1, del d.lgs. 268/1998. Fermo restando il rispetto di tale principio, il rifugiato o lo straniero ammesso alla protezione sussidiaria è espulso quando sussistono fondati motivi di ritenere che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato o quando rappresenta un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci96. Ai sensi dell’art. 23, il permesso di soggiorno per asilo rilasciato ai titolari dello status di rifugiato ha durata quinquennale ed è rinnovabile senza verifiche. Ai beneficiari della protezione sussidiaria è invece rilasciato un permesso di soggiorno di durata triennale, rinnovabile previa verifica della permanenza della condizioni che ne hanno giustificato il rilascio. Il decreto delinea dunque una situazione di maggior ambiguità per i titolari dello status di protezione sussidiaria nel periodo di attesa del rinnovo della protezione, in quanto il diniego del rinnovo della protezione sussidiaria non appare disciplinato nel testo del decreto. Per quanto concerne i documenti di viaggio, ai rifugiati è rilasciato un titolo di viaggio conforme al modello allegato alla Convenzione di Ginevra. Ai titolari di contrari ai principi e alle finalità delle Nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite (art. 16, comma 1, lett. c). 96 Come affermato da BONETTI P., è indispensabile che tali presupposti siano interpretati in modo restrittivo. I divieti di espulsione appaiono inoltre assai deboli, in quanto si riferiscono alla persona nel periodo in cui sia titolare dello status e non anche nel periodo in cui sia in attesa del rinnovo dello stesso, che per i titolari di protezione sussidiaria non è automatico. Per quanto riguarda la competenza a disporre il provvedimento di espulsione, il silenzio della norma dovrebbe comportare un implicito riferimento alla disciplina generale prevista per gli stranieri extracomunitari. Il provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato dovrebbe quindi essere disposto dal Prefetto ex art. 13, comma 1, del Testo unico sull’immigrazione. Si veda BONETTI P., op. cit. p. 47. 168 protezione sussidiaria il titolo di viaggio è invece riconosciuto solo nel caso non sia possibile richiedere un passaporto alle autorità diplomatiche del paese di origine97. In materia di accesso al lavoro, subordinato e autonomo, all’istruzione, all’assistenza sanitaria e sociale, la posizione dei titolari della protezione internazionale è parificata a quella dei cittadini italiani. Ai soli rifugiati è inoltre consentito l’accesso al pubblico impiego alle medesime condizioni previste per i cittadini comunitari. È importante richiamare infine quanto disposto dal comma 5, dell’art. 34. Tale disposizione infatti assicura agli stranieri titolari di un permesso di soggiorno umanitario ai sensi dell’art. 5, comma 6, del Testo unico delle leggi in materia di immigrazione, i medesimi diritti stabiliti a favore dei beneficiari della protezione sussidiaria. 4.2 La procedura amministrativa per il riconoscimento della protezione internazionale Il d.lgs. 25/2008, emanato in attuazione della direttiva 2005/85/CE, come modificato dal d.lgs. 159/2008, ha profondamente innovato la procedura di riconoscimento del diritto di asilo. Occorre sottolineare da subito la previsione di un’unica procedura in luogo delle due procedure previgenti e l’abrogazione delle ipotesi ostative alla ricezione della domanda di asilo previste nella normativa precedente98. La domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6, comma 1 e 26, comma 1 del decreto in esame, è presentata personalmente dal richiedente all’ufficio di polizia di 97 Il secondo comma dell’art. 24 stabilisce il rifiuto o la revoca del documento di viaggio, se vi sono fondamentali ragioni per dubitare dell’identità del titolare della protezione sussidiaria. La disposizione sembra alludere all’ipotesi in cui è stata avviata e non ancora conclusa la procedura di revoca dello status per la sopravvenuta scoperta di falsificazione d’identità o dei relativi documenti. 98 Si ricordi che ai sensi dell’art. 1, comma 4, l. n. 39/1990, la polizia di frontiera sulla base di un esame obiettivo poteva negare l’ingresso nel territorio dello Stato allo straniero che intendeva chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato, rientrante in una delle ipotesi previste dal medesimo comma. Tale disposizione aveva sollevato numerose critiche, in quanto ai fini del rispetto del principio di non-refoulement, l’autorità di frontiera e la questura avrebbero dovuto limitarsi a ricevere la domanda e non esercitare alcun potere decisionale attinente all’ammissibilità e al merito della stessa, poteri di competenza esclusiva dell’autorità preposta all’attribuzione dello status (in questo senso, TAR Lazio, Sez. I, sentenza 30 gennaio 1992, n. 1195; TAR Emilia Romagna, Sez. I, sent. 18 marzo 2003, n. 249, disponibili al sito www.giustizia-amministrativa.it). V. CODINI E., D’ODORICO M., GIOIOSA M., op. cit., p. 61. 