A mio padre
INDICE
Introduzione ..................................................................................................... p.
1
CAPITOLO I
IL REGIME GIURIDICO INTERNAZIONALE
DI PROTEZIONE DEI RIFUGIATI:
LA CONVENZIONE DI GINEVRA DEL 1951
E IL PROTOCOLLO AGGIUNTIVO DEL 1967
1. Origine e sviluppo della protezione internazionale dei rifugiati.................. p.
4
1.1 La creazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per
i Rifugiati .............................................................................................. p.
8
1.2 I lavori preparatori: la nascita della Convenzione di Ginevra e il
Protocollo del 1967 ............................................................................... p. 11
2. La definizione di rifugiato: le clausole di inclusione................................... p. 14
2.1 Il fondato motivo di persecuzione sulla base dei motivi elencati
nell’art. 1A ............................................................................................. p. 16
2.2 L’allontanamento dal Paese di origine.................................................. p. 21
2.3 La mancanza di protezione da parte dello Stato di provenienza........... p. 23
3. Le clausole di esclusione e di cessazione dalla protezione.......................... p. 24
4. L’estensione della definizione di rifugiato negli strumenti regionali .......... p. 29
5. Il principio di non-refoulement .................................................................... p. 32
5.1 L’estensione applicativa del principio ratione personae e ratione
loci........................................................................................................ p. 33
5.2 Extraterritorialità................................................................................... p. 36
5.3 Eccezioni al divieto di refoulement....................................................... p. 38
I
CAPITOLO II
LA TUTELA DEI RIFUGIATI
NELL’AMBITO DELLA CONVENZIONE EUROPEA
DEI DIRITTI DELL’UOMO
1. Osservazioni introduttive............................................................................. p. 42
2. Il principio di non-refoulement e la CEDU ................................................. p. 46
3. Il diritto fondamentale alla vita come limite all’allontanamento degli
Stranieri........................................................................................................ p. 51
4. Il divieto di espulsione verso paesi in cui lo straniero rischia di
subire trattamenti contrari all’articolo 3 CEDU .......................................... p. 57
4.1 Respingimenti in mare: la sentenza della Corte di Strasburgo sul
caso Hirsi................................................................................................ p. 64
5. Il diritto alla libertà e alla sicurezza personale: la legittimità della
detenzione dei richiedenti asilo.................................................................... p. 69
6. Il necessario equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata e
familiare del richiedente asilo e gli interessi primari dello Stato ................ p. 74
CAPITOLO III
LA NORMATIVA DELL’UNIONE EUROPEA IN MATERIA
D’ASILO
1. L’evoluzione della politica comunitaria in materia d’asilo ......................... p. 81
1.1 Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia: dall’Atto Unico Europeo
alla Convenzione di Dublino del 1990.................................................. p. 82
1.2 L’asilo nell’Unione europea: i Trattati di Maastricht e Amsterdam ..... p. 90
II
2. Verso un Sistema europeo comune d’asilo.................................................. p. 95
2.1 La seconda fase della politica in materia d’asilo: il Trattato di
Lisbona e il Programma di Stoccolma .................................................. p.100
3. L’acquis comunitario sull’asilo ................................................................... p.107
3.1 La protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di profughi
prevista dalla direttiva 2001/55/CE....................................................... p.107
3.2 La direttiva in materia di accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale ....................................................................... p.111
3.3 La direttiva 2011/95/UE recante norme per l’attribuzione della
qualifica di beneficiario di protezione internazionale........................... p.115
3.4 Le procedure comuni per il riconoscimento o la revoca della
protezione internazionale ...................................................................... p.121
3.5 Il Sistema Dublino: il regolamento 604/2013, c.d. Dublino III
e il regolamento Eurodac ...................................................................... p.126
CAPITOLO IV
ASILO E RIFUGIO NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
1. Il diritto d’asilo nella Costituzione italiana.................................................. p.136
1.1 L’ambito di applicazione del diritto di asilo costituzionale.................. p.138
1.2 Il diritto di asilo costituzionale come diritto soggettivo perfetto .......... p.141
1.3 Il contenuto necessario del diritto di asilo costituzionale:
il diritto di ingresso e di soggiorno nel territorio della Repubblica ...... p.143
1.4 Asilo costituzionale e rifugio convenzionale: due figure giuridiche
Distinte .................................................................................................. p.145
2. Lo status di rifugiato nella prassi anteriore alla legge n. 39/1990 ............... p.147
III
3. L’evoluzione normativa in materia di immigrazione e asilo: dalla
legge Martelli alla legge n. 189 del 30 luglio 2002 ..................................... p.150
3.1. Il Testo unico sull’immigrazione e la legge n. 189/2002..................... p.154
4. Il diritto di asilo in Italia alla luce della normativa comunitaria.................. p.160
4.1 Status di rifugiato e protezione sussidiaria nel d.lgs. n. 251/2007........ p.164
4.2 La procedura amministrativa per il riconoscimento della
protezione internazionale ...................................................................... p.169
Conclusioni ...................................................................................................... p.181
Bibliografia ...................................................................................................... p.184
IV
INTRODUZIONE
“Il diritto di avere diritti, o il diritto di ogni individuo
ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito
dall’umanità stessa”.
HANNAH ARENDT1
Le immagini di uomini, donne e bambini disperati costretti ad abbandonare il
loro paese per salvare la propria vita o la propria libertà, scorrono con disarmante
regolarità sugli schermi delle nostre televisioni. Quella che ci viene mostrata è la
realtà quotidiana di milioni di persone che rivoluzioni, guerre e massive violazioni
dei diritti umani fondamentali hanno costretto all’esilio. L’esistenza del problema
mondiale dei rifugiati non può essere negata: sono infatti oltre 11 milioni, secondo
i dati dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati2, le persone
rifugiate nel mondo.
Sebbene il problema dei rifugiati internazionali non sia frutto di un particolare
contesto storico-sociale, ma è nato con l’uomo e con esso si è evoluto, è solo nella
prima metà del XX secolo, in concomitanza con la crescente presa di coscienza di
valori quali la libertà e la dignità dell’uomo, che si sono verificate le prime
iniziative giuridiche, oltre che politiche e sociali, nel tentativo di fronteggiare le
innumerevoli difficoltà a cui le persone costrette a cercare rifugio andavano
incontro.
Una costante dell’umanità che dal 1951, in un’Europa ancora sconvolta dalle
persecuzioni perpetrate durante la seconda guerra mondiale e testimone di
massicci esodi di sfollati, trova una definizione e un meccanismo di tutela nella
Convenzione di Ginevra, pietra miliare per la protezione dei rifugiati. Tale testo
costituirà infatti la base giuridica per tutti gli strumenti che, a livello regionale e
1
ARENDT, H., Le origini del totalitarismo, tr. it. di Guadagnin A., Einaudi, Torino, 2004, p. 413.
Fonte: UNHCR, Mid-Year trends 2013, disponibile al sito www.unhcr.org/52af08d26.html. A
tale dato è necessario aggiungere i 4,9 milioni di rifugiati palestinesi che sono di esclusiva
competenza dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi
palestinesi in Medio Oriente (UNRWA). È opportuno osservare inoltre che il numero di persone di
competenza dell’UNHCR ammonta a un totale di 38,7 milioni di persone di cui 11,1 milioni sono
rifugiati, 987.500 richiedenti asilo, 189.300 rifugiati rimpatriati nel primo semestre del 2013, 20,8
milioni sfollati, 688.200 sfollati ritornati nel loro paese di origine, 3,5 milioni apolidi, 1,4 milioni
altre persone di competenza.
2
1
nazionale, saranno successivamente elaborati in materia, oltre che lo statuto guida
dell’attività dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Scopo della presente trattazione è l’analisi della disciplina normativa del
diritto d’asilo e dello status di rifugiato nel sistema multilivello di protezione dei
diritti fondamentali. Il sistema di protezione dei diritti fondamentali all’interno
dello spazio europeo si presenta oggi, infatti, in una forma multidimensionale,
ove, accanto alla tutela garantita dagli ordinamenti nazionali, si affiancano
strumenti di carattere sovranazionale e internazionale. L’interazione tra Stati
membri, Unione europea e Consiglio d’Europa, iniziata negli anni cinquanta e in
continua evoluzione, si propone di offrire la più estesa garanzia possibile ai diritti
riconosciuti come fondamentali. Il coordinamento necessario tra i vari sistemi di
protezione avviene soprattutto a livello giurisdizionale, grazie alla costante
evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, della
Corte di giustizia dell’Unione europea e delle Corti nazionali, garanti del rispetto
delle libertà fondamentali nei vari sistemi. Le complessità e le opportunità di tale
meccanismo traspaiono in particolar modo in materia di asilo e di protezione dei
rifugiati.
Dopo una breve analisi storica dell’origine e degli sviluppi della protezione
internazionale dei rifugiati, nonché delle ragioni che portarono alla costituzione
dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il primo capitolo
tratterà degli elementi della definizione universalmente accettata di rifugiato,
racchiusa nell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Accanto ai
presupposti che devono sussistere ai fini del riconoscimento dello status, saranno
analizzate nel dettaglio le circostanze che determinano la cessazione e il diniego
della protezione internazionale. L’attenzione si focalizzerà successivamente sul
principio di non-refoulement, cardine della tutela internazionale dei rifugiati, così
come sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra. Per completare il
quadro internazionale si accennerà brevemente a due strumenti regionali in
materia di rifugiati, di particolare interesse per l’estensione della definizione di
rifugiato in essi contenuta: la Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità
Africana (OUA) e la Dichiarazione di Cartagena.
Il diritto di asilo non è garantito in quanto tale dalla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, tuttavia tramite un’interpretazione funzionalistica della stessa, la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha creato un sistema di limiti al potere
2
degli Stati contraenti di estradare, espellere o più generalmente allontanare gli
stranieri verso paesi in cui vi è un’alta possibilità di violazione dei diritti protetti
in seno alla Convenzione. Nel secondo capitolo si analizzerà come appunto la
CEDU sia stata applicata dai suoi organi di monitoraggio, alla luce del principio
di non-refoulement, in casi riguardanti l’allontanamento di individui dal territorio
degli Stati parte, ponendo particolare attenzione alla valutazione dell’esistenza del
rischio di violazione di diritti umani fondamentali e del livello necessario di tale
rischio per far sorgere la responsabilità degli Stati medesimi.
Il terzo capitolo è dedicato alla dimensione comunitaria del diritto di asilo.
Dopo una prima analisi dell’evoluzione della politica comunitaria che ha condotto
alla comunitarizzazione della materia dell’asilo, passando attraverso la lunga fase
della cooperazione intergovernativa, di cui le Convenzioni di Schengen e Dublino
sono il principale esempio, l’attenzione sarà dedicata al progressivo sviluppo del
c.d. Sistema europeo comune d’asilo. In particolare saranno analizzati nel
dettaglio gli strumenti legislativi recentemente adottati dalle istituzioni
comunitarie con l’obiettivo di istituire una procedura comune in materia d’asilo e
uno status uniforme per i soggetti beneficiari della protezione internazionale.
La dimensione nazionale degli istituti dell’asilo e del rifugio costituisce il
tema d’indagine dell’ultimo capitolo. Attraverso la puntuale analisi del diritto
d’asilo così come ampliamente contemplato dall’articolo 10, comma 3, della
Carta costituzionale e dell’evoluzione della normativa in materia di asilo e
immigrazione, si evidenzieranno gli aspetti di maggiore criticità del nostro
ordinamento in materia di protezione dei richiedenti asilo. Si illustreranno, infine,
i mutamenti del quadro normativo italiano a seguito del recepimento della
normativa europea in materia di asilo, con particolare riguardo alla procedura di
riconoscimento della protezione internazionale e al contenuto dello status
riconosciuto.
3
CAPITOLO I
IL REGIME GIURIDICO INTERNAZIONALE DI
PROTEZIONE DEI RIFUGIATI: LA CONVENZIONE DI
GINEVRA DEL 1951 E IL PROTOCOLLO AGGIUNTIVO
DEL 1967
1. Origine e sviluppo della protezione internazionale dei rifugiati
Il problema delle migrazioni forzate e degli esodi non è il frutto di un
particolare contesto storico-sociale, ma è connaturato alla stessa esistenza
dell’uomo e con esso si è evoluto, adattandosi alle diverse situazioni storiche. Ciò
nonostante, una presa di coscienza del fenomeno si è avuta soltanto nel corso del
XX secolo, con il progressivo emergere del valore della dignità dell’uomo e dei
suoi diritti fondamentali, che ha condotto alle prime iniziative giuridiche, sia a
livello internazionale che locale, volte a garantire una qualche forma di protezione
ai rifugiati. La Convenzione di Ginevra è il frutto di un processo storico e
concettuale che, partendo dalla 1° Guerra Mondiale e da una situazione in cui non
esisteva alcuna forma di accordo internazionale riguardo ai rifugiati, ha
sperimentato attraverso tentativi più o meno riusciti, meccanismi innovativi di
protezione e assistenza1.
Le origini di questo processo risalgono agli inizi degli anni Venti e furono
determinate, oltre che dagli effetti del disastroso primo conflitto mondiale, anche
dai ben noti eventi della rivoluzione bolscevica del 1917 e dal collasso
dell’impero ottomano e dell’impero austro-ungarico, che costrinsero un’ingente
massa di persone ad abbandonare la propria terra e a ritrovarsi al di fuori degli
Stati di cui avevano la nazionalità, non potendo più beneficiare dei diritti connessi
allo status di cittadino. Di fronte a questo inquietante scenario, la neonata Società
delle Nazioni2 ritenne opportuno un intervento di carattere globale, poiché i
1
FERRARI G., La Convenzione sullo status dei rifugiati. Aspetti storici, relazione tenuta
all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Scienze Politiche, Cattedra di Diritto
Internazionale, p. 6.
2
La prima conferenza della Società delle Nazioni si tenne a Ginevra il 15 novembre 1920, le
nazioni rappresentate erano 42. Fu costituita con il fine precipuo di creare un organismo
internazionale che favorisse il rispetto degli obblighi assunti alla fine del conflitto ed evitasse il
ripetersi di eventi bellici.
4
singoli Stati non avrebbero potuto unilateralmente risolvere la situazione del
movimento involontario di milioni di persone. Il 26 febbraio del 1921 il Consiglio
della Società delle Nazioni emanò la sua prima risoluzione sui rifugiati3 e pochi
mesi dopo, sotto la spinta del Comitato Internazionale della Croce Rossa, fu
creato l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Rifugiati, il cui incarico venne
affidato all’esploratore norvegese Dr. Fridtjof Nansen. La responsabilità della
neonata istituzione era quella di proteggere particolari gruppi di rifugiati,
inizialmente le popolazioni in fuga dalla rivoluzione russa, successivamente anche
rifugiati Greci, Turchi, Bulgari e Armeni. Cosi come sottolineato dalla
Commissione Consultiva per i Rifugiati, “the characteristic and the essential
feauture of the problem was that persons classed as “refugees” have no regular
nationality and are therefore deprived of the normal protection accorded to
regular citizens of a State”4. Per porre rimedio alla situazione vennero conclusi i
primi accordi5, le cui clausole prevedevano l’emissione di un documento di
identità e di viaggio, il cosiddetto Passaporto Nansen, che veniva accordato dallo
Stato di rifugio e avrebbe permesso ai rifugiati, in presenza di determinate
circostanze, di essere ammessi in altri paesi.
Si trattava di un approccio minimalista ad un problema, quello dei rifugiati,
considerato una vera e propria anomalia del diritto internazionale, in quanto
codeste persone non beneficiavano né della condizione di reciprocità che
caratterizza il rapporto tra Stati in merito al trattamento degli stranieri, né
godevano della protezione del loro paese d’origine. Gli strumenti giuridici adottati
legavano la definizione di rifugiato all’appartenenza a determinati gruppi
nazionali, senza indicare i motivi per cui gli appartenenti a tali gruppi erano
divenuti rifugiati, ma facendo riferimento alla mera mancanza di protezione.
Occorre sottolineare inoltre che si trattava in realtà di semplici raccomandazioni,
la cui applicazione era demandata alla buona volontà degli Stati aderenti.
In seguito al decesso di Nansen, avvenuto nel 1930, fu istituito un ufficio
autonomo, denominato Ufficio Internazionale Nansen, sotto la cui egida venne
3
I2LONCM 19, 117 v. LAPENNA E., voce Rifugiati, in Enciclopedia giuridica, vol. XXVII,
Roma, 2007, p. 3.
4
Report by the Secretary-General on the Future Organisation of the Refugee Work, LN
Doc.1930.XIII.2 in HATHAWAY J., The rights of refugees under international law, Cambridge
University Press, 2005, p. 84.
5
conclusa, il 28 ottobre 1933, la Convenzione sullo Statuto Internazionale dei
Rifugiati6, il primo strumento internazionale vincolante in materia di protezione
dei rifugiati. Al suo interno vi erano previsioni riguardanti le misure
amministrative, la condizione giuridica, le condizioni di lavoro, l’assistenza
sanitaria ed assicurativa
(parificate al miglior trattamento previsto dal diritto
interno per gli stranieri), l’istruzione e il trattamento fiscale dei rifugiati. La
clausola maggiormente rilevante era contenuta nell’art. 3, il quale stabilendo che
“Each of the Contracting Parties undertakes not to remove or keep from its
territory by applications of police measures, such as expulsions or nonadmittance at the frontier (refoulement), refugees who have been authorised to
reside there regularly, unless the said measures are dictated by reasons of
national security or public order”, sanciva esplicitamente il principio di non
refoulement. Nella pratica la Convenzione del ’33 non espanse i diritti dei
rifugiati, solo otto Stati ratificarono il trattato, la maggior parte dei quali con
numerose riserve.
Un ulteriore strumento venne adottato dall’Ufficio Internazionale Nansen
prima della scadenza del suo mandato, la Convenzione del 1938 sullo Statuto dei
Rifugiati Provenienti dalla Germania, successivamente estesa ai rifugiati austriaci
costretti ad abbandonare il loro paese per sfuggire alle persecuzioni naziste,
tramite un apposito Protocollo Addizionale7. La Convenzione, all’articolo 1,
adottava una definizione di rifugiato da cui furono espressamente esclusi coloro
che lasciavano la Germania per motivi di pura convenienza. Mentre la maggior
parte dei diritti riflettevano quelli previsti dal precedente accordo del 1933, due
nuove previsioni furono incluse nel trattato: la possibilità per gli Stati di aderire al
regime della Convenzione senza impegnarsi a comunicare previamente
un’eventuale rinuncia a questa8 e la garanzia di ogni agevolazione per i rifugiati e
le organizzazioni a questi relative per l’istituzione di scuole per il riadattamento
5
L’accordo del 12 maggio 1926 riguardante i rifugiati russi pre-bellici e i rifugiati armeni prebellici; l’Accordo del 30 giugno 1928 che riguardò i rifugiati assiri o assiro-caldei e assimilati ed i
rifugiati turchi.
6
La convenzione era applicabile ai rifugiati russi, armeni ed assimilati sulla base degli accordi del
1926 e del 1928, v. LENZERINI F., Asilo e diritti umani, Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 148.
7
Additional Protocol to the Provisional Arrangement and to the Convention, Signed at Geneva on
July 4th, 1936, and February 10th, 1938, Respectively Concerning the Status of Refugees Coming
from Germany, League of Nations Treaty Series, vol. CXCVIII No. 4634, p. 141.
8
Nonostante questa nuova flessibilità soltanto tre Stati, Belgio, Francia e Regno Unito,
ratificarono la Convenzione.
6
professionale e la pratica lavorativa, nell’obbiettivo di facilitare l’emigrazione dei
rifugiati verso i paesi d’oltre mare.
Questa seconda “profetica” statuizione conferma come di fronte alla riluttanza
dei paesi europei a garantire significativi diritti ai rifugiati, non restasse nessuna
opzione se non quella di promuovere il reinsediamento dei rifugiati al di fuori
della regione9.
L’Ufficio internazionale Nantes operò fino al 1938, a partire dal 1° gennaio 1939,
l’organizzazione, insieme all’Alto Commissario per i rifugiati provenienti dalla
Germania10 che era stato istituito nel 1933, venne sostituita da un nuovo Alto
Commissario con sede a Londra, la cui attività proseguì fino al 1946, sia pure con
risorse troppo scarse per fronteggiare la gravissima situazione determinata
dall’avvento delle dittature europee e dagli eventi del secondo conflitto mondiale.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale prese avvio quella che può essere
definita come la seconda fase dell’azione internazionale a favore dei rifugiati. Si
stimano in circa ventuno milioni, i profughi, gli sfollati e i rifugiati soltanto nel
continente europeo: il problema aveva assunto dimensioni gigantesche. Le
Nazioni Unite11 percepirono così come urgente la necessità di affrontare tale
situazione, considerandola una delle priorità dell’organizzazione.
Tra il 1943 e il 1948 le Potenze Alleate istituirono l’Amministrazione delle
Nazioni Unite per il Soccorso e la Riabilitazione (UNRRA), un organismo il cui
fine precipuo era quello di fornire protezione e assistenza materiale a determinate
categorie di rifugiati, garantendo cibo, assistenza sanitaria, vestiario e altri generi
di base, oltre che facilitare il reinserimento di quanti volessero rimpatriare. Alla
scadenza del mandato i compiti dell’UNRRA, cosi come quelli dell’Alto
Commissario, vennero trasferiti all’Organizzazioni Internazionale per i Rifugiati,
creata nel 1947 dalle Nazioni Unite, come agenzia specializzata temporanea (fino
al 1952). Fu la prima agenzia avente carattere internazionale con la responsabilità
9
HATHAWAY J., op. cit., p. 90.
L’Alto Commissario James McDonald fu impegnato nella ricerca di protezione e asilo per i
rifugiati provenienti dalla Germania schiacciata dalla dittatura hitleriana. Occorre inoltre ricordare,
per completezza espositiva, il Comitato Intergovernativo per i Rifugiati, istituito nel luglio del
1938 su iniziativa del Presidente statunitense Franklin D. Roosevelt, per garantire l’emigrazione
delle persone intenzionate ad abbandonare i territori sotto occupazione della Germania. A partire
dal 1939 anche questo organismo venne posto sotto l’egida del nuovo Alto Commissario.
11
La Carta delle Nazioni Unite venne firmata a San Francisco il 26 giugno 1945. È il primo
documento di diritto internazionale che dà rilievo alla persona umana come soggetto attivo di
diritto in campo internazionale, v. LAPENNA E., op. cit, p. 3.
10
7
di gestire integralmente ogni aspetto della vita dei rifugiati e, nei suoi tre anni e
mezzo di attività, si occupò di 1.600.000 rifugiati, riuscendo a trovare una
sistemazione permanente per oltre un milione di essi e permettendone il rimpatrio
di circa 73.000.
La Costituzione dell’IRO12 non introduceva nulla di innovativo rispetto al
sistema delle “categorie” sperimentato dalla Società delle Nazioni nel periodo tra i
due conflitti mondiali, ai fini dell’identificazione dei rifugiati da assistere e
proteggere. Occorre sottolineare invece l’ampiezza delle funzioni ad esso affidate
dalla Costituzione, elencate all’art. 2: rimpatrio, identificazione, registrazione e
classificazione, cura e assistenza, protezione politica e legale, trasporto,
reinsediamento e ristabilimento delle persone rientranti nel suo mandato.
1.1 La creazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati
Durante la fase finale di attività dell’IRO, l’Assemblea Generale riconobbe sia
la necessità della creazione di un organismo che ne proseguisse l’opera, che quella
di elaborare un nuovo strumento giuridico internazionale in materia di rifugiati. Il
Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) venne incaricato di formulare le
prime proposte in materia. Le questioni maggiormente dibattute erano definitorie,
chi avrebbe dovuto beneficiare della protezione internazionale, e funzionali, cosa
avrebbe dovuto essere fatto per i rifugiati, chi avrebbe dovuto farlo e con quali
risorse13.
Mentre tutti gli Stati riconoscevano la necessità di un’organizzazione
internazionale per la protezione dei rifugiati, differenti erano le loro visioni circa
quelli che avrebbero dovuto essere lo scopo e le funzioni dell’UNHCR. Gli Stati
Uniti erano favorevoli a un’agenzia temporanea, con una ristretta autorità e
funzioni limitate. Al contrario, la Francia e i Paesi del Benelux erano ansiosi di
assicurare ingenti fondi per i richiedenti asilo che assistevano nei loro territori.
Altri Stati geograficamente protetti dai flussi di rifugiati, come il Regno Unito,
ritenevano che questi ultimi ricadessero sotto la responsabilità degli Stati di
arrivo. Infine, India e Pakistan, i quali erano in balia, a causa della partizione del
1947, di uno dei più grandi scambi di popolazione dell’epoca moderna, sostennero
che l’UNHCR avrebbe dovuto essere un’organizzazione permanente, con
12
Adottata con 30 voti favorevoli, 5 contrari e 18 astenuti: UNGA res. 62(I), 15 Dec. 1946.
8
responsabilità a livello globale e la capacità di raccogliere fondi per il soccorso e
l’assistenza dei rifugiati. Questi interessi divergenti giocarono un ruolo
fondamentale nella definizione del mandato dell’Agenzia e della sua autonomia
rispetto ai Governi14.
Il 3 dicembre 1949, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite diede vita
all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e il 14
dicembre 1950 con la risoluzione 428(V) venne adottato il relativo Statuto15, che
ne definisce la struttura, il ruolo e le funzioni. L’organizzazione così creata non
era dotata di un mandato a tempo indeterminato, bensì limitata ad operare per un
periodo di tre anni, a partire dal 1951. Mediante successive risoluzioni
dell’Assemblea Generale, l’incarico dell’UNHCR è stato regolarmente rinnovato
fino al 2003, anno in cui è stata emanata una risoluzione che ha eliminato
qualsiasi limitazione temporale, mantenendo in vita l’organizzazione “fino a
quando il problema dei rifugiati non sarà risolto”16.
Come specificato nel capitolo primo dello Statuto, il mandato fondamentale
dell’UNHCR, che agisce sotto l’autorità dell’Assemblea Generale essendo un
organo sussidiario della stessa, consiste nell’assicurare, su base umanitaria e
apolitica, protezione internazionale17 ai rifugiati e ricercare soluzioni permanenti
per i soggetti che rientrano nella sua competenza, come il rimpatrio volontario,
l’integrazione nella comunità del paese d’asilo o il reinsediamento in un paese
terzo.
Benché lo Statuto dichiarasse che l’UNHCR si sarebbe dovuto occupare, di
regola, di categorie e gruppi di rifugiati, piuttosto che d’individui, conteneva una
definizione della competenza generale, ma di individuale applicazione. Il fulcro
della definizione, contenuta nell’art. 6(B), è il fondato motivo di persecuzione a
causa
di
razza,
religione,
nazionalità,
13
o
opinione
politica,
associato
GOODWIN-GILL G., The refugee in International Law, Oxford University Press, 1996, p. 211.
Il risultante Statuto costitutivo chiaramente riflette gli interessi delle maggiori potenze
all’interno della comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e il Regno Unito. V.
LOESCHER G., BETTS A., MILNER J., The United Nations High Commissioner for Refugees
(UNHCR): The Politics and Practice of Refugee Protection, Routledge, 2008, p. 13.
15
ONU, Assemblea Generale, Risoluzione 428(V), 12 dicembre 1950, Statute of the Office of the
United Nation High Commisioner for Refugees, Annex, UN Doc. A/1775, par. 1, disponibile
all’indirizzo www.unhcr.org/3b66c39e1.html.
16
ONU, Assemblea Generale, Risoluzione 58/153, 22 dicembre 2003, par. 9.
17
L’espressione protezione internazionale deve essere intesa in riferimento alla mancanza di
protezione diplomatica che riguarda i rifugiati, i quali, ritrovandosi all’estero senza le garanzie
14
9
all’impossibilità o al rifiuto di avvalersi della protezione diplomatica del proprio
paese. Emerge, da queste parole, la vocazione universale dell’UNHCR.
Attualmente i soggetti che ricadono nel mandato dell’Agenzia sono:
• i rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo
del 1967;
• i rifugiati ai sensi della Convenzione OUA del 1969 e della Dichiarazione
di Cartagena del 1984;
• i richiedenti asilo, ovvero coloro che, lasciato il proprio paese d’origine e
avendo inoltrato una richiesta di protezione internazionale, sono in attesa
di una decisione da parte delle autorità del paese ospitante riguardo al
riconoscimento dello status di rifugiato;
• i rimpatriati, ovvero i rifugiati che hanno fatto volontario ritorno nel
proprio paese di origine;
• gli apolidi18;
• gli sfollati all’interno del proprio paese (Internally Displaced People, IDP),
ovvero persone in una situazione simile a quella dei rifugiati che non
hanno però attraversato un confine internazionale19.
Non rientravano nella missione dell’UNHCR i rifugiati determinati dalla
guerra di Corea, sotto mandato dell’United Nations Korean Reconstruction
Agency (UNKRA), e i rifugiati palestinesi, sotto protezione dell’United Nations
Relief and Work Agency (UNRWA), quest’ultima tuttora operante.
offerte dalla presenza di uno Stato competente a salvaguardarne gli interessi, possono subire abusi
da parte dello Stato in cui si trovano.
18
L’apolidia è la condizione giuridica dell’individuo che nessuno Stato considera come cittadino
sulla base del proprio ordinamento. L’apolide si trova in una posizione assai svantaggiosa rispetto
al cittadino perché, oltre a non possedere i diritti connessi con lo status civitatis, non può
beneficiare della protezione diplomatica che lo Stato può esercitare a tutela dei propri cittadini. V.
BAREL B., voce Apolidia, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. II, tomo I, Roma, 2007, p. 1.
19
Questa nuova categoria di migranti forzati è stata formalmente definita, nel documento Guiding
Principles on Internal Displacement del 1998 (E/CN.4/1998/53/Add.2), come “[people] who have
been forced or obliged to flee or to leave their homes or places of habitual residence in particolar
as a result of generalized violence, violations of human rights or natural or man-made disasters,
and who have not crossed an internationally recognized state border”. A causa dell'assenza di un
mandato generale finalizzato alla loro assistenza, la maggior parte degli sfollati non riceve
protezione o assistenza internazionale. Negli ultimi anni, il mutamento della natura dei conflitti ha
condotto ad un progressivo aumento delle persone sfollate all'interno del proprio paese e su
specifica richiesta del Segretario Generale o dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dopo il
consenso dello stato interessato o quanto meno il suo impegno a non ostacolare le operazioni di
assistenza, l'UNHCR ha progressivamente assunto l'incarico di assistere le popolazioni sfollate di
alcuni paesi. Non esistono statistiche certe sul numero degli sfollati nel mondo. Il Rappresentante
Speciale delle Nazioni Unite per gli Sfollati stima che il numero attuale si attesti intorno ai 27,5
milioni.
10
Dal punto di vista strutturale, lo Statuto precisa che l’Alto Commissario viene
eletto dall’Assemblea Generale su raccomandazione del Segretario Generale con
un mandato di cinque anni. Egli deve condurre la propria attività conformemente
alle linee guida emanate dall’ECOSOC e dall’Assemblea Generale, ai quali
riferisce annualmente. Nel 1958 è stato istituito dall’Assemblea Generale l’organo
di maggior rilievo dell’organizzazione: il Comitato Esecutivo del Programma
dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ExCom). L’ExCom è
composto da Stati membri dell’ONU selezionati dall’ECOSOC “on the widest
possible geographic basis from those States with a demonstrated interest in, and
devotion to, the solution of the refugee problem”20 e si riunisce annualmente per
una settimana, nel mese di ottobre. I suoi compiti principali sono l’approvazione
del bilancio e dei programmi d’azione dell’UNHCR relativi agli anni successivi,
l’emanazione di risoluzioni sulla politica di protezione internazionale dei rifugiati
e la direzione dell’UNHCR nel suo complesso (amministrazione, obiettivi e
priorità)21.
Per quanto concerne il finanziamento dell’organizzazione, come specificato
all’art. 20 dello Statuto, unicamente le spese amministrative necessarie al
funzionamento dell’Alto Commissario sono imputate al budget delle Nazioni
Unite, tutte le altre voci di spesa sono coperte da contributi volontari.
Le caratteristiche strutturali appena ricordate evidenziano come, attraverso una
serie di limitazioni, gli Stati hanno voluto porre in essere un’organizzazione che
non avrebbe creato né una minaccia alla loro sovranità, né generato in capo agli
stessi obblighi finanziari.
1.2 I lavori preparatori: la nascita della Convenzione di Ginevra e il Protocollo
del 1967
Con la risoluzione 248 B (IX) dell’8 agosto 1949, il Consiglio Economico e
Sociale istituì un Comitato di Esperti per i Rifugiati e gli Apolidi con il compito di
studiare una nuova convenzione internazionale relativa allo status dei rifugiati e
degli apolidi. Il testo approvato dal Comitato rifletteva il precedente sistema delle
“categorie”, essendo la definizione di rifugiato ancora legata all’appartenenza a
20
ONU, Assemblea Generale, Risoluzione 1166 (XII), International Assistance to Refugees within
the Mandate of the United Nations High Commissioner for refugees, 26 novembre 1957.
21
Cfr. LOESCHER G., BETTS A., MILNER J., op. cit., p. 77.
11
determinati gruppi nazionali. Fu proprio questo il punto maggiormente discusso,
su cui si confrontarono due orientamenti contrapposti. Gli Stati Uniti erano
favorevoli a una limitazione della responsabilità degli stati sottoscrittori e al
conseguente mantenimento del precedente sistema; al contrario, Francia e Regno
Unito, alla luce della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo22, sostennero
una definizione di rifugiato avente valore universale, che ricoprisse qualsiasi
potenziale situazione, presente e futura, privilegiando l’individualità dei rifugiati
in quanto persone e non in quanto appartenenti a determinati gruppi nazionali.
La discussone venne portata avanti e finì con il concretizzarsi nel corso della
Conferenza dei Plenipotenziari, tenutasi a Ginevra dal 2 al 25 luglio 1951. La
Conferenza fu convocata dall’Assemblea Generale per ottenere il maggior numero
di consensi circa il nuovo strumento. Si volevano evitare gli errori del passato, in
cui erano comitati di esperti, sia pure rappresentanti dei governi, ad adottare gli
accordi, che furono cosi sottoscritti solo da un esiguo numero di Stati.
I 26 Stati partecipanti approvarono il testo dell’attuale Convenzione il 25
luglio, con 24 voti a favore e 2 astensioni23. Aperta alla firma presso l’Ufficio
Europeo delle Nazioni Unite a Ginevra, la Convenzione entrò in vigore il 22
aprile 1954, in conformità all’art. 43, in seguito al deposito del sesto strumento di
ratificazione24.
Considerata la Magna Charta dei rifugiati, la Convenzione delle Nazioni Unite
del 1951 rappresenta il tentativo, unico nella storia della normativa internazionale
sui rifugiati, di istituire un codice dei diritti che copra ogni aspetto fondamentale
della vita e che garantisca ai rifugiati un trattamento minimo, non inferiore a
quello accordato agli stranieri residenti legalmente nel paese d’asilo. Inoltre si
tratta del primo strumento convenzionale contenente una definizione generale dei
soggetti da considerarsi rifugiati, le cui clausole sono quindi applicabili nei
confronti di chiunque presenti oggettivamente gli elementi da esso richiesti
affinché possa essere incluso in tale categoria, a prescindere dalla nazionalità e,
seppur inizialmente con certi limiti, dall’area geografica di provenienza.
22
Proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 a Parigi, GA Res.
217 A (III)
23
Espressero un voto favorevole: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Lussemburgo,
Norvegia, Paesi Bassi, Principato di Monaco, Repubblica Federale di Germania, Regno Unito di
Gran Bretagna, Irlanda del Nord, Santa Sede, Svezia, Svizzera, Turchia, Jugoslavia, Brasile,
Canada, Colombia, Venezuela, Israele, Egitto, Australia. Astenuti: Stati Uniti e Iraq.
12
Gli Stati furono originariamente riluttanti a sottoscrivere un “assegno in
bianco” circa la futura protezione di un numero indefinito di rifugiati. Per questa
ragione furono incluse nell’articolo 1, contenente la definizione di rifugiato,
limitazioni temporali e geografiche. I soggetti rientranti nell’ambito di
applicazione della Convenzione erano soltanto quelli divenuti rifugiati per causa
di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 195125, da intendersi, come specificato alla
lettera B dello stesso articolo, nel senso di “avvenimenti26 accaduti anteriormente
al 1°gennaio 1951 in Europa” o “avvenimenti accaduti anteriormente al 1°gennaio
1951 in Europa o altrove”. Fu quindi lasciata agli stati la possibilità di interpretare
restrittivamente la clausola ai soli eventi occorsi nel territorio europeo. Ciascuno
stato all’atto della firma, della ratifica o dell’accessione della Convenzione,
avrebbe dichiarato l’estensione che intendeva attribuire all’espressione, potendo
in ogni tempo modificarla mediante notificazione al Segretario generale delle
Nazioni Unite27.
Negli anni successivi all’adozione della Convenzione emersero nuovi gruppi
di rifugiati, in particola modo in Africa e in Asia, in seguito ai conflitti legati al
processo di decolonizzazione avviato negli anni ’50. Divenne pertanto necessario
estendere a questi ultimi rifugiati la protezione offerta dalla Convenzione. A tale
scopo venne elaborato e presentato all’Assemblea Generale nel 1966, un
Protocollo Relativo allo Status di Rifugiato. Con la risoluzione n. 2198 (XXI) del
16 dicembre 1966, l’Assemblea prese atto di questo Protocollo e pregò il
Segretario Generale di sottoporre il testo agli Stati in modo da permettere loro di
aderirvi. Il testo originale fu firmato a New York il 31 gennaio 1967 ed entrò in
vigore il 4 ottobre dello stesso anno.
24
Al 28 luglio 2011 gli Stati firmari sono 148, compresi i paesi aderenti unicamente al Protocollo
del 1967. Fonte: www.unhcr.org/protect/PROTECTION/3b73b0d63.pdf.
25
La convenzione si applica tuttavia a persone divenute rifugiate dopo questa data, se possono
dimostrare che il motivo della loro fuga è da imputare a tali eventi. V. Nota introduttiva dell’Alto
Commisario
delle
Nazioni
Unite
per
i
Rifugiati
reperibile
al
sito
www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/13/convenzione_Ginevra_rifugiat
o.pdf.
26
Il termine ‘avvenimenti’ non è definito nella Convenzione ma è inteso come designante
“avvenimenti della più grande importanza che hanno provocato modifiche territoriali o
cambiamenti politici profondi, così come le persecuzioni sistematiche intervenute a seguito di
cambiamenti pregressi”, v. Documento ONU E/1618
27
Gli Stati che tuttora mantengono la limitazione sono: Repubblica Democratica del Congo,
Madagascar, Principato di Monaco, Malta, Turchia, e fino al 31 dicembre 1989 anche l’Italia.
FERRARI G., op. cit., p. 5.
13
Gli stati aderenti al Protocollo si impegnano ad applicare le disposizioni
fondamentali della Convenzione del 1951 ai rifugiati, come definiti nella
Convenzione, senza tener conto della limitazione temporale del 1°gennaio 1951.
L’articolo I del Protocollo dispone infatti: “1. The States Parties to the present
protocol undertake to apply Articles 2 to 34 inclusive of the Convention to
refugees as hereinafter defined. 2. For the purpose of the present protocol, the
term ‘refugee’ shall, except as regards the application of paragraph 3 of this
Article, mean any person within the definition of Article 1 of the Convention as if
the words ‘As a result of the events occurring before 1 January 1951 and …’ and
the words ‘…a result of such events’, in Article 1 (A)2 were ometted”28. Il
Protocollo, inoltre, al par. 3 dello stesso articolo I rimuove la limitazione
geografica prevista dall’articolo 1B(1)(a) della Convenzione, facendo tuttavia
salve le eventuali dichiarazioni già rese in virtù del citato articolo, che si
applicheranno anche sotto il regime del nuovo strumento29. Si tratta di un accordo
nuovo e autonomo per i paesi che non avevano aderito alla precedente
Convenzione.
Insieme la Convenzione del 1951 e il Protocollo coprono tre temi fondamentali:
• la definizione del termine di rifugiato, così come le condizioni di
cessazione e di esclusione dallo status relativo;
• lo status giuridico dei rifugiati nei paesi di asilo, i loro diritti e doveri;
• gli obblighi degli Stati, compresi quelli di cooperazione con l’UNHCR
nell’espletamento dei compiti che gli sono propri30.
2. La definizione di rifugiato: le clausole di inclusione
La definizione di rifugiato è fornita dall’articolo 1 della Convenzione del 1951
il quale dispone che: “A. For the purpose of the present Convention, the term
‘refugee’ shall apply to any person who: (1) Has been considered refugee under
the Arrangements of 12 May 1926 and 30 June 1928 or under the Conventions of
28 October 1933 and 10 February 1938, the Protocol of 14 september 1939 or the
28
ONU, Protocol relating to the Status of Refugees, UNTS, vol. 606, p. 267.
Ciò a meno che, naturalmente, uno Stato che avesse optato per l’ambito di applicazione della
Convenzione più ristretto, non avesse poi esteso i suoi obblighi conformemente all’articolo 1B(2).
29
14
Constitution of the International Refugee Organization; Decisions of noneligibility taken by the International Refugee Organization during the period of its
activities shall not prevent the status of refugee being accorded to persons who
fullfil the conditions of paragraph 2 of this section; (2) As a result of events
occurring before 1 January 1951 and owing to well-founded fear of being
persecuted for reasons of race, religion, nationality, membership of a particolar
social group or political opinion, is outside the country of his nationality and is
unable, or, owing to such fear, unwilling to avail himself of the protection of that
country; or who, not having a nationality and being outside the country of his
former habitual residence as a result of such events, is unable or, owing to such
fear, is unwilling to return to it […]”31.
La prima parte della norma tratta dei rifugiati c.d “statutari” cioè riconosciuti
tali da trattati precedenti l’entrata in vigore della Convenzione. Il richiamo dei
suddetti strumenti internazionali ha lo scopo di stabilire un legame con il passato e
di assicurare la continuità della protezione a vantaggio dei soggetti già oggetto di
interessamento da parte della comunità internazionale 32.
Nella seconda parte, contenente la definizione universalmente accettata di
rifugiato, sono indicate in modo generale e astratto una serie di condizioni, la cui
verifica nel caso concreto viene chiamata “eleggibilità”. A questi requisiti di
eleggibilità si contrappongono le situazioni che conducono alla cessazione dello
status di rifugiato (lettera C del medesimo articolo), da un lato, e quelle situazioni
la cui presenza esclude la possibilità del riconoscimento dello status (lett. D),
dall’altro33.
Prima di passare all’analisi delle singole clausole di inclusione occorre
ricordare che la determinazione dello status di rifugiato è di tipo dichiarativo e
30
ODELLO M., Il diritto dei rifugiati. Elementi di diritto internazionale, europeo e italiano,
Franco Angeli Editore, Milano, 2013, p. 61.
31
ONU, Convention Relating to the Status of Refugees, UNTS, vol. 189, I2545.
32
Nonostante la non attualità della previsione, ai fini dell’interpretazione del concetto di rifugiato,
tale inclusione di gruppi di persone è interessante per i possibili aspetti applicativi della
Convenzione e per un’interpretazione che sia consona alle esigenze di protezione di persone che
sfuggono da situazioni di persecuzione, non sempre direttamente dimostrabili dal punto di vista
individuale. Cfr. ODELLO M., op.cit., p. 60.
33
L’analisi delle definizione di rifugiato condotta attraverso la scomposizione e lo studio dei suoi
elementi costitutivi non deve far perdere di vista l’unitarietà delle definizione in questione. Essa
deve essere infatti interpretata in modo “olistico” sulla base del significato ordinario del complesso
dei termini che la compongono e alla luce dell’oggetto e dello scopo della Convenzione di Ginevra
(in conformità all’art. 31 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati), v. UNHCR, The
international protection of refugees: interpreting article 1 of the 1951 Convention, 2001, p. 2.
15
non costitutivo. Quando si parla di status di rifugiato si fa riferimento ad una
condizione preesistente a qualsiasi riconoscimento ufficiale e che anzi viene
riconosciuta proprio perché già esiste. La Convenzione impone infatti agli Stati
parte di valutare la peculiare situazione di ogni singolo richiedente asilo, tenuto
conto di tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto. Le competenti autorità
devono avere sia un quadro completo della personalità del richiedente asilo, del
suo background e delle sue esperienze personali, che una conoscenza aggiornata
di tutte le circostanze oggettive presenti nel paese di origine34. Una volta che si
siano verificate e accertate le condizioni previste dalla Convenzione, il soggetto
che richiede asilo deve aver riconosciuto lo status di rifugiato.
2.1 Il fondato motivo di persecuzione sulla base dei motivi elencati nell’art. 1A
Le parole “ temendo a ragione di essere perseguitato” contenute nell’art. 1
costituiscono la chiave della definizione. Vi possono essere numerose cause che
spingono una persona ad emigrare, ma solo un motivo viene identificato per
definire un rifugiato. Il richiesto fondato timore di essere perseguitato per uno dei
cinque motivi indicati nella Convenzione, enunciando una causale ben precisa,
esclude automaticamente dalla definizione tutte le altre cause di abbandono del
paese di origine35.
Essendo il timore un fatto personale, emerge un primo aspetto soggettivo che
richiederà anzitutto una valutazione della personalità e delle dichiarazioni del
richiedente, piuttosto che un giudizio sulla situazione esistente nel suo paese di
provenienza. Data l’importanza che la definizione attribuisce a questo elemento,
una valutazione circa l’attendibilità del richiedente asilo si renderà necessaria ogni
volta che, dalle circostanze di fatto accertate, la situazione non risulti
sufficientemente chiara. Dovranno essere presi in considerazione i precedenti
personali e familiari dell’individuo, la sua appartenenza a un gruppo razziale,
religioso, nazionale, politico o sociale, la sua interpretazione della situazione e la
sua personale esperienza.
34
UNHCR, ibidem, p. 2.
Il requisito esclude, ad esempio, persone che sono vittime di carestie o di calamità naturali, a
meno che ovviamente non ricorra anche il fondato timore di persecuzione per uno dei motivi
indicati. V. UNHCR, Handbook of procedures and criteria for determining refugee status under
the 1951 Conventione and the 1967 Protocol relating to the status of refugees,
HCR/IP/4/Eng/REV.1 Reedited, Geneva, January 1992, UNHCR 1979.
35
16
All’elemento del timore si aggiunge quello della fondatezza (“a ragione”), ciò
implica che il semplice stato d’animo del richiedente non è sufficiente al
riconoscimento dello status di rifugiato, ma deve essere fondato su una situazione
oggettiva36. L’elemento oggettivo richiede la sussistenza di una situazione in cui,
una persona ragionevole avrebbe effettivamente paura di subire una persecuzione.
Vengono così in rilievo elementi di verifica quali la prova ragionevole che la vita
nel paese di origine è diventata insostenibile e la verifica della sorte subita da
parenti, amici o membri del medesimo gruppo sociale. L’onere di fornire prove
sufficienti per dimostrare la fondatezza del timore sono poste a carico del
richiedente asilo37, tuttavia la natura stessa del requisito in esame e la condizione
traumatica che accompagna la fuga, impediscono spesso di poter giungere
all’eliminazione di ogni dubbio circa la sussistenza della condizione.
Una considerazione ad hoc merita il termine “persecuzione”. Non esiste di
questo termine una definizione universalmente accettata e i vari tentativi di
esplicitazione hanno avuto poco successo. Sulla base dell’art. 33 della
Convenzione si può dedurre che ogni minaccia alla vita o alla libertà per motivi di
razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato
gruppo sociale costituisce una persecuzione. Alla luce degli strumenti
internazionali rilevanti in materia di diritti umani e degli statuti dei tribunali
penali internazionali38, si può ritenere, inoltre, che il termine persecuzione includa
anche la privazione intenzionale e grave di diritti fondamentali della persona o
altri danni seri perpetrati con frequenza, anche se non sempre in forma sistematica
o ripetitiva. La questione dell’equivalenza di queste azioni pregiudizievoli a forme
36
L’interpretazione del requisito in esame come composto da un elemento soggettivo ed uno
oggettivo è ormai consolidata nella giurisprudenza più recente, come è stato ribadito dalla High
Court Australiana nel caso Ex Parte Miah e dalla Corte d’Appello statunitense nel caso Said
Guirguis v. John Ashcroft. Non mancano però opinioni discordanti; secondo un’autorevole
posizione dottrinale, l’elemento soggettivo, come comunemente interpretato, sarebbe
sostanzialmente superfluo e potrebbe condurre ad una distorsione del processo di determinazione
dello status di rifugiato. L’esistenza di un timore soggettivo inteso come trepidazione non
dovrebbe né essere una condizione preesistente al riconoscimento dello status, né avvantaggiare
un richiedente asilo nel caso in cui il rischio di persecuzione non sia ben fondato. Cfr.
HATHAWAY J., HICKS W., Is there a subjective element in the refugee Convention’s
requirement of ‘well-founded fear’?, in Michigan Journal of International Law 26, n.2 2005 p.
505-562.
37
In particolare il ricorrente dovrà vincere un “doppio test”,così come definito dai giudici della
House of Lords nel caso Adan v. Secretary of State for the Home Department, consistente nel
dimostrare la sussistenza di un timore di essere sottoposto ad una persecuzione (fear test) e la
contestuale mancanza di adeguata protezione da parte dello Stato di provenienza (protection test).
V. LENZERINI F., Asilo e diritti umani, op. cit.
38
Si veda ad esempio l’art. 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale.
17
di persecuzione andrà valutata caso per caso, tenendo conto della percezione
dell’individuo che ne sia oggetto39. Alcuni Stati tendono a restringere il concetto
di persecuzione, ai sensi della Convenzione, ai danni inflitti dalle autorità statali o
da entità riconducibili alla responsabilità dello Stato (cd. accountability theory).
Questa teoria è però sconfessata dalla posizione adottata in merito dall’UNHCR.
L’Alto Commissario sottolinea come le persecuzioni perpetrate da soggetti non
statali rientrano nella definizione convenzionale di rifugiato, coerentemente a
quello che è lo scopo primario della Convenzione, assicurare la protezione dei
rifugiati.
Un ulteriore aspetto controverso circa la definizione di persecuzione riguarda
la determinazione del suo confine rispetto alla nozione di atto di discriminazione.
Normalmente la discriminazione, intesa come diversità di trattamento tra vari
gruppi sociali, non costituisce una forma di persecuzione ai sensi della
Convenzione di Ginevra. Solo in circostanze particolari, quando le misure
discriminatorie comportano conseguenze gravemente pregiudizievoli per la
persona colpita, come ad esempio restrizioni alla possibilità di guadagnarsi da
vivere, al diritto di praticare la propria religione o all’accesso alle istituzioni
scolastiche a disposizione della popolazione, la discriminazione determina
persecuzione.
L’art. 1A(2) enuncia cinque motivi di persecuzione rilevanti per il
riconoscimento dello status di rifugiato: razza, religione, nazionalità, appartenenza
ad un gruppo sociale particolare ed opinione politica. La persona che chiede il
riconoscimento deve dimostrare un fondato timore di persecuzione basato su uno
di questi ultimi40.
• Razza
In questo contesto, come affermato dal Comitato Esecutivo dell’UNHCR, la
razza deve essere intesa nel senso più ampio, tale da includere ogni tipo di gruppo
39
Per meglio intendere la portata del concetto di persecuzione nel diritto internazionale si possono
analizzare gli sviluppi della giurisprudenza dei tribunali penali internazionali, in particolare dopo il
caso Blaskic deciso dal Tribunale Penale per l’Ex-Jugoslavia. Dall’analisi emerge una costante
scomposizione del concetto in due elementi principali: la violazione sufficientemente grave di
diritti umani fondamentali accompagnata dall’incapacità dello Stato di proteggere l’individuo. V.
ODELLO M., op. cit., p. 78.
40
Essa, tuttavia, non è tenuta ad analizzare il proprio caso al punto da poter identificare il motivo
in modo preciso. Spetta a chi esamina il caso concreto, indagando sulle circostanze di fatto,
accertare il motivo o i motivi di persecuzione e stabilirne la rispondenza ai criteri stabiliti dalla
Convenzione del 1951. V. UNHCR, Handbook…, cit, p. 18.
18
etnico a cui nel linguaggio corrente viene riferito il termine “razza”
41
. Spesso
questa nozione comprende anche l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale
di origine comune, costituente una minoranza nell’ambito di una popolazione più
vasta. Generalmente la semplice appartenenza ad un determinato gruppo razziale
non è sufficiente per giustificare la concessione dello status. Occorre che vi sia
una discriminazione fondata sulla razza tale da offendere la dignità della persona e
quindi risultare in violazione dei più fondamentali diritti dell’uomo.
• Religione
Il concetto di religione comprende qualsiasi tipo di credenza posseduta
dall’individuo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e il relativo Patto
sui diritti civili e politici affermano la libertà di cambiare religione e quella di
manifestarla sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche e
nell’osservanza dei riti. La persecuzione per motivi religiosi può assumere diverse
forme e solo in circostanze particolari, la semplice appartenenza ad una
determinata confessione può da sola essere sufficiente ai fini del riconoscimento
dello status.
• Nazionalità
Il termine nazionalità non va interpretato solo nel senso giuridico di
cittadinanza, ma comprende altresì l’appartenenza ad un gruppo etnico, religioso
o linguistico e in certi casi può sovrapporsi al concetto di razza. La persecuzione
per motivi di nazionalità può consistere in misure e politiche dirette contro una
minoranza nazionale42. Spesso può risultare difficile distinguere persecuzioni per
motivi di nazionalità e persecuzioni per motivi politici, ciò accade quando il
movimento politico è identificato con una determinata nazionalità (es. movimenti
separatisti).
• Appartenenza ad un determinato gruppo sociale
Il criterio in questione non è di facile definizione. Si tratta di una clausola
aperta che consente un’interpretazione evolutiva dei possibili motivi che possono
costituire la causa di una discriminazione ai sensi della Convenzione43. Vi sono
41
Mentre gli estensori della Convenzione non specificarono il significato del termine, il contesto
storico chiarì che il loro intento era quello di includere quegli ebrei vittime del regime nazista, che
furono perseguiti a causa della loro etnia, indipendentemente dal fatto che praticassero attivamente
il loro credo. HATHAWAY J., The law of refugee status, Butterworths, 1991 p. 141.
42
Ne sono esempi il conflitto del Ruanda, la guerra dei Balcani e la situazione del Kosovo.
43
Fu introdotta come emendamento dell’ultimo minuto su proposta del delegato svedese, per far si
che potessero usufruire della protezione anche coloro che facevano parte di determinate classi
19
due possibili forme di identificazione di un gruppo sociale. La prima, basata su
“caratteristiche protette”, prende in considerazione l’esistenza di elementi
immutabili, considerati essenziali per il riconoscimento di diritti fondamentali. La
seconda è invece fondata sulla “percezione sociale” del gruppo, soffermandosi
sull’esistenza di caratteristiche che lo rendano riconoscibile all’interno della
società. L’UNHCR raccomanda un approccio che prenda in considerazione
entrambi gli aspetti. Il tentativo di delineare i contorni del concetto in esame ha
costituito l’oggetto di una notevole produzione giurisprudenziale, soprattutto dei
tribunali di common law. Merita una particolare menzione l’approccio
esemplificato nel caso Acosta, in cui il Board of Immigration Appeal, definì il
gruppo sociale come un gruppo di persone che condividono una caratteristica
comune e immutabile, che può essere innata o derivare da una precedente
esperienza comune. Gli elementi distintivi devono essere considerati dai membri
del gruppo fondamentali per la loro identità o la loro coscienza44. Nel corso degli
anni sono stati riconosciuti gruppi sociali: i disabili, gli omosessuali e le donne45,
classi socialmente e culturalmente definite come la classe “borghesecommerciante” durante la rivoluzione dei Khemer Rossi in Cambogia e, in
determinate circostanze, i disertori46.
• Opinione politica
L’opinione politica comprende ogni opinione riguardante qualunque materia
nell’ambito della quale l’apparato politico governativo sia in qualsiasi modo
coinvolto. Il fatto di avere idee politiche diverse da quelle del governo non è di
per se sufficiente per l’accoglimento della richiesta di rifugio, in quanto occorre
una relazione tra queste e le misure sofferte o temute dal richiedente asilo. Come
sociali, che soprattutto nell’area sovietica, erano ipso facto soggetti a persecuzione. V. Statements
of Mr. Petren of Sweden, U.N.Doc. A/CONF.2/SR.3, p. 14, 19 novembre 1951.
44
Questo approccio è comunemente definito “protected characteristic approach” ed è condiviso
anche dalla direttiva comunitaria 2004/83/CE.
45
Una forma di iniziale attenzione verso la protezione delle donne è costituita dalla Conclusione
n° 39 dell’EXCOM dell’UNHCR, la quale richiedeva agli stati d’interpretare il concetto di gruppo
sociale con il fine di includervi le donne che ricevevano trattamenti inumani, per aver trasgredito
le pratiche sociali della loro comunità. Soltanto in tempi recenti si è avuto il riconoscimento dello
status di rifugiato basato sul genere in due casi importanti nel Regno Unito (Shah e Islam v.
Secretary of State for the Home Department), i quali hanno stabilito che le donne possono essere
considerate un gruppo sociale in base alla Convenzione. Cfr. ODELLO M., op. cit., p. 95.
46
Particolare rilievo è stato dato al caso di rifiuto di partecipare ad un conflitto armato che sia stato
condannato dalla comunità internazionale, in quanto condotto nel disprezzo del diritto
internazionale umanitario. L’UNHCR considera che le sanzioni comminate ad un individuo che si
rifiuta di prendervi parte siano da considerare una forma di persecuzione e i principali casi decisi
da Gran Bretagna e Canada hanno fatto riferimento a tali considerazioni.
20
osservato dalla Corte Suprema Canadese nel caso Ward, in linea di principio non
è necessario che l’opinione sia espressa, ma può anche desumersi dal
comportamento del ricorrente, quando questo sia associato ad un orientamento
politicamente rilevante suscettibile di innescare la condotta persecutoria47.
2.2 L’allontanamento dal Paese di origine
Il secondo elemento di inclusione ai fini del riconoscimento dello status di
rifugiato è costituito dall’allontanamento dal Paese di nazionalità o di residenza
abituale. In questo contesto il concetto di nazionalità corrisponde a quello di
cittadinanza cioè il legame di un soggetto con un determinato stato. Si tratta di un
requisito essenziale ed inderogabile poiché la protezione internazionale non può
divenire operante finché la persona non ha lasciato il suddetto territorio48. Ai fini
della concessione dello status di rifugiato occorrerà quindi previamente verificare
l’effettiva nazionalità del richiedente asilo, in quanto il timore di persecuzione
deve essere valutato in relazione al Paese di nazionalità. Qualora non fosse
possibile identificare chiaramente il paese di cittadinanza dell’individuo, questo
dovrà essere valutato come una persona apolide, ovvero facendo riferimento al
Paese di residenza abituale.
Il timore di essere perseguitato non deve necessariamente riferirsi a tutto il
territorio del Paese di origine. Durante le guerre civili o i conflitti etnici, la
persecuzione di uno specifico gruppo etnico può avvenire anche solo in un’area
del territorio dello Stato. In tali circostanze la domanda di asilo non deve essere
rigettata semplicemente sulla base del fatto che si sarebbe potuto ottenere
protezione in un’altra parte del territorio nazionale, ma deve essere presa in
considerazione, quando valutate le circostanze del caso concreto, non si poteva
ragionevolmente pretendere che l’individuo agisse in questo modo. A partire dagli
anni ’80 del secolo scorso, per limitare i flussi di richiedenti asilo, alcuni Stati
hanno negato lo status di rifugiato sostenendo che la persona avrebbe potuto
47
L’orientamento è condiviso da altre Corti tra cui la Refugee Status Appeals Authority
neozelandese e la Corte d’Appelo degli Stati Uniti, oltre che esplicitato nella direttiva Comunitaria
2004/83/CE. V. LENZERINI F., op. cit., p. 302-303.
48
In alcuni paesi, soprattutto dell’America Latina, esiste la consuetudine dell’“asilo diplomatico”,
cioè della concessione di asilo ai profughi politici nelle ambasciate estere. L’asilo diplomatico non
è previsto dalla Convenzione di Ginevra e non ha un regime definito nel diritto internazionale. La
persona cui sia stato concesso asilo in un’ambasciata, pur non essendo soggetta alla giurisdizione
21
trovare asilo in altre regioni del proprio paese, senza dover necessariamente
fuggire all’estero. Si tratta di una possibilità denominata “internal flight
alternative” o “relocation principle”, particolarmente invocata per impedire
l’accesso alle procedure di asilo ad interi gruppi di individui. Questa limitazione,
stando anche alle linee guida dell’UNHCR49, può essere applicata solo in
presenza di determinate circostanze, in cui il rischio di persecuzione promana da
agenti non statali, come gruppi di guerriglieri o organizzazioni terroristiche, che
controllano solo una determinata aerea del Paese. In questi casi è possibile che vi
siano regioni in cui non sussiste il timore di persecuzione e quindi gli individui
possono ragionevolmente trovarvi rifugio.
Il requisito dell’allontanamento dal Paese di origine non significa che il
soggetto abbia necessariamente dovuto lasciare quest’ultimo per il fondato timore
di essere perseguitato, ma include anche la possibilità che la persona abbia deciso
di chiedere lo status di rifugiato dopo aver vissuto all’estero per un certo periodo.
La persona che non era rifugiata al momento dell’abbandono del proprio Paese,
ma lo diventa in seguito, viene definita rifugiato “sur place”. La dottrina distingue
due tipi di rifugiato “sur place”. In primis colui che vi diventa a causa di
circostanze occorse nel Paese d’origine da lui indipendenti, come ad esempio un
colpo di stato, un cambio di governo o un conflitto armato. Da questo tipo si
distingue colui che diviene rifugiato “sur place” in conseguenza di azioni che
siano da lui commesse durante il periodo di permanenza all’estero. In relazione a
questa seconda situazione non si registra una prassi uniforme degli Stati circa la
concessione dello status di rifugiato, ne vi sono riferimenti all’interno del testo
della Convenzione di Ginevra50. Secondo l’UNHCR occorre determinare di volta
del suo paese, non è comunque fuori dal territorio del medesimo, quindi non può essere
considerata rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951.
49
L’UNHCR ha definito in maniera puntuale le condizioni da accertarsi in tali circostanze: il
richiedente deve poter accedere all’area in modo pratico, legale e sicuro; se l’agente di
persecuzione è l’autorità statale, l’alternativa interna non è praticabile; è necessario verificare
l’effettiva capacità dello Stato di garantire protezione nell’area individuata; se non è ragionevole
presumere che il soggetto possa condurre una vita normale, il ricollocamento interno non è
un’alternativa praticabile. V. UNHCR, Guidelines on International Protection No.4: “Internal
Flight or Relocation Alternative” within the context of Article 1A(2) of the 1951 Convention
and/or 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, 23 luglio 2003, disponibile all’indirizzo
www.unhcr.org/refworld/docid/3f2791a44.html.
50
In ambito europeo la direttiva qualifiche 2011/95/UE all’art. 5(2) prevede la valutazione delle
attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d’origine, al fine di stabilire se queste
abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla
presentazione di una domanda di protezione internazionale. L’art. 5(3) accorda agli Stati, fatta
salva la Convenzione di Ginevra, la possibilità di non riconoscere di norma lo status di rifugiato a
22
in volta quale sia l’effettivo rischio per l’individuo e il conseguente timore di
persecuzione, sulla base di accurate analisi delle circostanze concrete51.
2.3 La mancanza di protezione da parte dello Stato di origine
L’ultima condizione posta dall’articolo 1(A)(2) della Convenzione di Ginevra
affinché un richiedente asilo soddisfi i requisiti necessari per il riconoscimento
dello status di rifugiato consiste nella circostanza che la persona interessata sia
incapace (unable) o non voglia (unwilling), a causa del fondato timore di essere
perseguita per uno dei motivi precedentemente analizzati, usufruire della
protezione del proprio paese di cittadinanza. In termini strettamente interpretativi,
incapacità (inability) significa che l’assenza di protezione scaturisce da
circostanze che la persona interessata non può controllare, ad esempio una guerra
civile o uno stato di grave disordine, e che impediscono alle autorità del paese di
cittadinanza di fornire una protezione adeguata o rendono tale protezione
inefficace. La tutela del paese di cui l’individuo è cittadino può anche essergli
stata rifiutata. Questo diniego di protezione può confermare o accrescere il timore
di persecuzione e costituire, in determinati casi, esso stesso motivo di
persecuzione52.
Riluttanza (unwillingness), invece, indica il rifiuto del rifugiato di accettare la
protezione del proprio paese di origine. La facoltà di rifiuto è qualificata dalle
parole “a causa di questo timore”, è cioè condizionata dalla sussistenza di un ben
fondato motivo di persecuzione. Questo implica che, quando la protezione da
parte del paese di origine sia disponibile ed adeguata, e non vi sia alcun motivo
valido per rifiutarla, alla persona non possa essere riconosciuto lo status di
rifugiato.
