N. 1/2010 - Associazione Italiana per l`Arbitrato

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ISSN 1122-0147
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XX - N. 1/2010
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
direttore Elio Fazzalari
© Copyright - Giuffrè Editore
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XX - N. 1/2010
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
direttore Elio Fazzalari
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INDICE
Ricordo di Elio Fazzalari ...........................................................................
1
DOTTRINA
FRANCESCO P. LUISO, Il Tribunale Nazionale Arbitrale per lo Sport ...........
ANTONIO BRIGUGLIO, Potestas iudicandi in materia cautelare ed arbitrato
estero ...................................................................................................
LAURA SALVANESCHI, Impugnativa in via arbitrale della delibera di approvazione del bilancio ............................................................................
3
17
59
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
Italiana
Sentenze annotate:
Corte costituzionale 2 gennaio 2010, n. 26, con nota di R. TISCINI, La
Corte costituzionale interviene sui rapporti tra istruzione preventiva
ed arbitrato: continua l’estensione del rito cautelare uniforme alla
tutela preventiva della prova ..............................................................
Cass. 1o luglio 2008, n. 17930, con nota di RITA TUCCILLO, La Corte di
Cassazione interviene sulla natura giuridica dell’ordinanza di liquidazione dei compensi arbitrali emessa dalla Camera arbitrale per i
lavori pubblici .....................................................................................
Trib. Bologna 17 aprile 2008, con nota di F. CAMPIONE, Sulla presunta incompatibilità tra arbitrato irrituale e pronuncia secondo diritto ....
Trib. Cosenza 29 settembre 2009, con nota di A. COLOSIMO, Il procedimento arbitrale contemplato dall’art. 7, 6o comma, l. 20 maggio
1970, n. 300: sui termini di prescrizione per l’impugnativa del lodo
in mancanza di notifica ......................................................................
II)
73
95
121
135
Straniera
Sentenze annotate:
Regno Unito - High Court of Justice, Queen’s Bench Commercial Division 17 dicembre 2009, con nota di A. FABBI, Alcune osservazioni
III
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circa l’impugnativa per nullità del lodo, il dovere di act fairly del
tribunale arbitrale e la conduzione della fase istruttoria negli arbitrati commerciali internazionali .........................................................
141
GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
Italiana
Lodi annotati:
Coll. arb. 10 ottobre 2008 (Roma) con nota di RAFF. TUCCILLO, Accertamento dell’avveramento dell’evento dedotto come condizione del
contratto, termine della condizione e risarcimento del danno .........
171
RASSEGNE E COMMENTI
VALERIO SANGIOVANNI, La conciliazione stragiudiziale presso la Consob ..
213
DOCUMENTI E NOTIZIE
Notizie libri [A.B.] .....................................................................................
IV
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233
Ricordo di Elio Fazzalari
Elio Fazzalari è morto il 1o luglio 2010.
La Rivista ha perso il principale fra i suoi fondatori e il suo direttore.
La scienza giuridica ha perso una luce vivida. La Università
italiana, in un’epoca già non felice, ha perso uno dei blasoni della
sua residua nobiltà e del prestigio che non è fatto di leggi, di forme
o di riforme, ma di uomini e di grandezza di uomini, come grande
era Elio Fazzalari.
L’attuale livello e l’intensità degli studi di diritto dell’arbitrato
non sarebbero immaginabili senza l’energia con la quale Elio Fazzalari ha dissodato terreni poco esplorati, suscitato dibattiti, e sostenuto
le ricerche proprie ed altrui con il solido cemento di una riflessione
teorico-sistematica appartenente alla più alta scuola processualcivilistica.
Moltissimi hanno ammirato dell’insigne studioso scomparso
l’ingegno ed il meritato successo, qualcuno ne ha temuto, nel foro e
nell’accademia, la foga ed il rigore. Tutti hanno dovuto riconoscergli
la coerenza e l’impegno di un autentico cavaliere dell’intelletto.
Chi poi ha avuto la fortuna di conoscerlo da vicino si è giovato
della sua generosità e della sua partecipe ed affettuosa saggezza ed
ha tante volte sorriso innanzi alla sua dirompente arguzia, non ostentato ma non secondario emblema della vastità di una mente privilegiata.
Addio dunque ad Elio Fazzalari, emerito della « Sapienza » romana, accademico dei Lincei, Maestro vero, uomo che in ottantacinque anni di vita operosa ha messo largamente a frutto, con entusiasmo ed impeto, i molti talenti che gli erano stati assegnati.
la Rivista
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DOTTRINA
Il Tribunale Nazionale Arbitrale per lo Sport
Il punto di vista del processualista (*)
FRANCESCO P. LUISO (**)
1. Il TNAS nell’ottica dell’ordinamento statale. — 2. La « irrilevanza » dell’ordinamento sportivo. — 3. Il riparto di giurisdizione. — 4. L’ACGS ed il
TNAS. — 5. L’imparzialità del TNAS. — 6. I lodi del TNAS e la giurisdizione amministrativa. — 7. Conclusioni.
1. Le profonde modifiche, apportate dal nuovo Statuto del
Comitato olimpico italiano, adottato il 26 febbraio 2008, ai meccanismi di giustizia interni all’ordinamento sportivo (1), ripropongono
l’ormai classico ma sempre nuovo problema della giustizia sportiva.
Oggetto specifico di questa relazione è il Tribunale Nazionale Arbitrale per lo Sport (TNAS), esaminato nell’ottica del processualista:
più esattamente, anche se meno concisamente, si dovrebbe dire nell’ottica della risoluzione delle controversie che sorgono all’interno di
quell’ordinamento.
Si rende opportuno, prima di passare all’analisi specifica dell’argomento sopra indicato, un breve inquadramento generale della
materia, e la consequenziale indicazione delle fonti normative cui far
(*) Relazione tenuta al convegno L’arbitrato nelle controversie in materia sportiva,
Roma 5 maggio 2010.
(**) Professore ordinario nell’Università di Pisa.
(1) Su cui v. da ultimo VIGORITI, La giustizia sportiva nel sistema CONI, in questa
Rivista, 2009, 403 ss.; FROSINI, L’arbitrato sportivo: teoria e prassi, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, nonché l’ampio e documentatissimo saggio di MARZOCCO, Sulla natura e
sul regime di impugnazione del lodo reso negli arbitrati presso il Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport, in www.judicium.it, in corso di pubblicazione su Rassegna di diritto ed
economia dello sport. Per la situazione antecedente v. fondamentalmente GOISIS, La giustizia
sportiva tra funzione amministrativa ed arbitrato, Milano, 2007.
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riferimento, tenendo altresı̀ conto della situazione antecedente all’approvazione del nuovo statuto del Coni.
Costituisce ormai un dato sufficientemente pacifico che il sistema dello sport costituisce un ordinamento giuridico (2): meglio,
dovremmo dire che i diversi sistemi sportivi costituiscono una serie
di ordinamenti giuridici. E, come tutti gli ordinamenti giuridici, anche quello sportivo determina unilateralmente i propri confini, ed individua i criteri per risolvere i conflitti con altri ordinamenti giuridici
compresenti. Analogamente accade per quanto riguarda l’ordinamento statale, il quale definisce autonomamente la rilevanza e la disciplina del fenomeno sportivo.
Poiché ciascun ordinamento disciplina unilateralmente i propri
rapporti con gli altri ordinamenti, ben è possibile che si determini un
conflitto. Ma non è ovviamente questa la sede né per stabilire quando
vi sia e quale sia il conflitto fra ordinamento sportivo ed ordinamento
statale, né a favore di quale dei due ciascun conflitto sia risolto: ciò
che richiederebbe, oltre all’individuazione dei punti di contrasto, anche un’indagine per verificare quale delle due normative confliggenti
sia di fatto rispettata e quale invece sia disattesa (3).
Cosı̀ pure, non è questa la sede per analizzare il TNAS dal
punto di vista dell’ordinamento sportivo: per stabilire, in altri termini, quale sia la disciplina giuridica del TNAS alla luce della sola
normativa sportiva, senza tener conto di quanto dispongono le norme
statali in relazione agli stessi comportamenti presi in considerazione
dalle norme sportive.
Lo scopo di questa relazione è, più limitatamente, quello di verificare quale sia la disciplina giuridica del TNAS alla luce della
normativa statale italiana: e ciò, come già anticipato, privilegiando il
punto di vista di chi studia i meccanismi di risoluzione delle controversie. E poiché il TNAS, com’è evidente, risolve controversie rilevanti per l’ordinamento sportivo, la domanda che ci dobbiamo porre
è più esattamente la seguente: come sono qualificati, quale disciplina
hanno, che effetti producono gli atti, mediante i quali il TNAS ri-
(2) Sul punto v. da ultimo, anche e soprattutto per i profili internazionali, MERONE, Il
Tribunale Arbitrale dello Sport, Torino, 2009, 1 ss. In senso critico, ma solo apparentemente
(v. n. 6) FERRARA, Giustizia sportiva, in corso di pubblicazione in Enc. dir. - Annali 2009, che
ho potuto consultare grazie alla cortesia dell’Autore.
(3) Sul punto sia consentito rinviare a LUISO, La giustizia sportiva, Milano, 1975,
582 ss.
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solve controversie rilevanti, oltre che per l’ordinamento sportivo,
anche per l’ordinamento statale?
2. Il punto di partenza è sicuramente dato dal D.L. 19 agosto
2003 n. 220, convertito con Legge 17 ottobre 2003 n. 280, mediante
il quale l’ordinamento statale regola in via generale i propri rapporti
con l’ordinamento sportivo. Il comma primo dell’art. 1 esordisce
proclamando che « la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia
dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico
Internazionale (4) »: ma in cosa consista questa « autonomia » è reso
chiaro dal secondo comma dello stesso art. 1, dal quale si ricava che
tale autonomia si realizza attraverso la irrilevanza, nell’ordinamento
statale, di quanto è invece rilevante nell’ordinamento sportivo (5); e
— laddove invece un comportamento rilevante per l’ordinamento
sportivo sia rilevante anche per quello statale — la disciplina di quest’ultimo trova integrale applicazione senza che in relazione ad essa
in qualche modo incida quanto previsto nel primo.
Lo Stato, dunque, in realtà non riconosce l’ordinamento sportivo in quanto tale (6): per un verso non dà rilevanza alla normativa
sportiva, e conseguentemente non attribuisce dignità di diritti a situazioni sostanziali che sono previste da quelle norme e non dalle
norme statali; per altro verso, non coordina le proprie disposizioni
con quelle dell’ordinamento sportivo, ma stabilisce che in ogni caso
trovi applicazione la normativa statale.
L’ambito di ciò che è giuridicamente irrilevante per lo Stato è
previsto dall’art. 2, comma 1 dello stesso D.L. n. 220/2003: si noti
che tale ambito ha subito, ad opera della Legge di conversione n.
280/2003, un ridimensionamento rispetto a quanto previsto nel D.L.
n. 220/2003 (7). È ovvio che delimitare in concreto il confine fra ciò
(4) Si noti quindi fin da ora che la normativa in esame si occupa dei rapporti fra il
diritto statale e l’ordinamento sportivo che fa capo al Coni: i rapporti fra lo Stato e gli altri
ordinamenti sportivo sono disciplinati — beninteso, sempre dal punto di vista dello Stato —
dal diritto comune di quest’ultimo.
(5) Secondo VERDE, Sul diffıcile rapporto tra ordinamento statale e ordinamento
sportivo, in Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Napoli, 2009, 676, più che di « irrilevanza » giuridica, si tratterebbe di « indifferenza » per lo Stato.
(6) FERRARA, Giustizia sportiva, cit., §§ 2-4.
(7) Sono infatti venute meno le lettere c) e d), in base alle quali sarebbero stati irrilevanti anche l’ammissione e l’affiliazione alle federazioni di società, di associazioni sportive
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che per lo Stato è giuridicamente rilevante e ciò che è irrilevante dà
luogo ad incertezze e discussioni (8). Non è comunque dubbia la
scelta operata dal D.L. n. 220/2003: ciò che conta — per lo Stato —
è solo quanto disciplinato dalla normativa statale.
In quest’ottica si inquadra anche quanto disposto dall’art. 2,
comma 2 del D.L. n. 220/2003: l’onere di adire, nelle materie che
per lo Stato sono irrilevanti, gli organi di giustizia sportiva è la naturale conseguenza della irrilevanza delle situazioni giuridiche sostanziali riconosciute (soltanto) dall’ordinamento sportivo. Poiché
per lo Stato non vi sono diritti da tutelare, è ovvio che la giurisdizione statale non può essere utilizzata per tutelare ciò che è una situazione sostanziale protetta solo per il mondo sportivo. Non si
tratta, dunque, di un onere in senso proprio, quanto della indisponibilità dell’apparato giurisdizionale statale a fronte della inesistenza
di un diritto o interesse legittimo da tutelare.
3. L’art. 3 del D.L. n. 220/2003 prevede — nei casi di « rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo » (D.L. n.
220/2003, art. 1, comma secondo) — alcune regole di fondamentale
importanza per un corretto inquadramento del TNAS.
In primo luogo vi è un riparto di giurisdizione che può essere
sintetizzato come segue:
a) rimane « ferma » la giurisdizione ordinaria « sui rapporti
patrimoniali tra società, associazioni ed atleti » (9). Ovviamente le
società e associazioni non esercitano poteri autoritativi, e dunque un
problema di riparto della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice
amministrativo non si pone: la giurisdizione spetta necessariamente
e di singoli tesserati; nonché l’organizzazione e lo svolgimento delle attività agonistiche non
programmate ed a programma illimitato e l’ammissione alle stesse delle squadre ed atleti.
(8) V., ad es., sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 17 aprile 2009 n. 2333, in Foro it.,
2009, III, 305; Cons. Stato, Sez. VI, 25 novembre 2008 n. 5782, in Foro it., 2009, III, 195;
Cass. 27 settembre 2006 n. 21006; TAR Lazio 22 agosto 2006; Cons. Stato, Sez. VI, 30
marzo 2007, tutte pubblicate in Corriere giur., 2007, 1111 ss. con note di CONSOLO, Due Corti
e la giustizia sportiva del calcio fra arbitrato e atto amministrativo e, più ancora, tra pubblico e privato, ivi, 1113 ss.; di VIDIRI, Autonomia dell’ordinamento sportivo, vincolo di giustizia sportiva ed azionabilità dei diritti in via giudiziaria, ivi, 1115 ss.; di VIGORITI, Giustizia disciplinare e giudice amministrativo, ivi, 1121 ss.
(9) Naturalmente in tale settore il ricorso all’arbitrato pone problemi del tutto diversi
da quelli che affronteremo nel prosieguo. In arg. v. fondamentalmente VIGORITI, L’arbitrato
del lavoro nel calcio, Milano, 2004, 16 ss.
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al giudice ordinario in ordine a tutte le controversie tra questi soggetti. Tali controversie, peraltro, riguardano tutti i rapporti fra questi
soggetti, e non solo quelli « patrimoniali »;
b) è istituita la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (10) (e la competenza del TAR Lazio con sede a Roma) per
« ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli
organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’articolo
2 ». La giurisdizione esclusiva sussiste dunque per le controversie
relative all’attività di diritto pubblico del Coni e delle sue Federazioni sportive (11) (rimanendo cosı̀ assegnate al giudice ordinario le
controversie con il Coni e le Federazioni sportive in materie disciplinate dal diritto privato) (12), purché esse coinvolgano situazioni
sostanziali rilevanti per lo Stato. Abbiamo infatti visto che le materie riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo, ai
sensi dell’art. 2 del D.L. n. 220/2003, sono quelle che riguardano situazioni sostanziali rilevanti per l’ordinamento sportivo, ma irrilevanti per lo Stato. Non tutta l’attività del Coni e delle Federazioni
sportive è dunque giuridicamente rilevante: lo è solo quella che coinvolge situazioni sostanziali che assumono rilevanza nell’ordinamento
statale in virtù della normativa propria di quest’ultimo;
c) in relazione alla giurisdizione amministrativa, l’art. 3,
comma primo, prima frase, introduce la c.d. pregiudizialità sportiva:
prima di rivolgersi agli organi giurisdizionali amministrativi, è necessario che siano « esauriti i gradi della giustizia sportiva »;
d) « in ogni caso è fatto salvo quanto eventualmente stabilito
dalle clausole compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti
del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive
di cui all’articolo 2, comma 2 »: cosı̀ l’art. 3, comma 1, ultima frase (13). È dunque astrattamente possibile che la giurisdizione ammi-
(10) Circa i dubbi sulla legittimità costituzionale di tale scelta, alla luce dei ben noti
principi enunciati da Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204, v. VIDIRI, Le controversie sportive e il
riparto di giurisdizione, in Giust. civ., 2005, I, 1633 ss.
(11) Onde la giurisdizione spetta al giudice ordinario, quando la controversia riguardi
non atti delle Federazioni, ma comportamenti di un loro dipendente: Cass. 21 ottobre 2009
n. 22231.
(12) AULETTA, Sport, in La giurisdizione. Dizionario del riparto, a cura di Verde, in
corso di pubblicazione, §§ 3-4, che ho potuto consultare grazie alla cortesia dell’Autore.
(13) L’ulteriore disposizione « ... nonché quelle inserite nei contratti di cui all’arti-
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nistrativa possa essere esclusa in virtù di clausole compromissorie
previste negli statuti e nei regolamenti del Coni e delle Federazioni.
Come ben si intuisce, è questa la norma chiave per poter rispondere
alla domanda posta al termine del precedente § 1.
4. Dopo aver brevemente individuato la normativa statale applicabile, occorre ora altrettanto brevemente esaminare quanto previsto nell’ultimo Statuto del Coni con riferimento agli organi di giustizia. L’art. 12 precisa che tali organi sono l’Alta Corte di Giustizia
Sportiva (ACGS), disciplinata dall’art. 12-bis, ed il TNAS, disciplinato dall’art. 12-ter.
L’ambito delle attribuzioni del TNAS si determina come segue:
a) presupposto necessario della competenza del TNAS è la
sussistenza di una clausola compromissoria. Questa può essere prevista negli Statuti o nei regolamenti delle federazioni sportive nazionali, oppure anche (art. 12-ter, comma secondo) in accordi specifici,
che possono essere stipulati pure da soggetti non appartenenti all’ordinamento sportivo;
b) la controversia deve contrapporre una Federazione sportiva
nazionale a soggetti affiliati, tesserati o licenziati. Si noti fin da ora
che questa controversia può riguardare: 1) una situazione sostanziale
rilevante per l’ordinamento sportivo, ma irrilevante per l’ordinamento statale; 2) una situazione sostanziale rilevante per l’ordinamento statale e disciplinata dal diritto privato; 3) una situazione sostanziale rilevante per l’ordinamento statale e disciplinata dal diritto
pubblico;
c) deve trattarsi di controversia che non possa essere portata
all’esame degli organi di giustizia interni alla federazione, e che non
riguardi l’irrogazione di sanzioni inferiori a centoventi giorni, oppure
a € 10.000,00 di multa o ammenda (14).
L’ambito di attribuzioni dell’ACGS si determina come segue:
sono riservate all’ACGS
a) le controversie relative a diritti indisponibili;
b) le controversie per le quali non sia stata pattuita una competenza arbitrale;
colo 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91 » non interessa, in quanto riguarda controversie di
diritto privato.
(14) Le controversie in materia di doping sono attribuite al Tribunale Nazionale Antidoping (art. 13 dello Statuto del Coni).
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sempre che si tratti di controversie « di notevole rilevanza per
l’ordinamento sportivo nazionale, in ragione delle ragioni di fatto o
di diritto coinvolte »: art. 12-bis, comma secondo, dello Statuto del
Coni.
Anche per la ACGS si verifica quanto, come abbiamo già accennato, accade per il TNAS, e cioè la controversia portata alle decisione dell’ACGS può riguardare: 1) una situazione sostanziale rilevante per l’ordinamento sportivo, ma irrilevante per l’ordinamento
statale; 2) una situazione sostanziale rilevante per l’ordinamento statale e disciplinata dal diritto privato; 3) una situazione sostanziale rilevante per l’ordinamento statale e disciplinata dal diritto pubblico.
5. Concentrando ora l’attenzione sul TNAS, mi sembra che i
problemi principali che esso pone, con riferimento all’ordinamento
statale, siano i seguenti: da un lato, verificare se la risoluzione arbitrale delle controversie, da esso gestita, abbia i requisiti inderogabilmente previsti dalla normativa statale per l’arbitrato; dall’altro, verificare i rapporti tra tale arbitrato e la giurisdizione amministrativa,
quando si tratti di controversie di diritto pubblico, attribuite dal D.L.
n. 220/2003 alla giurisdizione (esclusiva) del giudice amministrativo.
Prima di procedere nella direzione indicata, occorre tuttavia richiamare un principio fondamentale, i cui contenuti peraltro sono già
stati innanzi individuati.
Come abbiamo visto, dal punto di vista dell’ordinamento statale, i rapporti fra questo e l’ordinamento sportivo sono caratterizzati
dalla irrilevanza, per lo Stato, dell’ordinamento sportivo: la « autonomia » dell’ordinamento sportivo, che la Repubblica riconosce e
favorisce, si realizza non già attraverso il riconoscimento delle
norme vigenti nell’ordinamento sportivo nonché degli atti e dei comportamenti da tali norme regolati, sibbene applicando al fenomeno
sportivo unicamente le regole dello Stato, siano esse le regole di diritto comune oppure le regole specificamente dettate per lo sport,
come appunto il D.L. n. 220/2003. Questo principio è decisivo, perché comporta che, nell’analisi che seguirà, dovremo tener conto unicamente della normativa statale, e non anche di quella sportiva (15).
Ciò chiarito, il primo punto da esaminare, come già anticipato,
riguarda la compatibilità della risoluzione delle controversie da parte
(15)
Nello stesso senso v. MARZOCCO, Sulla natura e sul regime, cit., §§ 5 e 6.
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del TNAS con la normativa statale relativa all’arbitrato (16). Ed a
questo proposito, è bene subito chiarire che il TNAS non decide
controversie, ma amministra arbitrati (17). I compiti del TNAS sono
quelli tipici delle istituzioni che amministrano arbitrati. In particolare, spetta al presidente del TNAS la nomina degli arbitri nei casi
previsti dagli artt. 7 (18) e 17 (19) del regolamento, mentre la ricusazione spetta all’ACGS (art. 12-ter, comma settimo, dello Statuto del
Coni ed art. 18 del regolamento TNAS).
Un’ulteriore caratteristica dell’arbitrato amministrato dal TNAS
attiene alla nomina degli arbitri: questi (art. 2, comma secondo del
regolamento) debbono necessariamente essere prescelti, sia dalle
parti che dal TNAS quando quest’ultimo debba procedere alla nomina di arbitri, nell’albo che — ai sensi dell’art. 12-ter, comma
quinto dello statuto del Coni — è composto da un numero compreso
fra trenta e cinquanta membri, nominati dall’ACGS. Possono essere
iscritti all’albo magistrati, professori e ricercatori universitari di
ruolo, avvocati dello Stato ed avvocati del libero foro patrocinanti
avanti le supreme corti.
Ora, tutto ciò premesso, il punto più delicato riguarda sicuramente la terzietà ed imparzialità del TNAS e dell’ACGS (20). Secondo l’opinione preferibile, infatti, ove un terzo intervenga nella
nomina degli arbitri o più in generale nella gestione dell’organo decidente, deve essere garantita la sua equidistanza dalle parti, nel
senso che egli non deve essere espressione di alcuno degli interessi
in conflitto. È questa, in sostanza, la ratio dell’art. 832, quarto
comma, c.p.c., laddove si fa divieto, alle istituzioni di carattere associativo ed a quelle costituite per la rappresentanza degli interessi di
categorie professionali, di nominare arbitri nelle controversie che
contrappongono i propri associati o appartenenti alla categoria pro-
(16) Ciò che del resto è affermato anche dal regolamento del TNAS, art. 4, il quale
dispone che « alle controversie sportive rilevanti per l’ordinamento delle Repubblica si applicano anche i principi e le norme di quest’ultimo ordinamento ».
(17) FROSINI, L’arbitrato sportivo, cit., § 2.
(18) Nell’ipotesi di pluralità di parti, se queste non riescono a nominare un arbitro
unico o un collegio arbitrale di comune accordo, la nomina è fatta dal presidente del TNAS.
(19) Si tratta delle ipotesi in cui la parte, cui spetta designare un arbitro, non vi
provvede; in cui gli arbitri designati non trovano un accordo sul nome del terzo arbitro; in
cui la controversia deve essere decisa da un arbitro unico, e le parti non si accordino nell’individuarlo.
(20) In arg. v. MARZOCCO, Sulla natura e sul regime, cit., § 12. Sull’analoga questione
relativa al TAS, v. MERONE, Il Tribunale Arbitrale dello Sport, cit., 80 ss.
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fessionale a terzi. Tale ratio si differenzia da quella della ricusazione
perché non coinvolge la vicinanza soggettiva di uno degli arbitri alle
parti o ai loro difensori (21), ma riguarda la vicinanza oggettiva degli
arbitri (qui, del terzo che interviene nella loro nomina) ad uno degli
interessi in conflitto (22).
Si aggiunga che la necessaria scelta dell’arbitro o degli arbitri
in una rosa di nominativi individuata dall’ACGS accentua il problema appena posto. È evidente che, se l’ACGS condividesse, con
una delle parti in conflitto, l’interesse di cui questa è portatrice, verrebbe meno una delle caratteristiche essenziali ed inderogabili dell’arbitrato: infatti, « pilotando » la composizione dell’albo attraverso
la scelta di soggetti che condividano uno degli interessi in conflitto,
sarebbe possibile avere arbitri non equidistanti, perché compartecipi
di quello stesso interesse.
I possibili dubbi relativi alla neutralità dell’ACGS e del TNAS
rispetto agli interessi contrapposti è tuttavia, a mio avviso, risolto
dall’esame delle modalità con cui sono nominati i componenti dell’ACGS: ai sensi dell’art. 12-bis, comma quinto, dello Statuto del
Coni, essi sono nominati dal consiglio nazionale del Coni con una
maggioranza qualificata non inferiore ai tre quarti dei suoi componenti aventi diritto di voto. Se si aggiunge che, sulla base dell’art. 6
dello statuto, nel consiglio nazionale del Coni sono rappresentate
tutte le componenti del mondo sportivo, si deve concludere che non
vi è la possibilità che l’ACGS sia composta da soggetti espressione
di uno solo degli interessi in conflitto.
Da questo punto di vista, quindi, non vi è alcun ostacolo, da
parte delle norme statali, al riconoscimento che gli arbitrati del
TNAS hanno tutti i requisiti per poter essere qualificati come tali anche sulla base delle norme dell’ordinamento statale.
6.
Ma il problema più delicato è indubbiamente l’altro, sopra
(21) Cass. 22 luglio 2004 n. 13667, la quale afferma espressamente che la ricusazione costituisce la manifestazione processuale dell’esigenza che il giudice, considerato come
persona fisica, sia imparziale.
(22) V. in arg. Corte di giustizia delle comunità europee, sentenza 19 settembre 2006
nella causa C-506/04 (Wilson contro Ordre des avocats du Luxembourg), la quale — proprio
con riferimento alla composizione dell’organo decidente — afferma che l’imparzialità è
« l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione da dare alla controversia all’infuori della
stretta applicazione della norma giuridica », il che presuppone la « neutralità rispetto agli interessi contrapposti ».
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indicato: che rapporti vi sono tra l’arbitrato del TNAS e la giurisdizione amministrativa? È bene ricordare, infatti, che la modifica dello
statuto del Coni, entrata in vigore nel 2008, e che ha interamente riscritto il sistema di giustizia ed arbitrato per lo sport, introducendo
ACGS e TNAS e sopprimendo la Camera di conciliazione e arbitrato
per lo sport (23), si è avuta in una situazione giurisprudenziale, nella
quale la giurisprudenza del Consiglio di Stato (alla quale si è poi
adeguata quella del TAR Lazio) affermava che gli atti della Camera
di conciliazione non erano lodi, ma provvedimenti amministrativi
giustiziali (24); con la conseguenza che tali atti non erano di ostacolo
all’impugnazione del provvedimento della federazione, che aveva
originato la controversia, oggetto dell’intervento della Camera di
conciliazione e arbitrato.
È dunque legittimo chiedersi se alla stessa conclusione si deve
giungere anche per i lodi del TNAS, oppure se la conclusione deve
essere diversa. E la risposta alla domanda parte necessariamente dall’individuazione della portata della clausola di salvezza contenuta
nell’art. 3, comma primo, ultima frase del D.L. n. 220/2003.