169 frontiera, all’atto dell’ingresso nel territorio, ovvero presso l’ufficio della questura territorialmente competente in base al luogo di dimora. Nel caso di presentazione della domanda all’ufficio di frontiera, il richiedente è inviato presso la questura competente. La norma non specifica le modalità di presentazione della domanda, la richiesta d’asilo può quindi essere avanzata in qualsiasi forma, anche mediante la semplice manifestazione della volontà di voler accedere alla procedura. L’art. 7 sancisce il diritto del richiedente di permanere sul territorio nazionale per tutta la durata della procedura99. A tale principio generale, conforme alla Convenzione di Ginevra, tuttavia la norma pone, al secondo comma, tre eccezioni. Il richiedente può essere estradato verso un altro Stato in virtù degli obblighi previsti da un mandato di arresto europeo, consegnato ad una Corte o ad un Tribunale penale internazionale o, infine, essere inviato verso un altro Stato dell’Unione europea competente all’esame della domanda in virtù del regolamento n. 343/2003 (a partire dal 1 gennaio 2014, sostituito dal regolamento n. 604/2013), istitutivo della c.d. procedura Dublino100. L’istanza del richiedente non può essere respinta o esclusa dell’esame per il solo fatto di non essere stata presentata tempestivamente. Se la non tempestività non costituisce in nessun caso un motivo ostativo per l’accesso alla procedura, rappresenta tuttavia un elemento di valutazione in sede di merito, come disposto dall’art. 3, comma 3, lett. d) del d.lgs. 251/07. Viene precisato inoltre che la decisione su ogni singola domanda deve essere assunta in modo individuale, obiettivo e imparziale, dopo un congruo esame della medesima (art. 8, comma 2). 99 L’art. 1, comma 1, lett. b) del d.lgs. 159/2008 ha modificato il citato art. 7, prevedendo che il Prefetto competente stabilisce un luogo di residenza o un’area geografica ove i richiedenti possono circolare. Tale disposizione, non sembra tuttavia applicabile ai richiedenti asilo in possesso di un regolare permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 26, comma 4, del d.lgs. n. 25/2008 e in ogni caso deve essere attuata in conformità della direttiva 2003/9/CE, secondo la quale l’area assegnata, in cui il richiedente può circolare liberamente, non deve pregiudicare la sfera inalienabile della vita privata e deve permettere un campo di azione sufficiente a garantire l’accesso a tutti i benefici stabiliti dalla stessa (art. 7, comma 1, direttiva 2003/9/CE). Nella prassi fino ad ora non si segnalano applicazioni di detta disposizione. V. SPRAR, UNHCR, ASGI (realizzato da), La tutela dei richiedenti asilo. Manuale giuridico per l’operatore, 2007, p. 71. 100 Secondo tale procedura le domande di protezione internazionale presentate alle frontiere o sul territorio dell’Unione europea, sono esaminate da un solo Stato membro, ossia quello dichiarato competente in applicazione dei criteri stabiliti dal suddetto regolamento. L’autorità preposta a determinare la competenza o meno dell’Italia per l’esame di una domanda è l’Unità Dublino, operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno (art. 13, regolamento n. 343/2003). Per un approfondimento del rapporto tra la procedura di riconoscimento della protezione internazionale e quella di determinazione dello Stato membro competente si veda, SPRAR, UNCHR, ASGI (realizzato da), op. cit., p. 61 e ss. 170 La questura, ricevuta la domanda di protezione internazionale101, redige il verbale delle dichiarazioni del richiedente, approvato e sottoscritto dal medesimo, a cui viene allegata la documentazione fornita a sostegno della domanda. Da tale momento la questura è tenuta ad istruire, nel caso in cui ne sussistano i presupposti, una serie di procedimenti amministrativi incidentali a carico del richiedente. Innanzitutto, qualora vi siano elementi che facciano emergere dubbi circa la competenza dello Stato italiano ad esaminare la domanda, la Questura trasmette il fascicolo relativo all’istanza, all’Unità Dublino e al contempo informa la Commissione territoriale che sospende il procedimento in attesa della determinazione circa lo Stato competente. In secondo luogo, la Questura, ai sensi dell’art. 20, comma 2, come modificato dal d.lgs. 159/08, può disporre l’invio del richiedente presso un centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA)102 nei seguenti casi: a) quando è necessario verificare la nazionalità o l’identità del richiedente, nel caso in cui sia privo di documenti o abbia presentato documenti falsi; b) quando ha presentato la domanda dopo aver eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera o subito dopo103; c) quando ha presentato la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare. L’ipotesi di invio ai CARA di cui alla lettera a), è finalizzata unicamente all’identificazione del richiedente, che è ospitato nel centro solo per il tempo strettamente necessario all’adempimento di tale formalità e, in ogni caso, per un periodo non superiore a venti giorni. Nelle altre ipotesi il 101 La domanda di protezione internazionale viene formalizzata dal richiedente attraverso la compilazione di un apposito modello predisposto dalla Commissione nazionale, denominato “modello C3”. 102 I CARA sono istituiti ai sensi dell’art. 20 e sostituiscono i centri di identificazione previsti dalla l. n. 189/02. Questi ultimi centri devono ritenersi soppressi in conseguenza dell’abrogazione delle norme previgenti operata dal decreto in esame. Si tratta in ogni caso di centri di accoglienza e non di trattenimento, la residenza nel Centro non influisce sulla sfera privata del richiedente fatto salvo il rispetto delle regola di convivenza. Il richiedente ha diritto all’uscita nelle ore diurne; nei casi in cui il soggetto debba allontanarsi per periodi di tempo superiori o diversi è necessario un permesso temporaneo di allontanamento rilasciato dal prefetto (art. 20, comma 4). Nei CARA deve essere inoltre garantita la dignità della persona e l’unità del nucleo familiare. È in ogni caso garantito l’accesso alle strutture ai rappresentanti dell’UNHCR, agli avvocati e agli organismi ed enti di tutela dei rifugiati, autorizzati dal Ministero dell’Interno (art. 20, comma 5). 