Contributi ed esperienze Fosca Andriolo1 Morgan Bertollo1 Sergio Bragagnolo1 Luciano Caoduro1 Marisa Caon1 Monica Daminato1 Dolores De Sabbata1 Vittorina Dei Tos1 Rosanna Favaro1 Silvia Fraccaro1 Gabriella Frattin1 Viorna Lefter1 Anna Malvestio1 Daniela Mardegan1 Palmira Pellizzon1 Cinzia Tieppo1 Paolo Totaro1 Emma Visentin1 Antonella Zanatta1 Fernanda Zonta3 Giovanna Cecchetto2 Vito Lepore3 1Infermiere/i del Centro Residenziale Anziani D. Sartor Castelfranco Veneto (Treviso) 2Medico Geriatra, U.O. Lungodegenza Castelfranco Veneto, ULSS 8 Asolo, Regione Veneto 3Medico Neurologo, Responsabile Laboratorio di Epidemiologia Assistenziale Consorzio Mario Negri Sud S. Maria Imbaro, Chieti 24 Una epidemiologia senza numeri: gli infermieri raccontano la loro percezione-gestione dei disturbi comportamentali dell’anziano Obiettivo. Valutare la praticabilità di strategie di formazione-assistenza che valorizzano la soggettività infermieristica nella gestione dei problemi comportamentali dell’anziano. Metodo. Attraverso un lavoro di gruppo, il personale infermieristico di un centro residenziale per anziani propone, con narrazioni personali, il propri punto di vista relativo a: 1. La definizione del disturbo comportamentale. 2. Le strategie adottate prima del, o in alternativa al, ricorso a farmaci psicotropi. 3. L’esperienza di risposte significative ottenute con interventi non farmacologici. Risultati. Le narrazioni in risposta alle tre domande vengono riportate integralmente, caso per caso, per documentare, con le loro variabilità di linguaggi, di concettualizzazioni, di pratiche, da una parte la necessità, dall’altra le potenzialità ed i limiti di comportamenti infermieristici assistenziali che privilegiano pratiche concrete di ascolto, che permettono anche la migliore percezione ed esplicitazione del ruolo. Conclusioni. La narrazione può incorporarsi in modo efficace nell’assistenza, come strumento di formazione e modalità di ricerca, specie in aree grigie dal punto di vista delle evidenze e che richiedono una più esplicita assunzione di responsabilità da parte infermieristica. Introduzione Alle radici, e come quadro di riferimento, di questo lavoro – che è narrazione, una metodologia di ricerca tipicamente qualitativa1 – sta un classico studio epidemiologico, condotto secondo le regole più formali della ricerca quantitativa, sulla estensione e l’appropriatezza prescrittiva dei neurolettici nei grandi anziani ricoverati in strutture residenziali.2 I Riquadri 1 e 2 forniscono gli elementi essenziali di orientamento su questo progetto, sia per quanto riguarda i contesti assistenziali, che la metodologia, che per i risultati principali. È importante tener presente il significato complessivo di quanto emerso dalla ricerca, per poter meglio comprendere il perché, e l’originalità specifica di questo contributo. Due erano infatti i risultati principali, e tra loro strettamenti complementari, al di là dei dati del Riquadro 1: Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 a) luoghi-contesti normalmente non considerati capaci di produrre conoscenza, hanno reso possibile la verifica tempestiva del come una categoria di farmaci di cui era stata fortemente raccomandata l’adozione (nonostante l’assenza di dati affidabili sulla efficacia e la sicurezza, ma successivamente rimessi radicalmente, in discussione da altri studi per entrambi gli aspetti)3-5 si inseriva nel contesto assistenziale complessivo: protagonisti delle rilevazioni erano stati, coerentemente con le loro responsabilità nella pratica quotidiana, infermieri ed altri operatori sanitari non medici; b) i risultati dello studio, discussi a livello locale, mettevano in evidenza il fatto che, al di là del loro uso diffuso, i farmaci non solo potevano fornire risposte molto parziali, ma potevano rappresentare un rischio ancor più grande degli effetti indesiderati: quello cioè di con- F. Andriolo, et al.: Una epidemiologia senza numeri: gli infermieri raccontano la loro percezione-gestione dei disturbi comportamentali dell’anziano Lo studio ha interessato tutta la popolazione di due strutture residenziali per anziani esposti a trattamento con psicofarmaci: il Centro Residenziale Anziani di Castelfranco Veneto (CFV) ULS 8, che accoglie 250 ospiti, di età pari o superiore a 65 anni; il Centro Residenziale di Reggio Emilia (RE) con 569 ospiti, distribuiti in 8 moduli assistenziali. La raccolta delle informazioni riguardava: – età, genere, tempo di permanenza in istituto; – diagnosi (codificata in 4 raggruppamenti patologici: patologia psichiatrica, patologia neurologica, patologia psichiatrico-neurologica, patologia non psichiatrica e non neurologica); – la mobilità, il grado di deficit cognitivo, la presenza o meno di disturbi, stabili ed occasionali, del comportamento; – l’esposizione a psicofarmaci (secondo la classificazione ATC: neurolettici, benzodiazepine, antidepressivi e/o psicoanalettici) complete delle informazioni sul dosaggio, la/le modalità di somministrazione, il giudizio di efficacia e i possibili effetti collaterali. RIQUADRO 1 SCHEDA DELLO STUDIO: “MONITORAGGIO DEL