Tale norma, come già detto — nell’attribuire alla giurisdizione
amministrativa esclusiva le controversie aventi ad oggetto atti (ovviamente di diritto pubblico) del Coni e delle Federazioni quando tali
controversie, in quanto rilevanti per l’ordinamento statale, non siano
« riservate » agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo — fa
salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie
previste dagli statuti e dai regolamenti del Coni e delle federazioni
sportive. Ebbene, sulla base di quanto già detto in ordine al criterio
generale che lo Stato ha prescelto per disciplinare i propri rapporti
con l’ordinamento sportivo — e, cioè, lo si ripete, l’autonomia del-
(23) In relazione alla quale v., fra i tanti, VALERINI, La Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport: natura del procedimento e regime degli atti, in questa Rivista, 2007, 92
ss. nonché, in giurisprudenza, Cass. 23 marzo 2004 n. 5775, in Giust. civ., 2005, I, 1625 con
nota di VIDIRI, Le controversie sportive e il riparto di giurisdizione.
(24) TAR Lazio 3 novembre 2008, in Giur. merito, 2009, I, 255; TAR Lazio 5 giugno 2008, in Foro it., 2008, III, 598; TAR Lazio 21 giugno 2007, in Foro it., 2007, III, 473
ed in Giur. merito, 2007, I, 3026; Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2007 n. 268; Cons. Stato,
Sez. VI, 9 febbraio 2006 n. 527; Cons. Stato, Sez. VI, 9 luglio 2004 n. 5025, in Dir. proc.
amm., 2005, 990 ed in questa Rivista, 2005, 555. Ma in senso diverso v. Cons. Stato, Sez.
VI, 25 novembre 2008 n. 5782, in Foro it., 2009, III, 195 e, in precedenza, TAR Lazio 17
marzo 2005, in questa Rivista, 2005, 559, poi riformata da Cons. Stato, Sez. VI, 9 luglio 2004
n. 5025, cit., ambedue commentate da VIGORITI, Giustizia statale e sport: fra ingerenza e garanzia, ivi, 435 ss.
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l’ordinamento sportivo è attuata dalla sua irrilevanza per l’ordinamento statale; nelle materie disciplinate dall’uno e dall’altro ordinamento, per lo Stato conta unicamente ciò che le norme statali dispongono — sembra evidente che la salvezza delle clausole compromissorie opera in quanto esse siano idonee, sulla esclusiva base della
normativa statale, a sottrarre alla giurisdizione amministrativa controversie, che altrimenti in essa ricadrebbero.
Ciò che preme rilevare, in altri termini, è che in alcun modo la
« riserva » di determinate controversie agli organi di giustizia sportiva vale a sottrarre alla giurisdizione statale controversie che altrimenti le apparterrebbero: perché le controversie riservate alla giustizia sportiva sono solo quelle che hanno ad oggetto situazioni sostanziali che sono tali solo per l’ordinamento sportivo; mentre, se la situazione sostanziale oggetto della controversia è tale anche per l’ordinamento statale, essa non è mai riservata alla giustizia sportiva.
Vedemmo infatti che l’ambito della esclusività della giustizia sportiva è delineato con riferimento all’ambito della irrilevanza per l’ordinamento statale.
Cosı̀ posto il problema, mi sembra evidente che la norma di riferimento debba necessariamente essere l’art. 6, comma secondo,
della Legge n. 205/2000, che consente la devoluzione in arbitrato
delle controversie concernenti diritti soggettivi (ovviamente disciplinati dal diritto pubblico), purché si tratti di arbitrato rituale di diritto.
Non è certo qui il caso di riesaminare se e perché l’interesse legittimo sia disponibile o indisponibile (25); se e come si giustifichi l’impossibilità di avere un lodo relativo ad una controversia di diritto
pubblico che attenga ad un diritto soggettivo e non lo si possa invece
avere in una controversia, sempre di diritto pubblico, che attenga ad
un interesse legittimo.
Rebus sic stantibus, mi sembra chiaro che il lodo del TNAS
(rectius, pronunciato in un arbitrato amministrato dal TNAS) può essere qualificato come vero e proprio lodo solo se attinente ad un diritto soggettivo: ove fosse pronunciato un lodo attinente ad un interesse legittimo, esso dovrebbe essere qualificato come inesistente —
secondo l’opinione prevalente, per la quale il lodo pronunciato in
materia indisponibile è inesistente.
Se, viceversa, si tratta di controversia relativa ad un diritto sog(25) In arg. v., proprio con riferimento al fenomeno sportivo, GOISIS, La giustizia
sportiva, cit., 231 ss.
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gettivo, non mi pare dubbio che vi siano tutti i presupposti per la definitiva sottrazione della controversia alla giurisdizione amministrativa.
Infatti, per un verso l’arbitrato presso il TNAS è un arbitrato rituale, come chiaramente si evince dall’art. 12-ter, comma 3, ultima
parte dello statuto del Coni e dall’art. 28 del regolamento TNAS,
laddove si prevede che il lodo stesso sia impugnabile ex art. 828
c.p.c.: il che esclude che il lodo in questione possa essere qualificato
come irrituale, dato che avverso il lodo irrituale non è data l’impugnazione per nullità. La decisione inoltre, ex art. 4 del regolamento
TNAS, è presa secondo diritto, come prescrive l’art. 6, comma secondo, della Legge n. 205/2000.
Per altro verso, tale impugnazione dovrà essere proposta alla
corte di appello, ancorché la controversia sia fra quelle attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo quanto
stabilito dalla Corte di cassazione (26).
7. Finché, dunque, non venga abbandonata l’opinione tuttora
prevalente, secondo la quale l’interesse legittimo sarebbe indisponibile, alle controversie, in cui si faccia questione di un interesse legittimo, trova applicazione l’art. 12-bis, comma primo, dello statuto del
Coni, che riserva appunto all’ACGS le controversie sportive che abbiano ad oggetto diritti indisponibili.
La decisione dell’ACGS, a mio avviso, ha il regime che, secondo la giurisprudenza amministrativa, aveva la decisione della Camera di conciliazione ed arbitrato (27). Sul punto non dovrebbero
sorgere dubbi.
Più complesso è il problema dei lodi arbitrali del TNAS. Infatti:
a) se la controversia riguarda un diritto soggettivo, sia esso disciplinato dal diritto pubblico oppure dal diritto privato, la decisione
ha il regime del lodo rituale impugnabile ex art. 827 c.p.c.;
b) se la controversia riguarda una situazione sostanziale attribuita dal solo ordinamento sportivo, la decisione non è impugnabile,
(26) Cass. 3 luglio 2006 n. 15204, in Giust. civ., 2007, 916; Cass. 12 luglio 2005 n.
14545; Cass. 27 luglio 2004 n. 14090. Sul punto v. AULETTA, Sport, cit., § 5.
(27) In arg. v. ampiamente MARZOCCO, Sulla natura e sul regime, cit., § 3.4, nonché,
con riferimento alla situazione antecedente le modiche del 2008, GOISIS, La giustizia sportiva,
cit., 317 ss., spec. 331 ss.
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perché irrilevante nell’ordinamento dello Stato (28). Ciò è riconosciuto anche dall’art. 12-ter, comma terzo dello statuto del Coni,
laddove esso dispone che l’impugnazione del lodo è possibile « ove
la controversia sia rilevante per l’ordinamento giuridico dello
Stato »;
c) il problema sorge se la controversia riguarda un interesse legittimo. In questo caso, come abbiamo già detto, il lodo è inesistente.
Bisogna tuttavia coordinare tale risultato con quanto prevedono l’art.
3, comma primo, prima parte del D.L. n. 220/2003, laddove si stabilisce la c.d. pregiudiziale sportiva (e, cioè, che il ricorso al giudice
amministrativo può essere proposto quando siano stati esauriti i gradi
della giustizia sportiva) e l’art. 12-bis, comma primo, dello statuto
del Coni, laddove si stabilisce che, nelle controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili — e quindi anche quelle aventi ad oggetto
un interesse legittimo — l’ultimo grado della giustizia sportiva è costituito dall’ACGS.
Che succede, dunque, se viene pronunciato un lodo relativamente ad una controversia che ha ad oggetto un interesse legittimo?
Fermo che tale decisione, dovendo essere qualificata, per lo Stato,
come lodo inesistente, non impedisce l’impugnazione, di fronte al
giudice amministrativo, del provvedimento della Federazione sportiva che ha occasionato la controversia, può il giudice amministrativo rilevare che, in realtà, la pregiudiziale sportiva non è stata osservata, perché è stato instaurato un arbitrato presso il TNAS e non
è stata invece investita della controversia la ACGS?
A mio avviso la soluzione deve essere negativa. Ciò che conta
è che i gradi della giustizia sportiva siano di fatto esauriti: e la pronuncia del TNAS, essendo alternativa a quella dell’ACGS, costituisce l’ultimo grado di giudizio interno alla giustizia sportiva. Del resto, poiché in sede giurisdizionale amministrativa l’oggetto dell’im-
(28) Secondo VIGORITI, La giustizia sportiva, cit., 412, la disposizione contenuta nell’art. 2, comma secondo, del D.L. n. 220/2003, è strana ed illegittima, in quanto « la riserva
di giurisdizione a favore dell’ordinamento sportivo in materia disciplinare non può estendersi
fino a vietare l’impugnativa di lodi pronunciati in violazione del contraddittorio, o di qualunque altra regola fissata dalla disciplina codicistica di riferimento, e non pare quindi giustificato porre limiti al diritto di impugnare ». A me pare, invece, che un lodo in tanto sia impugnabile ex art. 827 c.p.c. in quanto decida di una controversia rilevante per l’ordinamento
statale: e dunque di una controversia relativa a situazioni sostanziali riconosciute dall’ordinamento dello Stato.
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pugnazione non è il provvedimento giustiziale, ma quello originario,
la differenza non è rilevante.
The work deals with the reform of the inner justice of the Italian Olympic
Committee, of February 2008. There are now two different structures: the Tribunale
Nazionale Arbitrale per lo Sport (TNAS), and the Alta Corte di Giustizia Sportiva
(ACGS).
The question arises about the possibility that the decisions of the TNAS can
be considered as awards for the Italian State law. Otherwise, because of the public nature of the Italian Olympic Committee, the decisions must be qualified as administrative measures.
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Potestas iudicandi in materia cautelare
ed arbitrato estero
ANTONIO BRIGUGLIO (*)
1. Tutela cautelare nell’ordinamento italiano ed arbitrato estero: premesse sistematiche. — 2. Le ragioni della compatibilità fra tutela cautelare giudiziale
in Italia ed accordo compromissorio per arbitrato estero. — 3. Giurisdizione
italiana in materia cautelare ed arbitrato estero. — 4. Competenza cautelare
ed arbitrato estero: la ricostruzione prevalente della disciplina uniforme ex
artt. 669-bis ss. c.p.c. — 5. (Segue): la ricostruzione alternativa implicante la
tendenziale indifferenza tra accordo compromissorio per arbitrato interno e
per arbitrato estero in relazione alla competenza cautelare ante causam. —
6. (Segue): ... ed in relazione alla competenza cautelare in corso di causa.
1. Anche l’esercizio della giurisdizione cautelare statuale può
ricondursi al novero delle attività giudiziali funzionali all’arbitrato (1).
In guisa ben diversa però dalle attività scricto sensu ausiliarie
e/o di controllo: la tutela cautelare è impartita dal giudice statuale
non in funzione del regolare svolgimento del giudizio arbitrale, non
dunque per favorire (ausilio) tale svolgimento e/o controllarlo e controllarne il risultato, bensı̀ in funzione della tutela di merito che le
parti hanno deferito agli arbitri, e della sua effettività.
Da questa fondamentale differenza discendono una serie di conseguenze.
L’esercizio della giurisdizione cautelare funzionale all’arbitrato
prescinde, almeno in senso formale, dal controllo sull’arbitrato e cioè
sul suo fondamento e sull’operato degli arbitri. A differenza del giudice delle funzioni ausiliarie e/o di controllo previste dagli artt. 809,
(*) Professore ordinario nella Università di Roma « Tor Vergata ».
(1) Valendo anche per esso l’esigenza di equilibrio che G. TARZIA sintetizzava efficacemente nel titolo di un suo scritto (illuminante come sempre): Assistenza e non interferenza giudiziaria nell’arbitrato internazionale, in questa Rivista, 1996, 473 ss.
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810, 811, 813, 813-bis, 814, 815, 816-ter, 825-831 del codice di rito,
il giudice cautelare indaga incidentalmente sull’accordo compromissorio, sulla sua sussistenza, validità, efficacia ed eventualmente sul
suo contenuto, non per decidere circa l’an del proprio intervento, ma
semmai, e nei congrui casi, circa il quomodo.
E la interferenza fra giudizio cautelare ed operato degli arbitri
non assume alcun aspetto di sindacato, ma si arresta al dato fattuale
(pur non sottovalutabile in via empirica, e perfino in termini di rischio per la privatezza ed asetticità della vicenda arbitrale) (2) della
almeno parziale coincidenza dell’area cognitiva, sia pure percorsa
dal giudice della cautela in punto di fumus e dagli arbitri, invece, ai
fini della decisione di merito.
Ancora: quel che rileva a giustificazione della potestà cautelare
del giudice statuale non è l’arbitrato in sé, ma l’esistenza di una controversia e del connesso bisogno di tutela effettiva, ed allora anche
interinale rispetto alla decisione sul merito. L’arbitrato insomma non
è, come accade per le altre funzioni ausiliarie, il presupposto bensı̀
un semplice accidente rispetto all’esercizio della giurisdizione statuale cautelare. Pertanto il radicamento nazionale dell’arbitrato è tendenzialmente indifferente rispetto alla possibilità di esercizio della
funzione cautelare giudiziale. Se questa funzione può essere esercitata quando la decisione del merito della controversia è deferita ad
arbitri interni, intuitivamente non vi è ragione per cui essa non possa
essere esercitata anche quando quella decisione è deferita ad arbitri
esteri.
Non ha dunque senso chiedersi — come per le funzioni stricto
sensu ausiliarie e/o di controllo — se ed in che misura l’erroneo
esercizio di funzioni giudiziali cautelari in relazione ad un arbitrato
(in realtà) estero, piuttosto che interno (per come erroneamente considerato appunto), sia nondimeno ed in qualche modo idoneo ad incidere sullo svolgimento dell’arbitrato (estero). Occorre piuttosto ap(2) Consapevolezza di ciò è intuibile nell’art. 23.1 del Regolamento di arbitrato della
I.C.C., a norma del quale, da un lato, la misura cautelare al giudice statuale è richiedibile del
tutto liberamente prima della trasmissione del dossier all’arbitro, e dopo invece solo « in circostanze appropriate » (in « circostanze eccezionali » recitava l’art. 8.5 del Regolamento
nella versione precedente l’ultima entrata in vigore nel 1998); d’altro lato, la richiesta di misura cautelare al giudice ed il provvedimento di costui devono essere comunicati al Segretariato della Corte di arbitrato ed attraverso questo agli arbitri; (a riguardo cfr. BRIGUGLIO, in
AA.VV., Nuovo Regolamento di arbitrato C.C.I., Milano, 1998, 70 s.), e CARLEVARIS, in
AA.VV., a cura di Briguglio e Salvaneschi, Regolamento di arbitrato della Camera di Commercio Internazionale - Commentario, Milano, 2005, 2005, 403 ss.
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profondire in punto di premessa l’interrogativo cui si è appena replicato in modo intuitivo: se le funzioni cautelari giudiziali possano essere esercitate anche in relazione all’arbitrato estero. E poiché la risposta è affermativa anche al primo approfondimento, l’indagine si
concentra in realtà sulle modalità di esercizio della funzione cautelare giudiziale e sul se e come quell’« accidente », che si inserisce
nel rapporto fra cautela e controversia ed è rappresentato dal fatto
che la soluzione nel merito di quest’ultima è deferita agli arbitri, incida sull’ambito e sulle modalità della cautela impartita dal giudice
dello Stato, ed in particolare sul se e come rilevi in proposito la distinzione fra arbitrato interno ed arbitrato estero.
Si vedrà sintomaticamente come, anche al di là della apparenza
delle nostre norme positive, allorché siano in questione le condizioni
iniziali della potestas iudicandi cautelare, e cioè la giurisdizione e la
competenza cautelare, su cui il presente saggio si concentra, il rilievo
della distinzione fra arbitrato interno ed arbitrato estero tenda ad attenuarsi notevolmente fin quasi a scomparire. In realtà, e prima ancora, tende ad attenuarsi lo stesso rilievo dell’accordo compromissorio in quanto tale. Ciò corrisponde pienamente al fatto che è in relazione alla controversia, deferita quanto al merito ad arbitri, ed in definitiva al diritto in essa vantato, e non in relazione all’arbitrato come
processo e decisione, che si esercita quella particolare funzione ausiliaria che è la funzione cautelare. Mentre la differenza fra arbitrato
interno ed arbitrato estero comincia ad acquistare maggior rilievo
mano a mano che si passa ad altri profili della tutela cautelare giudiziale (efficacia della misura in relazione all’inizio ed agli esiti del
giudizio di merito, il qual è appunto deferito agli arbitri).
Da quanto qui rilevato in punto di premessa e dalla indagine
applicativa che segue resta naturalmente fuori tutta la complessa e
controversa esperienza delle antisuit injunctions sia a favore (3) sia
(3) Su cui cfr., con ampi riferimenti, LUPOI, Antisuit injunctions e arbitrato: l’esperienza inglese, in questa Rivista, 2006, 441 ss.. V. per altro il solido argine ora posto dalla
Corte di Giustizia (di seguito alla sentenza Turner del 27 aprile 2004, c. 159/02, relativa alla
antisuit injunction « protettiva » della giurisdizione statuale inglese ed avverso processo innanzi all’autorità giurisdizionale di altro stato membro) con la recente sentenza West Tankers
del 10 febbraio 2009, c. 185/07 (in questa Rivista, 2009, 67 ss. con nota della D’ALESSANDRO)
che ha ritenuto incompatibile con il sistema del Regolamento 44/2001 l’antisuit injunction
« protettiva » di procedimento arbitrale con sede in Londra (una richiesta di antisuit injunction « protettiva » di procedimento arbitrale estero incontrerebbe, anche a prescindere da
« Bruxelles I », ulteriori ed intrinseci ostacoli).
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contro (4) l’arbitrato, perfino ove si voglia avventurosamente supporre la trasferibilità di tale esperienza nelle forme della nostra tutela cautelare inibitoria ex art. 700 c.p.c. (rafforzata se del caso, piuttosto che dal contempt of court, dalla astreinte ex art. 614-bis).
Sebbene si tratti pur sempre (e si tratterebbe senz’altro se trasferita nei nostri lidi) di un esempio « tutela cautelare » interferente
con l’arbitrato ed ipoteticamente, pur se molto più difficilmente, rivolgibile a protezione o a contrasto di un procedimento arbitrale
previsto da clausola per arbitrato estero, la estraneità rispetto ai temi
che qui si affrontano è di evidente ordine concettuale e sistematico.
L’antisuit injunction a protezione dell’accordo compromissorio,
e perciò inibitoria di iniziativa confliggente con esso innanzi al giudice ordinario, non è funzionale alla tutela di merito devoluta agli
arbitri e corrisponde in realtà ad una forma di tutela giudiziale stricto
sensu « ausiliaria » all’arbitrato in quanto tale, affine dunque, sotto
tutti i profili dianzi cennati, a quella ex artt. 809, 810, 811, ecc. del
nostro c.p.c.
A fortiori non funzionale rispetto alla tutela di merito risulta la
antisuit injunction utilizzata per inibire l’attuazione di accordo compromissorio e lo svolgimento del procedimento arbitrale: più che altro una versione « cautelare » e preventiva della funzione di controllo e di limite che la giurisdizione statuale esercita sull’arbitrato.
Questo scritto non si occupa neppure del complesso problema
dei rapporti fra procedimenti di istruzione preventiva ed arbitrato
estero.
Non tanto e non solo perché la funzione giudiziale che si
esplica attraverso l’istruzione preventiva, siccome funzione di cautela non già e direttamente del diritto soggettivo sostanziale e della
sua effettività, bensı̀ del diritto alla prova, sta, rispetto all’arbitrato,
per cosı̀ dire a metà del guado: fra la tutela cautelare in senso stretto
(della cui compatibilità con l’arbitrato estero nessuno ha mai seriamente dubitato) e l’esercizio della giurisdizione statuale propriamente « ausiliaria » al procedimento arbitrale che gli artt. 810 ss.
(4) Anch’essa occasionalmente riscontrabile (pur se assai meno dall’altra oggetto di
studio) nella prassi forense di common law, e emersa raramente ed alquanto clandestinamente
perfino attraverso un uso fantasioso ed elastico del nostro art. 700, a quanto mi consta però
senza successo, ed oggi vieppiù reso difficoltoso dal principio evincibile ex art. 819-ter, u.c.
c.p.c..
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c.p.c. confinano invece determinatamente in relazione al solo arbitrato interno.
Vi è piuttosto che, forse per ragioni intuitivamente (e però erroneamente) derivate da questa collocazione concettualmente ibrida
rispetto all’arbitrato, e sicuramente (ed ancor qui erroneamente) a
motivo del carattere sui generis della « cautela » impartita attraverso
i procedimenti di istruzione preventiva e della corrispondente esclusione, ex art. 669-quaterdecies c.p.c., della applicazione della disciplina cautelare uniforme a quei procedimenti, la nostra giurisprudenza ordinaria è, per cosı̀ dire, partita per la tangente costruendo
una barriera di incompatibilità fra istruzione preventiva ed arbitrato
estero (5), pericolosamente estensibile anche nei riguardi dell’arbitrato interno. Una provvidenziale, se pur non strettamente necessaria,
pronuncia della Corte costituzionale (che ha dichiarato illegittimo
per irragionevolezza l’art. 669-quaterdecies nella parte in cui esclude
l’applicabilità dell’art. 669-quinquies — « in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale »
— ai procedimenti di istruzione preventiva) (6) favorisce la rimonta,
e la distruzione di quel muro.
Occorrerà, in uno scritto successivo, ricostruiti i fondamenti
della generale compatibilità fra istruzione preventiva ed arbitrato
estero, verificare, anche alla luce della lettura degli artt. 669-bis ss.
che qui si proporrà, come si determinino giurisdizione e competenza
del giudice statuale italiano in relazione ai procedimenti ex artt.
693 ss.
2. La vera e fondamentale diversità tra arbitrato interno ed arbitrato estero in relazione alla nostra tutela cautelare giudiziale sta
nella ragione e nella misura della compatibilità di quest’ultima rispetto all’accordo compromissorio.
Il discorso — che si riconnette anzitutto alla interpretazione sistematica dell’art. II della Convenzione di New York (7) e che in termini applicativi sarà ripreso nel paragrafo seguente allorché si trat-
(5) V. soprattutto Cass. 7 agosto 1992, 9380, in questa Rivista con nota critica della
SALVANESCHI e da ultimo Cass. 21 ottobre 2009, n. 22236 in questa Rivista, 2009, 709 ss., con
nota critica di CARLEVARIS.
(6) Corte Cost. n. 26 del 28 gennaio 2010.
(7) V. se vuoi BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, Il sistema delle convenzioni internazionali, Padova, 1999, 143 ss. e 160 ss.
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terà di definire i limiti della giurisdizione cautelare italiana e la incidenza che su questi limiti può avere l’accordo compromissorio per
arbitrato estero — può essere, nei suoi termini generali, sintetizzato
come segue.
La compatibilità fra tutela cautelare giudiziale ed accordo compromissorio per arbitrato interno si fonda su inossidabili ragioni normative puntualmente riscontrabili nel nostro ordinamento.
La « materia cautelare » non è ricompresa nell’accordo compromissorio, ed è perciò riconducibile suppletivamente alla giurisdizione statuale nonostante l’accordo compromissorio, perché esiste
l’art. 818 c.p.c., secondo cui « gli arbitri non possono concedere sequestri né altri provvedimenti cautelari » (8).
È evidente che un simile criterio « normativo » vale solo allorché vi sia di mezzo l’accordo compromissorio per arbitrato interno,
e non è generalizzabile o proiettabile nell’universo mondo allorché
vi sia di mezzo un accordo compromissorio per arbitrato estero. Allora esso è semmai sostituito da un criterio empirico corrispondente
alla nozione comune prevalente dell’accordo compromissorio e del
suo ambito oggettivo, che attiene alla soluzione nel merito delle
controversie, ed alla affermazione secondo cui molti ordinamenti nazionali escludono che gli arbitri possano disporre misure cautelari (9), o limitano tale potere solo nel caso in cui si versi in arbitrato
(8) La più icastica ed efficace critica a questo dogma resta, fra le molte, quella di
LUISO, Arbitrato e tutela cautelare nella riforma del processo civile, in questa Rivista, 1991,
253 ss. Il dogma è stato poi notoriamente scalfito dall’art. 35, comma 5, secondo inciso, del
D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 che consente agli arbitri, se la clausola compromissoria statutaria devolve loro anche la controversia in materia di validità della delibera assembleare, di
provvedere in via cautelare alla sospensione della delibera (aprendo fra l’altro, a mio avviso,
la strada a progressiva ed ulteriore erosione analogica del dogma relativamente al limitato
ambito delle misure cautelari puramente sospensive). Ma i termini generali del discorso che
si va svolgendo nel testo non mutano, e sono anzi ribaditi dallo stesso art. 35, comma 5,
primo inciso: « La devoluzione in arbitrato (...) di una controversia non preclude il ricorso
alla tutela cautelare a norma dell’art. 669-quinquies del codice di procedura civile ».
(9) Ampi riferimenti in proposito, ed anche a soluzioni nazionali diverse in TOMMASEO, Lex fori e tutela cautelare nell’arbitrato commerciale internazionale, in questa Rivista,
1999, 9 ss. e, più di recente, CARLEVARIS, La tutela cautelare nell’arbitrato internazionale,
Padova, 2006. Nella ormai ampia letteratura in materia v. altresı̀, a solo titolo di esempio, gli
atti del Congresso I.C.C. Les mesures conservatoires et provisories en matière d’arbitrage
international, Parigi, 1993 e BERNARDINI, Arbitrato internazionale e misure cautelari, in questa Rivista, 1993, 15 ss., nonché, con speciale riguardo al sistema svizzero, ove la apertura
alla potestà cautelare degli arbitri è stata, sia pure in epoca relativamente recente e quanto
all’arbitrato internazionale, di particolare ampiezza e preceduta ed accompagnata da un approfondito dibattito, BROGGINI, I provvedimenti cautelari nell’arbitrato internazionale: analo-
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internazionale o prevedono un potere cautelare concorrente di arbitri
e giudici (10), o comunque non configurano misure cautelari arbitrali
idonee alla circolazione alla stregua dei lodi ed in forza della Convenzione di New York (11). E perciò la richiesta di esse ad un giudice statuale, in pendenza o in previsione dell’arbitrato sul merito della lite,
non è incompatibile con (e non può essere ostacolata dal) riconoscimento dell’accordo compromissorio ex art. II Conv. New York (12).
Questa affermazione di massima, però, implica soltanto e semmai una presunzione di estraneità della « materia cautelare » rispetto
all’ambito oggettivo dell’accordo compromissorio per arbitrato
estero, al livello della concreta interpretazione del medesimo; ma
non esclude, a questo livello, una qualche verifica contraria. E mentre nessun accordo compromissorio per arbitrato di diritto italiano
gie e differenze delle soluzioni italiana e svizzera, in questa Rivista, 1991, 487 ss.. Analoghe
considerazioni possono valere per la cultura giuridica ed il sistema tedeschi (cfr. in proposito
per tutti, SCHLOSSER, Das Recht der internationalen privaten Schiedsgerichtsbarkeit, cit., 305
ss., e BÖSCH, Einstweisliger Rechtsschutz in der internationalen Handelssckiedsgerichtsbarbeit, Frankfurt a.m., ov’è da considerare che dopo la nota riforma del 22 dicembre 1997 la
potestà cautelare degli arbitri è generalizzata, salvo diversa pattuizione compromissoria, e
non limitata all’ambito dell’arbitrato internazionale.
(10) Si vedano i §§ 1033 e 1041 della ZPO germanica dopo la cennata novella del
1997.
(11) Poiché di norma gli ordinamenti che prevedono la emanazione di misure cautelari arbitrali non contemplano affatto, per esse, le forme del lodo parziale: sul punto, ancora,
BROGGINI, I provvedimenti cautelari, cit. 503 e HABSCHEID, Einstweiliger Rechtsschutz durch
Schiedsgerichte nach dem IPRG, in IPRAX, 1981, 137 ss. spec. 175. In arg. v. anche CARLEVARIS, Tutela cautelare pre-arbitrale: natura del procedimento e della decisione, in questa
Rivista, 2003, 259 ss., spec. 279, con riferimento particolare al référé préarbitral previsto
dall’apposito Regolamento I.C.C. ed alla pronuncia della Cour d’appel parigina del 29 aprile
2003 (vedila sempre in questa Rivista, 2003, 349 ss.). L’A., pur criticando la esclusione, da
parte della Corte d’appello, della natura arbitrale del procedimento di référé (ma in realtà ciò
che la Corte davvero esclude — almeno se ci si attiene alla autentica ratio decidendi — è il
carattere definitivo e tranchant e perciò di lodo del provvedimento che conclude quel procedimento, e ciò al fine di dichiarare inammissibile la impugnazione contro di esso proposta),
dà conto poi della communis opinio circa la impossibilità che il provvedimento di référé
préarbitral circoli alla stregua di un lodo e secondo la Convenzione di New York, esprimendo nelle pagine successive qualche prudente dubbio riguardo a tale avviso.