Alla luce di quanto esposto, appaiono di dubbia legittimità soluzioni
normative che consentono agli Stati di negare il riconoscimento dello status di
rifugiato, quando la protezione dell’individuo possa essere offerta, invece che
dallo Stato, da organizzazioni o partiti che controllano lo Stato o una parte
un richiedente che abbia introdotto una domanda successiva, se il rischio di persecuzione è basato
su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine.
51
UNHCR, Handbook …, cit, p. 24, par. 96.
52
Ciò che costituisce rifiuto di protezione deve essere determinato secondo le circostanze del caso.
Se risulta che al soggetto sono stati negati diritti normalmente riconosciuti ai suoi concittadini (ad
23
consistente del territorio53. Queste autorità non statali non forniscono una garanzia
adeguata, non essendo parti di trattati internazionali in tema di tutela della persona
e quindi non potendo essere considerate eventualmente responsabili per il
mancato rispetto dei diritti fondamentali da questi protetti.
Nel caso di individuo apolide, il “paese di cittadinanza” è sostituito dal “paese
in cui aveva residenza abituale” e le parole “non vuole avvalersi della protezione
di questo paese” sono sostituite da “non vuole tornarvi”. La differenza
fondamentale, rispetto alla situazione delle persone aventi la cittadinanza di
almeno uno Stato, risiede nel fatto che, nel caso di apolidi, non si può parlare di
assenza di protezione da parte del paese di provenienza54. È normalmente
sufficiente che l’apolide abbia abbandonato il paese di precedente residenza
abituale in ragione della sussistenza di un ben fondato motivo di persecuzione, nel
qual caso la persona interessata non sarà generalmente in grado di ritornarvi.
3. Le clausole d’esclusione e di cessazione dalla protezione
La Convenzione di Ginevra non definisce soltanto le condizioni relative alla
definizione dello status di rifugiato ma anche le circostanze che determinano la
cessazione o il diniego della protezione internazionale. Le clausole di esclusione
devono essere prese in considerazione nella fase di determinazione dello status di
rifugiato, mentre quelle di cessazione vengono in rilievo durante il periodo in cui
l’individuo già gode della protezione, per valutare un eventuale mutamento delle
circostanze che ne hanno determinato la concessione e la sua sopravvenuta non
necessità55.
esempio il rilascio del passaporto o l’ammissione nel territorio nazionale) ciò può costituire un
risfiuto di protezione ai sensi della definizione. V. UNHCR, Handbook, cit, p. 24, par. 98.
53
Un esempio può essere fornito dall’art. 7 della direttiva comunitaria 2004/83/CE recante norme
minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona
altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della
protezione riconosciuta.
54
Occorre ricordare che la Convenzione di Ginevra è stata adottata in un periodo storico in cui il
diritto internazionale dei diritti umani era in uno stato ancora embrionale, ed erano quindi
difficilmente configurabili obblighi a carico di uno Stato nei confronti di soggetti che non ne
avevano la cittadinanza (fatte salve le norme sul trattamento degli stranieri, che escludevano per
loro natura gli apolidi). V. LENZERINI F., op. cit., p. 319.
55
Esiste anche la possibilità di annullamento dello status di rifugiato. Si tratta di una misura
eccezionale che può essere presa soltanto in presenza di due condizioni: quando si viene a
conoscenza del fatto che l’individuo ha intenzionalmente occultato o distorto fatti materiali allo
scopo di ottenere la protezione; quando emergono fatti costituenti motivo di esclusione solo dopo
24
Le clausole di esclusione sono contenute negli articoli 1(D), 1(E) e 1(F) della
Convenzione. Le prime due sezioni del suddetto articolo si riferiscono a persone
che non hanno bisogno della protezione internazionale, mentre la terza considera
soggetti non meritevoli di protezione. Occorre preliminarmente sottolineare come
queste previsioni abbiano natura di eccezione rispetto alla finalità umanitaria dello
strumento internazionale. Devono pertanto essere applicate in maniera scrupolosa
e restrittiva per proteggere l’integrità dell’istituto dell’asilo56 e soltanto dopo una
piena valutazione delle circostanze individuali del caso, in ragione delle serie
conseguenze per gli individui che ne sono colpiti.
La sezione D afferma che la Convenzione “shall not apply to persons who are
at present receiving from organs or agencies of the United Nations other than the
United Nations High Commisioner for Refugees protection or assistance”
specificando inoltre che “when such protection or assistance has ceased for any
reason, without the position of such persons being definitively settled in
accordance with the relevant resolutions adopted by the General Assembly of the
United Nations, these persons shall ipso facto be entitled to the benefits of this
Convention”. La protezione ed assistenza richiamata dalla disposizione è stata
accordata in passato dall’Agenzia delle Nazioni Unite per la Ricostruzione della
Corea (UNKRA) ed attualmente viene fornita dall’Agenzia delle Nazioni Unite
per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati di Palestina nel Medio Oriente
(UNRWA)57. Ulteriori casi analoghi potrebbero verificarsi nel futuro.
L’art. 1(E) definisce in termini generali le persone per le quali non si considera
necessaria una protezione internazionale come coloro che sono considerati dalle
autorità competenti del paese in cui hanno stabilito la loro residenza “as having
the rights and obligations which are attached to the possession of the nationality
of that country”. Questa clausola si applica a chi, pur rientrando nelle condizioni
previste per il riconoscimento dello status di rifugiato, abbia ricevuto da parte di
uno Stato diverso da quello di origine, il riconoscimento della maggior parte dei
diritti solitamente connessi al possesso della cittadinanza di quel paese (cd.
che il soggetto ha ottenuto la qualifica di rifugiato. V. ODELLO M., op. cit., p. 100; UNHCR,
Handbook, cit., p. 34.
56
UNCHR, Executive Commitee Conclusion n.82 (XLVIII), 1997
57
Questa agenzia opera solamente in favore dei rifugiati palestinesi in Giordania, Libano, Siria e
nei territori occupati da Israele. Un rifugiato palestinese che si trovi al di fuori di questa area, non
beneficiando della protezione dell’UNRWA, può essere preso in considerazione ai fini del
25
“rifugiati nazionali”)58.
L’ultima clausola di esclusione è quella che da luogo ai maggiori problemi
interpretativi. La lettera F dell’articolo 1 esclude ogni persona nei confronti della
quale si hanno serie ragioni per ritenere che: “(a) he has committed a crime
against peace, a war crime, or a crime against humanity, as defined in the
international instruments drawn up to make provision in respect of such crimes;
(b) he has committed a serious non-political crime outside the country of refuge
prior to his admission to that country as a refugee; (c) he has been guilty of acts
contrary to the purposes and principles of the United Nations”59. La ratio di
questa disposizione è di impedire che la protezione internazionale del rifugiato sia
posta a vantaggio di coloro che si siano resi responsabili di atti odiosi e di
garantire che siffatte persone non abusino dell’istituzione dell’asilo, allo scopo di
sfuggire alla responsabilità per i loro atti criminosi. Ai fini dell’applicazione della
clausola è sufficiente stabilire che vi sono “serie ragioni di ritenere” che uno degli
atti previsti sia stato realmente commesso, non è quindi necessaria una prova
formale.
Si rammenta inoltre che, trattandosi di un’elencazione esaustiva e non
esemplificativa, la normativa nazionale non dovrebbe apportarvi variazioni, o
aggiunte di tipo limitativo, che comporterebbero una riduzione del riconoscimento
dello status di rifugiato. L’art. 1(F)(a) deve essere interpretato alla luce degli
strumenti internazionali rilevanti. Occorre fare riferimento non solo agli Statuti
dei Tribunali di Norimberga e di Tokio, ma anche alle norme successive, come le
quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 sulla protezione delle vittime di guerra e
i due Protocolli aggiuntivi del 1977, gli Statuti dei Tribunali Penali ad hoc per
l’ex Jugoslavia e per il Ruanda e lo Statuto della Corte penale Internazionale, oltre
che alle relative decisioni e alla giurisprudenza.
Per quanto concerne i crimini di diritti comune, la relativa inclusione ha lo
scopo sia di proteggere la popolazione del Paese di accoglimento dal pericolo di
ammettere un rifugiato che abbia commesso un grave reato, sia quello di
riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951. Cfr. UNHCR,
Handbook, cit., p. 35.
58
Ne sono un esempio la protezione riconosciuta durante la guerra fredda dalla Repubblica
Federale Tedesca ai cittadini della Repubblica Democratica Tedesca e, sino al 1962, il libero
ingresso, la libera circolazione e il divieto di espulsione nel Regno Unito garantiti a tutti i sudditi
britannici e cittadini del Commonwealth (British Nationality Act, 1948, Section 1.2).
26
salvaguardare i rifugiati responsabili di crimini di gravità minore o di reati
politici60. Rientrano nella clausola solo i reati commessi dal soggetto al di fuori
del paese di accoglimento prima di esservi ammesso come rifugiato, quelli
commessi nel paese di asilo saranno accertati mediante un regolare processo in
tale paese.
L’ultimo comma della sezione F non introduce specifici elementi nuovi, ma
prende in considerazione in generale le azioni, parimenti di natura criminale,
contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite che non rientrino integralmente
nei due precedenti commi. I fini e i principi sono definiti negli articoli 1 e 2 della
Carta delle Nazioni Unite61, i quali regolano la condotta degli Stati Membri tanto
nei loro reciproci rapporti quanto nelle relazioni con la comunità internazionale
nel suo insieme. I travaux préparatoires riflettono una mancanza di chiarezza
rispetto all’utilizzo di questa previsione. I commenti dei delegati suggeriscono
un’interpretazione di questa come di una clausola di rara applicazione, e riferibile
solo a soggetti che si trovino in una posizione di potere all’interno di uno Stato,
tale da poterlo condurre alla violazione delle suddette disposizioni della Carta
delle Nazioni Unite62.
Lo status di rifugiato, che assicura ai beneficiari una protezione internazionale
in assenza di quella del paese di origine, opera in una logica di temporaneità63. La
Convenzione contempla non già una protezione permanente, bensì una condizione
destinata a risolversi al verificarsi di uno dei casi di cessazione disciplinati
dall’articolo 1C. Come sottolineato nel Manuale dell’UNHCR, le clausole di
cessazione, la cui applicazione è di competenza esclusiva degli Stati, enunciano
59
Un’analoga clausola è prevista anche dall’art. I(5) della Convenzione dell’Organizzazione
dell’Unità Africana che disciplina determinati aspetti dell problema dei rifugiati in Africa.
60
Data l’incertezza interpretativa circa i termini della previsione, l’UNHCR ha sottolineato la
necessità di stabilire “un rapporto tra la natura del reato presumibilmente commesso da colui che
chiede lo status di rifugiato e il grado di persecuzioni da esso temute”. V. UNHCR, Handbook,cit.,
p. 156. È stato inoltre chiarito che la gravità del reato deve essere valutata sulla base di determinati
criteri, quali la natura dell’atto, il danno effettivamente causato, le procedure adottate per giudicare
il reato, la considerazione dell’illecito da parte degli altri ordinamenti giuridici. V. UNHCR,
Guidelines on international protection No. 5: Application of the Exclusion Clauses: Article 1F of
the 1951 Convention relating to the Status of Refugees, 4 settembre 2003.
61
ONU, Carta di San Francisco, firmata da 51 membri originari e adottata per acclamazione a San
Francisco il 26 giugno 1945, entrata in vigore il 24 ottobre 1945, ratificata dall’Italia con legge 17
agosto 1957 n. 848 (Suppl. Ord. GU n. 238 del 25 settembre 1957).
62
UNHCR, The international protection of refugees: Interpreting article 1 of the 1951 Convention
relating to the status of refugees, cit., par. 50.
63
BENVENUTI P., La convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, in PINESCHI L. (a cura
di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, Giuffrè Editore, Milano,
2006, p. 151-173.
27
delle condizioni negative identificate estensivamente, sono perciò da interpretare
restrittivamente e nessun’altra ragione può essere invocata in via analogica dagli
Stati per giustificare la revoca dello status di rifugiato.
Le clausole si sogliono suddividere in due aree. Nella prima (art. 1C paragrafi
1-4) si includono i cambiamenti nella situazione del rifugiato di cui egli stesso ha
preso l’iniziativa, ovvero: 1) riassunzione volontaria della protezione del Paese di
cui ha la cittadinanza; 2) riacquisto volontario della cittadinanza; 3) acquisto di
una nuova cittadinanza e conseguente godimento della protezione del Paese della
cui cittadinanza si tratta; 4) ristabilimento volontario della residenza nel Paese
rispetto al quale sussisteva il fondato motivo di persecuzione. Si tratta di azioni, in
particolare quelle previste dai paragrafi 1, 2 e 4, che devono essere intraprese
volontariamente dall’individuo e comportare per quest’ultimo la possibilità di
beneficiare di una protezione nazionale, effettiva e duratura, altrimenti egli non
cesserà di essere un rifugiato64.
La seconda area riguarda i paragrafi 5 e 6 dell’art. 1C, i quali stabiliscono che
la Convenzione del 1951 cesserà di applicarsi qualora si presentino mutamenti
delle circostanze in base alle quali il rifugiato aveva ottenuto lo status, per cui non
può continuare a rifiutare di avvalersi della protezione del Paese di cui ha la
cittadinanza (o di residenza abituale, se trattasi di un soggetto apolide). Le
maggiori questioni interpretative in merito a queste clausole riguardano la natura e
il grado dei mutamenti necessari. Il Comitato Esecutivo dell’UNHCR ha
affermato che i suddetti mutamenti devono essere fondamentali, stabili, duraturi e
relativi alle circostanze in base alle quali sussisteva il timore di persecuzione65.
Sono inoltre stati identificati una serie di fattori che devono essere tenuti in
considerazione dagli Stati nella valutazione dei singoli casi, tra cui: il livello di
sviluppo democratico del Paese d’origine, l’esistenza di norme che tutelino le
libertà e i diritti fondamentali, la ratifica dei trattati sui diritti umani e il livello di
64
Per quanto concerne in particolare il paragrafo 1, la semplice presa di contatto del rifugiato con
le autorità diplomatiche del proprio paese di origine, ad esempio per la richiesta di rilascio di un
passaporto nazionale o del certificato di cittadinanza, non accompagnata dall’intenzione di volersi
riavvalere della protezione nazionale, può non comportare la cessazione dello status. Come
affermato da GOODWAY-GILL in The refugee in International law, “Sometimes, however, a
refugee may be unwillingly obliged to seek a measure of protection from [his country of origin],
as where a passport or travel document is essential to obtain the issue of a residence permit in the
country of asylum. Being involuntary, the protection obtained should not bring refugee status to
an end”.
65
Executive Committee Conclusion No.69 (XLIII), 1992.
28
accesso sia alle istituzioni nazioni che internazionali che ne assicurano
l’osservanza66. La questione centrale consiste quindi nel chiarire le cause che
hanno determinato la fuga dell’individuo dal Paese di origine; successivamente
occorre verificare se i mutamenti radicali intercorsi hanno rimosso il rischio di
persecuzione per quel soggetto, e se sussiste un’effettiva protezione dal parte del
Paese di provenienza.
Entrambi i paragrafi enunciano al secondo comma un’eccezione alle ipotesi di
cessazione per i cosiddetti “rifugiati statutari”, ossia riconosciuti in base all’art.
1A(1) della Convenzione di Ginevra, “che possano invocare motivi imperiosi
derivanti da precedenti persecuzioni per rifiutare di tornare nel paese in cui
avevano la residenza abituale”. L’intenzione degli estensori del trattato era
duplice: dal un lato, riconoscere la sussistenza del disagio psicologico affrontato
dalle vittime di persecuzione in caso di ritorno nel Paese responsabile dei loro
maltrattamenti; dall’altro, proteggere le vittime di atrocità passate dagli
atteggiamenti ostili della popolazione, le cui attitudini potrebbero non essere
mutate malgrado il cambio di regime67. Nonostante la limitazione ai “rifugiati
statutari”, l’eccezione esprime un principio umanitario più generale, che potrebbe,
e dovrebbe, essere applicato anche agli altri rifugiati.
4. L’estensione della definizione di rifugiato negli strumenti
regionali
La Convenzione di Ginevra è l’unico strumento universale che include gli
standard e gli obblighi degli Stati in materia di protezione dei rifugiati a livello
internazionale, tuttavia sono stati elaborati accordi a livello regionale, da parte di
organizzazioni che operano su base continentale, soprattutto in Africa e America.
Il principale accordo è costituito dalla Convenzione che regola gli aspetti
specifici dei rifugiati in Africa, adottata il 10 settembre 1969 dall’Organizazione
66
Altri fattori specifici includono: le possibili amnistie, l’abrogazione di norme repressive,
l’annullamento di sentenze adottate contro oppositori politici e il generale ristabilimento di
protezione e garanzie legali, v. UNHCR, Guidelines on international protection: cessation of
refugee status under article 1c(5) and (6) of the 1951 Convention relating to the status of refugees,
10 febbraio 2003.
67
HATHAWAY J., The law of refugee status, Butterworths, Canada, 1991, p. 203.
29
per l’Unità Africana (OUA, oggi sostituita dall’Unione Africana, UA)68. A causa
dei conflitti che accompagnarono la fine dell’epoca coloniale in Africa, gli Stati
del continente ritennero opportuna una regolamentazione del fenomeno dei
rifugiati che tenesse in considerazione le specifiche condizioni africane69. La
Convenzione non si pone, come inizialmente temuto dall’UNHCR, come uno
strumento alternativo o in concorrenza con la Convenzione di Ginevra, ma come
un’integrazione di essa, che considera “the basic and universal instrument
relating to the status of refugees”70. La definizione di rifugiato contenuta
nell’accordo in esame è ben più ampia di quella tracciata dalla Convenzione del
1951. L’articolo 1 dispone infatti, dopo aver ripetuto al primo paragrafo la
definizione del Protocollo del 1967 (cioè la definizione della Convenzione del
1951 senza data limite né limitazione geografica), che il termine rifugiato si
applichi anche “to every person who, owing to external aggression, occupation,
foreign domination or events seriously disturbing public order in either part or
the whole of his country of origin or nationality, is compelled to leave his place of
habitual residence in order to seek refuge in another place outside his country of
origin or nationality”71. Si tratta di un’importante estensione, perché permette alle
persone in fuga da guerre civili, situazioni di violenza generalizzata, ma anche
carestie ed epidemie, di richiedere lo status di rifugiato negli Stati parte della
Convenzione africana, senza dover dimostrare il fondato timore di persecuzione.
Questo allargamento determina una diversità nel processo di accertamento dello
status. Laddove la Convenzione di Ginevra risulta essere applicata su base
strettamente individuale, quella dell’OUA valuta condizioni di affluenza di massa.
Verificate quindi certe circostanze oggettive nel Paese di origine, si ritiene che
68
UNIONE AFRICANA, Convenzione che regola aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in
Africa, adottata ad Addis Abeba il 10 settembre 1969 dalla Conferenza dei Capi di Stato e di
Governo, entrata in vigore il 20 giugno 1974, UNTS, vol. 45, p. 1001 ss.
69
In Africa il problema dei rifugiati fu il prodotto della decolonizzazione e della lotta per
l’indipendenza delle nazioni. I rifugiati provenienti dalle colonie scappavano alle oppressioni ed al
razzismo; l’intensificazione delle lotte in Angola, Mozambico e nella Guinea Portoghese
produssero una brutale repressione da parte del governo portoghese. Casi simili si ebbero in Sud
Africa e in Rodesia a causa della discriminazione razziale e dell’apartheid. Gli esodi tuttavia non
provenivano solo dalle colonie, ma anche dai paesi indipendenti, in cui spesso la convivenza tra
etnie e culture diverse originava tensioni e conflitti. La situazione era inoltre aggravata
dall’instabilità dei nuovi governi e dal saltuario intervento di poteri esterni. Questa condizione
accrebbe il numero di sfollati che passò da quattrocentomila nel 1964 a settecentomila nel 1967.
V. Final report of the Conference on the Legal, economic and social aspects of the African
Refugee problems, 9-18 Ottobre 1967, p. 9.
70
Preambolo, 9, Convenzione OUA del 1969.
71
Art. 1(2), Convenzione OUA.
30
tutti coloro siano in fuga da detto Stato siano rifugiati, fatta salva la prova
contraria.
Un ulteriore strumento regionale è costituito dalla Dichiarazione di Cartagena
sui rifugiati del 1984. La Dichiarazione è stata adottata come atto finale di una
riunione tra i delegati di dieci Paesi72 ed eminenti giuristi latino-americani,
organizzata in Colombia per discutere sul tema dei rifugiati nel continente,
soprattutto riguardo al fenomeno delle dittature e delle guerre civili che
affliggevano vari Stati in quel periodo73. Pur essendo strutturata sulla falsariga
della Convenzione della Nazioni Unite del 1951, anch’essa raccomanda
un’estensione della nozione di rifugiato contenuta nello strumento ONU, alle
“persone fuggite dal loro paese perché la loro vita, la loro sicurezza e la loro
libertà erano minacciate da una violenza generalizzata, un'aggressione straniera,
conflitti interni, una violazione massiccia dei diritti dell'uomo o altre circostanze
che abbiano gravemente turbato l'ordine pubblico”74. Questa definizione ha dei
punti in comune con la Convenzione OUA, essa infatti legittima la rivendicazione
dello status in base all’aggressione straniera e accetta la nozione di
determinazione per gruppi. Inoltre il riferimento alle massicce violazioni di diritti
umani rende la Dichiarazione decisamente moderna e ne estende il campo
applicativo: non è necessario che il proprio Paese di provenienza sia percorso da
conflitti per essere legittimamente riconosciuti rifugiati. Tuttavia la necessità di
dimostrare che le suddette violazioni minaccino la vita, la sicurezza o la libertà
dell’individuo, ovvero una connessione personale, può circoscrivere la portata
innovativa della definizione. Nonostante la Dichiarazione del 1984 non sia
giuridicamente vincolante, essa non manca di esercitare un notevole peso: la
maggior parte degli Stati centroamericani, oltre ad aver aderito alla Convenzione
di Ginevra e al Protocollo del 1967, applica regolarmente la Dichiarazione, ed in
alcuni casi essa è stata recepita nella legislazione nazionale. Lo strumento inoltre
è stato approvato dall’ExCom dell’UNHCR, dall’Organizzazione degli Stati
Americani (OSA) e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
72
Belize, Colombia, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama
e Venezuela.
73
Coloquio Sobre la Protección Internacional de los Refugiados en América Central, México y
Panamá: Problemas Jurídicos y Humanitarios, celebrato a Cartagena de Indias, Colombia, dal 19
al 22 novembre 1984.
31
5. Il principio di non-refoulement
L’interesse primario del rifugiato consiste nell’aver accesso al territorio di uno
Stato diverso da quello da cui fugge e in cui può trovare, o almeno cercare,
protezione. La prima forma di tutela di questo interesse consiste nell’assicurare al
soggetto che egli non sarà rinviato forzosamente nel territorio da cui è fuggito.
Tale garanzia è affermata dal cosiddetto principio di non-refoulement75, enunciato
all’articolo 33(1) della Convenzione di Ginevra: “No Contracting State shall
expel or return (‘refouler’) a refugee in any manner whatsover to the frontiers of
territories where his life or freedom would be threatened on account of his race,
religion, nationality, membership of a particolar social group or political
opinion”.
Il principio di non refoulement è considerato “la pietra angolare” della
protezione internazionale dei rifugiati, qualificabile come norma consuetudinaria
di diritto internazionale generale76. La sua importanza si riflette nell’art. 42(1)
della Convenzione del 1951 e nell’art. VII(1) del Protocollo del 1967, che
precludono agli Stati contraenti di apporre riserve, inter alia, all’art. 33. Il
carattere fondamentale e inderogabile del principio di non-refoulement è stato
ulteriormente riaffermato in numerose conclusioni del Comitato Esecutivo
dell’UNHCR77.
Occorre inoltre evidenziare come l’obbligo di non-refoulement non coincide
con il diritto di ottenere asilo78 per almeno due ragioni. In primo luogo, l’art. 33
74
Raccomandazione III, 3, Dichiarazione di Cartagena del 1984.
Il termine non-refoulement deriva dal francese refouler, letteralmente allontanare con forza,
respingere.
76
Sono due i requistiti richiesti ad una norma di fonte convenzionale per assurgere al rango di
norma consuetudinaria, entrambi elencati dalla Corte Internazionale di Giustizia nella nota
sentenza North Sea continental shelf (Federal Republic of Germany/Denmark, Federal Republic
of Germany/Netherlands), del 20 febbraio 1969 (I.C.J. Reports 1969, p. 3). Innanzitutto la
partecipazione internazionale alla convenzione, in cui figura la disposizione in esame, deve essere
ampia e rappresentativa, specialmente con riguardo a quelli tra gli Stati maggiormente colpiti nei
loro interessi dal trattato. Inoltre, devono esservi riscontri dell’esistenza di una generale opinio
juris, che attesti il riconoscimento internazionale della natura vincolante della regola espressa nella
disposizione.
77
Si vedano ad esempio, ExCom, Conclusion No.6 (XXVIII), nota 9, par. (c); Conclusion No.17
(XXXI), 1980, par. (b); Conclusion No.25 (XXXIII), 1982, par. (b); Conclusion No.65 (XLII),
1981, par. (b); Conclusion No. 68 (XLIII), 1982, par. (f); Conclusion No. 103 (LVI), 2005.
78
Né la Convenzione di Ginevra, né il successivo protocollo hanno come oggetto il diritto d’asilo,
ma il solo regime giuridico applicabile a coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato. Alla
definizione di rifugiato non segue quindi l’attribuzione di un diritto soggettivo all’asilo territoriale.
L’art. 14 della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 (non vincolante) stabilisce che:
“Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni. Questo
75
32
vieta unicamente le misure che comporterebbero per il rifugiato un rischio di
persecuzione, non costituisce un obbligo positivo di accettazione del rifugiato a
carico delle Parti contraenti. Essendo infatti formulato in termini negativi, limita,
ma non elimina, la tradizionale prerogativa degli stati di regolare l’entrata degli
stranieri nel loro territorio. In secondo luogo, il principio di non-refoulement è
strettamente connesso alla concreta esistenza del rischio di persecuzione. Lo
status di rifugiato è essenzialmente transitorio, non vi è alcun obbligo per gli Stati
di permettere ai rifugiati di rimanere all’interno del loro territorio se e quando il
rischio di persecuzione è cessato79.
5.1 L’estensione applicativa del principio ratione personae e ratione loci
Come testimoniato dai travaux préparatoires80, l’identificazione dei soggetti a
vantaggio dei quali il principio deve trovare applicazione, fu una della questioni
maggiormente dibattute durante l’estensione della Convenzione. Nonostante
un’interpretazione restrittiva dell’art. 33(1) potrebbe condurre a ritenere che non
tutti i rifugiati rientrino nel suo campo di applicazione, in quanto la norma
proibisce esclusivamente il respingimento dei rifugiati verso luoghi in cui “la loro
vita o la loro libertà sarebbero minacciate”, la protezione dal refoulement è
garantita ad ogni soggetto rientrante nella definizione di rifugiato contenuta
nell’art. 1(A) della Convenzione, ovvero che soddisfi i requisiti in essa enunciati,
indipendentemente da una formale attribuzione dello status da parte delle Autorità
statali81. Questa tutela prodromica rispetto all’esito della procedura consegue alla
natura declaratoria, e non costitutiva, del riconoscimento dello status di rifugiato.
Occorre rammentare che recentemente è stata avanzata da alcuni autori
un’interpretazione più ampia della minaccia contemplata dall’art. 33, che include,
diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o
per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”.
79
HATHAWAY J., The rights of refugee under international law, cit., p. 302.
80
WEIS P., The Refugee Convention, 1951: The Travaux Préparatoires analysed with a
commentary by Dr. Paul Weis, Cambridge University Press, 1995, disponibile all’indirizzo
www.unhcr.org/4ca34be29.html.
81
Il principio in questione rientra in quella limitata categoria di diritti conferiti dalla Convenzione
a tutti coloro che semplicemente si siano dichiarati rifugiati, ossia che abbiano manifestato alle
autorità dello Stato di asilo l’intenzione di domandare protezione. V. MASTROMARTINO F., Il
diritto di asilo. Teoria e storia di un istituto giuridico controverso, Giappichelli, Torino, 2012. A
sostegno di quanto affermato si rammenta la Conclusione No.6 (1977) in cui il Comitato Esecutivo
dell’UNHCR ha statuito “the foundamental importance of the principle of non-refoulement […]
irrespective of whether or not individuals have been formally recognized as refugees”.
33
oltre al rischio di persecuzione, “a threat to life or freedom [that] may arise other
than in consequence of persecution”. A sostegno di questa tesi vengono affermate
l’ampiezza della competenza dell’UNCHR, gli scopi umanitari della Convenzione
di Ginevra e la presenza di vari strumenti regionali a tutela dei diritti fondamentali
che garantiscono più estese forme di protezione contro il refoulement82.
Ugualmente irrilevante, ai fini del godimento del diritto di non-refoulement, è
l’ingresso illegale o clandestino del richiedente asilo nello Stato in cui intende
cercare la protezione internazionale. L’articolo 31 della Convenzione afferma
infatti, “The Contracting States shall not impose penalties, on account of their
illegal entry or presence, on refugees who, coming directly from a territory where
their life or freedom was threatened in the sense of article 1, enter or are present
in their territory without authorization […]”. Il soggetto gode di un presumptive
refugee status e del conseguente diritto di accedere ad una procedura che valuti la
sussistenza dei requisiti prescritti per la sua qualificazione come rifugiato83.
Connessa al problema dell’individuazione dei soggetti protetti dal principio in
esame è la questione relativa al concetto di respingimento e all’estensione del suo
ambito semantico. Nonostante la disposizione contempli espressamente solo
l’espulsione e il respingimento, nella fattispecie della norma devono rientrare
anche altre condotte, come l’estradizione, che sono suscettibili di comportare le
conseguenze che il principio vuole scongiurare84. Ciò è d’altronde riaffermato
82
LAUTHERPACHT E. e BETHLEHEM D. osservano che “the words ‘where is life or freedom
would be threatened’ must be construed to encompass circumstances in which a refugee or asylum
seeker (a) has a well-founded fear of being persecuted, (b) faces a real risk of torture or cruel,
inhuman or degrading treatment or punishment, or (c) faces other threats to life, physical
integrity, or liberty”. V. LAUTHERPACHT E., BETHLEHEM D., The scope and content of the
principle of non-refoulement: Opinion in FELLER E., TÜRK V., NICHOLSON F. (edited by),
Refugee protection in international law: UNHCR’s global consultations on international
protection, Cambridge University Press, 2003, p. 125.
83
V. GOODWING-GILL G., Article 31 of the Convention relating to the status of refugees: nonpenalization, detention, and protection, in FELLER E., TÜRK V., NICHOLSON F. (edited by),
Refugee protection in international law: UNHCR’s global consultations on international
protection, Cambridge University Press, 2003, p. 196 e 233. Si veda, inoltre, la Conclusione n. 58
(XL) del 1989 del Comitato Esecutivo dell’UNHCR (The problem of refugees and asylum seekers
who move in an irregular manner from a country in which they had already found protection) in
cui, al par. (f), si afferma che “[w]here refugees and asylum-seekers […] move in an irregular
manner from a country where they have already found protection, they may be returned to that
country if (i) they are protected there against refoulement and (ii) they are permitted to remain
there and to be treated in accordance with recognized basic human standards until a durable
solutions is found for them”.
84
Nella Conclusione n. 17 (XXXI) del 1980, relativa ai problemi dell’estradizione concernenti i
rifugiati, il Comitato Esecutivo dell’UNHCR rileva che non dovrebbe essere concessa
l’estradizione dei rifugiati verso un paese in cui essi avrebbero un fondato timore di persecuzione
per uno dei motivi enunciati dall’art. 1A(2) della Convenzione di Ginevra, e raccomanda agli Stati
34
dalle parole dell’art. 33 in cui si prescrive che il rinvio del soggetto verso i
territori di uno Stato ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate non deve
“in nessun modo” realizzarsi.
La dottrina si è divisa, in particolare, sulla possibilità di applicazione del
divieto di refoulement non solo nei confronti dei soggetti già presenti nel territorio
dello Stato in cui intendono presentare la domanda di asilo, ma anche a coloro che
non hanno fatto ingresso nel Paese, ma sono presenti alle sue frontiere. La lettura
restrittiva del divieto è all’origine del fenomeno dei cosiddetti “rifugiati in orbita”.
I richiedenti asilo sono respinti dalle autorità di frontiera dalla “zona di transito”
di porti e aeroporti verso altro Stato, in cui hanno soggiornato una volta fuggiti dal
Paese di origine, ritenuto per questa ragione competente per l’esame della
richiesta di asilo (safe third country o country of first asylum), le cui autorità
statali in frontiera impediscono a loro volta l’ingresso e la conseguente richiesta di
protezione: si realizza in tal modo un gioco di rinvii di dubbia compatibilità con il
principio di non-refoulement.
Quanti sostengono questa visione riduttiva degli obblighi degli stati imposti
dall’art. 33 si basano sulle osservazioni dei delegati svizzeri e olandesi alla
Conferenza dei Plenipotenziari del 1951, i quali sostenevano un’interpretazione
del principio che ne limitava l’applicazione a coloro che avevano già varcato i
confini nazionali e che non copriva i flussi massicci di migranti85. È stato perfino
sostenuto che le divergenti vedute dottrinali sono dovute all’ambiguità dell’art.
33, il cui significato varierebbe secondo la versione, francese86 o inglese, del
testo. Esaminando entrambi i documenti, dove il respingimento è indicato
rispettivamente con i termini “refouler” e “return”, può invece desumersi come la
formulazione include anche il respingimento alla frontiera. Tali termini sono
aggiunti alla parola “expulsera”(nel testo inglese: “expel”), che già di per sé copre
la fattispecie dell’allontanamento dello straniero presente nel territorio dello Stato,
presupponendo così una situazione diversa da quella definita.
Dal punto di vista logico-giuridico, altri due elementi fanno propendere verso
l’indirizzo maggiormente estensivo: a) la ratio del principio di non-refoulement si
di tenere in debita considerazione “the generally recognized principle of non-refoulement” durante
la redazione dei trattati di estradizione e nella fase applicativa degli stessi. V. LENZERINI F., op.
cit., p. 341.
85
GOODWIN-GILL G., The refugee in international law, Oxford University Press, 1996 p. 122.
35
fonda sulla necessità di proteggere un valore, che alla luce del diritto
internazionale odierno, assume rilevanza fondamentale in quanto tale, non
potendo essere intaccato dall’elemento territoriale della fattispecie concreta; b)
l’interpretazione qui sostenuta è confortata dalla prassi successiva all’emanazione
della Convenzione del 1951, che vede la maggior parte degli strumenti
internazionali in materia di asilo e di protezione dei rifugiati, includere
espressamente nel concetto di non-refoulement il respingimento alla frontiera87.
Come sottolineato da alcuni autorevoli autori, si tratterebbe in realtà di un
problema più apparente che reale, in quanto le persone che richiedono la
protezione internazionale alle autorità statali si trovano nella maggior parte dei
casi in luoghi, quali dogane, porti o aeroporti, che sono già parte del territorio
statale e quindi soggetti alla sua giurisdizione. Il richiedente protezione ha quindi
già fatto ingresso, fisicamente, nel suddetto territorio.
5.2 Extraterritorialità
Altra questione lungamente dibattuta è quella relativa alla natura
extraterritoriale del principio, ovvero se il divieto di refoulement si applichi non
solo alle condotte poste in essere dallo Stato nel suo territorio o nelle sue
frontiere, ma anche ad interventi realizzati dalle autorità statali all’esterno dei
propri territori.
Il problema è stato affrontato nel celebre caso dei profughi di Haiti,
riguardante le operazioni di intercettazione in acque internazionali di imbarcazioni
provenienti dall’isola, realizzate dagli Stati Uniti in esecuzione di un ordine
emanato dall’allora presidente Bush nel maggio del 1992. Il provvedimento
comandava alla guardia costiera di rinviare le navi cariche di richiedenti asilo
direttamente verso il paese d’origine, senza condurre alcuna verifica della
situazione individuale dei migranti88. La Corte d’Appello federale aveva ritenuto
che l’ordine presidenziale integrasse una violazione dell’art. 33(1) della
86
Il testo francese della norma riporta che “[a]ucun des États contractants n’expulsera ou ne
refoulera […]”.
87
Si vedano in ordine cronologico, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’asilo territoriale del
1967, art. 3(1), i Principi Concernenti il Trattamento dei Rifugiati del Comitato Consultivo AfroAsiatico, art. III par. 1 della versione rivista nel 2001, la Convenzione africana del 1969, art. II
par. 3 e la Dichiarazione di Cartagena del 1984, n. III, par. 5.
36
Convenzione di Ginevra, considerando il principio di non-refoulement applicabile
ad ogni rifugiato, indipendentemente dal luogo in cui egli si trovi al momento del
respingimento89.
La Corte Suprema, investita del ricorso avverso la pronuncia, ha rovesciato
tale conclusione, decretando la legittimità del provvedimento in discussione,
attraverso una lettura restrittiva del principio in esame. Argomentando a contrario
sul testo della disposizione convenzionale, la Corte ha sostenuto che “because the
text of Article 33 cannot reasonably be read to say anything at all about a
nation’s actions toward aliens outside its own territory, it does not prohibit such
actions”90. La sentenza della Corte, adottata con larga maggioranza91, afferma
quindi che uno Stato – sebbene sia obbligato a non respingere verso un paese
dove la loro vita o libertà sarebbero minacciate, gli stranieri che si trovino già sul
territorio nazionale o alle frontiere – manterrebbe la possibilità di impedire ad
aspiranti rifugiati che si trovino ancora in acque internazionali di pervenire nel
proprio mare territoriale, prevenendo in questo modo il formarsi dell’obbligo di
non-refoulement.
La decisione contrasta apertamente con i principi ispiratori della materia,
nonché con lo spirito e la lettera dell’art. 33 e non tiene in alcun modo in
considerazione gli sviluppi della prassi successivi ai lavori preparatori della
Convenzione del 1951. Sia l’UNHCR, che la Commissione Inter-Americana dei
diritti umani, in opposizione alle motivazioni contenute nella sentenza, hanno
affermato la natura extraterritoriale del principio di non-refoulement, dichiarando
che il divieto di respingimento si applica ovunque lo Stato eserciti la sua
giurisdizione, indipendentemente dal fatto che esso agisca all’interno o all’esterno
88
Ordine Esecutivo n. 12.807, International legal materials, 32, 1993, p. 1046 in cui si autorizza
“the U.S. Coast Guard to return the Haitians picked up at sea directly to Haiti without first
determining if they qualify as refugees”.
89
Haitian Centers Council, Inc. v. McNary, Corte d’Appello, 2nd Cir., 1992, 969 F. 2d 1350, p.
1362.
90
Sale v. Haitian Centers Council, Inc., Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, 1993, in
International legal materials, 32, 1993, p. 1039.
91
Dei nove giudici che componevano il collegio giudicante, soltanto uno, il giudice Blackmun ha
espresso un’opinione dissenziente, in cui si legge, tra l’altro, che “[a]rticle 33.1 is clear not only
in what it says, but also in what it does not says: it does not include any geographical limitation. It
limits only where a refugee may be sent ‘to’, not where he may be sent from. This is not surprising,
given that the aim of the provision is to protect refugees against persecution”. V. Sale v. Haitian
centers Council, Inc., cit., p. 1061.
37
dei propri confini territoriali92.
Alla luce della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in cui è stabilito
che le convenzioni internazionali devono essere interpretate in buona fede,
attraverso l’esame del significato ordinario dei termini impiegati, alla luce del
contesto, dell’oggetto e dello scopo del trattato, questa diversa interpretazione
appare coerente con la ratio dell’art. 3393. Appare d’altronde irragionevole, sotto
il profilo del principio di uguaglianza, una discriminazione basata sull’elemento
territoriale, da cui risulti un trattamento diverso secondo che il rifugiato,
trovandosi in ogni caso all’esterno del territorio del suo Paese di origine come
richiesto dall’art. 1A(2) della Convenzione di Ginevra, si trovi all’interno o
all’esterno dei confini territoriali dello Stato in cui intende presentare la richiesta
di protezione internazionale.
L’UNHCR ha ulteriormente ribadito la sua posizione in un recente parere, in
cui afferma che “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani
sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se
quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un
territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano di quello Stato, quanto piuttosto
se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”94.
5.3 Eccezioni al divieto di refoulement
Il principio di non-refoulement enunciato nella Convenzione di Ginevra non è
assoluto, inderogabile, in quanto sono previste alcune circostanze eccezionali
nelle quali lo Stato è autorizzato a derogare al divieto stabilito nel primo comma
dell’articolo 33. Il secondo comma dispone infatti che “the benefit of the present
provision may not, however, be claimed by a refugee whom there are reasonable
grounds for regarding as a danger to the security of the country in which he is, or
who, having been convinted by a final judgment of a particularly serious crime,
constitutes a danger to the community of that country”.
92
Si vedano: Caso n. 10.675, 17 marzo 1993, par. 183 e 188, deciso dalla Commissione InterAmericana dei diritti umani; UNHCR, UN High Commissioner for Refugees responds to U.S.
Supreme Court decision in Sale v. Haitian Centers Council, in International legal materials, 32,
1993, p. 1215.
93
V. articolo 31(1) della Convenzione sul diritto dei trattati, conclusa a Vienna il 23 maggio 1969
ed entrata in vigore il 27 gennaio 1980, 1155 U.N.T.S. 331.
38
Come affermato in dottrina, essendo tali eccezioni previste in deroga ad un
fondamentale principio di carattere generale, esse devono essere interpretate
restrittivamente95. Tuttavia è evidente che, data la generalità della formulazione
convenzionale, ampio spazio è concesso alle autorità statali nella determinazione
dell’effettiva pericolosità del rifugiato per la sicurezza del paese e della comunità
dei cittadini. Ciò ovviamente non significa che tali autorità possano decidere
arbitrariamente, in quanto, come già emerso durante i lavori preparatori della
Convenzione, il principio da applicare alla circostanza in esame è quello di
proporzionalità, che funge da parametro di una valutazione comparativa tra la
gravità del pericolo che si prospetta a danno del rifugiato in caso di
allontanamento e la minaccia alla sicurezza dello Stato determinata dalla presenza
del soggetto sul proprio territorio96. Se l’esito della valutazione conferma una
preminenza del secondo elemento sul primo, il mancato riconoscimento della
protezione al rifugiato comporterebbe una violazione del principio di nonrefoulement.
Vi è inoltre una frequente confusione tra il diritto di uno Stato di espellere o
respingere rifugiati pericolosi, previsto dall’art. 33(2) e le clausole di esclusione
dal riconoscimento dello status di rifugiato disposte dall’art. 1F della
Convenzione.
Come puntualmente osservato dal giudice Justice Bastarache della Corte
Suprema Canadese, la distinzione tra questi due precetti deve essere riconosciuta:
“the general purpose of Art. 1F is to exclude ab initio those who are not bona fide
refugees at the time of their claim for refugee status. The purpose of Art. 33 of the
Convention, by contrast, is to allow for the refoulement of a bona fide refugee to
94
UNHCR, Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement
derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal suo Protocollo del
1967, 26 gennaio 2007, par. 35.
95
V. LAUTERPACHT E., BETHLEHEM D., The scope and content of the principle of nonrefoulement, op. cit., p. 134, in cui si afferma “given the humanitarian character of nonrefoulement and the serious consequences to a refugee or asylum seeker of being returned to a
country where he or she is in danger, the exceptions to non-refoulement must be interpreted
restrictively and applied with particular caution”.
96
Ai fini di una valutazione coerente con il principio di proporzionalità occorre tenere in
considerazione fattori quali: la gravità del pericolo per la sicurezza dello Stato; la probabilità del
verificarsi del pericolo e la sua imminenza; se il pericolo per la sicurezza dello Stato sarebbe
eliminato o significativamente ridotto con l’allontanamento dell’individuo interessato; la natura e
la serietà del rischio per l’individuo derivante dal refoulement; se altri soluzioni in armonia con il
divieto di refoulement sono disponibili e possono essere adottate, sia nel paese di rifugio sia
mediante il trasferimento dell’individuo interessato in un paese terzo sicuro. Cfr.
LAUTHERPACHT E., BETHLEHEM D., op. cit., p. 137.
39
his native country where he poses a danger to the security of the country of
refuge, or to the safety of the community. Although all of the acts described in
Art. 1F could presumably fall within the grounds for refoulement described in
Art. 33, the two are distinct”97.
L’art. 33(2) stabilisce una soglia più elevata, in quanto richiede la
dimostrazione che il rifugiato costituisca un pericolo per la sicurezza o per la
comunità del paese di rifugio, focalizzandosi quindi su una futura minaccia
proveniente dall’individuo
piuttosto che sulla commissione da parte di
quest’ultimo di atti deplorevoli nel passato. Secondariamente, mentre l’art. 1F(b)
afferma che la Convenzione non si applica a coloro che hanno commesso un
crimine grave di diritto comune fuori dal paese ospitante prima di essere ammessi
come rifugiati, l’art. 33(2) richiede una condanna definitiva per un crimine
particolarmente grave, nulla affermando circa il luogo e il momento della
commissione di quest’ultimo. Una lettura corretta dell’art. 33(2) alla luce dell’art.
1F(b), comporta che esso debba essere interpretato come riguardante circostanze
non “coperte” dall’art. 1F(b). Ciò porta alla conclusione che, all’interno del
sistema delineato dalla Convenzione del 1951, l’art. 33(2) deve applicarsi nei casi
di condanna definitiva per un crimine particolarmente grave commesso
dall’individuo nel paese di asilo, o altrove, successivamente all’ingresso come
rifugiato98.
Per quanto concerne la prima eccezione prevista dalla Convenzione di
Ginevra, relativa al pericolo per la sicurezza dello Stato, può essere rilevato come
il rischio deve riferirsi precipuamente allo Stato ospite, non avendo alcuna
rilevanza circostanze riguardanti altri paesi o la comunità internazionale in
generale e devono esservi motivi seri99, sufficientemente dimostrati, per ritenere il
rifugiato una minaccia imminente e reale. La nozione di sicurezza nazionale pur
97
Pushpanathan v. Minister of Citizenship and Immigration, Supreme Court of Canada, June 4,
1998, disponibile all’indirizzo
www.scc-csc.lexum.com/decisia-scc-csc/scc-csc/scc-csc/en/item/1627/index.do.
98
Come affermato da HATHAWAY J., “So construed, Art. 1(F)(b) and Art. 33(2) form a coherent
and logical system”. Cfr. HATHAWAY J., The rights of refugees under international law, cit., p.
344.
99
La nozione di “reasonable grounds” è stata sapientemente definita dal giudice Justice
Glazebrook della Corte d’Appello neozelandese: “It means that the State concerned cannot act
either arbitrally or capriciously and that it must specifically address the question of whether there
is a future risk and the conclusion on the matter must be supported by evidence”. Cfr. Attorney
General v. Zaoui and Others, September 30, 2004, CA20/04, par. 133, disponibile all’indirizzo
www.refworld.org/docid/49997af11a.html.
40
non essendo precisamente definita nei travaux préparatoires, alla luce dei
moderni orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, deve essere intesa come
riguardante “the host state’s most basic interests, including the risk of an armed
attack on its territory or its citizens, or the destruction of its democratic
institutions”.
Il refoulement è inoltre ammesso, come previsto dall’ultima parte dell’art.
33(2), anche nel caso in cui il rifugiato sia stato condannato definitivamente per
un crimine o un delitto particolarmente grave, nel qual caso il fatto che
l’individuo rappresenti un pericolo per la comunità dello Stato territoriale è, in
base al testo della norma, presunto100. La doppia qualificazione – particolarmente
e grave – del crimine è coerente con la portata restrittiva dell’eccezione ed
enfatizza come il refoulement deve essere contemplato, ai sensi della norma in
esame, solo nella più estrema delle circostanze, quando non vi è nessuna possibile
alternativa per proteggere la popolazione del paese di asilo dal rischio di un danno
inaccettabile.
È necessario evidenziare infine che l’applicazione di queste eccezioni è
preclusa laddove il refoulement di un richiedente asilo sia suscettibile di
comportare la soggezione dello stesso a trattamenti vietati dal diritto cogente,
quali la tortura o la riduzione in schiavitù. Alla luce di quanto appena affermato, il
refoulement potrà essere disposto solo in seguito ad un’attenta analisi delle
circostanze individuali del soggetto coinvolto e nel rispetto della procedura
prevista dalla legge101.
100
Come eloquentemente sostenuto da LENZERINI F., ciò si desume dall’art. 33(2) nel suo
complesso. Egli afferma che “se la locuzione ‘having been convicted by a final judgement of a
particularly serious crime, constitutes a danger to the community of that country’ dovesse essere
intesa come implicante la necessità di accertare la pericolosità degli individui ricompresi nel suo
ambito di applicazione, allora essa non avrebbe alcun senso di esistere, in quanto assorbita dalla
statuizione più generale contenuta nel periodo precedente della norma in questione. Il fatto che la
persona sia stata condannata in modo definitivo per un crimine particolarmente grave deve quindi
essere inteso quale presunzione della sussistenza di un ‘reasonable ground’ di pericolosità della
persona interessata”. Cfr. LENZERINI F., op.cit., p. 391.
101
La conformità alla procedura prevista dalla legge è espressamente richiesta dall’art. 33(2) della
Convenzione del 1951 riguardo all’espulsione. Dal momento che il refoulement espone il rifugiato
o il richiedente asilo ad una minaccia potenzialmente maggiore rispetto all’espulsione, le garanzie
del giusto processo previste in quest’ultimo caso devono essere accordate nell’applicazione delle
eccezioni al divieto di refoulement.
41
CAPITOLO II
LA TUTELA DEI RIFUGIATI NELL’AMBITO DELLA
CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
1. Osservazioni introduttive
Né la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU) né i
relativi Protocolli addizionali contengono previsioni quali, a livello universale,
l’articolo 14 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo1 o l’articolo 33
della Convenzione di Ginevra sullo status del rifugiati del 1951 o, a livello
regionale, l’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea2.
Dal canto suo, la Corte europea dei diritti umani (e precedentemente anche la
Commissione) ha sempre ribadito nella proprie pronunce che il diritto d’asilo non
è garantito in quanto tale dalla CEDU o dai suoi Protocolli e che, all’opposto, gli
Stati sottoscrittori hanno il diritto, in conformità a consolidate norme di diritto
internazionale generale, di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento
degli stranieri3.
In realtà, l’interpretazione funzionalistica della CEDU quale strumento di
garanzia di “diritti concreti ed effettivi, e non teorici ed illusori”, ha permesso alla
Corte di Strasburgo, a partire dalla fine degli anni ’80, di creare un sistema di
limiti al potere degli Stati contraenti di estradare, espellere o più generalmente,
allontanare, gli stranieri verso Paesi in cui vi è un’alta possibilità di violazione dei
1
L’art. 14 afferma “everyone has the right to seek and to enjoy in other countries asylum from
pesecution. This right may not be invoked in the case of prosecutions genuinely arising from nonpolitical crimes or from acts contrary to the purposes and principles of the United Nations”,
Dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite a Parigi il 10 dicembre 1948, GA Res. 217 A (III).
2
L’art. 18 statuisce che “The right to asylum shall be guaranteed with due respect for the rules of
the Geneva Convention of 28 July 1951 and the Protocol of 31 January 1967 relating to the status
of refugees and in accordance with the Treaty establishing the European Community”. La Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è stata sottoscritta e proclamata ufficialmente dai
Presidenti di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione in occasione del Consiglio europeo di
Nizza il 7 dicembre 2000, GUCE n. C 364/01.
3
Si vedano, tra le più rilevanti, Corte EDU, sent. 30 ottobre 1991, Vilvarajah c. Regno Unito, ric.
13163/87, par. 102-103; sent. 11 gennaio 2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi, ric. 1948/04, par. 135
e sent. 20 luglio 2010, A. c. Paesi Bassi, ric. 4900/06, par. 141. Tutte le pronunce che si
analizzeranno nel presente capitolo sono reperibili nella banca dati della giurisprudenza della
Corte EDU all’indirizzo www.hudoc.echr.coe.int.
42
diritti protetti in seno alla Convenzione4. In tal modo, la giurisprudenza della
Corte, oltre ad ampliare l’applicazione delle norme internazionali relative alla
protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, ha sviluppato un vero e proprio
sistema “parallelo” e “autonomo” di protezione dello straniero che, al giorno
d’oggi, rappresenta sicuramente lo standard di tutela più progredito sul piano
europeo5.
È opportuno ricordare che la CEDU costituisce il principale strumento
giuridico adottato nell’ambito del Consiglio d’Europa con l’obiettivo di garantire
la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali a ciascun individuo sotto la
giurisdizione dei suoi Stati membri. L’adozione di uno strumento vincolante a
tutela dei diritti umani era necessario perché il Consiglio d’Europa potesse
realizzare il suo scopo, ovvero “[…] a greater unity between its members for the
purpose of safeguarding and realizing the ideals and priciples which are their
common heritage and facilitating their economic and social progress”6.
L’ambito generale di applicazione della Convenzione è stabilito dall’articolo
1, il quale impone agli Stati di riconoscere i diritti enunciati nella prima sezione
della CEDU “to everyone within their jurisdiction”, previsione che comprende
ogni individuo, indipendentemente dallo status giuridico riconosciutogli dagli
Stati contraenti. L’espressione “jurisdiction” è stata interpretata dagli organi di
Strasburgo, sia pur con qualche oscillazione, a partire dal celebre caso Loizidou7,
come includente il cosiddetto “paradigma territorialista”: uno Stato parte può
essere in astratto chiamato a rispondere di comportamenti in violazione della
Convenzione anche quando questi abbiano luogo non sul suo territorio, ma in un
4
Ex multis, MOLE N., MEREDITH C., Asylum and the European Convention on Human Rights,
Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2010, p. 19.
5
In tal senso SACCUCCI A., Diritto d’asilo e Convenzione europea dei diritti umani, in
FAVILLI, C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, CEDAM, Milano, 2011, p. 149.
6
Art. 1(a) dello Statuto del Consiglio d’Europa, Londra, 5 aprile 1949, ETS n. 1.
7
Il caso verte sull’applicabilità della CEDU nei territori sui quali, in seguito all’occupazione delle
truppe turche del 1974 si è costruita la Repubblica Turca di Cipro Settentrionale, Stato non
riconosciuto dalla comunità internazionale. La signora Loizidou, proprietaria di terre situate nella
parte settentrionale dell’isola di Cipro, se ne era allontanata al tempo dell’invasione turca.
Successivamente propose ricorso a Strasburgo contro la Turchia, sostenendo che la presenza delle
truppe turche sul territorio cipriota le impedisse di raggiungere le sue proprietà. La Turchia
resistette affermando che il territorio in questione era sottoposto alla sovranità della Repubblica
Turca di Cipro Settentrionale. La Corte asserì, sulla base del grande dispiegamento di truppe
turche sul territorio cipriota, l’obbligo per la Turchia di garantire i diritti e le libertà enunciate nella
CEDU, e ciò indipendentemente dalla legalità della suddetta situazione e anche prescindendo dalle
modalità in cui si esercitasse concretamente il controllo di fatto. Sentenza 18 dicembre 1996,
Loizidou c. Turchia, ric. 15318/89, par. 56.
43
territorio su cui esso eserciti complessivamente un controllo di fatto (“effective
overall control”)8.
Nel contesto del presente studio, particolarmente rilevante è l’ipotesi di
individui in fuga dai propri Paesi di cittadinanza, ma non presenti nel territorio di
uno Stato parte, che vengano in contatto con i rappresentanti diplomatici e
consolari di uno di questi ultimi. In questo tipo di situazione, la giurisprudenza
della Corte EDU e quella dei tribunali nazionali ha in molti casi stabilito che uno
Stato parte avrà giurisdizione sugli individui entrati in contatto con i suoi
rappresentanti diplomatici e consolari, a condizione che questi ultimi esercitino su
di essi un sufficiente livello di autorità. Sarà quindi possibili per i suddetti
individui invocare l’applicazione, nei loro confronti, di tutti i diritti enunciati nella
CEDU, compresi quelli che sono stati interpretati come contemplanti
implicitamente un divieto di rinvio verso Stati dove quegli stessi diritti siano a
rischio di violazione9.
Nonostante l’art. 1 della CEDU imponga agli Stati parte di garantire il pieno
godimento di tutti i diritti e le libertà sancite dagli articoli dal 2 al 18 della
Convenzione, l’art. 15 stabilisce che, in particolari circostanze, uno Stato possa
derogare alle obbligazioni da esso assunte a tutela dei diritti fondamentali
dell’uomo. Nel primo paragrafo dell’art. 15 sono enunciate le situazioni in cui è
previsto il diritto di deroga: il coinvolgimento di uno Stato parte in un conflitto
armato e altre situazioni di emergenza in cui la sopravvivenza stessa della nazione
sia in pericolo10. Lo stesso articolo, oltre a stabilire alcune garanzie procedurali
8
Nella giurisprudenza successiva si vedano, tra le altre, Corte EDU, sentenza 12 dicembre 2001,
Bankovic, Stojanovic, Stoimenovski, Joksimovic e Sukovic c. Belgio, Danimarca, Francia,
Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Pesi Bassi, Polonia, Portogallo,
Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, Turchia ed Ungheria, ric. 52207/99; sent. 8 luglio 2004,
Ilascu e altri c. Moldavia e Federazione Russa, ric. 48787/99; sent. 16 novembre 2004, Issa c.
Turchia, ric. 31821/96; sent. 7 luglio 2011, Al Skeini e altri c. Regno Unito, ric. 55721/07.
9
La sentenza X c. Repubblica Federale di Germania del 25 settembre 1965, ric. 1611/62,
Yearbook of the European Convention on Human Rights, vol. 8 (1965), p. 158, rappresenta un
primo esempio di questa ricostruzione. Il caso riguardava un cittadino tedesco residente in
Marocco, che lamentava di aver subito numerose violazioni di articoli della CEDU da parte delle
autorità diplomatiche e consolari della Germania e riteneva quest’ultima responsabile delle
suddette violazioni. Il ricorso venne dichiarato inammissibile dalla Commissione che, tuttavia,
riconobbe come “the nationals of a Contracting State are within its ‘jurisdiction’ even when
domiciled or resident abroad; whereas, in particolar, the diplomatic and consular representatives
of their country of origin perform certain duties with regard to them which may in certain
circumstances, make that country liable in respect of the Convention”, ibidem, p. 168.
10
Dalla giurisprudenza degli organi di Strasburgo si evince che il pericolo deve avere carattere
eccezionale, imminente e concreto, coinvolgere non una parte ma l’intera popolazione, e costituire
una minaccia per la sopravvivenza della comunità nel suo complesso (sentenza 1 luglio 1961,
Lawless c. Irlanda, ric. 332/57, disponibile al sito www.echr.ketse.com/doc/332.57-en-
44
contro l’abuso di tale facoltà di deroga11, sancisce inoltre due limiti fondamentali
alla medesima: in base al primo limite, contenuto nel primo paragrafo, le deroghe
devono essere strettamente necessarie per fronteggiare le situazioni di emergenza;
il secondo stabilisce che nessuna deroga, in nessuna circostanza, è ammessa per
alcuni diritti previsti dalla Convenzione12. Le norme inderogabili sono: l’articolo
2, che tutela il diritto a non essere privato illegalmente della propria vita;
l’articolo 3, che proibisce la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti;
il primo paragrafo dell’articolo 4, che tutela il diritto a non essere tenuti in
condizioni di schiavitù o di servitù e l’articolo 7, che sancisce il principio di
legalità/irretroattività delle norme penali.
Anche se non richiamate nell’articolo 15, vi sono altre due norme che hanno
espressamente riconosciuto l’inderogabilità di altri diritti fondamentali. Si tratta
dell’articolo 2 del Protocollo n. 13 alla CEDU13, relativo all’abolizione della pena
di morte in ogni circostanza e dell’articolo 4(3) del Protocollo n. 714, che afferma
la garanzia del principio del ne bis in idem.
Poiché si tratta di norme che attribuiscono agli individui diritti inderogabili,
“presumibile espressione di principi di jus cogens”15, tali articoli possono essere
considerati come costituenti il c.d. “nocciolo duro” della Convenzione.
19610701/view/). Nel caso in cui l’evento eccezionale è circoscritto ad una parte del territorio
dello Stato, la deroga dovrà avere efficacia solo in quell’area (sentenza 26 novembre 1997, Sakik e
altri c. Turchia, ric. 23878/94; 23879/94; 23880/94; 23881/94; 23882/94; 23883/94, disponibile al
sito www.echr.ketse.com/doc/23878.94-23879.94-23880.94-23881.94-etc-en-19971126/).
11
CEDU, art. 15(3): “Any High Contracting Party availing itself of this right of derogation shall
keep the Secretary General of the Council of Europe fully informed of the measures which it has
taken and the reasons therefore. It shall also inform the Secretary General of the Council of
Europe when such measures have ceased to operate and the provisions of the Convention are
again being fully executed”.
12
CEDU, art. 15(1) e (2): “In the time of war or other public emergency threatening the life of the
nation any High Contracting Party may take measures derogating from its obligations under this
Comvention to the extent strictly required by the exigencies of the situation, provided that such
measures are not inconsistent with its other obligation under international law. No derogation
from Article 2, except in respect of deaths resulting from lawful acts of war, or from Articles 3, 4
(paragraph 1) and 7 shall be made under this provision”.
13
CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 13 to the Convention for the protection of Human
Rights and Fundamental Freedoms Concerning the Abolition of the Death Penalty in All
Circumstances, aperto alla firma a Vilnius il 3 maggio 2002 ed entrato in vigore il 1° luglio 2003,
ETS, vol. 187.
14
CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 7 to the Convention for the Protection of Human
Rights and Fundamental Freedoms, così come modificato dal Protocollo n. 11, adottato a
Strasburgo il 22 novembre 1984, entrato in vigore il 1° novembre 1988, ETS, vol. 117.
15
BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., Commentario breve alla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, CEDAM, Padova, 2012, p. 560.
45
2. Il principio di non-refoulement e la CEDU
Il principio di non-refoulement che, come affermato nel primo capitolo, può
essere considerato un principio consuetudinario di diritto internazionale generale,
impone a tutti gli Stati l’obbligo di non porre un individuo in cerca di rifugio in
una situazione in cui i suoi diritti umani fondamentali sarebbero a rischio di
violazione.
Nonostante non vi sia alcuna norma nella CEDU che si riferisca
esplicitamente al principio in esame, il Consiglio d’Europa ne ha espressamente
riconosciuta l’effettività nella sua raccomandazione n. 1 del 198416, in cui agli
Stati membri è stato chiesto di rispettare il divieto di refoulement in ogni
circostanza e senza riguardo al formale riconoscimento degli individui come
rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951. Sia la Commissione
europea dei diritti dell’uomo che la Corte europea dei diritti dell’uomo, facendo
ampio ricorso a quella che è stata definita in dottrina la tecnica di protezione “par
ricochet”17, hanno utilizzato alcuni articoli della CEDU (in particolare gli articoli
2, 3, 5, 8) per affermare la responsabilità degli Stati parte, in caso di refoulement
di individui verso Paesi in cui è probabile che siano soggetti a violazioni dei loro
diritti fondamentali18.
I diritti individuati dalla Corte di Strasburgo come rilevanti in questo caso,
possono essere distinti in due categorie: i diritti che possono essere violati
16
CONSIGLIO D’EUROPA, Recommendation No. R(84)1 on the protection of persons satisfying
the criteria in the Geneva Convention who are not formally recognized as refugees, adottata dal
Comitato
dei
Ministri
il
25
gennaio
1984.
Reperibile
all’indirizzo
www.legislationline.org/download/action/download/id/1490/file/454ba81fc5306ab95fc8b65ef38b
0c1f.pdf.
17
La cosiddetta “protection par ricochet” o “di riflesso” si ha quando viene affermata la necessità
di protezione di un interesse o diritto non contemplato dalla Convenzione, al quale si appresta una
protezione indiretta, attraverso una tutela predisposta ad altri fini. V. BARTOLE S., DE SENA P.,
ZAGREBELSKY V., op. cit., p. 16.
18
Si veda BORELLI S., Estradizione, espulsione e tutela dei diritti fondamentali, in PINESCHI
L. (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, Giuffrè editore,
Milano, 2006, p. 728-729: “ La prima categoria di situazioni in cui le norme internazionali a tutela
dei diritti umani possono costituire un limite alla libertà degli Stati di allontanare individui dal
proprio territorio è costituita dai casi in cui la decisione di allontanare l’individuo dia luogo a
violazioni dei diritti dell’individuo ascrivibili direttamente allo Stato che procede
all’allontanamento. […] La responsabilità dello Stato per un’eventuale violazione deriva dalla
normale applicazione del principio per cui gli Stati parti ai trattati sui diritti umani sono tenuti a
garantire il rispetto dei diritti e delle libertà tutelati in tali strumenti nei confronti di ogni individuo
sottoposto alla loro giurisdizione. […] La seconda categoria di situazioni in cui il diritto
internazionale dei diritti umani risulta rilevante nel contesto di procedimenti di estradizione o
espulsione o, più in generale, di qualunque azione dello Stato volta a trasferire un individuo sotto
46
direttamente dallo Stato con la sola decisione di allontanamento di un individuo e
i diritti che uno Stato può violare indirettamente con l’allontanamento. Poiché la
seconda categoria include diritti che si trovano ad essere solo a rischio di
violazione, in tali casi la Corte dovrà compiere un’accurata valutazione del livello
di rischio, per poter eventualmente affermare la responsabilità degli Stati parte19.