PROFILO DI UTILIZZAZIONE DI FARMACI PSICOTROPI. PRESCRIZIONE DI NEUROLETTICI IN STRUTTURE RESIDENZIALI” Un follow-up a 3-6-12 mesi prevedeva un monitoraggio specificamente centrato su: – grado di stabilità della terapia, – l’eventualità di riduzione, incremento, sospensione e/o sostituzione del trattamento con le motivazioni riguardanti questa decisione. I dati sono stati raccolti dalle informazioni mediche ed infermieristiche riportate nelle cartelle degli ospiti, integrate con osservazioni ad hoc laddove era necessario. Sono stati considerati tutti gli ospiti rispondenti ai criteri di inclusione fra il 15 settembre e il 24 novembre 2003, seguiti fino al novembre 2004. Gli eventi intercorsi (decesso, ospedalizzazioni, traumi, episodi infettivi acuti, comparsa di piaghe, variazioni di peso rilevanti, altro). – Una popolazione di 455 soggetti, prevalentemente donne (circa 80%) con una media di età per gli uomini di 79.6 anni e per le donne di 85.9 anni; istituzionalizzata da molto tempo (il 19% da più di 5 anni e il 50% da 1 a 5 anni con una media di 3 anni e 10 mesi di permanenza); con 64% di patologie neurologiche, 16.3% con patologia psichiatrica, 10.8% con patologia mista (neurologico-psichiatrica), l’8.6% con patologie extra neurologiche e psichiatriche. Una prevalenza di soggetti non autonomi, con una condizione di deterioramento cognitivo grave nel 34% e moderato nel 45%; disturbi del comportamento grave nell’11% dei casi e moderato nel 40%. – La prescrizione di psicofarmaci interessa il 58% della popolazione residente nella struttura residenziale di RE e il 50% della popolazione di CFV, con una prevalenza del 30% a RE e del 31% a CFV. – Il 52.8% della popolazione è in terapia con farmaci di una sola delle 3 categorie considerate: 24.2% con neurolettici, 21.8% con benzodiazepine, 6.8% con antidepressivi, il 47.2% è in politerapia con associazioni di psicofarmaci “inappropriate” (prescrizioni concomitanti di 2 o più antidepressivi e/o benzodiazepine e/o neurolettici). – Il giudizio di efficacia veniva segnalato soddisfacente nel 73% dei casi e solo per 30 soggetti venivano riportati uno o più effetti collaterali al momento dell’inclusione nello studio. – 176 soggetti (tra i quali 17 decessi) hanno completato le tre rilevazioni previste e i 12 mesi di follow up; 55 soggetti (di cui 28 deceduti) hanno completato solo uno o due dei tre follow up previsti. RIQUADRO 2 I RISULTATI PRINCIPALI Per 117 soggetti (50.6%) non vi era stata alcuna modifica della terapia neurolettica durante i 12 mesi di osservazione, mentre per i restanti 114 soggetti (49.4%) la terapia antipsicotica era stato sospesa e/o ridotta in 68 casi, e diversamente modificata nei restanti 46 soggetti. Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 25 Contributi ed esperienze centrare l’attenzione sui sintomi, e sulle risposte mirati a spegnerli, mettendo in secondo piano il fatto che sintomi uguali possono esprimere problemi e bisogni molto diversi, che richiedono una attenzione e risposte molto mirate ai singoli pazienti e alla diversità dei loro momenti di vita e assistenziali. Il contesto e la metodologia dello studio Il risultato della discussione più immediato, e percepito come più rilevante da parte dell’équipe infermieristica di Castelfranco è stata la decisione di costituirsi come gruppo di lavoro, con la partecipazione della quasi totalità degli infermieri attivi nel Centro residenziale (che sono gli autori di questo contributo). Provocati, invitati, trovatisi a guardare dietro e dentro le pratiche, a ciò che non è raccontatoraccontabile nei quaderni delle consegne, o nelle cartelle cliniche, o nelle rilevazioni di appropriatezza, gli operatori hanno provato a rispondere a tre domande che attraversano e interessano, non solo il loro quotidiano, ma tutto l’ambito della ricerca-assistenza clinico-epidemiologica di questo settore della pratica [non solo] infermieristica. Le domande adottate per il lavoro di gruppo erano: 1) Come definireste un disturbo comportamentale? 2) Quali sono le azioni e le attività che fai prima di ricorrere all’uso dei farmaci psicotropi? 3) Racconta una tua esperienza significativa che riguarda un tuo intervento assistenziale riuscito senza il ricorso a farmaci. La metodologia scelta è stata quella della scrittura da parte dei singoli infermieri delle risposte ad ognuna delle domande, per documentare anche attraverso la variabilità del linguaggio e dei punti di vista qual è il peso della soggettività dell’operatore nel percorso che va dalla definizione di un problema alla sua presa in carico, alla valutazione che diventa memoria/esperienza. Il tempo dato per il lavoro è stato molto ristretto per rispecchiare meglio quale è la “conoscenza immediatamente disponibile” per prendere decisioni nella pratica: evitando così discussioni e riflessioni di gruppo, che finiscono per portare a conclusioni medie, o mediate: queste infatti possono essere apparentemente più informati26 Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 ve su una ipotetica cultura prevalente, ma fanno scomparire il dato che è più assente della