103 In riferimento a questa ipotesi, il pericolo è l’applicazione automatica dell’invio nei centri di accoglienza per i richiedenti che arrivano in condizioni drammatiche a seguito di sbarchi sulle coste. Come affermato da DE BONIS A., “è infatti già parzialmente invalsa la prassi di interpretare tale modalità di arrivo come una voluntas elusiva dei controlli di frontiera, laddove l’esperienza, ed il buon senso, dovrebbero indurre a riflettere sulla mancanza di reale alternativa per questi richiedenti per i quali la scelta dell’approdo ‘illegale’ è imposta dalle circostanze e dall’assoluta mancanza di un’alternativa reale”. V. DE BONIS A., La procedura amministrativa 171 richiedente è ospitato nel centro per il tempo necessario all’esame della domanda da parte della Commissione territoriale, in ogni caso per un periodo non superiore a 35 giorni104. Al termine del periodo di accoglienza al richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo, con validità trimestrale, rinnovabile fino alla decisione della domanda. Il questore, infine, può disporre il trattenimento del richiedente presso un centro di identificazione ed espulsione (CIE)105, nell’ipotesi in cui: a) siano riscontrabili le condizioni di cui all’art. 1F della Convenzione di Ginevra; b) il soggetto sia stato condannato in Italia per uno dei delitti di cui all’art. 380, commi 1 e 2, c.p.p. ovvero per reati in materia di stupefacenti, immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione o di minori; c) il soggetto è già stato destinatario di un provvedimento di espulsione o respingimento106. Se il trattenimento è già in corso, il questore chiede la proroga del periodo di trattenimento per un periodo massimo di trenta giorni, al tribunale in composizione monocratica. Per quanto concerne l’ipotesi di cui alla lettera c), nessun trattenimento o proroga di trattenimento dovrebbe essere disposto nel caso in cui il provvedimento di espulsione sia stato annullato perché illegittimo o non sia stato convalidato. Inoltre la fattispecie non può applicarsi al caso dello straniero presente irregolarmente sul territorio italiano, che si presenti spontaneamente in questura per presentare domanda di asilo. Diversamente si configurerebbe infatti una violazione dell’art. 31 della Convenzione di Ginevra. In relazione al respingimento, ossia un provvedimento adottato con immediatezza dalla polizia di frontiera nei riguardi degli stranieri che fanno ingresso nel territorio italiano privi per il riconoscimento della protezione internazionale in Italia, in FAVILLI C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto di asilo, CEDAM, Padova, 2011, p. 195. 104 È opportuno segnalare inoltre che in queste ultime due ipotesi, ai sensi dell’art. 35, comma 8, del decreto così come modificato dal d.lgs. n. 159/2008, l’eventuale ricorso del richiedente avverso il diniego della protezione internazionale non ha effetto sospensivo immediato, ma questo può essere deciso dal giudice entro cinque giorno dal deposito dell’istanza. Nell’ipotesi di cui alla lett. a) la sospensione è automatica. Il richiedente asilo potrebbe quindi vedersi pregiudicato il suo diritto al riconoscimento della protezione, nel caso in cui la decisione positiva intervenga quando ormai l’espulsione è stata effettuata. 105 I centri di identificazione ed espulsione sono stati istituiti ai sensi dell’art. 9 della l. n. 125/2008 di conversione del decreto legge n. 92/2008, in sostituzione dei centri di permanenza temporanea e assistenza. L’art. 21, comma 3, del d.lgs. n. 25/2008 garantisce l’accesso ai CIE ai rappresentanti dell’UNHCR, agli avvocati e agli organismi di tutela dei rifugiati autorizzati dal Ministero dell’Interno. 106 Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 159/08, era escluso il trattenimento dello straniero destinatario di un provvedimento di espulsione ex art. 13, comma 2, lett. a) e b) del Testo unico sull’immigrazione, o di un provvedimento di respingimento ex art. 10 del Testo unico. In tali casi il soggetto era ospitato in un CARA. 172 dei requisiti previsti dalla legge ai sensi dell’art. 10, comma 1, d.lgs. n. 286/1998, è lo stesso Testo unico ha prevedere che tale istituto non si applica “nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari” (art. 10, comma 4, d.lgs. n. 286/1998). Qualsiasi provvedimento di respingimento, anche non eseguito, nei confronti di uno straniero che presenta domanda di asilo è infatti illegittimo per evidente violazione del principio di non-refoulement, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. La disposizione contenuta alla lettera c) dell’art. 21, “si presta ad un uso assolutamente arbitrario poiché in linea teorica tutti i richiedenti asilo che giungono alle frontiere italiane sprovvisti dei requisiti ordinari per l’ingresso previsto per i cittadini non comunitari potrebbero essere colpiti con immediatezza da un provvedimento di respingimento alla frontiera, salvo essere ammessi alla procedura d’asilo subito dopo”107. Nei casi in cui il richiedente è inviato in un centro di accoglienza o in un centro di identificazione ed espulsione, il questore rilascia al medesimo un attestato nominativo che certifica la sua qualità di richiedente protezione internazionale; altrimenti è rilasciato un permesso di soggiorno valido per tre mesi, rinnovabile fino al termine della procedura di riconoscimento. L’esame della domanda di protezione internazionale è svolto dalle Commissioni territoriali108. Ai sensi dell’art. 4, tali Commissioni, nominate con decreto del Ministro dell’Interno, sono presiedute da un funzionario della carriera prefettizia e composte da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante di un ente territoriale nominato dalla Conferenza Stato-città ed autonomie locali e da un rappresentante dell’UNHCR. In situazioni di necessità, su richiesta del Presidente della Commissione nazionale, le Commissioni territoriali possono essere integrate da un funzionario del Ministero degli Affari esteri. Le Commissioni sono validamente costituite con la presenza della maggioranza dei membri e possono deliberare con il voto favorevole di tre 107 CONSOLI D., SCHIAVONE G., Verso una migliore tutela dello straniero che chiede ailo? Analisi delle principali novità in materia d’asilo introdotte a seguito del recepimento della direttiva 2005/85/CE con il d.lgs. 25/2008 e il d.lgs. 159/2008, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 3-4, 2008, p. 111. 