(12) Si consideri altresı̀ l’art. VI, comma 4 della Convenzione di Ginevra del 1961,
ove è espressamente previsto che « une demande de mesures provisoires ou conservatoires
adressée à une autorité judiciaire ne doit pas être considérée comme incompatibile avec la
convention d’arbitrage, ni comme une soummission de l’affaire quant’au fonda au tribunal
judiciaire » (ed a riguardo v. — se vuoi — BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, cit., 147 ss.). Analogamente, al livello della normazione « privata » l’art. 23.1 del regolamento di arbitrato
I.C.C., ove a scanso di equivoci si precisa che « la richiesta ad una autorità giudiziaria di tali
misure » [provvisorie e cautelari] non è « considerata » violazione o rinuncia alla convenzione arbitrale ».
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può attribuire ad arbitri i poteri cautelari loro interdetti dall’art. 818
c.p.c., sicché l’esclusione della potestà cautelare del giudice dello
Stato dovrà semmai risultare da una pattuizione di rinuncia (13),
foss’anche motivata dalla intenzione di proteggere l’arbitrato da interferenze giudiziali, ma giuridicamente distinta ed autonoma rispetto alla pattuizione compromissoria, quest’ultima, ove preveda un
arbitrato estero, potrebbe comportare di per sé la esclusione della
potestà cautelare del giudice italiano per la via del riconoscimento
dovutole ex art. II della Convenzione di New York (ed ex art. 4,
comma 2 della nostra legge sul d.i.p.). Ciò accadrebbe appunto le
quante volte fosse con sicurezza riscontrabile l’affidamento compromissorio della controversia ad arbitri esteri dotati, secondo l’ordinamento del paese in cui l’arbitrato è destinato a radicarsi, di potere
cautelare escludente in quel paese (e non concorrente con) quello del
giudice statuale, ed esercitabile attraverso provvedimento sostanzialmente equivalente a quello che si è richiesto al giudice italiano e capace, in quanto assimilabile a lodo parziale, di circolare in forza
della stessa Convenzione di New York (14). Ché altrimenti verrebbe
meno la essenziale correlazione fra riconoscimento dell’accordo
(13) Sull’ammissibilità di una tale pattuizione v. già, nella nostra dottrina, TOMMASEO,
Lex fori e tutela cautelare, cit., 23. Sull’orientamento della dottrina francese nel senso che la
scelta pattizia del référé pré-arbitral I.C.C. importa rinuncia per lo meno alla tutela cautelare
giudiziale ante causam, cfr. ARNALDEZ - SCHÄFER, Le règlement de référé préarbitral de la
C.C.I., in Revue de l’arbitrage, 1990, 835.
(14) Lasciano la porta aperta prudenzialmente a questa eventualità per vero remota (e
sulla quale v. anche TOMMASEO, op. ult. cit., 17 ss.), sia l’art. 26 del Regolamento UNCITRAL
del 1976 (secondo cui i provvedimenti cautelari possono essere pronunciati dagli arbitri anche
« sous la forme d’une sentence provisoire ») sia il già cennato art. 23 del Regolamento di arbitrato I.C.C. ove, al comma 1, è detto che gli arbitri adottano le misure cautelari con ordinanza
motivata o con lodo [parziale] a seconda che ritengono appropriata l’una o l’altra forma. Sebbene queste disposizioni regolamentari, che divengono pattizie e « compromissorie » se richiamate per relationem in un accordo arbitrale, sembrino conferire agli arbitri una incondizionata
discrezionalità circa la forma del provvedimento cautelare, riterrei che gli stessi arbitri debbano
fare i conti con la realtà normativa, nonché giurisprudenziale e concreta: quella dell’ordinamento
di partenza in cui l’arbitrato si radica, e che potrebbe non consentire la configurabilità di un lodo
parziale di contenuto esclusivamente cautelare (si consideri ad esempio il nostro art. 827 che
probabilmente impedirebbe l’adozione della cautela in forma di lodo parziale anche ove essa
fosse in generale consentita agli arbitri); nonché e conseguentemente, quella del probabile ordinamento d’arrivo, il cui giudice potrebbe, anche alla luce della nozione di lodo ricevuta dell’ordinamento di partenza, rifiutarsi di dar credito (e perciò rifiutare l’exequatur ai sensi della Convenzione di New York) alla pura forma adottata dagli arbitri per rivestire la misura cautelare. Insomma: non credo che quelle pattuizioni regolamentari, pur una volta recepite nell’accordo
compromissorio, consentano sempre e di per sé, ed appunto in quanto semplice volontà compromissoria, l’adozione di misure cautelari in forma di lodo parziale, come tale vincolante, e come
tale vincolante all’estero.
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compromissorio e riconoscimento della decisione ai sensi della Convenzione: il giudice italiano cioè soprassiederebbe all’esercizio di un
proprio potere decisionale a motivo del riconoscimento di un accordo compromissorio che non affida agli arbitri esteri una decisione
(cautelare) a propria volta, almeno astrattamente, riconoscibile in
forza della stessa Convenzione.
Credo peraltro che anche di fronte all’accordo compromissorio
per arbitrato estero ciò che il giudice statuale debba raggiungere, onde
escludere, in forza degli artt. II Conv. New York e 4, comma 2 della
nostra legge sul d.i.p., la propria potestà cautelare, è il convincimento,
in punto d’interpretazione della volontà compromissoria, di una rinuncia almeno implicita (non estranea e distinta bensı̀ contenuta nello
stesso accordo) delle parti a qualsivoglia intromissione, anche cautelare, di qualsivoglia giurisdizione statuale nella controversia o controversie deferite agli arbitri. Ecco perché l’ipotesi, pur in astratto ammissibile, è destinata a rarissimo riscontro concreto. Ad esempio il dato cui
si faceva cenno — emanabilità da parte degli arbitri, secondo l’accordo
e secondo l’ordinamento in cui l’arbitrato è destinato a radicarsi, di misure cautelari in forma di lodi, suscettibili perciò di esecuzione all’estero in forza della Convenzione di New York — sarebbe elemento
necessario, ma di per sé non sufficiente a ricostruire quella volontà di
rinuncia alla tutela cautelare irrogabile da giudice straniero. Basterebbe
considerare che le stesse esigenze urgenti ed immediate della cautela
lasciano per lo meno presumere che le parti non abbiano affatto rinunciato ad ottenerla ove del caso dal giudice statuale in paese (diverso da
quello dell’arbitrato) nel quale la cautela medesima debba essere eseguita, sol perché la scelta compromissoria mette loro a disposizione
anche meccanismi di circolazione all’estero per la misura cautelare arbitrale; meccanismi i cui tempi non brevissimi dovrebbero scontarsi,
con pregiudizio appunto di quelle esigenze immediate ed urgenti, prima
che la cautela possa essere concretamente attuata.
La prospettiva da ultimo evocata può essere utile alla interpretazione della portata dell’accordo compromissorio perfino ove in
esso vi siano elementi o frammenti di rinuncia esplicita a qualsivoglia tutela cautelare giudiziale.
Un accordo compromissorio per arbitrato I.C.C., ad esempio,
recepisce per relationem anche l’art. 23.2 del Regolamento (15), ove
(15)
V. anche supra nota 2.
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si precisa sı̀ che il ricorso al giudice statuale della cautela (a qualsiasi giudice, vuoi del paese dell’arbitrato vuoi di altro) non confligge con l’accordo compromissorio, ma ciò — successivamente
alla trasmissione del dossier agli arbitri — solo se il ricorso al giudice statuale avviene in « circostanze appropriate ». Chi valuta
l’« appropriatezza delle circostanze »?
Certamente, e direi anzi in primo luogo ed essenzialmente, il
giudice statuale adito per le cautela; e lo fa proprio in punto di interpretazione della volontà compromissoria integrata da quel regolamento e rapportata volta a volta al caso concreto. Se le circostanze
non sono appropriate quel giudice dovrà concludere che l’accordo
compromissorio gli vieta l’esercizio anche della potestà cautelare, e
arrendersi a ciò ed al riconoscimento dell’accordo (ex art. II Conv.
New York, ove per lui si configuri quale accordo per arbitrato estero)
in tutta questa sua portata. Ebbene, mi pare che circostanza appropriata — anche nel senso dell’art. 23.2 del Regolamento I.C.C. e
della volontà compromissoria che lo recepisce — possa essere
senz’altro quella della necessità di attuare celermente, e nello stesso
paese del giudice statuale al quale la si richiede, la misura cautelare,
piuttosto che richiederla agli arbitri e poi tentare di ottenerne l’exequatur all’estero. Viceversa ove la cautela debba essere eseguita altrove rispetto al paese del giudice statuale al quale la si chiede, costui dovrebbe, di massima, ritenere « non appropriate le circostanze » e perciò declinare, in nome di quel particolare accordo compromissorio, la propria giurisdizione cautelare pur se essa sussista in
astratto anche riguardo a misure destinate all’esecuzione all’estero.
Quel che deve affermarsi con certezza è che, salve le rare deviazioni cui si è appena fatto cenno, la devoluzione della lite ad arbitri esteri non comporta di regola né tanto meno automaticamente
deroga alla giurisdizione cautelare italiana.
Occasionali dubbi che si sono a tutti i costi voluti ricondurre a
passaggi, più o meno meditati, di motivazioni giudiziali sono ormai
fugati in proposito già e soltanto dalla disciplina uniforme del procedimento cautelare, introdotto dalla novella del 1990 (artt. 669-bis
ss. c.p.c.), la quale riferendosi sotto più di un profilo all’arbitrato
estero attesta incontrovertibilmente la compatibilità di questo con
l’esercizio della potestà cautelare del giudice italiano (16).
(16)
Ed in realtà i dubbi riguardano prevalentemente quella tutela cautelare sui ge-
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3. Occorre ora stabilire quando possa dirsi sussistente la giurisdizione cautelare italiana (17) funzionalmente a controversia di
merito devoluta dall’accordo compromissorio ad arbitri esteri. Il che
vorrà dire anche verificare se l’ambito della giurisdizione cautelare
italiana, in presenza di devoluzione del merito ad arbitrato estero, sia
diverso e più ristretto che in presenza di devoluzione ad arbitri interni, e perciò se la distinzione fra arbitrato interno ed arbitrato
estero possa rilevare ai fini di quella verifica.
3.1. La disposizione cardine, per la soluzione del problema in
discorso, è attualmente quella generale scritta nell’art. 10 della
Legge n. 218/1995 sul diritto internazionale privato, a norma della
quale « in materia cautelare la giurisdizione italiana sussiste quando
il provvedimento [cautelare] deve essere eseguito in Italia o quando
il giudice italiano ha giurisdizione nel merito ».
A questa disposizione infatti — come volta per volta alle altre
di diritto internazionale privato dei paesi membri — deve ritenersi
che rinvii il criptico art. 31 del regolamento CE n. 44/2001 (« Bruxelles I »), ai sensi del quale « i provvedimenti provvisori o cautelari
neris che è l’istruzione preventiva, formalmente esclusa dall’ambito applicativo degli artt.
669-bis ss. (v. retro, sub 1, in fine).
Si consideri, invece, nel senso che la deroga alla giurisdizione (di merito) italiana insita in un accordo compromissorio per arbitrato estero non esclude affatto la giurisdizione
cautelare italiana (nella specie in ordine alla concessione di sequestro conservativo), Cass.
Sez. Un. 2 novembre 1987, n. 8050, in Riv. dir. intern. priv. proc., 1981, 125 ss., nonché già
Pret. Verona 22 aprile 1985, in Foro it., 1986, I, 834 ss. con nota di MARIANI. Cfr. anche
TOMMASEO, Lex fori e tutela cautelare, cit., 20-21 per la ferma reazione alla balzana idea (foriera oltretutto di complessità pratico-applicative notevoli) secondo cui, in caso di devoluzione ad arbitri esteri, la potestà cautelare del giudice italiano sussisterebbe solo ove la controversia sia comunque esclusa dalla giurisdizione italiana, mentre se vi sia inclusa la deroga
pattizia corrispondente all’accordo compromissorio varrebbe tanto per il merito quanto per la
cautela. In realtà se davvero si riuscisse a dimostrare questo assunto — che cioè la deroga
alla giurisdizione corrispondente all’accordo compromissorio per arbitrato estero ricomprende di regola e di per sé anche la rinuncia alla giurisdizione cautelare (del giudice
italiano), la potestà cautelare del nostro giudice dovrebbe comunque negarsi, in ossequio alla
volontà pattizia, anche in relazione a materie e controversie escluse ex lege dalla giurisdizione (di merito) italiana rispetto alle quali la giurisdizione cautelare, sempre in astratto ed
ex lege, sussiste (a condizione che la misura debba essere eseguita in Italia) e sarebbe stata
appunto derogata dall’accordo compromissorio. La conclusione sarebbe allora che in presenza di accordo compromissorio per arbitrato estero nessun potere cautelare, e quale che sia
la materia o la controversia, spetta al giudice italiano. Il che è però radicalmente contraddetto,
a tacer d’altro, dagli artt. 669-bis ss. e c.p.c..
(17) In arg., ed anche per riferimenti (anteriori tuttavia alla riforma del d.i.p.), v.
l’ampio studio di SALERNO, La giurisdizione italiana in materia cautelare, Padova, 1993.
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previsti dalla legge di uno Stato membro possono essere richiesti al
giudice di detto Stato anche se, in forza del presente regolamento, la
competenza a conoscere nel merito è riconosciuta al giudice di un
altro Stato membro » (analogamente l’art. 24 della Convenzione di
Lugano e già l’art. 24 della Convenzione di Bruxelles del 1968) (18).
Fermo che la giurisdizione cautelare sussiste, direttamente ed immediatamente ex art. 31, tutte le volte che il giudice adito è effettivamente competente anche per il merito sulla base dello stesso Regolamento, il « possono essere richiesti » vale a disancorare la giurisdizione cautelare da quella di merito prevista dallo stesso Regolamento, purché però la giurisdizione cautelare sussista (perfino in
base a criteri c.d. esorbitanti) secondo il diritto internazionale privato
del giudice richiesto (19); per il nostro dunque secondo l’art. 10
Legge n. 218/1995 che fa riferimento al luogo di esecuzione della
misura come unico criterio — tutt’altro che esorbitante — di giurisdizione cautelare alternativo alla sussistenza della giurisdizione sul
merito. Ché altrimenti l’art. 31 di « Bruxelles I » varrebbe, assurdamente, a conferire sempre e ad ogni giudice di paese membro la giurisdizione cautelare sol perché adito con la relativa istanza.
(18) In arg. v. diffusamente e con ampiezza di riferimenti il saggio della MERLIN, Le
misure provvisorie e cautelari nello spazio giudiziario europeo, in Riv. dir. proc., 2002,
759 ss.
(19) Dopo precedenti incertezze, la Corte di giustizia parrebbe giunta, con la sentenza Van Uden del 17 novembre 1998, c. 591-95 (foriera a sua volta di incertezze notevoli
su altri versanti) per lo meno a codesto punto fermo. Di conserva con la Van Uden il legislatore comunitario, nel passaggio dall’art. 24 della Convenzione di Bruxelles all’art. 31 del
Regolamento n. 44, si è rifiutato di accogliere le proposte, pur in cantiere, di introduzione di
un criterio autonomo unico (quello fondato sul luogo di esecuzione della misura) per la giurisdizione cautelare, lasciando cosı̀ aperta la possibilità del ricorso a criteri esorbitanti previsti dai legislatori nazionali (possibilità che da Van Uden cerca, per vero empiricamente e tutt’altro che perspicuamente, di ridimensionare per diverse vie).
Su questi argomenti, nonché per una puntuale analisi della giurisprudenza della Corte
comunitaria in materia di giurisdizione cautelare, cfr. sempre MERLIN, op. ult. cit..
La sentenza Van Uden rileva ai nostri fini anche perché in essa la Corte, replicando
ad apposito quesito ed accogliendo le argomentate deduzioni della Commissione e della parte
istante nel giudizio principale, precisa chiaramente che la esclusione dell’arbitrato dalle
« materie » regolate dalla Convenzione di Bruxelles (ed oggi dal Regolamento « Bruxelles
I ») non comporta affatto che in caso di devoluzione ad arbitri di una controversia rientrante
in una di quelle materie la giurisdizione cautelare non debba essere stabilita sulla base della
medesima Convenzione e perciò dell’art. 24 (oggi 31 del Regolamento). A questa, per vero
ovvia, conclusione la Corte perviene attraverso una distinzione fra provvedimenti giudiziari
funzionali all’arbitrato (ove dunque rileva l’arbitrato come « materia esclusa ») e provvedimenti funzionali alla controversia deferita agli arbitri (ove rileva la materia della controversia) del tutto analoga a quella tracciata retro al § 1. Sulla Van Uden, per ciò che ancora interessa nell’economia di questo paragrafo v. anche oltre la nota 43.
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3.2. Nella ricostruzione della portata applicativa dell’art. 10
Legge n. 218/1995, in relazione al fenomeno arbitrale, vi è un punto
di partenza alquanto solido dal quale conviene prendere le mosse: la
devoluzione ad arbitrato interno di una causa di merito estranea all’ambito della giurisdizione italiana non può valere ad attrarre tale
causa alla nostra giurisdizione di merito neppure al limitato ed indiretto fine di applicare la nostra giurisdizione cautelare.
Che questo assunto sia coerente rispetto al verbo attuale delle
Sezioni Unite della Cassazione (20) — secondo cui la scelta arbitrale
è una scelta radicalmente alternativa rispetto alla giurisdizione statuale — e che anzi esso rappresenti, di quel verbo manifestato in altro contesto, uno dei pochi plausibili riflessi pratici ed operativi di un
qualche significato, non basta a comprovarne la validità.
In proposito la dimostrazione davvero decisiva scaturisce dalla
argomentazione per assurdo.
Si faccia l’esempio d’un contratto contenente clausola compromissoria per arbitrato italiano fra una parte spagnola localizzata in
Spagna ed una francese localizzata in Francia, contratto stipulato e
da eseguirsi integralmente in Francia. In assenza di accordo compromissorio qualsivoglia lite scaturente da tale contratto, e chiunque
fosse l’attore o il convenuto, non rientrerebbe nella giurisdizione di
merito italiana. Se la devoluzione ad arbitri italiani di una tale lite di
merito implicasse di per sé la immedesimazione di questa nella giurisdizione statuale italiana, per lo meno ai fini della applicazione
dell’art. 10 Legge n. 218/1995, la parte spagnola potrebbe chiedere
al giudice italiano un sequestro conservativo contro la parte francese,
anche se non da eseguirsi in Italia. Ma, a tacer d’altro, si perverrebbe
tosto al paradosso della impossibilità di individuare un giudice territorialmente competente per la cautela ante causam sulla base di
qualsivoglia delle disposizioni ex art. 669-bis ss. c.p.c. comunque in(20) Mi riferisco al celebre obiter di Cass., Sez. Un. n. 527/2000, mai rinnegato dal
Supremo Collegio (neppure quanto ad alcune non condivisibili sue derivazioni operative) pur
dopo il provvidenziale avvento, nel 2005-2006, del nuovo art. 824-bis c.p.c.. Ed in fin dei
conti, neppure meritevole di essere rinnegato, quell’obiter (per altro poi confermato ampiamente in altre pronunce nel pieno cuore delle rispettive rationes decidendi), se lo si intende
(come mi permisi di ritenere fin da subito) più o meno utilmente (poco in verità) destinato
ad etichettare, nel regno dei massimi sistemi, la c.d. (e mai ragionevolmente discussa per
vero) « natura privata » dell’arbitrato, senza però alcuna incidenza sugli effetti del lodo rituale che erano (salvo che, per il lodo non ancora omologato, prima della novella del 1994)
per ragioni sistematiche e positive chiare, ed oggi sono per chiarissima volontà esplicita del
legislatore, quelli di una sentenza giudiziale.
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terpretate (21). Non potrebbe infatti farsi riferimento al giudice del
luogo di esecuzione del sequestro; né al giudice che sarebbe territorialmente competente a conoscere del merito se l’accordo compromissorio non vi fosse, perché perfino il criterio residuale del foro di
localizzazione dell’attore (art. 18, comma 2 c.p.c.) (22) risulterebbe
nella specie concretamente inapplicabile.
È poi perfettamente giustificabile che l’attribuzione pattizia —
rilevante ex art. 4, comma 1 Legge n. 218/1995 — al giudice italiano
della potestas iudicandi sul merito di una controversia originariamente estranea alla nostra giurisdizione gli attribuisca anche, per il
tramite dell’art. 10 della stessa legge, la potestas cautelare a prescindere dal luogo di esecuzione del provvedimento cautelare, mentre
ciò non accade allorché la potestas iudicandi sul merito di una causa
originariamente estranea sia attribuita pattiziamente ad arbitri italiani.
Vi è per ciò una spiegazione concettualistica che consiste nel
ripetere, secondo il verbo delle Sezioni Unite, che gli arbitri non
sono giudici, sicché l’inciso ex art. 10 Legge n. 218/1995 ai sensi del
quale la giurisdizione cautelare sussiste « quando il giudice italiano
ha giurisdizione nel merito » non può essere inteso come se dicesse
anche « quando gli arbitri italiani hanno giurisdizione per il merito ».
Vi è una spiegazione sostanzialistica che tranquillizza riguardo
alla razionalità di concetti e norme, e dimostra, nella sostanza appunto, perché — in relazione a questo particolare segmento della
esperienza giuridica — gli arbitri non solo non sono giudici, sul
piano ordinamentale ed organizzativo, ma neppure è come se lo fossero sul piano funzionale; (il che è da verificare caso per caso (23) ed
accade naturalmente anche in relazione ad altri settori della esperienza giuridica, ma non necessariamente in relazione a tutti, e non
ad esempio quanto agli effetti del lodo non più impugnabile, salvi
forse profili marginalissimi, o quanto al potere di rimettere la questione incidentale alla Corte costituzionale, ove prevale il « come se
lo fossero »).
E la spiegazione sostanzialistica è la seguente: se l’autonomia
(21) V. oltre, § 4 e 5.
(22) Applicabile, come è noto, in via analogica anche ad integrazione dell’art. 19 e
cioè ove il convenuto sia persona giuridica (Cass. 14 giugno 1978, n. 2964, in Foro it., 1978,
I, 2148 con nota di PROTO PISANI, ed altre).
(23) Su tale aspetto metodologico sia permesso il rinvio a BRIGUGLIO, Merito e metodo, cit., 667 ss.
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privata affida la controversia e la relativa tutela delle posizioni soggettive alla giurisdizione italiana, la affida ad un giudice intrinsecamente dotato di potestà cautelare. Ma se l’autonomia privata affida
la controversia e la relativa tutela delle situazioni soggettive agli arbitri italiani, i quali sono tendenzialmente e salvo casi eccezionali (24) privi di potestà cautelare, non ha senso che proprio e solo
quell’affidamento rappresenti il viatico per l’attribuzione della potestà cautelare al giudice dello Stato.
In altri termini, se è vero che l’accordo compromissorio per arbitrato italiano esclude la giurisdizione statuale sul merito della controversia ma non esclude di per sé la giurisdizione statuale cautelare,
perché è invece rispetto ad essa neutro (vista la cennata incapacità
dell’arbitro di sostituirsi al giudice quanto alla cautela), per ciò
stesso non è l’accordo compromissorio in quanto tale a poter rappresentare il trait d’union fra la controversia e la potestà cautelare del
giudice italiano. La scelta arbitrale può giustificare — senza necessità d’altro collegamento fra controversia, territorio e giurisdizione
— l’esercizio del potere « ausiliario » del giudice statuale direttamente funzionale all’arbitrato ed al suo controllo (nomina, ricusazione, omologazione, impugnazione ecc.), ma non l’esercizio di un
potere « ausiliario » del giudice che è funzionale, piuttosto che rispetto all’arbitrato come procedimento, rispetto alla tutela di merito
deferita agli arbitri.
3.3. Da un lato, dunque, l’accordo compromissorio per arbitrato italiano non escluderà che il giudice straniero assicuri alla parte
tutela cautelare a misura che lo consentano la sue regole sulla giurisdizione cautelare.
D’altro lato il fondamento della eventuale giurisdizione cautelare italiana andrà ricercato prescindendo dall’accordo compromissorio.
Ed i collegamenti possibili fra controversia e giurisdizione cautelare italiana sono appunto quelli, positivamente sanciti, della esecuzione nel territorio italiano della misura cautelare, e della appartenenza — prescindendo dall’accordo compromissorio — della controversia all’ambito della giurisdizione italiana di merito.
Il primo criterio di collegamento — quello del luogo di esecu(24)
V. supra, § 1, nota 3.
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zione della misura cautelare — è più che evidente nell’art. 10 Legge
n. 218/1995. Ma indiscutibile sembra anche il secondo ed alternativo, quello cioè riscontrabile in una lettura dell’art. 10, ultimo inciso, cosı̀ puntualizzata: in materia cautelare la giurisdizione italiana
sussiste anche quando il giudice italiano ha (avrebbe) giurisdizione
nel merito sulla controversia in relazione alla quale si chiede la cautela, a nulla rilevando che la sua potestas iudicandi nel merito sia in
concreto impedita da un accordo compromissorio.
Vi sono almeno due ragioni che convalidano questa lettura,
sebbene essa sia meno agevole di quella relativa al primo criterio.
a) La prima è che altrimenti la potestà cautelare del giudice
italiano, in caso di accordo compromissorio, sarebbe sempre limitata
ai soli provvedimenti da eseguirsi in Italia, ciò che non accadrebbe
invece in assenza di accordo compromissorio, e non si intende perché proprio il deferimento del giudizio di merito agli arbitri italiani,
cui è impedito di concedere misure cautelari, dovrebbe privare le
parti della possibilità di chiedere al giudice italiano l’emanazione di
una misura cautelare destinata alla circolazione ed alla esecuzione
all’estero.
b) La seconda è che quella lettura trova perfetta rispondenza
nell’art. 669-quinquies c.p.c., deputato alla determinazione della
competenza interna in materia cautelare, ed a norma del quale « se
la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri (...) la domanda [cautelare] si propone al giudice
che sarebbe stato competente a conoscere nel merito », e dunque al
giudice italiano munito di giurisdizione in relazione alla controversia di merito, innanzi al quale essa avrebbe potuto o dovuto essere
proposta in assenza di accordo compromissorio. Perciò, se anche
l’art. 10 Legge n. 218/1995 non vi fosse o dovesse per assurdo leggersi in maniera diversa, l’art. 669-quinquies, consentendo l’individuazione di un giudice italiano territorialmente competente per la
cautela nell’ipotesi in cui la controversia astrattamente rientrante nell’ambito della giurisdizione italiana di merito è deferita ad arbitri,
attribuirebbe a quel giudice altresı̀ un autonomo titolo di giurisdizione (cautelare) in forza del principio generale ex art. 3, comma 2
ultimo inciso della legge sul diritto internazionale privato del 1995
(la giurisdizione italiana sussiste anche in base ai criteri stabiliti per
la competenza per territorio). E tale titolo di giurisdizione cautelare,
proprio del nostro diritto internazionale privato, sarebbe perfettamente compatibile con la disciplina della giurisdizione cautelare di
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« Bruxelles I » (art. 31, e già art. 24 della Convenzione di Bruxelles
del 1968) siccome quest’ultima fa implicito e permissivo rinvio anche ai criteri di giurisdizione cautelare deducibili dalla normativa internazionalprivatistica degli Stati membri (v. supra, 3.1) (25).
(25) Questo esito applicativo non è perciò contraddetto dalla portata dispositiva e di
autentica interpretazione pregiudiziale della sentenza Van Uden del 1998 (v. supra nota 37).