letteratura, e cioè il grado di empirismo-approssimazione, che è ciò che più conta quando si deve affrontare un problema poco conosciuto in sé, (e non solo per la più o meno adeguata formazione del singolo operatore). Una riflessione più generale sull’insieme delle storie era stata rimandata ad un momento successivo, si è ritenuto interessante riprodurre qui nel dettaglio, lo spettro delle risposte individuali alle tre domande; il contributo nel suo complesso rappresenta la sintesi-risultato della discussione. Risultati 1. Nella logica di una ricerca basata sulla “narrazione”, le Tabelle 1-3 riproducono, senza rielaborazioni, le risposte date dagli infermieri alle tre domande. Se si ha la pazienza di leggerle, ascoltarle, pur nella loro lunghezza ed inevitabile ripetitività dei contenuti (attente/i però alla varietà dei linguaggi, e ancor di più degli approcci-atteggiamenti rispetto ai problemi), ci si trova a vivere una vera e propria micro-epidemiologia, senza numeri, culturale, assistenziale. 2. L’infermiera/e che definisce un disturbo comportamentale come “uno scompenso interiore” (Tabella 1), senza altre qualificazioni, avrà comportamenti (incertezze, attenzione, modi di presa in carico) profondamente diversi da quello che articola tentativi di razionalizzazione che evocano tante competenze e discipline che potrebbero, o si spera che possano, essere di aiuto. 3. Nello stesso senso, l’ascolto e l’attenzione prima di dare un farmaco (che è il minimo comune denominatore delle risposte della Tabella 2) si traducono in una varietà di racconti che fanno intravedere concretamente tempi, percorsi, capacità e modalità di vedere-riconoscere i diversi pazienti. Questi diventano un vero e proprio osservatorio originale sulla mescolanza di attese, conoscenze, credenze, immaginazioni, frammenti di conoscenza, di cui finisce inevitabilmente per essere fatta la (non) gestione concreta di un problema di cui è molto difficile definire le caratteristiche e prevedere di poter influenzare la prognosi. 4. La piccola antologia di storie della Tabella 3 (quelle pertinenti, quelle che non sono riu- F. Andriolo, et al.: Una epidemiologia senza numeri: gli infermieri raccontano la loro percezione-gestione dei disturbi comportamentali dell’anziano scite a divenire storia, le altre che raccontano l’operatore/rice più che il/la paziente) rappresentano una delle poche applicazioni concrete di una raccomandazione metodologica formulata spesso anche su questa Rivista: per essere in grado di produrre cono- Tabella 1 - Come definiresti un disturbo comportamentale? • Sono molto soggettivi: – Reazioni ansiose rispetto agli eventi della vita – Aggressione – Incapacità a reagire e superare gli eventi della vita – Apatia • Un disturbo comportamentale è l’alterazione degli equilibri caratteriali di un soggetto, ansia delirio, depressione. Questa rottura può essere causata da una alterazione degli schemi abituali di un soggetto, in particolare nell’anziano; es.: ricoveri in strutture, la sensazione di abbandono, che provocano dei sentimenti di frustrazione che alterano il comportamento del soggetto. • Quello che fa un soggetto fuori dei comportamenti della vita quotidiana. • Persona che non comunica, apatia anche se sa cosa gli accade intorno. Irrequietezza, iperattività nei rapidi spostamenti: bagno, stanza, letto, soggiorno etc.. Logorroico, ansioso che vuole attirare l’attenzione a ogni costo su se stesso. Non sopporta le persone che sono vicine e diventa egoista e tende a avere sempre ragione anche su futili cose. • Aggressività, rifiuto ad alimentarsi, rifiuto all’igiene, gridare senza motivazioni, disturbo del sonno. • Un disturbo comportamentale lo definirei come una condizione in cui la persona si slega da quella che è la normale convivenza tra e con le altre persone dove il normale è già stato stabilito da regole di comportamento. È chiaro però che il disturbo si può sviluppare come conseguente a patologie o a stati d’animo alterati o ancora da esperienze personali. • Uno scompenso interiore. • I disturbi comportamentali hanno un vasto campo: medico, psicologico etc.., “capire” o cercare di avvicinarsi al “problema” è un’arte in quanto le sfumature e le espressioni del disturbo sono infinite. Elencarle o cercare di descriverle potrebbe risultare anche banale in quanto ogni individuo è un mondo a sé e prima di giudicarlo va capito. E a volte si dovrebbe aiutarlo a capire se stesso. • Posso definire disturbo un’alterazione fisica o psicologica che può modificare e creare un disagio nel modo di porsi in relazione a un gruppo, quindi nel modo di essere. È difficile esprimere il concetto di equilibrio, mentale e fisico. Non è solo assenza di equilibrio. • Uno stato disagio, difficoltà, paura, insicurezza, un bisogno di comprensione e di aiuto. Una abilità del professionista nell’interpretare, prevenire, limitare, ridurre il disagio che spesso porta al disturbo. Una patologia complessa. • Un disturbo comportamentale è legato ad un malessere interiore di difficile capacità di comprensione da parte di soggetti esterni, talvolta scatenati da diversissimi