108 Il numero delle Commissioni territoriali è stato portato da sette a dieci. A quelle già costituite in precedenza si aggiungono le Commissioni territoriali di Torino, Caserta e Bari. Le circoscrizioni 173 membri. Per quanto concerne la competenza territoriale, essa è determinata dal luogo in cui la domanda è presentata e verbalizzata dalla competente questura. Nei casi in cui il richiedente è ospitato o trattenuto in un centro, la competenza è determinata in base alla circoscrizione territoriale in cui è situato quest’ultimo. L’elemento centrale della procedura di esame della domanda è l’audizione del richiedente. Attraverso essa, infatti, la Commissione può acquisire tutti gli elementi di valutazione necessari all’adozione di una decisione ponderata, soprattutto quando il richiedente non ha prodotto documenti a sostegno di quanto affermato nella dichiarazione personale. L’art. 13 afferma che l’audizione è personale e non si svolge in seduta pubblica; possono tuttavia parteciparvi il legale del richiedente e, se si stratta di persona vulnerabile, anche il personale di sostegno. La Commissione, inoltre, su richiesta motivata del richiedente può decidere di svolgere il colloquio alla presenza di uno solo dei propri componenti, ove possibile dello stesso sesso. Il colloquio personale con la Commissione territoriale competente costituisce allo stesso tempo un diritto e un obbligo per il richiedente (art. 11, comma 1 e art. 12 comma 1)109. Può essere omesso solo nei casi, da considerarsi numerus clausus, in cui la Commissione ritenga di avere sufficienti motivi per accogliere la domanda o quando risulti certificata l’incapacità o l’impossibilità del richiedente di sostenere l’audizione per problemi di salute. L’audizione è disposta dalla Commissione, tramite comunicazione effettuata dalla questura territorialmente competente, entro trenta giorni dalla ricezione della domanda; nel caso in cui il richiedente, ai sensi dell’art. 21, è trattenuto in un Centro di identificazione ed espulsione, è previsto un termine più breve di sette giorni. La decisione deve essere adottata nei tre giorni successivi, ridotti a due per i soggetti trattenuti, e quindi comunicata senza ritardo al richiedente110. Qualora territoriali in cui operano le Commissioni sono individuate con decreto del Ministero dell’Interno (art. 4, comma 2). 109 Si noti come ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2005/85/CE, il colloquio costituisce solo una facoltà del richiedente e può essere omesso in numerose circostanze (art. 12, comma 2, lett. b, c). La normativa italiana ha adottato quindi uno standard più favorevole di quello previsto a livello comunitario. 110 Si sottolinea come nella realtà i tempi siano ben maggiori. Nel 2008 il tempo medio in giorni intercorso fra la compilazione del modello C3 e la data della decisione della Commissione territoriale è di 80 giorni. Nel 2009, vi è un incremento delle domande di protezione che comporta un allungamento dei tempi di attesa medi che salgono a 157 giorni. Fonte: Elaborazioni Creg-Tor Vergata su dati della Commissione nazionale. V. ROSSI E., VITALI L., I rifugiati in Italia e in Europa. Procedure di asilo fra controllo e diritti umani, p. 31. 174 tuttavia la Commissione, a causa della necessità di acquisire nuovi elementi, non possa adottare la decisione nei termini, informa del ritardo l’interessato e la questura competente. Occorre evidenziare che il mancato rispetto di tali termini non produce effetti sulla procedura, pertanto essi debbono essere considerati di natura ordinatoria. Al contrario il prolungarsi dei tempi della procedura si ripercuote direttamente sui termini perentori dell’accoglienza e del trattenimento del richiedente ai sensi degli art. 20 e 21 del decreto. Al secondo comma dell’art. 28, è introdotta una necessaria “discriminazione positiva”, la Commissione infatti nel predisporre le audizioni, deve esaminare in via prioritaria quelle palesemente fondate, quelle presentate da soggetti appartenenti alle categorie di persone vulnerabili ex art. 8 del d.lgs. n. 140/2005, e quelle presentate da soggetti accolti nei CARA o trattenuti nei CIE, fatto salvo il caso in cui l’accoglienza sia disposta al solo fine di verificare o accertare l’identità del richiedente. Dell’audizione viene redatto un verbale, sottoscritto dall’interessato, che, ai sensi dell’art. 14, deve contenere tutte le informazioni di cui all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 251/2007 (oltre ai motivi stessi della domanda, anche le informazioni relative alla condizione familiare, sociale e culturale di provenienza). Tale verbale assume un importanza fondamentale ai fini della decisione, sia davanti alla Commissione che nell’eventuale successivo ricorso giurisdizionale, in considerazione del fatto che, molto spesso, in assenza di altra documentazione, è l’unico mezzo istruttorio su cui poter fondare la decisione111. Oltre a quanto emerso in sede di colloquio personale, la Commissione è tenuta a prendere in considerazione ai fini della decisione, le informazioni precise a aggiornate circa la situazione nel paese di origine del richiedente ed eventualmente nei paesi in cui costui è transitato112. Tali informazioni vengono elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR e dal Ministero degli Esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa (art. 8, comma 3). 111 Il verbale viene redatto contestualmente all’audizione e al termine della stessa viene letto e tradotto al richiedente prima della sottoscrizione, al fine di permette a quest’ultimo di apportare ulteriori precisazioni o eventuali correzioni. V. DE BONIS A., op. cit., p. 201. 