In essa la Corte di giustizia ha precisato (risposta alla prima ed alla seconda questione
pregiudiziale) che la sottrazione mediante accordo compromissorio della potestas iudicandi
nel merito che al giudice statuale sarebbe altrimenti attribuita dal sistema di « Bruxelles »
(nella specie ex art. 5, comma 1 Conv. Bruxelles) impedisce che la competenza cautelare
possa essere riconosciuta a quel giudice direttamente in forza dell’apposito ed implicito rinvio che la disciplina « comunitaria » (art. 24 Conv. Bruxelles ed oggi art. 31 « Bruxelles I »)
fa ai casi in cui il giudice adito con l’istanza cautelare è già giurisdizionalmente competente
per il merito sulla base della medesima disciplina « comunitaria ». Ma la Corte non nega, ed
anzi convalida (risposta alla settima questione), l’assunto secondo cui l’art. 24 Conv. Bruxelles ed oggi l’art. 31 del Regolamento « Bruxelles I » rinvia altresı̀, quanto alla competenza
giurisdizionale cautelare, ai casi in cui (e si tratta appunto di quello cennato nel testo) tale
competenza, pur non essendo direttamente ancorata a quella di merito prevista dal sistema di
Bruxelles, è comunque attribuita dall’ordinamento interno e perfino quando tale attribuzione
è veicolata da criteri da considerarsi esorbitanti a termini dell’art. 3, comma 2 della Conv. di
Bruxelles (e non sarebbe questo, oltretutto, il caso configurato nel testo). In proposito, e come
si è già avuto occasione di rammentare, la Corte ha altresı̀ espressamente escluso che a radicare la competenza giurisdizionale cautelare debba concorrere, quale criterio di collegamento autonomo desumibile dall’art. 24 Conv. Bruxelles, quello del luogo di esecuzione
della misura cautelare (questa elasticità della Van Uden è bilanciata come è noto, nella stessa
pronuncia, da un approccio restrittivo su altro versante, quello della individuazione di cosa
debba intendersi per misura provvisoria e cautelare ai sensi dell’art. 24 ed in particolare a
fronte del carattere in tutto o in parte anticipatorio della misura). E la Corte si è limitata (v.
sempre la penultima statuizione pregiudiziale) genericamente ed alquanto cripticamente a richiedere, affinché possa dirsi radicata, in assenza di contemporanea giurisdizione per il merito ai sensi della disciplina di Bruxelles, la giurisdizione cautelare ex art. 24 (ed oggi 31 di
« Bruxelles I »), la sussistenza di un « effettivo nesso di collegamento fra l’oggetto del provvedimento richiesto e la competenza territoriale dello Stato contraente del giudice adito ».
Orbene, nell’ipotesi configurata nel testo questo nesso di collegamento risulterebbe più che
a sufficienza integrato da ciò: che il giudice italiano adito con la istanza cautelare sarebbe
comunque, in assenza di accordo compromissorio, competente per il merito (e per di più mai
in base a criteri esorbitanti bensı̀, ed almeno in astratto, in base ai criteri di Bruxelles).
Vi è da dire naturalmente che la premessa logica della Van Uden, per la parte che qui
si è esaminata, è invece esattamente confliggente con quella sposata nel testo. La Corte di
giustizia muove dalla idea secondo cui l’accordo compromissorio nel momento in cui sottrae
al giudice la giurisdizione di merito, gli sottrae anche la giurisdizione cautelare che gli è attribuita direttamente ed unicamente in conseguenza della prima. Ma questa idea può condurre
solo alle conseguenze interpretativo-applicative che si son dette, interne al sistema di Bruxelles e tali appunto da impedire soltanto che in presenza di accordo compromissorio la giurisdizione cautelare sia attribuita al giudice nazionale unicamente sulla base della giurisdizione di merito sussistente secondo le norme comunitarie. La Corte di giustizia non è invece
in grado di proiettare tale idea sugli altri criteri di giurisdizione cautelare che lo stesso art.
24 della Convenzione di Bruxelles (e 31 del Reg. « Bruxelles I ») recepisce dai sistemi nazionali; e non è in grado cioè di impedire che, ragionando dal punto di vista di un ordina-
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In definitiva: il deferimento del giudizio sul merito della controversia ad arbitri italiani è neutro rispetto alla sussistenza della
giurisdizione cautelare del giudice italiano. Esso non è idoneo ad attribuire al giudice italiano giurisdizione cautelare relativamente a
quella controversia; giurisdizione cautelare la quale dunque vi sarà
solo se la misura sia da eseguirsi in Italia o se per quella controversia sia riscontrabile un normale criterio di collegamento con la giurisdizione italiana di merito. Ma quel deferimento ad arbitri non è
neppure idoneo, all’inverso, ad erodere l’ambito della giurisdizione
cautelare italiana cosı̀ definito: la individuabilità di un criterio di
collegamento tra la controversia di merito e la giurisdizione italiana
resta cioè rilevante ai fini della attribuzione della giurisdizione cautelare, nonostante che l’accordo compromissorio (se valido, se efficace, se eccepito) comporti la impossibilità che il giudice italiano
giudichi sul merito della controversia.
Cosı̀ ricostruita, per ragioni sistematiche e per la combaciante
presenza dell’art. 669-quinquies c.p.c., la portata applicativa dell’art.
10 Legge n. 218/1995 in relazione all’ipotesi dell’accordo compromissorio per arbitrato interno, risulta altresı̀ inutile chiedersi se alla
cennata « impossibilità » che il giudice statuale si pronunci sul merito corrisponda, dal punto di vista specifico della natura e del regime
della eccezione fondata su quell’accordo compromissorio, un difetto
di competenza interna (come vuole la tradizione) o qualcosa di assi-
mento nazionale, si sostenga, come si sostiene nel testo, che la giurisdizione cautelare sussiste anche qualora il giudice statuale sarebbe in astratto, e cioè in assenza di accordo compromissorio, giurisdizionalmente competente per il merito (foss’anche proprio in virtù di un criterio di giurisdizione di merito stabilito dal sistema di Bruxelles).
La cennata premessa logica della Corte resta dunque per ciò che qui interessa (piuttosto che un frammento di interpretazione pregiudiziale preclusiva dell’esito applicativo cui
si perviene nel testo) una tesi come un’altra; la cui portata generale — che consisterebbe nell’escludere pressoché sempre, in forza dell’art. 24 (31) di Bruxelles, la giurisdizione cautelare allorché la controversia sia deferita ad arbitri e non vi siano criteri di collegamento fra
la controversia ed il giudice adito per la cautela diversi dalla astratta e potenziale giurisdizione di merito di quest’ultimo — dipende dalla sua valenza persuasiva.
Proprio tale valenza persuasiva mi sembra del tutto carente. La idea della Corte in discorso è fra le meno meditate ed argomentate della (già confusa) motivazione Van Uden, e
non tiene oltretutto conto che in caso di istanza cautelare proposta prima dell’inizio (innanzi
al giudice o agli arbitri) del giudizio di merito la presenza di un accordo compromissorio
rende la giurisdizione di merito del giudice statuale (che sarebbe competente in assenza di
quell’accordo) certamente solo potenziale, e però e per l’appunto ancora potenziale, e non
definitivamente astratta e virtuale: le parti ben potrebbero ancora rinunciare al patto compromissorio ed all’arbitrato, o una di essa instaurare la causa di merito davanti al giudice statuale e l’altra rinunciare alla, disponibilissima, eccezione di compromesso.
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milabile a questo (come vorrebbe il buon senso), o una inammissibilità o improponibilità della domanda per motivi di merito coincidenti
con il solo accordo-negozio in quanto tale (come vogliono le Sezioni
Unite), o un difetto di giurisdizione in senso tecnico (come vogliono
taluni) (26).
Quale che sia la via qualificatoria e perfino ove si scegliesse
l’ultima, le cose non muterebbero, e non potrebbe giammai dirsi, ai
limitati fini di una corretta applicazione dell’art. 10 Legge n. 218/
1995, che a motivo dell’accordo compromissorio, ed in presenza di
un potenziale criterio di collegamento fra la causa di merito e la giurisdizione italiana, « il giudice italiano non ha giurisdizione nel merito » e dunque la giurisdizione cautelare sussiste solo se il provvedimento interinale vada eseguito in Italia.
3.4. Tali conclusioni avrebbero potuto considerarsi intuitive
relativamente alla ipotesi dell’accordo compromissorio per arbitrato
interno. Le si è raggiunte procedendo in dettaglio alla analisi dei loro
fondamenti sistematici e positivi, perché ciò consente di estendere le
stesse conclusioni anche alla ipotesi dell’accordo compromissorio
per arbitrato estero. Quei fondamenti sembrano infatti perfettamente
reggere anche in presenza di tale variante.
Anche a fronte di accordo che devolve la causa di merito ad arbitri esteri la giurisdizione cautelare italiana sussiste, oltre che nel
caso in cui il provvedimento cautelare debba eseguirsi in Italia,
quando la causa di merito, in assenza di accordo compromissorio,
potrebbe essere instaurata innanzi al giudice italiano sulla base dei
criteri soggettivi (localizzazione del convenuto) e/o oggettivi che delimitano la sua giurisdizione di merito. In altri termini, ai fini della
applicazione dell’art. 10 Legge n. 218/1995, ed in particolare dell’inciso « in materia cautelare la giurisdizione italiana sussiste (...)
quando il giudice italiano ha giurisdizione nel merito », non si terrà
conto del fatto che l’accordo per arbitrato estero costituisce tecnicamente (v. art. 4, comma 2 Legge n. 218/1995, e v. retro cap. II §§
19-20) deroga alla giurisdizione italiana sul merito (diversamente
oggi — a mio avviso errando — la nostra Suprema Corte (27), ma
ss..
(26)
BOVE, Il patto compromissorio rituale, in Riv. dir. civ., 2002, 403 ss. spec. 417
(27)
A far data da Cass. 22 luglio 2002, n. 10723 (in Foro it., 2003, I, 1832 ss. e
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la cosa è per l’appunto irrilevante rispetto al profilo per il momento
in esame). La quale giurisdizione sul merito andrà, invece, considerata in astratto, vale a dire prescindendo dall’accordo compromissorio.
Ancor qui tale lettura dell’art. 10 Legge n. 218/1995 è confermata — negli stessi termini sopra chiariti al punto 3.3 b) — dall’art.
669-quinquies c.p.c., ov’è il criterio di competenza territoriale cautelare e perciò di giurisdizione (cautelare) ex art. 3, comma 2, ultimo
inciso della stessa Legge n. 218; atteso che l’art. 669-quinquies non
distingue tra accordo compromissorio per arbitrato interno o estero (28). Né basterebbe obbiettare che l’art. 669-quinquies può riferirsi
solo ad accordi compromissori che abbiano una qualche relazione
con l’ordinamento italiano, perché questa relazione non viene certo
meno sol che l’accordo preveda un arbitrato estero, potendo esso comunque essere inserito in un contratto regolato dal diritto italiano,
essere di per sé e come autonomo negozio regolato in tutto o in parte
dal diritto italiano, o appunto avere ad oggetto il deferimento ad arbitri di controversie rientranti altrimenti anche o solo nell’ambito
della giurisdizione italiana.
Quanto poi all’altra delle due ragioni dianzi esposte a fondamento della medesima soluzione per il caso di accordo compromissorio per arbitrato interno (supra 3.3.a), essa si impone qui in via
empirica piuttosto che normativa e sistematica. Posto che il giudice
italiano ha di regola il potere, in relazione a controversie di merito
unite da un qualche criterio di collegamento con il territorio italiano,
di emanare misure cautelari pur quando non destinate alla esecuzione
in Italia bensı̀ alla circolazione all’estero, non si vede perché ciò dovrebbe essere impedito dalla devoluzione della potestas iudicandi sul
merito della causa ad arbitri esteri. Per i quali arbitri esteri ovviamente non può predicarsi l’impedimento giuridico (ex art. 818 c.p.c.)
alla emanazione di misure cautelari, ma può comunque dirsi, in via
empirica appunto, che la potestà cautelare, nel panorama dei vari ordinamenti, è la eccezione e non la regola, e che essa, pur quando
Cass. 18 aprile 2003, n. 6349 (in questa Rivista, 2004, 39 ss. con mia nota critica, Le Sezioni
unite e la eccezione fondata su accordo compromissorio per arbitrato estero). In proposito v.
CONSOLO-MARINELLI, La Cassazione ed il duplice volto dell’arbitrato (II), in Corr. giur., 2003,
827 ss.. Successivamente: Cass. 5 gennaio 2007, n. 35 e da ultimo ed incidentalmente Cass.
21 settembre 2009, n. 22236..
(28) Sull’applicabilità di tale criterio di competenza interna e dell’art. 669-quinquies,
vuoi in caso di arbitrato interno che in caso di arbitrato estero, v. diffusamente i §§ 5 e 6.
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ammessa o concorre con quella del giudice statuale piuttosto che
escluderlo, o è fortemente limitata quanto alla coattiva eseguibilità e
perciò alla effettività (29).
Insomma leggere l’art. 10 Legge n. 218/1935 nel senso che la
deroga alla giurisdizione di merito italiana in favore di arbitri esteri
comporti per li rami, e salvo sempre il caso di provvedimento da
eseguirsi in Italia, anche deroga alla giurisdizione cautelare italiana
significherebbe privare le parti di una possibilità di tutela ben difficilmente e solo aleatoriamente conseguibile all’estero in forma davvero equivalente; significherebbe sostanzialmente, e per via indiretta,
attribuire all’accordo compromissorio una portata preclusiva oltre
che della potestas iudicandi sul merito anche della potestà cautelare
del giudice dello Stato, portata che l’accordo compromissorio proprio nel panorama mondiale e nell’attuale stato della esperienza giuridica normalmente non ha in via diretta (30). Né è pensabile che
quando le parti scelgono di affidarsi per il giudizio di merito ad arbitri esteri in luogo del giudice italiano (quel che è il « normale » intendimento di un accordo per arbitrato estero dal punto di vista del
nostro ordinamento) ciò comporti la volontà di sostituire integralmente, quanto alla tutela cautelare, al giudice italiano il giudice statuale straniero del Paese in cui l’arbitrato è destinato a radicarsi (31).
Mentre del tutto plausibilmente e visto che invece di regola i giudici
statuali stranieri sono muniti di poteri cautelari equivalenti, la deroga
alla giurisdizione italiana di merito (art. 4, comma 2, primo inciso,
Legge n. 218/1995) comporta anche la deroga alla giurisdizione cautelare, sebbene sempre per il tramite dell’art. 10 della legge sul d.i.p.,
e perciò con la sopravvivenza dei poteri cautelari del giudice italiano
allorché il provvedimento sia destinato ad esecuzione in Italia (a
meno che quella deroga non sia espressamente estesa alla giurisdizione cautelare: allora essa opera in via diretta ed anche rispetto a
cautela da eseguirsi in Italia).
Tutto ciò non esclude, come si è già avuto modo di segnala-
(29) V. supra, § 2.
(30) V. sempre supra, § 2.
(31) Se il radicamento nazionale dell’arbitrato comporti di per sé, ed anche in assenza di altri criteri di collegamento, l’attribuzione di potestà cautelare a tale giudice straniero — ciò che, come si è visto al punto 3.2., non può dirsi nel caso inverso di radicamento
dell’arbitrato in Italia — dipende dal suo ordinamento; senza però che dal punto di vista dell’ordinamento italiano possa immaginarsi la intentio sostitutiva e derogatoria cui si fa cenno
nel testo.
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re (32), che in singoli casi — ma è questione di interpretazione della
volontà negoziale anche correlatamente agli eventuali poteri cautelari degli arbitri esteri — nell’accordo compromissorio per arbitrato
estero sia ravvisabile una rinuncia tout court alla giurisdizione cautelare italiana. La quale andrà allora negata anche ove il provvedimento cautelare sarebbe destinato alla esecuzione in Italia.
3.5. La ricostruzione dell’ambito della giurisdizione italiana
in materia cautelare che qui si è prospettata in relazione alla ipotesi
di accordo compromissorio per arbitrato estero, oltre al vantaggio di
evitare alle parti di quell’accordo salti nel buio ed incongrue diminuzioni di tutela che la scelta arbitrale non giustifica in alcun modo,
ha il vantaggio di render indifferente — ai fini della verifica della
potestà cautelare del giudice italiano — che l’accordo compromissorio preveda un arbitrato interno o un arbitrato estero. Indifferente, a
quei fini, è anzi e prima ancora lo stesso controllo di validità ed efficacia dell’accordo compromissorio: se il criterio di collegamento ex
art. 10, secondo inciso, Legge n. 218/1995 (quando il giudice italiano ha giurisdizione nel merito) va riscontrato ragionando come se
l’accordo compromissorio non vi fosse, è evidente che la eventuale
invalidità o inefficacia di quest’ultimo non rileva.
Conclusioni analoghe varranno, come si vedrà nel prossimo paragrafo, anche quanto alla verifica della competenza interna in materia cautelare, ed in particolare della competenza per territorio. E che
la verifica della giurisdizione e quella della competenza in materia
cautelare procedano, allorché vi sia di mezzo un accordo compromissorio ed in particolare un accordo per arbitrato estero, per vie parallele e semplificate, e cioè in buona sostanza mediante i medesimi
riscontri e senza che il carattere estero dell’arbitrato previsto dell’accordo compromissorio complichi le cose, è indubbiamente un ulteriore vantaggio.
4. Fin dai primi esercizi esegetici sulla nuova regolamentazione uniforme del procedimento cautelare ex artt. 669-bis ss. c.p.c.
si è affacciata l’idea che l’arbitrato interno e l’arbitrato estero interferiscano in modo tendenzialmente diverso con la determinazione
(32) Supra, § 2.
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del giudice statuale competente per l’adozione delle misure cautelari,
e che cioè tale determinazione, nel caso di devoluzione ad arbitri
della controversia di merito, sia governata da disposizioni diverse a
seconda che l’accordo compromissorio preveda un arbitrato interno
o un arbitrato estero.
Dal che, ovviamente, la tendenziale necessità di qualificare
prioritariamente l’accordo da questo punto di vista: operazione,
come è ben noto, non sempre agevole quando il giudizio arbitrale
non abbia ancora avuto inizio e la sede dell’arbitrato non sia stata
compromissoriamente individuata (33).
In breve: l’art. 669-quinquies — che titola « Competenza in
caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza del
giudizio arbitrale » e che individua il giudice competente in quello
« che sarebbe stato competente a conoscere del merito » in assenza
di accordo compromissorio — dovrebbe intendersi riferito (34) alla
sola ipotesi dell’arbitrato interno (35), e ne sarebbe esclusa l’applicabilità ove si tratti invece di arbitrato estero. Resta in parte ed alquanto inesplorato (e se ne dirà oltre al § 6) il problema di stabilire
se l’art. 669-quinquies esaurisca la sua valenza in relazione al procedimento cautelare promosso ante causam, o debba essere preso in
considerazione, ed in che senso e con quale portata, anche quando si
tratti di verificare la competenza cautelare del giudice comunque
adito per il merito nonostante l’accordo compromissorio.
Viceversa, all’ipotesi di accordo compromissorio per arbitrato
(33) È appena il caso di rammentare come il fatto che la clausola compromissoria,
non ancora determinante la sede, prevede ad esempio un arbitrato internazionale amministrato dalla ICC non significa necessariamente che quell’arbitrato è anche un arbitrato estero.
(34) Cfr. ad es. ATTARDI, Le nuove disposizioni del processo civile, Padova, 1991, 236
e CONSOLO in CONSOLO-LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 1991, 461,
MERLIN, Procedimenti cautelari ed urgenti in generale, in Dig. it. disc. priv. sez. civ., XIV,
Torino, 1996, 400, AULETTA, in AA.VV. a cura di Verde, Diritto dell’arbitrato, cit., 335, e poi
CONSOLO, in AA.VV., a cura di Consolo e Luiso, Codice di procedura civile commentato, II,
Milano, 2000, 2857.
(35) Fino al 2006 con la nota eccezione dell’arbitrato irrituale, almeno secondo la
prevalente giurisprudenza (ampi riferimenti argomentatamente critici MARINELLI, La natura
dell’arbitrato irrituale. Profili comparatistici e processuali, Torino, 2004), aspramente criticata da molti (per tutti, SASSANI, Intorno alla compatibilità tra tutela cautelare ed arbitrato
irrituale, in questa Rivista, 1995, 710 ss.), intaccata almeno in forma dubitativa da Corte cost.
ordinanza 5 luglio 2002, n. 320 (in questa Rivista, 2003, 503 ss. con nota di SASSANI), smentita almeno settorialmente dal legislatore dell’arbitrato societario (v. l’art. 35, comma 5 del
D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), e poi tramontata grazie al D.Lgs. 14 maggio 2005, n. 35 che
ha aggiunto, con decorrenza dal 1o marzo 2006 la espressione « anche non rituali » di seguito
al sostantivo « arbitri » nel testo dell’art. 669-quinquies.
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estero e non mai a quella di accordo compromissorio per arbitrato
interno, sarebbero riferiti l’art. 669-ter, comma 3 (« Competenza anteriore alla causa — ... Se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito, la domanda si propone al giudice che sarebbe competente per materia e valore del luogo in cui deve essere
eseguito il provvedimento cautelare »), e l’art. 669-quater, comma 5
(« Competenza in corso di causa — ... Se la causa pende davanti al
giudice straniero, ed il giudice italiano non è competente a conoscere
la causa di merito, si applica il terzo comma dell’art. 669-bis »), leggendosi ivi arbitro estero come possibile equivalente di giudice straniero (36), e trascurando però che, diversamente da quanto accade per
la già avvenuta instaurazione del giudizio di merito innanzi al giudice statuale straniero (con conseguente applicazione delle regole di
litispendenza internazionale), la pendenza della causa di merito davanti agli arbitri esteri è elemento sostanzialmente invariante rispetto
alla semplice presenza di un accordo compromissorio per arbitrato
estero.
5. Credo preferibile la strada ricostruttiva in parte diversa e
tutto sommato semplificatoria, che sarà qui esposta ponendo mente
anzitutto alla competenza cautelare ante causam, per poi passare a
quella « in corso di causa » e completare in relazione a questa (ma
anche all’altra) ipotesi l’inquadramento sistematico dell’art. 669quinquies c.p.c., vale a dire dell’unica disposizione che si riferisca
espressamente all’arbitrato in tema di competenza cautelare giudiziale.
Questa ricostruzione alternativa si fonda in primo luogo su di
una plausibile interpretazione letterale dell’art. 669-quinquies, supportata anche da ragioni sistematiche, e poi su di una interpretazione
sobriamente estensiva dell’art. 669-ter, comma 3. Essa comporta il
vantaggio pratico non trascurabile di evitare che ai fini della determinazione della competenza cautelare ante causam, ed in particolare
di quella per territorio, debba indagarsi sul carattere interno o estero
dell’arbitrato preconizzato dall’accordo, pur ove l’elemento in proposito fondamentale della sede del giudizio arbitrale non sia ancora
certo.
(36) V. sempre, riassuntivamente e con riferimenti, CONSOLO, in AA.VV., Codice, cit.,
2845 e 2853.
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Da questo punto di vista la ricostruzione in discorso riveste anche un significato teorico di qualche importanza, perché svela, nel
nostro sistema positivo e sia pure in un settore limitato o particolare,
un embrione di quella parificazione tra accordo compromissorio per
arbitrato interno e per arbitrato estero che ritengo essere punto di arrivo auspicabile della evoluzione del regime generale del riconoscimento giudiziale del patto di arbitrato.
5.1. L’abbrivio è dato dalla lettera dell’art. 669-quinquies,
rapportata alla lettera di altre disposizioni connesse. L’art. 669-quinquies, da un lato, è — come si diceva — l’unica disposizione della
disciplina uniforme del procedimento cautelare che si riferisca all’accordo compromissorio ed agli arbitri in relazione al problema
della individuazione del giudice competente per la cautela. Le altre
disposizioni dettate a questo riguardo fanno semmai riferimento generale alle ipotesi in cui « il giudice italiano non è competente per il
merito », non necessariamente dunque a motivo della sussistenza di
un accordo compromissorio e men che meno specificamente alla
sussistenza di accordo per arbitrato estero (cosı̀ l’art. 669-ter, comma
3), ovvero alla pendenza della causa innanzi « al giudice » (e non all’arbitro) « straniero » (cosı̀ l’art. 669-quater, comma 5).
D’altro lato l’art. 669-quinquies, menzionando l’accordo compromissorio e la pendenza del giudizio arbitrale, non distingue affatto tra arbitrato interno ed arbitrato estero. Cosı̀ come del resto
nessuna distinzione è ravvisabile all’art. 669-novies, comma 4 ai fini
della inefficacia del provvedimento cautelare connesso all’esito del
giudizio di merito. Che poi in tale ultima disposizione la volontà di
non distinguere sia addirittura rafforzata ed esplicita (« se la causa di
merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato italiano o estero ») si spiega — e non ne è dunque desumibile
argomento per superare la non distinzione emergente a silentio dall’art. 669-quinquies — per ciò, che il lodo italiano ed il lodo estero
sono realtà originariamente ed intrinsecamente diversi quoad effectum rispetto all’ordinamento italiano. La sostanziale parificazione
della loro incidenza immediata sul provvedimento cautelare — pur
pienamente giustificata sul piano logico-sistematico — ha necessità
di una espressa sottolineatura normativa. Non cosı̀ invece quando si
tratti, come all’art. 669-quinquies, di stabilire un meccanismo di individuazione del giudice statuale competente per la cautela, dispo41
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nendo che questi è, piuttosto che il giudice « competente a conoscere
del merito » (art. 669-ter, comma 1), il giudice che « sarebbe stato
competente a conoscere del merito ». Il meccanismo dell’ancoraggio
alla competenza « virtuale », piuttosto che alla competenza reale per
il merito, è infatti implicato in modo assolutamente equivalente sia
da un accordo compromissorio per arbitrato interno (o dalla pendenza del relativo giudizio arbitrale) sia da un accordo compromissorio per arbitrato estero (o dalla pendenza del relativo giudizio arbitrale): in entrambi i casi vi è, al di là di ogni qualificazione di dettaglio delle eccezioni e questioni relative, una scelta compromissoria
radicalmente alternativa rispetto all’esercizio della potestas iudicandi
del giudice statuale italiano sul merito della lite e perciò la impossibilità di individuare un giudice effettivamente, sı̀ invece uno solo
virtualmente, « competente per il merito ».
Ancor qui, in fin dei conti, si ravvisa uno dei non molti significati fecondi della « radicale alternatività » della via arbitrale rispetto alla giurisdizione statuale, predicata dalla nostra Suprema
Corte (37): in codesta non-differenza fra arbitrato interno ed arbitrato
estero riscontrabile nella piccola, settoriale disposizione di cui all’art. 669-quinquies. La scelta compromissoria è nella sostanza alternativa alla giurisdizione statuale vuoi che riguardi l’arbitrato interno,
vuoi che riguardi l’arbitrato estero; non si dà invece che la seconda
resti esterna alla giurisdizione statuale e che la prima sia riconducibile — in un qualche senso pregnante, anche se non generale — all’interno della giurisdizione statuale, come se essa fosse « ripartita »,
oltre che fra diversi giudici competenti, anche fra giudici ed arbitri.
5.2. La prima essenziale conclusione applicativa — già prospettata del resto da una autorevole dottrina (38) — è dunque che
l’art. 669-quinquies non riguarda solo l’ipotesi della devoluzione del
(37) V. retro la nota 43.
(38) I primi spunti in PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli,
1991, 332; v. poi LUISO, Arbitrato e tutela cautelare, cit., 255, nonché FRUS, in AA.VV. (a
cura di S. Chiarloni), Le riforme del processo civile, Bologna, 1992, 651, e SALVANESCHI, Sui
rapporti tra istruzione preventiva e procedimento arbitrale, cit., 625 nota 25. Una implicita
conferma parrebbe emergere anche dalla recentissima Corte Cost. n. 26/2010 (cit. retro alla
nota 6) che nell’estendere, mediante dichiarazione di incostituzionalità, in parte qua dell’art.
669-quintodecies c.p.c., l’applicazione dell’art. 669-quinquies ai procedimenti di istruzione
preventiva non sembra riferire quest’ultimo art. al solo caso dell’accordo compromissorio per
arbitrato interno, bensı̀ a quello dell’accordo compromissorio.
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merito agli arbitri interni, bensı̀ l’ipotesi della devoluzione del merito ad arbitri tout court, e rappresenta la regola generale e fondamentale per la determinazione della competenza cautelare ante causam del giudice civile italiano allorché il giudizio di merito sia devoluto ad arbitri (39). In tal caso il giudice competente per la cautela
è per l’appunto quello che per materia, valore e territorio sarebbe
competente per il merito in assenza di accordo compromissorio.
Questa competenza « virtuale », anche in relazione al criterio
territoriale, è senz’altro enucleabile vuoi in caso di devoluzione ad
arbitrato italiano, vuoi in caso di devoluzione ad arbitrato estero,
perché ovviamente non è per nulla detto che le parti devolvano ad
arbitri esteri liti che in assenza di accordo compromissorio non rientrerebbero comunque nella giurisdizione italiana. E d’altro canto può
ben darsi che non necessariamente e solo ad arbitri esteri bensı̀ anche ad arbitri italiani sia deferita (ad esempio da parti entrambe straniere e per mere ragioni di neutralità) la lite che altrimenti non rientrerebbe nella giurisdizione italiana ed in relazione alla quale sarebbe
dunque se non sempre impossibile (40), problematico e comunque irrazionale individuare ai fini della cautela la competenza territoriale
« virtuale » per il merito.