motivi. • Una manifestazione di disagio che può avere giustificazione fisica, psicologica o psichica. • Una difficoltà soggettiva ad un adattamento psico-ambientale con ripercussione sull’umore e sui rapporti con le persone circostanti. • Disorientamento spazio-temporale, agitazione, aggressività, crisi depressiva, difficoltà di comunicare con gli altri. • Un comportamento che non rientra nella normalità. • Insieme di atteggiamenti verbali e non solo caratteristici della singola persona anche se questa può essere catalogata sotto una comune patologia come ad es. demenza senile. • Comportarsi, accusando disturbi fisici: dolore, paura, insonnia, inappetenza, difficoltà a deglutire. • Un qualsiasi comportamento portato all’estremo nella qualità o nella misura. • Ospite irrequieto, aggressivo verso gli altri, verso se stesso. Alterazioni sia a livello psicologico, fisico e psichico. Tabella 2 - Nella tua pratica assistenziale quali sono le azioni e le attività che fai prima di ricorrere all’uso di farmaci psicotropi? • Di fronte ad un ospite che mi fa una richiesta di aiuto qualsiasi essa sia (cioè dolore fisico o psichico) cerco sempre di capire se prima di somministrare un farmaco un mio atteggiamento di ascolto, comprensione del bisogno sia già in grado di dare una soluzione. Spesso la persona anziana presenta ansia perché si sente sola, non è venuto il familiare, il personale di assistenza non è stato gentile, si adatta con fatica al centro residenziale etc..; cogliere questi aspetti e dare poi delle sicurezze alla persona è fondamentale. È un compito per me primario rispetto al farmaco. • Una attenta valutazione dell’ospite, in prima istanza un approccio relazionale teso a capire l’origine del disagio. Il cercare di capire in primo luogo se l’origine del problema è di tipo clinico, cercare di infondere sicurezza. • Ascoltare l’ospite, parlargli, sorridergli, rassicurarlo, cambiarlo d’ambiente e di posizione, capire se ha dolori. • Accertarsi che non rechi danno per incompatibilità e che sia il momento e la situazione particolare per somministrarlo. • Molte volte anche le persone con demenza ti riconoscono e sanno come si instaura un rapporto di fiducia, ciò è importante per saper gestire momenti critici, a volte basta un atteggiamento di attenzione, come parlare e accarezzare il viso o le mani, c’è un contatto che viene percepito e accettato. La persona si rassicura e diventa più gestibile e il più delle volte succede prima di addormentarsi. Se questo è inutile si dà la terapia assegnata. Ho osservato che la persona è agitata quando non è in grado di farti capire che ha bisogno di espletare i suoi bisogni fisiologici e quando si agisce di conseguenza cambia positivamente. Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 27 Contributi ed esperienze Tabella 2 - Segue • Osservo, ascolto, chiedo informazioni, controllo la terapia, controllo la cartella clinica, pongo delle domane all’ospite, controllo i parametri, somministro la terapia. • Prima di ricorrere all’uso di farmaci valuto la persona per poter capire se riesco, qual è la causa scatenante. Molto spesso il ricorso al farmaco è segno di sconfitta per l’infermiere. Azioni possono essere, vedere se l’ospite ha dolore, se ha pensieri negativi, ha ricevuto notizie negative, ha febbre, altri ospiti lo disturbano. Attività possono essere, sistemare la sua postura, provare a distrarlo anche semplicemente chiacchierando. • Mi metto in ascolto, non giudico il comportamento, entro in empatia, parlando piano ed esprimendo condivisione dello stato di disagio. È quanto basta a volte per risolvere una situazione sgradevole. Il farli sentire amati e una delle migliori medicine. • Prima di tutto mi avvicino alla persona e valuto la situazione. – Rilevo eventuali necessità (fame, sete, cambi posturali, oppure bisogno di essere rassicurati e bisogno di parlare) ed eventualmente si provvede a soddisfarli.. – Stato di irrequietezza o agitazione psicomotoria: se questa non è contenibile e se l’ospite risulta lesivo a sé e per gli altri, in questo caso provvedo alla somministrazione di farmaci psicotropi al bisogno. – Altro caso in cui somministro i farmaci: quando l’ospite nonostante vari tentativi per tranquillizzarlo persiste uno stato agitativo che lo sta stremando e non lo fa riposare e rilassare. • L’osservazione, l’intervista, l’ascolto ed il dialogo fanno parte del processo di qualsiasi problem solving. Raccogliere dati sulla persona è alla base di ogni intervento. Disturbi comportamentali, come possono essere, l’aggressività, l’isolamento, le ansie maniaco-depressive etc.. Molto spesso possono essere provocate e scatenate da motivi, giudicati esterni, più banali. La valutazione dei bisogni primari, innanzitutto è una delle prime cose in assoluto: sono stati garantiti? Ha dormito? Ha mangiato? Ha scaricato? Si è idratato? Ha urinato? Ha il catetere? Sente dolore?. Secondariamente dei bisogni cosiddetti “secondari”. • Osservare, ascoltare, comunicare, stare qualche momento seduta accanto; se ha dolore, controllare alvo, urina, l’ambiente, l’illuminazione, i rumori, le persone