È opportuno osservare, comunque, che né la Commissione né la Corte hanno
mai utilizzato il termine refoulement; entrambe hanno sempre analizzato la
colpevolezza potenziale degli Stati parte in relazione a specifici atti idonei a
ricadere, a seconda delle circostanze del caso, nella nozione di refoulement,
ovvero l’estradizione, il trasferimento e l’espulsione.
Sin dai primi casi sottoposti al suo esame, la Commissione ha affermato che il
diritto a restare nel territorio degli Stati contraenti e il diritto a non essere
estradato non rientravano, come tali, fra i diritti e le libertà riconosciute nella
CEDU, sottolineando, tuttavia, che mediante la ratifica della stessa, gli Stati
avevano comunque accettato di limitare il libero esercizio dei poteri loro
riconosciuti dal diritti internazionale generale, incluso il potere di controllare
l’ingresso e l’allontanamento degli stranieri, e che, quindi, “the extradition of a
person may, in certain exceptional cases, be contrary to the Convention and in
particolar to Article 3”20.
Ma il vero punto di svolta nella giurisprudenza in questa materia è
rappresentato dal caso Soering c. Regno Unito21. Il ricorrente era un cittadino
tedesco fuggito in Europa dopo aver commesso due omicidi negli Stati Uniti, in
la sua giurisdizione a un altro Stato, è quella in cui l’individuo allontanato dal territorio dello Stato
rischia di essere vittima di violazioni dei proprio diritti fondamentali nello Stato di destinazione”.
20
Commissione EDU, sentenza 30 giugno 1959, X c. Svezia, ric. 434/58. Il caso riguardava un
rifugiato polacco residente nella Repubblica Federale di Germania che si era rivolto all’ambasciata
svedese a Bonn al fine di ottenere un permesso di entrata in Svezia, paese di residenza del figlio.
Contemporaneamente il ricorrente si era rivolto ad un tribunale svedese per il riconoscimento del
suo diritto di visita al figlio. Le autorità svedesi negarono al soggetto il permesso d’entrata e il
tribunale svedese non gli permise di apparire personalmente nelle udienze del processo per il
riconoscimento del diritto di visita. Nel suo ricorso alla Commissione il ricorrente lamentava la
violazione da parte della Svezia di numerosi articoli della CEDU, tra cui l’art. 6, a garanzia di un
equo processo e l’art. 8, a tutela del diritto al rispetto della vita familiare. Il ricorso venne
dichiarato inammissibile per mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni. In senso conforme
si vedano anche Comm. EDU, sent. 29 maggio 1961, X c. Belgio, ric. 984/61; sent. 6 ottobre 1962,
X c. Repubblica Federale di Germania, ric. 1465/62; sent. 26 marzo 1963, X c. Repubblica
Federale di Germania, ric. 1802/62; sent. 30 giugno 1964, X c. Austria e Yugoslavia, ric. 2143/64;
sent. 6 ottobre 1976, Lynas c. Svizzera, ric. 7317/75; sent. 3 maggio 1983, Altun c. Repubblica
Federale di Germania, ric. 10308/83; sent. 12 marzo 1984, E. M .Kirkwood c. Regno Unito, ric.
10479/83; sent. 14 aprile 1986, A. c. Svizzera, ric. 11933/86.
47
seguito arrestato dalle autorità del Regno Unito. Successivamente alla cattura, le
autorità statunitensi avevano richiesto, in base al trattato di estradizione fra gli
Stati Uniti e il Regno Unito, l’estradizione di Soering, nei confronti del quale era
in corso, davanti ad un tribunale statunitense, un procedimento per omicidio
volontario e premeditato, reato punito con la pena capitale. A fronte
dell’intenzione delle autorità britanniche di concedere l’estradizione, il soggetto
presentò un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel suo ricorso alla
Corte, egli sostenne che, se estradato, sarebbe stato soggetto ad un ritardo
nell’esecuzione della pena capitale così prolungato da esporlo alla cosiddetta
“sindrome del braccio della morte”22. Nell’opinione del ricorrente tale sindrome
costituiva una violazione dell’articolo 3 della CEDU, di cui il Regno Unito
doveva essere ritenuto responsabile in caso di estradizione.
La Corte, accogliendo il ricorso, affermò che: “[…] the decision by a
Contracting State to extradite a fugitive may give rise to an issue under Article 3,
and hence engage the responsability of that State under the Convention, where
substantial grounds have been shown for believing that the person concerned, if
extradited, faces a real risk of being subjected to torture or to inhuman or
degrading treatment or punishment in the requesting country”23.
In questa sentenza, la Corte ha utilizzato per la prima volta l’espressione
“substantial grounds” per indicare il livello di prova che il ricorrente deve
soddisfare per dimostrare la presenza di un rischio reale di violazione dei diritti
umani in caso di allontanamento nello Stato di destinazione. La nozione è stata
poi sviluppata in successive pronunce della Corte. Nella sentenza Cruz Varas e
altri c. Svezia24, il primo caso concernente l’espulsione di un richiedente asilo, la
Corte dichiarò che: “in determing whether substantial grounds have been shown
21
Corte EDU, sentenza 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, ric. 14038/88.
Per un approfondimento del concetto si veda ONU, Rapporto del Relatore speciale sulla tortura
e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti, Manfred Nowak, UN Doc.
E/CN.4/200 6/6/Add.4 (2005), par. 100.
23
Soering c. Regno Unito, sent. cit. par. 91.
24
Corte EDU, sentenza 20 marzo 1991, Cruz Varas e altri c. Svezia, ric. 15576/89. Il caso aveva
ad oggetto l’espulsione dalla Svezia di un cittadino cileno e della sua famiglia. Il ricorrente, un
attivo dissidente nei confronti del regime politico del generale Pinochet, affermava di aver subito
in passato, per tale ragione, tortura, abusi sessuali ed altri maltrattamenti da parte delle forze
dell’ordine cilene. Sosteneva inoltre che queste violazioni dei suoi diritti umani erano la ragione
per cui era fuggito dal Cile e aveva presentato richiesta di asilo politico in Svezia. Dopo la
decisione delle autorità svedesi di rigettare la richiesta di protezione internazionale, egli fece
ricorso alla Corte di Strasburgo, lamentando che l’esecuzione dell’ordine di espulsione emanato
nei suoi confronti costituiva una violazione dell’art. 3 della CEDU.
22
48
for believing in the existence of a real risk of treatment contrary to Article 3 the
Court will assess the issue in the light of all the material placed before it or, if
necessary, material obtained proprio motu. The existence of the risk must be
assessed primarily with reference to those facts which were known or ought to
have been known by the Contracting State at the time of the expulsion; the Court
is not precluded, however, from having regard to information which comes to
light subsequent to the expulsion”25. I giudici di Strasburgo, dopo aver esaminato
tutte le circostanze del caso, conclusero che il ricorrente non aveva allegato prove
sufficienti a dimostrare gli elementi sostanziali di un rischio ben fondato di essere
soggetto ad una violazione dei diritti tutelati nella Convenzione, in particolare
dall’art. 3, e che quindi la Svezia non avrebbe infranto nessuna norma della
CEDU in caso di sua espulsione.
Il rischio, oltre ad essere reale, deve essere personale, ovvero riguardare
personalmente l’individuo nei cui confronti è emanato l’ordine di espulsione,
trasferimento o estradizione, non essendo sufficiente un pericolo riguardante
esclusivamente la situazione generale degli individui presenti nello Stato di
destinazione. Nel caso Vilvarajah e altri c. Regno Unito26, la Corte ha affermato,
accogliendo in parte le argomentazioni delle autorità britanniche, che “a mere
possibility of ill-treatment […]is not in itself sufficient to give rise to a breach of
Article 3”, facendo ricadere sul ricorrente l’onere di provare l’esistenza di “special
distinguishing features” tali da rendere la sua posizione peggiore rispetto a quella
della generalità della popolazione o del gruppo a cui appartiene27. In tal modo, la
Corte ha escluso la violazione dell’articolo 3 della Convenzione sostenuta dai
ricorrenti, in quanto essi non avevano dimostrato di trovarsi in una condizione
“any worse than the generally of the others members of the Tamil community or
other young male Tamils who were returning to their country”, anche se fossero
stati effettivamente sottoposti a trattamenti contrari all’art. 3 dopo il loro
rimpatrio.
25
Ibidem, par. 75-76.
Corte EDU, sentenza 30 ottobre 1991, Vilvarajah e altri c. Regno Unito, ric. 13163/87,
13164/87, 13165/87, 13447/87, 13448/87. Il caso trattava dell’espulsione dal territorio britannico
di cinque cittadini dello Sri Lanka, appartenenti all’etnia tamil. I ricorrenti sostenevano che, nel
caso di un ritorno nel loro paese di origine, avrebbero corso il rischio effettivo di subire trattamenti
contrari all’art. 3 della CEDU.
27
Ibidem, par. 111.
26
49
La Corte ha inoltre chiarito quale sia il momento temporale rilevante per la
valutazione del rischio di violazione dei diritti umani fondamentali, qualora
l’ordine di espulsione, estradizione o trasferimento non sia ancora stato
adempiuto. Nella sentenza relativa al caso Chahal c. Regno Unito28, la Corte di
Strasburgo ha sottolineato come “[…]Since he [the applicant]has not yet been
deported, the material point in time must be that of the Court’s consideration of
the case. It follows that, although the historical position is of interest in so far as
it may shed light on the current situation and its likely evolution, it is the present
conditions which are decisive”29. Ciò che i giudici ritengono rilevante è, quindi, la
presenza di un futuro rischio di violazione, che deve essere valutato tenuto conto
di tutte gli elementi rilevanti presentati dalle parti ed eventualmente, come
specificato nel caso Cruzas Varas c. Regno Unito, ricercati autonomamente dalla
Corte stessa30.
Nei casi fino ad ora discussi, il diritto considerato a rischio di violazione in
caso di estradizione, espulsione o trasferimento è stato il diritto a non essere
soggetti a tortura e trattamenti o pene inumani o degradanti, contemplato
dall’articolo 3 della Convenzione. Come affermato dalla Commissione nel caso
E.M. Kirkwood c. Regno Unito, “[…]Article 3 is not subject to any qualification.
Its terms are bald and absolute. This fundamental aspect of Article 3 reflects its
key position in the structure of the rights of the Convention”31. Attraverso le
28
Corte EDU, sentenza 15 novembre 1996, Chahal c. Regno Unito, ric. 22414/93. Il signor Chahal
era un cittadino indiano domiciliato nel Regno Unito fin dal 1971; durante un viaggio in India nel
1984, si convertì alla religione Sikh, fu arrestato e, come da egli affermato, sottoposto a torture, a
causa della sua partecipazione a manifestazioni in difesa dell’autonomia del Punjab. Al suo rientro
nel Regno Unito iniziò ad essere attivamente coinvolto nella comunità inglese dei Sikh e fu più
volte arrestato e detenuto dalle autorità britanniche in ragione delle sue attività politiche. Il 14
agosto del 1990 il ministro dell’Interno britannico decise di espellere il signor Chahal perché la
sua presenza nel territorio del Regno Unito costituiva un pericolo per la sicurezza nazionale.
L’interessato che, nel caso di ritorno in India, temeva di essere oggetto di persecuzione, presentò
una domanda di asilo, respinta per l’infondatezza del timore di persecuzione. La Corte, dopo aver
considerato tutte le circostanze del caso e ritenute le assicurazioni fornite dal governo indiano non
sufficienti per la sicurezza del ricorrente, a causa della polizia del Punjab, i cui membri “erano
abituati ad agire senza nessuna considerazione verso i diritti umani dei sospetti militanti Sikh”, ha
dichiarato che in caso di espulsione il ricorrente sarebbe stato esposto a trattamenti contrari all’art.
3 della CEDU.
29
Corte EDU, Chahal, cit. par. 86.
30
La Corte ha inoltre fornito delle linee guida sulla tipologia di documentazione che può essere
ritenuta attendibile al momento dell’esame delle condizioni del paese di destinazione, come le
relazioni dell’UNHCR e delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Detta
documentazione è giudicata inattendibile quando le fonti internazionali sono sconosciute e le
conclusioni contrastanti rispetto ad altri rapporti ritenuti credibili. Si veda Corte EDU, sentenza 28
giugno 2011, Sufi e Elmi c. Regno Unito, ric. 8319/07 e 1149/07, par. 230-234.
31
Comm. EDU, E.M. Kirkwood, cit.
50
parole della Commissione diviene di facile comprensione il motivo per cui la
violazione di tale articolo sia stata la prima ad essere considera dagli organi di
Strasburgo come capace di far sorgere la responsabilità degli Stati parte in caso di
refoulement di individui.
La violazione dell’articolo 3 non è comunque l’unica in grado di far sorgere
tale tipo di responsabilità. Nelle successive pronunce la Corte ha considerato il
rischio di violazione di altre norme della CEDU, come causa di un’eventuale
condanna degli Stati parte in caso di allontanamento di individui in fuga da
territori in cui siano a rischio di subire gravi violazioni dei loro diritti umani.
Le norme rilevanti della CEDU che saranno analizzate nei paragrafi successivi
sono l’articolo 2 e l’articolo 3, a tutela rispettivamente della vita e dell’integrità
fisica; l’articolo 5, che sancisce il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona,
e l’articolo 8, a tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare della
persona.
Prima di passare all’analisi delle singole norme, non si può ignorare che la
tutela offerta dalla CEDU si limita al divieto di allontanamento verso paesi a
rischio, ma non impone in alcun modo allo Stato ospitante l’obbligo di
riconoscere allo straniero un determinato status giuridico nell’ambito del proprio
ordinamento, simile a quello previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Di
conseguenza, lo straniero bisognoso di protezione potrà reclamare un diritto a
restare nel territorio dello Stato membro interessato, ma non un diritto
all’inclusione nella società di quest’ultimo, che potrà essere offerto soltanto a
coloro che rientrano nel campo di applicazione di altri strumenti giuridici
internazionali, che tale diritto contemplano.
3. Il diritto fondamentale alla vita come limite all’allontanamento
degli stranieri
L’articolo 2 della CEDU afferma che “1. Il diritto alla vita di ogni persona è
protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo
che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in
cui il reato sia punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non si considera
cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla
51
forza resosi assolutamente necessario: (a) per garantire la difesa di ogni persona
contro la violenza illegale; (b) per eseguire un arresto regolare o per impedire
l’evasione di una persona regolarmente detenuta; (c) per reprimere, in modo
conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione”.
Il diritto alla vita è l’unico diritto effettivamente originario, essendo valore
prodromico al godimento di tutti gli altri diritti fondamentali della persona
umana32. Soltanto uno Stato che tuteli la vita degli individui rientranti nella sua
giurisdizione potrà garantire le altre libertà fondamentali. L’importanza dell’art. 2,
quale parte del nucleo essenziale del sistema costituito dalla Convenzione del
Consiglio d’Europa, è confermata dal fatto che la norma in esame rientra tra
quelle previste dal secondo comma dell’art. 15, come dotate del carattere
dell’inderogabilità. Ciò implica che gli Stati saranno sempre tenuti a garantire tale
diritto, anche in caso di guerra o di altro pericolo che minacci la vita della
nazione.
L’art. 2 CEDU, pur aprendosi con un generale obbligo negativo, rivolto alle
autorità statali, di astensione da atti che possano intenzionalmente provocare la
morte degli individui soggetti alla loro giurisdizione, è stato ricostruito nella
maggioranza delle decisioni della Corte di Strasburgo, come includente per gli
Stati obblighi positivi di intervento con misure di protezione e repressione33.
La tutela del diritto alla vita previsto dalla Convenzione non ha però carattere
assoluto. Accanto al divieto generale di ogni privazione intenzionale della vita, la
norma contiene nel secondo paragrafo una lista tassativa di eccezioni,
comprendenti i casi in cui l’uso della forza sia legittimato ex lege e la privazione
della vita di un individuo sia assolutamente necessaria per difendere un altro
32
Ex multis, FANOTTO L., Il diritto fondamentale alla vita nella prospettiva della giurisprudenza
della Corte di Strasburgo in MEZZETTI L., MORRONE A. (a cura di), Lo strumento
costituzionale dell’ordine pubblico europeo. Nei sessant’anni della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950-2010). Atti del Convegno
internazionale di studi. Bologna, 5 marzo 2010, Giappichelli Editore, Torino, 2011: “Nel tentativo
di approssimare alcune delle fondamentali caratteristiche del diritto alla vita, è stato attentamente
notato come lo stesso presenti gli elementi del diritto autenticamente indisponibile, in quanto
essenzialmente dotato di originarietà, socialità e processualità”, p. 207.
33
Come osservato da PITEA C., “La Corte ha ricavato dall’art. 2 una serie molto ampia di
‘obblighi positivi’ che hanno trasformato radicalmente la nozione di diritto alla vita. Essi possono
essere suddivisi in due categorie. La prima comprende obblighi di protezione che intervengono
prima che sia lamentata la violazione, con funzione preventiva, e hanno carattere sostanziale,
richiedendo l’adozione di misure protettive a carattere generale e, a determinate condizioni, in
relazione a specifici rischi. La seconda categoria comprende invece obblighi, definiti ‘procedurali’
dalla Corte stessa, che intervengono dopo che sia lamentata la violazione davanti alle autorità
52
individuo da atti di violenza illegali nei suoi confronti o per effettuare un arresto
legale o per impedire la fuga di persone legalmente detenute o durante azioni
compiute legalmente per sopprimere una rivolta o un’insurrezione.
Inoltre, la pena di morte è menzionata espressamente in apertura dell’art. 2,
come un’eccezione all’obbligo generale di proteggere il diritto alla vita. La norma
in esame prevede la possibilità per gli Stati membri di infliggere la pena capitale,
se irrogata con una sentenza di condanna, per un reato rispetto al quale
l’ordinamento giurisdizionale prevede tale pena. La previsione è stata però
oggetto di un’interpretazione evolutiva che ha sostanzialmente portato a ritenere
in vigore una proibizione generale della pena di morte tra gli Stati membri del
Consiglio d’Europa. Ricostruzione avvalorata dapprima con l’adozione del
Protocollo n. 6 alla CEDU34, riguardante l’abolizione della pena di morte in
tempo di pace, e successivamente del Protocollo n. 1335, il cui articolo 1 afferma
che, inderogabilmente e senza possibilità di riserve, “The death penalty shall be
abolished. No one shall be condemned to such penalty or executed”.
Dopo aver brevemente descritto il sistema di tutela del diritto alla vita stabilito
dall’articolo 2 della CEDU e dai Protocolli n. 6 e n. 13, è possibile analizzare
come questa norma sia stata applicata nei casi relativi all’allontanamento di
individui dal territorio di uno Stato parte.
Il primo caso in cui la Commissione dovette decidere circa l’applicabilità
dell’art. 2 nel caso di allontanamento di un individuo verso uno Stato in cui
sarebbe stato a rischio di subire violazioni del suo diritto alla vita fu F. c.
Svizzera36. Il ricorrente era un cittadino libanese che, entrato illegalmente in
Svizzera, aveva avanzato richiesta di asilo politico. Le autorità svizzere negarono
la protezione internazionale sostenendo che le sue passate attività politiche non
avrebbero costituito un reale pericolo per la sua vita e di conseguenza il timore di
persecuzione era infondato. L’individuo, oggetto di un provvedimento di
nazionali”, PITEA C., Diritto alla vita, in PINESCHI L. (a cura di), La tutela internazionale dei
diritti umani, cit., p. 315.
34
CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 6 to the Convention for the Protection of Human
Rights and Fundamental Freedoms concerning the Abolition of the Death Penalty, Strasburgo, 28
aprile 1983, entrato in vigore il 1°marzo 1985 (per tutti gli Stati membri, eccetto la Russia), ETS,
vol. 114.
35
CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 13 to the Convention for the Protection of Human
Rights and Fundamental Freedoms, concerning the Abolition of the Death Penalty in all
Circumstances, Vilnius, 3 maggio 2002, entrato in vigore il 1° luglio 2003, ETS, vol. 187.
36
Comm. EDU, sentenza 1 ottobre 1990, F. c. Svizzera, ric. 14912/89.
53
espulsione, tentò invano di appellarsi contro questa decisione e, dopo aver
esaurito i mezzi di ricorso previsti dall’ordinamento interno, presentò un ricorso
alla Commissione, lamentando che la sua espulsione dal territorio svizzero
l’avrebbe esposto al rischio reale di subire violazioni degli articoli 2 e 3 della
CEDU. Nonostante il ricorso venne dichiarato inammissibile, in quanto l’ordine
non era ancora stato eseguito e il governo svizzero aveva presentato sufficienti
garanzie sulla possibilità di appellare la sua futura ed eventuale esecuzione, la
Commissione affermò che: “[…]expulsion may in exceptional circumstances
involve a violation of the Convention, for instance where there is a serious fear of
treatment contrary to Articles 2 and 3 of the Convention”37.
Successivamente, la Commisione nella sua relazione al caso Bahaddar c.
Paesi Bassi, valutò attentamente se dall’articolo 2 potesse scaturire la
responsabilità di uno Stato parte, nel caso in cui la vita di una persona sia in
pericolo a causa della sua estradizione, espulsione o trasferimento. Nella relazione
si legge: “As to the proibition of intentional deprivation of life, the Commision
does not exclude that an issue might be raised under Article 2 in circumstances in
which the expelling State knowingly puts the person concerned at such high risk
of losing his life. ‘Real risk’ – within the meaning of the case-law concerning
Article 3 – of loss of life would not as such necessarily suffice to make expulsion
an ‘intentional deprivation of life’ prohibited by Article 2, although it would
amount to inhuman treatment within the meaning of Article 3”38. La Comissione
stabilì quindi necessario, affinchè possa essere invocata la responsabilità di uno
Stato ai sensi dell’art. 2, un così alto livello di prova del rischio per il ricorrente di
perdere la vita, tale da raggiungere sostanzialmente la certezza.
Come osservato dinanzi, una violazione del diritto alla vita può spesso
implicare una violazione dell’articolo 3, che proibisce la tortura e i trattamenti o le
punizioni inumani o degradanti. Nella maggior parte casi successivi, in cui il
ricorrente asseriva di correre un rischio reale di subire violazioni sia dell’art. 2 che
dell’art. 3, la Corte, data la maggior gravosità dell’onere della prova richiesto per
l’applicazione dell’art. 2, ha reputato non necessario esaminare il ricorso sotto la
prospettiva di quest’ultimo articolo, dopo aver giudicato la stessa sotto il profilo
37
F. c. Svizzera, cit.
Commissione EDU, Relazione al caso Bahaddar c. Paesi Bassi, sent. corte EDU 22 maggio
1995, ric. 25984/94, in European Human Rights Reports, vol.23 (1998), p.278.
38
54
dell’art. 3. Sono esempi di questa ricostruzione interpretativa i casi H.L.R. c.
Francia39, D. c. Regno Unito40 e S.R. c. Svezia41.
Come già evidenziato, l’art. 2 non è la sola norma all’interno della CEDU che
tutela il diritto alla vita. I Protocolli n. 6 e n. 13 alla Convenzione sanciscono
espressamente il diritto individuale a non essere sottoposto alla pena di morte. Il
problema di una possibile violazione del diritto alla vita, sotto il profilo
dell’inflizione della pena capitale, è stato analizzato dalla Corte soprattutto in
riferimento all’allontanamento di una persona verso un paese terzo nel quale
potrebbe essere esposta al rischio reale di essere giustiziata.
Nel caso Ismaili c. Germania42 la Corte riconobbe per la prima volta l’obbligo
per gli Stati parte, ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 6, di non estradare,
espellere o trasferire un individuo in uno Stato dove egli corra il rischio reale di
essere condannato alla pena di morte43. Il ricorrente era un cittadino marocchino,
entrato nel territorio tedesco dopo che le autorità del Marocco avevano emanato
nei suoi confronti un mandato d’arresto per il coinvolgimento nell’uccisione di un
membro della polizia locale e per il grave ferimento di un secondo. Le autorità
tedesche rifiutarono la sua richiesta di asilo politico. Successivamente, mentre il
ricorrente si trovava in stato di detenzione per non aver rispettato il domicilio che
gli era stato assegnato, il governo tedesco decise di accettare la richiesta di
estradizione inviatagli dalle autorità marocchine. Dopo essersi appellato in vano
contro tale decisione, il ricorrente aveva adito la Corte di Strasburgo asserendo
che la sua estradizione in Marocco lo avrebbe esposto al rischio di essere
condannato a morte e di subire trattamenti inumani. La Corte, pur avendo
dichiarato il ricorso inammissibile sulla base delle garanzie offerte dalle autorità
marocchine, affermò: “Ainsi, lorsqu’il y a des motifs sérieux et avérés de croire
que l’intéressé, si on le livre à l’État en question, y courra un risque réel d’être
39
Corte EDU, sent. 29 aprile 1997, H.L.R. c. Francia, ric. 24573/94.
Corte EDU, sent. 2 maggio 1997, D. c. Regno Unito, ric. 30240/96.
41
Corte EDU, sent. 23 aprile 2002, S.R. c. Svezia, ric. 62806/00.
42
Corte EDU, sentenza 15 marzo 2001, Ismaili c. Germania, ric. 58128/00.
43
Il riconoscimento dell’art. 1 del Protocollo n. 6 come norma applicabile nel caso in cui
l’allontanamento di un individuo lo esponga al rischio di essere giustiziato è stato ribadito dalla
Corte anche nella sentenza 20 gennaio 1994, Aylor Davis c. Francia, ric. 22742/93 e nella sent. 4
settembre 1995, Raidl c. Austria, ric. 25342/94, in cui la Corte ha dichiarato: “Article 1 of Protocol
No. 6 provides that the death penalty shall be abolished and that no one shall be condamned to
such a penalty or executed. Thus, the question arises whether this provision, like Article 3 of the
Convention, engages the responsability of a Contracting State where, upon extradition, the person
concerned faces a real risk of being subjected to the death penalty in the receiving State”.
40
55
soumis à la peine de mort contraire à l’aricle 1 du Protocol No. 6, cette
disposition implique-t-elle l’obligation de ne pas extrader la personne en question
vers ce pays”44.
Nel successivo caso Bader e Kanbor c. Svezia45, riguardante un cittadino
siriano, la cui richiesta d’asilo era stata rifiutata dalle autorità svedesi e che era
stato condannato durante la sua assenza alla pena di morte per concorso in un
omicidio, la Corte, riferendosi alla sua precedente giurisprudenza e in particolare
a quanto affermato in Öcalan c. Turchia46, concluse che la sentenza di morte
emanata al termine di un processo iniquo, provocherebbe ulteriori angosce e paure
per il ricorrente e la sua famiglia, se questi fosse costretto a ritornare nel suo paese
d’origine. L’espulsione del soggetto verso la Siria, se eseguito, darebbe luogo alla
violazione degli art. 2 e 3 della Convenzione47.
In conclusione, per valutare l’esistenza del rischio di subire una lesione del
diritto alla vita in uno Stato terzo, gli Stati parte della CEDU sono tenuti a
prendere in considerazione sia la situazione generale degli Stati verso i quali le
persone dovrebbero essere rinviate, sia le condizioni individuali delle persone di
cui si tratta. Se l’estradizione o l’espulsione sono già state effettuate, la Corte di
Strasburgo prende in considerazione le condizioni di pericolo per la vita, che lo
Stato conosceva o avrebbe dovuto conoscere al momento dell’allontanamento
44
CORTE EDU, Ismaili c. Germania, cit.
Corte EDU, sent. 8 febbraio 2006, Bader e Kanbor c. Svezia, ric. 13284/04.
46
Corte EDU, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan c. Turchia, ric. 46221/99. Nella pronuncia è stato
notato dalla Corte come l’art. 2 precluda l’esecuzione della pena di morte nei confronti di un
soggetto a cui non sia stato garantito un giusto processo secondo la legge. Inoltre, l’esecuzione di
una sentenza di condanna pronunciata al termine di un processo nel quale l’indipendenza e
l’imparzialità della corte erano in dubbio, deve essere considerata un trattamento inumano ai sensi
dell’art. 3.
47
Degna di nota è l’opinione alla sentenza in esame del giudice Cabral Barreto, il quale ha
affermato: “I joined the majority in finding a violation of Article 2 of the Convention as I had no
other means of expressing my opinion that there had been a violation not of that provision, but of
Article 1 of Protocol No. 13. Allow me to explain. In my opinion, this is the first time the Court has
plainly stated that the extradition or deportation of a person to a country where he or she risks an
unfair trial followed by capital punishment will violate Article 2 of the Convention. […]The States
that have already ratified Protocol No. 13 wished to replace the obligation arising under Article 2
of the Convention by a stronger one, namely an obligation to abolish the death penalty in all
circumstances. The second sentence of Article 2 has, as it were, been abrogated, or at least
rendered redundant, by the entry into force of Protocol No. 13. The States that have ratified
Protocol No. 13 have undertaken not only never to implement capital punishment but also not to
put anyone at risk of incurring that penalty. Consequently, there is no need to examine the trial or
the situation of the person sentenced to death prior to the sentence being carried out because there
will always be a violation of Article 1 of Protocol No. 13. Sweden has already ratified Protocol
No. 13. I would therefore prefer to find that, in the instant case, the applicants' expulsion to Syria
would entail a violation of Article 1 of Protocol No. 13, in addition to a violation of Article 3 of
the Convention”. Si veda inoltre MOLE N., MEREDITH C., op. cit., p. 91.
45
56
della persona dal proprio territorio. Invece, nel caso in cui le operazioni di
trasferimento non siano ancora state eseguite, occorre prendere in considerazione
le circostanze sintomatiche del rischio per la vita esistenti nel momento in cui il
caso è sottoposto alla Corte.
Come emerge dalla giurisprudenza precedentemente analizzata, la violazione
del diritto alla vita può riguardare situazioni molto diverse tra loro: il rischio di
essere intenzionalmente privati della propria vita dalle autorità dello stato di
destinazione o da individui che non sono organi statati, quando lo Stato ricevente
non sia in grado di impedire la tale violazione; il rischio di subire l’esecuzione di
una condanna alla pena di morte ex se o di essere condannati alla pena capitale al
termine di un processo iniquo, se gli Stati membri del Consiglio d’Europa che
stiano per espellere l’individuo abbiano ratificato i Protocolli n. 6 e 13 alla CEDU.
4. Il divieto di espulsione verso paesi in cui lo straniero rischia di
subire trattamenti contrari all’articolo 3 della CEDU
Il divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti, contenuto
nell’articolo 3 della CEDU, rappresenta uno dei valori fondamentali delle società
democratiche, in quanto espressione diretta dell’intangibile valore della dignità
umana48.
Il divieto in esame è contenuto in specifiche disposizioni contemplate in
numerosi accordi sulla tutela dei diritti umani, operanti a livello universale (art. 5
della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo; art. 7 del Patto ONU sui
diritti civili e politici del 1966) e a livello regionale (oltre all’art. 3 della CEDU,
l’art. 5 della Convenzione interamericana sui diritti dell’uomo del 1969 e l’art. 5
della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981). Vi sono inoltre
convenzioni internazionali specificamente finalizzate a proibire la tortura e i
trattamenti inumani e degradanti; tra queste merita un cenno particolare la
Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, primo atto
internazionale dedicato specificamente al divieto di tortura. Tale accordo, non
solo contiene all’articolo 1, una definizione dettagliata e articolata del fenomeno
57
da abolire, ma impone agli Stati, oltre ad un generico obbligo di far rispettare il
divieto de quo, anche una serie di obblighi specifici di comportamento e di
prevenzione49.
È inoltre opinione comune che il divieto di tortura sia espressione non solo di
una norma di diritto internazionale consuetudinario, ma anche di una norma di jus
cogens.
Quanto
dell’Assemblea
appena
Generale
affermato
è
dell’ONU50,
avvalorato
tanto
quanto
dalla
da
risoluzioni
giurisprudenza
internazionale51. In quanto norma cogente, il divieto di tortura è istitutivo di
obblighi erga omnes, cioè verso la comunità internazionale nel suo complesso52.
Per quanto riguarda l’oggetto della presente trattazione, l’art. 3 della CEDU,
occorre subito evidenziare il carattere assoluto del divieto posto dalla norma in
esame. Il testo dell’art. 3, “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o
trattamenti inumani o degradanti”, non lascia spazio ad alcuna limitazione,
eccezione o deroga; ulteriore prova di tale carattere consiste nell’essere, la norma,
una di quelle elencate nel secondo paragrafo dell’art. 15.
La Corte europea, attraverso un percorso interpretativo, ha connotato il
contenuto dell’articolo in esame sia “in ampiezza” che “in profondità”, cercando
di individuare l’estensione massima e minima che la condotta deve assumere per
integrare le tre diverse forme di violazione: il trattamento degradante, il
48
V. POLACCHINI F., Il divieto di tortura nell’ordinamento CEDU, in MEZZETTI L.,
MORRONE A. (a cura di), Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo, op. cit., p.
237.
49
ONU, Convention against torture and Other Cruel, Inuhuman or Degrading Treatment or
Punishment, adottata dall’Assemblea Generale il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26
giugno 1987. L’art. 1 dispone quanto segue: “1. For the purposes of this Convention, torture
means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally
inflicted on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or a
confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having
committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on
discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or
with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity.
It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to lawful
sanctions. 2. This article is without prejudice to any international instrument or national
legislation which does or may contain provisions of wider application”.
50
ONU, Risoluzione n. 61/153 del 19 dicembre 2006 e Risoluzione n. 62/148 del 18 dicembre
2007.
51
Si veda ad esempio, Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Camere di prima
istanza), sentenza 10 dicembre 1998, Prosecutor c. Anto Furundzija, n. IT-95-17/1-T, disponibile
al sito www.icty.org/x/cases/furundzija/tjug/en/fur-tj981210e.pdf: “Because of the importance of
the values it protects, this principle [the proibition of torture] has envolved into a peremptory
norm or jus cogens, that is, a norm that enjoys a higher rank in the international hierarchy than
treaty law and even ‘ordinary’ customary rules”, par. 153.
52
Per un approfondimento in materia si veda DE STEFANI P., Il diritto internazionale dei diritti
umani, CEDAM, Padova, 1994, p. 68 e ss.
58
trattamento inumano e la tortura. L’elemento comune a questi tre concetti è il loro
essere espressione di un vulnus al principio del rispetto della dignità umana,
mentre diversa è la profondità delle condotte integranti le tre violazioni53.
Come affermato dalla Corte nel caso Aksoy c. Turchia, può essere definito
tortura soltanto “[a]deliberate inhumane treatment causing very serious and cruel
suffering”54. A differenza della tortura che è sempre intenzionale, il trattamento
degradante, definito come quello tale da suscitare nella vittime sentimenti di
angoscia, paura ed inferiorità volti alla loro umiliazione e al loro avvilimento, può
anche risultare da una serie di circostanze non volutamente create. È infine
considerato trattamento inumano quello che cagiona una sofferenza fisica o
psichica di notevole entità55.
Al fine di valutare se un trattamento ricada o meno tra quelli proibiti dall’art.
3, la Corte è ricorsa al criterio della c.d. soglia minima di gravità. L’accertamento
del superamento di questa soglia minima è il risultato di un’analisi relativa, da
compiere caso per caso, che tenga conto sia delle circostanze oggettive del fatto,
sia delle caratteristiche soggettive dell’individuo56.
Come evidenziato nel secondo paragrafo, l’art. 3 è stata la prima norma della
CEDU considerata dalla Corte, nel caso Soering, come idonea a rendere gli Stati
parte responsabili in caso di allontanamento di individui verso Stati in cui vi siano
sufficienti elementi per ritenere che essi subiranno trattamenti contrari all’art. 3.
In questa sentenza i giudici della Corte hanno riconosciuto la responsabilità degli
Stati contraenti per una violazione solo potenziale e indiretta dell’art. 357: “it is
53
V. TRIONE F., La tortura nel diritto internazionale, reperibile all’indirizzo
www.centrodirittiumani.unina.it/curr_temi/TRIONE_Progetto.htm, p. 2. L’autore afferma “A
parere della Corte europea, infatti, necessariamente una condotta che integra il crimine di tortura
contiene in sé tutti gli elementi del trattamento inumano oltre, chiaramente, un quid pluris idoneo
ad elevare la violazione al grado superiore di tortura. Così anche ogni trattamento inumano
contiene in sé gli elementi del trattamento degradante, e, ex adverso, la configurazione di un
trattamento degradante non è detto che abbia in sé tutti gli elementi necessari ad integrare un
trattamento inumano”.
54
Corte EDU, sentenza 18 dicembre 1996, Aksoy c. Turchia, ric. 21987/93.
55
Si veda la relazione della Commissione sul c.d. caso greco, 5 novembre 1969, Danimarca c.
Grecia, Norvegia c. Grecia, Paesi Bassi c. Grecia, Svezia c. Grecia, ric. 3321/67, 3322/67,
3323/67, 3344/67, Yearbook of the European Convention on Human Rights, vol. 12 (1969).
56
Il criterio della valutazione relativa è stato introdotto per la prima volta dalla Corte nel caso
Irlanda c. Regno Unito (sent. 18 gennaio 1978, ric. 5310/71) e in seguito ripreso in tutta la
successiva giurisprudenza.
57
Come sottolineato da STARACE V., “la Corte ha delineato, da un lato, una responsabilità per
concorso causale rispetto a prevedibili violazioni del diritto a non subire torture o pene o
trattamenti disumani o degradanti, dall’altro, ha configurato la categoria delle violazioni virtuali
della Convenzione, le quali comportano, al pari delle violazioni attuali, la responsabilità dello
Stato contraente”. STARACE V., Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed estradizione, in
59
not normally for the Convention institutions to pronounce on the existence or
otherwise of potential violations of the Convention. However, where an applicant
claims that a decision to extradite him would, if implemented, be contrary to
Article 3 by reason of its foreseeable consequences in the requesting country, a
departure from this principle is necessary, in view of the order to ensure the
effectiveness of the safeguard provided by that Article”58.
Si è in precedenza evidenziato che l’art. 3 sancisce in termini assoluti il divieto
di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Nel celebre caso Chahal, la Corte
ha avuto modo per la prima volta di affermare la natura assoluta del divieto di
espulsione o respingimento verso Stati a rischio, respingendo in toto le obiezioni
sollevate dal Governo britannico. Quest’ultimo aveva sostenuto che le garanzie
offerte dall’art. 3 non fossero totali nel caso di misure volte ad allontanare un
individuo dal territorio di un paese contraente, dovendosi prendere in
considerazione vari fattori, incluso il pericolo che la persona in questione pone per
la sicurezza dello Stato ospitante. La Corte ha, invece, sostenuto l’assolutezza del
principio in questione, con la conseguenza che se vi sono fondati motivi per
ritenere che un individuo andrebbe incontro ad un rischio reale di essere
assoggettato a trattamenti contrari all’art. 3 se espulso, lo Stato membro sarà
ritenuto responsabile in caso di allontanamento, senza che possano assumere
rilievo “the activities of the individual in question, however undesirable or
dangerous”59.
L’assolutezza di tale affermazione è stata messa a dura prova dalla tendenza
degli Stati a comprimere l’esercizio di taluni diritti fondamentali per contrastare il
terrorismo internazionale, a seguito degli eventi del settembre 2001, tendenza che
ha riguardato soprattutto le garanzie previste dal diritto internazionale a tutela
degli stranieri, e in particolare il principio di non-refoulement. Gli Stati hanno
tentato di rimettere in discussione il carattere assoluto ed inderogabile del divieto
di refoulement affermato dalla Corte, sostenendo la necessità di attuare un
SALERNO F., Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione. Atti del Convegno di studio
organizzato dall’Università di Ferrara per salutare Giovanni Battaglini, CEDAM, Padova, 2003,
p. 103 e ss.
58
Soering c. Regno Unito, sent. cit. par. 90.
59
Chahal c. Regno Unito, sent. cit. par. 80.Questa interpretazione dell’obbligo posto a carico degli
Stati parte dall’art. 3 è stata utilizzata dalla Corte anche nella sent. 17 dicembre 1996, Ahmed c.
Austria, ric. 25964/94.
60
bilanciamento fra la tutela dello straniero destinatario della misura di
allontanamento e le esigenze legate alla salvaguardia della sicurezza nazionale.
Sul tema la Corte si è pronunciata con la sentenza resa nel caso Saadi c.
Italia60, riguardante un cittadino tunisino regolarmente residente in Italia ed
espulso sulla base nelle nuove norme anti-terrorismo del 2005. Si tratta senz’altro
di una sentenza storica con cui i giudici di Strasburgo hanno ribadito con
fermezza la natura assoluta ed inderogabile del divieto di refoulement. La Corte
ha, in particolare, negato la possibilità di introdurre elementi ulteriori, rispetto al
rischio di tortura, nella valutazione della liceità dell’espulsione. Sia la condotta
dell’individuo che il tipo di reato che gli è contestato sono irrilevanti ai fini
dell’art. 3 CEDU. I giudici hanno quindi ritenuto inammissibile qualsiasi giudizio
di bilanciamento (c.d. balancing test) tra l’esposizione al rischio di tortura e le
esigenze di sicurezza nazionale61.
La natura assoluta del divieto di refoulement ai sensi dell’art. 3 è stata affermata
dalla Corte anche sotto altri punti di vista. Nel caso H.L.R. c. Francia62, il
ricorrente, un cittadino colombiano arrestato per possesso di stupefacenti e
oggetto di un ordine di espulsione da parte delle autorità svedesi, sosteneva che in
seguito al rimpatrio avrebbe subito trattamenti contrari all’art. 3 da parte dei
trafficanti di droga che lo avevano reclutato. Nella sentenza si legge che “owing to
the absolute character of the right guaranteed, the Court does not rule out the
possibility that Article 3 of the Convention may also apply where the danger
emanates from persons or group of persons who are not public officials”63. La
Corte affermò, tuttavia, che il rischio di trattamenti contrari all’art. 3 da parte di
privati è più difficile da stabilire rispetto a quello che può provenire da autorità
pubbliche. In questi casi lo Stato che espelle l’individuo gode quindi di un
60
Corte EDU, sent. 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia, ric. 37201/06. Nello specifico il caso
riguardava un cittadino tunisino, già condannato in sua assenza dal proprio paese per associazione
ad un’organizzazione terroristica e per incitazione al terrorismo. Le autorità italiane ne avevano
disposto l’espulsione per ragioni di sicurezza nazionale in base all’art. 3 della l. 155/2005, a
seguito di una sentenza della Corte d’Assise di Milano che lo aveva condannato per associazione a
delinquere, per falsificazione di documenti e per ricettazione, escludendo però la presenza di
elementi sufficienti per una condanna per partecipazione ad atti di terrorismo internazionale. Per
un esame dettagliato degli argomenti sviluppati dal Governo Italiano e dal Regno Unito (terzo
interveniente), si vedano rispettivamente i par. 102-116 e 117-123.
61
Le conclusioni della Corte in Saadi c. Italia sono state in seguito riaffermate in numerosi casi, si
vedano, tra gli altri: sent. 1° dicembre 2008, Ismoilov e altri c. Russia, ric. 2947/06; sent. 20
ottobre 2010, Ramzy c. Paesi Bassi, ric. 25424/05; sent. 20 ottobre 2010, A c. Paesi Bassi, ric.
4900/06.
62
Corte EDU, sent. 29 aprile 1997, H.L.R. c. Francia, ric. 24573/94.
61
margine di apprezzamento più ampio. Il ricorrente deve dimostrare non solo
l’esistenza di un rischio reale ma anche l’incapacità delle autorità dello Stato di
destinazione di eliminarlo attraverso un’adeguata protezione64.
Inoltre, una nuova dimensione è stata conferita alla portata applicativa dell’art.
3 dalla pronuncia sul caso D. c. Regno Unito65. Nel caso in esame, riguardante un
individuo affetto da HIV in fase terminale, i giudici di Strasburgo hanno
qualificato come trattamento inumano, il trasferimento del ricorrente verso
un’isola delle Antille in cui non avrebbe potuto ricevere, a causa della carenza
delle strutture sanitarie, le cure che richiedeva il suo stato di salute. La Corte,
quindi, ritenne che un’espulsione può rivelarsi incompatibile con l’art. 3, non solo
in ragione di comportamenti imputabili alle autorità pubbliche o a soggetti privati,
ma a causa di situazioni oggettive66.
È opportuno segnalare come i giudici di Strasburgo, in alcune recenti
pronunce, hanno avuto modo di analizzare la compatibilità con il divieto imposto
dall’art. 3 di due fenomeni peculiari nell’ambito della protezione internazionale di
rifugiati e richiedenti asilo: la ricollocazione interna (c.d. internal flight
alternative) e il concetto di paese terzo sicuro (c.d. safe third country).
Il concetto di internal flight o relocation alternative si riferisce ad una
specifica area del paese di provenienza dell’individuo richiedente protezione
internazionale, dove non vi è per il soggetto il rischio di un fondato pericolo di
persecuzione e in cui può ragionevolmente volersi insediare e vivere
63
H.L.R. c. Francia, sent. cit., par. 40.
Si veda MALINVERNI G., I limiti all’espulsione secondo la Convenzione europea, in
SALERNO F., Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione, cit., p. 175.
65
Corte EDU, sent. 2 maggio 1997, D. c. Regno Unito, ric. 30240/96.
66
In particolare nella sentenza si afferma “aside from these situations and given the fundamental
importance of Article 3 in the Convention system, the Court must reserve to itself sufficient
flexibility to address the application of that Article in other contexts which might arise. It is not
therefore prevented from scrutinising an applicant’s claim under Article 3 where the source of the
risk proscribed treatment in the receiving country stems from factors which cannot engage directly
or indirectly the responsability of the public authorities of that country, or which, taken alone, do
not in themselves infringe the standards of that Article. To limit the application of Article 3 in this
manner would be to undermine the absolute character of its protection”, ibidem, par. 49. In
successivi casi presentati al suo esame, la Corte ha in conclusione sostenuto che l’estradizione,
l’espulsione o il trasferimento di un individuo affetto da una grave malattia equivale a una
violazione dell’art. 3 CEDU, solamente se quella malattia sia ad uno stadio così avanzato che il
trasferimento dell’individuo, o il conseguente indebolimento delle sue condizioni di salute,
andrebbero in maniera diretta a diminuirne l’aspettativa di vita. Si vedano: sent. 6 febbraio 2001,
Bensaid c. Regno Unito, ric. 44599/98; sent. 24 giugno 2003, Arcila Henao c. Paesi Bassi, ric.
13669/03; sent. 22 giugno 2004, Ndangoya c. Svezia, ric. 17868/03; sent. 25 novembre 2004,
Amegnigan c. Paesi Bassi, ric. 25629/04; sent. 27 maggio 2008, N. c. Regno Unito, ric. 26565/05;
sent. 29 gennaio 2013, S.H.H. c. Regno Unito, ric. 60367/10.
64
62
normalmente67. Nel caso Salah Sheekh c. Paesi Bassi, la Corte ha analizzato nel
dettaglio la questione. Il ricorrente, un cittadino somalo, membro della minoranza
Ashraf, che aveva richiesto asilo alle autorità neerlandesi, era stato espulso
ritenendo insufficienti i motivi della richiesta e possibile il rinvio dello stesso in
una zona “relativamente sicura” della Somalia. Nel suo ricorso alla Corte egli
sostenne che, quale membro di una minoranza, non solo era a rischio nelle aree
ritenute sicure dal Governo dei Paesi Bassi, ma rischiava di essere trasferito da
queste ultime nelle zone della Somalia considerate pericolose.
La Corte, citando le precedenti pronunce nei casi Chahal68 e Hilal69, affermò:
“as a pre-condition for relying on an internal flight alternative, certain
guarantees have to be in place: the person to be expelled must be able to travel to
the area concerned, to gain admittance and be able to settle there, failing which
an issue under Article 3 may arise, the more so if in the absence of such
guarantess there is a possibility of the expellee ending up in a part of the country
of origin where he or she may be subjected to ill-treatment”70.
La ricostruzione della Corte è stata confermata, oltre che in successive
pronunce, da ultimo nella sentenza sul caso Sufi e Elmi c. Regno Unito71, dove
viene dichiarato che, in astratto, l’art. 3 della CEDU non impedisce agli Stati
membri di ricorrere alla possibilità della ricollocazione interna, a condizione però
che il rimpatriato possa evitare l’esposizione a un rischio concreto di
maltrattamenti durante il viaggio o al momento dell’accettazione o del suo
insediamento nella zona in questione.
Per quanto concerne la pratica di espellere un richiedente asilo verso un “safe
third country”, ovvero uno Stato diverso da quello in cui l’individuo affermi
essere a rischio di trattamenti proibiti, questa è stata comunemente impiegata
dagli Stati europei a partire dagli anni ’80. In seguito all’adozione della
Convenzione di Dublino72, molti Stati hanno allontanato i richiedenti asilo, non
67
Per un ulteriore approfondimento si veda UNHCR, Guidelines on International Protection:
“Internal Flight or Relocation Alternative” within the Context of Article 1A(2) of the 1951
Convention and/or 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, Ginevra, 2003, disponibile
all’indirizzo www.unhcr.org/3f28d5cd4.html.
68
Chahal c. Regno Unito, cit.
69
Corte EDU, sent. 6 giugno 2001, Hilal c. Regno Unito, ric. 45276/99.
70
Corte EDU, sent. 23 maggio 2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi, ric. 1948/04, par. 141.
71
Corte EDU, sent. 28 novembre 2011, Sufi e Elmi c. Regno Unito, ric. 8319/07 e 11449/07.
72
Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo
presentata in uno degli Stati membri delle Comunità Europee, firmata a Dublino il 15 giugno 1990
63
direttamente verso Stati in cui rischiavano trattamenti vietati ai sensi dell’art. 3,
ma verso paesi che avrebbero potuto trasferirli in questi ultimi. In T.I. c. Regno
Unito73, la Corte ha considerato che la responsabilità di uno Stato può derivare dal
rinvio di un richiedente asilo verso un terzo paese secondo il Regolamento
Dublino, se, date le circostanze, vi è il pericolo reale che il soggetto verrà
trasferito in un paese in cui rischia trattamenti contrari all’art. 3. Nel successivo
caso M.S.S. c. Belgio e Grecia74, la Corte ha dichiarato che le condizioni di vita e
di detenzione in Grecia costituivano una violazione dell’art. 3. Secondo autorevoli
rapporti non era possibile accedere alla procedura di asilo e sussisteva il rischio di
un successivo respingimento. Pertanto, le autorità belghe sono state ritenute
responsabili, ai sensi dell’art. 3, di un trasferimento a norma del regolamento
Dublino verso la Grecia, posto che, in base alle prove a disposizione, esse erano, o
avrebbero dovuto essere, a conoscenza che i richiedenti asilo trasferiti in Grecia
correvano il rischio di essere sottoposti ad un trattamento degradante.
Dall’analisi della giurisprudenza citata si evince come il diritto a non subire
tortura o altri trattamenti inumani o degradanti riveste un ruolo centrale
nell’architettura del sistema di protezione offerto dalla Convenzione, al punto che
il rischio solo potenziale di una sua violazione, in caso di allontanamento di un
individuo verso un altro Stato, fa sorgere la responsabilità dello Stato rinviante. E
ciò indipendentemente dalla fonte d’origine del maltrattamento e dall’eventuale
condotta penalmente rilevante dell’individuo del cui trasferimento si tratta. In
definitiva, la Corte di Strasburgo, attraverso un’interpretazione evolutiva del
divieto posto dall’articolo 3, ha configurato una protezione dal refoulement avente
carattere assoluto e quindi, come affermato dalla Corte stessa, più ampia di quella
fornita dagli articoli 32 e 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei
rifugiati del 1951.
4.1 Respingimenti in mare: la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Hirsi
La sentenza del 23 febbraio 2012 della Corte europea dei diritti dell’uomo,
relativa al caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia75, resa in Grande Chambre, e quindi
ed
entrata
in
vigore
il
1°
settembre
1990,
disponibile
www.camera.it/_bicamerali/schengen/fonti/convdubl.htm.
73
Corte EDU, sent. 7 marzo 2000, T.I. c. Regno Unito, ric. 43844/98.
74
Corte EDU, sent. 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, ric. 30696/09.
75
Corte EDU, sent. 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ric. 27765/09.
64
all’indirizzo
definita, costituisce il primo intervento dei giudici di Strasburgo avente ad oggetto
la legittimità di un respingimento in alto mare.
I fatti, in breve, sono i seguenti. In attuazione della strategia di controllo
dell’immigrazione
irregolare
via
mare,
imperniata
principalmente
sulla
collaborazione bilaterale con i paesi di origine dei migranti, a seguito dell’entrata
in vigore del Trattato italo-libico di “amicizia, partenariato e cooperazione”76, il 6
maggio 2009 tre imbarcazioni provenienti dalla Libia con a bordo circa duecento
migranti venivano intercettate dalla Guardia di finanza e dalla Guardia costiera,
nelle acque internazionali a sud di Lampedusa. Gli occupanti furono trasferiti
sulle navi militari italiane e riportati a Tripoli, senza essere sottoposti a nessuna
procedura d’identificazione, senza avere informazioni in merito alla loro
destinazione reale e dopo aver subito la confisca di tutti i loro effetti personali,
compresi i documenti attestanti la loro identità. All’arrivo nel porto di Tripoli, i
migranti furono consegnati alle autorità libiche senza potersi opporre a tale
decisione.
Fu a quel punto che undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei decisero di
rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per denunciare la violazione
degli articoli 3 e 13 della CEDU, e dell’articolo 4 del Protocollo addizionale n. 4
alla Convenzione77, dal momento che furono respinti senza nessuna
identificazione, in modo collettivo, senza che fosse permesso loro di presentare
richiesta di asilo e tantomeno di poter fare ricorso presso un giudice. E vennero
respinti in Libia, dov’è documentata la pratica di torture e trattamenti inumani e
degradanti nei campi di detenzione78. La Corte ha ritenuto sussistenti tutte le
violazioni, affermando principi che contribuiscono ad rafforzare le tendenze
evolutive della giurisprudenza di Strasburgo su alcuni profili di massima
76
Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande
Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 e ratificato con
legge n. 7/09 del 6 febbraio 2009, GU n. 40 del 18 febbraio 2009. Il testo integrale è disponibile
all’indirizzo www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/16/0769_trattato_lib
ia_2.pdf.
77
CONSIGLIO D’EUROPA, Protocol No. 4 to the Convention for the Protection of Human
Rights and Fundamental Freedoms, securing certian rights and freedoms other than those already
included in the Convention and in the first Protocol thereto, Strasburgo, 16 settembre 1963,
entrato in vigore il 2 maggio 1968, ETS, vol. 46.
78
A favore dei ricorrenti sono intervenuti come terzi l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Human Rights
Watch, la Columbia Law School Human Rights Clinic, l’AIRE Centre, Amnesty International e la
Federazione Internazionale dei diritti umani (FIDH).
65
importanza, quali i limiti al potere degli Stati di respingere ed espellere gli
stranieri che tentano irregolarmente di raggiungere i loro territori79.
Preliminarmente i giudici di Strasburgo hanno dovuto affrontare la questione
relativa alla giurisdizione dello Stato italiano, ai fini dell’applicabilità o meno
delle norme della Convenzione in favore dei ricorrenti, dal momento che i fatti
sono occorsi in acque internazionali. La Corte ha osservato come, nel periodo
compreso tra l’imbarco sulle navi italiane e la consegna alle autorità libiche, i
ricorrenti si sono trovati sotto il controllo esclusivo di un equipaggio italiano
(controllo de facto) e a bordo di imbarcazioni battenti bandiera italiana (controllo
de jure). Di conseguenza, i fatti che hanno dato luogo alle violazioni rientrano
nell’ambito della giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 1 della Convenzione,
senza che in alcun modo rilevino la natura e lo scopo dell’intervento80.
Per quanto concerne la violazione dell’art. 3 della CEDU, la Corte ha
sottolineato come il respingimento italiano abbia esposto i ricorrenti ad un duplice
rischio: da un lato quello di subire trattamenti inumani e degradanti direttamente
per opera delle autorità libiche; dall’altro quello di essere rimpatriati sempre dalle
autorità medesime, in Eritrea e in Somalia. Dopo aver ribadito il consolidato
principio secondo cui dall’art. 3 discende il divieto di eseguire estradizioni,
espulsioni o altre misure di allontanamento quando vi siano fondati motivi di
ritenere che, nel paese di destinazione, lo straniero rischierebbe di subire torture o
79
Si ritiene opportuno ricordare che il Commissario dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa,
Nils Muižnieks, nel suo Rapporto a seguito della visita in Italia dal 3 al 6 luglio 2012, ha accolto
molto positivamente le dichiarazioni fatte dai vertici politici italiani secondo le quali la politica dei
respingimenti non sarà più seguita, alla luce della sentenza qui analizzata. Tuttavia, citando la
Risoluzione 1821 del 2011 dell’Assemblea Parlamentare, “The interception and rescue at sea of
asylum seekers, refugees and irregular migrants” (le cui affermazioni sono state ribadite nella
successiva Risoluzione 1872 del 2012 intitolata “Lives lost in the Mediterranean Sea: Who is
responsible?”), invita l’Italia “a sospendere gli accordi bilaterali che possono essere conclusi con
Stati terzi laddove non siano garantiti adeguatamente i diritti umani delle persone intercettate e, in
particolare, il diritto di esperire la procedura di asilo, e laddove gli accordi stessi possano essere
assimilati ad una violazione del principio di non-respingimento, e a concludere nuovi accordi
bilaterali contenenti espressamente tali garanzie in materia di diritti umani e misure finalizzate al
loro controllo regolare ed effettivo”. V. COMMISSIONER FOR HUMAN RIGHTS, Rapporto di
Nils Muižnieks, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, a seguito della visita in
Italia dal 3 al 6 luglio 2012, CommDH(2012)26, p. 4.
80
NASCIMBENE B., afferma che la Corte è ricorsa a “un’interpretazione teleologica e funzionale
della CEDU, conforme alla propria giurisprudenza (ma anche alla Convenzione di Vienna sul
diritto dei trattati), che si fonda sul significato ampio di giurisdizione esercitata dallo Stato ai sensi
dell’art. 1 della CEDU. Lo Stato esercita, disponendo il refoulement degli stranieri, un potere
pubblico e sovrano e quindi esercita la propria giurisdizione sulle persone, impedendo loro di
sbarcare sulle coste nazionali, con conseguente assunzione di responsabilità per le misure
adottate”, in NASCIMBENE B., Condanna senza appello della “politica dei respingimenti”? La
66
altri trattamenti disumani e degradanti, si legge nella motivazione, come il
contesto libico e, in particolare, la sistematica detenzione degli stranieri, ivi
compresi i richiedenti asilo, in condizione igienico-sanitarie inumane e la loro
esposizione al rischio di subire torture e atti di razzismo e xenofobia, fosse ben
noto nella Comunità internazionale81. L’Italia, sapeva o avrebbe dovuto sapere, i
rischi corsi dai migranti respinti.
Come accennato, un’ulteriore ed autonoma violazione dell’art. 3 deriva dal
fatto che in Libia, i ricorrenti, sono stati esposti al pericolo di essere rimpatriati
nei rispettivi paesi di origine. Ciò in quanto l’obbligo di garantire che i destinatari
di misure di allontanamento non subiscano torture o altri maltrattamenti,
comprende anche i c.d. rimpatri indiretti, ovvero le ipotesi in cui lo Stato
ricevente, a sua volta, disponga l’espulsione dello straniero verso un paese terzo,
di solito quello di origine dell’individuo coinvolto. Nel caso in esame, il pericolo
per i ricorrenti di essere esposti, rispettivamente in Eritrea e in Somalia, a
trattamenti vietati dall’art. 3, è stato ritenuto sussistente dalla Grande Camera
sulla base dei reports di autorevoli organizzazioni non governative a difesa dei
diritti umani e della precedente giurisprudenza della Corte, in particolare il caso
Sufi e Elmi82. Inoltre, la Libia, non disponendo di nessuna procedura per l’asilo
politico e non riconoscendo lo status di rifugiato assegnato dal locale ufficio
dell’UNHCR, non offriva nessuna ragionevole garanzia per la prevenzione delle
espulsioni arbitrarie83.
La Corte ha inoltre riscontrato la violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4,
ai sensi del quale sono vietate le espulsioni collettive. Dal punto di vista letterale,
la norma si riferisce soltanto alle espulsioni che, secondo la tesi avanzata dal
governo italiano, presupporrebbero l’avvenuto ingresso dello straniero nel
territorio nazionale. L’argomento tuttavia non ha convinto i giudici di Strasburgo,
che hanno privilegiato una lettura sistematica e teleologica del disposto
sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Hirsi e altri c. Italia, documenti IAI 12 I 02,
marzo 2012, p. 3, reperibile all’indirizzo http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iai1202.pdf.
81
Il contesto era, in ogni caso, facilmente verificabile alla luce di numerosi autorevoli reports, a
cura del Comitato contro la Tortura, di Human Rights Watch e di Amnesty International, e sulla
base delle dichiarazioni dell’UNHCR.
82
Sent. cit.
83
V. ZIRULIA S., I respingimenti nel Mediterraneo tra diritto del mare e diritti fondamentali, in
Rivista telematica giuridica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 2/2012, p. 3,
disponibile
all’indirizzo
www.associazionedeicostituzionalisti.it/sites/default/files/rivista/articoli/allegat
i/Zirulia.pdf.
67
dell’articolo in esame, capace di rendere il diritto fondamentale in esso sancito
concreto ed effettivo, e non solo teorico. Per la prima volta è stato quindi
affermato che il divieto di espulsioni collettive trova applicazione anche nel caso
in cui la misura di allontanamento sia disposta fuori dal territorio nazionale,
quindi anche in alto mare.
L’espulsione si considera collettiva, e di conseguenza illegittima, quando
viene adottata senza considerare in concreto la situazione di ciascuno degli
stranieri interessati84. Al contrario, l’espulsione non è da considerarsi collettiva
per il solo fatto che più soggetti siano destinatari di provvedimenti di rimpatrio
aventi il medesimo contenuto, se a ciascuno dei soggetti interessati sia stata data
la possibilità di contestare il proprio allontanamento davanti alle competenti
autorità.
Nel caso in esame, durante le operazioni di respingimento verso la Libia, non
vi è stata né una valutazione delle circostanze individuali dei ricorrenti, né,
tantomeno, questi ultimi sono stati ascoltati dalle autorità italiane85: osservazioni
sufficienti per affermare la responsabilità dell’Italia anche per la violazione della
norma in esame.
In ragione delle condizioni appena descritte, la Corte ha infine affermato
anche la violazione dell’art. 13, in quanto i ricorrenti non hanno avuto accesso ad
alcun rimedio effettivo con cui lamentare l’incompatibilità del trasferimento in
Libia con gli artt. 3 e 4 Prot. 4 alla CEDU86.
In conclusione si può affermare che la sentenza in esame è una pietra miliare
perché rafforza e favorisce il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali
in Europa e pone fine a misure extraterritoriali di controllo delle migrazioni che
non rispettano il principio di non-refoulement, contribuendo all’effettività di
84
Nell’affermare ciò, la Corte si è basata essenzialmente su quanto da essa affermato nel caso
Conka c. Belgio (sent. 5 febbraio 2002, ric. 51564/99), unica pronuncia, prima di quella in esame,
ad aver affermato una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4.
85
A queste conclusioni la Corte perviene osservando che i migranti intercettati non sono nemmeno
stati identificati e che il personale di bordo non era addestrato a condurre interviste, né assistito da
interpreti o esperti legali. Si vedano i paragrafi 159-186 della sentenza.
86
Nella pronuncia si afferma che un rimedio, per essere considerato effettivo, deve prevedere un
effetto sospensivo dell’esecuzione delle misure che minacciano di violare i diritti fondamentali
sanciti dalla CEDU. Tale affermazione consente di superare l’eccezione di mancato esaurimento
dei mezzi di ricorso interni, sollevata dal Governo italiano, secondo cui i ricorrenti avrebbero
potuto adire ex post le competenti autorità italiane. Essendo questa possibilità disponibile appunto
solo ex post e quindi priva di effetto sospensivo, essa non può essere posta alla base di
un’eccezione di irricevibilità ex art. 35 CEDU.
68
quest’ultimo, nella sua più estesa affermazione scaturente dalla giurisprudenza di
Strasburgo.