Queste due constatazioni, alquanto banali e che tuttavia sembrano sottovalutate da taluni di coloro che si sono occupati dell’argomento, consentono di completare il quadro.
Nella prima ipotesi — quando cioè la causa di merito deferita
dall’accordo compromissorio ad arbitri appartiene in astratto all’ambito della giurisdizione italiana (41) — l’art. 669-quinquies ed il meccanismo della individuazione della competenza cautelare attraverso
la competenza « virtuale » per il merito secondo tutti i criteri, compreso quello territoriale, funzionano a perfetta tenuta e non è perciò
(39) Ed è chiaro che quando si dice « ante causam » si ha come punto di riferimento
la instaurazione della causa davanti al giudice ordinario, e ci si riferisce perciò al caso in cui
la misura cautelare sia richiesta prima che un qualsiasi giudizio di merito corrispondente alla
cautela impetrata sia instaurato davanti al giudice ordinario, del tutto indifferente restando
invece che la controversia di merito devoluta ad arbitri dall’accordo compromissorio sia stata
o meno nel frattempo già sottoposta alla cognizione arbitrale (v. in tal senso App. Milano 25
gennaio 1994, in Giur. it., 1994, I, 2, 529).
(40) Cfr. LUISO, op. lc. ult. cit..
(41) E ciò sulla base delle sue caratteristiche oggettive, nonché di quelle soggettive,
vale a dire considerando la localizzazione del soggetto convenuto con l’istanza cautelare
come se si trattasse del medesimo soggetto convenuto nella ipotetica causa di merito.
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necessario ricercare altro meccanismo o disposizione neppure se
l’accordo compromissorio devolva il merito ad arbitri esteri.
Nella seconda ipotesi — quando in assenza di accordo compromissorio la causa di merito non rientrerebbe comunque nella giurisdizione italiana — occorre invece, per individuare congruamente il
giudice cautelare italiano competente per territorio, riferirsi non già
alla competenza « virtuale » per il merito, bensı̀ al luogo di esecuzione del provvedimento cautelare. Ciò è possibile in forza della applicazione estensiva (e forse nemmeno estensiva) dell’art. 669-ter,
comma 2, secondo cui « se il giudice italiano non è competente a
conoscere la causa di merito, la domanda si propone al giudice che
sarebbe competente per materia o valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare ».
Si tratta di disposizione che, se non vi fosse l’art. 669quinquies, potrebbe ben ritenersi applicabile a tutte le ipotesi in cui
il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di « merito » (si consideri la genericità ed ampiezza della espressione) in
virtù di un accordo compromissorio per arbitrato interno o estero,
con la conseguenza che in tal caso il giudice territorialmente competente per la cautela sarebbe sempre quello del luogo di esecuzione
del provvedimento. L’art. 669-ter, comma 3 è invece scavalcato, in
base al principio di specialità, da una disposizione, l’art. 669-quinquies appunto, che determinatamente e diversamente disciplina la
competenza cautelare territoriale quando vi sia di mezzo l’arbitrato.
Ma nulla esclude che l’art. 669-ter ritorni in campo, con il criterio
territoriale del luogo di esecuzione della misura cautelare, ad integrazione della disciplina ex art. 669-quinquies, allorché quest’ultima
non possa direttamente applicarsi, perché nessun giudice italiano
« sarebbe stato competente » per la causa di merito neppure in assenza di accordo compromissorio, vista la estraneità originaria della
lite rispetto all’ambito della giurisdizione italiana. La lieve e tollerabilissima forzatura, corrispondente al più ad applicazione estensiva,
consiste insomma nel leggere, in relazione all’ipotesi in discorso,
l’art. 669-ter, comma 3 come se dicesse « quando il giudice italiano
[che già non lo è in virtù dell’accordo compromissorio] non sarebbe
neppure in astratto competente a conoscere la causa di merito ... ».
Perciò non vi è alcuna necessità di ricorrere, in caso di devoluzione ad arbitrato estero, ad altra disposizione sulla competenza cautelare quale quella scritta nell’art. 669-quater, comma 5, e leggervi
anche « arbitro straniero » ove tale disposizione recita: « se la causa
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pende davanti al giudice straniero, e se il giudice italiano non è
competente a conoscere la causa di merito, si applica il terzo comma
dell’art. 669-ter ». Il che oltretutto ha un senso quando di mezzo vi
sia il giudice straniero, e la pendenza della causa dinnanzi al lui
possa, in base al criterio della prevenzione, determinare la carenza,
momentanea o definitiva, della giurisdizione italiana altrimenti sussistente sul merito. Ma non ha senso allorché si tratti di arbitrato
estero, perché tendenzialmente la pendenza della lite di merito innanzi ad arbitri esteri nulla aggiunge né toglie, nei confronti della
giurisdizione italiana, rispetto alla semplice sussistenza di un accordo compromissorio per arbitrato estero.
In entrambi i casi — arbitrato interno o estero — l’art. 669quinquies è più che sufficiente ad individuare in modo ragionevole il
giudice italiano competente per la tutela cautelare. In entrambi i casi
l’art. 669-quinquies va semmai integrato, quanto alla determinazione
della competenza territoriale, dal solo art. 669-ter, comma 3 per
l’ipotesi in cui, se l’accordo compromissorio non vi fosse, non vi sarebbe comunque la giurisdizione italiana per il merito, né dunque alcun collegamento fra la causa di merito ed il territorio italiano, e
neppure la possibilità di far razionalmente coincidere la competenza
territoriale cautelare con la competenza territoriale (virtuale) di merito.
Resta da sottolineare ancora una volta che siffatto ricorso integrativo all’art. 669-ter, comma 3 può essere necessario anche ove
l’accordo compromissorio devolva la lite di merito — comunque
fuoriuscente dall’ambito della giurisdizione italiana — ad arbitri italiani. Con ciò è assodato che la disciplina della competenza cautelare, in presenza di devoluzione ad arbitri, non è affatto distinta a
compartimenti stagni riconducibili agli artt. 669-ter, comma 3 e 669quater, comma 5 in ipotesi di arbitrato estero, ed all’art. 669-quinquies in ipotesi di arbitrato interno.
5.3. In definitiva, il giudice adito per la sola cautela non dovrà chiedersi, al fine di verificare la propria competenza territoriale,
se l’accordo compromissorio preveda un arbitrato interno o estero.
E non se lo chiederà neppure per stabilire quale sia il regime di
validità dell’accordo, poiché non gli interessa proprio verificarne la
validità, dovendo ragionare appunto sulla competenza « virtuale »
per il merito e cioè su quale sarebbe il giudice competente per il merito se l’accordo compromissorio non operasse.
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Il giudice adito per la sola cautela dovrà invece chiedersi se in
mancanza di accordo compromissorio (indifferentemente se per arbitrato interno o estero) la causa di merito — e segnatamente la causa
che fosse proposta dall’istante in via cautelare in qualità di attore
contro il resistente in qualità di convenuto — rientrerebbe o meno
nell’ambito della giurisdizione italiana.
Nel secondo caso infatti la competenza cautelare territoriale
coinciderà, ex art. 669-ter, comma 3, con il luogo in cui è destinata
ad essere eseguita la misura.
Questa seconda verifica è, da un lato, meno incerta di quanto
possa essere quella in ordine alla nazionalità all’arbitrato se compiuta a priori e prima che l’arbitrato sia iniziato; d’altro lato essa è
inevitabile. Infatti, anche qualora si ricostruisse la disciplina nel
senso che in presenza di accordo per arbitrato estero è sempre competente per territorio il giudice del luogo ove il provvedimento cautelare deve essere eseguito, mentre in presenza di accordo per arbitrato interno si applica sempre l’art. 669-quinquies, sarebbe comunque inevitabile integrare tale applicazione con l’art. 669-ter, comma
3, e dunque occasionalmente inevitabile il chiedersi se la causa di
merito in assenza di accordo arbitrale rientrerebbe o meno nella giurisdizione italiana. Si torni all’esempio di una parte localizzata in
Spagna ed una localizzata in Francia che abbiano inserito, in un contratto stipulato e da eseguirsi solo in uno o in entrambi questi paesi,
clausola compromissoria per arbitrato con sede in Italia. La causa di
merito che ne derivasse sarebbe comunque estranea alla giurisdizione italiana, ma una esigenza cautelare in Italia — sequestro conservativo su conto bancario qui intrattenuto da una delle parti — potrebbe nondimeno sussistere, e rispetto ad essa risultare pienamente
disponibile la giurisdizione italiana in base ad uno dei due criteri ex
art. 10 Legge n. 218/1995. In proposito la competenza territoriale
cautelare non sarebbe giammai integralmente determinabile ex art.
669-quinquies, poiché non si riuscirebbe mai ad individuare un giudice che sarebbe stato competente per territorio a conoscere del merito in assenza di clausola, e non resterebbe appunto che completare
la determinazione della competenza cautelare attraverso il criterio
territoriale del luogo di esecuzione della misura.
Alla stessa conclusione dovrebbe giungersi per coerenza logico-sistematica, se non per radicale impossibilità di individuare un
giudice virtualmente competente per territorio in relazione alla causa
di merito, nel caso in cui quel medesimo contratto fosse stato stipu46
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lato fra una parte francese localizzata in Francia ed una parte spagnola localizzata in Italia, e quest’ultima agisse in via cautelare innanzi alla giurisdizione italiana. Applicando il solo art. 669quinquies il giudice territorialmente competente per la cautela sarebbe quello del foro dell’attore (art. 18, comma 3 c.p.c.). Ma la cosa
ha ben poco senso vista la totale estraneità anche astratta e virtuale
della causa di merito rispetto alla giurisdizione ed al territorio italiano; e visto che se l’accordo compromissorio non vi fosse si applicherebbe invariabilmente l’art. 669-ter, comma 3 ed il foro competente per la cautela coinciderebbe sicuramente con quello di esecuzione del provvedimento: e non si vede davvero perché la presenza
di un accordo compromissorio debba spostare in favore dell’attore
siffatto ago della bilancia concernente la competenza territoriale giudiziale.
Tanto vale ancor qui integrare il regime ed applicare comunque
l’art. 669-ter, comma 3 individuando di conseguenza la competenza
territoriale cautelare.
La più volte cennata, ed oggi predicata dalla nostra Suprema
Corte, radicale alternatività della scelta arbitrale rispetto alla giurisdizione statuale italiana, indifferentemente se la scelta riguardi arbitrato interno o estero, potrebbe in astratto giustificare, nella sua portata più epidermica ed accettabile (non coinvolgente gli effetti del
lodo, e se possibile neppure il regime processuale della eccezione di
compromesso), una soluzione anch’essa unitaria di questo tipo: in
presenza di accordo compromissorio o di pendenza del corrispondente giudizio arbitrale, interno o estero, la competenza cautelare
ante causam si determina in base alla competenza « virtuale » di
merito quanto alla materia ed al valore, ma quanto al territorio si determina sempre in relazione al luogo di esecuzione del provvedimento cautelare.
Questa soluzione — corrispondente in sostanza al disposto dell’art. 669-ter, comma 3 generalizzato ed esteso tout court anche all’arbitrato — non è tuttavia conforme al vigente diritto positivo, atteso il non obliabile incombere dell’art. 669-quinquies.
D’altro canto la soluzione qui preferita, ed opportunamente bilanciata fra gli artt. 669-quinquies e 669-ter, comma 3, è non solo
positivamente fondata, ma sistematicamente più razionale.
Se è vero infatti che la scelta arbitrale è sempre e comunque alternativa alla giurisdizione statuale italiana di merito, altro è però
una controversia, oggettivamente considerata, che se non vi fosse la
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scelta arbitrale rientrerebbe per il merito nell’ambito della giurisdizione italiana, altro è una controversia che anche se non vi fosse la
scelta arbitrale non avrebbe alcun punto di contatto con il territorio
e la giurisdizione italiana se non la esigenza di concreta attuazione
di una misura cautelare in tale territorio.
Solo nel secondo caso è pienamente giustificata la individuazione della competenza territoriale giudiziale attraverso il luogo di
esecuzione della misura. Mentre nel primo caso non vi sono ragioni
decisive per derogare al tendenziale e prediletto ancoraggio della
competenza cautelare a quella almeno virtuale per il merito, anche
sotto il profilo territoriale; ancoraggio che è una delle intenzionali linee guida della disciplina uniforme ex artt. 669-bis ss. c.p.c.. Questo
ancoraggio, oltretutto, si giustifica e si colora di ulteriore valenza
pratica ponendo mente alle ipotesi, pur residuali, di rinuncia all’accordo compromissorio o alla relativa eccezione rispetto alla causa di
merito: la quale causa potrà allora essere effettivamente proposta e
decisa innanzi allo stesso giudice investito della potestà cautelare;
ciò che non accadrebbe mai ove, in mancanza di scelta arbitrale, non
vi fosse comunque la giurisdizione italiana per il merito.
6. Occorre ora chiedersi cosa accada allorché, pendente la
causa di merito innanzi al giudice statuale italiano, ed eccepito in
essa l’accordo compromissorio, si intenda proporre in Italia istanza
cautelare corrispondente alla tutela di merito richiesta in quella causa (42). Quale sarà il giudice competente per la cautela? Sarà ancora
indifferente, a riguardo, che l’accordo compromissorio preveda un
arbitrato interno o un arbitrato estero?
6.1. Prima di rispondere a tale quesito è opportuno circoscrivere l’ipotesi. Essa è riscontrabile anche ove a richiedere la cautela
sia il convenuto funzionalmente alla sua domanda riconvenzionale di
merito o comunque alle sue conclusioni di merito, prospettate l’una
o le altre in subordine rispetto alla eccezione di compromesso. Seb-
(42) È questo il caso in cui ha senso discorrere di tutela cautelare richiesta in corso
di causa pur in presenza di devoluzione compromissoria ad arbitri, e non quello del procedimento cautelare instaurato davanti al giudice statuale (innanzi al quale non pende alcuna corrispondente causa di merito) una volta che sia divenuto pendente il giudizio arbitrale (v. anche retro nota 64).
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bene tale condizionamento sia una iniziativa del medesimo convenuto, esso vale, e per il solo fatto che il convenuto ha proposto principaliter o unicamente la eccezione compromissoria, anche per l’attore, la cui domanda di merito verrà esaminata solo ove sia respinta
quella eccezione.
Rispetto alla tutela cautelare ed alla possibilità o meno di richiederla al giudice comunque formalmente investito delle cause di
merito aventi ad oggetto la domanda principale e/o riconvenzionale,
non pare ragionevole distinguere la posizione dell’attore da quella
del convenuto. Opinando in modo diverso dovrebbe ritenersi che il
convenuto non possa concludere riconvenzionalmente, o comunque
non possa concludere nel merito in via subordinata rispetto alla eccezione di compromesso: il che è manifestamente assurdo. O altrimenti dovrebbe ritenersi che la richiesta di cautela funzionale o
quella subordinata domanda riconvenzionale, o a quelle subordinate
conclusioni di merito, sia esaminabile solo dopo che la condizione di
subordinazione si sia verificata e cioè solo dopo che l’eccezione di
compromesso sia stata respinta, ovvero sia proponibile solo in guisa
di richiesta cautelare ante causam, e nonostante che la causa di merito già formalmente penda visto che la domanda è stata, sia pure subordinatamente, già proposta: il che è manifestamente contrario al
buon senso, alla economia processuale, ed alla effettività della tutela.
Ancora è opportuno precisare che affinché i quesiti di cui sopra
si pongano, richiedendo una riflessione apposita in termini (anche se
non necessariamente con esiti) diversi da quelli che de plano potrebbero adottarsi ex art. 669-quater, comma 1 (« competenza in corso di
causa »), occorre che l’accordo compromissorio sia stato eccepito,
non potendo esso rilevarsi ex offıcio ed essendo del tutto indifferente,
nonostante l’apparente tenore dell’art. 669-quinquies, che il giudizio
arbitrale penda o meno, se il suo fondamento, e cioè l’accordo compromissorio, non è stato fatto rilevare innanzi alla giurisdizione statuale.
6.2. Quale dunque il giudice competente per la cautela in
corso di giudizio ordinario in cui sia stato eccepito l’accordo compromissorio?
Sebbene la risposta a tale prima domanda debba, nell’economia
del presente saggio, essere data in termini soprattutto funzionali alla
risposta alla seconda domanda formulata in apertura del paragrafo —
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allo stabilire cioè se a proposito di tale competenza rilevi e come la
distinzione fra arbitrato interno ed arbitrato estero —, non può qui
prescindersi del tutto da una prospettiva di ordine generale, fino ad
ora assai poco esplorata. Si tratta del significato attribuibile alla collocazione topografica dell’art. 669-quinquies: il quale, appositamente
consacrato alla disciplina della competenza giudiziale cautelare ove
il merito sia devoluto ad arbitri, è tuttavia collocato in posizione autonoma e per cosı̀ dire equidistante rispetto alle regolamentazioni
contrapposte della « competenza anteriore alla causa » (art. 669-ter)
e della « competenza in corso di causa » (art. 669-quater).
Un punto fermo è rappresentato da ciò: la collocazione sistematica e la cennata equidistanza dell’art. 669-quinquies non comportano affatto che, in caso di devoluzione del merito ad arbitri, la effettiva pendenza o meno del giudizio di merito davanti al giudice sia
indifferente, e che dunque la disciplina della competenza cautelare
« in corso di causa » ex art. 669-quater sia del tutto aggirata o resa
facoltativa.
Se cosı̀ fosse si avrebbe, ad esempio, che instaurata a Roma la
causa di merito relativa a contratto ivi stipulato ed eccepita dal convenuto la clausola compromissoria, l’attore potrebbe chiedere — in
base al tenore letterale dell’art. 669-quinquies isolatamente considerato, ed aggirando appunto l’art. 669-quater, comma 1 — la misura
cautelare funzionale a quel merito al giudice di Milano secondo il
forum destinatal solutionis (e cosı̀ via), poiché anche quel giudice
« sarebbe stato » in astratto competente a conoscere del merito in assenza di clausola. Il che è manifestamente irragionevole di fronte
alla chiara e generale intentio del legislatore del procedimento cautelare uniforme volta ad assicurare, per quanto possibile, che il giudice effettivamente adito per il merito pronunci sulla cautela.
Neppure può dirsi che la collocazione sistematica dell’art. 669quinquies comporti che tale norma debba necessariamente avere una
autonoma e sua propria incidenza applicativa concreta tutte le volte
che si applichi l’art. 669-quater, comma 1. Ne risulterebbe che, pendente la causa di merito innanzi al giudice statuale, questi, al fine di
stabilire se è competente per la cautela, dovrebbe sempre e comunque indagare sulla sua effettiva competenza per il merito sol perché
in presenza di accordo compromissorio ritualmente eccepito nonché
valido ed efficace. Il che è manifestamente assurdo: il problema del
se la sola pendenza della causa di merito sia o meno sufficiente a radicare la competenza almeno cautelare del giudice adito pur ove in
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realtà incompetente quanto al merito è problema afferente all’interpretazione sistematica dell’art. 669-quater, e va risolto in termini
generali ed unitari. È privo di qualsiasi ragionevolezza far dipendere,
attraverso la intromissione dell’art. 669-quinquies (« il giudice che
sarebbe stato » davvero « competente a conoscere del merito »), la
sua soluzione nel secondo senso — nel senso cioè della necessità del
controllo della reale competenza per il merito — dalla presenza dell’accordo compromissorio; elemento oltretutto che determina o dovrebbe fisiologicamente determinate la carenza di effettiva potestas
iudicandi sul merito.
Probabilmente deve ancor qui constatarsi che la collocazione
sistematica, l’isolamento e la equidistanza dell’art. 669-quinquies
hanno la loro assorbente funzione nel ribadire, a scanso di ogni
equivoco ed in termini generali, la potestà cautelare del giudice statuale nonostante la devoluzione ad arbitri, potestà riconducibile altrimenti solo in via implicita e per cosı̀ dire in negativo all’art. 818 (43).
Altra importante funzione sta nell’equiparare, rispetto a tale potestà
cautelare giudiziale, la semplice sussistenza dell’accordo compromissorio alla pendenza del giudizio arbitrale sul merito, rendendo
dunque quest’ultima — a differenza della pendenza della causa giudiziale sul merito — sostanzialmente irrilevante ai fini della competenza cautelare (44). La presenza ed il tenore generale ed omnicomprensivo dell’art. 669-quinquies giovano infatti ad escludere —
come si è già avuto modo di osservare — che si debba e si possa interpretare estensivamente l’art. 669-quater, comma 5 ed equiparare
al giudice straniero l’arbitro estero, dando alla pendenza della lite di
merito innanzi a questi autonomo e distinto rilievo ai fini della regolamentazione della competenza cautelare (45).
Insomma, nonostante la apparente « equidistanza », l’art. 669quinquies integra la disciplina differenziata della competenza cautelare anteriore alla causa di merito (art. 669-ter) e della competenza
(43) Per un cenno in tal senso v. CECCHELLA, Il processo cautelare, Torino, 1997, 38.
(44) Per tale indifferenza v. già prima della riforma del 1990, e proprio in ipotesi di
arbitrato estero (in relazione ad istanza di sequestro conservativo), Cass. Sez. Un. 2 novembre 1987, n. 8050, ed a riguardo anche SIRACUSANO A., in AA.VV., Codice di procedura civile (a cura di N. Picardi), Milano, 2000, 2414, che sottolinea come tale orientamento giurisprudenziale sia stato poi avallato dalla nuova normativa.
(45) Che l’inciso « quando vi è causa pendente per il merito », di cui all’art. 669quater, comma 1, si riferisca solo alla pendenza innanzi al giudice statuale è già reso evidente da quel che quell’inciso segue: « la domanda [cautelare] deve essere proposta al giudice della stessa ». Vedi anche retro alle note 64 e 67 nel testo, ai richiami delle medesime.
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in corso di causa (art. 669-quater) a misura che ve ne sia bisogno
nell’uno o nell’altro caso, e nell’uno o nell’altro caso con diverso
apporto e diverso grado di incidenza.
Cosı̀ sul primo versante, se l’art. 669-quinquies non vi fosse, la
competenza cautelare anteriore alla pendenza della causa di merito
innanzi al giudice statuale sarebbe determinata, in caso di devoluzione del merito ad arbitri, sempre e comunque dalla regola scritta
all’art. 669-ter, comma 3, con la conseguenza della proposizione
della istanza al giudice del foro della esecuzione della cautela. Perché in assenza di altre apposite, l’espressione « se il giudice italiano
non è competente a conoscere la causa di merito » dovrebbe essere
ragionevolmente riferita (con buona pace delle involuzioni nominalistiche della Cassazione) anche a tutti i casi di carenza di potestas
iudicandi sul merito a motivo di devoluzione ad arbitri interni o
esteri. L’art. 669-quinquies è lı̀ invece, ed opera sempre quale integrazione della disciplina della competenza cautelare ante causam per
il caso di devoluzione del merito ad arbitri, stabilendo regola di
competenza territoriale diversa, a sua volta derogata dal riaffioramento dell’art. 669-ter, comma 3 nella sola e limitata ipotesi della
assenza comunque di giurisdizione italiana sulla lite di merito devoluta ad arbitri, italiani o esteri (46).
Ben minore è invece l’incidenza operativa autonoma dell’art.
669-quinquies rispetto alla disciplina della competenza cautelare in
corso di causa. Del suo ruolo ridimensionante una pur possibile interpretazione estensiva dell’art. 669-quater comma 5 sia già detto.
Per il resto: se l’art. 669-quinquies non vi fosse, una volta iniziata la causa di merito innanzi al giudice ordinario la istanza cautelare andrebbe proposta al giudice della stessa ex art. 669-quater, indipendentemente dalla sussistenza o meno di un qualsivoglia accordo compromissorio; questa conclusione per altro resta ferma,
come si è già osservato, anche in presenza dell’art. 669-quinquies; il
quale dunque non ha in ciò nessuna apprezzabile portata derogatoria
o integrativa rispetto all’art. 669-quater, comma 1.
Sempre ragionando in via congetturale occorrerebbe chiedersi,
nell’assenza dell’art. 669-quinquies, se il giudice adito con la domanda di merito, potrebbe, di fronte all’eccezione fondata su accordo compromissorio valido ed efficace che gli preclude in realtà
(46) V. supra il § 5.2.
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l’esame del merito, nondimeno provvedere sulla istanza cautelare,
ovvero dovrebbe dichiararsi incompetente anche in proposito. Ebbene: la risposta logica e razionale non potrebbe che essere la prima.
Ha infatti senso logico ritenere che proposta la domanda di merito
innanzi al giudice di Roma, in realtà rispetto ad essa incompetente
perché competente è il giudice di Milano, l’attore da un lato non
possa proporre istanza cautelare altrove e neppure a Milano finché
pende il primo giudizio, d’altro lato sia destinato a vedere, in questo,
non accolta per ragione di incompetenza anche la sua eventuale
istanza cautelare. Non ha invece alcun senso, se la « incompetenza »
sul merito del giudice di Roma è da dichiararsi in favore degli arbitri, ritenere che quel giudice debba rendere pronuncia di incompetenza anche riguardo alla istanza cautelare propostagli in pendenza di
giudizio, rinviando in sostanza l’attore alla riproposizione di quella
istanza non già innanzi agli arbitri (che « non possono concedere sequestri o altri provvedimenti cautelari ») bensı̀ innanzi a sé medesimo quale giudice che sarebbe competente per il merito se la devoluzione ad arbitri non vi fosse, ovvero ad altro giudice statuale del
luogo di esecuzione del provvedimento cautelare; nesso territoriale
che, in tal caso, apparirebbe del tutto capriccioso visto che anche
quest’altro giudice sarebbe comunque incompetente sul merito in favore degli arbitri. Insomma: se la istanza cautelare è proposta in
corso di giudizio di merito ed il giudice di essa non è in realtà competente per il merito in ragione della potestas iudicandi arbitrale,
tanto vale considerarlo comunque competente per la cautela piuttosto che costringere l’attore ad una nuova iniziativa solo cautelare e
forzatamente ante causam.
L’art. 669-quinquies vale appunto — con portata integrativa alquanto modesta — a confermare a scanso di ogni equivoco tale soluzione. Il giudice statuale che sarebbe competente per il merito se
l’accordo compromissorio non vi fosse è comunque competente per
la cautela vuoi che questa sia richiesta ante causam, vuoi che sia richiesta nel corso della causa di merito (ecco il senso residuo della
equidistanza topografica dell’art. 669-quinquies rispetto ai giustapposti artt. 669-ter e quater). Applicato alla ipotesi della istanza cautelare in corso di causa ciò significa, né più né meno, che per il giudice di questa sarà indifferente, ai fini della affermazione della propria competenza cautelare, verificare se la propria competenza per il
merito sia davvero da escludersi in favore degli arbitri, e cioè se
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l’accordo compromissorio vi sia, se sia valido e se sia oggettivamente, soggettivamente e temporalmente efficace.
Dal che la risposta, oltre che alla prima, anche alla seconda
delle domande da cui si erano prese le mosse: per il giudice adito
con istanza cautelare litependente è sostanzialmente indifferente che
la controversia di merito sia devoluta ad arbitri interni o ad arbitri
esteri, ed è indifferente perfino sotto il profilo del possibile diverso
regime di validità ed efficacia dell’accordo compromissorio (applicazione o meno dell’art. II della Convenzione di New York ecc.).
6.3. Resta poi — e tuttavia nei suoi termini generali e consueti, indipendenti, salvo un marginale aspetto cui si accennerà, dalla
presenza d’un accordo compromissorio — il problema cui si è già
fatto cenno: se la competenza cautelare ex art. 669-quater, comma 1
sia attribuita attraverso esclusiva relatio alla concreta instaurazione
della causa di merito, prescindendosi dalla competenza di merito legale, in ipotesi, erroneamente individuata dall’attore (47) o se sia vero
il contrario (48).
Nel primo caso la competenza puramente cautelare non potrà
essere negata non solo ove la incompetenza legale per il merito non
sia stata rilevata, neppure subordinatamente alla eccezione di compromesso, e/o non sia più rilevabile ex art. 38 c.p.c., bensı̀ anche ove
essa sia tuttora rilevabile.
Nel secondo caso, invece, il giudice concretamente investito
della causa di merito, pur consapevole di non potersi su di essa pronunciare in primo luogo a motivo della pattuita ed eccepita devoluzione in arbitri, dovrà chiedersi — e ben inteso solo ove la relativa
eccezione ex artt. 18 ss. c.p.c. sia stata, anche subordinatamente, rilevata o sia rilevabile ex offıcio — se egli sarebbe comunque competente in mancanza d’accordo compromissorio, e solo in caso affermativo potrà ritenersi altresı̀ competente per la cautela.
Sebbene il problema non sia fra quelli risolvibili con tranquil-
(47) Cfr., fra le molte, Pret. Prato 7 dicembre 1994, in Foro it., 1995, I, 1400, Pret.