112 Come sottolineato da DE BONIS A., le informazioni sul paese di origine sono di fondamentale importanza “per valutare il contesto di provenienza ai fini della determinazione della fondatezza del timore espresso, a confermare le dichiarazione del richiedente e quindi a valutare 175 Per quanto concerne il contenuto della decisione, la Commissione può in primo luogo dichiarare la domanda inammissibile e non procedere al suo esame. Ai sensi dell’art. 29, ciò può avvenire in due casi: quando il richiedente sia stato riconosciuto rifugiato da un altro Stato firmatario della Convenzione di Ginevra e possa ancora avvalersi di tale protezione ovvero in caso di reiterazione di una domanda identica dopo che sia stata presa una decisione da parte della Commissione, senza che il richiedente adduca nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo paese di origine113. Al di fuori di tale caso, e salva l’ipotesi che il richiedente abbia rinunciato alla domanda, la Commissione decide per il riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria oppure può rigettare l’istanza qualora non sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale o ricorra una delle cause di cessazione o esclusione della protezione. Accanto a tali ipotesi di diniego, il d.lgs. n. 159/2008 ha introdotto la possibilità che la Commissione rigetti la domanda per manifesta infondatezza qualora risulti la palese insussistenza dei presupposti di cui al d.lgs. 251/2007 ovvero la domanda sia stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o di respingimento (art. 32, comma 1, lett. b-bis). La differente decisione di diniego influenza l’efficacia dell’eventuale ricorso giurisdizionale. Infatti se è stabilita in via generale dall’art. 35, comma 6, l’automaticità dell’effetto sospensivo del ricorso relativamente all’efficacia dell’atto impugnato, il successivo comma 7, come emendato dal d.lgs. n. 159/2008, prevede una serie di eccezioni tra cui il rigetto dell’istanza per manifesta infondatezza. Nei casi in cui la Commissione non accolga la domanda di protezione internazionale ma ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, l’art. 32, comma 3, prevede la trasmissione degli atti al questore per genericamente l’attendibilità e più complessivamente a stabilire tutti i rischi connessi ad un eventuale rimpatrio dello stesso”. Ibidem. 113 Come affermato da CONSOLI D., e SCHIAVONE G., quest’ultima previsione viola sia la direttiva 2005/85/CE sia i principi generali del diritto amministrativo. Nell’ipotesi di reiterazione, la direttiva infatti accorda agli Stati membri la possibilità di valutare la domanda con una procedura differenziata rispetto a quella ordinaria o che preveda minori garanzie per il richiedente, non è prevista tuttavia la possibilità di non procedere ad alcuna valutazione. In secondo luogo, tra i rimedi amministrativi è previsto il c.d. ricorso in opposizione da proporsi alla medesima autorità che ha emanato il provvedimento impugnato (art. 7, D.P.R. n. 1199/1971). “La norma quindi non regge né al confronto degli obblighi derivanti dalla direttiva né alla luce dei principi generali dell’ordinamento nazionale”. V. CONSOLI D., SCHIAVONE G., op. cit., p. 114. 176 l’eventuale rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/1998114. La decisione adottata viene inviata dalla Commissione alla Questura competente, che a sua volta la notifica al richiedente per iscritto. La decisione di diniego deve essere motivata in fatto e in diritto e deve contenere l’indicazione dei mezzi di impugnazione disponibili (art. 9, comma 2). Solo la decisione di riconoscimento dello status di rifugiato potrà non essere motivata, in quanto sia il riconoscimento della protezione sussidiaria che la concessione della protezione umanitaria dovranno esserlo, quantomeno in merito al diniego dello status di rifugiato. Ai sensi dell’art. 32, comma 4, nei casi in cui la domanda è dichiarata inammissibile o rigettata, il soggetto interessato dovrà lasciare il territorio nazionale una volta scaduti i termini per l’impugnazione, salvo che sia titolare di un permesso di soggiorno ad altro titolo. Tale disposizione è particolarmente rilevante in quanto esclude esplicitamente che l’emanazione del provvedimento di espulsione possa essere contestuale al diniego della protezione. Fino alla scadenza del termine per impugnare il soggetto può quindi legittimamente rimanere sul territorio dello Stato ed esercitare efficacemente il suo diritto di accesso alla tutela giurisdizionale. Le procedure di revoca e di cessazione della protezione riconosciuta sono di competenza della Commissione nazionale115. L’art. 33 sancisce il diritto 114 La formulazione della disposizione lasciava aperti alcuni dubbi interpretativi, circa la sussistenza di un autonomo potere valutativo in capo al questore che legittimasse un eventuale scostamento dalla proposta della Commissione in merito al rilascio del permesso per motivi umanitari. Sul punto è intervenuta la sentenza della Corte di cassazione 19 maggio 2009, n. 11535, in cui i giudici hanno affermato che “attribuire alla Commissione territoriale la valutazione della sussistenza del quadro di controindicazioni al rimpatrio formulato dalle convenzioni internazionali firmate dall’Italia e richiamare tale valutazione come premessa per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 5, comma 6, del T.U. sull’immigrazione significa assegnare alla Commissione stessa l’accertamento delle condizioni del diritto alla protezione ed al contempo escludere alcun margine di discrezionalità in tale valutazione. Correlato a tale attribuzione è quindi l’effetto di escludere che al Questore competa – in sede di adozione dei provvedimenti sul soggiorno del richiedente – la discrezionalità valutativa”. Si veda inoltre sul punto DE BONIS A., op.cit., p. 205. 