vicine, le eventuali distrazioni, le attività in atto. Sorrido, parlo, faccio sentire la mia presenza “confidenziale” parlando dei propri familiari e chiamandoli per nome, rassicuro per esempio che stanno arrivando (o arriveranno fra…). Accompagno a fare una breve “passeggiata”, chiedo se vuole un po’ di acqua, se ha fame; nel comunicare se noto che ha paura perché si è perso, sorrido e cerco argomenti di comunicazione “normali” o seguo il percorso comunicativo della persona; è importante il tono della voce. • Approccio immediato per capire il motivo scatenante. Cerco di relazionarmi in termini positivi e di comprensione, usando logicamente la situazione. Se non riesco personalmente, cerco la collaborazione di altre figure professionali (OSS) che hanno più contatto con l’ospite. Se non vi è nessuna alternativa ricorro al farmaco o al consiglio del medico. • Cerco di concentrarmi sulla persona che abbisogna di aiuto riprendendo in esame magari le consegne dei giorni precedenti per appurare se ci sono state novità significative, notizie particolari, problemi fisici… che potrebbero giustificare un cambiamento di comportamento del soggetto ed aiutandomi anche con quello che mi possono riferire colleghi ed operatori presenti in struttura al momento. Il passo successivo è sicuramente l’approccio di persona con il soggetto in questione. Penso che un grande aiuto sia dato dal fatto che gli anziani di questo Centro li conosciamo bene e ciò rende più facile la valutazione riguardante la eventuale somministrazione del farmaco e la conseguente verifica della presenza o meno di problemi risolvibile “sul posto”. • In linea di massima cerco spesso di capire le ragioni che portano l’ospite ad essere agitato, scoprendo che a volte la soluzione sta nel rimuovere fattori ovvi e banali, ma non rimuoverli (perché secondari!), causa scatenamento della agitazione psico-motoria…… • Ci sono stati alcuni ospiti che soffrivano di crisi di pianto (specialmente quando restavano sole) che avevano al bisogno 10-15 gocce di Talofen; prima di ricorrere alla terapia al bisogno si portava l’ospite nella compagnia degli operatori o degli infermieri con beneficio; ospite che urlava e diceva parolacce è stato fatta terapia antidolorifica piuttosto che terapia sedativa con beneficio. Di notte ci sono alcuni che non dormono, ci sono stati dei casi che è bastata una tazza di latte caldo oppure un bicchiere di camomilla. • Prima di tutto osservo il paziente, come si presenta: se sofferente oppure se solo inquieto, ansioso. Consulto il medico prima di somministrare qualsiasi terapia. Parlo con i parenti per capire un po’ il comportamento. • Vedere, avvicinare la persona, come primo e più importante atto per stabilire una comunicazione. Questo approccio dove già dare calma e fiducia e poi successivamente arrivare al dialogo per quanto possibile. Quindi stabilire se è il caso di intervenire con terapia farmacologica. • Cercare di convincere con parole, ascoltare, cambiare discorso, distraendo se possibile la persona che cerca conforto. Se gli orari lo permettono si consulta il medico su cosa è possibile fare. Rassicurare la persona con compagnia e conforto, se è possibile coinvolgere i familiari con maggiore vicinanza. • Consultare i parenti, consultare il medico e i colleghi, consultare gli operatori, monitorare il comportamento, se non implica rischio per la vita. Valutare disturbi fisici, come il dolore. Verificare deficit sensoriali (paziente divenuto sordo o cieco). Chiedere esami del sangue (ammoniemia alta). Cercare alternative rispetto a quelle abituali. A volte basta distrarre il paziente. • Valuto sempre la situazione, vado a verificare com’è l’ospite, aspetto sempre prima di somministrare qualsiasi farmaco per i suoi effetti collaterali. Io sono del parere che quando un ospite è troppo agitato, la somministrazione del farmaco ha scarso effetto. Bisognerebbe intervenire quando, osservando l’ospite sempre in collaborazione del personale si notano cambiamenti di umore e di comportamento. 28 Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 F. Andriolo, et al.: Una epidemiologia senza numeri: gli infermieri raccontano la loro percezione-gestione dei disturbi comportamentali dell’anziano Tabella 3- Racconta una tua esperienza significativa che riguarda un tuo intervento assistenziale “riuscito”, senza il ricorso a farmaci. Prova a narrare quali sono state le strategie messe in atto per aiutare la persona • Vorrei segnalare a questo proposito che la preparazione personale e psicologica di noi che operiamo con anziani e demenza sarebbe fondamentale e talvolta purtroppo non è sempre adeguata. Mi capita di ricevere segnalazioni di stati di agitazione dell’ospite a volte esasperati da chi fa la segnalazione… Ricordo un ospite allettato, emiplegico con ricorrenti stati depressivi e disturbi dell’alimentazione, non era facile da sostenere sempre e a volte lo psicofarmaco è sembrato l’unica soluzione soprattutto di fronte alle frequenti crisi di pianto. Andavo ad imboccarlo e ho cominciato ad ascoltarlo (per come riusciva ad esprimersi); c’è voluto un po’ di