Torre Annunziata, 25 maggio 1995, ivi, 1997, I, 1297 con nota contraria della GAMBINERI,
Pret. Torino 4 luglio 2007, in Giur. it., 1998, 1406, Cass. 9 aprile 1999, n. 3473; in dottrina:
CONSOLO (da ultimo in) Il nuovo processo cautelare. Problemi e casi, Torino, 1998, 135,
MERLIN, Procedimenti cautelari, cit. nota 3, FRUS, in op. cit., 631.
(48) Cfr. Trib. Santa Maria Capua Vetere 9 febbraio 1999, in GIUS, 2000, 67, e in
dottrina CECCHELLA, Il processo cautelare, cit., 18.
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lità, credo che la risposta da preferirsi — in termini generali appunto
e prescindenti dalla variante dell’accordo compromissorio — sia nel
primo senso. Il rischio del forum shopping cautelare che a tale prima
soluzione corrisponde (ridotto parzialmente in linea verticale dalla
eliminazione del pretore e dalla radicale assenza di potestà cautelare
in capo al giudice di pace, ed in linea orizzontale dalla farraginosità
che l’armamentario inteso a praticarlo, in molti casi, comporta) sembra inferiore alle complicazioni, ed alla menomazione di una rapida
ed efficiente tutela cautelare, che la seconda soluzione implica nella
ipotesi di competenza legale per il merito davvero dubbia e difficilmente decifrabile.
Proprio quando vi sia di mezzo l’accordo compromissorio —
per arbitrato interno o estero poco importa — la prima soluzione
prospetta un ulteriore, marginale, grado di ragionevolezza pratica:
seguendo la seconda soluzione infatti il giudice adito con la causa di
merito, pur sicuro dalla carenza della relativa potestas indicandi a
motivo della devoluzione del merito ad arbitri, dovrebbe imbarcarsi
nello scioglimento della astratta questione di competenza per il merito senza alcuna utilità ai fini della chiusura del giudizio principale,
piuttosto che avvalersi, ai fini immediati della cautela, dell’ancoraggio semplificatorio plausibilmente ricavabile dall’art. 669-quater,
comma 1.
Se preferibile, la prima soluzione, deve esserlo per un minimo
di coerenza e per le stesse ragioni pratiche anche quando sia in
campo, piuttosto che questione di competenza legale, questione di
giurisdizione per la causa di merito.
Il giudice richiesto di misura cautelare in corso di causa non
dovrà interrogarsi, onde provvedere su di essa, sul se sussista o meno
la giurisdizione italiana per il merito, ovvero se essa sussisterebbe
qualora l’accordo compromissorio, per arbitrato interno o estero, non
vi fosse (49).
(49) Seguendo l’altra delle due cennate impostazioni il giudice — il quale comunque non potrebbe mai dichiararsi privo di potestas iudicandi di cautelare sol perché la potestas iudicandi per il merito è deferita ad arbitri (v. supra nel testo) — dovrebbe invece
verificare il suo difetto attuale o (in caso di accordo compromissorio) ipotetico di giurisdizione internazionale per il merito ed estenderlo anche rispetto alla cautela, qui però
trasformandolo da difetto di giurisdizione in difetto di competenza territoriale cautelare,
perché certamente l’istanza cautelare dovrebbe poter essere riproposta, ex art. 669-ter,
comma 3, ante causam, innanzi al giudice del luogo di esecuzione del provvedimento. Ma
in base a quale magia può avvenire siffatta trasformazione di un difetto di giurisdizione
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O meglio non dovrà chiederselo al fine di stabilire se è stata
legittimamente richiesta la cautela in corso di causa. Quel giudice
dovrà invece senz’altro chiedersi se sussista tout court la giurisdizione cautelare italiana. Il che a fronte di accordo compromissorio
per arbitrato interno o estero equivale — come si è già spiegato —
comunque a chiedersi se in sua assenza la causa di merito rientrerebbe nell’ambito della giurisdizione italiana o se, alternativamente, il provvedimento cautelare richiesto sia destinato ad esecuzione in Italia.
Ma una volta verificato che il suo titolo di giurisdizione cautelare consiste solo in questo secondo criterio di collegamento, quel
giudice potrà provvedere sulla istanza cautelare in virtù del solo fatto
di essere stato già adito per il merito, anche se sul merito dovrà poi
dichiararsi privo di giurisdizione e dovrebbe dichiararsi tale perfino
se l’accordo compromissorio non vi fosse, ed anche se non è egli il
giudice del luogo di esecuzione della cautela, il giudice cioè che sarebbe stato competente per la medesima istanza cautelare se proposta ante causam.
Nuova esca al forum shopping, ma ancor qui non tale da lasciar
preferire una diversa impostazione (50).
per il merito in difetto di competenza cautelare? E se norme o magie sistematiche idonee
non vi sono dovrà concludersi che il giudice già investito dalla causa principale è comunque munito di potestas cautelare anche se privo di giurisdizione per il merito. E allora
come giustificare, sul piano dell’equilibrio e della coerenza concreta, che ciò non accade,
sempre seguendo la seconda impostazione, quando il giudice adito sia privo di competenza per il merito. Insomma: complicazioni ulteriori, e ragione di più per aderire alla
prima impostazione.
(50) Il rischio del forum shopping, pur mai trascurabile, è uno spauracchio che
non va gonfiato a dismisura ed alle volte merita di essere opportunamente sgonfiato, specialmente quando lo shopping concerne fori vicini ed omogenei fra loro: nel caso evocato
nel testo, più tribunali ordinari italiani. Si pensi poi se ed in quale misura (e quanto raramente) il gioco dello shopping possa valere la candela, e proprio e per far solo un esempio ove vi sia di mezzo un accordo compromissorio per arbitrato estero. Dunque: al solo
scopo di richiedere la cautela piuttosto che al tribunale di Milano (giudice del luogo di
esecuzione della misura, competente perciò ante causam ex art. 669-ter, comma 3) al tribunale di Firenze, una parte dovrebbe instaurare la causa di merito innanzi a quest’ultimo
onde poterlo adire con richiesta cautelare in corso di causa, e rischiare fra l’altro anche
la vanificazione del patto arbitrale, per propria rinuncia implicita, ed ove l’altra parte non
svolga l’eccezione di compromesso, per poi andare incontro a declinatoria della giurisdizione (e perciò a perdita di efficacia della cautela se nel frattempo impartita) ove il giudice italiano non ne sia munito per il merito neppure in astratto ed a prescindere dal patto
arbitrale.
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The topic addressed by the Author is the following: whether and to what extent an arbitration clause which defers the merits of the dispute to a foreign arbitration is capable of leading consequences over the potestas iudicandi of the Italian Courts in respect with interim measures.
The matter is first of all dealt with by referring to the jurisdiction on interim
measures, in light of the principles of international private law currently in force.
It is then analysed with reference to the assessment of domestic territorial jurisdiction for granting interim measures.
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Impugnativa in via arbitrale
della delibera di approvazione del bilancio
LAURA SALVANESCHI (*)
1. Premessa. — 2. La lesione del diritto alla chiarezza e veridicità del bilancio è tutelata da un sistema di azioni a carattere disponibile. — 3. La disciplina dell’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 consente la sottoposizione ad arbitrato di
tutte le liti aventi ad oggetto una delibera assembleare. — 4. La parola alla
giurisprudenza. — 5. Conclusioni.
1. Chi sceglie oggi di inserire nello statuto di una società una
clausola compromissoria, lo fa in genere perché confida nella maggiore celerità che l’opzione per l’arbitrato dovrebbe garantire. Tuttavia, nella permanente situazione di crisi della giustizia ordinaria, anche l’arbitrato societario perde di frequente la capacità di soddisfare
l’esigenza di giungere in tempi brevi alla risoluzione della lite a
causa della scarsa chiarezza su ciò che ne può essere l’oggetto, con
conseguenti costanti eccezioni di non arbitrabilità della controversia.
Il sistema del doppio binario consacrato dall’art. 819-ter c.p.c., che
consente sia agli arbitri che al giudice di conoscere di una causa nonostante la sua pendenza davanti all’altro organo, rende poi possibile, nell’incertezza di quale sia l’ambito oggettivo della sfera di decisione arbitrale, che la stessa lite societaria penda sia davanti al giudice che al collegio arbitrale, ognuno sovrano nel decidere della propria competenza, a tutto discapito dei valori della celerità del giudizio e della certezza della decisione.
Ragione preponderante di quanto precede è la scarsa chiarezza
che ancora sussiste in ordine alla possibilità o meno di fare oggetto
di decisione arbitrale la invalidità di una delibera assembleare che
incida su interessi non dei singoli soci, ma della collettività sociale.
Io credo che oggi, dopo la riforma del diritto societario, tutte le
(*)
Professore ordinario nella Università Statale di Milano.
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azioni che hanno ad oggetto la validità di una deliberazione dell’assemblea possano essere decise in via arbitrale e tra queste anche
quella di approvazione del bilancio di esercizio, che coinvolge interessi non solo dell’intera collettività sociale, ma addirittura dei soggetti terzi che sulle risultanze delle scritture contabili fanno affidamento per valutare lo stato della società il cui bilancio è in discussione.
2. La disciplina delle azioni che hanno ad oggetto la validità
delle deliberazioni di approvazione del bilancio sociale, siano esse
motivate da ragioni di annullabilità che di nullità, è regolata in via
generale dagli artt. 2377 e 2379 c.c.. Integra poi questa disciplina il
successivo art. 2434-bis c.c. che prevede che le azioni di cui alle due
norme appena richiamate non possano essere proposte dopo che sia
avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo.
Le norme generali che disciplinano oggi il sistema di invalidità
delle deliberazioni assembleari sono pacificamente tese a garantire la
stabilità delle delibere che ne sono l’oggetto (1). Al di là delle qualificazioni formali dei possibili vizi di una delibera in termini di annullabilità o di nullità, il sistema delineato dagli artt. 2377-2379 c.c.
regola infatti azioni che si connotano per la loro quasi generalizzata
sanabilità, anche attraverso meccanismi specifici di correzione e di
modifica.
Cosı̀ è per le azioni di annullamento regolate dall’art. 2377 c.c.,
ritenute pacificamente possibile oggetto di valutazione arbitrale (2),
sia in ragione dei termini per la loro proposizione, sia, e forse soprattutto, in ragione della norma, di per sé non innovativa, con cui il legislatore delegato, seguendo le direttive della legge delega di prevedere anche la « possibilità di modifica e integrazione delle deliberazioni assunte » (3), ha ribadito la sostituibilità della delibera viziata
(1) Cfr. D. SPAGNUOLO, in AA.VV., La riforma delle società, a cura di M. Sandulli e
V. Santoro, 2/I, Torino, 2003, sub art. 2377 c.c., 345; ASSOCIAZIONE DISIANO PREITE, Il nuovo
diritto delle società, a cura di G. Olivieri, G. Presti, F. Vella, Bologna, 2003, 128.
(2) Cfr. S. CHIARLONI, Appunti sulle controversie deducibili in arbitrato societario e
sulla natura del lodo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 123 s., in particolare 131; F. CORSINI,
L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1289; E. ZUCCONI GALLI
FONSECA, La convenzione arbitrale nelle società dopo la riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2003, 938.
(3) Cfr. art. 4, comma 7, lett. b).
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« con altra presa in conformità della legge o dello statuto » (4), introducendo altresı̀ la previsione che la deliberazione annullabile possa
essere modificata anche su suggerimento del giudice adito per la
trattazione della causa (5). Nonostante il vizio che ne comporterebbe
l’annullabilità, la lite avente ad oggetto l’invalidità della delibera annullabile può trovare dunque una composizione a carattere conciliativo attraverso la sua sostituzione, oppure il vizio può trovare sanatoria grazie all’inutile decorso del tempo previsto per l’esperimento
dell’azione con il consolidamento della delibera viziata.
Anche quando la decisione assembleare sia impugnata in relazione a un vizio che ne comporti la nullità, le conclusioni sono poi
del tutto analoghe. Ed infatti, nonostante si tratti di nullità rilevabile
da chiunque vi abbia interesse, le azioni volte a far valere la mancata convocazione dell’assemblea, la mancanza del verbale e l’impossibilità o illiceità dell’oggetto della deliberazione, disciplinate
dall’art. 2379 c.c. nella sua prima parte, sono soggette ad un termine
di decadenza di tre anni dalla iscrizione o deposito della delibera oggetto di impugnazione nel registro delle imprese, limite che si abbrevia con riferimento alle delibere di cui all’art. 2379-ter. Ciò significa
che la parte può disporre (6) del proprio diritto all’impugnazione in
modo del tutto simile a quanto avviene in materia di delibere annullabili (7). Conferma di quanto precede è la circostanza che anche in
questi casi è prevista la possibilità di pervenire ad una sostanziale
transazione della lite attraverso l’applicazione dell’art. 2377, comma
7, c.c., espressamente richiamato dall’ultimo comma dell’art. 2379
c.c., laddove per transazione intendo la sostanziale composizione
della lite attraverso un accordo che può avere un contenuto anche
diverso dalla pronuncia che le parti potrebbero ottenere dal giudice,
ma capace comunque di condurre a soluzione la controversia giudiziale in atto, come può essere specificamente un accordo che impegni la società a convocare una nuova assemblea con all’ordine del
giorno la revoca di quella impugnata (8).
Alle azioni che hanno ad oggetto una delibera di approvazione
(4) Cfr. art. 2377, comma 7, c.c.
(5) Cfr. art. 2378, comma 4, c.c.
(6) Cosı̀ D. SPAGNUOLO, in AA.VV., La riforma, cit., sub art. 2379 c.c., 376.
(7) Nello stesso senso F. CORSINI, L’arbitrato nella riforma, cit., 1289; E. ZUCCONI
GALLI FONSECA, in AA.VV., Arbitrati speciali, commentario a cura di F. Carpi, Bologna, 2008,
Arbitrato societario, sub art. 34, 77 s.; S. CHIARLONI, Appunti sulle controversie, cit., 131.
(8) Cosı̀ S. CHIARLONI, op. loc. ult. cit.
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del bilancio si applica esattamente la stessa disciplina richiamata e,
quindi, sia l’azione di annullamento che quella di nullità della delibera stessa sono caratterizzate sia dalla consueta forma di componibilità della lite per il tramite della sostituzione della delibera viziata
con altra che non presenti i medesimi vizi, in applicazione degli artt.
2377, comma 8 e 2379, ult. comma, c.c., che dalla restrizione del
termine per la proposizione dell’azione, che è delimitato dall’approvazione del bilancio dell’anno successivo. L’ultima norma richiamata, in particolare, risponde ai principi che informavano la novella
societaria, richiedendo al legislatore delegato l’elaborazione di una
disciplina dei vizi delle delibere assembleari tale da « contemperare
le esigenze di tutela dei soci e quelle di funzionalità e certezza dell’attività sociale » (9) ed è volta a favorire la stabilità della delibera
di approvazione del bilancio, esigenza quest’ultima particolarmente
avvertita con riferimento a questa deliberazione, che incide in modo
significativo sui profili organizzativi della società, condizionando
l’esercizio dell’attività di impresa (10). È in questa prospettiva dunque che deve leggersi la norma di cui all’art. 2434-bis c.c., che persegue l’obiettivo di impedire l’incertezza che colpirebbe altrimenti
una decisione particolarmente importante come quella relativa al documento che attesta i risultati dell’esercizio sociale, perché laddove
l’impugnativa non fosse preclusa, il suo successivo accoglimento
potrebbe riflettersi sui bilanci successivi, accentuando il pericolo di
incertezza (11).
Il legislatore della riforma societaria, pur nella convinzione che
la delibera di approvazione del bilancio viziata da motivi di nullità
abbia oggetto illecito (12), ha dunque comparato due interessi, entrambi di carattere generale, quello alla rimozione delle cause di in-
(9) Art. 4, comma 7, lett. B della legge delega.
(10) Cosı̀ D. SPAGNUOLO, in AA.VV., La riforma delle società, cit., sub art. 2434/II,
p. 856; nel volume edito da ASSOCIAZIONE DISIANO PREITE, Il nuovo diritto delle società, cit.,
199 si chiarisce inoltre che la norma contempera l’esigenza che il bilancio possa essere impugnato da chiunque vi abbia interesse, a tutela degli interessi superiori ad esso connessi, con
quella di stemperare l’inconveniente che il bilancio rimanga cosı̀ soggetto al rischio di contestazioni, anche pretestuose e ricattatorie, di qualunque interessato, con il rischio di instabilità generalizzata della contabilità.
(11) Cosı̀ S. PESCATORE, Manuale di diritto commerciale, a cura di V. Buonocore, Torino, 2004, 291.
(12) La relazione di accompagnamento al decreto delegato precisa infatti che l’art.
2434-bis c.c. si applica quantunque « in essa di possa ravvisare una deliberazione con oggetto
illecito ». Cfr. D. SPAGNUOLO, op. cit., 856 in nota 5.
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validità di un bilancio non veritiero e quello alla stabilità della delibera e ha scelto di privilegiare il primo fino al momento in cui non
sia approvato il bilancio dell’anno successivo, mentre ha sottratto poi
la delibera di approvazione ad ogni possibilità di caducazione (13),
sacrificando il valore di veridicità e di chiarezza a quello di stabilità.
Oltre il limite scandito dall’art. 2434-bis c.c., infatti, anche qualora
la rappresentazione globale della situazione economica e patrimoniale della società non sia veritiera, i soci e i terzi da ciò danneggiati
non potranno più agire per invalidare la delibera viziata, ma solo per
conseguire il ristoro patrimoniale del danno subito attraverso l’esperimento di un’azione risarcitoria nel termine di prescrizione quinquennale (14). Ciò significa che, se in alcuni casi il principio di continuità dei bilanci farà sı̀ che il vizio non censurato sia riprodotto nel
bilancio successivo ed eventualmente eliminato attraverso la sua impugnazione, in altri casi potrà ben avvenire che la posta iscritta in
modo non conforme ai principi regolatori della materia non sia più
parte del bilancio dell’anno successivo (15), con conseguente consolidazione della delibera viziata.
Se si confrontano questi dati con la tutela tipica dei diritti indisponibili in materia extrasociale, ci si avvede che il diritto alla veridicità e correttezza della situazione patrimoniale e finanziaria della
società non è fornito dall’attuale ordinamento societario dello stesso
tipo di tutela che connota i primi. Non può succedere infatti, ad
esempio, che la lesione del diritto di un minore al mantenimento, alla
cura, all’istruzione e all’educazione si consolidi e diventi non più
censurabile, o che l’azione volta alla declaratoria di nullità di un
contratto di compravendita di un organo del corpo umano non sia più
esperibile a causa del decorso di un termine. Analizzando i dati normativi richiamati, ci si avvede che il sistema delle impugnazioni
delle deliberazioni assembleari disegnato dalla riforma del diritto societario non correda i diritti che ne sono l’oggetto della tutela tipica
dei diritti indisponibili e disciplina invece un sistema di azioni caratterizzato dalla disponibilità (16), con il conseguente riflesso della
piena possibilità per gli arbitri di decidere della materia in esame.
(13) Cosı̀ S. PESCATORE, Manuale, cit., 292.
(14) Cfr. D. SPAGNUOLO, op. cit., 857.
(15) In quanto ad esempio riferita a una voce non più rappresentativa della situazione
patrimoniale della società.
(16) Cfr. S. CHIARLONI, Appunti sulle controversie, cit., 131.
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Nonostante il diritto ad una rappresentazione chiara, corretta e veritiera della situazione patrimoniale e finanziaria della società non sia
di per sé negoziabile, la sua lesione non è tutelata con la forza tipica
delle situazioni indisponibili, ma ha invece la caratteristica tipica
della tutela dei diritti disponibili che le consente di consolidarsi con
il passaggio di un determinato lasso di tempo. D’altra parte, allo
stesso modo, il diritto della collettività sociale a che gli amministratori adempiano i loro doveri con la diligenza richiesta dalla legge
non è negoziabile, posto che non è immaginabile un accordo con cui
si consenta agli organi sociali di agire senza la dovuta diligenza dietro corresponsione di una somma di denaro, ma è tutelato con
un’azione che è pacificamente possibile oggetto di transazione e di
arbitrato. Ciò significa che quello che rileva ai fini della inclusione
dei diritti sociali nel campo dell’area della disponibilità non è tanto
la negoziabilità del diritto, difficilmente riscontrabile nell’area dei
diritti in questione, quanto piuttosto la disponibilità dell’azione che
ne caratterizza la protezione, con conseguente inclusione in quest’area di tutte le azioni che riguardano il sistema che presidia la validità delle delibere assembleari.
3. Alle stesse conclusioni di piena arbitrabilità di tutte le
azioni che hanno ad oggetto la validità di una delibera assembleare
si può poi giungere percorrendo la strada, diversa ma parallela, dell’interpretazione del testo degli artt. 34 s. D.Lgs. n. 5/2003 che, pur
connotato da un certo grado di ambiguità, consente di pervenire allo
stesso risultato.
La materia della impugnazione delle delibere assembleari riceve infatti nel contesto delle norme riservate all’arbitrato societario
una disciplina a sé (17), regolata dall’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003. Questa norma dispone infatti che « gli arbitri debbono decidere secondo
diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell’art. 829, secondo
comma, del codice di procedura civile quando per decidere abbiano
conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari ». La decisione sulla validità delle delibere assembleari e la
(17) Nello stesso senso E. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 2003, 517 s., in particolare 521, ove l’Autore delinea le liti aventi ad oggetto la validità
delle delibere assembleari quale categoria a sé, avente carattere indisponibile e, ciononostante, dichiarata arbitrabile dagli artt. 35 e 36 del D.Lgs. n. 5/2003.
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cognizione in via incidentale di questioni non compromettibili sono
dunque, nel contesto della regolamentazione dell’arbitrato societario,
materie sottoposte a una tutela rafforzata, che non consente né il giudizio di equità, né l’esclusione dell’impugnazione per violazione di
regole di diritto (18). Ed è proprio la sottoposizione a tale tutela rafforzata che chiarisce che tutte le azioni di impugnazione di una delibera assembleare, compresa l’impugnativa di bilancio, sono possibile oggetto di giudizio arbitrale. Infatti, nonostante il primo comma
dell’art. 34 D.Lgs. n. 5/2003 abbia chiarito che possibile oggetto di
arbitrato societario sono solo i diritti disponibili relativi al rapporto
sociale, il successivo art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 chiarisce che in tale
oggetto sono ricomprese tutte le azioni di impugnazione di delibere
assembleari, incidano esse su diritti dei singoli soci, oppure su quelli
della collettività. Infatti, se oggetto di arbitrato societario potessero
essere solo le prime, non avrebbe alcun senso la disposizione dell’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 con la sua previsione di una tutela rafforzata per le ipotesi in cui oggetto del giudizio arbitrale sia costituito
dalla validità di delibere assembleari; non vi sarebbe infatti alcun
motivo di escludere il giudizio di equità e la limitazione dell’impugnazione, se voluti dalle parti, qualora oggetto dell’arbitrato societario fossero, per definizione, le sole delibere che coinvolgono interessi
dei singoli; tale esclusione si giustifica invece se si pensa che, a
monte, tutti i giudizi aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari sono possibile oggetto di arbitrato societario, senza alcuna distinzione in relazione al tipo di interesse che le stesse proteggono.
Nel dettare l’art. 36 del D.Lgs. n. 5/2003 il legislatore, avendo presente che un consolidato orientamento giurisprudenziale predicava
l’indisponibilità delle liti aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari riguardanti interessi collettivi, nel modificarne la disciplina
(18) Il perno dell’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 è costituito dal vecchio testo dell’art. 829
c.p.c. e la norma dovrebbe essere oggi modificata per mantenerne quello che ne è il sicuro
significato: il lodo societario che abbia ad oggetto la validità di una delibera assembleare è
sempre impugnabile per violazione delle regole di diritto, nonostante il rovesciamento apportato dal legislatore del 2006 alla regola espressa nel corpo normativo dell’art. 829 c.p.c. Cosı̀,
poiché il secondo comma dell’art. 829 c.p.c. non si riferisce più all’impugnazione del lodo
per violazione di regole di diritto, il richiamo va ora compiuto al successivo terzo comma e,
posto che quest’ultimo rende oggi impugnabile il lodo per violazione di regole di diritto solo
se ciò è espressamente disposto dalle parti o dalla legge, l’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 finisce
col costituire un’ipotesi in cui l’impugnazione in questione è espressamente disposta dalla
legge. Per analoga considerazione cfr. P. BIAVATI, in AA.VV., Arbitrati speciali, Commentario a cura di F. Carpi, Bologna, 2008, sub art. 35, 145.
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sostanziale in modo tale da ricondurle nell’alveo dell’arbitrato, ha
imposto per l’intera categoria delle liti in questione il giudizio di diritto e il controllo illimitato del lodo (19), proprio in considerazione
della circostanza che alcune di esse involgono interessi di carattere
generale. Insomma, la tutela rafforzata prevista dal legislatore all’art.
36 D.Lgs. n. 5/2003 è in funzione del tipo di diritto oggetto di cognizione arbitrale, che può essere indisponibile se la cognizione è
meramente incidentale, mentre riguarda la validità delle delibere assembleari di ogni tipo e natura, compresa quella che ha ad oggetto la
validità del bilancio di esercizio, se avviene in via principale (20).
4. Se, ferme queste considerazioni, si esamina la giurisprudenza in materia ed in particolare quella che, sulla base dell’orientamento tradizionale che sancisce la nullità per illiceità dell’oggetto
della delibera di approvazione del bilancio in difformità dei principi
di chiarezza e precisione dello stesso (21), trae da tale conclusione la
conseguenza che si tratterebbe di materia indisponibile, in quanto
tale sottratta al potere decisorio degli arbitri, si avverte una dissonanza netta tra le scelte operate dal legislatore del 2003 e la conclu(19) In senso analogo F.P. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc.,
2003, 705 s., in particolare 709-710 ove la tutela rafforzata di cui all’art. 36 D.Lgs. n. 3/2007
viene considerata indizio non trascurabile di una volontà legislativa di tagliar corto per
quanto riguarda l’arbitrabilità delle delibere; G. MICCOLIS, Arbitrato e conciliazione nella riforma del processo societario, in www.judicium.it, par. 5.
(20) Questa, nella sostanza, con la sola eccezione delle impugnative delle delibere di
approvazione del bilancio per violazione delle norme dirette a garantirne la chiarezza e la
precisione, eccezione che non condivido e su cui tornerò quindi specificamente infra sub par.
4, è la conclusione raggiunta anche dalla Cassazione che, con sentenza 23 febbraio 2005, n.
3772 ha ricondotto al disposto dell’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 la possibilità di devolvere alla
cognizione di arbitri la validità delle delibere assembleari e ha svolto rilievi critici avverso
l’orientamento che distingue tra diverse delibere assembleari, riconoscendo o negando la
compromettibilità della controversia a seconda che l’oggetto della delibera impugnata coinvolgesse interessi individuali dei soci, ovvero interessi di carattere generale. Secondo la S.C.,
infatti, la natura sociale o collettiva dell’interesse non potrebbe « valere ad escludere la deferibilità della controversia al giudizio degli arbitri, poiché la presenza di tale carattere denota soltanto che l’interesse è sottratto alla volontà individuale dei singoli soci, ma non implica che uguale conseguenza si determini anche rispetto alla volontà collettiva espressa dalla
società (o da altro gruppo organizzato) secondo le regole della rispettiva organizzazione interna, la cui finalità è proprio quella di assicurare la realizzazione più soddisfacente dell’interesse comune dei partecipanti ». Chiara e apprezzabile nello stesso senso la motivazione del
Trib. Como, 29 settembre 2006, n. 1337, in Le società, 2007, 1277, con nota critica di F.
FANTI.
(21) Cfr., tra le altre, Cass. 22 gennaio 2003, n. 928; Cass. 21 febbraio 2000, n. 27;
Cass. 8 agosto 1997, n. 7398.
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sione, tratta da alcune pronunce anche posteriori al 2003, che la materia in esame non sia arbitrabile.
La Cassazione infatti (22), nell’unica sentenza edita successiva
al 2003 che tratta specificamente di questi temi, pur avendo ben
chiarito che la riforma del diritto societario ha portato con sé l’esplicito riconoscimento che le controversie aventi ad oggetto la validità
delle delibere assembleari possono essere devolute alla cognizione
arbitrale, proprio con riferimento alla impugnativa di bilancio ha ribadito una non condivisibile conclusione negativa.