5. Il diritto alla libertà e alla sicurezza personale: la legittimità della
detenzione dei richiedenti asilo
L’articolo 5 della CEDU dispone “1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla
sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei
modi previsti dalla legge: (a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da
parte di un tribunale competente; (b) se si trova in regolare stato di arresto o di
detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla
legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo
prescritto dalla legge; (c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi
all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare
che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia
necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averli
commesso; (d) se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo
di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di
tradurlo dinanzi all’autorità competente; (e) se si tratta della detenzione regolare
di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di
un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; (f) se si tratta dell’arresto o
della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel
territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento
d’espulsione o d’estradizione. 2. Ogni persona arrestata deve essere informata, al
più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni
accusa formulata a suo carico. 3. Ogni persona arrestata o detenuta,
conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1(c) del presente articolo,
deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o un altro magistrato
autorizzato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere
giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la
procedura. La scarcerazione può essere subordinata a garanzie che assicurino la
comparizione dell’interessato all’udienza. 4. Ogni persona privata della libertà
mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale,
69
affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne
ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima. 5. Ogni persona vittima di
arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo
ha diritto a una riparazione”.
La prima parte dell’art. 5 riconosce a ciascuno il diritto alla libertà e alla
sicurezza della persona. Si tratta di un diritto di primaria rilevanza in una società
democratica e a che deve essere ricompreso tra i diritti fondamentali che tutelano
la sicurezza fisica dell’individuo. Ciò nonostante, l’art. 5 non è incluso tra quelli
sottratti alla deroga nel caso di stato di urgenza, contemplati dal secondo comma
dell’art. 15.
Come affermato dalla Corte nella sentenza relativa al caso Amuur c.
Francia87, “in proclaiming the right to liberty, paragraph 1 of Article 5
contemplates the physical liberty of the person”, ossia la libertà nella sua più
classica accezione88. Per quanto concerne, invece, il riferimento alla sicurezza
della persona, dall’analisi della giurisprudenza dei giudici di Strasburgo, emerge
una concezione accessoria e procedurale della sicurezza, quale bene strumentale
alla tutela del diritto primario costituito dalla libertà personale. L’espressione
“liberty and security of person” deve essere riferita ad un singolo diritto, in cui la
clausola della sicurezza richiama le autorità nazionali all’obbligo di rispettare le
garanzie fondamentali dello Stato di diritto e le altre forme elementari di
protezione dell’individuo quando è in corso una restrizione della sua libertà89.
Il paragrafo procede poi enumerando le ipotesi in cui il diritto tutelato può
essere legittimamente limitato dagli Stati parte. Si tratta di un’elencazione
esaustiva e solo un’interpretazione restrittiva di queste eccezioni può ritenersi
coerente con lo scopo della previsione, che è quello di assicurare che nessuno
venga arbitrariamente privato della sua libertà90.
Nei successivi paragrafi vengono in rilievo talune garanzie, connesse alla
tutela processuale della libertà personale. Si tratta di garanzie tutte autonome e
87
Corte EDU, sentenza 25 giugno 1996, Amuur c. Francia, ric. 19776/92.
Come osservato da MURDOCH J., in L’article 5 de la Convention européenne des droits de
l’homme, Editions du Conseil de l’Europe, 2003, p. 16: “l’article 5 met l’accent sur la protection
de la liberté dans son acception ‘classique’, c’est-à-dire la perte de la liberté individuelle. Il vaut,
par conséquent, mieux appréhender le droit ‘à la liberté et à la sûreté’ de la personne comme une
notion monolithique”.
89
V. BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., op. cit., p. 109.
90
Si veda quanto affermato dalla Corte nel caso Quinn c. Francia, sent. 22 marzo 1995, ric.
18580/91, par. 42.
88
70
indipendenti, in quanto può riconoscersi la violazione di una di queste previsioni
anche se la detenzione risulta regolare ai sensi del primo paragrafo dell’art. 5.
Fino ad ora, l’articolo 5 non è stato interpretato dalla Corte come implicante
un divieto al trasferimento o all’estradizione o all’espulsione di persone a rischio,
nello Stato di ricezione, di subire una violazione dei diritti in esso previsti. Nel
caso Tomic c. Regno Unito, la Corte affermò che per l’applicazione
extraterritoriale dell’art. 5 “the risk must be of arbitrary detention that reaches the
flagrant level necessary for the expulsion to raise issues under that article – mere
tecnical imperfections will not suffice”91.
Tuttavia, la detenzione dei richiedenti asilo è stata considerata come rientrante
nella previsione della lettera (f) del primo paragrafo. Il punto, pur prevedendo la
legittimità della detenzione di individui volta a impedire il loro ingresso nel
territorio dello Stato parte e la legittimità della detenzione di individui che stiano
per essere trasferiti o estradati, impone agli Stati parte l’obbligo di garantire ai
medesimi i diritti previsti nei paragrafi successivi della norma. Nonostante
soltanto pochi casi riguardanti richiedenti asilo siano stati portati davanti alla
Corte di Strasburgo sulla base dall’articolo in esame, sono stati affermati alcuni
principi fondamentali.
Con riguardo in particolare al trattenimento diretto ad impedire l’ingresso
irregolare nel territorio dello Stato, la Corte si è pronunciata con un’importante
sentenza nel caso Saadi c. Regno Unito, avente ad oggetto un cittadino curdo
richiedente asilo, trattenuto per sette giorni in un centro di accoglienza, al fine di
facilitare l’esame della sua richiesta di protezione internazionale. Il primo punto
fissato dalla Corte, e criticato dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i
rifugiati, dall’European Council on Refugees and Exiles e dall’AIRE Centre, è
costituito dall’affermazione che fino a quando lo Stato non ha autorizzato
l’entrata, qualsiasi ingresso, anche quello di un richiedente asilo, è illegale.
L’ammissione temporanea che segue alla domanda di asilo non rende regolare
l’ingresso del richiedente asilo, la cui posizione è quindi equiparata a quella del
migrante ordinario e la sua detenzione può essere giustificata ex art. 5(1)(f)92. Il
secondo principio di diritto desumibile dalla sentenza è che la disposizione in
91
Corte EDU, sent. 14 ottobre 2003, Tomic c. Regno Unito, ric. 17837/03.
Queste affermazioni sono state ribadite dalla Corte anche nel recente caso Seforovic c. Italia
(sent. 8 febbraio 2011, ric. 12921/04).
92
71
esame non prevede un requisito di necessarietà della detenzione, in forza del quale
questa sarebbe giustificata solo nei confronti dei soggetti che abbiano tentato di
eludere le norme relative all’ingresso.
La detenzione deve però essere lawful, ossia non arbitraria e in linea con il
diritto nazionale. Secondo lo specifico test messo a punto dalla Corte, la
detenzione non è arbitraria se: viene eseguita in buona fede; è strettamente
connessa con il fine di evitare un ingresso non autorizzato nel territorio nazionale;
il luogo e le condizioni della detenzione risultano appropriati, tenuto conto che la
misura di restrizione è applicata non a persone che hanno commesso un illecito,
ma a stranieri, nel caso di specie un richiedente asilo; la durata della stessa non
eccede quella ragionevolmente richiesta dalla circostanza considerata. Nel caso
Saadi la Corte ha ritenuto rispettate tutte le condizioni e quindi escluso la
violazione dell’art. 5, tenuti in considerazione anche i problemi amministrativi
legati alla crescita del numero delle domande di asilo93.
Nel caso Amuur c. Francia, la Corte considerò per la prima volta se il
trattenimento di stranieri, nel caso di specie richiedenti asilo, nella zona di transito
degli aeroporti possa essere considerato una privazione della libertà94. La Corte
sostenne che il mero fatto che fosse possibile per i ricorrenti lasciare
volontariamente il paese in cui stavano cercando rifugio non può escludere una
restrizione della libertà. A maggior ragione se, nessun altro paese che offra una
protezione equivalente a quella che gli individui si aspettano di riceve nel paese in
cui cercano asilo, sia disposto o preparato ad accoglierli. Fu così deciso che
“holding the applicants in the transit zone […] was equivalent in practice, in view
of the restriction suffered, to a deprivation of liberty”. Successivamente, gli
organi di Strasburgo, nel considerare se la privazione della libertà fosse avvenuta
nel rispetto delle garanzie enumerate dall’art. 5, includenti il requisito della
conformità alla legge nazionale, sostennero come quest’ultimo si riferisse anche
93
Hanno espresso un’opinione parzialmente dissenziente i giudici Rozakis, Tulkens, Kovler,
Hajiyev, Spielmann e Hirvelä. Essi hanno sottolineato come la detenzione prevista dalla prima
parte della lett. (f) dovrebbe essere finalizzata esclusivamente a prevenire che il richiedente asilo
entri o rimanga nel paese per uno scopo diverso da quello alla base dell’ammissione temporanea, e
non potrebbe mai essere giustificata sulla base di esigenze amministrative dello Stato.
94
Corte EDU, sent. 25 giugno 1996, Amuur c. Francia, ric. 19776/92. Il caso riguardava quattro
cittadini somali arrivati all’aeroporto di Paris-Orly dalla Siria, dove avevano risieduto per due
mesi dopo aver abbandonato il loro paese d’origine. Asserivano di aver abbandonato la Somalia a
causa del timore ben fondato di perdere le loro vita, dopo il rovesciamento del regime politico. Le
autorità francesi rifiutarono di ammetterli nel territorio francese, in quanto i loro passaporti erano
stati falsificati, e le loro istanze per il riconoscimento dello status di rifugiati furono respinte.
72
alla qualità della legislazione nazionale. Nelle parole della Corte, “quality in this
sense implies that where a national law authorised deprivation of liberty –
especially in respect of a foreign asylum-seeker – it must be sufficiently
accessibile and precise, in order to avoid all risk of arbitrariness”95. La Corte,
dopo aver ritenuto che la legislazione francese vigente all’epoca non avesse una
qualità sufficiente e considerato tutte le circostanze del caso, stabilì che i
ricorrenti avevano subito una violazione del loro diritto alla libertà, così come
tutelato dall’art. 5 della CEDU96.
Per quanto concerne, invece, la detenzione nel corso del procedimento di
espulsione o estradizione, dalla giurisprudenza della Corte si evince come, ai fini
della sua legittimità, è irrilevante l’esito del procedimento, ossia se questo
condurrà effettivamente a una decisione di espulsione o estradizione e se questa
verrà poi eseguita. Ma bensì, come si legge nel caso Caprino c. Regno Unito97,
“[…]deprivation of liberty under this sub-paragraph will be justified only for as
long as extradition proceedings are been conducted. It follows that if such
proceedings are not being prosecuted with due diligence, the detention will cease
to be justified under Article 5(1)(f)”.
Nelle successive sentenze sui casi Chahal c. Regno Unito98 e Čonka c.
Belgio99, la Corte ha avuto modo di ribadire che l’unico requisito da soddisfare,
affinché una detenzione in vista di un trasferimento possa considerarsi legittima, è
quello dell’essere, la procedura di trasferimento, effettivamente in corso. Appare
quindi decisiva la valutazione circa la durata della detenzione: se questa si
giustifica solo per il periodo durante il quale pende il procedimento di
allontanamento, siffatto procedimento dovrà essere condotto con “due
dilingence”. Se questa non sussiste la detenzione cesserà di essere legittima ai
sensi dell’art. 5(1)(f). Tra i criteri per valutarne il rispetto vengono in rilievo la
condotta delle autorità, tenuto conto delle circostanze del caso e della complessità
del procedimento, e la condotta dell’interessato, il quale può determinare un
ritardo nella decisione.
95
Recentemente tale condizione è stata ribadita nella sentenza del 27 novembre 2008, relativa al
caso Rashed c. Repubblica Ceca (ric. 298/07, par. 73).
96
Per una completa analisi del caso di veda SEATZU, F., On some general theoretical and
practical questions arising from the application of the European convention on human rights in
asylum cases in A.E.D.I., vol. XXV, 2009, p. 478.
97
Corte EDU, sent. 3 marzo 1978, Caprino c. Regno Unito, ric. 6871/75, par. 48.
98
Chahal c. Regno unito, sent. cit.
73
In conclusione è opportuno osservare che, considerata la crescita esponenziale
dei casi di detenzione dei richiedenti asilo (oltre che dei migranti irregolari),
dovuta non soltanto all’incremento del numero di migranti, ma anche all’utilizzo
della detenzione come politica di contrasto agli arrivi, l’Assemblea Parlamentare
del Consiglio d’Europa ha adottato due importanti atti, una raccomandazione e
una risoluzione aventi ad oggetto la detenzione dei richiedenti asilo e dei migranti
irregolari in Europa100.
Dopo aver sottolineato la preoccupazione per l’applicazione meccanica della
detenzione come deterrente, l’Assemblea Parlamentare ha riaffermato con vigore
il principio per cui la detenzione è l’ultima possibilità, a cui è possibile ricorrere
solo nel caso in cui misure meno invasive siano state provate e risultate
insufficienti. Agli Stati membri del Consiglio d’Europa è stato quindi
raccomandato il rispetto di dieci principi guida, tra cui si ricordano: il canone
secondo cui la detenzione è una misura eccezionale che può essere adottata solo
dopo aver verificato che tutte le altre alternative sono inefficaci (n. 1); quello che
prescrive la distinzione tra richiedenti asilo e migranti irregolari e impone un
dovere di protezione dei richiedenti asilo da sanzioni connesse alla loro presenza
o al loro ingresso irregolare (n. 2); quello secondo cui la detenzione deve essere
disposta sulla base di una procedure prevista dalla legge, autorizzata da
un’autorità giudiziaria e sottoposta periodicamente a controlli da parte di
quest’ultima (n. 3).
6. Il necessario equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata e
familiare del richiedente asilo e gli interessi primari dello Stato
Ai sensi della CEDU, il diritto al rispetto della vita privata e familiare è
garantito dall’articolo 8. La norma dispone “1. Ogni persona ha diritto al rispetto
della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria
corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica
nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e
99
Corte EDU, sent. 5 febbraio 2002, Čonka c. Belgio, ric. 51564/99
ASSEMBLEA PARLAMENTARE, Raccomandazione 1900 (2010) e Risoluzione 1707 (2010),
emanate il 28 gennaio 2010, disponibili rispettivamente agli indirizzi
100
74
costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa
dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale,
o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Per quanto concerne i rifugiati, la norma in esame può venire in rilievo sotto
due aspetti. Innanzitutto, relativamente ad individui che abbiano vissuto per lungo
tempo nel territorio di uno Stato parte o che vi risiedono insieme a membri della
propria famiglia, il diritto sancito dall’art. 8 è stato interpretato dalla Corte come
limite all’espulsione dal territorio nazionale. Inoltre, una violazione della norma è
stata ravvisata anche nei casi d’impedimento all’ingresso nel territorio di uno
Stato membro di un soggetto, nel caso in cui i membri del suo nucleo famigliare
risiedono in quest’ultimo, e non possono abbandonare quel territorio a causa del
rischio reale di subire violazioni dei loro diritti fondamentali che correrebbero se
trasferiti altrove.
Occorre previamente analizzare il significato dei concetti di vita privata e
famigliare così come sviluppati dalla Corte. La nozione di vita privata è ampia e
non è possibile individuarne una definizione completa, si legge infatti nella
sentenza relativa al caso Niemietz c. Germania, “the Court does not consider it
possible or necessary to attempt an exhaustive definition of the notion ‘private
life’. However, it would be too restrictive to limite the notion to an ‘inner circle’
in which the individual may live his own personal life as he chooses and to
exclude therefrom entirely the ouside world not encopassed within that circle.
Respect for private life must also comprise to a certain degree the right to
establish and develop relationships with other human beings”101. Essa include
quindi sia il diritto a godere di una esclusiva intimità personale, sia il diritto a
sviluppare la propria personalità tramite le relazioni con gli altri esseri umani. Vi
rientrano così molteplici aspetti legati tanto all’identità personale quanto a quella
sociale102.
Per quanto concerne, invece, la nozione di vita familiare, la Corte ha
progressivamente dato rilievo alle relazioni de facto esistenti tra gli individui,
www.assembly.coe.int/Main.asp?link=/Documents/AdoptedText/ta10/EREC1900.htm
e
www.assembly.coe.int/Main.asp?li nk=/Documents/AdoptedText/ta10/EREC1900.htm.
101
Corte EDU, sentenza 16 dicembre 1992, Niemietz c. Germania, ric. 13710/88, par. 29.
102
Per una completa analisi dell’art. 8 della CEDU si veda BARTOLE S., DE SENA P.,
ZAGREBELSKY V., op. cit., p. 297-369.
75
attribuendo sempre meno rilevanza al riconoscimento giuridico di tali relazioni. In
K. e T. c. Finlandia, la Corte ha infatti affermato che “[…]the existence or nonexistence of ‘family life’ is essentialy a question of fact depending upon the real
existence in practice of close personal ties”103. La nozione in esame comprende,
ad esempio, anche in assenza di coabitazione, i rapporti tra una persona e il
proprio figlio, sia questi riconosciuto legittimo o illegittimo, e ancora, come
dichiarato nel caso Marckx c. Belgio, essa include “at least the ties between near
relatives, for instance those between grandparents and grandchildren, since such
relatives may play a considerable part in family life”104. In conclusione il concetto
racchiude, dal punto di vista soggettivo, sia le relazioni giuridicamente
istituzionalizzate, sia le relazioni fondate sul dato biologico, sia quelle che
costituisco un unione in senso sociale, a condizione che queste siano effettive105.
Dal linguaggio di questo articolo si desume che il diritto in esso sancito
appartiene alla categoria dei c.d. “diritti qualificati”. Il secondo comma, infatti,
enuncia tassativamente i casi in cui un’ingerenza da parte degli Stati membri
nell’esercizio di quest’ultimo, può essere considerata legittima. In primis, tale
possibilità d’ingerenza deve essere prevista dal diritto nazionale degli Stati;
inoltre deve essere strumentale alla tutela di altri interessi fondamentali della
comunità nazionale e considerata come una misura necessaria in una società
democratica. La conseguenza è che la giurisprudenza relativa all’art. 8 si
caratterizza per la necessità di mantenere un giusto equilibrio tra due interessi: da
un lato, l’interesse della persona espulsa a non essere separata dalla propria
famiglia o quello di poter far ingresso nel territorio in cui risiedono membri del
proprio nucleo famigliare; dall’altro, l’interesse dello Stato ad allontanare o a non
fare entrare nel proprio territorio una persona che metta in pericolo interessi
primari della comunità. La Corte valuterà il contemperamento di questi due
opposti interessi mediante un giudizio sulla proporzionalità della decisione
adottata dagli Stati membri.
In relazione alla violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare
in caso di espulsione o allontamento di un individuo, la Corte ha avuto modo di
103
Corte EDU, sentenza 12 luglio 2001, K.e T. c. Finlandia, ric. 25702/94, par.150.
Corte EDU, sent. 27 aprile 1979, Marckx c. Belgio, ric. 6833/74, par. 45.
105
Come sottolineato da MALINVERNI G., le nozioni di famiglia e di vita familiare “hanno un
contenuto autonomo e sono quindi interpretate indipendentemente dalle definizioni che ne danno
gli ordinamenti interni degli Stati”, in MALINVERNI G., op. cit., p. 177.
104
76
esprimersi nel caso Mustaquim c. Belgio106. Il ricorrente era un cittadino
marocchino che aveva vissuto in Belgio con la sua famiglia, fin dalla tenera età. Il
ricorrente fu obbligato a lasciare il paese, dopo aver scontato una condanna a due
anni di detenzione per vari reati che aveva commesso quando era minorenne.
Nonostante l’ordine di trasferimento venne successivamente sospeso, il ricorrente
aveva presentato ricorso alla Corte lamentando una violazione dell’articolo 8. I
giudici di Strasburgo dapprima osservarono che l’ordine costituiva un’ingerenza
nella vita familiare del ricorrente, così come intesa dal primo paragrafo della
norma, quindi valutarono se tale ingerenza potesse ritenersi legittima alla luce del
disposto del secondo paragrafo dell’art. 8. Nessun dubbio venne sollevato con
riguardo alla conformità dell’ordine con l’ordinamento giuridico belga e al
perseguimento, mediante il medesimo, di una legittima finalità, specificatamente
la prevenzione dei reati e la difesa dell’ordine pubblico. La questione di più
difficile risoluzione era se l’ordine potesse essere considerato necessario in una
società democratica, tenuto conto del margine di apprezzamento lasciato agli Stati
nel determinare la proporzionalità della misura di allontanamento. Nella sentenza
si legge: “The Court does not in any way underestimate the Contracting States’
concern to maintain public order, in particolar in exercising their right to control
the entry, residence and expulsion of aliens. However, in cases where the relevant
decisions would constitute an interference with the rights protected by paragraph
1 of Article 8, they must show to be ‘necessary in a democratic society’, that is to
say justified by a pressing social need and, in particular, proportionate to the
legitimate aim pursued”107.
Soltanto nella sentenza sul caso Amrollahi c. Danimarca108, concernente
l’espulsione di un rifugiato iraniano, i giudici di Strasburgo hanno fornito una lista
dei criteri da tenere in considerazione per determinare quando un’espulsione è
necessaria in una società democratica e quindi proporzionata. Riprendendo le
106
Corte EDU, sent. 18 febbraio 1991, Mustaquim c. Belgio, ric. 12313/86.
Mustaquim c. Belgio, sent. cit., par. 43. La Corte ha ribadito questo principio in numerose
sentenze successive tra cui, si vedano: sent. 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera, ric. 54273/00; sent.
31 ottobre 202, Yildiz c. Austria, ric. 37295/97; sent. 10 luglio 2003, Benhebba c. Francia, ric.
53441/99.
108
Corte EDU, sent. 11 luglio 2002, Amrollahi c. Danimarca, ric. 56811/00. Il ricorrente era un
rifugiato iraniano, titolare prima di un permesso di residenza temporaneo e, successivamente,
definitivo, che dopo aver disertato la chiamata alle armi durante il conflitto tra Iran e Iraq, scappò
in Danimarca alla ricerca di asilo. Qui conobbe una donna danese che in seguito sposò e da cui
ebbe due figli. Più tardi il soggetto venne condannato a 3 anni di reclusione per traffico di
stupefacenti, a cui seguì l’emanazione di un ordine permanente di espulsione dal territorio danese.
107
77
parole della Corte questi sono: “the nature and the seriousness of the offence
committed by the applicant; the lenght of the applicant’s stay in the country from
which he is going to be expelled; the time elapsed since the offence was
committed and the apllicant’s conduct during that period; the nationalities of the
various persons concerned; the applicant’s family situation, such as the lenght of
the marriage; and other factors expressing the effectiveness of a couple’s family
life; whether the spouse knew about the offence at the time when he or she entered
into a familty relationship; whether there are children in the marriage, and if so,
their age;[…]the seriousness of the difficulties which the spouse is likely to
encounter in the country of origin, thought the mere fact that a person might face
certain difficulties in accompanying her or his spouse cannot itself exclude an
expulsion”109.
La decisione del caso in esame mostra come l’applicazione dell’art. 8 alle
espulsioni concernenti in particolare richiedenti asilo, sia argomentata facendo
riferimento alle conseguenze della misura di allontanamento sulla vita privata o
familiare dell’individuo nel territorio dello Stato membro, se il soggetto coinvolto
vi abbia trascorso tempo sufficiente per sviluppare una vita privata o familiare. La
Corte considerò, da un lato, che il traffico di stupefacenti era un crimine grave e
che il ricorrente aveva mantenuto dei forti rapporti con il suo paese d’origine;
dall’altro, che la sua relazione con la moglie era effettiva e che era impossibile, sia
il trasferimento di quest’ultima in Iran, sia il loro stabilimento in un altro paese. I
giudici conclusero quindi che “[…]the expulsion of the applicant to Iran would be
disproportionate to the aims pursued. The implementation of the expulsion would
accordingly be in breach of Article 8 of the Convention”110.
Il bilanciamento tra interessi contrapposti appena illustrato, deve essere
ricercato dagli Stati parte non solo quando è in gioco l’obbligo negativo, imposto
dall’art. 8, di non allontanare individui dai loro territori, ma anche quando il caso
riguardi l’obbligo positivo, imposto dalla stessa norma, di ammettere individui
all’interno dei confini nazionali, quando questo sia essenziale al mantenimento
della vita familiare di altri soggetti già ivi residenti111.
109
Amrollahi c. Danimarca, sent. cit., par. 35.
Ibidem, par. 44.
111
Nel caso Gül c. Svizzera, la Corte ha riconosciuto che “[…] the boundaries between the State’s
positive and negative obligations under this provision do not lend themselves to precise definition.
The applicable principles are, nonetheless, similar. In both contexts regard must be had to the fair
110
78
Innanzitutto occorre notare come, nei casi di riunificazione coinvolgenti
rifugiati o altre persone richiedenti protezione internazionale, la Corte ha
interpretato restrittivamente il testo dell’art. 8, richiedendo severe condizioni ai
fini della sua applicazione. Essenzialmente gli organi di Strasburgo cercano di
determinare se vi sono elementi che possano ostacolare la conduzione della vita
familiare all’estero, insieme ai membri del nucleo familiare che stanno tentando di
fare ingresso nel territorio di uno degli Stati contraenti. Questo “returnability test”
viene applicato costantemente112. Se esso stabilisce che la famiglia può vivere
unita nel territorio d’origine, la Corte non sancirà una violazione dell’art. 8.
Ulteriormente, nel caso Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, la Corte
sostenne che “the duty imposed by Article 8 cannot be considered as extending to
a general obligation on the part of a Contracting State to respect the choice by
married couples of the country of their matrimonial residence and to accept the
non-national spouses for settlement in that country”113.
Questa giurisprudenza restrittiva è stata allentata nel caso Sen c. Paesi
Bassi114, in cui la Corte decise che il rifiuto di permettere ad una minore turca di
raggiungere i propri genitori risiedenti legalmente nel Paesi Bassi costituiva una
violazione dell’art. 8 della Convenzione. In questo caso, i giudici riscontrarono
maggiori ostacoli nel ritorno della famiglia in Turchia: i genitori vivevano da
lungo tempo nel paese e avevano due ulteriori figli nati in territorio olandese e
cresciuti in quell’ambiente culturale. Rigettando gli argomenti del governo
olandese che sosteneva la possibilità per la famiglia di ritornare in Turchia, oltre
che la sua estraneità circa eventuali obblighi positivi, dal momento che la minore
non dipendeva dai suoi genitori per le cure e l’educazione, la Corte sostenne che
permettere alla terza figlia di giungere nei Paesi Bassi fosse l’unico modo per
sviluppare una vita familiare, considerata la sua giovane età e la necessità di
balance that as to be struck between the competing interests of the individual and the community
as a whole; and in both contexts the State enjoys a certain margin of appreciation”, Corte EDU,
sent. 19 febbraio 1996, ric. 23218/94, par. 38.
112
V. UNHCR, UNHCR manual on refugee protection and the European Convention on Human
Rights. Facts sheet on Article 8, Regional Bureau for Europe Department of International
Protection, 2006, p.4; SEATZU F., op. cit., p. 484; CONSIGLIO D’EUROPA, Manuale sul diritto
europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, Lussemburgo, 2013, p. 133.
113
Corte EDU, sent. 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, ric. 9214/8
0; 9473/81; 9474/81, par. 68. Per ulteriori esempi di questa interpretazione si vedano, tra gli altri:
Corte EDU, sent. 26 marzo 1992, Beldjoudi c. Francia, ric. 12083/86 e sent. 13 luglio 1995, Nasri
c. Francia, ric. 19465/92.
114
Corte EDU, sent. 21 dicembre 2001, Sen c. Paesi Bassi, ric. 31465/96.
79
integrarsi nell’unità della sua famiglia naturale. I Paesi Bassi avevano, in
conclusione, fallito nel bilanciare l’interesse dei ricorrenti con la loro politica di
controllo dell’immigrazione.
Queste pronunce mostrano come la Corte per affermare una violazione
dell’art. 8 deve svolgere un’attenta analisi della situazione del ricorrente. Per
determinare se una famiglia può o meno ritornare nel proprio paese di origine per
riunirsi con gli altri membri che desiderano raggiungerla, devono considerarsi, tra
le altre circostanze, la lunghezza della permanenza nello Stato ospitante, l’età e lo
sviluppo culturale dei figli, l’età dei figli rimasti nel paese di provenienza e il tipo
di permesso di residenza di cui la famiglia è beneficiaria.
80
CAPITOLO III
LA NORMATIVA DELL’UNIONE EUROPEA IN
MATERIA D’ASILO
1. L’evoluzione della politica comunitaria in materia d’asilo
Le politiche europee sull’asilo e la conseguente disciplina normativa sono
maturate in tempi relativamente recenti, contraddistinte da uno sviluppo lento e
scandito da varie tappe evolutive.
Nei Trattati istitutivi delle Comunità Europee1, data la loro vocazione
esclusivamente economica e finalizzata alla creazione del mercato comune, la
disciplina del trattamento dei cittadini di paesi terzi fu riservata alla competenza
esclusiva degli Stati membri2. La politica migratoria, cui la tematica dell’asilo è
strettamente legata, veniva, e viene tuttora, considerata dagli Stati come “una leva
fondamentale dell’azione statale e, quindi, un settore in cui l’esercizio della
sovranità dello Stato tende ad esplicarsi in modo il più possibile autonomo, in
ragione
di
considerazioni,
spesso
contingenti,
di
politica
interna
ed
internazionale”3. Negli anni ’50, inoltre, il fenomeno migratorio aveva carattere
tipicamente economico, l’immigrazione c.d “umanitaria” e quella non comunitaria
erano realtà marginali. Soltanto a partire dalla fine degli anni ’70, quando il
fenomeno cominciò ad assumere la portata, ma soprattutto, le peculiari dinamiche
attuali, venne percepito come necessario lo sviluppo di politiche comuni in
materia di visti, asilo e immigrazione, in quanto funzionale alla realizzazione di
uno spazio europeo senza frontiere interne, in cui fosse assicurata la libera
1
Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) firmato a Parigi il
18 aprile 1951 ed entrato in vigore il 23 luglio 1952 (giunto a scadenza il 23 luglio 2002); Trattati
di Roma, istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea per
l’energia atomica (EURATOM), firmati a Roma il 25 marzo 1957 ed entrati in vigore il 1° gennaio
1958. I testi integrali dei Trattati sono disponibili all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/in
dex-old.htm
2
Come osservato da SAULLE, “la scelta tipicamente economica, che contrassegnò gli albori della
Comunità, determinò la necessità di escludere dall’ambito comunitario la trattazione di questioni
di carattere umanitario nelle quali rientra certamente quella della tutela dei rifugiati”, in SAULLE
M.R., Lezioni di organizzazione internazionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1993, p.
131 e ss.
81
circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, per cui era necessario il
rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne4.
Nell’evoluzione della politica comunitaria in materia di asilo e di protezione
dei rifugiati possono distinguersi tre momenti ben definiti. Il primo periodo,
antecedente al 1999, vede il fulcro degli sviluppi comunitari nell’individuazione
della responsabilità degli Stati membri in merito alle domande d’asilo, basata
sulla Convenzione di Schengen prima, e sulla Convenzione di Dublino del 1990
poi, cui si aggiungono, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, alcune
risoluzioni del Consiglio europeo. La seconda fase prende avvio con il Consiglio
europeo di Tampere del 1999 in cui venne stabilito un programma, il cui
obiettivo, da attuarsi in due momenti, era la creazione di un Sistema europeo
comune d’asilo (CEAS, Common European Asylum System). Infine, il terzo
periodo vede la luce con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, in
cui è sancita la piena armonizzazione della legislazione in materia d’asilo, sulla
base dei principi affermati a Tampere e ora inclusi nel corpus del Trattato.
Nei successivi paragrafi, prima dell’analisi della disciplina legislativa ad oggi
in vigore, verranno esaminate nel dettaglio le principali tappe di questo lento
percorso evolutivo.
1.1 Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia: dall’Atto Unico Europeo alla
Convenzione di Dublino del 1990
L’interesse degli Stati membri nei confronti del fenomeno migratorio e del
diritto d’asilo comincia a manifestarsi per la prima volta a partire dagli anni ’70,
come parte di una politica estera e di sicurezza comune. Nel 1975 viene costituito
il c.d gruppo TREVI5, composto dai ministri degli Stati membri e finalizzato a
3
BENEDETTI E., Il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati nell’ordinamento comunitario
dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, CEDAM, Padova, 2010, p. 101.
4
V. PALERMO P., Il diritto d’asilo nello spazio europeo: tra rifugio, asilo comunitario e
convenzione europea dei diritti umani, Forum di quaderni costituzionali, 22 luglio 2009, p. 3,
reperibile
al
sito
www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0135_palermo.pdf.
5
Il gruppo TREVI, acronimo di “Terrorismo, Radicalismo, Eversione, Violenza Internazionale”,
costituito su proposta britannica dal Consiglio europeo di Roma del 1975, riuniva inizialmente i
ministri degli Affari Interni dei 12 Stati membri, affiancati successivamente da quelli della
Giustizia. Ai lavori parteciparono anche paesi europei allora esterni alla Comunità (Austria,
Svezia, Finlandia, Svizzera e Norvegia) e paesi non europei (Stati Uniti, Canada e Marocco). Con
l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, l’attività del gruppo è stata assorbita dalla prevista
cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni.
82
contrastare il terrorismo e la criminalità organizzata, mediante la collaborazione
delle forze di polizia; tra le varie tematiche analizzate vi erano anche quelle
relative alla disciplina dei visti d’ingresso e all’elaborazione di misure volte ad
evitare l’abuso del diritto d’asilo.
Negli anni ’80, il crescente numero delle richieste d’asilo condusse ad
un’inversione di tendenza rispetto alle precedenti politiche di accoglienza degli
Stati membri. Questi ultimi adottarono una politica restrittiva, consistente
prevalentemente in misure preventive volte a limitare o impedire l’accesso al
territorio dei paesi europei, tra cui, ad esempio, l’introduzione di visti di controllo
sui passaporti e la previsione di sanzioni per i vettori aerei o marittimi che
trasportassero passeggeri in cerca di asilo o non muniti di validi documenti, oltre
all’inasprimento dei criteri di ammissione nel territorio degli Stati.
Nei medesimi anni le istituzioni comunitarie manifestarono un sempre
maggiore interessamento nei confronti del problema, soprattutto in vista del
completamento del mercato unico europeo e dell’abolizione delle frontiere
interne. In quest’ottica, nel 1985, la Commissione europea, presieduta da Jacques
Delors, elaborò il Libro Bianco sul mercato interno6, in cui venne fissato un
preciso calendario circa le varie iniziative necessarie per il ravvicinamento e
l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di libera circolazione
delle persone e di controlli alle frontiere esterne7. Tra queste, si ricorda
l’intenzione di presentare una proposta di direttiva relativa a rifugiati e richiedenti
asilo entro il 1988, mai realizzatasi.
Nel 1986 un’ulteriore tappa verso la costituzione del mercato unico europeo è
costituita dalla firma dell’Atto unico europeo8, che rappresenta la prima modifica
sostanziale al Trattato CEE. Il Preambolo conteneva un generico riferimento alla
promozione dei diritti dell’uomo, come definiti dalla CEDU e dalla Carta sociale
europea del 19619, aprendo così un varco verso una politica comunitaria che
6
COMMISSIONE EUROPEA, Il completamento del mercato interno: Libro bianco della
Commissione per il Consiglio europeo (Milano, 28-29 giugno 1985), COM(85) 310, 14 giugno
1985.
7
È opportuno ricordare che si trattava di materie che rientravano nella competenza esclusiva degli
Stati membri e quindi disciplinate dagli ordinamenti giuridici di questi ultimi.
8
UE, Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 da 9 Stati membri e a L’Aia
il 28 febbraio 1986 da Danimarca, Italia e Grecia. GUCE n. L 169 del 29 giugno 1987.
9
CONSIGLIO D’EUROPA, Carta sociale europea, approvata nel 1961 e riveduta nel 1996.
L’art. 19 sancisce la protezione e il diritto all’assistenza dei lavoratori migranti e delle loro
famiglie. CETS n. 163.
83
tenesse in maggiore considerazione le norme internazionali sui diritti umani.
Inoltre, nella “Dichiarazione politica dei Governi degli Stati membri relativa alla
libera circolazione delle persone” allegata all’Atto unico, si affermava che “per
promuovere la libera circolazione delle persone gli Stati cooperano senza
pregiudizio delle competenze della Comunità in particolare per quanto riguarda
l’ingresso, la circolazione ed il soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi” ma allo
stesso tempo si precisava, con riferimento alle prescrizioni relative al mercato
interno, che “nulla in queste disposizioni pregiudica il diritto degli Stati membri di
adottare le misure che essi ritengono necessarie in materia di controllo
dell’immigrazione da paesi terzi”10.
In seguito, lo studio delle misure compensatorie necessarie alla creazione di
uno spazio di libera circolazione all’interno della Comunità venne affidato al
“Gruppo dei Coordinatori – Libera circolazione delle persone”, meglio noto come
Gruppo di Rodi, istituito dal Consiglio europeo di Rodi del 1988. Le soluzioni
elaborate vennero formalizzate al Consiglio europeo di Madrid del giugno del
1989, nel c.d. Documento di Palma di Majorca, che rimase la base programmatica
della materia anche per le successive Convenzioni di Schengen e di Dublino del
1990. Per ogni settore coinvolto nella costituzione del mercato interno, il
Documento individuava le misure da adottare, distinte in “essenziali” e
“auspicate”, a seconda del grado di importanza, le sedi opportune in cui
discuterne le modalità attuative e un calendario di realizzazione11.
Il Gruppo ad hoc Immigrazione non fu l’unico istituito in quegli anni12. Il
modus operandi dei Paesi membri all’epoca si concretizzò, infatti, tramite
10
Dichiarazione generale relativa agli articoli da 13 a 19 dell’Atto unico europeo, allegata
all’Atto unico del 1986.
11
Per quanto concerne in particolare l’asilo, nel Documento si raccomandava la predisposizione,
entro un determinato periodo di tempo, di misure volte ad una gestione comune delle
problematiche dell’asilo, in conformità ai principi enunciati nella Convenzione di Ginevra del
1951. In particolare, le proposte avanzate erano quelle di predisporre un sistema comunitario per la
determinazione dello Stato responsabile per l’esame di una domanda di asilo, di normalizzare gli
obblighi gravanti sugli stati in materia, di stabilire delle regole per le domande manifestatamente
infondate e per la circolazione dei richiedenti asilo nel territorio comunitario. V. LENZERINI F.,
Asilo e diritti umani. L’evoluzione del diritto d’asilo nel diritto internazionale, Giuffrè editore,
Milano, 2009, p.122.
12
Si ricorda in particolare, oltre al già citato Gruppo TREVI (affiancato successivamente dal
Gruppo TREVI II, avente l’obbiettivo di favorire la collaborazione tra le diverse polizie nazionali
in materia di ordine pubblico, TREVI III, per la lotta congiunta al traffico di stupefacenti e alla
criminalità organizzata e TREVI 1992, finalizzato al rafforzamento della cooperazione delle forze
di polizia in vista dell’abbattimento delle frontiere interne), il Gruppo ad hoc Immigrazione,
costituito a Londra nel 1986. Composto dai ministri degli Interni e della Giustizia degli Stati
membri, si caratterizzava per il particolare collegamento con la Comunità, assicurato dalla
84
iniziative a carattere intergovernativo, che portarono alla costituzione di Gruppi di
lavoro a cui venivano assegnate le competenze relative ai diversi profili funzionali
alla libera circolazione delle persone: lotta alla criminalità organizzata, al traffico
di stupefacenti, al terrorismo; cooperazione giudiziaria in materia penale;
controllo delle frontiere esterne, politiche in materia di visti, immigrazione, asilo e
rifugiati.
In questa fase, caratterizzata dalla cooperazione intergovernativa, fu realizzato
uno degli accordi che più influirono sulla creazione di uno spazio comune
europeo: il c.d. Accordo di Schengen del 198513, concluso al di fuori dell’ambito
strettamente comunitario ed in seguito definito come uno dei maggiori esempi di
“cooperazione rafforzata”14. L’Accordo fu siglato il 14 giugno 1985 da Belgio,
Lussemburgo, Paesi Bassi, Germania e Francia, con l’obiettivo di dar vita ad un
territorio senza frontiere interne, il c.d. Spazio Schengen15, vista l’impossibilità di
raggiungere un simile risultato in sede comunitaria. Successivamente, il 19 giugno
1990, venne firmata, a completamento dell’Accordo, la Convenzione di
applicazione dell’Accordo di Schengen16, che definisce le condizioni di
applicazione e le garanzie relative alla libera circolazione. L’Accordo e la
Convenzione, unitamente alle misure di esecuzione adottate e agli accordi
connessi ai medesimi, formano il c.d. acquis di Schengen, che sarà integrato, in
partecipazione della Commissione ai lavori (a quest’ultima era stata attribuita la qualifica speciale
di “membro” che le permetteva di partecipare e contribuire ai dibattiti) e dalla possibilità di
avvalersi di un segretariato permanente presso il Consiglio della Comunità Europea. Il Gruppo
svolse un ruolo determinante nell’affrontare le questioni “essenziali” in materia di frontiere
esterne, visti e asilo, elaborate nel Documento Palma.
13
Il
testo
dell’Accordo
è
reperibile
al
seguente
indirizzo
www.camera.it/bicamerali/schengen/fonti/ACCSCHEN/infdx.htm.
14
Come affermato da BENEDETTI E., la cooperazione rafforzata permette “una cooperazione più
stretta tra i paesi dell’Unione che desiderano approfondire la costruzione europea nel rispetto del
quadro istituzionale unico dell’Unione. Gli Stati membri interessati possono quindi progredire
secondo ritmi e/o obiettivi diversi. Tuttavia essa non permette di estendere le competenze che sono
previste dai Trattati” in BENEDETTI E., op. cit., p. 117. Questa procedura decisionale è stata
istituzionalizzata con il Trattato di Amsterdam e attualmente è disciplinata dagli articoli 20 TUE e
326, 327, 328 TFUE, nella versione consolidata con il Trattato di Lisbona.
15
Odiernamente lo Spazio Schengen comprende i territori di quasi tutti gli Stati membri: l'Italia ha
firmato gli accordi nel 1990 (legge di ratifica 30 settembre 1993, n. 388), la Spagna e il Portogallo
nel 1991, la Grecia nel 1992, l'Austria nel 1995, la Finlandia, la Danimarca (con uno statuto
adattato), la Svezia nel 1996, mentre la Repubblica ceca, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania,
l’Ungheria, Malta, la Polonia, la Slovenia e la Slovacchia nel 2007. L'Irlanda e il Regno Unito
partecipano, invece, solo parzialmente all'acquis di Schengen, in quanto non hanno abolito i
controlli alle loro frontiere. Per approfondire si veda CELLAMARE G., La disciplina
dell’immigrazione nell’Unione europea, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 57 e ss.
16
Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli
Stati dell’Unione Economica Benelux, della Repubblica Federale di Germania e della Repubblica
85
seguito all’adozione di uno specifico Protocollo17 al Trattato di Amsterdam del
1997, nel quadro istituzionale e giuridico dell’Unione Europea.
Tra le previsioni di maggior rilievo contenute negli accordi di Schengen, oltre
a quelle relative all’abolizione dei controlli alle frontiere interne e il loro
trasferimento all’unica frontiera esterna, alla definizione di una procedura
uniforme in materia di controllo degli ingressi e delle condizioni di
attraversamento delle frontiere esterne, è contemplata l’adozione di misure
uniformi in materia d’asilo. Tali misure, contenute nel Titolo II al capitolo 7 negli
articoli dal 28 al 3818, concernono il tema della competenza per l’esame delle
domande di asilo.
Dopo aver affermato, all’art. 28, gli obblighi a carico degli Stati ai sensi della
Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo del 1967 (di cui tutti i paesi
dell’area Schengen sono firmatari) e il loro impegno a collaborare con l’UNHCR,
la Convenzione, all’art. 29, afferma che “le Parti contraenti si impegnano a
garantire l'esame di ogni domanda di asilo presentata da uno straniero nel
territorio di una di esse”, escludendo tuttavia l’obbligo delle medesime di
autorizzare in ogni caso l’ingresso e il soggiorno del richiedente asilo. La norma
prosegue stabilendo il principio fondamentale della materia, ovvero la
competenza di un solo Stato membro per l’esame della richiesta di asilo19,
individuato secondo i criteri enunciati all’art. 30. Quest’ultimo articolo stabilisce
francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, GUUE n. L 239 del
22 settembre 2000 p. 19-62.
17
In seguito all’adozione del Protocollo n. 2 al Trattato di Amsterdam il sistema Schengen venne
integrato in parte nel terzo pilastro del TUE (Titolo VI) e in parte nel Titolo IV del Trattato CE,
relativo alla libera circolazione delle persone (il testo integrale del Protocollo è reperibile
all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/11997D/htm/11997D.html). Successivamente,
con la firma nel 2007 del Trattato di Lisbona, il Protocollo sull’acquis di Schengen ha assunto
rilevanza autonoma e, dopo essere stato modificato in conformità alla nuova struttura dell’Unione,
è stato allegato come Protocollo n. 19 ai nuovi TUE e TFUE, divenendo parte integrante
dell’acquis comunitario.
18
Convenzione di applicazione degli Accordi di Schengen, Capitolo 7 “Responsabilità per l’esame
delle domande di asilo”, art. 28-38, reperibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:42000A0922(02):it:HTML.
19
Come affermato da BARONTINI G., con la locuzione ‘richiesta d’asilo’ si intende “la domanda
con cui sia stata rivendicata la condizione di ‘rifugiato’ ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di
Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 ed invocata la tutela predisposta da tale
Convenzione”. Viene di conseguenza accolta una nozione di rifugiato tradizionale che, oltre a non
ricomprendere figure quali i rifugiati economici o le c.d. displaced persons, non include tutti
coloro che soffrono in concreto dell’impossibilità di esercizio delle loro libertà democratiche,
anche se in assenza di specifiche vicende persecutorie. V. BARONTINI G., Sulla competenza per
l’esame delle domande di asilo secondo le Convenzioni di Schengen e di Dublino, in Rivista di
diritto internazionale, n. 2/1992, p. 336-337.
86
un criterio gerarchico per la determinazione dello Stato competente ad esaminare
la domanda, sulla base del principio che quest’ultimo deve identificarsi con il
paese che ha svolto il ruolo principale riguardo all’ingresso della persona
interessata nell’area Schengen. E questo sia nell’ipotesi in cui lo Stato abbia
rilasciato visti o permessi di soggiorno, sia nell’eventualità di un comportamento
meramente negativo che abbia permesso l’ingresso illegale della persona20.
È importante notare come la Convenzione di Schengen e il sistema che ne è
conseguito abbiano lasciate insolute almeno due importanti questioni relative alla
protezione dei rifugiati21. Innanzitutto, l’ampio spazio lasciato alle legislazioni
nazionali circa le procedure di istruzione della domande d’asilo22 non pone
rimedio al problema dei c.d. “rifugiati in orbita”, persone potenzialmente o
effettivamente perseguitate, che vengono rinviate da uno Stato all’altro, a cause
delle continue declinazioni di responsabilità da parte delle istituzioni competenti,
“struck to and fro like tennis balls”23.
L’altro rilevante fenomeno, cui non è stata trovata una soluzione, è quello
delle “domande multiple”, anche definito come asylum shopping, ossia i casi in
cui il medesimo soggetto presenta reiterate domande d’asilo in diversi Stati
membri. Il principio di esclusività affermato nel Capitolo 7 della Convenzione,
non solo determinava quale Stato fosse competente per l’esame della domanda di
asilo, ma garantiva inoltre che il richiedente non avanzasse altre domande. Spesso
i governi nazionali giudicarono le molteplici domande di asilo presentate dal
medesimo soggetto come abuso di diritto, in quanto espressione delle intenzioni
fraudolente del richiedente che cercava di stabilirsi nello Stato membro
economicamente più avanzato. Tuttavia, tra le principali cause di questo
20
Solo in due casi è possibile derogare ai criteri sanciti dall’art. 30. Il primo caso è previsto dal
paragrafo 4 dell’art. 29 in cui si afferma che “ogni Parte contraente conserva il diritto, per ragioni
particolari attinenti soprattutto alla legislazione nazionale, di esaminare una domanda d'asilo anche
se la responsabilità ai sensi della presente Convenzione, incombe ad un’altra Parte contraente”. Il
secondo caso è invece contemplato dall’art. 35, che in caso di ricongiungimento familiare,
stabilisce la responsabilità per l’esame della domanda d’asilo in capo allo Stato membro che abbia
riconosciuto lo status di rifugiato e il diritto di soggiorno ad un membro della famiglia del
richiedente.
21
Si ricordano invece le parole della Commissione che salutavano la Convenzione di Schengen
come “il primo testo nel diritto internazionale che garantiva ai richiedenti asilo che uno Stato al
massimo si occupasse della loro domanda, e che essi non sarebbero più stati respinti da un Paese
all’altro, con il dramma umano che questo comportava”, CE COM n. 5276, 19 giugno 1990.
22
L’art. 32 della Convenzione afferma infatti “La Parte contraente responsabile per l'esame della
domanda di asilo effettua tale esame conformemente al proprio diritto nazionale”.
87
fenomeno, vi era sicuramente la totale assenza di armonizzazione tra le normative
nazioni per quanto concerne le procedure di riconoscimento del diritto d’asilo, che
spesso conduceva a giudizi contrastanti riguardo alla medesima domanda24.
Parallelamente allo sviluppo del sistema delineato dalla Convenzione di
Schengen, il 15 giugno 1990, venne firmata a Dublino la Convenzione sulla
determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo
presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, meglio nota come
Convenzione di Dublino25. Tale Convenzione, il cui scopo essenziale era quello di
scongiurare successive o concomitanti richieste d’asilo in diversi Stati della
Comunità e quindi prevenire il trasferimento dei richiedenti da un paese all’altro,
ripropone i criteri individuati in materia dalla Convenzione di Schengen, anche se
con disposizioni più dettagliate, maggiormente vincolanti per gli Stati e al tempo
stesso più garantiste per i richiedenti asilo.
I criteri per stabilire lo Stato competente ad esaminare la richiesta d’asilo sono
fissati, in ordine di priorità, negli articoli da 4 a 8 della Convenzione; nella loro
applicazione verrà seguito “l’ordine in cui sono presentati”, fatta salva la
possibilità per lo Stato di esaminare una domanda di cui non sia responsabile con
il consenso del richiedente, se sussistono ragioni di carattere umanitario (in
particolare familiari o culturali)26. Oltre al richiamo dell’eccezione della
riunificazione familiare, il testo della Convenzione presenta un elemento di novità
all’art. 6 in cui è stabilito che, “se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente,
per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle
Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso
23
BOCCARDI I., Europe and Refugees. Towards an EU Asylum Policy, Kluwer Law
International, The Hague, 2002, p. 42.
24
Occorre tuttavia notare che l’UNHCR si era espresso in favore del riesame da parte di un altro
Stato della domanda di asilo rigettata in uno Stato parte della Convenzione di Ginevra, sostenendo
che “[…]a decision by a Contracting State not to recognize refugee status does not preclude
another Contracting State from examining a new request for refugee status made by the person
concerned”. UNHCR-ExCom, Conclusion n. 12 (XXIX) on the Extra-territorial effect of the
determination of refugee status, 17 ottobre 1978, par. (h), disponibile all’indirizzo
www.refworld.org/docid/3ae68c4447.html.
25
Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo
presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee – Convenzione di Dublino, OJ C
254, 19 ottobre 1997, p. 1-12. Il testo è reperibile sul sito
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:41997A0819(01):EN:NOT.
26
Convenzione di Dublino, art. 9: “Ogni Stato membro, anche se non competente per l'esame in
base ai criteri previsti nella presente convenzione, può esaminare per motivi umanitari, in
particolare di carattere familiare o culturale, una domanda di asilo a richiesta di un altro Stato
membro, a condizione tuttavia che il richiedente l'asilo lo desideri. Se lo Stato membro interpellato
accetta detta richiesta, la competenza in merito viene ad esso transferita”.
88
attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di
competenza di quest’ultimo Stato membro”, salvo che il richiedente abbia
soggiornato per almeno sei mesi nello Stato in cui ha presentato la domanda.
Infine è opportuno sottolineare come, all’interno della Convenzione di Dublino,
non sia presente nessuna disposizione che affermi la mancanza di obblighi di
ammissione dei richiedenti asilo a carico degli Stati contraenti27; tale omissione
non sembra tuttavia essere sufficiente per affermare un diritto dei richiedenti asilo
all’ammissione temporanea nel territorio dello Stato in cui abbiano presentato
richiesta d’asilo.
Il sistema cui hanno dato vita, rispettivamente, le Convenzioni di Schengen e
di Dublino, desta forti perplessità circa la sua compatibilità con il diritto
internazionale dei rifugiati. Tutti gli Stati firmatari di questi due strumenti sono
infatti parti della Convenzione di Ginevra del 1951, con la quale hanno assunto
l’impegno di garantire un certo livello di protezione a coloro che rientrino nella
definizione di rifugiato di cui all’art. 1 della medesima (in particolare l’obbligo di
non-refoulement e il divieto di espulsione dei rifugiati regolarmente residenti). Il
fatto che un solo Stato esamini la richiesta presentata all’interno dell’area
Schengen o del territorio comunitario, con il conseguente venir meno di qualsiasi
responsabilità a carico degli altri Stati contraenti, non appare compatibile con
l’obbligo di protezione gravante su ciascuno di essi in quanto parti della
Convenzione di Ginevra. E ciò sia nell’eventualità che la richiesta sia stata
respinta dall’unico Stato competente e non vi sia così la possibilità di una nuova
istruzione da parte di altri Stati membri, le cui leggi e procedure diverse
potrebbero condurre ad un esito opposto; sia nel caso in cui lo Stato di asilo risulti
incapace di garantire al rifugiato la protezione ufficialmente accordata (si pensi al
caso di episodi a carattere etnico o razziale verificatesi in alcuni Stati europei), in
quanto nessuna possibilità di chiedere asilo in altri paesi è contemplata dalla
normativa convenzionale28.
27
Tale disposizione è invece contenuta nell’art. 29 par. 2 della Convenzione di Schengen dove si
legge, inoltre, al secondo capoverso che “ciascuna Parte contraente conserva il diritto di respingere
o di allontanare un richiedente asilo verso uno Stato terzo, conformemente alle proprie
disposizioni nazionali e ai propri obblighi internazionali”. La dottrina ha più volte sottolineato la
possibilità di un eventuale contrasto di tale disposizione con il divieto di refoulement sancito
dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951. Si veda BOCCARDI I., op. cit., p. 45-46.
28
V. BARONTINI G., op, cit., p. 346-347.
89
1.2 L’asilo nell’Unione europea: i Trattati di Maastricht e Amsterdam
Tra le libertà sancite dal Trattato29, l’obiettivo della libera circolazione delle
persone è quello che ha incontrato le maggiori difficoltà di realizzazione.
L’abbattimento delle frontiere interne non riguarda solo la libera circolazione dei
cittadini comunitari ma anche di quelli provenienti da Stati terzi, per la cui
concretizzazione è preliminarmente necessaria un’armonizzazione delle normative
nazionali in materia di ingresso e di attraversamento delle frontiere esterne della
Comunità. Ed è soprattutto in quest’ultimo processo di avvicinamento delle
legislazioni nazionali che si sono riscontrate le maggiori resistenze degli Stati
membri, che hanno determinato la scelta di procedere mediante forme di
cooperazione intergovernativa, di cui l’acquis di Schengen è il principale
esempio.
Nonostante ciò occorre ricordare, quale esempio della politica di
armonizzazione in materia d’asilo e della protezione dei rifugiati dei primi anni
’90, la Risoluzione sulle domande d’asilo manifestamente infondate e la
Risoluzione riguardante “un approccio armonizzato sulle questioni concernenti i
Paesi terzi d’asilo” che, insieme alle Conclusioni sui “Paesi nei quali non vi è
alcun rischio di persecuzione”, costituiscono le c.d. “Risoluzioni di Londra”30,
adottate dal Consiglio dei ministri degli Stati membri della Comunità europea.
Un importante passo avanti nel processo di integrazione è dato dalla firma a
Maastricht, il 7 febbraio 1992, del Trattato sull’Unione Europea (TUE)31, entrato
in vigore il 1° novembre 1993. Il Trattato rappresenta una soluzione di
compromesso tra chi si opponeva all’attribuzione all’Unione di competenze
specifiche in materia di immigrazione, e chi invece propendeva per un maggior
ruolo delle istituzioni comunitarie in materia, superando l’approccio meramente
intergovernativo. Viene così istituita una struttura complessa denominata Unione
29
Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE), Roma, 25 marzo 1957, art. 3, par. 1: “Ai fini
enunciati all’articolo 2, l’azione della Comunità comporta, alle condizioni e secondo il ritmo
previsti dal presente trattato: c) un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati
membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”
30
Entrambe le Risoluzioni, approvate il 30 novembre 1992, non sono state pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale, ma nel Bollettino CE 12/92 al punto 1.5.12. Per un approfondimento in materia
si veda ELSPETH G., The Europeanisation of Europe’s Asylum Policy, in International Journal of
Refugee Law, Oxford University Press, vol. 18, n. 3-4, September 2006, p. 638.
31
Trattato sull’Unione Europea (TUE), approvato dal Consiglio europeo riunitosi a Maastricht dal
9 dicembre 1991 al 7 febbraio 1992, Gazzetta ufficiale n. C 191 del 29 luglio 1992. Il testo
integrale è reperibile al sito www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/11992M/htm/11992M.html.
90
europea e fondata sui c.d. “tre pilastri”: la Comunità europea, la Politica estera e
di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione nel campo dei settori della
Giustizia e degli Affari Interni32.
Per la prima volta il tema dell’asilo è contemplato espressamente, all’interno
del Titolo VI denominato “Disposizioni relative alla cooperazione nei settori della
giustizia e degli affari interni”, ove si precisa che “la politica di asilo”, insieme
alla “politica d’immigrazione” e alla “politica da seguire nei confronti dei cittadini
dei paesi terzi”, viene considerata dagli Stati membri come una questione di
interesse comune, “ai fini delle realizzazione degli obiettivi dell’Unione, in
particolare della libera circolazione delle persone, fatte salve le competenze della
Comunità europea”33. Si tratta di un approccio nuovo al problema che fa
presumere la presa di coscienza, da parte della Comunità, di questioni che per lo
spessore raggiunto, non possono più essere sottovalutate.
Inoltre, come affermato nell’articolo K.2, la cooperazione tra gli Stati membri
nei settori di “interesse comune” deve realizzarsi nel rispetto della Convenzione
relativa allo status di rifugiato del 1951 e alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, fatte salve però le “responsabilità incombenti agli Stati membri per il
mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna” (art.
K.2, par. 2)34.
32
Il primo pilastro era costituito dalla Comunità europea, dalla CECA e dall’EURATOM e
riguardava i settori in cui gli Stati esercitavano le proprie competenze mediante le istituzioni
comunitarie. Si applicava il c.d. metodo comunitario che prevedeva la proposta di atti (direttive o
regolamenti) da parte della Commissione europea, la loro adozione da parte del Consiglio e del
Parlamento europeo, sotto il controllo della Corte di Giustizia. Con il secondo pilastro venne
instaurata la Politica estera e di sicurezza comune, PESC, prevista dal Titolo V del TUE. Era
quindi consentito agli Stati di avviare azioni comuni in materia di affari esteri mediante il ricorso
al c.d. metodo intergovernativo, in cui si faceva largamente ricorso al voto all’unanimità e gli
strumenti a disposizione erano poco incisivi. Inoltre, la Commissione e il Parlamento svolgevano
un ruolo limitato e il settore non era compreso nella giurisdizione della Corte di Giustizia. Il terzo
pilastro, disciplinato nel Titolo VI e riguardante la cooperazione nei settori della giustizia e degli
affari interni, aveva come obiettivo il perseguimento di un’azione congiunta a livello comunitario
per offrire ai cittadini un’elevata protezione all’interno di uno spazio comune di libertà, sicurezza e
giustizia. Anch’esso era caratterizzato da un processo decisionale di tipo intergovernativo. Tale
struttura “a pilastri” è stata abolita con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Per un ulteriore
approfondimento si vedano: ADAM, R., TIZZANO, A., Lineamenti di diritto dell’Unione
europea, Giappichelli Editore, Torino, 2010, p. 3 e ss., DRAETTA, U., PARISI, N., Elementi di
diritto dell’Unione europea. Parte speciale. Il diritto sostanziale, Giuffrè Editore, Milano, 2010, p.
306 e ss.
33
Trattato sull’Unione europea, Titolo VI, art. K.1, n. 1 e 3.
34
Come affermato da SAULLE M. R., si tratta di un rinvio recettizio, “nel senso che questi due
Trattati internazionali entrerebbero a far parte – nei settori in cui sono rilevanti – del Trattato
sull’Unione con le uniche eccezioni determinate dal mantenimento dell’ordine pubblico e della
salvaguardia della sicurezza interna”. V. SAULLE M. R., Migrazione e asilo nella Comunità e
91
Per quanto concerne le altre disposizioni rilevanti del Trattato, occorre rilevare
che, oltre al reciproco scambio di informazioni e alla consultazione tra gli Stati
membri, è prevista la possibilità per il Consiglio di adottare posizioni o azioni
comuni e di promuovere qualsiasi forma di cooperazione al fine di raggiungere gli
obiettivi previsti. Allo scopo di organizzare e contribuire alla preparazione delle
discussioni del Consiglio è poi contemplata l’istituzione di un Comitato di
coordinamento composto da alti funzionari (art. K.4).
Altre due disposizioni meritano di essere richiamate data la loro importanza
nel processo di cooperazione. In primis, l’art. K.7 in cui si afferma che “le
disposizioni del presente titolo non ostano all’instaurazione o allo sviluppo di una
cooperazione più stretta tra due o più stati membri”, allo scopo di tenere in
considerazione l’esistenza di Accordi, come quelli di Schengen, che consentivano
un ulteriore sviluppo della cooperazione e quindi un maggior livello di
integrazione, senza ovviamente entrare in contrasto con le disposizioni contenute
nel Trattato. Infine, di particolare interesse è il contenuto dell’art. K.9. Esso
prevede che il Consiglio, deliberando all’unanimità su iniziativa della
Commissione o di uno Stato membro, possa rendere applicabile l’art. 100C all’art.
K.1 in precedenza citato, precisando allo stesso tempo le condizioni di voto. In
questo modo viene lasciata la possibilità di estendere le competenze dell’Unione
anche a materie riguardanti lo spazio di sicurezza e giustizia, ampliando così il
grado di cooperazione in questi settori.
Al fine di sottolineare l’importanza data nel Trattato di Maastricht alla
questione dell’asilo, occorre menzionare anche la Dichiarazione n. 31 allegata al
Trattato medesimo, dedicata specificatamente al diritto d’asilo. La Dichiarazione
affermava la priorità data a questa materia nell’ambito della politica riguardante il
Terzo pilastro e prevedeva, oltre all’adozione di misure di armonizzazione in
tempi rapidi, di ricondurre la materia di asilo nella competenza comunitaria,
trasferendola dal Terzo al Primo pilastro, attraverso il meccanismo “passerella”
predisposto dall’art. K.9.
Durante gli anni ’90 gli Stati membri di fronte all’ingente numero di profughi
determinato dal dissolvimento della Repubblica federale di Jugoslavia e dalla crisi
nei Balcani, diedero vita ad una serie di iniziative che svilupparono ulteriormente
nell’Unione europea, in SAULLE M. R., MANCA L. (a cura di), L’integrazione dei cittadini di
paesi terzi nell’Europa allargata, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006, p. 12.
92
la cooperazione in materia d’asilo e di protezione dei rifugiati. Tra le misure
adottate si ricordano: la Risoluzione sull’armonizzazione delle politiche nazionali
relative al ricongiungimento familiare35; la Risoluzione del Consiglio dei Ministri
per l’Immigrazione del 1993 che stabiliva alcune linee guida rispetto
all’ammissione di persone provenienti dall’ex Jugoslavia36; il Rapporto della
Commissione delle Comunità europee al Consiglio sulla possibilità di applicare
l’art. K.9 del TUE alla politica di asilo del 4 novembre 1993; la Risoluzione del
Consiglio sulle garanzie minime delle procedure d’asilo emanata nel giugno del
199537; la Posizione comune per l’applicazione armonizzata del termine
“rifugiato”38, definita sulla base dell’art. K.3 del TUE e dell’art. 1 della
Convenzione di Ginevra del 1951.
Soltanto con il Trattato di Amsterdam del 199739, il cui scopo principale era di
“conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in
cui si assicura la libera circolazione delle persone, insieme a misure appropriate
per quanto concerne l’immigrazione, l’asilo, i controlli alle frontiere, la
prevenzione e la lotta alla criminalità”, la materia dei visti, dell’asilo e
dell’immigrazione è stata “comunitarizzata”, ossia spostata dal Terzo al Primo
pilastro (Titolo IV TCE, art. 61-69), e si è provveduto all’incorporazione
dell’acquis di Schengen40; mentre nel Titolo VI del TUE sono contenute le
disposizioni sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Si
35
Risoluzione adottata dal Consiglio dei Ministri dell’Immigrazione il 1° giugno 1993.
UE, Resolution on certain common guidelines as regards the admission of particularly
vulnerable groups of persons from the Former Yugoslavia, 2 giugno 1993, OJ 1995 C 262.