tempo, ma un giorno mi ha detto “sei un angelo caduto dal cielo”; per me è stata una gratificazione unica e soprattutto almeno a me l’ospite non ha più chiesto terapia al bisogno. • Spesso in reparti geriatrici come quello delle Case di riposo si ospitano soggetti per lunghissimi periodi. L’equilibrio di queste persone spesso è molto precario. Importante quindi il sapere gestire in un modo razionale i farmaci psicotropi. B. è un’ospite relativamente giovane nella nostra Casa di riposo, è seguita da uno Psichiatra con un buon compenso della sua depressione. In un periodo l’ospite ha cominciato con dei deliri di tipo paranoide (urla di continuo, si sente perseguitata). In quel caso tentando con il dialogo e innanzitutto cercando di rendere l’ambiente più ospitale (calmando gli operatori e gli altri ospiti aggressivi nei suoi confronti), sono riuscito a rilevare un disagio dovuto ad un problema clinico (infezione urinaria che le creava spasmi vescicali regolarmente). Stimolando i familiari ad una presenza più costante, l’ospite ha recuperato tutte le sue capacità relazionali. • Era l’inizio della Settimana santa; un’ospite da pochi giorni ricoverata era agitata, piagnucolava per l’assenza della figlia, non voleva mangiare, era aggressiva verso le operatrici. Ho cominciato a parlare con lei del periodo particolare e dei sacrifici che forse una volta facevano. L’ospite si è messa a raccontarmi di tutte le funzioni a cui partecipava e delle preghiere e dei canti. Fra un particolare e l’altro, l’ospite ha mangiato tutta la sua minestra, alla fine era contenta di aver condiviso con una persona parte dei suoi ricordi, sentendosi anche importante. Tutto ciò però si può fare poche volte causa sovraccarico di lavoro. • Fermarsi, discutere e fare dialogare, fare esprimere le ansie che in quel momento possono fare esigere il bisogno di un certo tipo di farmaco. • Per l’esperienza accumulata in tanti anni di lavoro ricordo di un ospite che prima di addormentarsi voleva sempre prendere la pastiglietta e si dava del placebo. Quando ero in turno avevo delle caramelle a forma di compresse rivestite e puntualmente la sera la somministravo e l’effetto era ottimo, dormiva tutta la notte. Questa somministrazione è continuata anche con i colleghi. Il placebo funziona anche sotto forma di gocce o iniezione. • Ospite portatore di ca vescicale portatore di cateterini ureterali, in terapia sedativa (forse Talofen non ricordo il dosaggio).Urlava, non riuscivo a capirne il motivo, osservando meglio il suo atteggiamento mi accorsi che non riusciva a distendersi sul letto. Avvertii che probabilmente la posizione che assumeva era dovuta al dolore al fianco. Eseguii lavaggio dei cateterini poiché le sacche raccoglitrici dell’urina erano vuote confermando quindi che il dolore era dovuto alla dilatazione pielica; scomparve il dolore e l’ospite trovò sollievo, smise di urlare. • Una esperienza recente e quella di un signore demente, allettato, non parla. L’unico modo per capire che qualcosa non va è quando si lamenta, grida, piange.. Abbiamo visto come “semplicemente” variando la postura tutto torna alla normalità, a volte perciò c’è il rischio di ricorrere al farmaco per una situazione che non è quella per cui il farmaco è indicato. • Come ripeto mi sono messa in ascolto amando la persona anche nel momento di difficoltà perché penso che questi atteggiamenti siano delle richieste di aiuto e anche se può sembrare al di fuori degli schemi il pregare insieme li rilassa. • Qualche anno fa nel mio reparto c’era una signora con diagnosi psichiatrica fatta in età giovane (depressione ipocondriaca etc..), entrata in struttura perché viveva sola e i parenti non riuscivano a gestirla. La terapia che lei assumeva era mostruosa e la terapia al bisogno altrettanto. Un mattino le operatrici del turno non riuscivano a continuare il loro lavoro in quanto questa signora urlava, le seguiva con la carrozzina ed era arrivata al punto di essere violenta. Le operatrici “esaurite” dalla signora aprirono la porta dell’ambulatorio e mi dissero “tienitela tu!”. Mi avvicinai alla signora con un’arma nuova, un sorriso e le chiesi se voleva stare con me un po’. Cominciai a “distrarla” parlando della sua gioventù lavorativa passata in Svizzera… Pian piano si calmò e cominciò a raccontarmi tante e tante cose con un leggero sorriso. Sicuramente ci vuole tempo e pazienza, inoltre l’ospite deve avere un po’ di fiducia nella persona operatore per lasciarsi “convincere”. • Molto spesso è più facile di quanto possa sembrare, riuscire a garantire un benessere, che non degeneri in disturbo. Come successe alla signora, ricoverata nel nucleo demenze, che agitatissima un pomeriggio voleva a tutti i costi ritornare alla sua casa natale; ogni volta che sentiva nominare il nome della figlia che per coincidenza era il nome di una ragazza che lavorava come operatrice nella struttura, si scatenava in lei un’ansia e uno stato di irrequietezza incontrollabile; quindi si è pensato ad una sostituzione “protesica” (come metodo utilizzato nel Gentle-care) con un altro nome almeno nel momento in cui era