Cosı̀, richiamata la giurisprudenza precedente che legava l’arbitrabilità delle decisioni in esame alla deduzione in giudizio di interessi dei singoli soci, riservando invece al giudice ordinario la decisione su interessi della collettività sociale, la Suprema Corte ha
chiarito che l’area della indisponibilità del diritto non coincide con
quella degli interessi superindividuali, ma è più ristretta, precludendo
ciò la possibilità di escludere l’arbitrato sulla base della sola natura
sociale e collettiva dell’interesse dedotto in giudizio. Ad avviso della
Cassazione, infatti, un interesse sottratto alla volontà individuale dei
singoli non è sottratto alla volontà collettiva espressa dalla società ed
indirizzata ad assicurare il miglior soddisfacimento dell’interesse comune dei partecipanti. Tuttavia, dopo questa premessa del tutto condivisibile, la Cassazione scivola su una conclusione opinabile, identificando l’indisponibilità del diritto con la sua protezione attraverso
norme inderogabili (23), la cui violazione determinerebbe una reazione dell’ordinamento svincolata da una qualsiasi iniziativa di parte
e porta ad esempio di ciò che sarebbe in tal senso inderogabile proprio le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio, dalla cui violazione nascerebbe una delibera nulla
in quanto illecita. Cosı̀ opinando, tuttavia, la Suprema Corte non
tiene conto della nuova realtà normativa: la circostanza che la delibera in questione sia nulla per illiceità dell’oggetto non fa infatti che
porla nel campo di applicazione dell’art. 2379 c.c., norma quest’ul-
(22) Cfr. Cass. 23 febbraio 2005, n. 3772.
(23) Nello stesso senso Trib. Milano, 30 aprile 2008, che da Trib. Bari, 21 giugno
2007, n. 1643 che danno peso, tuttavia, anche alla circostanza che le norme in questione tutelano interessi di natura collettiva, dimenticando che, proprio perché il processo societario
ha comunque un oggetto tipicamente collettivo, la disponibilità che rileva ai fini della sua
qualificazione è quella della volontà collettiva e l’interesse in gioco, anche se sottratto alla
volontà individuale del socio può rimanere disponibile per la volontà collettiva, proprio come
avviene nel caso in esame in applicazione degli artt. 2377 e 2379 c.c.
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tima che, come si è visto, disciplina oggi un’azione dotata di caratteristiche che non si adattano alla tutela di diritti caratterizzati da indisponibilità. Non solo, l’identificazione tra indisponibilità del diritto
e ciò che è regolato da norme inderogabili è da tempo superata da
una pacifica elaborazione dottrinale (24) che ha chiarito che l’inderogabilità delle norme poste a tutela di determinati interessi non implica di per sé indisponibilità delle situazioni giuridiche soggettive
che vi sono sottese, ma semplicemente il dovere degli arbitri di applicare la norma di carattere inderogabile esattamente come lo fa il
giudice.
Se poi si guarda alle motivazioni della giurisprudenza di merito
e arbitrale ancora orientate verso la conclusione della non arbitrabilità dell’azione di impugnazione del bilancio, ci si avvede che anch’esse non tengono conto delle caratteristiche positive del sistema
richiamato. Quando, pur riconoscendosi che l’indisponibilità del diritto del socio all’accertamento della non conformità del bilancio alle
norme di legge che presiedono la sua redazione non deriva dalla indisponibilità della correlativa azione « essendo certamente legittima
l’eventualità della sua rinuncia a ottenere una pronuncia giudiziale,
avente efficacia di cosa giudicata », si sostiene che, nonostante ciò,
l’indisponibilità del diritto in questione deriverebbe « dal fatto che
l’eventuale rinuncia da parte del socio all’azione di nullità della deliberazione di un bilancio contenente una rappresentazione non veritiera e corretta e privo di chiarezza non fa venir meno l’esigenza
dell’ordinamento, a tutela della regolarità del traffico giuridico, che
vengano rimosse le cause che hanno determinato la non conformità
del bilancio alle norme di legge che presiedono alla sua redazione »
e dal fatto che, anche in caso di rinuncia all’azione da parte del socio « rimarrebbe pur sempre non sanata una (grave) irregolarità nel
funzionamento dell’organizzazione societaria » (25), non si tiene in
(24) Cfr. per tutti E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato, cit., II ed., sub art. 806, 22.
(25) Si tratta di una pronuncia arbitrale inedita con cui il collegio arbitrale, a conclusione di un procedimento amministrato dalla Camera Arbitrale Nazionale e Internazionale di
Milano (prot. n. 7308, Lodo 23 luglio 2009, Presidente prof. avv. Luigi Arturo Bianchi, arbitri avv.ti prof. Eugenio Dalmotto e Federico Sutti) ha statuito in ordine alla delibera di approvazione del bilancio di una S.p.a., censurata sotto il profilo della violazione delle disposizioni di legge relative al procedimento di approvazione, non essendo stato effettuato il prescritto deposito presso la sede sociale nei 15 giorni precedenti la data dell’assemblea, nonché
sotto quello della violazione dei principi di fedeltà, chiarezza ed esaustiva informazione del
bilancio con riferimento ad ulteriori quattro censure, di essere competente solo con riferi-
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debito conto che l’ordinamento non persegue tale esigenza di rimozione. La lesione in questione, infatti, decorso il termine di cui all’art. 2434-bis c.c., si cristallizza e può trovare ristoro solo il danno
che ne consegue. Quanto poi alla ritenuta indisponibilità del diritto
in questione si ricollega « al diritto anche dei terzi, ai quali il bilancio si indirizza istituzionalmente, in ragione della obbligatoria pubblicità al quale detto documento è assoggettato, di riporre pieno affidamento sulla idoneità del bilancio a fornire una rappresentazione
veritiera e corretta e con chiarezza della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato di esercizio della società » (26), non si tiene
in debito conto che a questo interesse il legislatore ha comunque anteposto con riferimento all’impugnativa in questione un interesse diverso, anch’esso appartenente alla generalità dei consociati, l’interesse cioè alla stabilità della delibera di approvazione del bilancio,
comunque garantita dopo il decorso del termine di cui all’art. 2434bis c.c. Tra i due interessi in questione il legislatore con la norma da
ultimo richiamata ha dimostrato infatti di privilegiare quello dei consociati alle stabilità delle delibere in questione, anche a discapito
della sua correttezza e veridicità.
Alle pronunce che concludono per la non arbitrabilità della impugnazione della delibera in questione, fanno però da contraltare altre sentenze di merito sia inedite (27), che edite che si pongono in-
mento alla domanda di annullamento della delibera per vizi del relativo procedimento, mentre ha dichiarato la propria incompetenza a decidere sull’invalidità della delibera stessa per
violazione dei principi di veridicità, correttezza e chiarezza. Ad avviso del collegio, infatti,
« la compromettibilità in arbitri della controversia relativa agli asseriti vizi di approvazione
del bilancio » non può fondatamente venir posta in discussione. « Invero, in base ai principi
dell’ordinamento societario, l’omesso o il tardivo deposito di uno dei c.d. allegati al bilancio
di esercizio ... determina l’annullabilità della relativa deliberazione » e « nelle ipotesi di annullabilità il singolo, mediante il compromesso in arbitri o la clausola compromissoria ... dispone non già della disciplina inderogabile, ma del proprio concreto interesse alla sua osservanza ». Viceversa, secondo il Collegio, « a opposta conclusione ... deve pervenirsi con riferimento alla questione della compromettibilità in arbitri di controversie aventi ad oggetto vizi
consistenti nella violazione da parte degli amministratori dei precetti della chiarezza e della
rappresentazione in modo veritiero e corretto della situazione patrimoniale e finanziaria nonché del risultato di esercizio nell’ambito del bilancio di esercizio, ossia di deliberazioni che,
secondo l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale dominanti, sarebbero affette da nullità ».
(26) Il passo è tratto dalla motivazione del lodo arbitrale citato nella nota che precede.
(27) Si tratta delle sentenze del Trib. Vigevano, 2 ottobre 2009, n. 599 e 5 ottobre
2009, n. 618, pronunciate dal Collegio composto dai Sigg.ri Giudici A.M. Peschiera - Presidente, Jacopo Blandini Estensore e Chaiara Russo; nonché 2 ottobre 2009 nn. 674-675, pro-
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vece nel solco della piena arbitrabilità dell’impugnativa di bilancio.
Quanto alle prime, si tratta di una serie di pronunce del Tribunale di
Vigevano che, nel dichiarare la propria incompetenza a conoscere
delle impugnazioni di bilancio rispetto alle quali era stato adito, ha
riconosciuto la piena compromettibilità della materia in questione,
rilevando come « tale conclusione adottata in via interpretativa, appaia ad oggi anche normativamente suffragata dall’introduzione di
specifiche disposizioni normative di diritto sostanziale che, da una
parte limitano temporalmente la possibilità di impugnazione delle
delibere sociali anche nel caso di denunzia dei vizi più radicali (cfr.
artt. 2479-ter c.c., 2434-bis c.c. e 2377 c.c.) e dall’altra prevedono
anche la possibilità di sanatoria, nonché specifici effetti preclusivi
(destinati ad operare erga omnes) proprio per l’impugnazione (cfr.
art. 2434-bis c.c.) della delibera assembleare di approvazione del bilancio », ritenendo inoltre « che tali precise e specifiche direttive
normative (di recente introduzione), non appaiono più coniugarsi con
l’esigenza di una tutela indisponibile (e quindi sottratta agli strumenti negoziali dell’autonomia privata) di interessi collettivi di natura ultraindividuale e metasociale, né sembrano connotare come disciplina di ordine e natura pubblicistica (e, quindi, posta a tutela di
una materia vertente su diritti ovvero su posizioni soggettive indisponibili e riferibili a una collettività indifferenziata) » quella concernente l’impugnazione di bilancio.
Quanto alle pronunce edite, vanno poi segnalate alcune decisioni che aderiscono in pieno all’impostazione che ho cercato di rappresentare, riconoscendo che l’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 prevede che
il giudizio arbitrale possa avere ad oggetto tutte le delibere assembleari, con superamento di ogni distinzione tra delibere che riguardano l’interesse individuale e quello collettivo, ovvero la natura derogabile o inderogabile della norma violata, perché gli interessi di
carattere generale trovano tutela nella previsione della necessaria
impugnabilità del lodo per violazione di norme di diritto e pieno riconoscimento che il diritto di impugnare una delibera assembleare
costituisce un diritto disponibile, dati i caratteri della normativa sostanziale precedentemente richiamati, facendone conseguire la piena
deferibilità ad arbitri dell’impugnativa di bilancio (28).
nunciate dal Collegio composto dai Sigg.ri Giudici Fabrizio Scarzella - Presidente, Jacopo
Blandini Estensore e Chiara Russo. I corsivi sono nei testi delle sentenze richiamate.
(28) Cfr. Trib. Belluno, 8 maggio 2008, in De Jure Giuffrè, la cui massima è pubbli-
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5. In conclusione a me sembra che non ci sia oggi nessun
motivo per sottrarre né l’impugnativa di bilancio, né alcuna altra delibera sociale alla cognizione arbitrale. Quando l’autonomia privata,
attraverso l’inserimento nello statuto sociale di una clausola compromissoria, sceglie un giudice privato, affida ad un terzo imparziale in
un processo rispettoso delle garanzie del giusto processo l’esercizio
della giurisdizione (29) e tale scelta deve essere rispettata, senza parcellizzazioni che non sono legislativamente determinate e che penalizzano (30) la scelta di autonomia privata liberamente effettuata dalle
parti. La lite sociale ha tipicamente un oggetto collettivo e riguarda
il più delle volte interessi che trascendono il singolo. È allora chiaro
che la disponibilità che rileva ai fini della sua qualificazione non può
che essere quella della volontà collettiva, cui rinvia il sistema delineato dagli artt. 2377-2379 c.c. nel costruire una tutela a carattere
disponibile che si riflette sul piano dell’arbitrato nella piena capacità
degli arbitri di farne oggetto di decisione.
This article deals with the arbitrability of claims on the validity of company
resolutions approving the financial statements.
The Author’s conclusion is that such claims are arbitrable and rests on two
sets of reasons.
cata in Giur. merito, 2008, 9, 2252 con nota critica di F. DE SANTIS, Inderogabilità della
norma, disponibilità del diritto e arbitrabilità delle controversie societarie; Trib. Como, 29
settembre 2006, n. 1137, in Le Società, 2007, 1277 con nota critica di F. FANTI. Si veda anche Trib. Prato, 19 marzo 2009, n. 391, in De Jure Giuffrè che, a discapito della massima,
ritiene arbitrabili le delibere di copertura di perdite sulla base di un bilancio ritenuto non
conforme alle norme di legge sulla base dell’argomento che si tratterebbe di ipotesi di annullabilità della delibera, non rientrando tra quelle di nullità espressamente previste dall’art.
2379 c.c.
(29) Cfr. G. VERDE, Sul monopolio dello Stato in tema di giurisdizione, in Riv. dir.
proc., 2003, 371 s., in particolare 384.
(30) Indice chiaro di tale penalizzazione è a mio avviso il Lodo arbitrale 23 luglio
2009 citato in nota 1. Che a fronte di una clausola compromissoria statutaria la tutela giurisdizionale debba essere frammentata al punto da richiedere sulla stessa delibera assembleare
l’intervento del collegio arbitrale per la censura relativa al procedimento di formazione del
bilancio e del giudice dello Stato per quella relativa al bilancio in sé, è conseguenza talmente
grave sul piano della funzionalità della giurisdizione da indurre anche chi veda con pieno favore l’arbitrato a preferire piuttosto la devoluzione dell’intera materia alla giurisdizione ordinaria. Poiché non è certo questa la conclusione di chi voglia, nel rispetto dell’autonomia
privata delle parti, contribuire alla diffusione dell’arbitrato e, attraverso di essa, alla deflazione della giurisdizione ordinaria, nella prospettiva di un miglior funzionamento dell’apparato giurisdizionale nel suo insieme, mi auguro che questo scritto possa contribuire a segnalare la piena capacità degli arbitri a decidere la materia in esame.
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First, under the relevant substantive rules (Articles 2377, 2379 and 2434-bis
of the Italian Civil Code) the right to challenge financial statements is waivable,
since the action must be brought within a given deadline and disputes can be settled by one of the parties by replacing the invalid resolution with a new one.
Second, the interpretation of the procedural rules governing arbitration in
corporate matters (Article 36 of Decree no. 5/03) demonstrates that the legislator
intended to allow the submission to arbitration of all disputes relating to challenges to all types of deliberations of the shareholders’ meetings.
There is, therefore, no reason to contest the arbitrability of disputes relating
to the validity of financial statements.
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
ITALIANA
Sentenze annotate
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 2 gennaio 2010, n. 26 — AMIRANTE Pres.;
CRISCUOLO Est.; Termomeccanica ecologica e a. c. Veolia Servizi ambientali
S.p.a. e a.
Accordo compromissorio per arbitrato rituale ed irrituale - Tutela cautelare Provvedimenti di istruzione preventiva - Inammissibilità - Questione di
legittimità costituzionale - Fondatezza.
È costituzionalmente illegittimo — per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. —
l’art. 669-quaterdecies c.p.c. nella parte in cui, escludendo l’applicazione dell’art.
669-quinquies c.p.c. ai provvedimenti di cui all’art. 696 c.p.c., impedisce, in caso
di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale,
la proposizione della domanda di accertamento tecnico preventivo al giudice che
sarebbe competente a conoscere del merito.
(Omissis). CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il Tribunale di La Spezia in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 669-quaterdecies del codice di procedura civile, nella parte in cui — escludendo l’applicazione
delle disposizioni della Sezione I, Capo III, Libro IV c.p.c. e, segnatamente, dell’art. 669-quinquies di detto codice ai provvedimenti di cui alla Sezione IV — impedisce, in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza del
giudizio arbitrale, la proposizione della domanda di accertamento tecnico preventivo al giudice competente a conoscere del merito.
Il rimettente premette di essere chiamato a pronunciare, in sede di reclamo,
su una istanza di accertamento tecnico preventivo diretta a verificare lo stato di alcuni impianti, in relazione ai quali si prospetta l’insorgenza di una controversia.
L’istanza, presentata al Presidente del Tribunale, è stata respinta, in quanto le resistenti nel procedimento di istruzione preventiva hanno eccepito che la controversia
da instaurare era devoluta ad arbitri, in forza di clausola compromissoria contenuta
nel contratto dal quale la vicenda ha preso le mosse. Il giudice a quo, che ha mo73
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tivato in modo plausibile sulla rilevanza, osserva che, in base alla norma censurata,
la disciplina di cui agli artt. 669-bis e seguenti c.p.c. (escluso l’art. 669-septies) non
si applica all’accertamento tecnico preventivo. Pertanto, nel caso in esame non può
operare il disposto dell’art. 669-quinquies c.p.c., secondo cui la competenza per i
procedimenti cautelari in generale, se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri anche non rituali o se è pendente il giudizio
arbitrale, spetta al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.
Il Tribunale prosegue osservando che l’ostacolo alla possibilità di esperire
l’accertamento tecnico preventivo davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, nel caso
di devoluzione agli arbitri della controversia, non può essere superato applicando
l’art. 669-quinquies in via analogica, perché il ricorso all’analogia postula una lacuna normativa, nella fattispecie non configurabile. Né può farsi luogo ad una interpretazione costituzionalmente orientata di detta norma, perché essa si porrebbe
in contrasto con il dettato dell’art. 669-quaterdecies c.p.c.
In questo quadro, ad avviso del rimettente, va rilevato che: a) l’accertamento
tecnico preventivo è strumento di tutela cautelare, al pari di quelli contemplati dalla
disposizione ora citata; b) in particolare, nel caso di compromesso in arbitri, è consentito il ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’art. 670, n. 2, c.p.c.,
per ottenere il sequestro delle cose in detta norma indicate, mentre non si può formulare istanza di accertamento tecnico preventivo, ai sensi dell’art. 696 c.p.c., ad
onta della funzione cautelare probatoria, comune ad entrambi gli strumenti; c) il
detto accertamento, trattandosi di mezzo cautelare, non può essere disposto dagli
arbitri, ostandovi il dettato dall’art. 818 c.p.c.; d) l’alterazione dello stato dei luoghi e, in generale, di ciò che la parte ritiene di dover sottoporre ad accertamento
tecnico può provocare pregiudizi irreparabili al diritto che s’intende azionare.
Di qui il dubbio circa la legittimità costituzionale della norma censurata, con
riferimento ai parametri richiamati.
2. La questione è fondata.
L’art. 669-quaterdecies c.p.c., sotto la rubrica « ambito di applicazione », stabilisce che le disposizioni della Sezione I, capo III, Libro IV, del detto codice, relativa ai procedimenti cautelari in generale, si applicano ai provvedimenti previsti
dalle Sezioni II, III e V, nonché, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti
cautelari disciplinati dal codice civile e dalle leggi speciali. Soltanto l’art. 669-septies c.p.c., concernente il provvedimento negativo e il governo delle spese, si applica anche ai provvedimenti di istruzione preventiva previsti dalla Sezione IV del
Capo III.
Il dato testuale, dunque, rivela in modo univoco che ai provvedimenti di
istruzione preventiva (artt. 692-699 c.p.c.), e quindi anche all’accertamento tecnico
preventivo (art. 696 c.p.c.), le norme disciplinanti i procedimenti cautelari ed i relativi provvedimenti non si applicano, fatta eccezione per il citato art. 669-septies.
Proprio tale eccezione vale a ribadire l’intento del legislatore in tal senso, intento
che trova ulteriore conferma nei lavori preparatori, dai quali emerge che si ritenne
di escludere i provvedimenti d’istruzione preventiva dall’ambito applicativo del
procedimento cautelare uniforme, perché essi, pur avendo natura cautelare, non
sono collegati al giudizio di merito.
Pertanto, si deve condividere la conclusione cui è pervenuto il giudice a quo,
secondo cui il dettato dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. non consente una interpretazione diversa da quella da lui adottata. Come questa Corte ha già osservato, l’uni74
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voco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (sentenza n. 219
del 2008, punto 4 del Considerato in diritto).
Ciò posto, va rilevato che la natura cautelare dei provvedimenti di istruzione
preventiva (confermata dalla collocazione sistematica dell’istituto) è generalmente
riconosciuta ed è stata anche di recente affermata da questa Corte, che ne ha sottolineato la ratio ispiratrice, diretta ad evitare che la durata del processo si risolva
in un danno per la parte che dovrebbe vedere riconosciute le proprie ragioni (sentenza n. 144 del 2008), non potendosi porre in dubbio che l’alterazione dello stato
dei luoghi o, in generale, di ciò che si vuole sottoporre ad accertamento tecnico,
possa provocare pregiudizi irreparabili al diritto che la parte istante intende far valere.
Tale forma di tutela rappresenta una componente della stessa funzione giurisdizionale e rispetto alla piena attuazione di questa svolge anche un ruolo strumentale, comune sia alle misure di tipo anticipatorio che a quelle conservative (sentenze n. 421 del 1996 e n. 253 del 1994). In tale prospettiva si giustifica il carattere espansivo delle regole del procedimento cautelare uniforme (artt. 669-bis e seguenti, c.p.c.), carattere che proprio nell’art. 669-quaterdecies è normativamente
stabilito.
Nel novero delle suddette regole rientra l’art. 669-quinquies c.p.c., in forza del
quale, se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in
arbitri (anche non rituali) o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda di provvedimenti cautelari, non proponibile agli arbitri per il divieto imposto dall’art. 818
c.p.c., salva diversa disposizione di legge, va fatta al giudice che sarebbe stato
competente a conoscere del merito. Pertanto, in base alla disposizione ora citata,
anche in pendenza del giudizio arbitrale è consentito, tra l’altro, chiedere il sequestro giudiziario di libri, registri, documenti, modelli, campioni e di ogni altra cosa
da cui si pretende desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto alla
esibizione o alla comunicazione ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea (art. 670, n. 2, c.p.c.), mentre non è possibile ottenere analoga tutela mediante l’accertamento tecnico preventivo, ad onta della comune natura cautelare e
della finalità probatoria perseguita da entrambi gli strumenti.
Fermi questi punti, va aggiunto che non sussiste incompatibilità tra la normativa generale sui provvedimenti cautelari e la disposizione concernente l’accertamento tecnico preventivo. In particolare, detta incompatibilità non è ravvisabile nel rilievo che quest’ultimo non richiede l’instaurazione entro un dato termine del giudizio ordinario, mentre nel procedimento uniforme, se la domanda
sia stata proposta prima della causa di merito, l’ordinanza di accoglimento deve
fissare un termine perentorio per l’inizio del giudizio stesso, ai sensi e con le
modalità di cui all’art. 669-octies c.p.c., anche nel caso in cui la controversia sia
oggetto di compromesso o di clausola compromissoria (quinto comma della
norma citata). È vero che la disciplina dettata dagli artt. 692-699 c.p.c. non prevede la fissazione di un termine per l’inizio del giudizio ordinario, ma questo
profilo, se sancisce una forma di autonomia tra gli atti di istruzione preventiva
e il giudizio principale, non esclude la natura cautelare delle relative misure, né
fa venir meno il collegamento con il giudizio di merito, rispetto al quale esse
hanno carattere strumentale, tanto che l’assunzione delle misure stesse non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza, destinate ad es75
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sere verificate appunto nel giudizio di merito, nel quale i processi verbali delle
prove preventive non possono essere prodotti, né richiamati, né riprodotti in copia prima che i mezzi di prova siano stati dichiarati ammissibili nel giudizio
stesso, ai sensi dell’art. 698 c.p.c.
Chiarito tale profilo, si deve osservare che l’esclusione dell’accertamento tecnico preventivo dall’ambito applicativo definito dall’art. 669-quaterdecies c.p.c.,
con conseguente inapplicabilità dell’art. 669-quinquies, non supera lo scrutinio di
ragionevolezza, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost.
Invero, la ratio diretta ad evitare che la durata del processo ordinario si risolva in un pregiudizio per la parte che intende far valere le proprie ragioni, comune ai provvedimenti di cui agli artt. 669-bis e seguenti ed all’art. 696 c.p.c.,
il carattere provvisorio e strumentale dei detti provvedimenti, rispetto al giudizio a cognizione piena, del pari comune, nonché l’assenza di argomenti idonei a
giustificare la diversità di disciplina normativa, con riguardo all’arbitrato, tra il
provvedimento di cui al citato art. 696 e gli altri provvedimenti cautelari, i quali
possono essere ottenuti ricorrendo al giudice, anche se la controversia, nel merito, è devoluta ad arbitri (art. 669-quinquies c.p.c.), rendono del tutto irragionevole la detta esclusione.
Inoltre, essa viola anche l’art. 24, secondo comma, Cost., perché l’impossibilità di espletare l’accertamento tecnico preventivo in caso di controversia devoluta
ad arbitri (i quali, come si è detto, non possono concedere provvedimenti cautelari,
salva diversa disposizione di legge) compromette il diritto alla prova, per la possibile alterazione dello stato dei luoghi o di ciò che si vuole sottoporre ad accertamento tecnico, con conseguente pregiudizio per il diritto di difesa.
Sulla base delle considerazioni che precedono si deve dichiarare l’illegittimità
costituzionale della norma impugnata nella parte in cui, escludendo l’applicazione
dell’art. 669-quinquies c.p.c. ai provvedimenti di cui all’art. 696 dello stesso codice, impedisce, in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale, la proposizione della domanda di accertamento tecnico
preventivo al giudice competente a conoscere del merito (omissis).
La Corte costituzionale interviene sui rapporti tra istruzione preventiva ed arbitrato: continua l’estensione del rito cautelare uniforme
alla tutela preventiva della prova.
1. L’attuale interesse della Corte costituzionale (1) per i provvedimenti di istruzione preventiva è il chiaro sintomo dell’esigenza di innovare
sul punto. Il legislatore del 1990 li aveva immaginati come solo parzial-
(1) Per un ulteriore commento alla sentenza, v. LICCI, Istruzione preventiva, arbitrato
e art. 669-quaterdecies: una convivenza possibile?, in Riv. dir. proc., 2010, in corso di pubblicazione. In commento all’ordinanza di rimessione (Trib. La Spezia, 31 ottobre 2008),
Delle DONNE, Ancora sui rapporti tra arbitrato (anche irrituale) ed accertamento tecnico
preventivo: è davvero illegittimo l’art. 669-quaterdecies nella parte in cui non prevede l’applicabilità a tali cautele dell’art. 669-quinquies?, in www.judicium.it.
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mente compatibili con la struttura del rito cautelare uniforme degli artt.
669-bis ss. c.p.c. perciò escludendo l’applicazione di quel procedimento, ad
eccezione del solo art. 669-septies c.p.c. (questa la portata precettiva dell’art. 669-quaterdecies c.p.c.). Alla scelta legislativa si oppone il succedersi
di più declaratorie di incostituzionalità che incidono non poco sulla disciplina processuale della tutela cautelare della prova.
Risale a meno di due anni fa la dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 669-quaterdecies e 695 c.p.c. nella parte in cui non prevedono la
reclamabilità del provvedimento di rigetto dell’istanza volta a provocare
l’assunzione dei testimoni ovvero l’accertamento tecnico o l’ispezione giudiziale (2).
Oggi la Consulta torna sui rapporti tra istruzione preventiva e rito
cautelare uniforme dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 669quaterdecies c.p.c. nella parte in cui, escludendo l’applicazione dell’art.
669-quinquies c.p.c. all’accertamento tecnico preventivo, impedisce, in
caso di clausola compromissoria, compromesso o pendenza di giudizio arbitrale — anche non rituale (3) — la proposizione della relativa domanda
al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito (in assenza di
convenzione di arbitrato).
Questi i passaggi logici della motivazione. Il dato testuale dell’art.
669-quaterdecies c.p.c. — limitando l’applicazione ai provvedimenti di
istruzione preventiva (nella specie, all’accertamento tecnico preventivo dell’art. 696 c.p.c.) del solo art. 669-septies c.p.c., quanto al provvedimento
negativo ed al governo delle spese — esclude in modo univoco l’operati-
(2) Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144, in Riv. dir. proc., 2009, 247, con note di
FERRARI, La reclamabilità del diniego di istruzione preventiva, e Licci, Istruzione preventiva
e reclamo: una soluzione che ancora non convince; in Corr. giur., 2008, 1071, con nota di
ROMANO, La Corte costituzionale estende il reclamo cautelare all’ordinanza di rigetto dell’istanza di istruzione preventiva; in Giust. civ., 2008, I, 1599; in Giur. it., 2008, 2255. Per
un commento alla sentenza v. anche DELLE DONNE, La Consulta ammette il reclamo contro i
provvedimenti di diniego dell’istruzione preventiva, ma non contro quelli di accoglimento: è
vera parità delle armi?, in www.judicium.it.