37
Risoluzione del Consiglio dei Ministri del 20 giugno 1995, GU n. C274 del 19 settembre 1996
p. 13-17.
38
Posizione comune del 4 marzo 1996 definita dal Consiglio in base all’art. K.3 del TUE relativa
all’applicazione armonizzata della definizione del termine “rifugiato” ai sensi dell’art. 1 della
Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, GU L 63 del 13 marzo
1996, p. 2-7.
39
Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione europea, i Trattati che costituiscono
le Comunità europee e alcuni atti connessi, firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997 ed entrato in
vigore il 1° maggio 1999. GU n. C 340 del 10 novembre 1997.
40
Il Protocollo n. 2 allegato al TCE e al TUE ha disciplinato l’integrazione nell’Unione
dell’acquis di Schengen. L’acquis è costituito dalla Convenzione di Dublino del 1990,
dall’Accordo di Schengen del 1985, dalla Convenzione del 1990 di applicazione dello stesso
Accordo, dalle decisioni e dichiarazioni adottate dal Comitato esecutivo istituito dalla
Convenzione del 1990, nonché dagli atti per l’attuazione della Convenzione adottati dagli organi
ai quali il Comitato esecutivo ha conferito poteri decisionali. Con le decisioni 1999/435 e
1999/436 (GUCE L 176 del 10 luglio 1999, p. 1-16 e 17-30), il Consiglio ha precisato il contenuto
dell’acquis e ha ripartito la base giuridica delle disposizioni dello stesso tra i Titoli IV TCE e VI
TUE. In particolare al Titolo IV TCE sono state riportate le disposizioni sui controlli alle frontiere
e sugli ingressi; al Titolo VI TUE la parte dell’acquis in materia di cooperazione di polizia. V.
CELLAMARE G., op. cit., p. 64 e ss.
36
93
permetteva quindi agli organi dell’Unione, al termine di un periodo di transizione
di 5 anni dall’entrata in vigore del Trattato, di sviluppare una politica comune in
queste materie, mediante l’adozione di norme giuridiche comunitarie, anziché
utilizzare i meccanismi della cooperazione intergovernativa.
In particolare, per quanto concerne l’asilo, notevole importanza è rivestita
dall’art. 63 del Trattato. Questa norma infatti incorpora, all’interno del sistema di
libera circolazione delle persone, le disposizioni in materia di protezione e
trattamento dei rifugiati, stabilendo una serie di misure da attuare nei 5 anni
successivi all’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. Più in dettaglio, il
Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa
consultazione del Parlamento europeo, ex art. 67, dovrà adottare norme precise in
materia di competenza ad esaminare le domande d’asilo, accoglienza e
trattamento dei richiedenti asilo nel territorio degli Stati dell’Unione, definizione
del concetto di rifugiato e delle procedure di concessione e revoca del relativo
status, nonché criteri e modalità per consentire la libera circolazione dei cittadini
di paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro.
Inoltre, il citato articolo affronta tre ulteriori aspetti: considera l’asilo facendo
esplicito riferimento alla Convenzione di Ginevra e al Protocollo del 1967,
assimilando così i principi e i diritti riconosciuti in tali atti all’interno
dell’ordinamento dell’Unione europea; introduce lo strumento della protezione
temporanea per gli sfollati di paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese
d’origine o per individui comunque bisognosi di protezione internazionale41;
afferma il c.d. burden sharing, ovvero il principio solidaristico volto a ripartire tra
gli Stati membri i costi, sia finanziari che sociali, derivanti dall’accoglienza dei
rifugiati42.
Merita una breve menzione anche il Protocollo, annesso al Trattato, in materia
di richieste d’asilo depositate da cittadini degli Stati membri. Prendendo le mosse
41
Gli Stati hanno in questo modo dato ascolto ad istanze di tutela non soddisfatte nel vigente
sistema convenzionale, elaborando forme di protezione complementare e sussidiaria, ai fine di
offrire protezione ai richiedenti asilo che non rientravano nella definizione di rifugiato, ma che
necessitavano di una tutela internazionale. L’estensione del concetto di asilo si ricava facilmente
dal confronto delle norme vigenti con gli abrogati art. K.1 e K.2 del Trattato di Maastricht. V.
NASCIMBENE B., Il futuro della politica europea di asilo, Istituto per gli Studi di Politica
Internazionale (ISPI), giugno 2008, p. 3. L’opera è reperibile all’indirizzo
www.ispionline.it/it/documents/wp_25_2008.pdf.
42
Per un approfondimento del concetto si veda ROSSI E., VITALI L., I rifugiati in Italia e in
Europa. Procedure di asilo fra controllo e diritti umani, Giappichelli Editore, Torino, 2011, p.
130.
94
dal concetto di paese d’origine sicuro43, il Protocollo afferma che “gli Stati
membri dell’Unione europea, dato il livello di tutela dei diritti e delle libertà
fondamentali da essi garantito, si considerano reciprocamente Paesi di origine
sicuri a tutti i fini giuridici e pratici connessi a questioni inerenti all’asilo”44,
limitando in questo modo il diritto d’asilo dei cittadini europei45. Nonostante il
Protocollo sullo status dei rifugiati del 1967 mirasse a far cadere ogni limitazione
temporale o geografica circa l’applicazione degli strumenti di tutela, viene in
questo modo reintrodotto un limite geografico all’esercizio del diritto d’asilo,
giustificato sulla base dell’elevato standard di tutela dei diritti umani richiesto per
ottenere la membership dell’Unione.
2. Verso un Sistema europeo comune d’asilo
Alla fine degli anni ’90 le politiche europee in materia di asilo e immigrazione
ricevettero un nuovo impulso. Da un lato infatti vi era l’esigenza di attuare i
principi stabiliti dal Trattato di Amsterdam, che per primo aveva posto le basi per
un effettiva regolamentazione del fenomeno migratorio e dei rifugiati a livello
comunitario, accompagnata dalle critiche manifestate dall’UNHCR, dal Consiglio
europeo per i rifugiati (ECRE) e dalla stessa Commissione europea, che
chiedevano una nuova politica in materia. Dall’altro la crisi del Kosovo, con
decine di migliaia di profughi provenienti dall’area balcanica che premevano alle
frontiere europee46. Gli Stati membri decisero quindi, durante il summit di Vienna
del dicembre 1998, di convocare una riunione straordinaria del Consiglio europeo,
43
Il concetto è stato elaborato durante il Consiglio dei ministri dell’Immigrazione, tenutosi a
Londra dal 30 novembre al 1° dicembre 1992 ed è stato formalizzato nella Conclusione “Sui Paesi
dove non vi è generalmente un grave rischio di persecuzione”. V. SONNINO S., MASIELLO S.,
Politiche europee sull’asilo e i rifugiati, in Gli stranieri. Rassegna di studi, giurisprudenza e
legislazione, n. 2, marzo-aprile 2005, p. 21.
44
Trattato di Amsterdam, Protocollo n. 24 sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione
europea.
45
La ratio del Protocollo va ricerca nell’esigenza di impedire che alcuni presunti terroristi
dell’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, organizzazione indipendentista basca), che avevano inoltrato
richiesta d’asilo in Belgio e in Francia, si servissero di questo strumento di protezione per sfuggire
alla giustizia spagnola. Cfr. Parlamento europeo, Risoluzione sulla ricevibilità da parte del
commissario generale belga per i profughi e gli apolidi della domanda di asilo di due presunti
membri della banda terroristica ETA, GU n. C 20 del 24 gennaio 1994.
46
Per un’analisi dell’emergenza kosovara si veda il documento dell’ECRE “Kosovo
refugees.Protection, reception conditions and return policies in some european country”, 31
agosto 1999, disponibile sul sito ufficiale del Consiglio europeo per i rifugiati, www.ecre.org.
95
al fine di giungere ad una definizione delle prospettive circa il futuro della politica
europea in materia.
I Capi di Stato e di Governo si riunirono a Tampere, in Finlandia, il 15 e 16
ottobre 1999 e affermarono alcuni importanti principi per il rafforzamento e la
concreta attuazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (i c.d.
capisaldi di Tampere). In particolare, si asserì che i vantaggi derivanti dalla libera
circolazione delle persone non avrebbero dovuto essere appannaggio esclusivo dei
cittadini comunitari, ma “sarebbe contrario alle tradizioni europee negare tale
libertà a coloro che sono stati legittimamente indotti dalle circostanze a cercare
accesso nel nostro territorio. Ciò richiede a sua volta che l’Unione elabori
politiche comuni in materia di asilo e immigrazione, considerando nel contempo
l’esigenza di un controllo coerente alle frontiere esterne per arrestare
l’immigrazione clandestina e combattere coloro che la organizzano […].
L’obiettivo è un’Unione europea aperta, sicura, pienamente impegnata a rispettare
gli obblighi della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e di altri
importanti strumenti internazionali per i diritti dell’uomo”47.
Tampere segna un punto di svolta per le politiche d’asilo in Europa. Si
affermò l’importanza sostanziale dello sviluppo di forme di cooperazione con gli
Stati terzi che consentissero loro un miglioramento delle condizioni di vita e un
più elevato rispetto dei diritti umani fondamentali, al fine di limitare all’origine le
principali cause dei flussi di sfollati e rifugiati48. Venne elaborato un Programma
che indicava le azioni che le Istituzioni europee e gli Stati membri avrebbero
dovuto implementare per la creazione di un regime comune in materia di asilo,
basato sulla piena applicazione dei principi affermati nella Convenzione di
Ginevra, primo fra tutti il non-refoulement. Il piano per la realizzazione di tale
regime consisteva nell’istituzione di una procedura comune in materia di asilo e di
uno status uniforme, validi nel territorio dell’intera Unione, e si suddivideva in
due fasi:
•
una prima fase, di breve periodo, si prefissava di armonizzare gli ordinamenti
giuridici nazionali mediante l’adozione di norme minime che garantissero
47
Consiglio europeo di Tampere, Conclusioni della presidenza, sez. Verso un’Unione di libertà,
sicurezza e giustizia: i capisaldi di Tampere, n. 3-4. Il testo completo è reperibile all’indirizzo
www.europarl.europa.eu/summits/tam_it.htm.
48
Consiglio europeo di Tampere, Conclusioni della presidenza, sez. A. Politica comune dell’UE in
materia di asilo e immigrazione, n. 11.
96
imparzialità, efficienza e trasparenza. I quattro nodi fondamentali erano: la
determinazione dello Stato responsabile per l’esame della domanda di asilo,
l’elaborazione di norme minime riguardanti le procedure di riconoscimento,
condizioni comuni per l’accoglienza dei richiedenti asilo, la qualifica e il
contenuto dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria49;
•
una seconda fase, nel lungo periodo, con l’obiettivo dell’effettiva creazione di
una procedura comune in materia d’asilo e uno status uniforme per coloro che
hanno ottenuto l’asilo o la protezione sussidiaria50.
Il Consiglio raccomandava inoltre, quale corollario di tale politica comune, la
rapida implementazione di un sistema unico a livello europeo per l’identificazione
dei richiedenti asilo (EURODAC)51.
Dopo questa breve fase di slancio, il mutamento del clima e delle relazioni
internazionali in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001,
influenzarono anche le politiche europee in tema di immigrazione e soprattutto di
controlli alle frontiere esterne. Nei successivi vertici di Laeken del 2001, di
Siviglia del 2002 e di Salonicco del 2003 si posero al centro del dibattito il
controllo dell’immigrazione clandestina e la prevenzione dei movimenti irregolari
nell’Unione europea, al fine di contrastare il rischio rappresentato dal terrorismo
internazionale. In questo modo, nonostante la riaffermata esigenza di un’adeguata
tutela dei richiedenti asilo e dei rifugiati a livello comunitario, il controllo delle
frontiere, come presupposto della sicurezza interna degli Stati membri, si
tramutava spesso in un vera e propria barriera all’ingresso dei richiedenti asilo.
Come sottolineato dall’ECRE: “l’accesso al territorio dell’Unione è il nucleo della
protezione dei rifugiati, e senza la possibilità di accesso al territorio, il diritto di
chiedere asilo è privo di significato”52.
49
Ai fini dell’adozione delle misure prospettate, nella Conclusione n. 14 “il Consiglio europeo fa
presente quanto sia importante la consultazione dell’UNHCR e di altre organizzazioni
internazionali”.
50
V. NASCIMBENE B., Il futuro della politica europea di asilo, cit., p. 4.
51
Consiglio europeo di Tampere, Conclusioni della presidenza, sez. A, n. 17.
52
L’ECRE (European Council on refugees and Exiles), network di organizzazioni non governative
impegnate nel promuovere la protezione e l’assistenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, ha
sottolineato inoltre come lo sviluppo della c.d. Fortress Europe, ha provocato un incremento degli
ingressi illegali, tramite anche l’affidamento a reti criminali, e l’aumento del numero dei morti
sulle coste europee, oltre all’emersione di nuove forme di schiavitù e sfruttamento. V. ECRE,
Evaluation on the asylum system in the EU, Siviglia, 2000, reperibile sul sito ufficiale
dell’organizzazione www.ecre.org.
97
Inoltre, l’allargamento dell’Unione europea a dieci nuovi Stati membri53,
avvenuto nel 2004, pose le istituzioni europee di fronte a nuove sfide, in
particolare per quanto concerne il controllo delle frontiere. Come sottolineato
anche dall’UNHCR54, l’ingresso dei nuovi Stati avrebbe potuto modificare gli
assetti delle richieste d’asilo, portando ad un aumento delle stesse negli Stati che
avrebbero costituito i nuovi confini esterni. La politica in materia d’asilo
richiedeva pertanto nuove soluzioni, anche dal punto di vista legislativo.
Con il fine fondamentale di predisporre le riforme istituzionali necessarie per
garantire il buon funzionamento delle istituzioni europee, una volta effettuato
l’allargamento a 25 stati membri, venne firmato il 26 febbraio 2001 il Trattato di
Nizza, entrato in vigore il 1° febbraio 2003. Il Trattato modificò solo in minima
parte le disposizioni in materia d’asilo previste dal Trattato di Amsterdam. La
principale innovazione consiste nel contemplare per la tematica dei visti,
dell’asilo e delle altre politiche collegate alla libera circolazione delle persone
(Titolo IV TCE), il passaggio, anche se parziale e differito, dal criterio
dell’unanimità a quello della maggioranza qualificata per l’adozione delle misure
in merito a determinati aspetti della materia55.
Tra il 4 e il 5 novembre 2004, il Consiglio europeo, riunitosi a Bruxelles,
approvò così il c.d. Programma dell’Aia56, successivamente affiancato dal Piano
53
Con delibera del 13 dicembre 2002, il Consiglio dell’Unione europea approva l’adesione di
Cipro, Malta, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e
Slovenia. Il Trattato di adesione sarà firmato il 16 aprile 2003 ad Atene.
54
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Ruud Lubbers, rivolgendosi ai ministri
degli Stati membri ha affermato che “se non si è attenti, si rischia di sopraffare i sistemi di asilo
fragili e con risorse insufficienti dei nuovi Stati membri dell’Unione europea”. Il comunicato
stampa è disponibile all’indirizzo www.unhcr.it/news/print/456/27/unhcr-nuovo-problemasullasilo-nellue-allargata.html.
55
Dichiarazione relativa all’articolo 67 del trattato che istituisce la Comunità europea allegata al
Trattato di Nizza. “Le Alte Parti Contraenti esprimono il loro accordo affinché il Consiglio, nella
decisione che deve adottare in virtù dell'articolo 67, paragrafo 2, secondo trattino: – stabilisca di
deliberare, a decorrere dal 1o maggio 2004, secondo la procedura di cui all'articolo 251 per
adottare le misure previste all'articolo 62, punto 3) e all'articolo 63, punto 3), lettera b); – stabilisca
di deliberare secondo la procedura di cui all'articolo 251 per adottare le misure previste all'articolo
62, punto 2), lettera a), a decorrere dalla data in cui sia conseguito un accordo sul campo di
applicazione delle misure relative all'attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri da
parte delle persone. Il Consiglio si adopererà inoltre per rendere la procedura di cui all'articolo 251
applicabile, dal 1° maggio 2004 o al più presto dopo tale data, agli altri settori previsti dal titolo IV
o ad alcuni di essi”. Il testo integrale del Trattato di Nizza è reperibile all’indirizzo
www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/it_nice.pdf.
56
Consiglio europeo, Programma dell’Aia: rafforzamento della libertà, della sicurezza e della
giustizia nell’Unione europea, GU C 53/1 del 3 marzo 2005. Il testo è disponibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2005:053:0001:0014:IT:PDF
98
d’azione57 predisposto con l’ausilio della Commissione, con l’obiettivo di stabilire
il quadro generale della politica in materia di asilo e immigrazione per il
quinquennio 2005-2010. Il documento conteneva l’elenco delle priorità dirette a
consolidare lo spazio di libertà sicurezza e giustizia, tra cui vi era l’espresso
impegno a sviluppare ulteriormente il Sistema europeo comune d’asilo, attraverso
la modifica del quadro normativo e il rafforzamento della cooperazione, e a
instaurare uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto l’asilo e la
protezione sussidiaria58. Al fine di facilitare la cooperazione fattiva e concreta, il
Programma prevedeva l’istituzione di strutture appropriate per il coinvolgimento
dei servizi nazionali competenti in materia d’asilo, oltre che un ausilio agli Stati
per l’introduzione di una procedura unica di valutazione delle domande di
protezione internazionale. Una volta istituita una procedura comune in materia
d’asilo, era prevista la trasformazione delle strutture esistenti in un Ufficio
europeo, incaricato di fornire sostegno a ogni forma di cooperazione tra gli Stati
membri riguardante il regime europeo comune d’asilo.
Tra il 1999 e il 2005, gli strumenti adottati per la protezione dei rifugiati sono
stati molteplici:
• quattro direttive: la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea, la
direttiva 2003/9/CE sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, la
direttiva 2004/83/CE sulla qualifica di rifugiato o di persona altrimenti
bisognosa di protezione internazionale, la direttiva 2005/85/CE sulle
procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato. A queste si aggiunge
inoltre la direttiva 2003/86/CE sul diritto al ricongiungimento familiare.
•
quattro regolamenti che compongono il c.d. Sistema Dublino: il regolamento
CE 343/2003 (c.d. Dublino II), il regolamento CE 2725/2000 (istitutivo del
sistema EURODAC) e i rispettivi regolamenti di applicazione (regolamenti
CE 407/2002 e 1560/2003)59.
Si è così ultimata la “prima fase” della creazione del Sistema europeo comune
di asilo, il cui obiettivo, come in precedenza detto, era quello dell’armonizzazione
57
Piano d’azione del Consiglio e della Commissione sull’attuazione del Programma dell’Aia
inteso a rafforzare la libertà, la sicurezza e la giustizia dell’Unione europea, GU C 198 del 12
agosto 2005, p. 1-22. Il documento è reperibile al seguente indirizzo:
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:52005XG0812(01):IT:NOT.
58
V. SATVINDER S. J., The decline and decay of european refugee policy, in Oxford Journal of
Legal Studies, vol. 25, issue 4, 2005, p. 765.
99
sostanziale e procedurale degli ordinamenti nazionali, mediante la fissazione di
norme minime comuni e con l’obbligo per gli Stati di adeguare i propri
ordinamenti.
La Commissione, nella comunicazione “relativa alla politica comune in
materia di asilo e all’Agenda per la protezione”60 ha compiuto le prime riflessioni
in merito all’attuazione di questa prima fase, evidenziando il basso livello delle
norme concordate e il conseguente ridimensionamento degli effetti utili
dell’armonizzazione. Tale risultato è però considerato il “prezzo da pagare”
all’adozione all’unanimità degli strumenti comunitari in questo settore e alla
scarsa disponibilità degli Stati membri a limitare le proprie competenze e
valutazioni in una materia così sensibile (e tradizionalmente rientrate nella
sovranità statale), quale è la politica d’asilo61.
2.1 La seconda fase della politica in materia d’asilo: il Trattato di Lisbona e il
Programma di Stoccolma
Firmato il 13 dicembre 2007 dai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri
dell’Unione europea, il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il 1° dicembre
2009, con il fine “di completare il processo avviato dal Trattato di Amsterdam e
dal Trattato di Nizza al fine di rafforzare l’efficienza e la legittimità democratica
dell’Unione nonché di migliorare la coerenza della sua azione”62. In sostanza, il
nuovo Trattato ha comportato una “successione” dell’Unione europea alla
Comunità europea ed una revisione del TUE e del Trattato CE, la cui
denominazione è mutata in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea63.
Tra i numerosi emendamenti apportati ai previgenti Trattati, diversi hanno
interessato la materia dell’asilo. Nel nuovo Titolo V del Trattato sul
59
Tali norme saranno esaminate nel dettaglio nel terzo paragrafo, ove si analizzerà la legislazione
in vigore nell’Unione.
60
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo relativa alla politica
comune in materia d’asilo e all’Agenda per la protezione. COM(2003)152 del 26 marzo 2003,
consultabile sul sito
www.eurlex.europa.eu/smartapi/cgi/sga_doc?smartapi!celexplus!prod!DocNumber&lg=it&type_d
oc=COMfinal&an_doc=2003&nu_doc=152.
61
NASCIMBENE B., Il futuro della politica europea di asilo, cit., p. 4.
62
Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la
Comunità europea, Gazzetta Ufficiale n. C 306 del 17 dicembre 2007. Il testo integrale del
Trattato è reperibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/12007L/htm/12007L.html.
63
V. TESAURO G., Diritto dell’Unione europea, CEDAM, Padova, 2010, p. 17.
100
funzionamento dell’Unione europea (TFUE, che sostituisce il Trattato CE)64,
intitolato “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, non è più prevista l’adozione di
“misure” serventi rispetto alla creazione di uno spazio interno senza frontiere (art.
61 TCE), ma lo sviluppo, da parte dell’Unione, di “una politica comune in materia
di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà
fra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi” (art. 67 TFUE).
Si tratta della maggiore differenza della nuova base giuridica rispetto alla
precedente, frutto della codificazione di quanto affermato dal Consiglio europeo
da Tampere in poi.
In particolare per quanto riguarda i rifugiati, l’art. 78 TFUE (che sostituisce
l’art. 63 TCE), al primo paragrafo, afferma che: “l’Unione sviluppa una politica
comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea,
volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che
necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non
respingimento”, in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al
Protocollo del 1967, relativi allo status dei rifugiati. Rilevante è la modifica
dell’espressione che introduce l’elenco delle misure da adottare in materia d’asilo,
contenute nel secondo paragrafo del medesimo articolo: le parole “nelle seguenti
materie”, indicanti un elenco di competenze da considerarsi esaustivo, sono
sostituite dall’espressione “che includa”, come premessa di un’indicazione non
esaustiva, che fornisce la base giuridica per qualsiasi misura destinata alla
realizzazione di un’effettiva politica europea comune in materia d’asilo.
Nel Trattato si sottolinea inoltre l’esigenza che l’applicazione delle norme
comunitarie in materia d’asilo avvenga nel rispetto dei diritti fondamentali. La
norma di apertura del Titolo V, pone infatti l’accento sull’obbligo dell’Unione di
realizzare lo “spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti
fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni
giuridiche degli Stati membri”. Tale vincolo è ulteriormente rafforzato dal
riconoscimento, anche formale, del valore vincolante della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza nel 200065: ai sensi
64
Versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, Gazzetta Ufficiale
dell’Unione europea n. C 115/47 del 9 maggio 2008. Il testo è consultabile sul sito
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2008:115:0058:0199:it:PDF.
65
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Gazzetta Ufficiale n. C 346/1 del 18
dicembre 2000. Il testo è consultabile all’indirizzo www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf.
101
dell’art. 6 TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona, la Carta ha infatti lo
stesso valore giuridico dei Trattati.
La Carta di Nizza è il risultato di una procedura originale, senza precedenti
nella storia dell’Unione europea66, e costituisce la prima enunciazione ufficiale
del patrimonio spirituale e morale dell’Unione, basato sui fondamentali valori
dell’uguaglianza, della libertà, della dignità umana, della solidarietà e dello stato
di diritto. L’art. 18 sancisce il diritto d’asilo, sopperendo così alla mancato
inserimento di quest’ultimo nel testo della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo. Nonostante la novità della previsione, la norma non contiene una
definizione della posizione soggettiva tutelata, ma si limita a richiamare la
definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra67. Nel successivo
art. 19 vengono sanciti sia il divieto di espulsioni collettive, sia il divieto di
allontanamento, estradizione o espulsione di un individuo verso paesi in cui esiste
un serio rischio che quest’ultimo sia sottoposto alla pena di morte o ad altre pene
o trattamenti inumani o degradanti. Occorre sottolineare che, come più volte
66
Per un’analisi approfondita del processo redazionale della Carta di Nizza si veda GARABELLO
R., La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in PINESCHI L., La tutela
internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie e prassi, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 548.
67
L’art. 18 dispone infatti: “Il diritto d’asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla
Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo
status dei rifugiati, e a norma del Trattato che istituisce la Comunità europea. Come sostenuto da
BRUNELLI G., “il richiamo alla Convenzione di Ginevra, […] sembra indicare che un accordo sia
stato raggiunto, in sede di elaborazione e adozione della Carta, soltanto su uno standard minimo di
tutela, cioè sulla specificazione del genus diritto d’asilo contenuta nella Convenzione: un diritto
d’asilo particolare, cui corrisponde uno statuto disciplinato da norme internazionali e da norme
interne dei diversi Stati”. V. BRUNELLI G., L’art. 18. Diritto d’asilo, in BIFULCO R.,
CARTABIA M., CELOTTO A., (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, il Mulino, Bologna, 2001, p. 154. Merita tuttavia una
menzione il recente intervento dell’UNHCR davanti alla Corte di Giustizia UE nella causa Halaf
(c-528/11, decisa con sentenza il 30 maggio 2013), avente ad oggetto la domanda di rinvio
pregiudiziale ex art. 267 TFUE, proposta alla Corte dall’Administrativen sad Sofia-grad (Bulgaria)
circa il contenuto del diritto d’asilo ai sensi dell’art. 18 della Carta. A parere dell’UNHCR, sulla
base dei trattati e della normativa secondaria che attualmente compone il Sistema europeo comune
d’asilo, il diritto d’asilo di cui all’art. 18 della Carta, contiente i seguenti elementi: “(i) protection
from refoulement, including non-rejection at the frontier; (ii) access to territories for the purpose
of admission to fair and effective processes for determining status and international protection
needs; (iii) assessment of an asylum claim in fair and efficient asylum processes […]and an
effective remedy […]in the receiving state; (iv) access to UNHCR (or its partner organizations);
and (v) treatment in accordance with adequate reception conditions; (vi) the grant of refugee or
subsidiary protection status when the criteria are met; (vii) ensuring refugees and asylum-seekers
the exercise of fundamental rights and freedoma; and (viii) the attainment of a secure status”. V.
UNHCR, UNHCR Statement on the right to asylum, UNHCR’s supervisory responsability and the
duty of States to cooperate with UNHCR in the exercise of its supervisory responsibility. Issued in
the context of a reference for a preliminary ruling addressed to Court of Justice of the European
Union by the Administrative Court of Sofia lodged on 18 October 2011 – Zuheyr Freyeh Halaf v.
the Bulgarian State Agency for Refugees (C-528/11), disponibile all’indirizzo
www.refworld.org/pdfid/5017fc202.pdf.
102
ribadito anche dalla Corte di Giustizia, i diritti sanciti dalla Carta devono essere
garantiti a tutte gli individui presenti nel territorio dell’Unione, siano essi cittadini
comunitari o provenienti da paesi terzi e ivi residenti regolarmente o
irregolarmente. Questi ultimi possono quindi invocarli come parametro di
legittimità degli atti comunitari e i giudici nazionali potranno farvi riferimento nel
riconoscere ai singoli diritti previsti dalle norme dell’Unione.
Al fine di sviluppare la politica comune in materia d’asilo, espressamente
affermata ora anche dal TFUE, e di rilanciare l’approccio globale in materia
contemplato dal Programma dell’Aia, sono stati adottati dalla Commissione, il 17
giugno 2008, la Comunicazione e il Piano strategico sull’asilo, documenti alla
base del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. Nella Comunicazione “una
politica d’immigrazione comune per l’Europa: principi azioni e strumenti”68 sono
affermati i principi alla base della politica dell’immigrazione, suddivisi in tre aree:
prosperità, solidarietà e sicurezza. Il Piano strategico sull’asilo69 traccia invece
una “road-map” per il completamento della seconda fase del Sistema europeo
comune di asilo, indicando le misure necessarie al fine di perseguire gli obiettivi
fissati all’Aia. Tra queste si ricordano il rinnovato sostegno alla proposta di
creazione di un Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, come supporto alla
cooperazione pratica tra gli Stati, e la volontà di adottare “una serie di meccanismi
di solidarietà” per risolvere i problemi dei paesi che per varie ragioni, tra cui la
loro posizione geografica, subiscono maggiormente le pressioni dei flussi di
richiedenti asilo.
Come accennato, alla luce di questi due documenti, durante il Consiglio
europeo di Bruxelles del 17-18 ottobre 2008, venne proposta dalla presidenza di
turno francese, l’adozione di un Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo70,
68
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico
e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 17 giugno 2008 – Una politica d’immigrazione
comune per l’Europa: principi, azioni e strumenti, COM(2008) 359, non pubblicata sulla G.U. Il
testo è comunque disponibile al seguente indirizzo:
www.europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asyl
um_immigration/jl0001_it.htm.
69
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico
e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 17 giugno 2008 – Piano strategico sull’asilo: un
approccio integrato in materia di protezione nell’UE, COM(2008) 360, non pubblicata sulla G.U.,
www.europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asyl
um_immigration/jl0002_it.htm.
70
Consiglio europeo, Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo del 24 settembre 2008, approvato
il 16 ottobre 2008, doc. 13440/08. Il testo non è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale ma è
reperibile all’indirizzo:
103
approvato dai Capi di Stato e di Governo di tutti i 27 Stati membri. Il documento
non introduce nessuna novità rilevante, la sua importanza risiede nell’essere un
nuovo impegno unanime, anche se non vincolante, per “il fondamento di una
politica comune dell’immigrazione e dell’asilo, ispirata a uno spirito di solidarietà
tra gli Stati membri e di cooperazione con i paesi terzi”71. Il Consiglio assume
pertanto cinque impegni fondamentali la cui concretizzazione sarà proseguita nel
nuovo programma che farà da seguito a quello dell’Aia: 1. la gestione
dell’immigrazione legale, allo scopo di favorirne l’integrazione; 2. la lotta
all’immigrazione clandestina, garantendo il rimpatrio di coloro che si trovano in
posizione irregolare; 3. Il rafforzamento dell’efficacia dei controlli alle frontiere
esterne; 4. la costituzione di “un’Europa dell’asilo”; 5. l’implementazione di una
partnership con i paesi di provenienza e di transito, al fine di incoraggiare la
sinergia tra migrazione e sviluppo.
Al Patto è seguito il nuovo piano politico-strategico dell’Unione europea per
lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014, il c.d.
Programma di Stoccolma72, adottato dal Consiglio europeo del 10-11 dicembre
2009. Il nuovo programma, alla luce dei risultati conseguiti dai Programmi di
Tampere e dell’Aia, si pone l’obiettivo generale di sviluppare una politica
migratoria “lungimirante e articolata, fondata sulla solidarietà e la responsabilità”,
individuando le priorità per il rafforzamento dello spazio di libertà, sicurezza e
giustizia.
Per quanto concerne nello specifico la materia dell’asilo, il Sistema comune
europeo di asilo, che resta un “obiettivo politico chiave”, dovrebbe prevedere
elevati standard di protezione e procedure eque ed efficaci che permettano di
prevenire eventuali abusi. È inoltre essenziale che ai richiedenti asilo,
indipendentemente dal paese di inoltro della domanda di protezione, “sia riservato
un trattamento di livello equivalente quanto a condizioni di accoglienza, e di pari
livello per quanto riguarda le disposizioni procedurali e la determinazione dello
www.register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=IT&t=PDF&gc=true&sc=false&f=ST%2013440%20
2008%20INIT&r=http%3A%2F%2Fregister.consilium.europa.eu%2Fpd%2Fit%2F08%2Fst13%2
Fst13440.it08.pdf.
71
Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Bruxelles, 15 e 16 ottobre 2008, doc.
14368/08,
punti
19-20.
Il
testo
integrale
è
consultabile
all’indirizzo
www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/103439.pdf.
72
Programma di Stoccolma – Un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini, GUUE
n. C 115 del 4 maggio 2010.
104
status”. L’obiettivo da raggiungere è quello del medesimo trattamento dei casi
analoghi, per ottenere lo stesso risultato al termine delle procedure di esame73.
Partendo inoltre dal presupposto che il grado di armonizzazione raggiunto non
è ancora soddisfacente, nel Programma viene ripetuto l’intento di giungere, entro
il 2012, “ad una procedura comune in materia di asilo” e “ ad uno status uniforme
per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale”. A tal fine viene
riaffermata come necessaria la creazione dell’Ufficio europeo di sostegno per
l’asilo (European Asylum Support Office – EASO)74 che, oltre a rafforzare la
cooperazione tra gli Stati membri, dovrebbe sviluppare una “piattaforma
educativa comune” per gli operatori nazionali che si occupano di asilo (c.d.
curriculum europeo di asilo – EAC). Come precisato nel punto 6.2.1 del
Programma, regole comuni, elaborate in ossequio ai principi affermati dalla
Convenzione di Ginevra e dal Protocollo del 1967 e applicate scrupolosamente,
dovrebbero “prevenire o ridurre i movimenti secondari all’interno dell’Unione
europea ed accrescere la fiducia reciproca fra gli Stati membri”.
Nei successivi punti 6.2.2, intitolato “Condivisione delle responsabilità e
solidarietà tra gli Stati membri” e 6.2.3, inerente alla dimensione esterna
dell’asilo, vengono fissati due principi cardine per il futuro della politica europea
in materia. In primis, si afferma l’esigenza di un’effettiva solidarietà con i paesi
sottoposti a maggiori richieste di protezione, mediante lo sviluppo di “meccanismi
di condivisione volontaria e coordinata delle responsabilità tra Stati membri”. A
tal fine sarà necessario non solo lo sviluppo reciproco delle capacità dei vari
sistemi di asilo nazionali, ma anche un più efficace utilizzo degli strumenti
finanziari dell’Unione.
In secondo luogo, viene sottolineata l’importanza della cooperazione e del
partenariato con i paesi terzi che accolgono flussi massicci di rifugiati. Una
politica comune in questo settore, con il contributo dell’UNHCR e il
coinvolgimento dell’EASO, porterebbe ad una gestione più efficiente delle
73
Per aumentare l’omogeneità dei giudizi, tutti gli agenti investiti del compito di esaminare le
domande di asilo nei diversi Stati membri, dovranno seguire schemi formativi comuni e accedere
alle medesime informazioni sui paesi di origine dei richiedenti (Country of Origin Information –
COI). V. ROSSI E., VITALI L., op.cit., p. 127.
74
Il 19 maggio 2010, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno approvato il regolamento
439/2010 che istituisce l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo “al fine di intensificare il
coordinamento della cooperazione operativa fra gli Stati membri, in modo da attuare
efficacemente le norme comuni”. Il testo del regolamento è disponibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32010R0439:IT:NOT.
105
situazioni in cui la condizione di rifugiato si prolunga nel tempo. In tal senso, il
Programma invita a promuovere lo sviluppo della capacità dei paesi terzi di
fornire effettiva protezione a rifugiati e richiedenti asilo, nonché incoraggia la
partecipazione volontaria degli Stati membri ai programmi europei di
reinsediamento. Occorre infine sottolineare che, tra gli obiettivi dichiarati nel
Programma di Stoccolma, vi è anche l’adesione dell’Unione alla Convenzione di
Ginevra del 1951 e al Protocollo del 1967, reso possibile dalle previsioni del
Trattato di Lisbona che conferiscono all’Unione personalità giuridica propria75.
Al fine di trasformare le priorità politiche stabilite dal Programma di
Stoccolma, in azioni e risultati concreti, la Commissione ha presentato un Piano
d’azione76 nell’aprile 2010. In attuazione di quanto previsto dal Programma e dal
predetto Piano di attuazione, e a conclusione della seconda fase della creazione
del Sistema europeo comune d’asilo, tra il 2010 e il 2013, sono stati approvati una
serie di provvedimenti destinati a riformare l’intera disciplina: il nuovo
regolamento Dublino, c.d. Dublino III (regolamento UE n. 604 del 26 giugno
2013, entrato in vigore, 1° gennaio 2014), la nuova direttiva qualifiche (direttiva
2011/95/UE del 13 dicembre 2011), la nuova direttiva procedure (direttiva
2013/32/UE del 26 giugno 2013) e la nuova direttiva accoglienza (direttiva
2013/33/UE del 26 giugno 2013). Completano il quadro della disciplina: il nuovo
regolamento EURODAC per il confronto delle impronte digitali al fine
dell’applicazione del regolamento Dublino III (regolamento UE n. 603/2013 del
26 giugno 2013) e il regolamento EASO, istitutivo dell’Ufficio europeo di
sostegno per l’asilo (regolamento UE n. 439/2010 del 19 maggio 2010)77.
75
L’art. 47 del TUE riconosce espressamente la personalità giuridica dell’Unione europea.
L’attribuzione della personalità giuridica implica il riconoscere all’Unione la capacità di negoziare
e concludere accordi internazionali nel rispetto delle sue competenze esterne, di aderire alle
convenzioni internazionali (come ad esempio la Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) e di divenire membro di un organismo
internazionale.
76
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico
e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 20 aprile 2010 - Creare uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia per i cittadini europei - Piano d'azione per l'attuazione del programma di
Stoccolma, COM(2010) 171. La Comunicazione non è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale,
ma è reperibile all’indirizzo
www.europa.eu/legislation_summaries/human_rights/fundamental_rights_within_european_union
/jl0036_it.htm.
77
Per una puntuale analisi della normativa, si veda infra, par. 3.
106
3. L’acquis comunitario sull’asilo
Dopo aver descritto l’evoluzione delle politiche, della Comunità prima e
dell’Unione europea poi, in materia di asilo e di protezione dei rifugiati, occorre
ora analizzare la normativa costituente il c.d. acquis comunitario78 sull’asilo, alla
luce delle recenti innovazioni normative introdotte a conclusione della seconda
fase di elaborazione del Sistema europeo comune d’asilo.
Come affermato dal vicepresidente della Commissione, Jacques Barrot, in una
lettera datata 15 luglio 2009, in relazione al caso Hirsi79, “the Community acquis
in the field of asylum is intended to safeguard the right of asylum, as set forth in
Article 18 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union, and in
accordance with the 1951 Geneva Convention relating to the Status of Refugees
and with other relevant treaties”.
3.1 La protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di profughi prevista
dalla direttiva 2001/55/CE
La direttiva sulle norme minime per la concessione della protezione
temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione
dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e
subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi80, del 20 luglio 2001, è
78
L’acquis comunitario (dalla locuzione francese “[droit]acquis communautaire” ossia “[diritto]
acquisito comunitario) è l’insieme dei diritti, degli obblighi, dei principi e dei valori che i paesi
membri dell’UE hanno deliberatamente scelto di condividere. Corrisponde pertanto ad una
piattaforma comune di diritti e di obblighi, vincolanti per tutti gli Stati membri ed in continua
evoluzione. In concreto, l’acquis comunitario è costituito dai principi e dagli obiettivi espressi nei
trattati istitutivi, dalla legislazione adottata in applicazione di questi ultimi, dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia, dalle conclusioni e dalle risoluzioni adottate nel contesto dell’Unione,
dagli accordi internazionali stipulati dall’Unione e da quelli conclusi dagli Stati membri tra essi
nelle materie rientranti nella competenza comunitaria. Comprende inoltre, le iniziative intraprese
dai governi dell’UE nei settori “politica estera e di sicurezza comune” e “giustizia e affari interni”.
L’acquis deve essere integralmente accettato dai paesi che si candidano all’ingresso nell’Unione,
mediante la sua recezione negli ordinamenti giuridici nazionali. V. AJANI G., Acquis comunitario,
in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile. Aggiornamento, IV ed., 2010, p. 1.
79
Corte EDU, sent. 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ric. 27765/09. Si veda supra
capitolo II, par. 4.1.
80
Direttiva 2001/55/CE del Consiglio, Gazzetta Ufficiale L 212/12, del 7 agosto 2001. Il termine
stabilito per la trasposizione negli ordinamenti giuridici nazionali era il 31 dicembre 2002. L’Italia
ha dato attuazione alla direttiva solo con il d. lgs. 7 aprile 2003, n. 85, Gazzetta Ufficiale n. 93 del
22 aprile 2003. A norma dell’art. 3 del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda
allegato al TUE e al TFUE, la Gran Bretagna ha notificato la volontà di aderire e di applicare la
direttiva. Al contrario, le disposizioni della presente direttiva, fatto salvo l’art. 4 di detto
protocollo, non si applicano all’Irlanda. Ai sensi del protocollo sulla posizione della Danimarca
allegato al TUE e al TFUE, la Danimarca non è vincolata dalla direttiva.
107
stato uno dei primi atti normativi adottati dall’Unione europea in materia d’asilo.
A differenza delle altre disposizioni normative, la sua adozione non fu
problematica, sia perché le legislazioni nazionali degli Stati membri prevedevano
misure dirette a regolare il fenomeno degli sfollati che non potevano fare ritorno
nel proprio paese d’origine, sia perché lo strumento si proponeva come soluzione
ad un problema particolarmente attuale all’epoca, l’arrivo di migliaia di profughi
provenienti dal Kosovo.
La protezione temporanea consiste in una procedura a carattere eccezionale
che conferisce una tutela immediata e transitoria alle persone sfollate, nelle
situazioni in cui, a causa delle condizioni di emergenza, l’efficacia del sistema di
asilo potrebbe essere compromessa81 e occorre provvedere ad una forma di
soccorso generalizzato, al fine di garantire i bisogni essenziali delle persone.
L’ambito di applicazione ratione personae è ristretto: deve trattarsi di cittadini di
paesi terzi o apolidi che hanno dovuto abbandonare il loro paese d’origine o sono
stati evacuati e che non possono farvi ritorno in condizioni sicure a causa della
situazione nel Paese medesimo. Le ragioni alla base della fuga possono essere
varie anche se l’art. 2, lettera c), prende in considerazione in particolare le persone
fuggite da conflitti armati o situazioni di violenza endemica, e coloro che siano
soggetti a un grave rischio di violenze sistematiche o generalizzate dei diritti
umani, o che ne siano già state vittima82.
Il ricorso alla protezione temporanea si giustifica a causa dell’elevato numero di
persone coinvolte (“afflusso massiccio di sfollati”), che non renderebbe possibile
81
Il richiamo, tra i criteri che possono giustificare il riconoscimento della protezione temporanea,
al “rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli
per il suo corretto funzionamento”, può far sorgere un dubbio interpretativo in relazione all’istituto
dell’asilo. Come osservato da ADINOLFI A., tuttavia, “tale criterio non dovrebbe portare ad
intendere la protezione temporanea come una forma di tutela alternativa rispetto al sistema
dell’asilo nelle ipotesi in cui quest’ultimo non sia in grado di funzionare; essa deve piuttosto essere
intesa come una forma di tutela di emergenza da utilizzare, qualora lo straniero presenti domanda
di riconoscimento dello status di rifugiato, anche nel periodo di espletamento della relativa
procedura”. V. ADINOLFI A., Riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione
sussidiaria: verso un sistema comune europeo?, in Rivista di diritto internazionale, n. 3/2009, p.
683-684.
82
Nonostante non vi sia nessuna indicazione in proposito, nella nozione di sfollati di cui all’art. 2,
lett. c) è possibile includere anche coloro che abbandonano il loro paese o la loro regione d’origine
a seguito di calamità naturali. Come sottolineato da FAVILLI C., “si tratta di situazioni nelle quali
un elevato numero di persone necessita di accoglienza per una durata temporanea. Tuttavia nelle
più recenti situazioni di accoglienza generate da catastrofi naturali il meccanismo della protezione
temporanea non è stato utilizzato”. La prassi è quindi costante nell’escludere questa forma di
protezione ai c.d. sfollati ambientali. V. FAVILLI C., La protezione internazionale
nell’ordinamento dell’Unione europea, in FAVILLI C. (a cura di), Procedure e garanzie del
diritto d’asilo, CEDAM, Padova, 2011, p. 128.
108
l’esame individuale necessario per il riconoscimento del diritto d’asilo. Il concetto
di “afflusso massiccio” non viene tuttavia specificato nel testo delle direttiva in
esame. L’art. 2, lett. d) si riferisce genericamente ad “un numero considerevole di
sfollati, provenienti da un paese determinato o da una zona geografica
determinata”. L’esistenza di quest’ultimo e della conseguente necessità della
forma di protezione in esame, è determinata con una decisione dal Consiglio a
maggioranza qualificata, su proposta della Commisione e comunicata al
Parlamento europeo. Come stabilito dall’art. 3, par. 4, l’applicazione della
procedura è inoltre oggetto di consultazione con l’UNHCR e con altre
organizzazioni internazionali competenti.
La durata della protezione è di un anno, rinnovabile di sei mesi in sei mesi
(fino ad un totale di due anni), se le condizioni nel paese di origine non sono
migliorate. La breve durata della tutela è connessa alla presunta durata limitata
della situazione di emergenza nel paese di provenienza, terminata la quale gli
sfollati devono fare ritorno. Ne consegue che, se la situazione migliora prima
dello scadere dell’anno solare, la protezione sarà anticipatamente revocata.
Nell’ipotesi opposta, ossia nel caso in cui allo scadere della durata massima della
protezione temporanea, la situazione nell’area d’origine non permette un
rimpatrio sicuro degli sfollati, il Consiglio dovrà trovare soluzioni alternative,
quali il ricorso alla protezione sussidiaria prevista dalla direttiva 2011/95/UE83.
Ai sensi del Capo VI della direttiva, dedicato alla Solidarietà, nella decisione
del Consiglio, oltre agli elementi previsti dall’art. 5, par. 3, devono essere indicate
le capacità di accoglienza, comunicate dagli Stati membri, affinchè gli sfollati
siano distribuiti tra questi ultimi. Viene così reso operativo il c.d. principio del
burden-sharing, spesso invocato dai paesi che si trovano ai confini esterni
dell’Unione, quindi maggiormente interessati dai flussi di asilanti. Tuttavia,
l’operatività del principio potrebbe rivelarsi più apparente che reale, in quanto il
meccanismo di “solidarietà” si basa su una dichiarazione volontaria di
disponibilità da parte dei singoli Stati. Più concreta è la solidarietà finanziaria, in
quanto le azioni intraprese dagli Stati sono supportate dal Fondo europeo per i
83
Come affermato dall’art. 6, par. 2, infatti la decisione del Consiglio in merito alla cessazione
della protezione “si fonda sull’accertamento che la situazione nel paese d’origine consente un
rimpatrio sicuro e stabile delle persone cui è stata concessa la protezione temporanea, nel rispetto
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché degli obblighi degli Stati membri in
materia di non respingimento”.
109
rifugiati84, in misura proporzionale agli sforzi effettivamente sostenuti da questi
ultimi.
Gli Stati membri devono rilasciare alle persone ammesse alla protezione
temporanea un titolo di soggiorno valido per l’intero arco della stessa. Si
impegnano inoltre a garantire ai beneficiari: la possibilità di esercitare un’attività
lavorativa, di accedere ai corsi di formazione professionale e ai tirocini nelle
imprese (art. 12); l’accesso ad un alloggio adeguato e, in mancanza di risorse
sufficienti, all’assistenza sociale, ai contributi di sostentamento e alle cure
mediche (art. 13); la possibilità di accedere al sistema scolastico al pari dei
cittadini dello Stato membro ospitante, ai minori, mentre agli adulti, l’accesso al
sistema educativo generale (art. 14). I componenti di un medesimo nucleo
familiare, come definito all’art. 15, che sono stati separati da circostanze legate
all’afflusso di massa, possono usufruire del beneficio del ricongiungimento
familiare; qualora i familiari siano stati ammessi alla protezione temporanea in
differenti Stati membri, questi ultimi concorderanno, tenuto conto dei desideri dei
soggetti coinvolti, il paese in cui deve avere luogo il ricongiungimento.
Le condizioni in presenza delle quali viene concessa la protezione temporanea
sono differenti dall’ambito applicativo della Convenzione di Ginevra, tuttavia tale
condizione non pregiudica il riconoscimento dello status di rifugiato e i
beneficiari della protezione temporanea devono poter essere in grado di presentare
una domanda di asilo o di protezione sussidiaria. Cessata la protezione
temporanea, gli sfollati che non abbiano diritto di soggiorno sulla base di altro
titolo devono rientrare nel proprio paese. Nel caso di rimpatrio forzato, questo
deve avvenire nel rispetto delle dignità umana e solo nel caso in cui non vi siano
impellenti ragioni umanitarie che lo impediscano.
In conclusione, se il meccanismo della protezione temporanea consente di
prevedere una forma di tutela in un’ampia varietà di situazioni in cui non è
possibile il rientro nel paese di origine, a causa delle condizioni in cui versa
quest’ultimo, desta perplessità la circostanza che fino ad oggi non risulti nessuna
decisione applicativa del Consiglio, benché vi siano state situazioni in cui il
84
Il Fondo europeo per i rifugiati è stato istituito con la decisione del Consiglio 2000/596/CE del
28 settembre 2000. Stabilito inizialmente per un quinquennio (2000-2004), è stato rinnovato per
altri sei anni (2005-2010). Con la decisione 573/2007/CE (che abroga la decisione 2004/904/CE),
nell’ambito del programma generale “Solidarietà e flussi migratori, è stato istituito il Fondo
110
meccanismo avrebbe potuto essere utilmente applicato85. La questione è di nuovo
all’ordine del giorno a seguito della guerra civile siriana che sta costringendo
milioni di persone ad abbandonare il paese e a cercare rifugio86. Il Consiglio
italiano per i rifugiati ha richiesto al governo italiano di farsi promotore
dell’applicazione, a livello comunitario, della protezione temporanea stabilita
dalla direttiva in esame, nel caso in cui l’arrivo di profughi siriani nel territorio
dell’Unione assuma le caratteristiche di un “afflusso di massa”. Come sottolineato
dal presidente del CIR, Chistopher Hein, infatti, “lo strumento europeo non è mai
stato applicato prima, ma era stato creato appositamente per chiare situazioni di
pericolo e fuga massiva da aree di guerra. Qualora i numeri di profughi che
arrivano in Europa divenisse ancora più alto, permetterebbe non solo di garantire
da subito a tutti una protezione, ma anche una più equa distribuzione degli oneri
di accoglienza dei profughi siriani tra i diversi Stati membri”87.
3.2 La direttiva in materia di accoglienza dei richiedenti protezione
internazionale
Il 29 giugno 2013 è stata pubblica nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione
europea la nuova direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei
richiedenti protezione internazionale (rifusione)88, che modica le disposizioni
contenute nella direttiva 2003/9/CE del Consiglio europeo del 27 gennaio 2003.
europeo per i rifugiati per il periodo 2008-2013. Il testo della decisione è disponibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32007D0573:IT:NOT.
85
Nel 2011, il governo italiano aveva posto all’attenzione del Consiglio il fenomeno immigratorio
proveniente dalla Tunisia (interessata all’epoca dalle rivolte contro il regime di Ben Ali, la c.d.
rivoluzione dei gelsomini, che aveva costretto alla fuga verso le coste meridionali dell’Europa
migliaia di tunisini), formulando espressamente la richiesta di attivazione della procedura prevista
dalla direttiva in esame, in favore delle persone arrivate dal Nord Africa. Il Consiglio respinse la
richiesta italiana. Per un approfondimento si veda NASCIMBENE, B., DI PASCALE, A., Italia
fuori dall’UE?,in Affari Internazionali. Rivista online di politica, strategia ed economia, 13 aprile
2011, reperibile all’indirizzo www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1727.
86
Dal marzo 2011, data di inizio del conflitto siriano, sono 2.3 milioni i siriani che hanno
abbandonato il loro paese. Il 98% è distribuito tra Libano, Giordania, Turchia e Iraq. Fonte:
UNHCR.
87
Lettera del CIR al Presidente del Consiglio Letta, al Ministro dell’Interno Alfano e al Ministro
degli Esteri Bonino, avente ad oggetto la richiesta di protezione temporanea per i profughi siriani
che sono arrivati e che arriveranno nel prossimo futuro, in attuazione dell’art. 20 del T.U.
Immigrazione (D.lgs. 286/1998).
88
Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, Gazzetta
Ufficiale L 180/96 del 29 giugno 2013. Il termine di recepimento è il 21 luglio 2015. Il Regno
Unito, l’Iralanda e la Danimarca non partecipano all’adozione della direttiva e non sono da essa
vincolati, né soggetti alla sua applicazione. Il testo è disponibile all’indirizzo www.eurlex.europa.eu/LexUr
iServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:180:0096:0116:IT:PDF.
111
Alla luce del Programma di Stoccolma, in cui viene reputato essenziale che ai
richiedenti protezione internazionale, indipendentemente dallo Stato membro di
inoltro della domanda, sia garantito un trattamento di livello equivalente, la
direttiva si pone l’obiettivo dell’armonizzazione e del miglioramento delle
condizioni di accoglienza, anche al fine di limitare i movimenti secondari dei
richiedenti, determinati dalla non omogeneità del trattamento nei diversi Stati
membri.
Come sottolineato nei consideranda, al fine di garantire la parità di trattamento
dei richiedenti, la direttiva dovrebbe applicarsi “in tutte le fasi e a tutti i tipi di
procedure relative alla domanda di protezione internazionale, in tutti i luoghi e i
centri di accoglienza dei richiedenti e purché siano autorizzati a soggiornare nel
territorio degli Stati membri in qualità di richiedenti”89. Per quanto concerne
l’ambito soggettivo di applicazione, l’art. 3 chiarisce che le disposizioni si
applicano “a tutti i cittadini di paesi terzi e agli apolidi che manifestano la volontà
di chiedere la protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro,
comprese la frontiera, le acque internazionali o le zone di transito, purchè siano
autorizzati a soggiornare in tale territorio in qualità di richiedenti, nonché ai
familiari, se inclusi nella domanda di protezione internazionale ai sensi del diritto
nazionale”90. Inoltre, anche allo scopo di assicurare la coerenza con l’acquis
comunitario vigente in materia d’asilo e in particolare con la direttiva 2011/95/UE
(c.d. direttiva qualifiche), l’ambito applicativo delle disposizioni in esame è stato
esteso ai richiedenti protezione sussidiaria.
Al capo II, vengono definiti, senza apportare modifiche rispetto alla previgente
normativa, gli obblighi informativi posti a carico degli Stati membri, in merito ad
ogni beneficio riconosciuto ai richiedenti, alle condizioni di accoglienza e alle
organizzazioni che forniscono assistenza legale, oltre che supporto in generale. Si
ribadisce inoltre l’obbligo delle autorità statali di fornire, entro tre giorni dalla
presentazione della domanda di protezione, documenti attestanti lo status di
richiedente, fatta salva l’ipotesi in cui il richiedente sia in stato di trattenimento,
nel qual caso il rilascio è rimesso alla discrezionalità dello Stato membro
ospitante. L’art. 7 sancisce il principio fondamentale della libera circolazione dei
89
Considerando n. 8.
Per quanto concerne la definizione di familiari, contenuta nell’art. 1, lett. c), la nuova direttiva vi
include i figli minori, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano a carico della coppia.
90
112
richiedenti nel territorio dello Stato membro ospitante o nell’area loro assegnata,
pur lasciando agli Stati la possibilità di stabilire un luogo di residenza per motivi
di pubblico interesse, ordine pubblico o, se necessario, per l’esame rapido ed
efficace della domanda di protezione. Tali disposizioni consentono quindi agli
Stati di confinare i richiedenti asilo in campi di accoglienza o di raccolta,
limitando di fatto la loro libertà di circolazione. Inoltre qualora il soggetto lasci i
luoghi assegnategli, ciò può comportare una revoca della condizioni materiali
d’accoglienza (art. 20, lett. a).
La direttiva contiene quattro articoli relativi al trattenimento, previsioni non
previste dalla precedente direttiva in materia. Nella relazione della Commissione
al Consiglio e al Parlamento europeo sull’applicazione della direttiva 2003/9/CE,
del novembre 2007, si denunciava che sette paesi, tra cui l’Italia, non applicavano
la direttiva nei centri di permanenza temporanea91. Il documento, pur ribadendo la
possibilità del trattenimento, ne affermava il carattere di misura eccezionale, cui è
possibile fare ricorso solo “ove risultasse necessario” e previa valutazione della
situazione della persona interessata. Si evidenziava inoltre la disparità di
applicazione del provvedimento nei diversi Stati membri92. La direttiva
2013/33/UE interviene a regolare maggiormente la possibilità di trattenimento,
stabilendo che nessuna persona può essere trattenuta per il solo fatto di chiedere
protezione internazionale e che la misura può essere disposta solo a seguito di una
specifica valutazione del caso, come extrema ratio. L’art. 8 par. 3 definisce
restrittivamente le circostanze eccezionali che rendono legittimo il trattenimento,
che deve avvenire in ogni caso nel pieno rispetto della dignità umana.
Il trattenimento, la cui durata deve essere più breve possibile93, è disposto con
atto scritto dell’autorità giudiziaria o amministrativa (in quest’ultimo caso
l’autorità giudiziaria verifica la legittimità della misura, d’ufficio o su istanza di
91
Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull'applicazione della
direttiva 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003, recante norme minime relative
all'accoglienza dei richiedenti asilo negli stati membri, Bruxelles 26 novembre 2007, COM(2007)
745,
p.
3,
disponibile
all’indirizzo
www.eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2007:0745:F
IN:IT:PDF.
92
“Tutti gli Stati membri prevedono il trattenimento per vari motivi, dalle circostanze eccezionali
(Germania) al trattenimento di tutti i richiedenti asilo entrati illegalmente nel territorio dello Stato
membro, salvo quelli aventi esigenze particolari (Malta). Analogamente, la durata del
trattenimento varia da 7 giorni (Portogallo) a 12 mesi (Malta e Ungheria), o può addirittura essere
a tempo indeterminato (Regno Unito e Finlandia). Ivi, p. 7.
113
parte, entro un termine stabilito dal diritto interno di ciascuno Stato membro), che
verrà riesaminato periodicamente. Il soggetto interessato ha diritto all’assistenza e
alla rappresentanza legale, gratuite nel caso non disponga di risorse sufficienti.
L’art. 10 descrive inoltre le condizioni di trattenimento, sottolineando in
particolare che, per quanto possibile, i richiedenti sono tenuti separati dagli altri
cittadini di paesi terzi non richiedenti la protezione internazionale. Disposizioni
particolari sono previste per i soggetti più vulnerabili o con esigenze particolari,
quali i minori, i minori non accompagnati e i soggetti con problemi di salute,
anche mentale.
Gli Stati si impegnano inoltre a mantenere l’unità del nucleo famigliare (art.
12), consentono l’accesso al sistema educativo ai richiedenti minori e ai figli
minori di richiedenti (art.13), garantiscono l’ingresso nel mercato del lavoro,
anche se per ragioni connesse alle politiche comunitarie in materia possono
privilegiare i cittadini dell’Unione o di paesi terzi regolarmente soggiornanti (art.
15)94,
e
possono
autorizzare
l’accesso
alla
formazione
professionale,
indipendentemente da quello al lavoro (art. 16).
Le disposizioni relative alle condizioni materiali di accoglienza ribadiscono il
diritto all’accoglienza, ovvero ad “una adeguata qualità di vita che garantisca il
sostentamento dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale”, dal momento
in cui viene manifestata la volontà del soggetto di richiedere la protezione
internazionale. Questo diritto può essere limitato solo nel caso in cui il soggetto
disponga di risorse economiche adeguate alla sua sussistenza. Per quanto
concerne le modalità relative all’accoglienza, tra le novità introdotte dalla
direttiva del 2013, si sottolineano in particolare: la possibilità per i familiari dei
richiedenti di aver accesso alle strutture al fine di fornire assistenza ai medesimi,
prima limitata agli avvocati, ai consulenti legali e ai rappresentanti dell’UNHCR;
l’attenzione nei confronti delle differenza di genere, di età e delle persone con
bisogni particolari all’interno degli alloggi o nei campi di accoglienza; l’adozione
di misure per prevenire in particolare la violenza di genere, compresa la violenza
93
L’art. 9, par. 1, secondo capoverso, specifica che “ritardi nelle procedure amministrative non
imputabili al richiedente non giustificano un prolungamento del trattenimento”.
94
L’accesso al mercato del lavoro deve avvenire entro nove mesi dall’inoltro della domanda di
protezione, nei casi in cui la competente autorità non abbia adottato una decisione in primo grado e
il ritardo non è determinato dal comportamento del richiedente. Inoltre l’accesso non è revocato in
caso di ricorso contro una decisione negativa in merito alla richiesta di protezione, quando il
114
sessuale e le molestie all’interno delle strutture di accoglienza; la possibilità per
gli adulti dipendenti con esigenze particolare di alloggiare insieme a parenti
stretti, o che ne sono comunque responsabili secondo le legge o la prassi del paese
ospitante. Sono inoltre ridotti i casi in cui è possibile per gli Stati membri
derogare a quanto previsto in questo ambito dalla direttiva. L’art. 18, par. 9 infatti
consente diverse modalità di accoglienza, solo per un periodo di durata limitata,
qualora: “a) sia richiesta una valutazione delle esigenze specifiche del richiedente,
ai sensi dell’articolo 22, b) le capacità di alloggio normalmente disponibili siano
temporaneamente esaurite”.
Nel Capo III vengono elencati i casi in cui può essere disposta la riduzione o
la revoca delle condizioni materiali di accoglienza, ovverosia: qualora il
richiedente abbandoni il proprio luogo di residenza senza informare la prescritta
autorità, contravvenga all’obbligo di presentarsi per fornire informazioni o di
comparire ad un colloquio inerente alla procedura di esame della richiesta di
protezione, abbia presentato una domanda reiterata ai sensi dell’art. 2, lett.q),
della direttiva 2013/32/UE.
In conclusione, tra le ulteriori novità introdotte dalla direttiva 2013/33/UE si
segnalano, l’allargamento della categoria delle persone vulnerabili95, per cui è
prevista un’apposita procedura volta alla valutazione delle esigenze particolari
(che non deve essere di carattere amministrativo), e una disciplina maggiormente
dettagliata in merito all’accesso all’assistenza e alla rappresentanza legali gratuite,
in caso di ricorso avverso la decisione relativa alla concessione della protezione,
contenuta nel Capo V.
3.3 La direttiva 2011/95/UE recante norme per l’attribuzione della qualifica di
beneficiario di protezione internazionale
Il 21 dicembre 2013 è scaduto il termine per il recepimento della direttiva
2011/95/UE recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi,
della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme
ricorso ha effetto sospensivo e fino alla notifica della decisione negativa in merito a quest’ultimo
(art. 15, par. 1-3).
95
L’art. 21 include nella categoria delle persone vulnerabili, accanto a minori, minori non
accompagnati, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori,
persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o
115
per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione
sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, del 13 dicembre
201196. Il testo, che modifica la precedente direttiva 2004/83/CE, non ne innova
radicalmente il contenuto, ma ne specifica e precisa concetti, come a voler
costruire una sorta di “glossario comune” per gli Stati membri dell’Unione, il cui
scopo primario è il miglioramento degli standard medi di protezione
internazionale. Per il perseguimento di quest’ultimo obiettivo la giurisprudenza,
tanto della Corte di Giustizia dell’Unione europea, quanto della Corte europea dei
diritti dell’uomo, riveste un ruolo fondamentale. Nel dodicesimo considerando si
legge “lo scopo principale della presente direttiva è quello, da una parte, di
assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le
persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e,
dall’altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali
persone in tutti gli Stati membri”. Il ravvicinamento delle legislazioni nazionali
relative al riconoscimento e agli elementi fondamentali dello status di rifugiato e
di protezione sussidiaria dovrebbe limitare il c.d. asylum shopping, ovvero il
movimento secondario dei richiedenti verso gli Stati membri dove le domande
hanno maggiori probabilità di essere accolte o dove le condizioni di accoglienza
sono più favorevoli97.
Nel Capo I, dedicato alle disposizioni generali, è contenuta la definizione di
protezione internazionale, una nozione composita, comprendente lo status di
rifugiato e lo status di protezione sussidiaria (art. 2, lett. a)98. La qualifica di
sessuale, quali le vittime di mutilazioni genitali femminili, anche le persone vittime della tratta
degli esseri umani e le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali.
96
Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, Gazzetta
Ufficiale L 337/9 del 20 dicembre 2011. Il Regno Unito e l’Irlanda non partecipano all’adozione
del presente atto e non sono da quest’ultimo vincolati, tuttavia continuano ad applicare la
precedente direttiva 2004/83/CE che hanno adottato in forza dell’art. 3 del Protocollo sulla
posizione del Regno Unito e dell’Irlanda, allegato al TUE e al TFUE. La Danimarca non partecipa
all’adozione e non è vincolata dalla presente direttiva in virtù del protocollo sulla sua posizione
allegato ai Trattati. Per quanto concerne il nostro paese, la Legge di delegazione europea 2013 (L.