presente, notando una diminuzione del problema. • È molto importante conoscere la persona, il comportamento: una signora in carrozzina, non voleva alimentarsi, mandava via tutti con ansia, chiedeva di essere portata in ospedale, perché doveva partorire: è stata messa a letto ed aiutata ad evacuare. Una signora chiede con insistenza di andare a casa, dai figli che l’aspettano e cerca la via per uscire, non vuole alimentarsi, va da tutti e chiede come fare con ansia e preoccupazione: con molta calma e serenità dico che il figlio R. col nipotino T. verranno tra un’ora, hanno appena telefonato (sono al lavoro). Una signora chiede della figlia, parla in continuazione, me la porto in ufficio, lascio che parli liberamente, le offro una caramella, un bicchiere di acqua, la allontano dai rumori. • Procurata una assistenza esterna alla struttura che la segue per qualche ora per soddisfare i bisogni da lei espressi (uscite, conversazione, attenzione). Analisi del bisogno (peretta) soddisfacimento del bisogno, non inventato, del soggetto, un reale calo dell’ansia e quindi tranquillità successiva. Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 29 Contributi ed esperienze Tabella 3- Segue • Si chiedeva il mio intervento con il “farmaco” per una signora che continuava ad urlare, a lamentarsi e ad esprimere la sua rabbia contro chiunque le si avvicinasse. Premetto che questa signora ormai centenaria, ha quel che si definisce un “bel caratterino” e più passa il tempo più diventa difficile la sua gestione, avanzando di pari passo pure la demenza. Sapevo di rientrare nella stretta cerchia di persone “simpatiche” alla signora per cui ne ho approfittato e mi sono avvicinata. Il primo quesito è stato sicuramente un semplice “cosa c’è” e con mia sorpresa la risposta è stata altrettanto semplice: “devo andare in bagno”. Ecco che mi si chiedeva di somministrare un sedativo, bastava invece “dare retta” alla signora che stava semplicemente manifestando il suo disaggio a suo modo. Il personale continuava a ripeterle “ falla sul panno” e questo l’ha ulteriormente infastidita. Il mio intervento è stato semplice, elementare: ho accompagnato la signora in bagno e l’ho aiutata. Il suo ritorno in soggiorno era sicuramente più trattabile e non vi è stato il bisogno di farmaci sebbene ogni tanto continuasse a manifestarsi quel “bel caratterino”. • Mi capita spesso con un ospite (la quale ha una incondizionata fiducia nei miei confronti) di essere chiamato in causa dagli operatori, proprio per il suo stato di forte agitazione. Ebbene proprio per il tipo di rapporto, riesco ad assecondarla nei suoi desideri, a calmarla evitando la somministrazione di sedativi che a volte ottengono scarso beneficio. • Mi è capitato una notte un ospite agitatissimo, logorroico che si strappava i vestiti, ho controllato la scheda alvo e ho visto che erano alcuni giorni che non scaricava. Ho fatto un clisma con effetto positivo, è stato più tranquillo e ha preso sonno. • Se vigile cerco di parlarle, di avere un dialogo su qualsiasi argomento che possa aiutarlo. Raccontarle un episodio, coccolarla, confortarla, ascoltarla che è molto importante. Sostenerla moralmente, starle molto vicino fisicamente. Hanno molto bisogno di sentire qualcuno accanto per non sentirsi soli. • Una signora, di professione Ostetrica che nel cuore della notte si sveglia molto agitata correndo nei corridoi dicendo di essere stata chiamata d’urgenza per un parto difficoltoso. È sufficiente parlare del suo lavoro per dieci minuti, subito si riesce a calmarla ed interessarla. • I risultati per me non sono semplici. Ho cercato di rassicurare, convincere, di essere vicino fisicamente a chi cercava aiuto, fisico e morale. Sono rimasta a fare compagnia. • Nel Nucleo Alzheimer U. non voleva dormire. Ho fatto finta di essere sua figlia: lui continuava a dire di dover tornare a casa. Era molto agitato. A un certo punto ho preso la bambola e gli ho detto che aveva svegliato il nipotino e gli ho chiesto di mettersi a letto con la bambola e di cullarla fino a che non prendeva sonno. Lui l’ha fatto per amore della famiglia e si è addormentato dopo poco. • È facile dire bisogna sedare l’ospite perché è agitato. Spesso succede di notte che l’ospite si sveglia verso le ore 23 parlando a voce alta e disturbando. Mi viene richiesto il sedativo, ma valuto sempre la situazione, spiegando che l’ospite andando a letto presto quando ha dormito 3-4 ore per lui è sufficiente. Personalmente vado dall’ospite, lo osservo, lo faccio parlare, gli prendo la mano. Molte volte con questo intervento l’ospite si tranquillizza. Poi in un secondo momento spiego al collega che quando si seda l’anziano di notte è facile che non riesca a smaltire il sedativo e il giorno dopo sarebbe assopito. In alcune attività vi sono degli ospiti che non accettano come ad esempio il bagno, allora in questo caso è stato valutato con il medico di somministrare la terapia sedativa allo scopo di garantire tranquillità per l’ospite e per il personale. scenza combinando quello che si fa, quello che si è, e la realtà di coloro che sono oggetto di intervento, è