115 Ai sensi dell’art. 5, comma 2, la Commissione nazionale è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta congiunta dei Ministri dell’Interno e degli Affari esteri. Presieduta da un prefetto, è composta da un dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri, da un funzionario della carriera diplomatica, da un funzionario in servizio presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione e da un dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno. Alle riunioni partecipa inoltre, senza diritto di voto, un rappresentante dell’UNHCR. Oltre ad avere competenza in materia di revoca e di cessazione degli status di protezione internazionale riconosciuti, la Commissione nazionale svolge compiti di indirizzo e coordinamento delle Commissioni territoriali, di formazione e di aggiornamento dei componenti 177 dell’interessato ad essere informato per iscritto dell’avvio del procedimento e delle ragioni del riesame. Al soggetto è riconosciuta inoltre la possibilità di esporre, in un colloquio personale o tramite dichiarazione scritta, i motivi che ostano alla revoca o alla cessazione dello status riconosciutegli116. L’art. 35 disciplina le procedure di impugnazione. Avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale, il richiedente può proporre ricorso al tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui ha sede la Commissione che l’ha pronunciato117. Il ricorso, a cui è allegata copia del provvedimento impugnato, deve essere proposto entro trenta giorni dalla comunicazione della decisione. Tuttavia, se il richiedente è accolto o trattenuto ai sensi degli art. 20 e 21, il ricorso deve essere proposto entro quindici giorni dalla comunicazione della decisione presso il tribunale che ha sede nel distretto di corte di appello in cui è situato il centro118. Occorre rilevare come il termine si riferisca alla possibilità di far valere i vizi dell’atto amministrativo, non potendo riferirsi anche alle azioni inerenti all’accertamento del diritto soggettivo alla protezione internazionale, in quanto i diritti soggettivi perfetti non sono soggetti a prescrizione o decadenze. Come accennato, la presentazione del ricorso determina la sospensione ex lege della decisione amministrativa che rigetta la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria. Il richiedente ha diritto quindi a permanere sul territorio dello Stato per tutta la durata del giudizio e non può di conseguenza essere destinatario di un provvedimento di allontanamento. L’effetto sospensivo automatico è tuttavia escluso: se con la decisione impugnata è stata delle medesime, di costituzione e aggiornamento di una banca dati informatica contenente informazioni utili al monitoraggio delle richieste d’asilo, di monitoraggio dei flussi di richiedenti asilo e di documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei paesi di origine di richiedenti (art. 5, comma 1). 116 Contro la decisione di revoca o di cessazione è ammesso ricorso dinanzi al tribunale competente in relazione alla Commissione territoriale che ha emesso il provvedimento di riconoscimento dello status di cui è dichiarata la revoca o la cessazione (art. 35, comma 2). 117 Il ricorso è ammesso anche nel caso in cui l’interessato abbia chiesto il riconoscimento dello status di rifugiato e la Commissione abbia riconosciuto la protezione sussidiaria (art. 35, comma 1). 118 Il disposto normativo non è chiaro circa il termine di impugnazione per il richiedente asilo che sia stato inizialmente accolto in un CARA o sia inserito nel programma di accoglienza dello SPRAR. Come affermato da CONSOLI D., “l’interpretazione letterale e sistematica della norma, tuttavia, da propendere per l’applicazione del termine lungo ogni qualvolta il richiedente asilo non si trovi sottoposto ad alcuna misura di accoglienza al momento della notifica della decisione della Commissione territoriale”. V. CONSOLI D., Il riconoscimento in via giurisdizionale del diritto di asilo, in FAVILLI C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto di asilo, CEDAM, Padova, 2011, p. 212. 178 dichiarata l’inammissibilità della domanda; nel caso in cui la decisione è stata adottata in seguito all’allontanamento del richiedente dal centro; nel caso di rigetto della domanda per manifesta infondatezza; quando il ricorrente ha presentato la domanda dopo essere stato fermato per aver eluso o tentato di eludere il controllo di frontiera o in condizioni di soggiorno irregolare; se si tratta di richiedente trattenuto in un CIE. In tali casi il ricorrente, qualora ricorrano gravi e fondati motivi, può chiedere al tribunale, contestualmente al deposito del ricorso, la sospensione del provvedimento. Il tribunale decide nei cinque giorni successivi al deposito con ordinanza impugnabile. Qualora la sospensione venga concessa, al richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta d’asilo ed è disposta l’accoglienza in un CARA. Per la proposizione del ricorso è necessaria l’assistenza di un avvocato; nel caso in cui il richiedente non abbia le risorse necessarie per il pagamento delle spese legali può presentare istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato119. Il procedimento giurisdizionale si svolge dinanzi al tribunale in composizione monocratica con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio. Entro cinque giorni dal deposito del ricorso, il tribunale fissa con decreto l’udienza di comparizione; il ricorso e il decreto sono notificati all’interessato e comunicati al pubblico ministero e alla Commissione territoriale. All’udienza può intervenire un rappresentante della Commissione che ha adottato l’atto; la Commissione interessata può in ogni caso depositare tutta la documentazione che ritiene rilevante ai fini dell’istruttoria. Il giudice, sentite le parti, assume i mezzi di prova che ritiene necessari e adotta una decisione entro tre mesi dalla presentazione del ricorso. La sentenza deve essere notificata al ricorrente e comunicata al pubblico ministero e alla Commissione. Con essa il tribunale può riconoscere lo status di rifugiato o di persona beneficiaria della protezione sussidiaria ovvero confermare la decisione della Commissione o rigettare il ricorso. 