6 agosto 2013, n. 96), all’art. 7, contiene principi e criteri direttivi per l’attuazione della presente
direttiva. Il testo è reperibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:337:0009:0026:IT:PDF.
97
Anche la precedente direttiva del 2004 intendeva uniformare l’interpretazione e l’applicazione
della definizione di rifugiato, per porre fine a quella che era stata definita la “lotteria euopea
dell’asilo”. V. ECRE, Europe Must End Asylum Lottery, 4 november 2004, www.ecre.org.
98
Come osservato da FAVILLI, “la normativa adottata dall’Unione ha il merito di aver realizzato
un inquadramento sistematico di queste diverse forme di protezione e di aver regolato le
fattispecie diverse dal diritto d’asilo che non avevano ancora avuto un’autonoma e completa
disciplina. […] La nozione di protezione internazionale risulta quindi essere più estensiva di quella
116
rifugiato, il cui riconoscimento è un atto meramente declaratorio, viene
integralmente ripresa dalla definizione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra99,
integrata tenendo conto della prassi e dalle linee-guida formulate dall’UNHCR.
Anche la direttiva, come la Convenzione, non definisce il concetto di
persecuzione ma stabilisce cosa si debba intendere per atti persecutori100, motivi
di persecuzione101 e soggetti responsabili della persecuzione102. Quanto ai soggetti
che possono offrire protezione, l’art. 7 contempla, oltre allo Stato, partiti o
organizzazioni, anche internazionali, che controllano lo Stato o una parte
consistente del suo territorio e che abbiano la volontà e la capacità di offrire
protezione. L’elencazione, da considerarsi esaustiva, è completata al secondo
paragrafo del medesimo articolo, dalla specificazione che la protezione offerta
deve essere effettiva e non temporanea103.
di asilo e come tale tende a fornire ai richiedenti protezioni maggiori possibilità di tutela”. V.
FAVILLI C., op. cit., p. 125-126.
99
La Convenzione di Ginevra e il Protocollo del 1967 sono definiti nel quarto considerando, “la
pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati”.
100
L’art. 9 afferma che sono atti di persecuzione ai sensi dell’art 1A della Convenzione quelli che
“sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da costituire una violazione grave dei
diritti umani fondamentali” o che “costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei
diritti umani” di elevata gravità. Il medesimo articolo, al secondo paragrafo, elenca la forma che
possono assumere gli atti rientranti nella definizione.
101
I motivi di persecuzione sono la razza, la religione, la nazionalità, l’opinione politica e
l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, puntualmente definiti dall’art. 10. Una novità
rispetto alla previgente direttiva, per quanto attiene alla definizione dell’appartenenza ad un
determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, è la
necessaria valutazione delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere. Nella recente
sentenza sul caso X, Y e Z c. Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel (cause C-199/12, C200/12 e C-201/12, riunite) del 7 novembre 2013, la Corte di Giustizia ha inoltre affermato che i
richiedenti asilo possono configurare un particolare gruppo sociale e che l’esistenza nel paese di
origine di una pena detentiva per atti omosessuali qualificati come reato può, di per se, costituire
un atto di persecuzione, purché tale pena trovi effettivamente applicazione.
102
Per quanto attiene alla definizione dei soggetti rientranti nella nozione di agente di
persecuzione, prima dell’adozione della direttiva 2004/83/CE si registrava una notevole
divergenza tra gli Stati membri. Alcuni ritenevano ammissibile la protezione solo contro
persecuzioni perpetrate da organi statali, altri invece ritenevano sufficiente l’incapacità dello Stato
di garantire protezione, indipendentemente dalla fonte, pubblica o privata, della persecuzione.
L’art. 6 sancisce che gli autori della persecuzione possono essere, oltre allo Stato e a partiti o
organizzazioni che hanno il controllo del territorio, anche soggetti non statuali, se è dimostrato che
lo Stato o le organizzazioni suddette, non siano in grado o non vogliano fornire protezione.
103
Questa precisazione, introdotta dalla direttiva 2011/95/UE è di grande importanza. La
Commisione nella proposta di modifica della precedente direttiva, aveva infatti osservato che
alcuni Stati avevano interpretato estensivamente la norma, al punto da rischiare di vanificare la
nozione di protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra, affermando che “la semplice volontà
di proteggere non è sufficiente se manca la capacità di proteggere”. Si veda COMMISSIONE,
proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione
internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione),
COM(2009)551 del 21 ottobre 2009, p. 7, disponibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2009:0551:FIN:IT:PDF.
117
L’art. 8 dell’abrogata direttiva consentiva agli Stati membri di negare al
richiedente la protezione internazionale se, in un’area del paese d’origine, non vi
era il rischio fondato di persecuzioni o di altri danni gravi, indipendentemente
dalla presenza di ostacoli tecnici al rientro del soggetto interessato. In seguito alle
critiche sollevate dall’UNHCR e a quanto affermato dalla Corte europea dei diritti
umani, che ha chiaramente ribadito come le aree di un paese per essere
considerate sicure devono garantire che la persona non corra alcun rischio di
subire trattamenti contrari all’art. 3 CEDU104, la nuova direttiva del 2011 ha
introdotto delle clausole maggiormente restrittive per l’operare della c.d.
protezione interna. Il richiedente deve poter, “legalmente e senza pericolo”,
raggiungere
l’area
ritenuta
sicura,
esservi
ammesso
e
deve
potersi
ragionevolmente presumere che vi si stabilisca105. Viene inoltre aggiunto
l’obbligo per gli Stati di disporre di informazioni precise e aggiornate provenienti
da fonti appropriate, quali l’UNHCR e l’EASO.
Per quanto concerne la cessazione dello status di rifugiato (e di protezione
sussidiaria, art. 16, par. 3), viene introdotta un’eccezione, nel caso in cui pur
essendo venute meno le circostanze che ne hanno determinato il riconoscimento,
il soggetto interessato “possa invocare l’esistenza di motivi di imperio derivanti
da precedenti persecuzioni tali da rifiutare di avvalersi della protezione del
proprio paese di origine106.
Una delle maggiori innovazioni del sistema europeo d’asilo è la previsione
dell’istituto della protezione sussidiaria, introdotto dalla direttiva qualifiche del
2004, con l’obiettivo di offrire protezione anche alle situazioni che non sono
riconducibili al limitato ambito applicativo della Convenzione di Ginevra. Tale
istituto, sussidiario rispetto all’asilo, disciplina l’ipotesi in cui il cittadino di un
paese terzo o apolide, pur non possedendo i presupposti per la concessione dello
status di rifugiato, abbia comunque “fondati motivi di ritenere che, se ritornasse
nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale
aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di
subire un grave danno” e quindi non può o non vuole avvalersi della protezione di
detto paese. A norma dell’art. 15, “sono considerati danni gravi: a) la condanna o
104
Corte EDU, sent. 11 gennaio 2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi, ric. 1948/04, par. 138-149.
È stato eliminato il terzo paragrafo che prevedeva la possibilità per gli Stati di ricorre alla
protezione interna “nonostante ostacoli tecnici al ritorno nel paese d’origine”.
105
118
l’esecuzione della pena di morte; o b) la tortura o alta forma di pena o trattamento
inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese d’origine; o c) la
minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla
violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
Occorre notare che le prime due fattispecie sono chiaramente ispirate agli art. 2 e
3 della CEDU nonché agli art. 2 e 19 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. Innovativa è invece la terza ipotesi che, riconoscendo un
diritto alla protezione nei casi di rischio derivante da situazioni di violenza
indiscriminata, quali i conflitti armati, ampia notevolmente le possibilità di tutela.
L’interpretazione di quest’ultima fattispecie come un nuovo genus rispetto alla
protezione offerta dalla Convenzione europea è stata avvalorata dalla Corte di
Giustizia nella sentenza sul caso Elgafaji107. La Corte ha affermato che “l’art. 15
c) della direttiva è una disposizione con un contenuto diverso da quello dell’art. 3
della CEDU e deve pertanto essere interpretato autonomamente, salvo restando
però il rispetto dei diritti fondamentali come garantiti dalla CEDU”. I giudici
hanno inoltre dichiarato che il termine “individuale” deve intendersi “nel senso
che esso riguarda danni contro civili a prescindere dalla loro identità, qualora il
grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, […]
raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un
civile rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione
correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio
effettivo di subire la minaccia grave di cui all’art. 15, lett. c), della direttiva”108. In
definitiva la Corte afferma che l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla
vita o alla persona del richiedente non è subordinata alla condizione che
quest’ultimo fornisca la prova che egli sia interessato in modo specifico in ragione
della sua situazione personale109.
Per quanto concerne il contenuto della protezione internazionale, va osservato
106
Convenzione di Ginevra, art. 1, lett. C(5).
CGUE, sent. 17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, European Court Reports 2009, p. I-921. Il
testo della sentenza è reperibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62007J0465:EN:NOT.
108
Sent. cit., par. 35.
109
Come osservato da ADINOLFI A., “l’orientamento accolto dalla Corte di Giustizia rafforza
l’ambito applicativo di tale forma di protezione prescindendo dall’esigenza che sia dimostrato un
‘rischio soggettivo’; ciò valorizza il contributo che la Comunità fornisce all’estensione della
protezione internazionale riguardo a rischi ulteriori rispetto a quelli coperti dalla Convenzione di
Ginevra e dalla Convenzione europea dei diritti umani”, in ADINOLFI, A., op. cit., p. 686.
107
119
che la nuova direttiva avvicina il contenuto dello status di protezione sussidiaria a
quello dello status di rifugiato, limitando di fatto la possibilità per gli Stati
membri di riconoscere soltanto a questi ultimi taluni diritti. In primo luogo, il
permesso di soggiorno ex art. 24, rilasciato ai beneficiari di protezione sussidiaria
della durata di un anno, deve essere valido, in caso di rinnovo, per un periodo non
inferiore a due anni. Si riduce in questo modo lo scarto in precedenza esistente tra
quest’ultimo permesso e quello concesso ai titolari dello status di rifugiato, la cui
durata è pari a tre anni110. Riguardo al documento di viaggio, rilasciato allo scopo
di permettere ai beneficiari spostamenti al di fuori del loro territorio, per i titolari
di protezione sussidiaria viene eliminata la clausola che ne consentiva il rilascio
soltanto in caso di “gravi ragioni umanitarie che rendano necessaria la loro
presenza in un altro stato”, mentre permane il requisito dell’impossibilità di
ottenere un passaporto nazionale (art. 25, par. 2).
In materia di accesso all’occupazione, all’assistenza sanitaria111, e agli
strumenti di integrazione (art. 26, 30, 34), lo status di protezione sussidiaria è ora
perfettamente equiparato a quello di rifugiato, come già accadeva, in virtù della
precedente direttiva, in materia di accesso all’istruzione e all’assistenza sociale
(art. 27, 29). Inoltre, relativamente al riconoscimento delle qualifiche, a cui la
nuova normativa dedica un apposito articolo, gli Stati membri, oltre a garantire ai
beneficiari di protezione internazionale la parità di trattamento con i cittadini,
devono adoperarsi per facilitare, a coloro che non possiedono prove documentali
delle qualifiche possedute, l’accesso a sistemi adeguati di valutazione, convalida e
accreditamento della precedente formazione. Infine, in materia di alloggio, l’art.
32, oltre a ribadire il diritto di accesso a quest’ultimo per i titolari di protezione
internazionale, alle stesse condizioni previste per i cittadini di paesi terzi
regolarmente soggiornanti, prevede, al secondo paragrafo, l’obbligo per gli Stati
di impegnarsi per attuare politiche dirette a prevenire le discriminazioni e a
garantire pari opportunità ai beneficiari della protezione.
110
È opportuno sottolineare la proposta, non accolta, della Commissione di prolungare la durata
minima del permesso dei titolari di protezione sussidiaria a tre anni, come per i rifugiati.
111
Circa l’assistenza sanitaria, si aggiunge l’obbligo per gli Stati membri di fornire un adeguato
trattamento dei disturbi psichici ai titolari di protezione internazionale che presentino particolari
120
3.4 Le procedure comuni per il riconoscimento o la revoca della protezione
internazionale
A seguito dei rilievi critici formulati oltre che dall’UNHCR112 e dall’ECRE113,
anche dalla stessa Commissione europea114, in merito all’applicazione della
direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati
membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato115, e
dell’impegno assunto con il Programma di Stoccolma, di garantire a coloro che
necessitano di protezione internazionale l’accesso a procedure di asilo eque ed
efficaci, uniformi in tutti gli Stati membri, il Parlamento europeo e il Consiglio
hanno adottato la direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale116, che
opera una rifusione della precedente direttiva.
Come affermato nel dodicesimo considerando, l’obiettivo primario della
nuova direttiva è l’ulteriore sviluppo delle norme relative alle procedure applicate
negli Stati membri al fine del riconoscimento e della revoca della protezione
internazionale, così da istituire una procedura comune d’asilo nell’Unione. Il
ravvicinamento delle normative nazionali in materia dovrebbe contribuire sia a
limitare il fenomeno del c.d. asylum shopping, sia a creare condizioni uniformi
per l’applicazione della c.d. direttiva qualifiche117.
esigenze, quali le donne in stato di gravidanza, i disabili e coloro che sono stati vittime di torture,
stupri e altre gravi forme di violenza fisica, psichica o sessuale (art. 30, par. 2).
112
UNHCR, Improving Asylum Procedures: Comparative Analysis and Recommendations for Law
and Practice, marzo 2010, disponibile all’indirizzo www.unhcr.org/4ba9d99d9.html.
113
ECRE, Information Note on the Council Directive 2005/85/CE of 1 December 2005 on
minimum standards on procedures in Member States for granting and withdrawing refugee status,
IN1/10/2006/EXT/JJ, ottobre 2006, reperibile all’indirizzo www.refworld.org/pdfid/464317ab.pdf.
114
Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull'applicazione della
direttiva 2005/85/ce del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure
applicate negli stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato,
COM(2010)
465,
Bruxelles,
8
settembre
2010,
consultabile
all’indirizzo
http://www.parlamento.it/web/docuorc2004.nsf/a4f26d6d511195f0c12576900058cac9/e2ecf039d5
842953c125779d006295e5/$FILE/COM2010_0465_IT.pdf.
115
Direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005, Gazzetta Ufficiale dell’Unione
Europea L 326/13 del 13 dicembre 2005. Il testo della direttiva è disponibile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2005:326:0013:0034:IT:PDF.
116
Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, Gazzetta
Ufficiale dell’Unione europea L 180/60 del 29 giugno 2013. La Danimarca, la Gran Bretagna e
l’Irlanda, in forza dei rispettivi protocolli (n. 22 e n. 21) allegati al TUE e al TFUE, non
partecipano all’adozione della direttiva né sono da quest’ultima vincolati o soggetti alla sua
applicazione. Il termine per il recepimento della direttiva è il 21 luglio 2015. L’atto è disponibile
all’indirizzo
www.eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:180:0060:0095:IT:PDF.
117
Considerando n. 13.
121
Per quanto concerne l’ambito di applicazione, la nuova direttiva riguarda non
solo le domande di protezione presentate nel territorio, alla frontiera o nella zone
di transito degli Stati membri, ma anche quelle avanzate nelle acque territoriali. In
merito all’accesso alla procedura, le domande possono essere presentate
personalmente, anche dai minori in possesso della capacità di agire in giudizio,
oppure, se la normativa nazionale lo consente, da un richiedente a nome delle
persone a suo carico. L’art. 6, innovando rispetto alla previgente direttiva, impone
agli Stati membri termini precisi per la registrazione della domanda di protezione:
tre giorni lavorativi dalla data di presentazione, se questa è effettuata a un’autorità
competente a registrare tali domande; sei giorni lavorativi, se la domanda è stata
presentata a un’autorità preposta a riceverla ma non competente per la
registrazione. Nel caso in cui vi sia un elevato numero di domande simultanee di
protezione, tali termini possono essere prorogati di dieci giorni lavorativi.
Un’ulteriore novità è la previsione, contenuta nell’art. 8, dell’obbligo per gli Stati
membri di fornire informazioni e consulenza ai cittadini di paesi terzi o apolidi
presenti nei centri di trattenimento o ai valichi di frontiera, che desiderino
presentare una domanda di protezione internazionale118.
Il Capo II prevede una serie di garanzie per i richiedenti, tra cui si ricordano: il
diritto del richiedente di essere informato circa la procedura da seguire e dei suoi
diritti e obblighi durante il corso della medesima (art. 12); la facoltà di sostenere
un colloquio personale in merito alla domanda di protezione, in cui poter
presentare tutti gli elementi necessari a motivare la domanda (artt. 14-17); la
possibilità di disporre una visita medica concernente i segni che potrebbero
indicare persecuzioni o danni gravi subiti119 (art. 18); l’accesso nelle procedure di
primo grado ad informazioni giuridiche e procedurali gratuite o, in alternativa,
all’assistenza e alla rappresentanza legali gratuite. Queste ultime sono concesse
anche nelle procedure di impugnazione di cui al Capo V (art. 20). Maggiori
cautele sono inoltre previste per i richiedenti che necessitano di garanzie
118
Ai sensi dell’art. 8, par. 2, l’accesso ai valichi di frontiera da parte di organizzazioni o persone
che prestano assistenza e consulenza può essere limitato solo se necessario per la sicurezza,
l’ordine pubblico o la gestione amministrativa dei valichi. I limiti non devono in ogni caso rendere
l’accesso eccessivamente ristretto o impossibile.
119
Nel caso sia ritenuto necessaria al fine della valutazione della domanda, la visita medica può
essere disposta dagli Stati membri, previo consenso del richiedente, o in caso contrario può essere
richiesta direttamente da quest’ultimo. Gli esiti della visita saranno valutati dall’autorità accertante
insieme agli altri elementi della domanda (art. 18, par. 3).
122
procedurali particolari120 e per i minori non accompagnati. L’art. 26, relativo al
trattenimento, ribadisce che “gli Stati membri non trattengono una persona per il
solo motivo che si tratta di un richiedente”. La presente direttiva, innovando
rispetto alla precedente, che prevedeva soltanto la possibilità, in caso di
trattenimento, di un rapido sindacato giurisdizionale, aggiunge che i motivi, le
condizioni del trattenimento e le garanzie per i richiedenti trattenuti sono
conformi alla direttiva 2013/33/UE121.
Il Capo III della direttiva è dedicato alle norme che regolano le procedure di
esame della domanda di protezione internazionale in primo grado. Per quanto
concerne specificamente i termini per l’espletamento della procedura, l’art. 31,
dopo aver affermato che quest’ultima deve essere espletata entro sei mesi dalla
presentazione della domanda, decorrenti in caso di domanda oggetto della
procedura Dublino ai sensi del regolamento 604/2013, dal momento in cui è
determinato lo Stato membro competente, prevede varie possibilità di proroga122.
Una novità rilevante consiste nella possibilità per gli Stati di esaminare in via
prioritaria una domanda di protezione internazionale, qualora questa sia
verosimilmente fondata o nel caso il cui il richiedente necessiti di particolari
garanzie procedurali o si tratti di minore non accompagnato (art. 31, par. 7). Viene
ribadita inoltre la possibilità per gli Stati di prevedere, al verificarsi di determinate
circostanze enunciate nel paragrafo 8, una procedura d’esame accelerata e/o svolta
alla frontiera123 o nelle zone di transito124.
120
Ai sensi dell’art. 2, lett. d), per richiedente che necessita di garanzie procedurali particolari, si
intende il richiedente la cui capacità di godere dei diritti e adempiere agli obblighi previsti dalla
presente direttiva è limitata a causa di circostanze individuali.
121
Direttiva recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale
(rifusione), artt. 8-10, vedi supra, p. 113.
122
Ai sensi dell’art. 31, par. 3, terzo comma, gli Stati membri possono prorogare il temine di sei
mesi per ulteriori nove mesi, se: il caso concerne questioni complesse (in fatto e/o in diritto); vi è
un gran numero di richieste simultanee di protezione; il ritardo è attribuibile alla mancata
osservanza degli obblighi previsti dall’art. 13 da parte del richiedente asilo. In circostanze
eccezionali opportunamente motivate, quest’ultimo termine può essere superato di tre mesi,
laddove sia necessario per un esame adeguato e completo della domanda di protezione. Il quarto
paragrafo prevede inoltre che gli Stati membri inoltre possono rimandare la conclusione della
procedura “se non si può ragionevolmente attendere che l’autorità accertante decida entro i termini
previsti al paragrafo 3 a causa di una situazione incerta nel paese di origine che sia
presumibilmente temporanea”. Anche in quest’ultimo caso è previsto un termine massimo per la
conclusione della procedura, 21 mesi dalla presentazione della domanda.
123
È opportuno sottolineare che non è più possibile per gli Stati mantenere in vigore procedure che
derogano ai principi fondamentali e alla garanzie di cui al Capo II della direttiva, come previsto
dall’art. 35, par. 2 della direttiva 2005/85/CE.
124
Gli Stati devono prevedere in ogni caso dei termini ragionevoli entro cui la procedura d’esame
deve concludersi.
123
Tra le disposizioni contenute nel Capo III si trovano anche quelle
maggiormente criticate, che presentano i concetti di “paese di primo asilo”, “paese
di origine sicuro”, “paese terzo sicuro” e “paese terzo europeo sicuro”125, rilavanti
circa la valutazione di una domanda come infondata o inammissibile. L’art. 26
definisce il concetto di paese di primo asilo, affermando che può essere
considerato tale per un richiedente, lo Stato in cui quest’ultimo sia stato
riconosciuto “quale rifugiato e possa ancora avvalersi di tale protezione” o in cui
goda altrimenti di protezione sufficiente (ivi compresa la possibilità di beneficiare
del principio di non-refoulement), purché sia ammesso in tale paese.
Per quanto concerne il concetto di paese terzo sicuro, è tale per un richiedente
lo Stato in cui: non vi sono minacce alla sua vita o alla sua libertà per ragioni di
razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato
gruppo sociale; non sussiste il rischio di un danno grave, come definito nella
direttiva 2011/95/UE; è rispettato il principio di non-refoulement; è osservato il
divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture o altri
trattamenti inumani o degradanti; esiste la possibilità di chiedere lo status di
rifugiato e di ottenere protezione in conformità alla Convenzione di Ginevra del
1951126. Nel caso in cui un paese non membro dell’Unione europea è considerato
paese terzo sicuro o paese di primo asilo per il richiedente, gli Stati membri
possono giudicare la domanda di protezione presentata da quest’ultimo
inammissibile, ferma restando la possibilità per il richiedente di contestare
l’applicazione di questi concetti a motivo delle circostanze specifiche che lo
riguardano.
Nella circostanza in cui un paese terzo designato come paese di origine sicuro
ai sensi dalla direttiva in esame127, può essere considerato paese di origine sicuro
per un determinato richiedente, la sua domanda può essere ritenuta infondata
125
V. SPATTI M., La disciplina comunitaria relativa all’allontanamento dei richiedenti asilo
verso “Paesi sicuri”, in Diritto pubblico comparato europeo, n. 1, 2007, p. 217 ss.
126
Art. 38, par. 1, lett. a) – e).
127
I criteri di “sicurezza”, indicati nell’allegato I, consistono nella valutazione dell’inesistenza di
persecuzioni, torture o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, pericoli a causa di
violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o internazionale. La valutazione deve
essere compiuta avendo riguardo: alle norme e prassi nazionali; al rispetto dei diritti e delle libertà
sanciti nella CEDU e/o nel Patto internazionale sui diritti civili e politici e/o nella Convenzione
ONU contro la tortura; al rispetto del principio di non-refoulement come stabilito nelle
Convenzione di Ginevra; all’esistenza di rimedi efficaci contro le violazioni di tali diritti e libertà.
Occorre notare che la presente direttiva non contempla più l’adozione di un elenco comune
124
dall’autorità accertante (art. 32). Il richiedente, come stabilito dall’art. 36, deve
essere in possesso della cittadinanza di quel paese ovvero in caso di apolide,
avervi soggiornato abitualmente in precedenza, e non deve aver invocato gravi
motivi per ritenere che, in riferimento alle sue circostanze specifiche, quel paese
non sia un paese di origine sicuro.
L’art. 39, elabora il concetto di paese terzo europeo sicuro, affermando che, se
il richiedente sta cercando di entrare o è entrato illegalmente da un paese che “ha
ratificato o osserva la Convenzione di Ginevra senza limitazioni geografiche;
dispone di una procedura di asilo prescritta dalla legge; e ha ratificato la
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e ne rispetta le disposizioni, comprese le norme riguardanti i ricorsi
effettivi”, lo Stato membro a cui è stata presentata la domanda, può prevedere che
l’esame di quest’ultima non sia svolto o non sia condotto in maniera esauriente128.
Il richiedente ha la facoltà di impugnare l’applicazione del concetto in esame se
ritiene che il paese non è sicuro in relazione alle sue condizioni specifiche.
Il Capo IV disciplina le procedure di revoca della protezione internazionale
qualora emergano elementi o risultanze nuovi, dai quali risulti che vi sono motivi
per procedere al riesame della validità della protezione accordata. Il richiedente
deve essere informato per iscritto in merito alla procedura di riesame e deve poter
esporre in un colloquio personale o dichiarare per iscritto i motivi che ostano alla
revoca della protezione (art. 45, par. 1).
Le procedure di impugnazione sono disciplinate nel Capo V. Come affermato
dall’art. 46, il richiedente ha diritto ad un ricorso effettivo avverso le seguenti
ipotesi: la decisione sulla domanda di protezione internazionale, compresi i casi in
cui questa è dichiarata inammissibile, infondata, presa alla frontiera o nelle zone
di transito, non esaminata ai sensi dell’art. 39; il rifiuto di continuare l’esame della
minimo dei paesi terzi considerati dagli Stati membri paesi di origine sicuri, prevista dall’art. 29
della precedente direttiva procedura.
128
Come ha osservato parte della dottrina, da questa disposizione discendono conseguenze non
trascurabili. Paesi come l’Albania, la Croazia, la Macedonia, la Bielorussia e la Serbia
sembrerebbero infatti essere inclusi nel concetto di paese terzo europeo sicuro. Ma, come rilevato
da COSTELLO C., “many of these countries, although they may have adopted asylum laws,
implement them only in a very limited fashion and in effect cannot provide access to a proper
procedure. As such, transferring applicants to these countries may amount to a denial of
international protection. Indeed, there is much evidence to rebut any generalised assumption of
safety in relation to these countries”. V. COSTELLO C., The Asylum Procedure Directive in Legal
Context: Equivocal Standards Meet General Principles, in BALDACCINI A., GUILD E.,
TONER H. (edited by), Whose Freedom, Security and Justice? EU Immigration and Asylum Law
125
domanda, nel caso in cui questo sia stato sospeso per ritiro implicito o rinuncia
alla stessa; la decisione di revoca della protezione a norma dell’art. 45. Innovando
rispetto alla precedente direttiva, viene previsto per le persone ritenute
ammissibili alla protezione sussidiaria, il diritto di ricorre avverso la decisione di
inammissibilità in relazione allo status di rifugiato, nel caso in cui i diritti e i
vantaggi riconosciuti ai beneficiari di protezione sussidiaria non siano equivalenti
a quelli garantiti ai rifugiati. I richiedenti sono autorizzati a permanere nel
territorio dello Stato membro fino alla scadenza del termine fissato per presentare
ricorso e, nel caso di ricorso presentato nei termini prescritti, fino all’esito del
medesimo129.
3.5 Il Sistema Dublino: il regolamento 604/2013, c.d. Dublino III e il
regolamento Eurodac
Il Sistema Dublino, considerato una “pietra miliare” nella costruzione del
Sistema europeo comune d’asilo, è costituito dal regolamento 604/2013 del
Parlamento europeo e del Consiglio130, c.d. Dublino III, che stabilisce i criteri e i
meccanismi per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di
una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese
terzo o da un apolide, e dal regolamento 603/2013131 istitutivo dell’Eurodac, la
and Policy, Hart Publishing, Oxford, 2007, p. 163.
Ai sensi del par. 6, qualora la domanda sia stata dichiarata infondata, inammissibile, non sia
stata esaminata ex art. 39 o la richiesta di riapertura del caso sia stata respinta, la permanenza del
richiedente nel territorio dello Stato membro sarà decisa da un giudice, su istanza di quest’ultimo o
d’ufficio, a condizione che il richiedente disponga dell’assistenza legale necessaria e di almeno
una settimana di tempo per preparare la domanda e gli argomenti da presentare al giudice a
sostegno della sua richiesta di permanenza. In caso contrario il soggetto sarà in ogni caso
autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato fino alla scadenza del termine per proporre ricorso
o, in caso di ricorso proposto nei termini, fino all’esito di quest’ultimo. Ai sensi del par. 8 in attesa
della decisione del giudice, il soggetto è autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato.
130
Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013,
Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 180/32 del 29 giugno 2013. Ai sensi dell’art. 49, il
regolamento si applica alle domande di protezione internazionale presentate dal 1° gennaio 2014;
per le domande inoltrate prima di tale data si applicano le disposizioni del regolamento (CE)
1560/2003, c.d. Dublino II. Oltre ai paesi UE, il regolamento, in forza di accordi internazionali,
vincola anche l’Islanda, la Norvegia, la Svizzera e il Liecthenstein. Il Regno Unito e l’Irlanda, in
virtù del Protocollo sulla loro posizione allegato ai Trattati, hanno notificato la volontà di
partecipare all’adozione e all’applicazione del regolamento; la Danimarca, a norma degli art. 1 e 2
del Protocollo n. 22 allegato al TUE e al TFUE non è vincolata dal regolamento.
131
Regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013,
Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 180/1 del 29 giugno 2013. Ai sensi dell’art. 45 il
regolamento abroga, con effetti a partire dal 20 luglio 2015, il regolamento (CE) 2725/2000 del
Consiglio, che istituisce l’“Eurodac” per il confronto delle impronte digitali per l’efficace
applicazione della Convenzione di Dublino e il regolamento (CE) 407/2002 del Consiglio che
129
126
banca dati europea per il confronto delle impronte digitali sia degli immigrati
irregolari che dei richiedenti protezione, per l’efficace applicazione della c.d.
procedura Dublino.
Al fine di porre rimedio alle criticità riscontrate, sia per quanto riguarda
l’attuazione pratica che l’efficacia del sistema132, e del raggiungimento
dell’obiettivo, fissato dal Programma di Stoccolma, di costruire uno spazio
comune di protezione e solidarietà per coloro che necessitano di protezione
internazionale, il 26 giugno 2013 è stato approvato il nuovo regolamento Dublino
III, che abroga il regolamento 1560/2003, c.d. Dublino II, a sua volta frutto della
“comunitarizzazione” della Convenzione di Dublino del 1990.
Come il precedente, il presente regolamento ha la funzione di garantire
l’esame della domanda di protezione internazionale da parte di almeno uno Stato
membro, evitando il fenomeno dei c.d. rifugiati in orbita e, al contempo, di
impedire che il medesimo soggetto presenti domande multiple di protezione
internazionale in diversi Stati dell’Unione, il c.d. asylum shopping. La soluzione a
questi fenomeni è data dall’adozione della regola denominata one chance rule,
secondo la quale ogni individuo, all’interno del territorio dell’Unione, ha diritto
solo ad una possibilità di esame della domanda di riconoscimento dello status di
protezione internazionale ed unicamente nello Stato individuato competente sulla
base dei criteri stabiliti dal regolamento in esame. Questo meccanismo
presuppone che gli Stati membri si considerino reciprocamente sicuri, attraverso il
“mutuo riconoscimento” delle procedure di esame delle domande di protezione, e
possano così trasferire la propria responsabilità allo Stato ritenuto competente133.
Una prima innovazione riguarda l’oggetto del regolamento, che è più ampio,
in quanto l’art. 1 da un lato fa riferimento alle domande di protezione
definisce talune modalità di applicazione del Regolamento (CE) 2725/2000. Oltre ai paesi UE, il
regolamento, in forza di accordi internazionali, vincola anche l’Islanda, la Norvegia, la Svizzera e
il Liecthenstein. Il Regno Unito ha manifestato la volontà di partecipare all’adozione della
presente normativa, al contrario, Danimarca e Irlanda, in forza dei rispettivi Protocolli allegati al
TUE e al TFUE, non sono vincolate, né soggette all’applicazione del regolamento.
132
Per un’analisi dettagliata si vedano: Commissione europea, Relazione della Commissione al
Parlamento europeo e al Consiglio. Relazione sulla valutazione del sistema Dublino, COM(2007)
299, Bruxelles, 6 giugno 2007 e ECRE, Dublin II Regulation. Lives on hold. European
comparative
report,
febbraio
2013,
disponibile
all’indirizzo
www.ecre.org/component/downloads/download
s/701.html.
133
La compatibilità di tale meccanismo con la Convenzione di Ginevra ha da sempre sollevato
numerosi dubbi, in quanto lo Stato si spoglia degli obblighi derivanti dalla Convenzione
127
internazionale, includendo quindi oltre alle richieste di asilo anche quelle volte al
riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, e, dall’altro, comprende
anche la domanda presentata da un apolide. All’art. 3 viene enunciato il principio
generale secondo cui gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione
internazionale presentata loro da un cittadino di un paese terzo o da un apolide,
sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera, e in aggiunta
rispetto al regolamento Dublino II, anche nelle zone di transito. Se lo Stato
competente non può essere individuato sulla base dei criteri elencati nel Capo III,
il secondo paragrafo sancisce la competenza del primo paese in qui la domanda è
stata presentata. Nel medesimo paragrafo viene inoltre esplicitata, in ossequio alla
giurisprudenza della Corte di Giustizia134, l’impossibilità di trasferire un
richiedente verso uno Stato in cui “si hanno fondati motivi di ritenere che
sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di
accoglienza” che determinino un rischio di trattamento inumano o degradante ai
sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Nel Capo II vengono inoltre previste maggiori garanzie a tutela dei
richiedenti: il contenuto del diritto di informazione è ampliato e precisato in un
apposita disposizione (art. 4); viene introdotto l’obbligo per gli Stati di condurre
un colloquio personale al fine di agevolare la procedura Dublino, salvo i casi
espressamente previsti135; vengono ampliate le misure di garanzia per i minori, cui
gli Stati membri devono garantire, non solo l’assistenza di un rappresentante
avente accesso a tutte le informazioni pertinenti al caso, ma anche l’adozione di
opportune disposizioni al fine di identificare in tempi brevi i familiari o i parenti
(art. 6).
demandando l’esame della domanda ad un altro Stato membro. Analoghe perplessità sono state
riscontrate anche con riferimento alla CEDU. Si veda ADINOLFI A., op. cit., p. 677.
134
Nella sentenza sul caso N. S. e altri (cause 411-10 e C 493-10, riunite) del 21 dicembre 2011, la
Corte di giustizia ha espressamente negato il carattere assoluto della presunzione che lo Stato
membro competente rispetterà i diritti umani fondamentali, alla base del Sistema Dublino. Non
ogni violazione delle disposizioni in materia di asilo è idonea a bloccare il trasferimento del
richiedente verso tale Stato, ma solo nel caso in cui vi siano fondati e comprovati motivi di credere
che il richiedente rischierebbe di subire trattamenti vietati ai sensi dell’art. 4 della Carta di Nizza.
La sentenza citata è consultabile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?
uri=CELEX:62010CJ0411:IT:HTML. A conclusioni analoghe è pervenuta anche la Corte europea
dei diritti dell’uomo nel caso M.S.S. c. Belgio e Grecia, ricorso 30696/09, sentenza 21 gennaio
2011, disponibile all’indirizzo www.hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-103050
135
Due sono i casi in cui gli Stati possono non effettuare il colloquio ai sensi dell’art. 5: il
richiedente è un fuggitivo o, dopo aver ricevuto le informazioni di cui all’art. 4, ha già fornito le
informazioni necessarie a determinare lo Stato competente. In quest’ultimo caso deve essere
128
I criteri per la determinazione dello Stato competente, elencati nel Capo III,
devono essere applicati nell’ordine in cui sono presentati e sulla base della
situazione esistente al momento della presentazione della domanda di protezione
da parte del richiedente. In caso di minore non accompagnato è competente lo
Stato dove si trova legalmente il padre, la madre, un altro adulto responsabile in
base alla legge o alla prassi, un fratello (o sorella), un parente. In mancanza di
familiari, è competente lo Stato in cui il minore ha presentato la domanda136 (art.
8). Se un familiare del richiedente, a prescindere dal fatto che la famiglia fosse già
costituita nel paese di origine, ha ottenuto la protezione internazionale o ha
presentato domanda di protezione sulla quale non è ancora stata presa alcuna
decisione, è competente lo Stato che l’ha concessa o in cui si trova il familiare. È
tuttavia necessario che il desiderio in tal senso sia manifestato dagli interessati per
iscritto (art. 9, 10). Quando diversi familiari, o fratelli minori non coniugati,
presentano domande di protezione congiuntamente o in date ravvicinate e queste
ultime sarebbero di competenza di Stati diversi, è responsabile per tutte le
domande lo Stato che sarebbe competente per la maggior parte di esse (art. 11).
Se il richiedente è titolare di un titolo di soggiorno o di un visto, validi, è
responsabile lo Stato che li ha rilasciati137 (art.12). Quando è accertato, sulla base
di prove o di circostanze indiziarie di cui all’art. 22, par. 3 del regolamento,
inclusi i dati di cui al regolamento Eurodac, “che il richiedente ha varcato
illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo,
la frontiere di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente”. La
competenza cessa dopo 12 mesi dall’ingresso clandestino. Nella circostanza in cui
non sia più possibile attribuire la competenza in base a quanto appena detto, ma è
stato accertato che il richiedente, entrato nel territorio dell’Unione illegalmente,
comunque data la possibilità al soggetto di fornire ogni altra informazione pertinente prima
dell’adozione della decisione di trasferimento.
136
Nella sentenza sul caso MA, BT, DA (causa C-648/11) del 26 giugno 2013, la Corte di Giustizia
ha chiarito che, nel caso in cui il minore privo di familiari abbia presentato più domande in diversi
Stati, la competenza spetta “allo Stato nel quale si trova il minore dopo avervi presentato una
domanda d’asilo”. La sentenza è consultabile all’indirizzo
www.curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=138088&pageIndex=0&doclang
=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=839225.
137
Se il richiedente è titolare di più permessi di soggiorno o di più visti validi e rilasciati da paesi
diversi, è responsabile nell’ordine: lo Stato che ha rilasciato il titolo più lungo, o con la scadenza
più lontana; lo Stato che ha rilasciato il visto con scadenza più lontana se i titoli hanno la
medisima natura; se si tratta di visti di natura diversa, lo Stato che ha rilasciato il titolo con validità
più lunga, o se di validità uguale, con scadenza più lontana. Le medesime regole si applicano nel
129
abbia soggiornato per un periodo continuato di almeno cinque mesi in uno Stato
membro prima di presentare la domanda, quest’ultimo Stato è responsabile (art.
13). Se il richiedente fa ingresso in uno Stato in cui è dispensato dal visto, tale
Stato è competente, a meno che la domanda non sia presentata in un altro Stato in
cui il soggetto è parimenti esentato dal visto, nel qual caso sarà quest’ultimo lo
Stato responsabile (art. 14). Infine, qualora “la volontà di chiedere la protezione
internazionale è manifestata” nella zona internazionale di transito di un aeroporto
di uno Stato membro, quest’ultimo è lo Stato competente (art. 15).
In deroga a quanto previsto dai succitati criteri, il regolamento inoltre
ribadisce sia la c.d. clausola di sovranità che la c.d. clausola umanitaria. In base
alla prima “ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda […]
anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente
regolamento”. Si tratta di una decisione assolutamente discrezionale degli Stati e
non soggetta ad alcuna condizione, neppure al consenso dell’interessato138. La
seconda clausola consente invece a qualsiasi Stato, pur non essendo competente in
applicazione dei previsti criteri, di procedere al ricongiungimento di persone
legate da qualsiasi vincolo di parentela, per ragioni umanitarie fondate soprattutto
su motivi familiari o culturali.
La procedura di determinazione dello Stato membro competente (c.d.
Dublino) è avviata “non appena una domanda di protezione internazionale è
presentata per la prima volta in uno Stato membro” cioè quando le autorità
competenti ricevono un formulario presentato dal richiedente o un verbale delle
autorità139. Se lo Stato che ha ricevuto la domanda ritiene che un altro Stato sia
caso in cui i titoli di soggiorno siano scaduti da meno di due anni e i visti da meno di sei mesi. Se
tali termini sono scaduti, è competente lo Stato in cui è presentata la domanda di protezione.
138
Inoltre, come affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza sul caso Zuheyr Frayeh Halaf
del 30 maggio 2013 (causa C-528/11) la decisione di esaminare una domanda in deroga all’art. 3,
par. 1, non dipende dal fatto che lo Stato membro competente in forza dei criteri di cui al Capo III,
non abbia risposto ad una domanda di ripresa in carico del richiedente di cui trattasi. La sentenza
citata è consultabile all’indirizzo
www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62011CJ0528:IT:HTML. Questo
orientamento è stato confermato anche nella recente sentenza sul caso Puid (causa C-4/11) del 14
novembre 2013. La sentenza è disponibile all’indirizzo
www.curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=144489&pageIndex=0&doclang
=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=857888.
139
Nel caso in cui il soggetto si rechi in un altro Stato durante la procedura Dublino, lo Stato in cui
è stata presentata per la prima volta la richiesta di protezione, deve, al fine di portare a termine la
procedura, riprendere in carico tale persona, sia nel caso in cui quest’ultima non sia in possesso di
un permesso di soggiorno, che in quello in cui l’interessato abbia presentato domanda di
protezione nell’altro Stato dopo aver ritirato la prima domanda. Tale obbligo viene meno solo se lo
130
competente per l’esame della stessa, può chiedere a quest’ultimo di farsi carico
del richiedente entro tre mesi dalla presentazione della domanda. Scaduto tale
termine, la responsabilità per la valutazione della domanda ricade sullo Stato nel
quale è stata presentata. Lo Stato membro richiesto procede alle verifiche
necessarie e risponde circa la presa in carico del richiedente entro due mesi dal
ricevimento della richiesta (un mese nel caso in cui lo Stato richiedente abbia
sollecitato una risposta urgente ex art. 21, par. 2). La mancata risposta nei termini
equivale ad accettazione della richiesta. Complessivamente la durata massima
della procedura di presa in carico è di cinque mesi.
Nel caso in cui lo Stato che ha ricevuto una domanda di protezione
internazionale da parte di un soggetto che aveva già presentato una richiesta di
protezione (in corso d’esame, ritirata o respinta) in un altro Stato, ritenga
quest’ultimo competente, deve chiedere al medesimo la ripresa in carico entro due
mesi dal ricevimento della risposta pertinente Eurodac ex art. 9, par. 5 del
regolamento 603/2013, ovvero entro tre mesi dalla data di presentazione della
domanda, se la richiesta di ripresa in carico è basata su prove diverse da quelle
fornite dal sistema Eurodac. Se i termini previsti non vengono rispettati, la
competenza spetta allo Stato in cui è stata presentata la nuova domanda. Se
invece una persona che ha presentato richiesta di protezione internazionale (in
corso d’esame, ritirata o respinta) soggiorna senza un titolo in un altro Stato,
quest’ultimo può chiedere allo Stato di inoltro della domanda, la ripresa in carico
del soggetto, nei medesimi termini previsti nella precedente ipotesi140. Se i termini
non vengono rispettati, lo Stato presso cui soggiorna il soggetto dovrà consentire a
quest’ultimo di presentare una nuova domanda. In entrambi i casi, la risposta
dello Stato membro richiesto deve pervenire entro un mese dalla richiesta di presa
in carico o, nel caso in cui quest’ultima sia basata sui dati provenienti dal sistema
Eurodac, entro due settimane. L’assenza di risposta entro tali termini equivale ad
accettazione della richiesta. L’accettazione della richiesta di presa o ripresa in
carico comporta, per lo Stato richiedente, l’obbligo di notificare al soggetto
Stato dimostra che il richiedente abbia lasciato il territorio dell’Unione per almeno 3 mesi oppure
che un altro Stato gli ha rilasciato un titolo di soggiorno (art. 20, par. 5).
140
Ai sensi dell’art. 24, par. 4, qualora la domanda sia stata respinta con decisione definitiva in
uno Stato membro, lo Stato in cui soggiorna il soggetto interessato, può alternativamente alla
richiesta di ripresa in carico, disporre l’avvio di una procedura di rimpatrio in conformità alla
direttiva 2008/115/CE.
131
interessato (o al suo avvocato o consulente legale) la decisione di trasferimento141.
L’art. 27, concernente i mezzi di impugnazione, innovando rispetto al
precedente regolamento, prevede “il diritto ad un ricorso effettivo avverso una
decisione di trasferimento o a una revisione della medesima, in fatto e in diritto,
dinanzi ad un organo giurisdizionale”142 e l’obbligo a carico degli Stati membri di
stabilire un termine ragionevole entro cui l’interessato può esercitare tale diritto.
Deve inoltre essere assicurato al soggetto l’accesso all’assistenza legale e, se
necessario, all’assistenza linguistica.
Il regolamento 343/2003 non disciplinava l’ipotesi del trattenimento dei
richiedenti asilo soggetti alla procedura Dublino, consentendo di conseguenza agli
Stati di fare ampio uso di tale possibilità143. Il nuovo regolamento, all’art. 28,
dopo aver richiamato la regola generale per cui “gli Stati membri non possono
trattenere una persona per il solo motivo che sia oggetto della procedura”, prevede
che “ove sussiste un rischio notevole di fuga” gli Stati, al fine di assicurare
l’efficacia delle procedure di trasferimento, possono trattenere il soggetto
interessato “sulla base di una valutazione caso per caso e solo se il trattenimento è
proporzionale e se non possano essere applicate efficacemente altre misure
alternative meno coercitive”. Il trattenimento deve avere durata più breve
possibile e non superare il tempo necessario per l’espletamento degli adempimenti
amministrativi relativi al trasferimento144.
Per quanto concerne i termini del trasferimento, questo deve avvenire entro sei
mesi dall’accettazione della domanda di presa o ripresa in carico o dalla decisione
141
La decisione contiene informazioni sui mezzi di impugnazione disponibili, sul diritto di
chiedere l’effetto sospensivo, ove disponibile, e sui termini per esperirli (art. 26, par. 2).
142
Tuttavia non è obbligatorio che il ricorso abbia effetto automaticamente sospensivo. L’art. 27,
par. 3 stabilisce infatti che gli Stati membri debbano prevedere nel proprio ordinamento interno,
alternativamente: che il ricorso conferisca il diritto a rimanere nel territorio dello Stato in attesa
dell’esito; che il trasferimento sia automaticamente sospeso per un termine ragionevole, durante il
quale un organo giurisdizionale ha adottato la decisione di concedere un effetto sospensivo al
ricorso; che all’interessato sia offerta la possibilità di chiedere, entro un termine ragionevole,
all’organo giurisdizionale di sospendere il trasferimento in attesa della decisione.
143
Anche la Commissione nella relazione COM 2007/299 citata (p. 7), ha sottolineato la frequente
pratica degli Stati membri di introdurre misure cautelari, onde prevenire fughe prima del
trasferimento. Pur riconoscendo la necessità di trovare soluzioni che migliorino l’efficacia dei
trasferimenti, l’istituzione rammenta che le misure di custodia cautelare dovrebbero essere
applicate solo in casi estremi, in cui vi è il rischio elevato di fuga del soggetto.
144
Ai sensi del considerando n. 20, le disposizioni in materia di garanzia e condizioni del
trattenimento contenute nella nuova direttiva “accoglienza” dovrebbero applicarsi anche alle
persone trattenute sulla base del presente regolamento. Questa tesi è avvalorata anche dalla recente
sentenza della Corte di Giustizia sul caso Cimade e GISTI (causa C-179/11) del 27 settembre
2012. La sentenza è disponibile all’indirizzo
www.curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=127563&doclang=IT.
132
“definitiva”145 su un ricorso o una revisione, nel caso in cui questi abbiano effetto
sospensivo. Il termine è prorogato fino a 12 mesi se la persona è detenuta e fino a
18 mesi se la persona è fuggita. Il trasferimento di una persona trattenuta deve
avvenire entro sei settimane dall’accettazione della richiesta di presa in carico,
altrimenti la persona deve essere posta in libertà. Il nuovo regolamento ha inoltre
previsto l’obbligo per lo Stato che procede al trasferimento di comunicare a quello
di destinazione i dati della persona interessata idonei a garantire a quest’ultima
un’assistenza adeguata e la continuità della protezione e dei diritti. Le
informazioni concernenti eventuali esigenze specifiche, inclusi i dati sullo stato di
salute fisica e mentale sono comunicati solo previo consenso esplicito
dell’interessato (art. 31, 32).
L’applicazione del regolamento Dublino II in un contesto caratterizzato da
notevoli disparità quanto ad accoglienza, procedure, prospettive di inserimento nel
contesto socio-economico tra i vari Stati membri, e le gravi conseguenze
derivatene, avevano indotto la Commissione a introdurre nella proposta di
modifica del regolamento146, un correttivo consistente in un meccanismo di
sospensione temporanea dei trasferimenti. Nella fase dei negoziati la proposta è
stata sostituita da “un meccanismo di allerta rapido, di preparazione e di gestione
delle crisi”, suddiviso in due fasi, una preventiva e una d’azione. Per quanto
concerne la prima fase, quando sulla base delle informazioni preventive ottenute
dall’EASO, la Commissione stabilisce che l’applicazione del regolamento è
ostacolata da un effettivo rischio di pressione sul sistema di asilo in uno Stato
membro e/o da problemi di funzionamento del medesimo, essa invita lo Stato in
questione ad elaborare un piano d’azione preventivo, contente tutte le misure
necessarie per far fronte alla situazione, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali
dei richiedenti la protezione internazionale. Qualora la Commissione, sulla base
della valutazione compiuta dall’EASO, ritenga che il suddetto piano non abbia
145
La specificazione “definitiva” è stata introdotta dal Regolamento Dublino III in ossequio alla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare alla sentenza del 29 gennaio 2009 sul caso
Petrosian (causa C-19/08). I giudici di Lussemburgo specificarono infatti che i termini di
esecuzione del trasferimento decorrono a partire dalla decisione che si pronuncia sul merito della
procedura.
146
Commissione europea, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che
stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di
una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di
un paese terzo o da un apolide (rifusione), COM(2008) 820, Bruxelles, 3 dicembre 2008, p. 51,
disponibile all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2008:0820
:FIN:IT:PDF.
133
posto rimedio alle difficoltà riscontrate e vi sia il rischio che la situazione diventi
critica, essa, in collaborazione con l’EASO, può chiedere allo Stato coinvolto la
predisposizione di un piano d’azione per la gestione della crisi. Lo Stato deve
intervenire nel termine di tre mesi e successivamente fornire periodicamente una
relazione sull’attuazione del piano. Il regolamento non dispone nulla circa
l’eventuale fallimento di quest’ultimo piano e il conseguente peggioramento della
situazione. Come evidenziato da autorevoli esponenti, sarebbe stata forse
preferibile l’introduzione di un meccanismo di sospensione temporanea dei
trasferimenti, azionabile dalla Commissione e valido per tutti gli Stati147.
Il principale obiettivo del regolamento Eurodac 603/2013, che abroga il
precedente regolamento 2725/2000, è permettere di determinare rapidamente lo
Stato membro responsabile per l’esame di una domanda di protezione
internazionale. Gli Stati membri devono rilevare le impronte digitali di ogni
cittadino di paese terzo o apolide di età superiore a 14 anni, che chiede protezione
internazionale nel loro territorio o che è fermato mentre attraversa illegalmente la
loro frontiera esterna; essi hanno inoltre la facoltà di rilevare le impronte digitali
degli stranieri di età superiore a 14 anni che si trovano in posizione irregolare nel
loro territorio, per accertare se abbiano presentato domanda di protezione. I dati
raccolti148 devono essere immediatamente trasmessi all’unità centrale Eurodac,
gestita dalla Commissione europea, che li inserirà nella banca dati centrale e li
confronterà con i dati già registrati. Dal confronto possono emergere “risposte
positive”, se i dati introdotti corrispondono a dati registrati in precedenza. Se
risulta che il richiedente ha già presentato domanda di protezione internazionale o
che è entrato clandestinamente nel territorio di uno Stato membro, gli Stati
possono agire in conformità al regolamento Dublino.
147
Il professor Maiani ha recentemente affermato che, se di fronte al collasso del sistema d’asilo
greco fosse stata disponibile una procedura di sospensione interna all’Unione, migliaia di persone
non sarebbero state comunque trasferite in Grecia, fino alla pronuncia della Corte di Strasburgo sul
caso M.S.S. c. Grecia e Belgio (sent. cit.) che ha stabilito che trasferire un richiedente in Grecia
costituisce una violazione dell’art. 3 della CEDU. L’intervista è disponibile all’indirizzo
www.asiloineuropa.blogspot.it/2011/11/tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere.html.
148
Ai sensi dell’art. 11, i dati trasmessi includono: lo Stato membro di origine, la data e il luogo in
cui è stata presentata la richiesta di protezione internazionale; il sesso; il numero di riferimento
assegnato dallo Stato membro; la data di rilevamento delle impronte digitali; la data di
trasmissione dei dati al sistema centrale; il numero identificativo dell’operatore. Per quanto
concerne la protezione dei dati a carattere personale, gli Stati membri devono garantire che le
impronte siano rilevate nel rispetto della legalità e che tutte le successive operazioni di utilizzo,
trasmissione e cancellazione avvengano anch’esse sempre nel rispetto della legalità. L’art. 29
134
La novità più rilevante introdotta dal nuovo regolamento del 26 giugno 2013,
a lungo auspicata dagli Stati membri ed enunciata nel considerando n. 8, è la
possibilità di utilizzo dei dati contenuti nel sistema Eurodac, da parte delle
autorità designate dagli Stati membri e dall’Ufficio europeo di polizia
(EUROPOL), al fine della prevenzione, dell’accertamento o di indagine dei reati
di terrorismo di cui alla decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio149, o di altri
reati gravi di cui alla decisione quadro del Consiglio 2002/584/GAI150. Tuttavia,
come sottolineato dalla Commissione, “occorre che l’Eurodac sia interrogato a
questo scopo soltanto quando prevalga l’interesse della sicurezza pubblica, vale a
dire qualora il reato o l’atto terroristico del quale si cerca di identificare l’autore
sia così riprovevole da giustificare l’interrogatorio di una banca dati contente dati
relativi a persone con la fedina penale pulita”151.
elenca i diritti del soggetto interessato, in particolare il diritto di essere informato circa le finalità, i
destinatari dei dati, il responsabile del procedimento e il diritto di accesso ai dati custoditi.
149
Per reati di terrorismo ai sensi del regolamento Eurodac, si intendono reati che corrispondono o
sono equivalenti a quelli di cui agli articoli da 1 a 4 della decisione quadro del Consiglio del 13
giugno 2002 sulla lotta contro il terrorismo (2002/475/GAI), Gazzetta Ufficiale delle Comunità
europee L 164/3 del 22 giugno 2002.
150
Per reati gravi si intendono le forme di reato che corrispondono o sono equivalenti a quelle di
cui all’art. 2, par. 2 della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al mandato
di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (2002/584/GAI), Gazzetta
Ufficiale delle Comunità europee L 190 del 18 luglio 2002.
151
Regolamento (UE) 603/2013, considerando n. 10.
135
CAPITOLO IV
ASILO E RIFUGIO NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
1. Il diritto d’asilo nella costituzione italiana
I padri costituenti hanno scelto di introdurre il diritto d’asilo nella Carta
costituzionale, collocandolo tra i principi fondamentali posti alla base del nuovo
ordinamento democratico, all’articolo 10, comma 3. Per comprendere tale scelta,
che non è il frutto di una svista, ma di una riflessione attenta e consapevole, è
necessario tenere a mente il particolare contesto storico-sociale dell’epoca. Solo in
Europa e solo nel corso della seconda guerra mondiale, furono 40 milioni le
persone costrette a fuggire a causa delle feroci persecuzioni politiche e razziali,
poste in atto dalle dittature europee. Inoltre, tra gli stessi deputati dell’Assemblea
costituente, vi erano persone che durante il regime fascista avevano goduto del
diritto d’asilo in altri paesi1 e ne conoscevano quindi in prima persona
l’importanza e la necessità.
La disposizione che disciplina il diritto d’asilo fu tuttavia oggetto di vivaci
discussioni all’interno dell’Assemblea, a causa dei divergenti orientamenti circa il
contenuto del diritto, espressi dai diversi schieramenti politici. Innanzitutto vi era
la posizione assunta dai comunisti, i quali erano favorevoli al riconoscimento del
diritto d’asilo “agli stranieri perseguitati per aver difeso i diritti della libertà e del
lavoro”2. Secondariamente, si ricorda la tesi espressa dai socialisti e da alcuni
deputati di centro-destra. Quest’ultima, rimanendo nel solco tracciato dalla
precedente, ne specificava il contenuto, precisando che i diritti per la cui difesa
uno straniero perseguitato doveva aver lottato, erano quelli garantiti dalla
1
Specificatamente: Pertini, Lussu, Nenni, Valiani, Di Vittorio, in Francia, Sturzo negli Stati Uniti
d’America e Togliatti in URSS. V. BONETTI P., Il diritto di asilo nella Costituzione italiana, in
FAVILLI C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, CEDAM, Padova, 2001, p. 35.
2
V. Assemblea, seduta antimeridiana dell’11 aprile 1947, in la Costituzione della Repubblica nei
lavori preparatori dell’Assemblea costituente, vol. I, Roma, 1970, p. 792. Come sottolinea
RESCIGNO F., “ciò che era estraneo alla costruzione comunista era l’idea di garantire asilo a
qualsiasi perseguitato politico per qualsiasi idea, rifiuto motivato dal timore che altrimenti anche
coloro che avevano combattuto in altri paesi contro la democrazia avrebbero potuto trovare riparo
nel nostro paese” in RESCIGNO F., Il diritto d’asilo, Carocci Editore, Roma, 2011, p. 213.
136
Costituzione italiana3. Alla posizione assunta dai comunisti da una parte e dai
socialisti dall’altra, si contrappose quella dei socialdemocratici e dei
democristiani, risultato della fusione degli emendamenti presentati in un primo
momento separatamente da questi ultimi. Più garantista delle precedenti, la tesi
eliminava qualsiasi riferimento alla “persecuzione”, riconoscendo il diritto di asilo
agli stranieri cui fosse negato di fatto l’esercizio delle libertà previste dalla
Costituzione italiana, anche se tali diritti di libertà fossero astrattamente previsti
dalla Carta costituzionale del paese di origine del richiedente4.
Al termine del dibattito, nell’Assemblea prevalse la posizione più liberale, al
fine di offrire la più estesa garanzia possibile a chi si vede privato nel proprio
paese del godimento delle libertà fondamentali, in linea con l’atteggiamento di
amplissima apertura verso i diritti fondamentali dell’uomo che caratterizza l’intera
Carta fondamentale5. Come affermato da autorevoli esponenti, la scelta in materia
di asilo fu così “consapevole” che furono presi in considerazione anche gli
eventuali problemi posti in caso di esodi di massa”6. Nel testo della disposizione
venne infatti aggiunto l’importante riferimento alle “condizioni stabilite dalla
legge”, al fine precipuo di consentire eventuali limitazioni massime al numero
degli ingressi in caso di afflussi massicci di richiedenti asilo. A norma dell’art. 10,
comma 3 della Costituzione, quindi, “lo straniero al quale sia impedito nel suo
paese d’origine l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla
Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica, secondo le
condizioni stabilite dalla legge”.
3
Simile alla proposta avanzata dai socialisti nel contenuto, ma profondamente divergente quanto a
motivazioni di fondo, fu inoltre l’emendamento presentato dal “Fronte dell’Uomo Qualunque”.
L’accento era posto sulla necessità che lo straniero fosse “perseguitato” e che tale persecuzione
fosse connessa ad azioni intraprese dal soggetto in difesa della libertà, consentendosi altrimenti al
delinquente proveniente da un paese terzo di godere dell’asilo, semplicemente sostenendo che nel
suo paese non erano rispettate le libertà garantite in Italia. V. CASSESE A., Commento all’art. 10,
in BRANCA G. (a cura di), Commentario della Costituzione, I, Nicola Zanichelli Editore,
Bologna – Roma, 1975, p. 530.
4
Si veda l’intervento dell’on. Treves, seduta antimeridiana dell’11 aprile 1947, in La Costituzione
della Repubblica nei lavori preparatori, cit., p. 794.
5
Nelle parole di CASSESE A., “è sufficiente che uno straniero non goda effettivamente di quella
libertà nel suo Stato, perché l’Italia gli apra le porte, per consentire di fruire di esse nel nostro
Paese. Più dunque che nelle altre norme della nostra Costituzione, è nell’art. [10] 3° comma che
viene alla luce la ‘filosofia’ del nostro costituente sui diritti della persona umana”, in CASSESE
A., ibidem, p. 532.
6
Tra gli altri, BONETTI P., op. cit., p. 36.
137
1.1 L’ambito di applicazione del diritto di asilo costituzionale
L’ampiezza della portata della previsione costituzionale si riscontra, in primo
luogo, con riferimento
all’ambito soggettivo di applicazione della garanzia
offerta. L’art. 10, comma 3, Cost., riferendosi in senso lato agli “stranieri”,
consente di comprendere in tale categoria non solo i cittadini di altri paesi, ma
tutti coloro che non sono cittadini della Repubblica italiana, inclusi quindi gli
apolidi. Nonostante non siano mancate in dottrina affermazioni in senso contrario,
non pare esservi ragione per aderire alla tesi più restrittiva. In primis, il
riferimento, contenuto nella norma, al “suo paese” è assolutamente compatibile
con un’interpretazione della disposizione che includa tanto lo Stato di
appartenenza dello straniero, quanto quello di provenienza dell’apolide.
Secondariamente, a conferma di questa conclusione si aggiunge la recente
disciplina legislativa in materia di stranieri, il cui ambito soggettivo pone sullo
stesso piano i cittadini di paesi terzi e gli apolidi7.
Il riconoscimento del diritto d’asilo deve quindi prescindere dal fatto che lo
straniero abbia o meno la cittadinanza dello Stato nel quale non può esercitare le
libertà democratiche, essendo a tal fine sufficiente che quest’ultimo sia lo Stato di
residenza abituale8.
Con riferimento all’ambito spaziale nel quale il diritto di asilo viene
riconosciuto e si esercita, la norma in esame lo limita al territorio della
Repubblica in senso stretto. La Costituzione sembra quindi aver scelto di tutelare
essenzialmente il solo asilo c.d. territoriale, escludendo l’asilo c.d. extraterritoriale
concesso nelle sedi di missioni diplomatiche, nei consolati, a bordo di navi da
guerra o di Stato, e in basi o aeromobili militari9. Quest’ultimo potrebbe trovare
7
Da un punto di vista più strettamente sostanziale, è opportuno considerare che gli apolidi,
essendo privi di qualsivoglia cittadinanza e non potendo di conseguenza beneficiare della
protezione offerta dal proprio paese di provenienza, sono spesso soggetti al rischio di persecuzioni
e vivono sovente in condizioni di illibertà. V. BENVENUTI M., Il diritto d’asilo nell’ordinamento
costituzionale italiano. Un’introduzione, CEDAM, Padova, 2007, p. 51.
8
Si evidenzia, inoltre, il silenzio serbato dalla disposizione in esame in merito a chi impedisca
l’esercizio delle libertà democratiche. Come sostenuto da RESCIGNO F., data la formulazione
“aperta” della norma costituzionale, il nostro paese potrebbe concedere asilo “anche a coloro che
risultano impediti nell’esercizio dei diritti fondamentali non dallo Stato – definibile come tale ai
sensi delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute – ma da forze militari o
paramilitari che ad esso si affiancano o addirittura sostituiscono”. V. RESCIGNO F., op. cit., p.
216.
9
Per un approfondimento del concetto di asilo extraterritoriale si veda UDINA M., voce Asilo
(diritto di). I) Diritto internazionale, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. III, tomo I, Bologna
– Roma, 2007, p. 4.
138
un’indiretta garanzia costituzionale all’art. 2, Cost., per cui il nostro paese, al fine
di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, dovrebbe dare aiuto e rifugio a coloro a
cui sia impedito l’effettivo esercizio di tali diritti10.
Il diritto d’asilo ha inoltre un ambito di applicazione oggettivo, in quanto allo
straniero deve essere impedito, nel paese di origine, “l’effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. La disposizione,
riferendosi all’impedimento e all’effettività, allude ad una “situazione di fatto di
carattere individuale, concreta ed attuale”11, che prescinde dalle norme
formalmente in vigore in quel paese12. Da ciò deriva in primo luogo che non è
sufficiente ai fini del riconoscimento del diritto, la provenienza del richiedente da
un paese in cui vige una forma di Stato autoritario o dittatoriale, essendo
necessario verificare nel caso concreto che il motivo determinante della richiesta
di asilo sia l’esistenza di quell’impedimento all’effettivo esercizio delle libertà
democratiche13.