necessario imparare a riconoscere, ricordare, raccontare l’apparente banalità del quotidiano in modo che i tanti frammenti, più o meno colorati, diventino mosaico. Discussione e implicazioni La narrazione di ciò che si vive, si decide, ci si domanda quando si riconosce esplicitamente di dover gestire un ambito assistenziale che ha come caratteristica la non-definizione dei problemi, e perciò anche delle risposte, è un esercizio di pro-memoria collettivo; da una parte vi è la difficoltà di non avere regole da applicare alla (non prevedibile) variabilità del disagio comportamentale-psichico dei diversi casi; dall’altra parte si è invitati ad assumere la responsabilità di formulare ipotesi ed interventi 30 Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 che siano individualmente rispettosi delle soggettività (personale e contestuale) della popolazione che è oggetto di assistenza.5 La riscoperta della legittimità di avere uno sguardo che è mirato alle persone singole, ed ai loro contesti, restituisce la libertà di considerare l’intervento farmacologico come una delle possibilità esistenti, e di evitare il ruolotrappola di essere appiattimento ripetitivo, sia delle proprie attese, che dei bisogni che si incontrano.6 La via di uscita dall’incertezza non si trova infatti in atteggiamenti-comportamenti di rinuncia, ma nell’attivazione di risorse diverse, complementari, che non sono sempre praticabili (in termini di tempo, di conoscenze, di limitazioni organizzative), ma che aprono certamente possibilità originali: sia in termini di risposte efficaci che di ruoli assistenziali, con più ampi, ed appropriati, margini di autonomia professionale. F. Andriolo, et al.: Una epidemiologia senza numeri: gli infermieri raccontano la loro percezione-gestione dei disturbi comportamentali dell’anziano La presa di coscienza, e la esplicitazione, della variabilità dei diversi momenti dell’assistenza (documentate nelle Tabelle 1-3) può in questo senso permettere di affrontare situazioni dominate dal non so: da occasione di empirismo o di confusione tra doveri assistenziali generici, attenzioni alle richieste individuali, le aree di incertezza si trasformano in opportunità per ipotizzare, sperimentare, rendicontare pratiche diversamente propositive.6, 7 Un gruppo di lavoro seminariale immaginato per condividere i risultati di un lavoro formale di farmacoepidemiologia si è così trasformato nella produzione di una “epidemiologia senza numeri” i cui protagonisti sono, insieme, operatori alla ricerca di comprensione e risposte, ed i soggetti che propongono bisogni e domande. Il duplice racconto di una stessa realtà assistenziale dai due punti di vista, quello dei riquadri 1 e 2, e quello delle Tabelle 1-3, non sono alternativi l’uno all’altro, ma complementari: e non sembra arrischiato pensare che si tratti di SUMMARY una proposta metodologica, di ricerca e formazione permanente, da applicare con profitto in situazioni (e sono tante nella pratica infermieristica!) simili a quella qui descritta e vissuta. Bibliografia 1. Lepore V. Tognoni G. La percezione come area di ricerca. Assist Inferm Ric 2004; 23: 34-5. 2. Lepore V, Cecchetto G, Bonato P, Tognoni G. Uso degli psicofarmaci negli anziani. Informazione sui Farmaci 2006; 3: 75-83. 3. Redazione, a cura della. Narrative, ricerca qualitativa e ricerca infermieristica. Assist Inferm Ric 2005; 24: 133-5. 4. Editorial. Keep taking the medicine. Age Ageing 2002; 31: 423-5. 5. Briesacher B, Limcango M, Simoni-Wastila L, et al. The quality of antipsychotic drug prescribing in nursing homes. Arch Intern Med 2005; 265: 1280-5. 6. Oborne C, Hooper R, Ka Chi Li, Swift C, Jackson S. An indicator of appropriate neuroleptic prescribing in nursing homes. Age Ageing 2002; 31: 435-9. 7. Alexopoulos G, Streim J, Carpenter D, Docherty J. The Expert Consensus Guideline Series. Using antipsychotic agents in older patients. J Clin Psychiatry 2004; 65(Suppl 2): 21-41. Objectives. To assess the practicability of caring strategies which rely on the subjective resources and insights of nursing personnel in the management of behavioral problems of the elderly. Methods. Following the indications of a training session, the nurses in charge of a residential geriatric department have been invited to express, through brief written accounts, their point of view on: 1. the definition(s) of behavioral problems; 2. the strategies adopted before or with or in the place of psychotropic drugs; 3. the experience gained from significative re- sponses to non-pharmacological treatments. Results. All the narratives by individual participants are reported to document, through the variability of their languages, concepts, interventions, the need as well as the possibilities of caring behaviors, where listening attitudes are practiced, thus allowing also a better awareness of original role opportunities. Conclusions. Narrative practices can usefully be incorporated into caring duties and contexts, and represent an important training tool, specifically relevant for the grey areas of medicine. Assistenza infermieristica e ricerca, 2007, 26, 1 31