119 L’art. 16 sancisce il diritto all’assistenza e alla rappresentanza legali del richiedente. Per quanto concerne l’accesso all’istituto del patrocinio a spese dello Stato (D.P.R. n. 115/2002), la norma prevede una disposizione di favore per i richiedenti asilo, in ragione della loro impossibilità di rivolgersi alle rappresentanze diplomatiche per ottenere la certificazione necessaria per l’accesso all’istituto. Per l’attestazione dei redditi eventualmente prodotti all’estero si applica l’art. 94 del D.P.R. n. 115/2002 che prevede che la documentazione richiesta può essere sostituita dall’interessato, che sia impossibilitato a produrla, con una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dello stesso. V. CONSOLI D., op. cit., p. 216. 179 Il ricorrente e il pubblico ministero possono proporre reclamo alla corte d’appello, con ricorso da depositarsi presso la cancelleria competente, entro dieci giorni dalla notifica. Tale reclamo non sospende automaticamente l’efficacia della sentenza impugnata, tuttavia il ricorrente qualora sussistano gravi e fondati motivi, può proporre istanza di sospensione alla corte. La sospensione è disposta con ordinanza non impugnabile e comporta per il richiedente il rilascio di un permesso di soggiorno. La corte d’appello può nuovamente ascoltare le parti e assumere i mezzi di prova che ritiene necessari; la sentenza è pronunciata entro tre mesi dal deposito del ricorso. Avverso la decisione negativa della corte d’appello, il richiedente asilo può proporre ricorso avanti alla Corte di cassazione, entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza. Il ricorso è notificato al pubblico ministero e alla Commissione territoriale, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza in camera di consiglio, a cura della cancelleria. L’art. 35, comma 14, tace in merito all’eventuale effetto sospensivo del ricorso; da ciò si può desumere che, come per il ricorso in appello, è esclusa l’automaticità della sospensione. La Corte si pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c.120. 120 In merito alla scelta del legislatore circa la pronuncia in camera di consiglio, come affermato da CONSOLI D., e SCHIAVONE G., “è del tutto evidente che il riferimento è alla sola ipotesi di manifesta fondatezza o manifesta infondatezza del ricorso. Il richiamo appare del tutto inopportuno qualora si consideri come la dottrina e la giurisprudenza siano concordi nel ritenere che la ratio dell’articolo [375 c.p.c.] sia proprio quella di ‘smaltire’ i ricorsi ripetuti e dove si sia comunque formata una costante giurisprudenza. Il che contrasta palesemente con la considerazione della corretta valutazione, caso per caso, della posizione individuale dei richiedenti la protezione internazionale. Difatti se è pur vero che le norme di diritto possono trovare, nell’ambito de quo, costante ed univoca interpretazione, le posizioni individuali non possono certo essere generalizzate. Nessuna altra delle ipotesi tipizzate nell’articolo citato è infatti assumibile alle fattispecie esaminate”. V. CONSOLI D., SCHIAVONE G., op. cit., p. 119. 180 CONCLUSIONI Il rifugiato e il richiedente asilo sono persone che fuggono dal proprio paese di origine perché temono una persecuzione, di qualsiasi tipo o genere essa sia. La persecuzione ha mostrato nel corso della storia una virulenza crescente e la capacità di mutare forma. Per questo il diritto dei rifugiati non può essere una scienza esatta che applica concetti rigidi e meccanicistici, ma una disciplina che necessità di dare risposte a circostanze sempre mutevoli. Come si evince dalla presente trattazione, la Convenzione di Ginevra del 1951, come integrata dal Protocollo di New York del 1967, è lo strumento riconosciuto universalmente come la guida dell’insieme delle politiche internazionali, regionali e nazionali di protezione dei diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo. In essa è contenuta non solo la definizione del concetto di rifugiato, il cui carattere generale ne garantisce una portata universale, ma anche il catalogo dei diritti che gli Stati contraenti sono tenuti a garantire ai soggetti a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato, primo fra tutti il diritto ad essere protetto dal refoulement. È tuttavia necessario riconoscere che la Convenzione non contempla nel suo tessuto normativo tutte le vicissitudini proprie dei richiedenti asilo. Questioni essenziali non sono state affrontate quali, ad esempio, le procedure da seguire per la determinazione dello status di rifugiato e la disciplina del ricongiungimento familiare prima e dopo il riconoscimento della protezione. È, inoltre, la stessa reale applicazione della Convenzione ad essere messa in discussione. Se l’UNHCR ha infatti un ruolo di supervisione sul rispetto da parte degli Stati degli obblighi che derivano dalla ratifica di tale strumento, non vi sono tuttavia meccanismi formali (sia mediante ricorsi individuali che tra Stati) che rispondano adeguatamente ai casi di violazione. In ambito europeo, a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso un contributo fondamentale ad un effettiva tutela dei diritti di rifugiati e richiedenti asilo è dato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Pur nell’assenza di un