Per quanto concerne la nozione di “libertà democratiche”, i padri costituenti
intendevano all’alludere a tutte le libertà garantite nel nostro ordinamento, tra cui
sono incluse, oltre al diritto alla vita, presupposto necessario per l’esercizio di
ogni altro diritto, le libertà connaturate alla stessa forma di Stato democratico14.
Sorge spontaneo chiedersi se è necessario che siano menomate le libertà
democratiche riconosciute dalla Costituzione nel loro complesso o se è sufficiente
che lo straniero non possa effettivamente godere di una sola di esse. Appare
10
Tale riconoscimento ai sensi dell’art. 2 incontra tuttavia dei limiti in altre disposizioni
costituzionali, in primis l’art. 10, comma 2, che rimette alle leggi la disciplina della condizione
giuridica dello straniero in conformità alla normativa internazionale, sia di origine consuetudinaria
che convenzionale. È quindi possibile che in forza di tale normativa venga limitata o negata la
possibilità di asilo extraterritoriale, nonostante la tutela indiretta fornita a quest’ultimo diritto
dall’art. 2, Cost.
11
NASCIMBENE B. (a cura di), Diritto degli stranieri, CEDAM, Padova, 2004, p. 1140-1141.
12
“L’accento posta dalla norma sull’effettività dell’esercizio implica che per l’acquisto del diritto
sia sufficiente l’impedimento di fatto delle libertà fondamentali, quand’anche esse siano
formalmente riconosciute nell’ordinamento estero”, COSSIRI A., Art. 10, in BARTOLE S., BIN
R., Commentario breve alla Costituzione, CEDAM, Padova, 2008, p. 86.
13
Il fatto che la menomazione delle libertà democratiche debba assurgere a motivo determinante
della fuga del richiedente dal proprio paese di origine risulta, inoltre, fondamentale per discernere
la situazione dello straniero che potrà vedersi riconosciuto il diritto d’asilo, da quella del c.d.
migrante economico, ossia colui che abbandona il proprio paese per motivi economico-sociali.
14
Tra queste rientrano: la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione, di uscita e di
entrata nel proprio paese (art. 16 Cost.), la libertà di associazione (art. 17 Cost), la libertà di
religione (art. 19 Cost), la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost), il diritto di agire in
giudizio per la tutela dei proprio diritti e interessi (art. 24 Cost), la liberta di organizzazione
sindacale (art. 39 Cost.), il diritto di sciopero (art. 40 Cost.), la libertà di iniziativa economica
privata (art. 41 Cost.).
139
preferibile quest’ultima opzione interpretativa, in quanto in circostanze particolari
e determinate, anche il mancato godimento di una sola di tali libertà può
determinare per lo straniero una di quelle “condizioni di invivibilità democratica
nel paese di origine a cui la Costituzione a inteso fornire un esplicito rimedio con
l’art. 10, co. 3, Cost. e la cui inalterata persistenza ripugnerebbe, in tutta evidenza,
a un ordinamento che annovera tra i suoi fini primari il pieno sviluppo della
persona umana”15.
La questione del riconoscimento del diritto di asilo si pone in termini articolati
qualora la richiesta di asilo provenga da un soggetto che sia perseguito per aver
contribuito a sovvertire l’ordinamento costituzionale del proprio paese di origine.
Se a prima impressione la possibilità di concedere l’asilo sembrerebbe
inconciliabile con l’art. 54 Cost., che sancisce il dovere di fedeltà alla Repubblica
e alla Costituzione, occorrerà tuttavia verificare se nel caso concreto l’operato del
soggetto era diretto a contrastare un ordinamento che non riconosce le libertà
democratiche o le riconosce solo formalmente ma non sostanzialmente, o se
invece tale contestazione era rivolta ad un ordinamento che garantisce le libertà
democratiche fondamentali. L’asilo potrà essere concesso nel primo caso, in
quanto le violazioni costituzionali sono legittimate dall’essere la Costituzione
stessa non democratica.
Infine il diritto di asilo deve essere negato a coloro che, pur provenendo da
paesi in cui le libertà democratiche non sono garantite, richiedano l’ospitalità al
fine di sottrarsi a pene detentive inflitte per reati comuni16 o per migliorare le
proprie condizioni economiche e lavorative17. Potendo risultare in concreto
difficoltoso verificare la causa di giustificazione della richiesta, se essa sia dettata
dall’effettiva menomazione delle libertà fondamentali o al contrario, da altri
motivi contingenti, la ratio sottesa all’art. 10, comma 3, Cost., induce a ritenere
sufficiente, in caso di dubbio, la provenienza del soggetto da un paese illiberale.
15
BENVENUTI M., op. cit., p. 68.
Non si può al contrario negare il diritto d’asilo allo straniero imputato o condannato per reati
politici, in quanto la negazione dell’asilo costituirebbe, di fatto, il presupposto per l’estradizione
dello straniero, vietata per i reati politici dall’art. 10, comma 4 della Costituzione.
17
La mera condizione di disoccupazione nel paese di origine non è sufficiente per la concessione
dell’asilo, in quanto il diritto al lavoro è riconosciuto dall’art. 4 Cost. ai soli cittadini e in ogni caso
16
140
1.2 Il diritto di asilo costituzionale come diritto soggettivo perfetto
Le intenzioni dei padri costituenti, concretizzatesi nell’enunciazione di un
diritto di asilo quanto mai ampio ed esplicito, sono state sostanzialmente
vanificate dal perdurante silenzio del legislatore circa la legge chiamata ad
integrare la riserva (assoluta) posta dall’art. 10, comma 3, Cost18. L’assenza di un
intervento normativo primario del legislatore ha portato, nel decennio successivo
all’entrata in vigore della Carta costituzionale, all’inquadramento da parte di
giudici amministrativi, dell’art. 10, comma 3, Cost. tra le norme programmatiche
della Costituzione, escludendo così “l’azionabilità del diritto contemplato dalla
norma stessa […] in assenza di una legge attuativa”19. Codesto iniziale
atteggiamento
giurisprudenziale,
a
cui
si
aggiungeva
l’ingiustificata
sopravvivenza dalla normativa fascista in materia di condizione giuridica dello
straniero, costantemente applicata dall’apparato amministrativo, venne da subito
censurato dalla più accorta dottrina e, su un piano più generale, dalla Corte
costituzionale fin dalla sua prima sentenza del 1956. Tre furono i caratteri
fondamentali dell’art. 10, comma 3, Cost. enucleati dalla dottrina: a) tale
disposizione disciplina l’istituto in termini espliciti e completi e contiene una
precisa delimitazione dei poteri della legge, deve pertanto essere considerata
immediatamente precettiva; b) dal riferimento testuale all’asilo come diritto,
conseguenze senza alcun dubbio, la sua immediata riferibilità soggettiva
individuale e la sua piena garanzia in via giurisdizionale ordinaria; c) tale diritto
non include il diritto ad un’occupazione effettiva. L’accesso al lavoro dello straniero è infatti
regolato dalle restanti disposizioni del corpus normativo sulla condizione dello straniero.
18
Il tentativo più avanzato di disciplinare la materia è stato effettuato con il d.d.l. A.P. Senato n.
203-B, decaduto per il termine della legislatura, dopo essere stato approvato nel corso della XIII
legislatura dal Senato e successivamente dalla Camera dei deputati il 7 marzo 2001. L’ultima
proposta di legge in ordine cronologico è quella presentata nel corso dell’attuale legislatura (XVII)
dal deputato Giacomelli (ed altri), Disciplina organica del diritto di asilo, dello status di rifugiato
e della protezione sussidiaria, nonché disposizioni di attuazione delle direttive 2003/9/CE,
2005/85/CE e 2011/95/UE (n. 327). Il testo è disponibile all’indirizzo www.camera.it/_dati/leg17/l
avori/stampati/pdf/17PDL0007390.pdf. Per una completa disamina delle proposte di legge
presentate nelle legislature precedenti si veda NASCIMBENE B., Lo straniero nel diritto italiano,
Giuffrè Editore, Milano, 1988, p. 130 ss.
19
CHIEFFI L., La tutela costituzionale del diritto d’asilo e di rifugio a fini umanitari, in Diritto,
immigrazione e cittadinanza, n. 2, 2004, p. 29-30. Una simile affermazione si ritrova anche in una
giurisprudenza amministrativa straordinariamente recente, si veda TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza
25
gennaio
2013,
n.
109,
disponibile
all’indirizzo
www.giustiziaamministrativa.it/DocumentiGA/Torino/Sezione%202/1993/199300172/Provvedimenti/TO_20030
0109_SE.DOC.
141
costituzionale soggettivo essendo corredato da una disciplina puntale presente
nelle stessa Costituzione, deve considerarsi in sé perfetto20.
L’impegno dottrinale volto ad affermare il pieno valore e l’applicabilità
immediata della norma in esame, venne lentamente recepito dalla giurisprudenza
amministrativa regionale solo a partire dalla metà degli anni ’80, anticipata in
questo da quella ordinaria21. I giudici amministrativi regionali hanno riconosciuto
nelle loro decisioni che il diritto d’asilo è frutto del “riconoscimento, chiaramente
stabilito dalla nostra Costituzione, dei diritti fondamentali dell’uomo”22, e da ciò
deriva l’immediata applicabilità dell’art. 10, comma 3, Cost. (soprattutto nel caso
di provvedimenti di espulsione di stranieri perseguitati nel loro paese di
provenienza) o, quantomeno, la sua capacità di influenzare e orientare l’attività
dei pubblici poteri che intervengono nelle fasi precedenti all’adozione della
decisione.
Codeste argomentazioni sono state riprese in tempi recenti dalle Sezioni Unite
della Corte di cassazione, le quali affermando che l’art. 10, comma 3, Cost.
“seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea
con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo
straniero il diritto di asilo”23, hanno ribadito che la giurisdizione in materia di
diritto d’asilo spetta al giudice ordinario. In ultimo, anche il Consiglio di Stato si è
20
Tra gli altri: D’ORAZIO G., Lo straniero nella Costituzione italiana, CEDAM, Padova, 1992,
p. 50 ss; NASCIMBENE B., Lo straniero nel diritto italiano, cit., p. 112; BENVENUTI M., op.
cit., p. 35 ss; GRASSO L., L’asilo costituzionale in Europa: analogie e divergenze di un
generalizzato declino, in Diritto pubblico comparato ed europeo, vol. IV, Giappichelli Editore,
2012, p. 1503.
21
Il 24 novembre 1964 la Corte d’Appello di Milano pronunciò una sentenza, considerata un
leading case in materia, nella quale si legge: “il diritto d’asilo nell’ordinamento giuridico italiano
integra un vero e proprio diritto soggettivo, azionabile e invocabile innanzi all’autorità giudiziaria
ordinaria”, in Foro italiano, 1965, II, p. 122 ss. Più recentemente, merita di essere ricordata la
sentenza della Corte di Appello di Roma sul caso Ocalan c. Presidenza del Consiglio dei Ministri
e Ministero dell’Interno in cui i giudici, dopo aver precisato che il diritto di asilo si configura
come diritto soggettivo perfetto, hanno affermato che la norma costituzionale in questione vieta di
limitare tale diritto agli stranieri provenienti da determinati paesi o di prevedere, da parte del
richiedente, la soddisfazione di particolari condizioni formali, perché “la legge ordinaria non può
modificare il presupposto a cui il dettato costituzionale subordina il sorgere del diritto di asilo né,
tantomeno, diversamente condizionarlo” (Corte d’appello di Roma, Sez. II civ., sent. 1 ottobre
1999, n. 49565). V. ODELLO M., Il diritto dei rifugiati. Elementi di diritto internazionale,
europeo e italiano, Franco Angeli Editore, Milano, 2013, p. 258.
22
TAR Fiuli-Venezia Giulia, sentenza 13 marzo 1989, n. 53, in Il foro amministrativo, 1989, p.
1847 ss. In senso analogo: TAR Friuli-Venezia Giulia, sent. 18 dicembre 1991, n. 531, in I
tribunali amministrativi regionali, 1992, I, p. 670 ss; TAR Friuli-Venezia Giulia, sent. 19 febbraio
1992, n. 91, in Il foro amm., 1992, p. 2021 ss.
23
Cassazione, Sezioni Unite, sent. 26 maggio 1997, n. 4674 disponibile all’indirizzo
www.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/commissioni/allegati/01/01_al
l_cass_1997_4674.pdf.
142
dovuto adattare, riconoscendo la competenza del giudice ordinario sul
presupposto che il diritto in esame rientra tra gli status e i diritti soggettivi24.
1.3 Il contenuto necessario del diritto di asilo costituzionale: il diritto di
ingresso e di soggiorno nel territorio della Repubblica
La struttura e la funzione del diritto d’asilo, come configurato dall’art. 10,
comma 3, Cost., unitamente al riferimento testuale al “territorio della
Repubblica”, consentono di affermare che tale diritto si sostanzia in due diritti
derivati, che ne costituisco quindi il contenuto necessario. Questi diritti devono
poter spettare a chiunque si trovi nella condizione, prospettata dal dettato
costituzionale, di impedimento dell’esercizio delle libertà democratiche, o sia in
attesa del provvedimento definito volto al riconoscimento dell’asilo. Si tratta:
•
in primis, del diritto di ingresso nel territorio italiano o, id est, del divieto
di respingimento; oppure, nel caso in cui lo straniero si trovi nel proprio paese,
del diritto al rilascio da parte dei pubblici poteri italiani di un permesso di
ingresso;
•
in secondo luogo, del diritto di soggiorno nel territorio repubblicano o, id
est, del divieto di espulsione o rimpatrio25. Tale diritto sarà provvisorio fino
all’accertamento della sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma
costituzionale, e a tempo indeterminato una volta ottenuto il riconoscimento
del diritto di asilo, nel caso in cui persista nel paese di provenienza del
soggetto l’impedimento all’effettivo esercizio delle libertà democratiche26.
Sono proprio tali prerogative a far emergere in tutta chiarezza, la rilevanza
specifica della situazione soggettiva di coloro che chiedono e si vedono
riconosciuto il diritto di asilo rispetto a quella degli stranieri in generale, di cui
all’art. 10, comma 2, Cost27. Questi ultimi, a differenza dei primi, pur
24
Consiglio di Stato, sez. IV, decisione 15 dicembre 2000, n. 6710. Così anche: Cons. St., sez. IV,
decisione 15 dicembre 2000, n. 6716; Cons. St., sez. per gli atti normativi, parere 19 aprile 2004,
n. 200/04; Cons. St., sez. VI, decisione 25 settembre 2006, n. 5605, disponibili all’indirizzo
www.giustizia-amminitrativa.it.
25
La Corte costituzionale ha infatti affermato che il diritto d’asilo, rispetto all’espulsione e al
rimpatrio, esplica un’“efficacia paralizzante” (sentenza 13 gennaio 2004, n. 5, disponibile
all’indirizzo www.giurcost.org/decisioni/2004/0005s-04.html).
26
Tra gli altri, si vedano: BENVENUTI M., Asilo (diritto di). II) Diritto costituzionale, in
Enciclopedia Giuridica Treccani, Vol. III, Tomo I, Bologna – Roma, 2007, p. 8; GAJA G., Diritti
dei rifugiati e giurisdizione ordinaria, in Rivista di diritto internazionale, 1997, p. 791.
27
L’art. 10, comma 2, Cost. afferma: “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge
in conformità delle norme e dei trattati internazionali”.
143
beneficiando dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost., godono di una tutela
meno intensa, che si concreta “nel non avere di regola un diritto acquisitivo di
ingresso e di soggiorno in altri Stati; lo straniero può entrarvi e soggiornarvi solo
conseguendo determinate autorizzazioni, e per lo più, per un periodo determinato.
[…] Lo Stato ospitante può, pertanto, revocare in ogni momento il permesso di
soggiorno o limitare la circolazione di esso straniero nel proprio territorio, così
come l’ordinamento prevede, nella salvaguardia pur sempre dei diritti
fondamentali”28.
È opportuno precisare che il diritto di ingresso e il diritto di soggiorno, come
contenuto necessario del diritto di asilo, essendo costituzionalmente riferibili alla
libertà di circolazione e di soggiorno di cui all’art. 16 Cost.29, ne “attraggono”
anche le rispettive limitazioni, “che la legge stabilisce in via generale per motivi
di sanità o sicurezza”. Un’accorta dottrina sottolinea come tali motivi potranno
legittimare costituzionalmente un intervento del legislatore in ordine al diritto di
asilo, che preveda tanto limiti di carattere quantitativo al medesimo, quanto
l’introduzione di fattispecie di deroga, senza tuttavia poter inficiare il favor
attribuito dal costituente agli stranieri di cui all’art. 10, comma 3, Cost30.
Per quanto concerne invece gli altri diritti costituzionali spettanti ai titolari del
diritto di asilo deve ritenersi, sia pur in assenza di una disciplina organica di tale
diritto, che l’ordinamento italiano debba consentire quanto più possibile a chi ne
risulta beneficiario l’effettivo godimento di quelle libertà democratiche impedite
nel paese di provenienza, con il solo limite dei diritti costituzionali strettamente
connessi con lo status civitatis31. In ogni caso, se come in precedenza osservato la
28
BENVENUTI M., Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 177.
Ai sensi dell’art. 16 Cost.: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi
parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi
di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni
cittadino è libero di uscire dai territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di
legge”.
30
Si tratta dei soli limiti che il legislatore potrebbe legittimamente introdurre al diritto di asilo, in
quanto nonostante la norma costituzionale faccia riferimento alle “condizioni stabilite dalla legge”,
queste ultime sono state prospettate per rendere tale diritto il più effettivo possibile e non per
limitarlo a priori. Da ciò deriva che la disciplina di tali “condizioni” non potrebbe in alcun modo
introdurre tanto dei requisiti o dei presupposti di carattere qualitativo, quanto dei limiti di ordine
quantitativo, senza porsi in contrasto con il disposto dell’art. 10, comma 3, Cost. e con il favor
costituzionale nei confronti degli stranieri beneficiari del diritto d’asilo. Per un approfondimento
della questione dei limiti al diritto in esame, con particolare riguardo al caso di asilo c.d. di massa,
si vedano: BENVENUTI M., op. cit., p. 136 ss; RESCIGNO F., Il diritto d’asilo tra previsione
costituzionale, spinta europea, e “vuoto” normativo, in Politica del diritto, n.1, 2004, p. 157 ss.
31
In questi termini si sono espressi i giudici della Corte costituzionale, nell’unica occasione in cui
fino ad ora hanno avuto modo di pronunciarsi direttamente sull’art. 10, comma 3, Cost. In tale
29
144
posizione giuridica dei titolari del diritto di asilo è privilegiata rispetto a quella
degli stranieri in generale, ai primi spetterà uno spettro di diritti non inferiore a
quello enucleato dalla giurisprudenza costituzione con riferimento ai secondi.
1.4 Asilo costituzionale e rifugio convenzionale: due figure giuridiche distinte
Oltre che dalla summenzionata mancanza di una legge organica di attuazione
del disposto costituzionale relativo al diritto di asilo, un ulteriore rischio di
menomazione della portata garantistica dell’art. 10, comma 3, Cost. deriva dalla
perdurante confusione giurisprudenziale tra l’istituto dell’asilo costituzionale e
quello del rifugio previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, a cui l’Italia
aderisce.
In verità, in primo momento la giurisprudenza sembrò correttamente
indirizzarsi verso una netta distinzione dei due istituti. Nella già citata sentenza
della Corte di appello di Milano del 27 novembre 1964, i giudici avevano infatti
affermato come “la nozione di rifugiato […] concettualmente si identifi[chi] solo
parzialmente con quella di straniero avente diritto di asilo nel territorio della
Repubblica”, sottolineando tuttavia che l’inerzia del legislatore aveva fatto sì che
nella prassi amministrativa le figure avessero finito con il confondersi.
Tali argomentazioni vennero riprese anche dalle Sezioni unite della
Cassazione nella sentenza n. 4674 del 1997, in cui i giudici, negando la
possibilità, nonostante la mancanza di una specifica legge in materia, di applicare
la disciplina normativa in materia di riconoscimento dello status di rifugiato al
riconoscimento del diritto di asilo, dichiararono che “l’asilo costituzionale e la
normativa sui rifugiati politici non coincidono dal punto di vista soggettivo perché
la categoria dei rifugiati politici è meno ampia di quella degli aventi diritto
all’asilo”32.
sentenza la Corte ha ritenuto che la previsione legislativa della reciprocità per l’esercizio della
professione giornalistica, sarebbe stata del tutto irragionevole se applicata anche nei confronti di
stranieri a cui è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche nel paese di origine. L’art.
10, comma 3, della Costituzione nel riconoscere il diritto di asilo a tali soggetti infrange infatti la
tradizionale regola della reciprocità. Corte Costituzionale, sentenza 23 marzo 1968, n. 11,
disponibile
all’indirizzo
www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do.
Per
un’analisi
approfondita si veda BENVENUTI M., op. cit., p. 186.
32
Corte di cassazione, Sez. Un., sentenza 26 maggio 1997, n. 4674, disponibile all’indirizzo
www.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/commissioni/allegati/01/01_al
l_cass_1997_4674.pdf.
145
Codesto
iniziale
e
assolutamente
condivisibile
orientamento
della
giurisprudenza venne tuttavia ribaltato da numerose pronunce nel corso del
decennio appena trascorso. Se già nel dicembre del 1999, le Sezioni Unite della
Cassazione, sulla base di una ricostruzione del rapporto tra rifugio convenzionale
e asilo costituzionale come di species a genus, assimilarono i due istituti dal punto
di vista procedurale33, nella sentenza n. 25028 del 25 novembre 2005 i giudici
della Suprema Corte ritennero ravvisabile “una perfetta simbiosi fra gli istituti in
questione, con la conseguenza di una più semplice, oltre che più corretta ed
incisiva, applicazione degli strumenti del diritto”. Da ciò deriva, nell’analisi della
Corte, che in mancanza di una legge organica sull’asilo, il diritto d’asilo
costituzionale potrebbe essere inteso, non tanto come un diritto all’ingresso nel
territorio italiano, quanto piuttosto come il diritto di accedervi al fine di essere
ammesso alla procedura di esame della domanda di riconoscimento dello status di
rifugiato politico34.
Queste affermazioni sono state successivamente ribadite dalla Corte di
Cassazione che ha continuato così a configurare, anche recentemente35, “un diritto
di asilo che sarebbe da considerarsi come meramente ‘ancillare’ alla possibilità di
accedere alle procedure necessarie al riconoscimento dello status di rifugiato,
sancendo così il sostanziale svuotamento dell’istituto costituzionale”36.
In accordo con la dottrina più influente sono da respingere non solo le conclusioni
a cui è pervenuta la giurisprudenza, ma in primis le premesse da cui scaturiscono.
Nonostante infatti gli istituti dell’asilo costituzionale e del rifugio convenzionale
siano accumunati da identiche radici storiche, oltre che dai medesimi intenti
umanitari e solidaristici, diversa è la fonte da cui derivano i due strumenti di
33
Corte di cassazione, Sez. Un., sentenza 17 dicembre 1999, n. 907, disponibile all’indirizzo
www.asgi.it/public/parser_download/save/corte.cassazione.sezioni.unite.civili.8.ottobre.1999.pdf.
34
I giudici sostennero di conseguenza che “il diritto di asilo non avrebbe contenuto legale diverso
e più ampio del diritto ad ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno per la durata
dell’istruttoria della pratica attinente il riconoscimento dello status di rifugiato”. Corte di
Cassazione, Sez. I, sentenza 25 novembre 2005, n. 25028, disponibile all’indirizzo
www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniSemplici/SchedaNews.asp?ID=95
2.
35
Tra le altre, Corte di cassazione, Sez. I, sent. 18941/2006; 18549/2006 (per un’analisi precisa si
veda MELICA L., La Corte di cassazione e l’asilo costituzionale: un diritto negato? Note alle
recenti sentenze della 1^ sezione della Corte di Cassazione, in Diritto, immigrazione e
cittadinanza, n. 4, 2006, p. 57 ss); 26056/2010. Corte di cassazione, Sez. IV, ord. 10204/2011.
36
GRASSO L., op. cit., p. 1509.
146
protezione, oltre che la rispettiva causa di giustificazione37. Lo status di rifugiato
è previsto nonché disciplinato organicamente dal diritto internazionale pattizio
espresso dalla Convenzione di Ginevra e dal successivo Protocollo di New York
del 1967, cui il legislatore italiano deve conformarsi ai sensi dell’art. 10, comma
2, Cost. Per quanto concerne le cause di giustificazione, al fine del riconoscimento
della qualifica di rifugiato è necessario un requisito che non viene richiesto per
l’accertamento del diritto di asilo. Lo straniero deve infatti poter dimostrare la
sussistenza almeno di un fondato timore di essere perseguito nel proprio paese di
origine, quando ai fini del riconoscimento del diritto di asilo è sufficiente anche
solo un principio di prova in merito alla compressione dell’esercizio delle libertà
fondamentali nello Stato di provenienza. In conclusione, la nozione di asilo
accolta in costituzione è più ampia di quella di rifugio offerta dalla Convenzione,
“nel senso che la formula costituzionale consente (e, giuridicamente, impone) allo
Stato di concedere (ex art. 10, comma 3) più di quanto sia internazionalmente
obbligato”38.
2. Lo status di rifugiato nella prassi anteriore alla legge n. 39/1990
L’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione di Ginevra sullo status
dei rifugiati con la legge n. 722 del 24 luglio 195439. E a questa che si rinvia per
definire rifugiato lo straniero che temendo a ragione di essere perseguitato per
motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo
sociale, opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di appartenenza o, se apolide,
di abituale residenza, e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi
della protezione del proprio Stato (art. 1A).
Per lungo tempo, il più grave limite al pieno recepimento della Convenzione
nel nostro ordinamento, dopo che è venuto meno quello di ordine temporale a
seguito della ratifica del Protocollo di New York del 196740, in base al quale la
37
V. RUOTOLO G. M., Diritto d’asilo e status di rifugiato in Italia alla luce del diritto
internazionale e della prassi interna recente, in Diritto pubblico comparato ed europeo, vol. IV,
Giappichelli Editore, 2008, p. 1831.
38
D’ORAZIO G., Condizione dello straniero e “società democratica” (sulle “ragioni” dello
Stato), CEDAM, Padova, 1994, p. 84.
39
Gazzetta Ufficiale n. 196 del 27 agosto 1954. Il testo delle leggi citate in questo capitolo è
disponibile all’indirizzo www.normattiva.it.
40
Legge 14 febbraio 1970, n. 95. Gazzetta Ufficiale n. 79 del 28 marzo 1970.
147
Convenzione si applica anche agli individui che hanno lasciato il proprio paese a
seguito di avvenimenti verificatesi successivamente al 1° gennaio 1951 (data
originariamente prevista), fu quello di ordine spaziale41. Fino al 1989, hanno in
cui fu abolita la riserva geografica formulata all’atto della ratifica della
Convenzione42, lo status di rifugiato venne infatti, di regola, riconosciuto nel
nostro paese soltanto agli individui provenienti da paesi europei43.
Tale limitazione, unitamente alla mancata adozione di una normativa volta a
regolamentare compiutamente il diritto d’asilo, portò al delinearsi di due categorie
distinte di rifugiati: i rifugiati “de iure” o “sotto Convenzione” e i rifugiati “de
facto” o “sotto mandato dell’UNHCR”. Nella prima categoria rientravano i
soggetti destinatari della Convenzione di Ginevra così come ratificata dall’Italia, a
cui si applicava integralmente la disciplina prevista da quest’ultimo accordo. Nei
decenni antecedenti all’entrata in vigore della legge n. 39 del 1990, si fecero
alcune limitate e sporadiche eccezioni alla riserva, riconoscendo come rifugiati
“de iure” anche cittadini non europei. Una prima deroga venne accordata nel
settembre del 1973, quando il Governo italiano riconobbe lo status di rifugiato a
circa un migliaio di cittadini cileni che chiesero protezione all’ambasciata italiana
di Santiago del Cile. In seguito, furono riconosciuti come rifugiati circa
tremilacinquecento cittadini provenienti dal Sud-est asiatico (cambogiani, laotiani
e sud-vietnamiti) e alcuni cittadini iracheni, afghani e ghanesi44.
La categoria dei rifugiati “de facto” o “sotto mandato dell’UNHCR” è invece
di più difficile definizione e delineabile sostanzialmente per esclusione rispetto
alla prima. Rientravano in questa categoria i rifugiati extraeuropei, quelli in
41
Si ricorda che, ai sensi dell’art. 1B, gli Stati contraenti all’atto della firma o della ratifica
potevano limitare l’applicazione della Convenzione ai soli cittadini di provenienza europea. Tale
facoltà venne soppressa dal Protocollo di New York del 1967, facendo tuttavia salve le
dichiarazioni restrittive già formulate dagli Stati (art. I, par. 3 del Protocollo).
42
La riserva geografica è decaduta con l’entrata in vigore del decreto legge 30 dicembre 1989 n.
416, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 39 (Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28 febbraio 1990).
43
L’esclusione dei cittadini di paesi extraeuropei fu oggetto di incisive critiche. Le ragioni
politiche che portarono a questa scelta e al suo mantenimento per diversi decenni, furono
innanzitutto di ordine economico e di pubblica sicurezza. Le autorità argomentarono infatti sulla
base della circostanza che l’Italia era l’unico paese occidentale che presentava una frontiera
terrestre o marittima con due aree geografiche, l’Europa dell’est e l’area afro-asiatica, da cui
provenivano flussi massicci di profughi. V. PETROVIĆ N., Rifugiati, profughi, sfollati. Breve
storia del diritto d’asilo in Italia dalla Costituzione ad oggi, Franco Angeli Editore, Milano, 2011,
p. 25.
44
Come osservato da NERI L., “queste eccezioni, in assenza di un preciso quadro normativo,
furono frutto di accordi politici e del discrezionale interessamento dei governi in carica, con la
conseguente incoerenza e la disparità di trattamento che ben si può immaginare”, in
NASCIMBENE B. (a cura di), Diritto degli stranieri, cit., p. 1207.
148
transito nel territorio italiano e diretti in altri paesi, i soggetti già riconosciuti
rifugiati da un altro Stato contraente (il c.d. Stato di primo asilo) e coloro che si
trovavano comunque temporaneamente in Italia e chiedevano protezione
all’UNHCR.
Ad accumunare queste due tipologie di rifugiati vi era il diritto, sancito
dall’art. 33 della Convenzione, a non essere respinto (il c.d. principio di nonrefoulement) e la possibilità di accedere alla protezione dell’UNHCR, il cui
mandato statutario non era limitato ai soli rifugiati “sotto Convenzione”. A
seconda della categoria di appartenenza, la procedura volta al riconoscimento
dello status seguiva dal principio un percorso differente: la richiesta di asilo
veniva depositata alla frontiera, presso le autorità di polizia o le Questure, e
successivamente inoltrata al Ministero dell’Interno o all’UNHCR a seconda che si
trattasse, rispettivamente, di profughi europei o extraeuropei.
Le domande di asilo presentate dai primi erano istruite da un’apposita
Commissione paritetica di eleggibilità (CPE), composta da due funzionari, di cui
uno del Ministero degli Affari Esteri e uno del Ministero dell’Interno, e da un
componente della delegazione italiana dell’UNHCR45. In attesa dell’esito della
procedura, ai profughi europei, spesso inviati nei Centri di assistenza profughi
stranieri (CAPS), era concesso un permesso di soggiorno ad interim, che in caso
di riconoscimento dello status di rifugiato era sostituito da un altro, rinnovabile
ogni quattro mesi. L’esito positivo del procedimento conduceva ad una
dichiarazione di “eleggibilità”, che oltre a riconoscere lo status di rifugiato,
permetteva ai beneficiari di fruire del diritto al soggiorno e al lavoro, e
dell’equiparazione sotto il profilo assistenziale ai cittadini italiani46.
In caso di esito negativo, vi era un'unica possibilità per il richiedente: qualora
fossero emersi nuovi elementi di fatto, costui poteva chiedere la revoca del
provvedimento e il riesame da parte della medesima Commissione. Nonostante le
45
La Commissione paritetica di eleggibilità venne istituita con uno scambio di note tra il Governo
italiano e l’UNHCR, il 22 luglio 1952 e sancita ufficialmente con un decreto interministeriale del
24 novembre 1953. Si noti che la data di istituzione è antecedente a quella della ratifica della
Convenzione di Ginevra da parte dello Stato italiano, in quanto l’Ufficio dell’Alto Commissario
delle Nazioni Unite per i Rifugiati opera in Italia dal 15 aprile 1952. Si veda FERRARI, G.,
Rifugiati in Italia. Excursus storico-statistico dal 1945 al 1995, disponibile all’indirizzo
www.unhcr.it/cms/attach/editor/PDF/escursus.pdf.
46
Per un’approfondita analisi della possibilità riconosciuta ai rifugiati “de iure” di esercitare un
lavoro subordinato o autonomo si veda NASCIMEBENE B., Lo straniero nel diritto italiano, cit.,
p. 119.
149
reiterate raccomandazioni in tal senso avanzate dal Comitato esecutivo del
programma dell’UNHCR, non vi era nessuna possibilità di ricorrere in via
giurisdizionale contro il provvedimento di diniego emanato dalla Commissione.
L’istanza dei richiedenti extraeuropei era inoltrata da parte dell’autorità
ricevente alla Delegazione italiana dell’UNHCR, che avrebbe decretato il
riconoscimento della qualifica di rifugiato “sotto mandato” oppure rigettato la
domanda. La protezione fornita dell’UNHCR consisteva nell’assistenza sanitaria
ed economica (tramite contributi e borse di studio), che poteva però essere
garantita solo in misura limitata e per un periodo non superiore a sei mesi. Il
rifugiato “sotto mandato” non vantava inoltre alcun diritto nei confronti dello
Stato, che si limitava a rilasciargli un permesso di soggiorno provvisorio “in attesa
di emigrazione”, eccezionalmente rinnovabile, con il quale era precluso l’accesso
a qualsiasi attività lavorativa. Questi ultimi rifugiati erano perciò trattati alla
stregua degli stranieri ordinari e soggetti alle disposizioni del Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza47, sia per quanto concerne il soggiorno che l’eventuale
allontanamento dal territorio dello Stato.
Occorre notare, in conclusione, che seppur con le tratteggiate differenze di
trattamento
riservate
ai
rifugiati
europei
ed
extraeuropei,
la
scelta
dell’emigrazione accomunava entrambe le categorie48. L’Italia per quasi un
quarantennio svolse pertanto il ruolo di paese di primo asilo, delegando ad altri
paesi europei, come Francia, Gran Bretagna e Germania, il compito di offrire una
più stabile e duratura protezione.
3. L’evoluzione normativa in materia di asilo e immigrazione: dalla
legge Martelli alla legge n. 189 del 30 luglio 2002
Lo stallo sulla disciplina dell’asilo è perseguito per vari decenni fino a quando
l’incremento dei flussi migratori non ha imposto di fatto all’Italia un ripensamento
quantomeno parziale della propria legislazione. Fu così emanato il primo
strumento legislativo che prevedeva espressamente disposizioni in materia di asilo
47
Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, Gazzetta Ufficiale n. 146 del 26 giugno 1931.
Nel periodo tra il 1952 e il 1989 vengono presentate in Italia circa 188.188 domande di asilo. Al
31 dicembre 1991 soltanto 12.203 sono i rifugiati che risultano stabiliti in Italia. V. PETROVIĆ
N., op. cit., p. 28-29.
48
150
e immigrazione: il decreto legge n. 416 del 1989 recante “Norme urgenti in
materia di asilo politico, d’ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di
regolarizzazione dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti nel territorio
dello Stato”, convertito con alcune modifiche nella legge 28 febbraio 1990, n. 39
(c.d. legge Martelli, dal nome dell’allora vicepresidente del Consiglio che la
propose)49.Si trattava tuttavia di una legislazione d’urgenza50, avente natura
provvisoria, il primo passo verso l’attesa normativa organica in materia d’asilo.
Ai rifugiati venne dedicato l’articolo 1. Nonostante infatti il titolo facesse
riferimento all’“asilo politico”, la normativa si limitò ad integrare la legge di
ratifica della Convenzione di Ginevra, riferendosi quindi esclusivamente ai
rifugiati come definiti dall’art. 1A della Convenzione51. Come anticipato in
precedenza, il primo elemento significativo della legge fu l’abolizione della
riserva geografica apposta dall’Italia all’atto della ratifica della Convenzione di
Ginevra. Per i rifugiati “de facto” il comma 3° dell’art. 1, aveva previsto la
possibilità di beneficiare di una forma di riconoscimento automatico dello status
di rifugiato52, acquisendo in questo modo la protezione effettiva del Governo
italiano. I successivi commi dell’art. 1 erano invece dedicati a disciplinare la
procedura volta al riconoscimento dello status di rifugiato, che com’è noto è
lasciata dalla Convenzione all’iniziativa del legislatore nazionale53.
49
Al fine di dare attuazione ad alcune disposizioni contenute nella l. Martelli viene
successivamente emanato il D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136, Gazzetta ufficiale dell’8 giugno 1990,
n. 132.
50
La legge venne infatti approvata nei giorni successivi all’assassinio del rifugiato sudafricano
Jerry Masslo, a cui seguì una forte mobilitazione della società civile che chiedeva una nuova
legislazione in materia di immigrazione, capace di riflettere i cambiamenti in atto nel contesto
internazionale e nella stessa società italiana. Nel 1989 vi era stata infatti la caduta del muro di
Berlino, a seguito della quale veniva quasi a cessare completamente il flusso dei profughi
provenienti dall’ex blocco sovietico. In secondo luogo, vi erano profondi mutamenti in atto nel
contesto comunitario, che portarono all’abolizione delle frontiere interne e all’approvazione dei
primi strumenti vincolanti in materia d’asilo.
51
Come sottolineato da BENEDETTI E., “da questo disposto si evince chiaramente come
l’equivoco tra richiedenti asilo e rifugiati non sia stato in alcun modo risolto dal testo legislativo in
questione”, in BENEDETTI E., Il diritto di asilo e la protezione dei rifugiati nell’ordinamento
comunitario dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, CEDAM, Milano, 2010, p. 231.
52
Ai sensi dell’art. 1, comma 3, d.l. 416/1989: “agli stranieri extraeuropei ‘sotto mandato’
dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) alla data del 31 dicembre
1989 è riconosciuto, su domanda da presentare, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del presente decreto, al Ministro dell’Interno, lo status di rifugiato. Tale
riconoscimento non comporta l’erogazione dell’assistenza”.
53
Come tuttavia osservato da NASCIMBENE B., “la possibilità stessa di dare concreta attuazione
alla Convenzione è inscindibilmente collegata alla strutturazione della procedura in termini tali da
consentire l’identificazione dei beneficiari della tutela, […] prima e indipendentemente da ogni
formale riconoscimento. Si può quindi ritenere che il rispetto di talune garanzie procedurali
minime formi l’oggetto di un obbligo implicito, funzionale all’effettivo rispetto degli impegni
151
Per quanto concerne l’ingresso nel territorio italiano, la norma in esame,
conformemente all’art. 31 della Convenzione, non faceva alcuna distinzione tra i
richiedente asilo entrati regolarmente e coloro che si trovano invece in situazione
irregolare. L’accesso era quindi consentito a tutti i richiedenti indistintamente, ad
eccezione di quelli elencati nel 4° comma, che dovevano essere respinti dalla
polizia di
frontiera o comunque esclusi dall’accesso alla procedura. Tra le
condizioni ostative, oltre a quelle già previste dall’art. 1F della Convenzione di
Ginevra (aver commesso un crimine contro la pace, di guerra o contro l’umanità,
un delitto comune accertato con sentenza passata in giudicato, essersi reso
colpevole ai azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite), vi erano il
riconoscimento dello status di rifugiato in un altro paese, la provenienza da un
paese diverso da quello di appartenenza e contraente della Convenzione, dopo
avervi soggiornato per un periodo di tempo54 e la condanna per uno dei reati
previsti dall’art. 380, commi 1 e 2 del c.p.p. (tra cui l’associazione di tipo
mafioso, il traffico di stupefacenti, e l’appartenenza ad organizzazioni
terroristiche)55.
Ai sensi del comma 5°, per essere riconosciuto rifugiato lo straniero doveva
inoltrare un’istanza motivata e il più possibile documentata all’ufficio di polizia di
frontiera. In seguito all’inoltro della domanda e all’elezione del domicilio nel
territorio dello Stato, al soggetto veniva rilasciato un permesso di soggiorno
temporaneo, valido fino al termine della procedura di riconoscimento. Nel caso in
cui il richiedente fosse privo dei mezzi necessari alla sussistenza e non potesse
ricevere ospitalità, poteva fare domanda per un contributo di prima assistenza, che
era concesso in ogni caso per un periodo di tempo non superiore a quarantacinque
giorni (7° comma). Il comma 6° della legge Martelli prevedeva inoltre la
possibilità di presentare ricorso giurisdizionale avverso la decisione di
assunti sul piano internazionale”. V. NASCIMBENE B., La condizione giuridica dello straniero.
Diritto vigente e prospettive di riforma, CEDAM, Padova, 1997, p. 123-124.
54
L’espulsione o il respingimento non erano in ogni caso consentiti se in detto paese o in quello in
cui lo straniero era stato riconosciuto rifugiato, quest’ultimo corresse il rischio di essere oggetto di
persecuzioni per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche,
condizioni personali o sociali, oppure rischiasse di essere rinviato verso uno Stato terzo nel quale
non fosse protetto dalla persecuzione.
55
È opportuno sottolineare che autorevoli esponenti hanno rilevato che le ipotesi di diniego alla
procedure di cui alle lettere a)-d) dell’art. 1, sono almeno parzialmente incompatibili con quelle
previste dalla Convenzione di Ginevra, determinando quindi l’esclusione ingiustificata di una
fascia di richiedenti asilo. Tale tesi è stata inoltre condivisa da alcune pronunce giurisdizionali, tra
152
respingimento presa ai sensi dei due commi precedenti, non specificando tuttavia
se quest’ultimo avesse effetto sospensivo56.
La procedura per ottenere lo status di rifugiato era invece disciplinata nel
decreto attuativo della legge in esame, D.P.R. n. 136 del 1990. La domanda dopo
essere stata istruita dalla Questura competente, e completa del verbale delle
dichiarazioni rese dai richiedenti, era inviata alla Commissione centrale, che la
esaminava sulla base dei criteri di eleggibilità sanciti dalla Convenzione di
Ginevra. Con riguardo alla Commissione centrale, quest’ultima era presieduta da
un prefetto e composta da un funzionario della Presidenza del Consiglio, uno del
Ministero degli affari esteri e due del Ministero dell’interno57. Vi partecipava
inoltre, con funzioni meramente consultive, un rappresentante della delegazione
italiana dell’UNHCR. Per quanto riguarda i diritti del richiedente durante la
procedura, egli, previa richiesta formulata nel verbale, poteva essere sentito
personalmente dalla Commissione; non aveva tuttavia diritto all’assistenza di un
difensore o di un consulente dell’UNHCR ma solo, ove occorresse, all’ausilio di
un interprete. La decisione, motivata, doveva essere notificata per iscritto
all’interessato, che in caso di esito negativo poteva impugnarla, entro trenta
giorni, davanti al giudice amministrativo territorialmente competente58. In seguito
al riconoscimento dello status di rifugiato, il soggetto godeva oltre che dei diritti
riconosciuti agli immigrati regolari, dei diritti fondamentali garantiti dalla
Convenzione di Ginevra. In particolare, i diritti relativi ai rapporti civili, di lavoro
e di assistenza sociale, divenendo, di fatto, equiparabile a un cittadino italiano.
cui si ricorda TAR Friuli-Venezia Giulia, sentenza 13 marzo 1989 n. 53. V. NASCIMBENE B.,
op. cit., p. 125.
56
Il ricorso contro i provvedimenti di diniego dello status di rifugiato e contro quelli di espulsione
dal territorio dello Stato è inoltre previsto dall’art. 5 commi 2-3, che precisa la competenza del
tribunale amministrativo regionale del luogo del domicilio eletto dall’interessato. Entrambe le
norme non si esprimono circa l’effetto sospensivo del ricorso. Alla luce delle norme minime
consacrate in sede internazionale, in particolare l’art. 13 della CEDU, l’effetto sospensivo, in
quanto funzionale alla garanzia del principio di non refoulement, è essenziale alla garanzia stessa
del ricorso (V. Corte EDU, Vilvarajah e altri c. Regno Unito, supra, Capitolo II).
57
Ai sensi dell’art. 2, D.P.R. n. 136/1990, la Commissione centrale è nominata con decreto del
Presidente del Consiglio, su proposta congiunta dei Ministri dell’interno e degli esteri. Il comma 2,
prevede la possibilità che della stessa siano costituite più sezioni, anche per aree geografiche di
provenienza dei richiedenti.
58
In seguito ad un’eventuale notifica negativa, le Questure provvedono ad emanare i necessari
provvedimenti di espulsione o in alternativa un invito a lasciare il paese. Contestualmente al
ricorso contro il provvedimento di allontanamento, da proporsi sempre nel termine di 30 giorni
dalla notifica al TAR del luogo di domicilio, il richiedente interessato può presentare istanza di
sospensione dell’esecutorietà di quest’ultimo.
153
Il principale problema della normativa riguardava la durata della procedura di
asilo, ossia il periodo compreso tra l’ingresso del richiedente nel territorio italiano
e il provvedimento finale emanato dalla Commissione centrale. Secondo le stime
di Medici Senza Frontiere, la durata media della proceduta superava regolarmente
i due anni59. Durante tale periodo il richiedente era costretto a vivere nella più
assoluta incertezza, non avendo né diritto al lavoro, né tanto meno un sussidio
economico, se non per la durata limitata di quarantacinque giorni. A ciò si
aggiunse, negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge
Martelli, l’inizio dei flussi massicci di profughi che accompagnarono le crisi
albanesi del 1991 e del 1997, la guerra civile somala del 1992 e gli eventi bellici
della ex-Jugoslavia, che destabilizzarono ulteriormente il precario sistema d’asilo
definito dalla legge. Per far fronte a tali emergenze, il legislatore si vide costretto
ad emanare una serie di normative eterogenee che introdussero nell’ordinamento
italiano alcune figure di asilo umanitario, distinte dallo status di rifugiato60.
3.1 Il Testo unico sull’immigrazione e la legge n. 189/2002
Alla luce delle criticità riscontrate e del costante aumento dei flussi migratori,
nel 1998 il Governo ritenne opportuna l’emanazione di una nuova legge, con
l’intento di disciplinare organicamente l’intera materia dell’immigrazione. Venne
così approvata la legge n. 40 del 1998 (c.d. legge Turco-Napolitano, dai nomi
degli allora Ministri della solidarietà sociale e dell’interno)61, poi confluita nel
“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero” (d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286)62 che
sostituì la previgente l. n. 39/1990. Il solo articolo di detta legge a non essere
59
V. CODINI E., D’ODORICO M., GIOIOSA M., Per una vita diversa. La nuova disciplina
italiana dell’asilo, Franco Angeli Editore, Milano, 2009, p. 31.
60
Si ricordano: decreto legge 24 luglio 1992, n. 350 recante “Interventi straordinari di carattere
umanitario a favore degli sfollati delle Repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia, nonché
misure urgenti in materia di rapporti internazionali e di italiani all’estero”, convertito nella legge
24 settembre 1992, n. 390 (G.U. del 26 settembre 1992, n. 227); decreto del Ministro degli Affari
esteri 9 settembre 1992 recante “Norme sul rilascio del permesso temporaneo di soggiorno per
motivi di lavoro o di studio ai cittadini somali privi del riconoscimento dello status di rifugiato”
(G.U. del 26 ottobre 1992, n. 252); decreto legge 20 marzo 1997, n. 60 recante “Interventi
straordinari per fronteggiare l’eccezionale afflusso di stranieri extracomunitari provenienti
dall’Albania”, convertito nella legge 19 maggio 1997, n. 128 (G.U. del 19 maggio 1997, n. 114).
61
Legge 6 marzo 1998 n. 40 “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero”, Gazzetta Ufficiale del 12 marzo 1998 n. 59, Supplemento Ordinario n. 40.
154
abrogato fu proprio l’art. 1 relativo ai rifugiati, il cui contenuto rimase invariato.
Nel 1998 infatti, contrariamente alla prassi precedente, si decise di scindere la
disciplina della condizione giuridica dell’immigrato extracomunitario da quella
del richiedente asilo e rifugiato, rinviando ad una distinta e successiva legge, poi
non più approvata, la regolamentazione di quest’ultima materia63.
Il Testo unico introdusse tuttavia alcune disposizioni di interesse per i rifugiati
e i richiedenti asilo. Tra queste, l’art. 5, comma 6, forniva la base giuridica per il
rilascio o il rinnovo, da parte del Questore, di un permesso di soggiorno per
“motivi umanitari o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello
Stato italiano”. In tal modo, la Commissione centrale, in caso di diniego del
riconoscimento dello status di rifugiato poteva, qualora ne riscontrasse l’esigenza,
suggerire al Questore il rilascio di quest’ultimo permesso. L’art. 19, comma 1,
ribadiva sia il principio di non-refoulement (diretto e indiretto) di cui all’art. 33
della Convenzione, sia il divieto di espulsione ex art. 32 della stessa. Nel
successivo art. 20 era inoltre prevista la possibilità d’introdurre misure di
protezione temporanea “per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di
conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in paesi non
appartenenti all’Unione europea”64. Tali misure straordinarie di accoglienza erano
stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d’intesa
con i Ministri degli affari esteri, dell’interno, per la solidarietà sociale e con gli
altri Ministri eventualmente interessati. Una norma di favore per il rifugiato
rispetto all’immigrato extracomunitario, era contenuta nell’art. 29, comma 3, che
nel disciplinare il diritto al ricongiungimento familiare esentava il primo dal
62
Gazzetta Ufficiale del 18 agosto 1998, n. 191, Suppl. Ordinario n. 139. Al fine di dare
attuazione alle disposizioni del Testo unico è stato emanato il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394,
Gazzetta Ufficiale del 3 novembre 1999, n. 258, Suppl. Ordinario n. 190.
63
Nel disegno di legge originario erano previsti infatti due articoli in materia d’asilo che vennero
stralciati dal testo a fronte dell’impegno del Governo a procedere con un apposito disegno legge in
materia. Quest’ultimo tuttavia, nonostante i tre anni di dibattito parlamentare, non sarà approvato.
64
Tale forma di protezione temporanea è stata sperimentata per la prima volta in occasione
dell’emergenza kosovara del 1999 (D.P.C.M. 12 maggio 1999, Gazzetta Ufficiale del 26 maggio
1999, n. 1219) e “riattivata” di recente con l’adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri del 5 aprile 2011, recante “Misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini
provenienti dal Nord Africa” (Gazzetta Ufficiale dell’8 aprile 2011, n. 81).
Per un
approfondimento dell’istituto si veda CARBONE A., La protezione temporanea: l’evoluzione
dell’istituto nell’ordinamento italiano e l’applicazione nell’emergenza Kossovo, in Gli stranieri.
Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, n. 2, 2001, p. 85 ss.
155
soddisfacimento di determinati requisiti, richiesti invece al secondo65. Occorre
richiamare infine l’art. 40 del Testo unico, che stabiliva la predisposizione ad
opera degli enti locali, in collaborazione con le associazioni e le organizzazioni di
volontariato, di strutture ricettive in grado di ospitare stranieri regolarmente
soggiornanti
“che
siano
temporaneamente
impossibilitati
a
provvedere
autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza”. L’obiettivo
dei centri di accoglienza era di rendere lo straniero autosufficiente nel più breve
tempo possibile, prevedendo servizi sociali e culturali idonei a favorire
l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti66.
Come annunciato, la legge che avrebbe dovuto disciplinare per la prima volta
in modo organico la condizione di richiedenti asilo e rifugiati, non è stata
approvata negli anni successivi all’entrata in vigore del Testo unico
sull’immigrazione. Il legislatore si è invero limitato a intervenire, modificando e
integrando il disposto ancora in vigore della legge Martelli, con la promulgazione
il 30 luglio 2002 della legge n. 189, “Modifica alla normativa in materia di
immigrazione e di asilo”, (c.d. legge Bossi-Fini, dai nomi dell’allora Ministro
delle riforme istituzionali e della devoluzione e del Vicepresidente del
Consiglio)67, a cui è stata data completa attuazione in seguito all’emanazione di
due decreti del Presidente della Repubblica68. Le nuove disposizioni vengono
introdotte agli art. 31 e 32, rubricati “disposizioni in materia d’asilo”, che
aggiungono al disposto dell’art. 1 della l. n. 39/90, ulteriori sei articoli, dall’art 1
bis a 1 septies. Si noti che la legge Bossi-Fini riproduce quella commistione tra il
diritto di asilo costituzionale e l’istituto del rifugio convenzionale già operata a
suo tempo dalla legge Martelli. Nonostante infatti la rubrica del Titolo II, la nuova
65
In particolare si tratta della disponibilità di un alloggio che rientri in determinati parametri
minimi, stabiliti con legge regionale e di un reddito annuo, che non deve essere inferiore, per ogni
familiare ricongiunto, all’importo annuo dell’assegno sociale.
66
Come osservato da BENEDETTI E., “È con la legge Turco-Napolitano che viene riconosciuto
per la prima volta agli enti locali un ruolo strutturale nell’accoglienza e nell’integrazione sociale
degli stranieri […]. Si delinea così un sistema di ripartizione delle competenze in materia di
rifugiati tra Stato, regioni, province e comuni. In particolare, le regioni avrebbero dettato le linee
generali d’azione, mentre gli enti locali avrebbero definito nello specifico i progetti”. V.
BENEDETTI E., op. cit., p. 235-236.
67
Legge 30 luglio 2002, n. 189, Gazzetta Ufficiale del 26 agosto 2002, n. 199, Suppl. ordinario n.
173.
68
Ai sensi dell’art. 34 sono stati emanati il D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, “Regolamento di
attuazione delle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato” (Gazzetta Ufficiale del
22 dicembre 2004, n. 299) e il D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334, “Regolamento reacnte modifiche ed
integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di
immigrazione” (Gazzetta Ufficiale del 10 febbraio 2005, n. 33).
156
normativa si riferisce ancora una volta alla nozione di rifugiato di cui alla
Convenzione di Ginevra. L’innovazione principale riguarda la procedura per il
riconoscimento dello status di rifugiato, differenziata a seconda della situazione
soggettiva del richiedente asilo; resta inalterata la fase dell’accesso alla procedura
che continua ad essere disciplinata dalla normativa precedente.
Il nuovo articolo 1 bis della l. n. 39/1990 si apre escludendo che il richiedente
asilo possa essere trattenuto al solo fine di esaminare la domanda; la medesima
norma tuttavia contiene un numero tale di eccezioni da privare sostanzialmente di
significato tale affermazione. Sono tre le ipotesi in cui il questore all’atto della
presentazione della domanda di asilo può disporre il trattenimento del richiedente
“per il tempo strettamente necessario”: la verifica, in assenza di documenti o in
caso di falsità di questi, dell’identità e della nazionalità del richiedente; la verifica,
“qualora tali elementi non siano immediatamente disponibili”, degli elementi su
cui si fonda la domanda; la pendenza del procedimento in merito al
riconoscimento del diritto di ammissione nel territorio italiano69. A queste ipotesi
di trattenimento facoltativo, si affiancano i casi di trattenimento obbligatorio
quando il soggetto è stato “fermato per aver eluso o tentato di eludere il controllo
di frontiera o subito dopo, o, comunque, in condizioni di soggiorno irregolare” o è
“già destinatario di un provvedimento di espulsione o respingimento”. Per quanto
concerne i centri in cui i richiedenti possono (o devono) essere trattenuti la legge
ne distingue due: i Centri di Permanenza temporanea e Assistenza (CPT)70 per i
soggetti già colpiti da un provvedimento di espulsione o respingimento e i Centri
di Identificazione (CID) per gli altri soggetti71.
Un’altra novità importante introdotta dalla legge Bossi-Fini riguarda l’organo
che deve esaminare la richiesta di asilo: il ruolo che era della Commissione
centrale viene affidato alle Commissioni territoriali, istituite presso le Prefetture –
69
La dottrina maggioritaria ritiene che in questo caso ci si debba riferire all’accertamento delle
cause ostative all’accesso alla procedura ex art. 1, comma 4, l. n. 39/1990. In ogni caso non vi
rientrano le situazioni in cui sia da stabilire lo Stato competente per l’esame della domanda ai
sensi del regolamento Dublino II (sostituito dal regolamento Dublino III a partire dal 1° gennaio
2014).
70
Istituiti ai sensi dell’art. 14 del Testo unico sull’immigrazione.
71
Tali Centri sono istituiti ai sensi dell’art. 1 bis, comma 3, l. n. 39/1990 e disciplinati dal D.P.R.
n. 303/2004. Occorre notare che, al contrario di quanto accade per il trattenimento nei CPT, non è
prevista la convalida da parte dell’autorità giudiziaria del provvedimento di trattenimento emesso
dal Questore, né è fissato alcun limite alla durata di quest’ultimo (il limite temporale di
trattenimento nei CPT ai sensi dell’art. 14, comma 5, T.U., è fissato in 30 giorni, prolungabile di
altri 30, dalla richiesta di asilo).
157
Uffici territoriali del Governo e nominate con decreto del Ministro dell’interno72.
Codeste Commissioni, presiedute da un funzionario di carriera prefettizia, sono
composte da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante dell’ente
territoriale designato dalla conferenza stato-città e autonomie locali ed, infine, da
un rappresentante dell’UNHCR. La Commissione centrale viene trasformata in
Commissione nazionale per il diritto di asilo, di cui mantiene la composizione ma
con compiti sostanzialmente diversi. La legge affida a quest’ultima, infatti,
compiti di indirizzo e coordinamento delle Commissioni territoriali, di formazione
e aggiornamento dei membri delle medesime e di raccolta di dati statistici, oltre
che il potere decisionale circa la revoca e la cessazione degli status concessi.
Per quanto concerne la procedura per la definizione dell’istanza di
riconoscimento dello status di rifugiato, la novità principale è contenuta nell’art. 1
ter che introduce una procedura semplificata, accanto a quella ordinaria. La prima
si applica all’esame delle domande di asilo dei richiedenti obbligatoriamente
trattenuti, la seconda nei restanti casi, inclusi quelli in cui è disposto comunque il
trattenimento. Le differenze più rilevanti tra le due procedure riguardano la durata
totale prevista73 e la possibilità di presentare un’istanza di riesame avverso il
provvedimento di diniego dello status, in caso di procedura semplificata74. La
richiesta di riesame, “adeguatamente motivata”, deve essere presentata dal
richiedente alla Commissione territoriale competente entro cinque giorni dalla
comunicazione della decisione. Tale Commissione, integrata da un componente
72
Secondo quanto previsto dal D.P.R. n. 303/2004 le Commissioni territoriali sono istituite presso
le Prefetture di Gorizia, Milano, Roma, Foggia, Siracusa, Crotone e Trapani. Per quanto concerne i
criteri di collegamento territoriale ai fini dell’individuazione della Commissione compente, questi
dipendono dalla sussistenza o meno di un provvedimento di trattenimento del richiedente asilo. In
caso di trattenimento è competente la Commissione nella cui circoscrizione territoriale si trova il
Centro; negli altri casi, la Commissione nella cui circoscrizione è inoltrata la domanda (art. 12,
comma 2, D.P.R., cit.).
73
Per la procedura semplificata è di venti giorni complessivi: il questore entro due giorni dal
ricevimento dell’istanza deve trasmettere i documenti necessari per il riconoscimento dello status
di rifugiato alla Commissione territoriale competente, quest’ultima deve disporre l’audizione
dell’interessato nei quindici giorni successivi e adottare la decisione entro tre giorni
dall’audizione. La procedura ordinaria prevedente un lasso di tempo maggiore per l’audizione del
richiedente che deve avvenire nei trenta giorni successivi al ricevimento della documentazione da
parte della Commissione territoriale.
74
Si rileva come non vi sia, in merito all’ambito di applicazione della procedura di riesame, un
adeguato coordinamento tra il comma 1 dell’art. 1 ter, che dispone l’applicazione di tale procedura
per le due categorie di richiedenti asilo soggette a trattenimento obbligatorio (i richiedenti
trattenuti nei CPT e quelli trattenuti nei Centri di Identificazione), e il comma 6 del medesimo
articolo, in cui si limita tale possibilità ai richiedenti appartenenti alla seconda categoria. V.
NASCIMBENE B., Diritto degli stranieri, cit., p. 1237.
158
della Commissione nazionale, provvederà a confermare o annullare la decisione
precedentemente adottata nei dieci giorni successivi.
Il richiedente lo status, a prescindere dalla procedura seguita, entro quindici
giorni dalla comunicazione del diniego, può proporre ricorso al tribunale in
composizione monocratica territorialmente competente. La presentazione del
ricorso non sospende tuttavia l’eventuale provvedimento di allontanamento dal
territorio nazionale disposto nei suoi confronti. Solo nelle ipotesi di procedura
semplificata, il soggetto può infatti chiedere al prefetto l’autorizzazione a
permanere in Italia in attesa dell’esito del ricorso75.
Occorre sottolineare inoltre, che il comma 4 dell’art. 1 quater della l. n.
39/1990, esplicita la possibilità che la decisione di rigetto dell’istanza per
mancanza dei requisiti previsti dalla Convenzione di Ginevra, sia integrata con la
richiesta al questore del rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari
ex art. 5, comma 6, T.U., rendendo in tal modo effettivamente competente la
Commissione circa la concessione della protezione umanitaria. Ai sensi dell’art.
15, comma 1, lett. c), la Commissione sarà tenuta a valutare “le conseguenze di un
rimpatrio alla luce degli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali delle
quali l’Italia è firmataria e, in particolare, dell’art. 3 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”76.
75
La tutela giurisdizionale accordata ai richiedenti asilo dalla l. n. 189/2002 è stata duramente
criticata dalla dottrina. Il termine di soli quindici giorni per la proposizione del ricorso, non solo
priva di effettività la tutela offerta al richiedente, ma è in potenziale contrato con l’art. 3 della
CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Altrettanto grave è
inoltre l’esplicita esclusione di ogni effetto sospensivo, a seguito della presentazione del ricorso.
L’unico merito della legge Bossi-Fini, nell’aspetto in commento, è la scelta della giurisdizione
ordinaria a discapito di quella amministrativa nel giudizio di impugnazione del provvedimento di
diniego dello status, quindi di un giudizio di accertamento di quello che viene riconosciuto essere
un diritto soggettivo. La sussistenza della giurisdizione ordinaria era già stata riconosciuta, a
seguito dell’abrogazione dell’art. 5 della l. n. 39/1990 ad opera della l. n. 40/1998, dalle Sezioni
Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 907 dell’8 ottobre1999. In tale occasione i
giudici avevano osservato che se la qualifica di rifugiato costituisce uno status, un diritto
soggettivo, “tutti i provvedimenti assunti dagli organi competenti in materia hanno natura
meramente dichiarativa e non costitutiva, per cui le controversie concernenti il diritto d’asilo o la
posizione del rifugiato rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario”.
76
Come osservato da VITALE G., l’art. 1 quater, comma 4, prevede che “la Commissione
nell’esaminare la domanda ‘valuta’, e non ‘può valutare’, per i provvedimenti di cui all’art. 5,
comma 6, del Testo unico. Ciò comporta che la Commissione deve esaminare la domanda sia
quanto al riconoscimento dello status, sia quanto alla possibile indicazione relativa al rilascio di un
permesso per motivi umanitari; da ciò discende l’obbligo – in caso di rigetto senza ulteriori
indicazioni – di specificare in motivazione non solo i motivi di diniego del riconoscimento, ma
anche i motivi per cui non si è ritenuto di dover disporre il rilascio del permesso per motivi
umanitari”, VITALE G., La nuova procedura di riconoscimento dello status di rifugiato:
dall’audizione avanti la Commissione territoriale all’impugnativa giurisdizionale”, in Diritto,
immigrazione e cittadinanza, n. 4, 2005, p. 48.
159
La legge Bossi-Fini, infine, abroga l’art. 1, comma 7, della l. n. 39/1990, che
prevedeva un contributo in denaro ai richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza
o di ospitalità in Italia, e al contempo istituisce, agli art. 1 sexies e 1 septies, il
nuovo Sistema di protezione per i richiedenti asilo, i rifugiati e ogni altro soggetto
destinatario di protezione umanitaria (SPRAR)77. Per il finanziamento di questo
sistema viene costituito il Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo,
gestito direttamente dal Ministero dell’interno che provvede alla sovvenzione
degli enti locali che prestano servizi finalizzati all’accoglienza dei richiedenti
asilo e alla tutela dei rifugiati e degli stranieri destinatari di altre forme di
protezione umanitaria.
4. Il diritto d’asilo in Italia alla luce della normativa comunitaria
Il quadro normativo italiano è profondamente mutato a seguito del
recepimento della normativa europea in materia d’asilo. L’Italia ha provveduto
infatti ad uniformarsi a quanto previsto dal legislatore comunitario mediante
l’emanazione di una serie di decreti legislativi che sono intervenuti sulla
frammentaria e disarticolata normativa esistente. Tali recenti interventi non hanno
tuttavia posto rimedio alla mancanza di una legge organica in materia di asilo: la
disciplina costituzionale dell’asilo, così come definita nell’art. 10, comma 3,
Cost., è ancora oggi molto lontana dalla sua piena attuazione.
La prima direttiva ad essere recepita in Italia, mediante il decreto legislativo n.
85 del 7 aprile 200378, è quella relativa alle norme minime per la concessione
della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla
promozione dell’equilibrio degli sforzi degli Stati membri che ricevono gli
sfollati, direttiva 2011/55/CE. Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 85/2003, la
protezione temporanea è “quella procedura di carattere eccezionale che garantisce,
nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati
77
La legge istituzionalizza il Piano nazionale per l’Asilo già concordato tra il Ministero
dell’interno, l’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI) e l’UNHCR, mediante la firma di
un protocollo d’intesa il 10 ottobre 2000. Per un’analisi approfondita e un bilancio dell’esperienza
si veda CAPONIO T., Dal Programma nazionale asilo al Sistema di protezione per richiedenti
asilo e rifugiati. Bilancio di un’esperienza di governo territoriale dei flussi migratori, CeSPI
(Centro Studi di Politica Internazionale), ottobre 2004, disponibile all’indirizzo
www.cespi.it/anci/anci-asilo.pdf.
78
Gazzetta Ufficiale del 22 aprile 2003, n. 93.
160
provenienti da paesi non appartenenti all’Unione europea che non possono
rientrare nel loro paese di origine, una tutela immediata e temporanea alle persone
sfollate, in particolare qualora sussista il rischio che il sistema d’asilo non possa
far fronte a tale afflusso” e i destinatari di tale procedura sono gli sfollati, ossia gli
stranieri extracomunitari o gli apolidi “che hanno forzatamente abbandonato il
loro paese o regione di origine o che sono stati evacuati, in particolare in risposta
all’appello di organizzazioni internazionali, ed il cui rimpatrio in condizioni sicure
e stabili risulta momentaneamente impossibile in dipendenza della situazione del
paese stesso”79.
Le misure di protezione temporanea sono stabilite con decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri adottato in base all’art. 20 del Testo unico
sull’immigrazione, in seguito all’accertamento dell’esistenza di un afflusso
massiccio di sfollati con decisione del Consiglio europeo ai sensi dell’art. 5 della
direttiva 2001/55/CE, per la durata massima di un anno, prorogabile con decisione
del Consiglio europeo, per ulteriori dodici mesi. Si sottolinea che in base all’art. 7
del decreto legislativo l’ammissione alle misure di protezione temporanea non
preclude la presentazione dell’istanza per il riconoscimento dello status di
rifugiato, i cui tempi di esame sono stabiliti con il decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri che dispone tali misure.
Tale decreto, nonostante sul piano legislativo rappresenti un pezzo del
mosaico che compone il sistema nazionale d’asilo, ha avuto fino ad ora un
impatto limitato sulla prassi, non essendo mai stato applicato80.
Con il decreto legislativo n. 140 del 30 maggio 2005 è stata invece data
attuazione alla direttiva europea 2003/9/CE sugli standard minimi di accoglienza
dei richiedenti asilo. Numerose sono le innovazioni per quanto riguarda i diritti
riconosciuti a questi ultimi. Innanzitutto il decreto stabilisce l’obbligo per lo Stato
di dare accoglienza al richiedente in stato di necessità, fino al termine della
procedura di valutazione della domanda. Inoltre, l’art. 11 del decreto, consente lo
svolgimento di un’attività lavorativa a tutti i soggetti la cui domanda non è stata
79
Si tratta in particolare delle persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica,
o ancora le persone che siano soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate
dei diritti umani o siano state vittime di tali violazioni.
80
Il Governo italiano aveva sollecitato, senza buon fine, l’attivazione della procedura prevista
dalla direttiva 2001/55/CE ai fini della concessione della protezione temporanea in occasione della
c.d. emergenza Nord Africa, nella primavera del 2011.
161
valutata dalla Commissione competente entro sei mesi dalla presentazione, salvo
che il ritardo non sia imputabile al richiedente stesso81.
Il d.lgs. n. 140/2005 disciplina nel dettaglio i ruoli dei diversi attori operanti a
livello nazionale nella gestione del fenomeno, ridefinendo le modalità operative
dello SPRAR e assegnando alle Prefetture un ruolo attivo in relazione
all’accertamento dell’effettivo stato di necessità dei richiedenti asilo e alla
segnalazione di particolari esigenze di accoglienza di soggetti vulnerabili. Nel
caso in cui al momento della presentazione della domanda, il richiedente asilo si
dichiari privo di mezzi sufficienti a garantire il sostentamento proprio e dei propri
familiari, la Prefettura dispone l’accesso alle strutture di accoglienza predisposte
dallo SPRAR82, previo accertamento dell’effettivo stato di necessità e del rispetto
del termine di otto giorni, tra l’ingresso nel territorio dello Stato e la presentazione
della domanda di asilo (nel caso in cui ricorrente soggiorni già ad altro titolo
legalmente in Italia, il termine decorre dal verificarsi dei motivi di persecuzione
allegati alla domanda)83.
Oltre a regolare l’accesso alle strutture, il decreto in esame stabilisce anche
quali debbano essere le condizioni materiali di accoglienza dei richiedenti asilo,
distinguendo tra i richiedenti quelli più vulnerabili, ossia i minori, i disabili, gli
anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori e le
persone che hanno subito stupri, torture o altre forme di grave violenza
psicologica. In favore di questi ultimi sono approntati servizi speciali, che
garantiscono misure assistenziali particolari e un adeguato supporto psicologico.
Ai sensi dell’art. 9 d.lgs. n. 140/2005, le strutture di accoglienza devono in ogni
caso garantire ai richiedenti: la tutela della vita e, ove possibile, dell’integrità del
nucleo familiare; la possibilità di comunicare con i parenti, gli avvocati, e il
81
Come osservato da PETROVIĆ N., “quest’ultima predisposizione è introdotta con una volontà
migliorativa rispetto a quanto disposto dalla direttiva 2003/9/CE” che prevede la possibilità di
accesso al mercato del lavoro solo dopo un anno dalla presentazione della domanda di asilo. Il
Governo italiano si è avvalso della facoltà prevista dall’art. 4 della direttiva, che consente ai
singoli Stati membri di stabilire o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in merito alle
condizioni di accoglienza, nel rispetto di quanto disposto dall’atto comunitario. V. PETROVIĆ N.,
op. cit., p. 85.
82
Nel caso di indisponibilità di posti all’interno delle strutture dello SPRAR, ai sensi del comma 3,
art. 6 del d.lgs. n. 140/2005, l’accoglienza è predisposta nei Centri di identificazione o nei Centri
di accoglienza istituiti ai sensi del decreto legge 30 ottobre 1995, n. 451 convertito dalla legge 29
dicembre 1995, n. 563 (Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 1995, n. 303), per il tempo strettamente
necessario all’individuazione di posti disponibili.
83
Avverso il provvedimento di diniego delle misure di accoglienza è ammesso ricorso al tribunale
amministrativo territorialmente competente ex art. 6, comma 8, d. lgs. n. 140/2005.
162
personale dell’UNHCR; la massima riservatezza in ordine ai dati e alle notizie che
li riguardano; la presenza di personale adeguatamente formato alle funzioni
esercitate all’interno delle strutture. Per quanto concerne l’assistenza sanitaria e
l’istruzione scolastica, i richiedenti e i loro familiari sono iscritti al Servizio
sanitario nazionale ed è previsto per i minori richiedenti asilo e i minori figli di
richiedenti asilo l’obbligo scolastico.
Le misure di accoglienza terminano al momento della comunicazione della
decisione in merito alla domanda di asilo. Prima di tale momento, tuttavia, le
misure possono essere revocate al verificarsi di una delle circostanze previste
dall’art. 12 d.lgs. n. 140/2005, ossia: mancata presentazione del richiedente asilo
presso la struttura individuata, ovvero abbandono del centro di accoglienza senza
previa comunicazione alla Prefettura competente; mancata presentazione
all’audizione davanti alla Commissione competente, nonostante la comunicazione
della convocazione presso il centro di accoglienza; presentazione in Italia di una
precedente domanda di asilo; accertamento della disponibilità da parte del
richiedente di mezzi economici sufficienti alla sussistenza; violazione grave o
ripetuta delle regole del centro di accoglienza o adozione di comportamenti
eccessivamente violenti84.
Accanto ai suddetti decreti legislativi relativi alla protezione temporanea e
all’accoglienza dei richiedenti asilo, a comporre il mosaico normativo in materia
di asilo concorrono due ulteriori decreti legislativi. Si tratta in primo luogo del
d.lgs. 19 novembre 2007, n. 25185, di recepimento della direttiva 2004/83/CE
recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della
qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione
internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.
E, infine, il d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 2586, di attuazione della direttiva
2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri
ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.
84
La revoca è disposta con decreto motivato del Prefetto della provincia in cui ha sede il centro di
accoglienza e ha effetto dal momento della sua comunicazione. Contro il decreto di revoca il
ricorrente può proporre ricorso al tribunale amministrativo territorialmente competente (art. 12,
comma 4, d.lgs. 140/2005).
85
Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 2008, n. 3. Il decreto legislativo ha abrogato l’art. 1, comma 4,
lett. c) e d) della l. n. 39/1990.
163
4.1 Status di rifugiato e protezione sussidiaria nel d.lgs. n. 251/2007
Il d.lgs. n. 251/2007 ha innovato profondamente la previgente normativa
introducendo, accanto allo status di rifugiato e alla possibilità del rilascio di un
permesso di soggiorno per motivi umanitari, una nuova forma di protezione
internazionale per chi fugge da persecuzioni e situazioni di violenza generalizzata.
All’art. 2, il decreto prevede infatti la possibilità di riconoscere al richiedente
protezione internazionale “che non possiede i requisiti per essere riconosciuto
come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se
ritornasse nel paese di origine, o nel caso di apolide, se ritornasse nel paese nel
quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di
subire un grave danno […] e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole
avvalersi della protezione di detto paese”, lo status di protezione sussidiaria.
È prevista una richiesta “indistinta” di protezione internazionale, spetterà
dunque alla Commissione territoriale competente la scelta di riconoscere lo status
di rifugiato, se le persecuzioni addotte dal richiedente rientrino tra quelle previste
dalla Convenzione di Ginevra, ovvero, in caso contrario, la protezione sussidiaria
in considerazione dei danni gravi che il richiedente subirebbe in caso di rimpatrio
nel paese di origine.
L’art. 3 del decreto individua gli elementi della domanda di protezione
internazione nelle dichiarazioni del richiedente e nella documentazione
concernente quelle circostanze e condizioni da cui possono trarsi elementi utili di
valutazione87, a cui si aggiungono i motivi della domanda stessa. Circa l’esame
della domanda, quest’ultimo avviene su base individuale, in cooperazione con il
richiedente, e prevede la valutazione: di tutti i fatti pertinenti relativi al paese di
origine (incluse, ove possibile88, le disposizioni legislative e regolamentari in
86
Gazzetta ufficiale del 28 febbraio 2008, n. 40. Il decreto legislativo ha abrogato gli art. 1, commi
4, 5 e 6, 1 bis, 1 ter, 1 quater, 1 quinquies della l. n. 39/1990.
87
Si tratta in particolare della documentazione in possesso del richiedente relativa alla sua età,
condizione sociale, anche dei congiunti, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui a soggiornato
in precedenza, domande d’asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti d’identità e di viaggio
(art. 3, comma 2).
88
Come osservato da BONETTI P., la previsione di tale inciso “appare assi opinabile perché
acquisire e mantenere sempre aggiornate precise informazioni sulle norme e sulle prassi applicate
in ogni paese è un preciso onere posto a carico dei pubblici poteri per assicurare che
effettivamente sia svolta una valutazione sempre obiettiva di ogni domanda presentata da stranieri
perseguitati o in pericolo di subire danni gravi”. V. BONETTI P., Il diritto di asilo in Italia dopo
l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione
sussidiaria, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1, 2008, p. 31.
164
vigore in quest’ultimo e le relative modalità di applicazione); della dichiarazione e
della documentazione presentate dal richiedente; della situazione individuale e
delle circostanze personali di quest’ultimo (il quale deve rendere noto se ha subito
o rischia di subire persecuzioni o danni gravi); dell’eventualità che le attività
svolte dal richiedente, dopo aver lasciato il paese di origine, abbiano mirato a
creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione
(al fine di stabilire se tali attività, anche se funzionali in astratto ad abusare del
diritto d’asilo, espongano comunque il ricorrente a persecuzione o a danno grave
in caso di ritorno nel paese di provenienza); della possibilità che il richiedente,
sulla base della documentazione prodotta o raccolta, possa far ricorso alla
protezione di un altro paese, di cui potrebbe dichiararsi cittadino.
Il decreto conferma inoltre all’art. 4, l’attribuzione della protezione
internazionale anche nelle ipotesi in cui il rischio di persecuzione o di danno
grave sia sorto in seguito ad avvenimenti verificatesi successivamente alla
partenza del richiedente dal paese di origine, ovvero in seguito ad attività svolte
da quest’ultimo dopo tale momento89. Nel successivo art. 5, sono individuati i
soggetti che possono essere responsabili delle persecuzione o del danno grave,
ossia: lo Stato, i partiti o le organizzazioni che lo controllano e i soggetti non
statuali, nel caso in cui il ricorrente non possa godere della protezione dei primi
ovvero delle organizzazioni internazionali. La possibilità che lo Stato o le
organizzazioni internazionali forniscano una protezione adeguata, dovrebbe
comportare il rigetto della domanda del richiedente per mancanza del fondato
timore di subire persecuzioni o gravi danni. La protezione per essere adeguata
deve consistere nell’adozione di misure volte ad impedire che possano essere
inflitti atti persecutori o danni gravi, anche mediante un sistema giuridico effettivo
che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire tali atti.
Per quanto riguarda i presupposti della protezione internazionale, e nello
specifico dello status di rifugiato, l’art. 7 del decreto, rinviando alla definizione di
rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra, dispone che gli atti di
persecuzione di cui si tratta debbono, in ragione della loro gravità o della loro
pluralità, risolversi in una violazione grave dei diritti umani fondamentali. Per
diritti umani fondamentali devono intendersi sia le libertà democratiche garantite
89
In particolare quando sia certo cha tali attività costituiscono l’espressione o la continuazione di
condizioni od orientamenti già manifestati dal soggetto nel paese di origine.
165
dalla Costituzione italiana, sia i diritti fondamentali garantiti dalle Convenzioni
internazionali di cui l’Italia è parte contraente, con particolare riguardo a quelli
che l’art. 15, par. 2, della CEDU dichiara inderogabili. Il secondo comma dell’art.
7 contiene un’esemplificazione non esaustiva degli atti di persecuzione, in cui
sono inclusi, tra gli altri: i provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o
giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio90;
le azioni giudiziarie o le sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; il rifiuto
di accesso ai mezzi di tutela giuridici e la conseguente sanzione sproporzionata.
I motivi di persecuzione sono quelli previsti dall’art. 1A della Convenzione di
Ginevra, che il decreto si limita a definire nel contenuto. Per quanto concerne
l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, si sottolinea che quest’ultimo può
essere individuato anche sulla base della caratteristica comune dell’orientamento
sessuale. Ai fini dell’accertamento della fondatezza del timore di persecuzione
non rileva che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche per le quali
è perseguitato, se tali caratteristiche gli sono attribuite dall’autore della
persecuzione.
Anche le cause di cessazione e di esclusione dallo status di rifugiato sono
mutuate dalla Convenzione di Ginevra91. Le cause di diniego sono invece
individuate dall’art. 12, oltre che nelle ipotesi in cui non sussistano i presupposti
ovvero ricorra una causa di esclusione, anche quando il richiedente sia pericoloso
per la sicurezza dello Stato92 ovvero per l’ordine e la sicurezza pubblica essendo
90
Il richiamo al concetto di discriminazione non deve indurre a ritenere di non considerare
persecutoria la situazione di una legge che impedisce a chiunque di esercitare un determinato
diritto fondamentale, in quanto paradossalmente così di per se non si discrimina tra le persone che
si trovano in situazioni identiche. Infatti, in primis ogni atto di persecuzione è tale non perché
discrimina, ma perché comporta la violazione di determinati diritti fondamentali. In secondo
luogo, l’elenco di cui al comma 2 dell’art. 7 è meramente esemplificativo. Da ultimo si ricorda
inoltre che la Convenzione di Ginevra non esige che una persecuzione sia in atto, ma richiede
soltanto una situazione psicologica di fondato timore di persecuzione. V. BONETTI P., op. cit., p.
35.
91
In riferimento alla causa di esclusione consistente nell’aver commesso, il richiedente asilo, al di
fuori del paese di accoglienza, un reato grave di diritto comune, prima del rilascio del permesso di
soggiorno in qualità di rifugiato, occorre sottolineare come il d.lgs. in esame si riferisca ai reati per
i quali la legislazione nazionale prevede la pena delle reclusione non inferiore nel minimo a
quattro anni o nel massimo a dieci (art. 10, comma 2, lett. b). Tale precisazione comporta una
restrizione della protezione assicurata in quanto il d.lgs ha ampliato in tal modo lo spettro dei reati
che fino al 2008 erano considerati come ostativi alla presentazione della domanda di asilo (ossia i
reati indicati nell’art. 380 c.p.p.).
92
Onde evitare un’eccessiva compressione della protezione, tale ipotesi di diniego deve essere
intesa come riferita a gravi motivi di carattere concreto e attuale, inerenti al comportamento della
persona e non alla mera circostanza della sua presenza nel territorio dello Stato, circostanza che,
come affermato da BONETTI P., “al fine di assicurare un’effettiva attuazione del diritto di asilo
166
stato condannato, con sentenza definitiva, per uno dei reati di cui all’art. 407,
comma 2, lett. a) c.p.p.
A fini del riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, sono
considerati danni gravi ai sensi dell’art. 14: la condanna a morte o all’esecuzione
della pena di morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o
degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; la minaccia grave e
individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza
indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Il decreto
si limita quindi a recepire in modo letterale tutte le circostanze che ai sensi della
direttiva 2004/83/CE legittimano il riconoscimento della protezione sussidiaria.
Tuttavia, si ritiene che esse debbano essere interpretate in maniera estensiva, in
ossequio alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo93.
La cessazione dello status di protezione sussidiaria è dichiarata su base
individuale, quando le circostante che hanno indotto al riconoscimento sono
venute meno o sono mutate al punto che la protezione non è più necessaria. Lo
Stato deve dimostrare che tali mutamenti hanno natura così significativa e non
temporanea da far escludere che la persona ammessa alla protezione sia esposta al
rischio di danno grave; non devono sussistere inoltre gravi motivi umanitari che
impediscono il rientro nel paese di origine94. L’art. 16 individua le cause di
esclusione della protezione sussidiaria che in parte coincidono con quelle
escludenti lo status di rifugiato95, a cui si aggiungono la commissione di un reato
grave nel territorio italiano e la pericolosità del richiedente per la sicurezza dello
Stato o per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il decreto richiede dunque per
l’attribuzione dello status di protezione sussidiaria presupposti più rigorosi, in
quanto il giudizio di pericolosità non rappresenta solo un motivo di diniego come
per lo status di rifugiato, ma esclude la sussistenza stessa di questa forma di
già non potrebbe essere considerata un atto di per se ostile da ogni altro Stato”. V. BONETTI P.,
op. cit., p. 40.
93
Non si può non notare infatti che le cause di pericolo grave per la vita previste dall’art. 14
sembrano recepire le norme inderogabili previste nell’art. 2 (diritto alla vita) e nell’art 3 (divieto di
tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti) della CEDU.
94
Quest’ultima previsione è stata aggiunta dal decreto di recepimento della direttiva con il fine
precipuo di evitare inutili usi dell’istituto della protezione umanitaria, non previsto
nell’ordinamento comunitario.
95
L’aver commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità
quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini (art. 16, comma 1, lett. a); l’aver
commesso un reato grave all’estero (art. 16, comma 1, lett. b); l’essersi reso colpevole di atti
167
protezione ed, inoltre, la pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica non è
stabilita in una sentenza definitiva.
La revoca della protezione internazionale accordata allo straniero è adottata se,
successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione
sussidiaria, è accertata la sussistenza della cause di esclusione come previste dagli
art. 10 e 16 del decreto, ovvero se tale riconoscimento è stato determinato, in
modo esclusivo, da fatti presentati in modo erroneo, dalla loro omissione o da una
falsa documentazione dei medesimi.
Il contenuto della protezione internazionale è disciplinato nel Capo V del
decreto, il quale innanzitutto ribadisce il principio di non-refoulement come
sancito dall’art. 19, comma 1, del d.lgs. 268/1998. Fermo restando il rispetto di
tale principio, il rifugiato o lo straniero ammesso alla protezione sussidiaria è
espulso quando sussistono fondati motivi di ritenere che rappresenti un pericolo
per la sicurezza dello Stato o quando rappresenta un pericolo per l’ordine e la
sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato
punito con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel
massimo a dieci96.
Ai sensi dell’art. 23, il permesso di soggiorno per asilo rilasciato ai titolari
dello status di rifugiato ha durata quinquennale ed è rinnovabile senza verifiche.
Ai beneficiari della protezione sussidiaria è invece rilasciato un permesso di
soggiorno di durata triennale, rinnovabile previa verifica della permanenza della
condizioni che ne hanno giustificato il rilascio. Il decreto delinea dunque una
situazione di maggior ambiguità per i titolari dello status di protezione sussidiaria
nel periodo di attesa del rinnovo della protezione, in quanto il diniego del rinnovo
della protezione sussidiaria non appare disciplinato nel testo del decreto. Per
quanto concerne i documenti di viaggio, ai rifugiati è rilasciato un titolo di
viaggio conforme al modello allegato alla Convenzione di Ginevra. Ai titolari di
contrari ai principi e alle finalità delle Nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1
e 2 della Carta delle Nazioni Unite (art. 16, comma 1, lett. c).
96
Come affermato da BONETTI P., è indispensabile che tali presupposti siano interpretati in
modo restrittivo. I divieti di espulsione appaiono inoltre assai deboli, in quanto si riferiscono alla
persona nel periodo in cui sia titolare dello status e non anche nel periodo in cui sia in attesa del
rinnovo dello stesso, che per i titolari di protezione sussidiaria non è automatico. Per quanto
riguarda la competenza a disporre il provvedimento di espulsione, il silenzio della norma dovrebbe
comportare un implicito riferimento alla disciplina generale prevista per gli stranieri
extracomunitari. Il provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello
Stato dovrebbe quindi essere disposto dal Prefetto ex art. 13, comma 1, del Testo unico
sull’immigrazione. Si veda BONETTI P., op. cit. p. 47.
168
protezione sussidiaria il titolo di viaggio è invece riconosciuto solo nel caso non
sia possibile richiedere un passaporto alle autorità diplomatiche del paese di
origine97.
In materia di accesso al lavoro, subordinato e autonomo, all’istruzione,
all’assistenza sanitaria e sociale, la posizione dei titolari della protezione
internazionale è parificata a quella dei cittadini italiani. Ai soli rifugiati è inoltre
consentito l’accesso al pubblico impiego alle medesime condizioni previste per i
cittadini comunitari.
È importante richiamare infine quanto disposto dal comma 5, dell’art. 34. Tale
disposizione infatti assicura agli stranieri titolari di un permesso di soggiorno
umanitario ai sensi dell’art. 5, comma 6, del Testo unico delle leggi in materia di
immigrazione, i medesimi diritti stabiliti a favore dei beneficiari della protezione
sussidiaria.
4.2 La procedura amministrativa per il riconoscimento della protezione
internazionale
Il d.lgs. 25/2008, emanato in attuazione della direttiva 2005/85/CE, come
modificato dal d.lgs. 159/2008, ha profondamente innovato la procedura di
riconoscimento del diritto di asilo. Occorre sottolineare da subito la previsione di
un’unica procedura in luogo delle due procedure previgenti e l’abrogazione delle
ipotesi ostative alla ricezione della domanda di asilo previste nella normativa
precedente98.
La domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6, comma 1 e 26, comma 1 del decreto
in esame, è presentata personalmente dal richiedente all’ufficio di polizia di
97
Il secondo comma dell’art. 24 stabilisce il rifiuto o la revoca del documento di viaggio, se vi
sono fondamentali ragioni per dubitare dell’identità del titolare della protezione sussidiaria. La
disposizione sembra alludere all’ipotesi in cui è stata avviata e non ancora conclusa la procedura di
revoca dello status per la sopravvenuta scoperta di falsificazione d’identità o dei relativi
documenti.
98
Si ricordi che ai sensi dell’art. 1, comma 4, l. n. 39/1990, la polizia di frontiera sulla base di un
esame obiettivo poteva negare l’ingresso nel territorio dello Stato allo straniero che intendeva
chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato, rientrante in una delle ipotesi previste dal
medesimo comma. Tale disposizione aveva sollevato numerose critiche, in quanto ai fini del
rispetto del principio di non-refoulement, l’autorità di frontiera e la questura avrebbero dovuto
limitarsi a ricevere la domanda e non esercitare alcun potere decisionale attinente all’ammissibilità
e al merito della stessa, poteri di competenza esclusiva dell’autorità preposta all’attribuzione dello
status (in questo senso, TAR Lazio, Sez. I, sentenza 30 gennaio 1992, n. 1195; TAR Emilia
Romagna, Sez. I, sent. 18 marzo 2003, n. 249, disponibili al sito www.giustizia-amministrativa.it).
V. CODINI E., D’ODORICO M., GIOIOSA M., op. cit., p. 61.
169
frontiera, all’atto dell’ingresso nel territorio, ovvero presso l’ufficio della questura
territorialmente competente in base al luogo di dimora. Nel caso di presentazione
della domanda all’ufficio di frontiera, il richiedente è inviato presso la questura
competente. La norma non specifica le modalità di presentazione della domanda,
la richiesta d’asilo può quindi essere avanzata in qualsiasi forma, anche mediante
la semplice manifestazione della volontà di voler accedere alla procedura. L’art. 7
sancisce il diritto del richiedente di permanere sul territorio nazionale per tutta la
durata della procedura99. A tale principio generale, conforme alla Convenzione di
Ginevra, tuttavia la norma pone, al secondo comma, tre eccezioni. Il richiedente
può essere estradato verso un altro Stato in virtù degli obblighi previsti da un
mandato di arresto europeo, consegnato ad una Corte o ad un Tribunale penale
internazionale o, infine, essere inviato verso un altro Stato dell’Unione europea
competente all’esame della domanda in virtù del regolamento n. 343/2003 (a
partire dal 1 gennaio 2014, sostituito dal regolamento n. 604/2013), istitutivo della
c.d. procedura Dublino100.
L’istanza del richiedente non può essere respinta o esclusa dell’esame per il
solo fatto di non essere stata presentata tempestivamente. Se la non tempestività
non costituisce in nessun caso un motivo ostativo per l’accesso alla procedura,
rappresenta tuttavia un elemento di valutazione in sede di merito, come disposto
dall’art. 3, comma 3, lett. d) del d.lgs. 251/07. Viene precisato inoltre che la
decisione su ogni singola domanda deve essere assunta in modo individuale,
obiettivo e imparziale, dopo un congruo esame della medesima (art. 8, comma 2).
99
L’art. 1, comma 1, lett. b) del d.lgs. 159/2008 ha modificato il citato art. 7, prevedendo che il
Prefetto competente stabilisce un luogo di residenza o un’area geografica ove i richiedenti possono
circolare. Tale disposizione, non sembra tuttavia applicabile ai richiedenti asilo in possesso di un
regolare permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 26, comma 4, del d.lgs. n. 25/2008 e in ogni caso
deve essere attuata in conformità della direttiva 2003/9/CE, secondo la quale l’area assegnata, in
cui il richiedente può circolare liberamente, non deve pregiudicare la sfera inalienabile della vita
privata e deve permettere un campo di azione sufficiente a garantire l’accesso a tutti i benefici
stabiliti dalla stessa (art. 7, comma 1, direttiva 2003/9/CE). Nella prassi fino ad ora non si
segnalano applicazioni di detta disposizione. V. SPRAR, UNHCR, ASGI (realizzato da), La tutela
dei richiedenti asilo. Manuale giuridico per l’operatore, 2007, p. 71.
100
Secondo tale procedura le domande di protezione internazionale presentate alle frontiere o sul
territorio dell’Unione europea, sono esaminate da un solo Stato membro, ossia quello dichiarato
competente in applicazione dei criteri stabiliti dal suddetto regolamento. L’autorità preposta a
determinare la competenza o meno dell’Italia per l’esame di una domanda è l’Unità Dublino,
operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno
(art. 13, regolamento n. 343/2003). Per un approfondimento del rapporto tra la procedura di
riconoscimento della protezione internazionale e quella di determinazione dello Stato membro
competente si veda, SPRAR, UNCHR, ASGI (realizzato da), op. cit., p. 61 e ss.
170
La questura, ricevuta la domanda di protezione internazionale101, redige il
verbale delle dichiarazioni del richiedente, approvato e sottoscritto dal medesimo,
a cui viene allegata la documentazione fornita a sostegno della domanda. Da tale
momento la questura è tenuta ad istruire, nel caso in cui ne sussistano i
presupposti, una serie di procedimenti amministrativi incidentali a carico del
richiedente. Innanzitutto, qualora vi siano elementi che facciano emergere dubbi
circa la competenza dello Stato italiano ad esaminare la domanda, la Questura
trasmette il fascicolo relativo all’istanza, all’Unità Dublino e al contempo informa
la Commissione territoriale che sospende il procedimento in attesa della
determinazione circa lo Stato competente.
In secondo luogo, la Questura, ai sensi dell’art. 20, comma 2, come modificato
dal d.lgs. 159/08, può disporre l’invio del richiedente presso un centro di
accoglienza per richiedenti asilo (CARA)102 nei seguenti casi: a) quando è
necessario verificare la nazionalità o l’identità del richiedente, nel caso in cui sia
privo di documenti o abbia presentato documenti falsi; b) quando ha presentato la
domanda dopo aver eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera o subito
dopo103; c) quando ha presentato la domanda dopo essere stato fermato in
condizioni di soggiorno irregolare. L’ipotesi di invio ai CARA di cui alla lettera
a), è finalizzata unicamente all’identificazione del richiedente, che è ospitato nel
centro solo per il tempo strettamente necessario all’adempimento di tale formalità
e, in ogni caso, per un periodo non superiore a venti giorni. Nelle altre ipotesi il
101
La domanda di protezione internazionale viene formalizzata dal richiedente attraverso la
compilazione di un apposito modello predisposto dalla Commissione nazionale, denominato
“modello C3”.
102
I CARA sono istituiti ai sensi dell’art. 20 e sostituiscono i centri di identificazione previsti dalla
l. n. 189/02. Questi ultimi centri devono ritenersi soppressi in conseguenza dell’abrogazione delle
norme previgenti operata dal decreto in esame. Si tratta in ogni caso di centri di accoglienza e non
di trattenimento, la residenza nel Centro non influisce sulla sfera privata del richiedente fatto salvo
il rispetto delle regola di convivenza. Il richiedente ha diritto all’uscita nelle ore diurne; nei casi in
cui il soggetto debba allontanarsi per periodi di tempo superiori o diversi è necessario un permesso
temporaneo di allontanamento rilasciato dal prefetto (art. 20, comma 4). Nei CARA deve essere
inoltre garantita la dignità della persona e l’unità del nucleo familiare. È in ogni caso garantito
l’accesso alle strutture ai rappresentanti dell’UNHCR, agli avvocati e agli organismi ed enti di
tutela dei rifugiati, autorizzati dal Ministero dell’Interno (art. 20, comma 5).
103
In riferimento a questa ipotesi, il pericolo è l’applicazione automatica dell’invio nei centri di
accoglienza per i richiedenti che arrivano in condizioni drammatiche a seguito di sbarchi sulle
coste. Come affermato da DE BONIS A., “è infatti già parzialmente invalsa la prassi di
interpretare tale modalità di arrivo come una voluntas elusiva dei controlli di frontiera, laddove
l’esperienza, ed il buon senso, dovrebbero indurre a riflettere sulla mancanza di reale alternativa
per questi richiedenti per i quali la scelta dell’approdo ‘illegale’ è imposta dalle circostanze e
dall’assoluta mancanza di un’alternativa reale”. V. DE BONIS A., La procedura amministrativa
171
richiedente è ospitato nel centro per il tempo necessario all’esame della domanda
da parte della Commissione territoriale, in ogni caso per un periodo non superiore
a 35 giorni104. Al termine del periodo di accoglienza al richiedente è rilasciato un
permesso di soggiorno temporaneo, con validità trimestrale, rinnovabile fino alla
decisione della domanda.
Il questore, infine, può disporre il trattenimento del richiedente presso un
centro di identificazione ed espulsione (CIE)105, nell’ipotesi in cui: a) siano
riscontrabili le condizioni di cui all’art. 1F della Convenzione di Ginevra; b) il
soggetto sia stato condannato in Italia per uno dei delitti di cui all’art. 380, commi
1 e 2, c.p.p. ovvero per reati in materia di stupefacenti, immigrazione clandestina,
sfruttamento della prostituzione o di minori; c) il soggetto è già stato destinatario
di un provvedimento di espulsione o respingimento106. Se il trattenimento è già in
corso, il questore chiede la proroga del periodo di trattenimento per un periodo
massimo di trenta giorni, al tribunale in composizione monocratica. Per quanto
concerne l’ipotesi di cui alla lettera c), nessun trattenimento o proroga di
trattenimento dovrebbe essere disposto nel caso in cui il provvedimento di
espulsione sia stato annullato perché illegittimo o non sia stato convalidato.
Inoltre la fattispecie non può applicarsi al caso dello straniero presente
irregolarmente sul territorio italiano, che si presenti spontaneamente in questura
per presentare domanda di asilo. Diversamente si configurerebbe infatti una
violazione dell’art. 31 della Convenzione di Ginevra. In relazione al
respingimento, ossia un provvedimento adottato con immediatezza dalla polizia di
frontiera nei riguardi degli stranieri che fanno ingresso nel territorio italiano privi
per il riconoscimento della protezione internazionale in Italia, in FAVILLI C. (a cura di),
Procedure e garanzie del diritto di asilo, CEDAM, Padova, 2011, p. 195.
104
È opportuno segnalare inoltre che in queste ultime due ipotesi, ai sensi dell’art. 35, comma 8,
del decreto così come modificato dal d.lgs. n. 159/2008, l’eventuale ricorso del richiedente
avverso il diniego della protezione internazionale non ha effetto sospensivo immediato, ma questo
può essere deciso dal giudice entro cinque giorno dal deposito dell’istanza. Nell’ipotesi di cui alla
lett. a) la sospensione è automatica. Il richiedente asilo potrebbe quindi vedersi pregiudicato il suo
diritto al riconoscimento della protezione, nel caso in cui la decisione positiva intervenga quando
ormai l’espulsione è stata effettuata.
105
I centri di identificazione ed espulsione sono stati istituiti ai sensi dell’art. 9 della l. n. 125/2008
di conversione del decreto legge n. 92/2008, in sostituzione dei centri di permanenza temporanea e
assistenza. L’art. 21, comma 3, del d.lgs. n. 25/2008 garantisce l’accesso ai CIE ai rappresentanti
dell’UNHCR, agli avvocati e agli organismi di tutela dei rifugiati autorizzati dal Ministero
dell’Interno.
106
Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 159/08, era escluso il trattenimento dello straniero
destinatario di un provvedimento di espulsione ex art. 13, comma 2, lett. a) e b) del Testo unico
sull’immigrazione, o di un provvedimento di respingimento ex art. 10 del Testo unico. In tali casi
il soggetto era ospitato in un CARA.
172
dei requisiti previsti dalla legge ai sensi dell’art. 10, comma 1, d.lgs. n. 286/1998,
è lo stesso Testo unico ha prevedere che tale istituto non si applica “nei casi
previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il
riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione
temporanea per motivi umanitari” (art. 10, comma 4, d.lgs. n. 286/1998).
Qualsiasi provvedimento di respingimento, anche non eseguito, nei confronti di
uno straniero che presenta domanda di asilo è infatti illegittimo per evidente
violazione del principio di non-refoulement, sancito dall’art. 33 della
Convenzione di Ginevra. La disposizione contenuta alla lettera c) dell’art. 21, “si
presta ad un uso assolutamente arbitrario poiché in linea teorica tutti i richiedenti
asilo che giungono alle frontiere italiane sprovvisti dei requisiti ordinari per
l’ingresso previsto per i cittadini non comunitari potrebbero essere colpiti con
immediatezza da un provvedimento di respingimento alla frontiera, salvo essere
ammessi alla procedura d’asilo subito dopo”107.
Nei casi in cui il richiedente è inviato in un centro di accoglienza o in un
centro di identificazione ed espulsione, il questore rilascia al medesimo un
attestato nominativo che certifica la sua qualità di richiedente protezione
internazionale; altrimenti è rilasciato un permesso di soggiorno valido per tre
mesi, rinnovabile fino al termine della procedura di riconoscimento.
L’esame della domanda di protezione internazionale è svolto dalle
Commissioni territoriali108. Ai sensi dell’art. 4, tali Commissioni, nominate con
decreto del Ministro dell’Interno, sono presiedute da un funzionario della carriera
prefettizia e composte da un funzionario della Polizia di Stato, da un
rappresentante di un ente territoriale nominato dalla Conferenza Stato-città ed
autonomie locali e da un rappresentante dell’UNHCR. In situazioni di necessità,
su richiesta del Presidente della Commissione nazionale, le Commissioni
territoriali possono essere integrate da un funzionario del Ministero degli Affari
esteri. Le Commissioni sono validamente costituite con la presenza della
maggioranza dei membri e possono deliberare con il voto favorevole di tre
107
CONSOLI D., SCHIAVONE G., Verso una migliore tutela dello straniero che chiede ailo?
Analisi delle principali novità in materia d’asilo introdotte a seguito del recepimento della
direttiva 2005/85/CE con il d.lgs. 25/2008 e il d.lgs. 159/2008, in Diritto, immigrazione e
cittadinanza, n. 3-4, 2008, p. 111.
108
Il numero delle Commissioni territoriali è stato portato da sette a dieci. A quelle già costituite in
precedenza si aggiungono le Commissioni territoriali di Torino, Caserta e Bari. Le circoscrizioni
173
membri. Per quanto concerne la competenza territoriale, essa è determinata dal
luogo in cui la domanda è presentata e verbalizzata dalla competente questura.
Nei casi in cui il richiedente è ospitato o trattenuto in un centro, la competenza è
determinata in base alla circoscrizione territoriale in cui è situato quest’ultimo.
L’elemento centrale della procedura di esame della domanda è l’audizione del
richiedente. Attraverso essa, infatti, la Commissione può acquisire tutti gli
elementi di valutazione necessari all’adozione di una decisione ponderata,
soprattutto quando il richiedente non ha prodotto documenti a sostegno di quanto
affermato nella dichiarazione personale. L’art. 13 afferma che l’audizione è
personale e non si svolge in seduta pubblica; possono tuttavia parteciparvi il
legale del richiedente e, se si stratta di persona vulnerabile, anche il personale di
sostegno. La Commissione, inoltre, su richiesta motivata del richiedente può
decidere di svolgere il colloquio alla presenza di uno solo dei propri componenti,
ove possibile dello stesso sesso. Il colloquio personale con la Commissione
territoriale competente costituisce allo stesso tempo un diritto e un obbligo per il
richiedente (art. 11, comma 1 e art. 12 comma 1)109. Può essere omesso solo nei
casi, da considerarsi numerus clausus, in cui la Commissione ritenga di avere
sufficienti motivi per accogliere la domanda o quando risulti certificata
l’incapacità o l’impossibilità del richiedente di sostenere l’audizione per problemi
di salute.
L’audizione è disposta dalla Commissione, tramite comunicazione effettuata
dalla questura territorialmente competente, entro trenta giorni dalla ricezione della
domanda; nel caso in cui il richiedente, ai sensi dell’art. 21, è trattenuto in un
Centro di identificazione ed espulsione, è previsto un termine più breve di sette
giorni. La decisione deve essere adottata nei tre giorni successivi, ridotti a due per
i soggetti trattenuti, e quindi comunicata senza ritardo al richiedente110. Qualora
territoriali in cui operano le Commissioni sono individuate con decreto del Ministero dell’Interno
(art. 4, comma 2).
109
Si noti come ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2005/85/CE, il colloquio costituisce solo una
facoltà del richiedente e può essere omesso in numerose circostanze (art. 12, comma 2, lett. b, c).
La normativa italiana ha adottato quindi uno standard più favorevole di quello previsto a livello
comunitario.
110
Si sottolinea come nella realtà i tempi siano ben maggiori. Nel 2008 il tempo medio in giorni
intercorso fra la compilazione del modello C3 e la data della decisione della Commissione
territoriale è di 80 giorni. Nel 2009, vi è un incremento delle domande di protezione che comporta
un allungamento dei tempi di attesa medi che salgono a 157 giorni. Fonte: Elaborazioni Creg-Tor
Vergata su dati della Commissione nazionale. V. ROSSI E., VITALI L., I rifugiati in Italia e in
Europa. Procedure di asilo fra controllo e diritti umani, p. 31.
174
tuttavia la Commissione, a causa della necessità di acquisire nuovi elementi, non
possa adottare la decisione nei termini, informa del ritardo l’interessato e la
questura competente. Occorre evidenziare che il mancato rispetto di tali termini
non produce effetti sulla procedura, pertanto essi debbono essere considerati di
natura ordinatoria. Al contrario il prolungarsi dei tempi della procedura si
ripercuote direttamente sui termini perentori dell’accoglienza e del trattenimento
del richiedente ai sensi degli art. 20 e 21 del decreto.
Al secondo comma dell’art. 28, è introdotta una necessaria “discriminazione
positiva”, la Commissione infatti nel predisporre le audizioni, deve esaminare in
via prioritaria quelle palesemente fondate, quelle presentate da soggetti
appartenenti alle categorie di persone vulnerabili ex art. 8 del d.lgs. n. 140/2005, e
quelle presentate da soggetti accolti nei CARA o trattenuti nei CIE, fatto salvo il
caso in cui l’accoglienza sia disposta al solo fine di verificare o accertare l’identità
del richiedente.
Dell’audizione viene redatto un verbale, sottoscritto dall’interessato, che, ai
sensi dell’art. 14, deve contenere tutte le informazioni di cui all’art. 3, comma 2,
del d.lgs. n. 251/2007 (oltre ai motivi stessi della domanda, anche le informazioni
relative alla condizione familiare, sociale e culturale di provenienza). Tale verbale
assume un importanza fondamentale ai fini della decisione, sia davanti alla
Commissione
che
nell’eventuale
successivo
ricorso
giurisdizionale,
in
considerazione del fatto che, molto spesso, in assenza di altra documentazione, è
l’unico mezzo istruttorio su cui poter fondare la decisione111.
Oltre a quanto emerso in sede di colloquio personale, la Commissione è tenuta
a prendere in considerazione ai fini della decisione, le informazioni precise a
aggiornate circa la situazione nel paese di origine del richiedente ed
eventualmente nei paesi in cui costui è transitato112. Tali informazioni vengono
elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR e
dal Ministero degli Esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa (art. 8,
comma 3).
111
Il verbale viene redatto contestualmente all’audizione e al termine della stessa viene letto e
tradotto al richiedente prima della sottoscrizione, al fine di permette a quest’ultimo di apportare
ulteriori precisazioni o eventuali correzioni. V. DE BONIS A., op. cit., p. 201.
112
Come sottolineato da DE BONIS A., le informazioni sul paese di origine sono di fondamentale
importanza “per valutare il contesto di provenienza ai fini della determinazione della fondatezza
del timore espresso, a confermare le dichiarazione del richiedente e quindi a valutare
175
Per quanto concerne il contenuto della decisione, la Commissione può in
primo luogo dichiarare la domanda inammissibile e non procedere al suo esame.
Ai sensi dell’art. 29, ciò può avvenire in due casi: quando il richiedente sia stato
riconosciuto rifugiato da un altro Stato firmatario della Convenzione di Ginevra e
possa ancora avvalersi di tale protezione ovvero in caso di reiterazione di una
domanda identica dopo che sia stata presa una decisione da parte della
Commissione, senza che il richiedente adduca nuovi elementi in merito alle sue
condizioni personali o alla situazione del suo paese di origine113.
Al di fuori di tale caso, e salva l’ipotesi che il richiedente abbia rinunciato alla
domanda, la Commissione decide per il riconoscimento dello status di rifugiato o
di protezione sussidiaria oppure può rigettare l’istanza qualora non sussistano i
presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale o ricorra una
delle cause di cessazione o esclusione della protezione. Accanto a tali ipotesi di
diniego, il d.lgs. n. 159/2008 ha introdotto la possibilità che la Commissione
rigetti la domanda per manifesta infondatezza qualora risulti la palese
insussistenza dei presupposti di cui al d.lgs. 251/2007 ovvero la domanda sia stata
presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento
di espulsione o di respingimento (art. 32, comma 1, lett. b-bis). La differente
decisione di diniego influenza l’efficacia dell’eventuale ricorso giurisdizionale.
Infatti se è stabilita in via generale dall’art. 35, comma 6, l’automaticità
dell’effetto sospensivo del ricorso relativamente all’efficacia dell’atto impugnato,
il successivo comma 7, come emendato dal d.lgs. n. 159/2008, prevede una serie
di eccezioni tra cui il rigetto dell’istanza per manifesta infondatezza.
Nei casi in cui la Commissione non accolga la domanda di protezione
internazionale ma ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere
umanitario, l’art. 32, comma 3, prevede la trasmissione degli atti al questore per
genericamente l’attendibilità e più complessivamente a stabilire tutti i rischi connessi ad un
eventuale rimpatrio dello stesso”. Ibidem.
113
Come affermato da CONSOLI D., e SCHIAVONE G., quest’ultima previsione viola sia la
direttiva 2005/85/CE sia i principi generali del diritto amministrativo. Nell’ipotesi di reiterazione,
la direttiva infatti accorda agli Stati membri la possibilità di valutare la domanda con una
procedura differenziata rispetto a quella ordinaria o che preveda minori garanzie per il richiedente,
non è prevista tuttavia la possibilità di non procedere ad alcuna valutazione. In secondo luogo, tra i
rimedi amministrativi è previsto il c.d. ricorso in opposizione da proporsi alla medesima autorità
che ha emanato il provvedimento impugnato (art. 7, D.P.R. n. 1199/1971). “La norma quindi non
regge né al confronto degli obblighi derivanti dalla direttiva né alla luce dei principi generali
dell’ordinamento nazionale”. V. CONSOLI D., SCHIAVONE G., op. cit., p. 114.
176
l’eventuale rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi
dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/1998114.
La decisione adottata viene inviata dalla Commissione alla Questura
competente, che a sua volta la notifica al richiedente per iscritto. La decisione di
diniego deve essere motivata in fatto e in diritto e deve contenere l’indicazione dei
mezzi di impugnazione disponibili (art. 9, comma 2). Solo la decisione di
riconoscimento dello status di rifugiato potrà non essere motivata, in quanto sia il
riconoscimento della protezione sussidiaria che la concessione della protezione
umanitaria dovranno esserlo, quantomeno in merito al diniego dello status di
rifugiato.
Ai sensi dell’art. 32, comma 4, nei casi in cui la domanda è dichiarata
inammissibile o rigettata, il soggetto interessato dovrà lasciare il territorio
nazionale una volta scaduti i termini per l’impugnazione, salvo che sia titolare di
un permesso di soggiorno ad altro titolo. Tale disposizione è particolarmente
rilevante in quanto esclude esplicitamente che l’emanazione del provvedimento di
espulsione possa essere contestuale al diniego della protezione. Fino alla scadenza
del termine per impugnare il soggetto può quindi legittimamente rimanere sul
territorio dello Stato ed esercitare efficacemente il suo diritto di accesso alla tutela
giurisdizionale.
Le procedure di revoca e di cessazione della protezione riconosciuta sono di
competenza della Commissione nazionale115. L’art. 33 sancisce il diritto
114
La formulazione della disposizione lasciava aperti alcuni dubbi interpretativi, circa la
sussistenza di un autonomo potere valutativo in capo al questore che legittimasse un eventuale
scostamento dalla proposta della Commissione in merito al rilascio del permesso per motivi
umanitari. Sul punto è intervenuta la sentenza della Corte di cassazione 19 maggio 2009, n. 11535,
in cui i giudici hanno affermato che “attribuire alla Commissione territoriale la valutazione della
sussistenza del quadro di controindicazioni al rimpatrio formulato dalle convenzioni internazionali
firmate dall’Italia e richiamare tale valutazione come premessa per l’adozione dei provvedimenti
di cui all’art. 5, comma 6, del T.U. sull’immigrazione significa assegnare alla Commissione stessa
l’accertamento delle condizioni del diritto alla protezione ed al contempo escludere alcun margine
di discrezionalità in tale valutazione. Correlato a tale attribuzione è quindi l’effetto di escludere
che al Questore competa – in sede di adozione dei provvedimenti sul soggiorno del richiedente –
la discrezionalità valutativa”. Si veda inoltre sul punto DE BONIS A., op.cit., p. 205.
115
Ai sensi dell’art. 5, comma 2, la Commissione nazionale è nominata con decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri, su proposta congiunta dei Ministri dell’Interno e degli Affari esteri.
Presieduta da un prefetto, è composta da un dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri,
da un funzionario della carriera diplomatica, da un funzionario in servizio presso il Dipartimento
per le libertà civili e l’immigrazione e da un dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza
del Ministero dell’Interno. Alle riunioni partecipa inoltre, senza diritto di voto, un rappresentante
dell’UNHCR. Oltre ad avere competenza in materia di revoca e di cessazione degli status di
protezione internazionale riconosciuti, la Commissione nazionale svolge compiti di indirizzo e
coordinamento delle Commissioni territoriali, di formazione e di aggiornamento dei componenti
177
dell’interessato ad essere informato per iscritto dell’avvio del procedimento e
delle ragioni del riesame. Al soggetto è riconosciuta inoltre la possibilità di
esporre, in un colloquio personale o tramite dichiarazione scritta, i motivi che
ostano alla revoca o alla cessazione dello status riconosciutegli116.
L’art. 35 disciplina le procedure di impugnazione. Avverso il provvedimento
negativo della Commissione territoriale, il richiedente può proporre ricorso al
tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui ha sede la
Commissione che l’ha pronunciato117. Il ricorso, a cui è allegata copia del
provvedimento impugnato, deve essere proposto entro trenta giorni dalla
comunicazione della decisione. Tuttavia, se il richiedente è accolto o trattenuto ai
sensi degli art. 20 e 21, il ricorso deve essere proposto entro quindici giorni dalla
comunicazione della decisione presso il tribunale che ha sede nel distretto di corte
di appello in cui è situato il centro118. Occorre rilevare come il termine si riferisca
alla possibilità di far valere i vizi dell’atto amministrativo, non potendo riferirsi
anche alle azioni inerenti all’accertamento del diritto soggettivo alla protezione
internazionale, in quanto i diritti soggettivi perfetti non sono soggetti a
prescrizione o decadenze.
Come accennato, la presentazione del ricorso determina la sospensione ex lege
della decisione amministrativa che rigetta la domanda di riconoscimento dello
status di rifugiato o di protezione sussidiaria. Il richiedente ha diritto quindi a
permanere sul territorio dello Stato per tutta la durata del giudizio e non può di
conseguenza essere destinatario di un provvedimento di allontanamento. L’effetto
sospensivo automatico è tuttavia escluso: se con la decisione impugnata è stata
delle medesime, di costituzione e aggiornamento di una banca dati informatica contenente
informazioni utili al monitoraggio delle richieste d’asilo, di monitoraggio dei flussi di richiedenti
asilo e di documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei paesi di origine di
richiedenti (art. 5, comma 1).
116
Contro la decisione di revoca o di cessazione è ammesso ricorso dinanzi al tribunale
competente in relazione alla Commissione territoriale che ha emesso il provvedimento di
riconoscimento dello status di cui è dichiarata la revoca o la cessazione (art. 35, comma 2).
117
Il ricorso è ammesso anche nel caso in cui l’interessato abbia chiesto il riconoscimento dello
status di rifugiato e la Commissione abbia riconosciuto la protezione sussidiaria (art. 35, comma
1).
118
Il disposto normativo non è chiaro circa il termine di impugnazione per il richiedente asilo che
sia stato inizialmente accolto in un CARA o sia inserito nel programma di accoglienza dello
SPRAR. Come affermato da CONSOLI D., “l’interpretazione letterale e sistematica della norma,
tuttavia, da propendere per l’applicazione del termine lungo ogni qualvolta il richiedente asilo non
si trovi sottoposto ad alcuna misura di accoglienza al momento della notifica della decisione della
Commissione territoriale”. V. CONSOLI D., Il riconoscimento in via giurisdizionale del diritto di
asilo, in FAVILLI C. (a cura di), Procedure e garanzie del diritto di asilo, CEDAM, Padova,
2011, p. 212.
178
dichiarata l’inammissibilità della domanda; nel caso in cui la decisione è stata
adottata in seguito all’allontanamento del richiedente dal centro; nel caso di
rigetto della domanda per manifesta infondatezza; quando il ricorrente ha
presentato la domanda dopo essere stato fermato per aver eluso o tentato di
eludere il controllo di frontiera o in condizioni di soggiorno irregolare; se si tratta
di richiedente trattenuto in un CIE. In tali casi il ricorrente, qualora ricorrano gravi
e fondati motivi,
può chiedere al tribunale, contestualmente al deposito del
ricorso, la sospensione del provvedimento. Il tribunale decide nei cinque giorni
successivi al deposito con ordinanza impugnabile. Qualora la sospensione venga
concessa, al richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta d’asilo
ed è disposta l’accoglienza in un CARA.
Per la proposizione del ricorso è necessaria l’assistenza di un avvocato; nel
caso in cui il richiedente non abbia le risorse necessarie per il pagamento delle
spese legali può presentare istanza di ammissione al patrocinio a spese dello
Stato119. Il procedimento giurisdizionale si svolge dinanzi al tribunale in
composizione monocratica con le modalità dei procedimenti in camera di
consiglio. Entro cinque giorni dal deposito del ricorso, il tribunale fissa con
decreto l’udienza di comparizione; il ricorso e il decreto sono notificati
all’interessato e comunicati al pubblico ministero e alla Commissione territoriale.
All’udienza può intervenire un rappresentante della Commissione che ha adottato
l’atto; la Commissione interessata può in ogni caso depositare tutta la
documentazione che ritiene rilevante ai fini dell’istruttoria. Il giudice, sentite le
parti, assume i mezzi di prova che ritiene necessari e adotta una decisione entro
tre mesi dalla presentazione del ricorso. La sentenza deve essere notificata al
ricorrente e comunicata al pubblico ministero e alla Commissione. Con essa il
tribunale può riconoscere lo status di rifugiato o di persona beneficiaria della
protezione sussidiaria ovvero confermare la decisione della Commissione o
rigettare il ricorso.
119
L’art. 16 sancisce il diritto all’assistenza e alla rappresentanza legali del richiedente. Per quanto
concerne l’accesso all’istituto del patrocinio a spese dello Stato (D.P.R. n. 115/2002), la norma
prevede una disposizione di favore per i richiedenti asilo, in ragione della loro impossibilità di
rivolgersi alle rappresentanze diplomatiche per ottenere la certificazione necessaria per l’accesso
all’istituto. Per l’attestazione dei redditi eventualmente prodotti all’estero si applica l’art. 94 del
D.P.R. n. 115/2002 che prevede che la documentazione richiesta può essere sostituita
dall’interessato, che sia impossibilitato a produrla, con una dichiarazione sostitutiva di
certificazione da parte dello stesso. V. CONSOLI D., op. cit., p. 216.
179
Il ricorrente e il pubblico ministero possono proporre reclamo alla corte
d’appello, con ricorso da depositarsi presso la cancelleria competente, entro dieci
giorni dalla notifica. Tale reclamo non sospende automaticamente l’efficacia della
sentenza impugnata, tuttavia il ricorrente qualora sussistano gravi e fondati
motivi, può proporre istanza di sospensione alla corte. La sospensione è disposta
con ordinanza non impugnabile e comporta per il richiedente il rilascio di un
permesso di soggiorno. La corte d’appello può nuovamente ascoltare le parti e
assumere i mezzi di prova che ritiene necessari; la sentenza è pronunciata entro tre
mesi dal deposito del ricorso.
Avverso la decisione negativa della corte d’appello, il richiedente asilo può
proporre ricorso avanti alla Corte di cassazione, entro trenta giorni dalla
notificazione della sentenza. Il ricorso è notificato al pubblico ministero e alla
Commissione territoriale, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza in
camera di consiglio, a cura della cancelleria. L’art. 35, comma 14, tace in merito
all’eventuale effetto sospensivo del ricorso; da ciò si può desumere che, come per
il ricorso in appello, è esclusa l’automaticità della sospensione. La Corte si
pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c.120.
120
In merito alla scelta del legislatore circa la pronuncia in camera di consiglio, come affermato da
CONSOLI D., e SCHIAVONE G., “è del tutto evidente che il riferimento è alla sola ipotesi di
manifesta fondatezza o manifesta infondatezza del ricorso. Il richiamo appare del tutto
inopportuno qualora si consideri come la dottrina e la giurisprudenza siano concordi nel ritenere
che la ratio dell’articolo [375 c.p.c.] sia proprio quella di ‘smaltire’ i ricorsi ripetuti e dove si sia
comunque formata una costante giurisprudenza. Il che contrasta palesemente con la
considerazione della corretta valutazione, caso per caso, della posizione individuale dei richiedenti
la protezione internazionale. Difatti se è pur vero che le norme di diritto possono trovare,
nell’ambito de quo, costante ed univoca interpretazione, le posizioni individuali non possono certo
essere generalizzate. Nessuna altra delle ipotesi tipizzate nell’articolo citato è infatti assumibile
alle fattispecie esaminate”. V. CONSOLI D., SCHIAVONE G., op. cit., p. 119.
180
CONCLUSIONI
Il rifugiato e il richiedente asilo sono persone che fuggono dal proprio paese di
origine perché temono una persecuzione, di qualsiasi tipo o genere essa sia. La
persecuzione ha mostrato nel corso della storia una virulenza crescente e la
capacità di mutare forma. Per questo il diritto dei rifugiati non può essere una
scienza esatta che applica concetti rigidi e meccanicistici, ma una disciplina che
necessità di dare risposte a circostanze sempre mutevoli.
Come si evince dalla presente trattazione, la Convenzione di Ginevra del
1951, come integrata dal Protocollo di New York del 1967, è lo strumento
riconosciuto universalmente come la guida dell’insieme delle politiche
internazionali, regionali e nazionali di protezione dei diritti dei rifugiati e dei
richiedenti asilo. In essa è contenuta non solo la definizione del concetto di
rifugiato, il cui carattere generale ne garantisce una portata universale, ma anche il
catalogo dei diritti che gli Stati contraenti sono tenuti a garantire ai soggetti a cui
sia stato riconosciuto lo status di rifugiato, primo fra tutti il diritto ad essere
protetto dal refoulement.
È tuttavia necessario riconoscere che la Convenzione non contempla nel suo
tessuto normativo tutte le vicissitudini proprie dei richiedenti asilo. Questioni
essenziali non sono state affrontate quali, ad esempio, le procedure da seguire per
la determinazione dello status di rifugiato e la disciplina del ricongiungimento
familiare prima e dopo il riconoscimento della protezione. È, inoltre, la stessa
reale applicazione della Convenzione ad essere messa in discussione. Se
l’UNHCR ha infatti un ruolo di supervisione sul rispetto da parte degli Stati degli
obblighi che derivano dalla ratifica di tale strumento, non vi sono tuttavia
meccanismi formali (sia mediante ricorsi individuali che tra Stati) che rispondano
adeguatamente ai casi di violazione.
In ambito europeo, a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso un
contributo fondamentale ad un effettiva tutela dei diritti di rifugiati e richiedenti
asilo è dato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Pur
nell’assenza di un esplicito riconoscimento del diritto di asilo all’interno della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, i giudici di Strasburgo hanno
181
sviluppato un sistema di limiti al potere degli Stati parte di allontanare gli stranieri
sotto la loro giurisdizione verso paesi in cui questi ultimi rischino di subire atti di
tortura o trattamenti inumani o degradanti, ovvero violazioni del proprio diritto
alla vita. Il fondamento dell’estensione “extraterritoriale” degli effetti della CEDU
deriva dalla sua natura specifica di trattato per la garanzia collettiva dei diritti
umani e delle libertà fondamentali, da cui scaturiscono obblighi oggettivi a carico
degli Stati contraenti. Dall’analisi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo,
si evince che i limiti posti a carico degli Stati contraenti in materia di misure di
allontanamento dello straniero sono assai più stringenti rispetto a quelli derivanti
dalla Convenzione di Ginevra del 1951: il divieto di refoulement ha carattere
assoluto e sfugge a qualsiasi possibilità di bilanciamento con le esigenze di
sicurezza e di tutela dell’ordine pubblico dello Stato.
La Convenzione di Ginevra e il Protocollo di New York del 1967, hanno
costituito e tuttora costituiscono il solido ancoraggio di tutta la disciplina
comunitario-europea in materia di asilo. L’Unione europea è giunta, attraverso un
percorso evolutivo lento e scandito da diverse tappe evolutive, all’istituzione di un
Sistema europeo comune d’asilo (CEAS). Con l’obiettivo di garantire ai
richiedenti asilo, indipendentemente dallo Stato membro di inoltro della domanda
di protezione, un trattamento di livello equivalente quanto a condizioni di
accoglienza, procedure di riconoscimento della protezione e contenuto di
quest’ultima, sono stati adottati dalle istituzioni comunitarie, nel corso del 2013,
nuovi strumenti normativi in sostituzione di quelli emanati al termine della prima
fase di creazione del CEAS. Questi ultimi hanno come scopo precipuo la
completa armonizzazione dei sistemi nazionali vigenti all’interno dei diversi Stati
membri e recepiscono gli orientamenti maturati nella giurisprudenza della Corte
di Giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Occorre tuttavia attendere il recepimento delle direttive negli ordinamenti
nazionali degli Stati membri per valutare l’effettivo perseguimento di questo
importante traguardo.
Per quanto concerne il nostro ordinamento, tra i paesi dell’Unione europea,
l’Italia è l’unico Stato nel quale la materia dell’asilo non è ancora stata
disciplinata a livello legislativo in modo organico. Come è stato più volte
sottolineato, la disciplina costituzionale dell’asilo, così come definita dall’articolo
10, comma 3, Cost., è a tutt’oggi molto lontana dalla sua piena attuazione.
182
Nonostante la Costituzione italiana sia tra le più avanzate in materia di
riconoscimento di protezione a coloro che fuggono da situazioni di violazione
delle libertà fondamentali, e sebbene negli anni non siano mancate occasioni di
dare piena attuazione al dettato costituzionale, l’inerzia del legislatore ne ha di
fatto svuotato il contenuto. Se inizialmente le carenze legislative potevano essere
giustificate da un ridotto afflusso di richiedenti asilo e rifugiati, a partire dagli
anni ’90 in poi tale fenomeno non ha più potuto essere considerato come limitato.
Soltanto una legge unica potrebbe porre fine alle dispute che le diverse
interpretazioni dell’articolo hanno prodotto e chiarire la posizione italiana in
merito al contenuto di tale diritto.
Di fronte alla disarticolata e parziale normativa nazionale in materia d’asilo,
l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione delle direttive europee ha
apportato numerosi cambiamenti, nel complesso decisamente positivi. Tali
innovazioni devo però essere viste come il punto di partenza di un necessario
processo di ricomposizione del disposto normativo e amministrativo attualmente
vigente, condotto nel rispetto della normativa comunitaria e degli obblighi
internazionali, allo scopo di istituire un sistema completo e composito di
accoglienza e tutela dei richiedenti e titolari della protezione internazionale.
In conclusione, la situazione di un richiedente asilo che arriva in Europa è
soggetta ad una disciplina che risulta dall’interrelazione di quattro livelli. Da un
lato la normativa nazionale è soggetta al rispetto degli obblighi derivanti dalla
ratifica della Convenzione di Ginevra del 1951, dal diritto dell’Unione europea e
dal rispetto della CEDU; dall’altro la tutela giurisdizionale garantita al richiedente
si estende oltre i rimedi offerti dallo Stato dove si trova o dove ha inoltrato la
domanda di asilo. Sulla correttezza della procedure e sul rispetto dei diritti
fondamentali vegliano, infatti, anche l’Unione europea e la Corte di Strasburgo.
Ciò al fine non solo di garantire l’uniformità nell’applicazione della normativa
europea in materia di asilo ma, soprattutto, il rispetto dei diritti fondamentali degli
individui.
183
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