esplicito riconoscimento del diritto di asilo all’interno della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, i giudici di Strasburgo hanno 181 sviluppato un sistema di limiti al potere degli Stati parte di allontanare gli stranieri sotto la loro giurisdizione verso paesi in cui questi ultimi rischino di subire atti di tortura o trattamenti inumani o degradanti, ovvero violazioni del proprio diritto alla vita. Il fondamento dell’estensione “extraterritoriale” degli effetti della CEDU deriva dalla sua natura specifica di trattato per la garanzia collettiva dei diritti umani e delle libertà fondamentali, da cui scaturiscono obblighi oggettivi a carico degli Stati contraenti. Dall’analisi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si evince che i limiti posti a carico degli Stati contraenti in materia di misure di allontanamento dello straniero sono assai più stringenti rispetto a quelli derivanti dalla Convenzione di Ginevra del 1951: il divieto di refoulement ha carattere assoluto e sfugge a qualsiasi possibilità di bilanciamento con le esigenze di sicurezza e di tutela dell’ordine pubblico dello Stato. La Convenzione di Ginevra e il Protocollo di New York del 1967, hanno costituito e tuttora costituiscono il solido ancoraggio di tutta la disciplina comunitario-europea in materia di asilo. L’Unione europea è giunta, attraverso un percorso evolutivo lento e scandito da diverse tappe evolutive, all’istituzione di un Sistema europeo comune d’asilo (CEAS). Con l’obiettivo di garantire ai richiedenti asilo, indipendentemente dallo Stato membro di inoltro della domanda di protezione, un trattamento di livello equivalente quanto a condizioni di accoglienza, procedure di riconoscimento della protezione e contenuto di quest’ultima, sono stati adottati dalle istituzioni comunitarie, nel corso del 2013, nuovi strumenti normativi in sostituzione di quelli emanati al termine della prima fase di creazione del CEAS. Questi ultimi hanno come scopo precipuo la completa armonizzazione dei sistemi nazionali vigenti all’interno dei diversi Stati membri e recepiscono gli orientamenti maturati nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Occorre tuttavia attendere il recepimento delle direttive negli ordinamenti nazionali degli Stati membri per valutare l’effettivo perseguimento di questo importante traguardo. Per quanto concerne il nostro ordinamento, tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia è l’unico Stato nel quale la materia dell’asilo non è ancora stata disciplinata a livello legislativo in modo organico. Come è stato più volte sottolineato, la disciplina costituzionale dell’asilo, così come definita dall’articolo 10, comma 3, Cost., è a tutt’oggi molto lontana dalla sua piena attuazione. 182 Nonostante la Costituzione italiana sia tra le più avanzate in materia di riconoscimento di protezione a coloro che fuggono da situazioni di violazione delle libertà fondamentali, e sebbene negli anni non siano mancate occasioni di dare piena attuazione al dettato costituzionale, l’inerzia del legislatore ne ha di fatto svuotato il contenuto. Se inizialmente le carenze legislative potevano essere giustificate da un ridotto afflusso di richiedenti asilo e rifugiati, a partire dagli anni ’90 in poi tale fenomeno non ha più potuto essere considerato come limitato. Soltanto una legge unica potrebbe porre fine alle dispute che le diverse interpretazioni dell’articolo hanno prodotto e chiarire la posizione italiana in merito al contenuto di tale diritto. Di fronte alla disarticolata e parziale normativa nazionale in materia d’asilo, l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione delle direttive europee ha apportato numerosi cambiamenti, nel complesso decisamente positivi. Tali innovazioni devo però essere viste come il punto di partenza di un necessario processo di ricomposizione del disposto normativo e amministrativo attualmente vigente, condotto nel rispetto della normativa comunitaria e degli obblighi internazionali, allo scopo di istituire un sistema completo e composito di accoglienza e tutela dei richiedenti e titolari della protezione internazionale. In conclusione, la situazione di un richiedente asilo che arriva in Europa è soggetta ad una disciplina che risulta dall’interrelazione di quattro livelli. Da un lato la normativa nazionale è soggetta al rispetto degli obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione di Ginevra del 1951, dal diritto dell’Unione europea e dal rispetto della CEDU; dall’altro la tutela giurisdizionale garantita al richiedente si estende oltre i rimedi offerti dallo Stato dove si trova o dove ha inoltrato la domanda di asilo. Sulla correttezza della procedure e sul rispetto dei diritti fondamentali vegliano, infatti, anche l’Unione europea e la Corte di Strasburgo. Ciò al fine non solo di garantire l’uniformità nell’applicazione della normativa europea in materia di asilo ma, soprattutto, il rispetto dei diritti fondamentali degli individui. 183 BIBLIOGRAFIA ADAM R., TIZZANO A., Lineamenti di diritto dell’Unione europea, Giappichelli Editore, Torino, 2010 ADINOLFI A., Riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria: verso un sistema comune europeo?, in Rivista di diritto internazionale, n. 3/2009, p. 669-696 AGENZIA DELL'UNIONE EUROPEA PER I DIRITTI FONDAMENTALI, CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, CONSIGLIO D'EUROPA, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione Europea, Lussemburgo, 2013, disponibile all’indirizzo http://fra.europa.eu/sites/default/files/handbook-law-asylum-migratio nborders_it.pdf. AJANI G., Acquis comunitario, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile. Aggiornamento, IV ed., 2010, p. 1-6 BALBO P., Rifugiati e asilo. 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