(3) Si prescinderà, in queste brevi note, dall’affrontare il problema della compatibilità tra tutela cautelare (in generale) e arbitrato irrituale, trattandosi di questione ormai passata alla storia. Basti solo ricordare Corte cost. 5 luglio 2002, n. 320, in questa Rivista, 22,
503, con nota di SASSANI, La garanzia dell’accesso alla tutela cautelare nell’arbitrato irrituale, che — dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata intorno agli artt. 669-quinquies (vecchio testo) e 669-octies c.p.c. — ammette
la competenza cautelare del giudice che sarebbe competente per il merito, qualora la controversia sia deferita ad arbitri irrituali. La medesima regola è stata recepita nell’art. 669-quinquies c.p.c. cosı̀ come riformato dal D.Lgs. n. 40/2006 (sul testo novellato dell’art. 669-quinquies, cfr. TOTA, Commento all’art. 669-quinquies, in Commentario alle riforme del processo
civile, a cura di Briguglio e Capponi, vol. I, Padova, 2007, 156 ss.; DALMOTTO, Commento all’art. 669-quinquies, in Le recenti riforme del processo civile, Commentario diretto da Chiarloni, Torino, 2007, 1231).
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vità di tutte le altre norme del rito cautelare uniforme. Ciò sul presupposto
che si tratta di provvedimenti che, seppure dotati di natura cautelare, non
sono collegati al giudizio di merito.
Né è possibile una interpretazione diversa dello stesso art. 669quaterdecies c.p.c., dal momento che « l’univoco tenore della norma segna
il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il
passo al sindacato di legittimità costituzionale » (4).
Dovendosi confermare la natura cautelare dei provvedimenti di istruzione preventiva (dimostrata peraltro dalla collocazione sistematica dell’istituto) (5), e il loro ruolo strumentale (comune tanto alle misure anticipatorie, quanto a quelle conservative) (6), si giustifica il carattere espansivo
delle regole del procedimento cautelare uniforme (« carattere che proprio
nell’art. 669-quaterdecies è normativamente stabilito »).
Nella specie, oggetto di attenzione è l’art. 669-quinquies c.p.c. —
qualora la controversia sia deferita ad arbitri e tenuto conto della carenza
di potestà cautelare in capo a questi ultimi ex art. 818 c.p.c. — norma applicabile al sequestro giudiziario di libri, registri, documenti, modelli, campioni ed ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova ai
sensi dell’art. 670 n 2 c.p.c., e non parimenti applicabile in caso di accertamento tecnico preventivo « ad onta della comune natura cautelare e della
finalità probatoria perseguita da entrambi gli strumenti ».
Né è dato riscontrare una incompatibilità strutturale tra la normativa
generale sui provvedimenti cautelari e la disciplina dell’accertamento tecnico preventivo. Non può infatti ritenersi che venga meno la natura cautelare di tali provvedimenti per il solo fatto che la disciplina degli artt. 692699 c.p.c. non prevede la fissazione di un termine per l’inizio del giudizio
ordinario.
Di qui l’irragionevolezza del sistema normativo (art. 3 cost.), che differenzia il trattamento dei provvedimenti di accertamento tecnico preventivo da tutti gli altri provvedimenti cautelari, nonché la violazione dell’art.
24 cost. dal momento che l’impossibilità di espletare l’accertamento tecnico preventivo in caso di controversia devoluta ad arbitri « compromette il
diritto alla prova, per la possibile alterazione dello stato dei luoghi o di ciò
che si vuole sottoporre ad accertamento tecnico, con conseguente pregiudizio per il diritto di difesa ».
(4) Richiama in proposito Corte cost. 20 giugno 2008, n. 219, in Foro it., 2008,
I, 3420.
(5) La natura cautelare dei provvedimenti di istruzione preventiva è sostenuta da una
consolidata giurisprudenza di costituzionalità, tenuto conto della ratio ispiratrice, diretta ad
evitare che la durata del processo vada in danno per la parte che ha ragione. Cita in proposito Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144, cit.
(6) Corte cost. 27 dicembre 1996, n. 421, in Giust. civ. 1997, I, 584; Giur. it. 1997,
I, 358; Corte cost. 23 giugno 1994, n. 253, in Giust. civ. 1995, I, 659, con nota di MAMMONE.
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2. La sentenza in commento conferma — se ce ne era bisogno — la
natura cautelare dei provvedimenti di istruzione preventiva. Trattasi di un
inquadramento dell’istituto piuttosto pacifico (7), pochi e residuali essendo
i dubbi circa la ratio di tali misure, volte pur sempre (al pari di quelle
stricto sensu cautelari) a impedire che la durata del processo vada a danno
della parte che ha ragione (8).
Il problema si pone sotto il profilo della struttura, tenuto conto del diverso nesso che lega provvedimento di cautela della prova e giudizio di
merito, rispetto a quanto accade per qualsiasi diversa misura cautelare.
L’elemento debole del rito cautelare uniforme (tale da giustificare una differenziazione tra tutela cautelare tout court e tutela cautelare della prova)
sta nella strumentalità rispetto al giudizio di merito, essendo meno stringente in materia di istruzione preventiva il legame tra fase sommaria e giudizio ordinario (9). Mentre infatti le misure cautelari sono solitamente strumentali all’instaurazione di un giudizio di merito, avente ad oggetto la situazione sostanziale cautelata (sicché il vincolo tra cautela e merito è indi-
(7) Cosı̀ la dottrina maggioritaria: SATTA, Commentario al codice di procedura civile,
Milano, IV, parte 1a, 1968 rist., 252-253 (osservando tuttavia come, pure affermata la natura
cautelare dell’istruzione preventiva, « resta del tutto insoluto il problema del come e del perché si possa dare una cautela in ordine alle prove »); CALAMANDREI, Introduzione allo studio
sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, ora in Opere giuridiche a cura di
Cappelletti, IX, 157 ss., spec. 180; TARZIA, Istruzione preventiva e arbitrato rituale, in questa Rivista, 1991, 719 ss., spec. 723; NICOTINA, L’istruzione preventiva nel codice di procedura civile, Milano, 1979, 193 ss.; ID., voce Istruzione preventiva, in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, 154 ss., spec. 156; BALENA, voce Procedimento di istruzione preventiva, in Enc.
giur., XVIII, Roma, 1990, 1 ss.; TRISORIO LIUZZI, voce Istruzione preventiva, in Dig. disc.
priv., Sez. civ., Torino, 1993, rist. 1999, X, 242 ss. spec. 244; BESSO, La prova prima del processo, Torino, 2004, 210 e 224; SALVANESCHI, Sui rapporti tra istruzione preventiva e procedimento arbitrale, in questa Rivista, 1993, 617 ss., spec. 619; ROMANO, La tutela cautelare
della prova nel processo civile, Napoli, 2004, 8 ss.; LUISO, Diritto processuale civile, IV,
2009, 244; GIALLONGO, Accertamento tecnico preventivo e tutela cautelare nell’arbitrato irrituale dopo la Legge n. 8 del 2005, in Giur. it., 2006, 214 ss. spec. 219. Sostanzialmente nello
stesso senso CALVOSA, voce Istruzione preventiva, in Noviss. dig. it., IX, Torino, 1963, 309
ss., evidenziando la funzione cautelare dei mezzi di conservazione della prova ed al contempo escludendoli dal settore delle misure cautelari propriamente dette. In posizione originale si colloca PICARDI, Manuale del processo civile, Milano, 2006, 583, il quale rileva come
nonostante l’aspetto lato sensu cautelare, l’atto di istruzione preventiva sembra appartenere
piuttosto alla giurisdizione cognitiva (una sorta di anticipazione della fase istruttoria simmetricamente a come avviene per l’anticipazione della fase decisoria ravvisabile nelle ordinanze
degli artt. 186-bis, ter, quater c.p.c.). Osserva PANZAROLA, Commento sub artt. 696 e 696 bis,
in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Briguglio e Capponi, cit., 253 ss.
spec. nt. 1 come accogliendo questa tesi si disporrebbe di una base solida per affrontare e
risolvere problemi evidenziatisi anche in altri settori ordinamentali, soprattutto nell’ambito
della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
(8) Su tale profilo, approfonditamente, in commento a questa stessa sentenza, cfr.
LICCI, Istruzione preventiva, cit., § 3.
(9) SALVANESCHI, Sui rapporti, cit., 620.
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viduato nel diritto soggettivo oggetto di giudizio, tutelato in primis per le
vie urgenti e poi nel processo dichiarativo), in materia di istruzione preventiva viene a mancare la strumentalità tra misura cautelare e giudizio di merito identificata nella comunanza della situazione sostanziale (10). In altri
termini, la tutela cautelare ha pur sempre ad oggetto un diritto soggettivo,
del quale preserva la possibilità di accertamento o di soddisfazione da realizzare nelle forme del processo cognitivo (o anche di quello esecutivo), diversamente da quanto avviene nell’istruzione preventiva nella quale si
spezza il nesso di strumentalità rispetto al diritto soggettivo sottostante, limitandosi essa a conservare una situazione processuale senza incidere sulla
realtà materiale (11) (il relativo provvedimento punta cioè a assicurare la
raccolta di una prova prima — o anche nel corso — del processo, onde
evitare che ciò diventi impossibile o difficile quando assunta a tempo debito). Sicché, mentre la tutela cautelare (sia del processo di cognizione, sia
del processo di esecuzione) concorre alla conservazione del diritto sostanziale, che potenzialmente accompagna durante l’intero arco della vicenda
processuale (12), la tutela cautelare della prova ha una finalità esclusivamente processuale, essendo proiettata sulla conservazione del mezzo di
prova in attesa della sua eventuale ammissione all’interno del processo.
Di qui l’asserito limite in punto di strumentalità rispetto al giudizio di
merito: una strumentalità che non evocherebbe l’esigenza di assicurare la
cristallizzazione della situazione sostanziale, bensı̀ solo la conservazione di
uno status processuale.
È innegabile che il provvedimento di istruzione preventiva non incide
direttamente (il che non esclude la possibilità di una incidenza mediata e
indiretta) (13) sulla situazione sostanziale dedotta nel giudizio di merito,
(10) Offre un diverso inquadramento PICARDI, Manuale, cit., 583, secondo cui, pur
essendo palese l’aspetto strumentale dell’istruzione preventiva in rapporto al futuro giudizio
di cognizione, esso non corrisponde alla strumentalità tra cautela e merito tipica dei provvedimenti cautelari, dal momento che « non sembra però che l’instaurando giudizio si ponga
come causa di merito rispetto al momento cautelare ». L’A. desume questa conclusione dal
fatto che la disciplina dettata per l’istruzione preventiva non richiama il procedimento cautelare uniforme (ad eccezione dell’art. 669-septies c.p.c.) e che sarà comunque onere di chi
ha ottenuto l’atto di istruzione preventiva, non soltanto iniziare il giudizio di cognizione nel
quale utilizzerà quell’atto, ma anche chiederne l’ammissione nel giudizio stesso. Quale che
sia la definizione che voglia preferirsi, è certo che il rapporto tra fase « urgente » e giudizio
cognitivo ordinario vincola funzionalmente il provvedimento di conservazione della prova al
successivo giudizio di merito, nel senso che il primo può mantenere i suoi effetti solo qualora confluisca e sia recepito nel secondo.
(11) LUISO, Diritto, cit., IV, 245; SALVANESCHI, Sui rapporti, cit., 621.
(12) Cosı̀ specificamente ROMANO, La tutela cautelare, cit., 171.
(13) V. amplius infra in questo §.
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bensı̀ solo punta a conservare una realtà processuale. Tuttavia, ciò non basta per abdicare alla consequenzialità tra fase cautelare e merito (14).
La tradizione ci insegna che i provvedimenti cautelari si connotano
per la loro strumentalità rispetto al giudizio di merito, in quanto « non sono
mai fine a sé stessi, ma sono immancabilmente preordinati alla emanazione
di un ulteriore provvedimento definitivo, di cui essi preventivamente assicurano la fruttuosità pratica » (15), sicché « nascono [...] al servizio di un
provvedimento definitivo, coll’ufficio di predisporre il terreno e di approntare i mezzi meglio atti alla sua riuscita » (16). È perciò che le misure cautelari sono anche definite « strumenti dello strumento », nel senso che costituiscono « un mezzo predisposto per la migliore riuscita del provvedimento definitivo, che a sua volta è un mezzo per l’attuazione del diritto » (17).
Cosı̀ letta la strumentalità, non ci sembra che essa si collochi a troppa
distanza da quella che lega un provvedimento di istruzione preventiva al
successivo giudizio di merito. Anche esso punta ad assicurare la « migliore
riuscita del giudizio di merito », non nel senso — come può intendersi per
un cautelare « puro » — di conservare o anticipare taluni effetti della sentenza, i quali incidano direttamente ed immediatamente sulla situazione sostanziale, bensı̀ nel senso di garantire che il giudice del merito possa giovarsi di tutte le prove capaci di offrire la più corretta rappresentazione della
realtà sostanziale ai fini della decisione « giusta ». Il provvedimento cautelare della prova costituisce lo « strumento dello strumento » per eccellenza,
in quanto si colloca solo e soltanto al servizio del processo, ma pur sempre
nella prospettiva della sua migliore riuscita.
Sia nell’uno che nell’altro caso la funzione della misura provvisoria si
(14) D’altra parte, è proprio in ragione della sussistenza di un vincolo di strumentalità (o provvisorietà) — dal momento che ai sensi dell’art. 698 c.p.c. l’assunzione preventiva
dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza né
impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito — che la giurisprudenza di legittimità
giustifica l’inammissibilità del ricorso straordinario ex art. 111 comma 7 cost. avverso i relativi provvedimenti (v. ex pluribus Cass. 20 giugno 2007, n. 14301, in Giur. it., 2007, 2525,
con nota di MASONI, La consulenza tecnica d’uffıcio e l’accertamento tecnico preventivo dopo
le riforme processuali del 2005 (« il provvedimento che ammette la consulenza tecnica preventiva (cosı̀ come gli altri provvedimenti di istruzione preventiva, di cui condivide la natura) non è suscettibile di ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., trattandosi di
provvedimento connotato dal carattere della provvisorietà e strumentalità avverso il quale,
pertanto, non sono ammissibili neppure il regolamento di competenza e il regolamento di
giurisdizione, non potendo il giudice di legittimità risolvere quella stessa questione di competenza o di giurisdizione della quale non potrebbe essere investito a norma dell’art. 111
Cost. »); Cass. 5 luglio 2007, n. 12305; Cass. 19 agosto 2005, n. 17058; Cass. 5 luglio 2004,
n. 12304).
(15) CALAMANDREI, Introduzione allo studio, cit., 175.
(16) CALAMANDREI, op. cit., 175.
(17) CALAMANDREI, op. cit., 176.
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proietta sul giudizio di merito; a distinguere i due modelli sta il fatto che,
mentre il provvedimento cautelare incide direttamente sulla realtà sostanziale, quello di istruzione preventiva non produce effetti diretti sulla realtà
materiale, bensı̀ sulla sola realtà processuale del giudizio di merito (18). In
altri termini, la vera differenza tra le une e le altre misure sta nella capacità
o meno di modificare la realtà sostanziale; il che se ha un valore ai fini
della individuazione della loro pericolosità, non ha un vero e proprio significato discriminatorio in punto di strumentalità (la quale se letta come strumentalità rispetto al giudizio di merito e non rispetto alla situazione sostanziale, è presente in entrambi i casi). E elemento distintivo tra tutela cautelare e tutela preventiva della prova è la maggiore « pericolosità » della
prima rispetto alla seconda, sicché recede l’esigenza di discriminare i due
modelli sul piano dei vincoli con il giudizio di merito, sia l’uno che l’altro
legati — seppure sotto profili diversi — alla successiva prosecuzione della
fase cognitiva piena.
D’altra parte, anche in punto di « pericolosità », occorre intendersi sul
senso delle parole. Fermo restando che un provvedimento cautelare capace
di modificare la realtà materiale è pericoloso perché rischia di produrre effetti irreversibili, non è del tutto vero che la incidenza di altra misura sul
piano processuale è indice di una pericolosità « minore »: si può dubitare
che un provvedimento cautelare sia meno pericoloso di un altro perché non
modifica direttamente la realtà sostanziale, se poi esso è potenzialmente capace di invertire il segno della decisione di merito. Si pensi ad una prova
testimoniale assunta a futura memoria, la quale di per sé sola è in grado di
sorreggere la decisione e di condurre all’accoglimento della domanda. Anche se si tratta di provvedimento che in prima battuta non modifica la realtà
sostanziale, sulla distanza esso è capace di produrre su di essa effetti irreversibilmente distorsivi.
Piuttosto, ha un senso evocare delle differenze tra tutela cautelare
della prova e tutela cautelare tout court nell’ipotesi in cui sopravvenga
l’inefficacia della misura. Mentre infatti se il provvedimento cautelare ha
inciso sulla realtà materiale, una volta divenuto inefficace, è necessario dare
disposizioni per ripristinare lo status quo ante (art. 669-novies comma 2
c.p.c.), la stessa esigenza non si pone quando alla conservazione del mezzo
di prova non segue la fase di merito: qui il mezzo resterà inutilizzato, senza
produrre alcuna ulteriore conseguenza sul piano sostanziale.
(18) La scarsa capacità del provvedimento di istruzione preventiva di incidere sulla
realtà materiale è posta a fondamento della sua differenza rispetto a qualsiasi altro giudizio
cautelare. Osserva LUISO, Diritto, cit., IV, 245 come, mentre gli effetti del provvedimento
cautelare incidono e modificano direttamente la realtà materiale (di qui la loro pericolosità),
gli effetti del provvedimento di istruzione preventiva non incidono sulla realtà sostanziale,
non sono effetti extraprocessuali (di qui la loro minore pericolosità).
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3. Si è soliti ritenere che i provvedimenti di istruzione preventiva
siano i « più conservativi di tutti » (19), data la loro capacità di conservare
una situazione processuale senza incidere sulla realtà materiale. Rebus sic
stantibus, non vi è stretta consequenzialità tra la premessa (sono provvedimenti « conservativi ») e le conclusioni (non si applica perciò il rito cautelare uniforme). In quanto provvedimenti conservativi, essi (come ci insegna
la storia della strumentalità attenuata dei nostri giorni) (20) sono vieppiù
vincolati al giudizio di merito (non ha senso assumere un mezzo di prova
in via preventiva se non si pensa di proiettarne l’utilizzo in un futuro giudizio di merito): di qui una « strumentalità » massimamente forte.
La disciplina del rito cautelare allora — laddove impone la continuità
tra fase cautelare e giudizio di merito — dovrebbe trovare normale applicazione in un contesto in cui la misura urgente decade naturalmente (a prescindere da qualsiasi dichiarazione di inefficacia) nell’ipotesi in cui non
faccia seguito il giudizio cognitivo ordinario. In altri termini, dal carattere
« più conservativo di tutti » della misura istruttoria dovrebbe derivare la sua
maggiore dipendenza rispetto al giudizio di merito e quindi la più fedele
applicazione del rito cautelare uniforme per lo meno nelle parti in cui regola la consequenzialità tra fase urgente e merito.
Di diverso — rispetto al modello cautelare tradizionale — c’è che il
provvedimento di istruzione preventiva costituisce un mezzo di prova assunto per le vie urgenti senza alcuna certezza che esso sarà utilizzato nel
giudizio ordinario (21). Ciò almeno per due ragioni. Innanzi tutto perché,
una volta assunto in via preventiva il mezzo di prova, il giudizio di ammissibilità e rilevanza deve essere ripetuto nella fase di merito (art. 698 comma
2 c.p.c.), sicché non vi è garanzia che quel mezzo sarà posto a base della
decisione. In secondo luogo, perché il provvedimento istruttorio può essere
strumentale rispetto a qualsiasi giudizio di merito, non già ad un giudizio
dalla domanda e dai confini predefiniti in fase cautelare. Non è cioè necessario che il futuro processo cognitivo ordinario sia individuato nei suoi
contenuti in fase cautelare, o almeno che tale individuazione sia vincolante,
potendo il mezzo di prova trovare collocazione in un processo esattamente
corrispondente a quello prefigurato in fase cautelare ma anche diverso (a
condizione i fatti da provare siano rilevanti per il diverso giudizio).
Cosı̀ intesa, la strumentalità non si distingue di molto da quella attual-
(19) LUISO, Diritto, IV, 245.
(20) V. infra nel testo.
(21) Altro argomento a favore della debole strumentalità rispetto al giudizio di merito sta nel fatto che il provvedimento di istruzione preventiva, quand’anche emesso, non assicura alcuna garanzia a che la prova sia utilizzata nel processo: resta fermo l’art. 698 c.p.c.
secondo cui il giudice del merito deve poi rinnovare il giudizio di ammissibilità e rilevanza
per poter utilizzare la prova all’interno del processo (LUISO, Diritto, cit., IV, 254; PICARDI,
Manuale, cit., 583).
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mente tipica del rito cautelare uniforme (22). Come noto, il D.Lgs. n.
5/2003, artt. 23 e 24 (prima) e la Legge n. 80/2005 (poi) hanno « attenuato » (o meglio reso « eventuale ») il concetto di strumentalità per le misure cautelari a contenuto anticipatorio, tanto da non ritenerlo più elemento
caratterizzante la tutela sommaria cautelare: possono darsi misure urgenti
(anticipatorie) non seguite dal giudizio di merito, ovvero seguite da un giudizio di merito avente un oggetto diverso da quello identificato in fase cautelare (può per esempio proporsi una domanda di merito avente ad oggetto
un diritto incompatibile con quello tutelato in via urgente (23); tutto dipende
dalla parte che assumerà l’iniziativa processuale in fase di merito).
È mutato il concetto di strumentalità, ed i legami inscindibili tra fase
cautelare e merito, che una volta contraddistinguevano la tutela urgente,
oggi si presentano molto allentati (da qui a dire che i provvedimenti cautelari non siano più tali perché la strumentalità è stata « attenuata » il passo
è lungo) (24). Il nuovo contesto a maggior ragione giustifica una assimilazione tra istruzione preventiva e provvedimenti cautelari. Se in ambito cautelare il legame tra fase urgente e merito è stato di molto alleggerito, non
si vede perché lo stesso non possa accadere in materia di istruzione preventiva senza incidere sulla struttura oltre che sulla natura dei relativi rimedi.
Che poi all’istruzione preventiva non si applichino le disposizioni che
sanzionano con l’inefficacia la mancata instaurazione del giudizio di merito
non significa che non possano operare le altre norme compatibili con la
funzione cautelare del mezzo di prova. In altri termini, nella tutela preventiva della prova non troveranno collocazione le disposizioni del rito cautelare uniforme strettamente legate ad una lettura forte della strumentalità intesa quale dipendenza del provvedimento cautelare dalla decisione di merito (volta ad incidere sulla situazione sostanziale) (25). Nulla esclude in-
(22) Analogamente, FERRARI, La reclamabilità del diniego, cit., 253.
(23) COMASTRI, Commento all’art. 669-octies, in Commento alle riforme del processo
civile, a cura di Briguglio e Capponi, vol. I, Padova 2007, 164 ss., spec. 192.
(24) È da bandire la tesi — pure prospettatasi in dottrina all’indomani dell’entrata in vigore della riforma in tema di misure cautelari — secondo cui, una volta attenuatosi il vincolo di
strumentalità, i relativi provvedimenti non apparterrebbero più alla categoria delle misure cautelari, tradizionalmente rappresentate dalla successione tra cautela e merito. Altrove abbiamo
esposto le ragioni per le quali non riteniamo di poter condividere l’assunto. Ad esse pertanto rinviamo: TISCINI, I provvedimenti decisori senza accertamento, Torino, 2009, 124 ss.
(25) Cosı̀ BESSO, op. cit., 224, richiamando anche i Lavori preparatori della riforma del
’90 (I lavori preparatori della riforma del codice di procedura civile, in Doc. giust., 1991, 10,
27). Osserva l’A. come la ratio di differenziare la disciplina dell’istruzione preventiva da quella
delle altre misure cautelari ha un senso solo quando finalizzata a sottrarre la tutela cautelare della
prova all’applicazione delle disposizioni del procedimento cautelare uniforme che presuppongono un rigido nesso di strumentalità tra misura cautelare e giudizio di merito, come gli artt.
669-octies e 669-novies c.p.c. Non vi era invece l’intenzione di escludere l’applicabilità delle disposizioni « neutre » rispetto al grado di collegamento con il giudizio di merito.
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vece che le altre disposizioni di quel rito possano operare in quanto compatibili con le finalità conservative dell’atto istruttorio (26).
In sintesi e per concludere — sotto questo profilo — bene ha fatto la
Corte nel superare (seppure in parte qua) la scelta legislativa che (quanto
al rito) differenzia i provvedimenti di istruzione preventiva rispetto agli altri cautelari (27). Si tratta di una scelta di cui poteva discutersi prima e di
cui maiori causa si deve dubitare oggi che la strumentalità tra cautela e
merito muta i connotati pure nel rito uniforme. Bene ha fatto quindi nell’escludere che l’art. 669-quaterdecies c.p.c. sia una verità incontestabile e
nel rimettere in discussione l’ambito di applicazione del rito cautelare uniforme nella materia considerata. Conclusione a cui la Corte costituzionale
era già pervenuta, due anni or sono, estendendo il reclamo ai provvedimenti
di istruzione preventiva.
4. L’assimilabilità dei provvedimenti di istruzione preventiva a
quelli cautelari tout court è confermata — a dire della Consulta — dal loro
raffronto (28) con il sequestro giudiziario (29) di prove (art. 670 n. 2 c.p.c.).
Ferma la comunanza di ratio, risulta evidente — allo stato attuale del sistema normativo — la differenza procedimentale, solo al primo applican(26) A una soluzione analoga perviene già da tempo BESSO, La prova, cit., 223, ritenendo — a dispetto del dato testuale dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. — che il rito cautelare
uniforme possa operare anche in materia di istruzione preventiva. L’A. offre una lettura originale del testo dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. nel senso che la norma « ci dice che nel nostro ordinamento trova applicazione la disposizione del cautelare uniforme relativa al rigetto
della domanda, ma non ci dice che questa è l’unica disposizione applicabile ovvero che le
disposizioni diverse dall’art. 669-septies non trovano applicazione ». L’A. giunge cosı̀ a conclusione analoga a quella fatta propria dalla Corte costituzionale (nel senso di favorire l’operatività del rito cautelare uniforme in materia di conservazione preventiva della prova), ma
seguendo un percorso diverso. Mentre infatti Besso ritiene di poter risolvere la questione per
via interpretativa (offrendo una lettura dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. in effetti troppo distante dal suo dato testuale), la Consulta punta a raggiungere il medesimo risultato a colpi di
incostituzionalità (il che significa aprire le porte al succedersi di plurime sentenze, ciascuna
destinata ad estendere una diversa disposizione del rito cautelare alla materia considerata).
(27) Sembra invece legata all’esigenza di salvaguardare la specialità procedurale
dell’istruzione preventiva rispetto alla disciplina cautelare uniforme, DELLE DONNE, Ancora
sui rapporti tra arbitrato, cit., § 3.
(28) Il raffronto tra i provvedimenti di istruzione preventiva ed il sequestro giudiziario di prove è posto a fondamento anche di Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144, cit. per giustificare l’estensione ai primi del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.
(29) D’altra parte, non mancano elementi comuni sul piano funzionale tra l’istruzione preventiva ed i sequestri genericamente intesi. Osserva SATTA, Commentario, cit., 253,
come mentre i sequestri (conservativo o giudiziario) puntano ad assicurare alla parte l’esercizio dell’azione operando sul risultato finale (sul bene dovuto), l’istruzione preventiva punta
a conseguire la medesima assicurazione operando sul mezzo, e cioè sulla prova. Svolge un
discorso funzionalmente unitario, ma evidenziando le dovute differenze, nell’esaminare la disciplina della tutela cautelare della prova (sia nelle forme dell’istruzione preventiva, sia nelle
forme del sequestro di prove), ROMANO, La tutela cautelare, cit., passim, spec. 51 ss.
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dosi l’intero rito cautelare uniforme (30). Anche il sequestro di prove (come
il provvedimento di istruzione preventiva) incide poco sulla realtà sostanziale, limitandosi piuttosto ad assicurare la conservazione di libri, registri,
documenti, modelli, campioni e di ogni altra cosa da cui si intende desumere elementi di prova. Anche qui è evidente la finalità solo processuale
del mezzo. Eppure al sequestro dell’art. 670 n. 2 c.p.c. si applica il rito
cautelare uniforme e si conferma la sua strumentalità rispetto al merito.
Non è chiaro il motivo per cui due provvedimenti cosı̀ simili dal punto
di vista funzionale debbano tanto differenziarsi sul piano procedimentale.
Va detto in effetti che tale differenziazione non necessariamente conduce
all’incostituzionalità. Il rito cautelare uniforme è uno come gli altri, e nulla
lo impone ogni qualvolta il provvedimento domandato persegue funzioni di
« urgenza ». Dire che a tutti i provvedimenti funzionalmente proiettati sull’urgenza si deve applicare il rito cautelare uniforme — pena l’incostituzionalità — rischia di essere affermazione viziata per eccesso: la disciplina
degli artt. 669-bis ss. c.p.c. non ha certo copertura costituzionale per la tutela cautelare, cosı̀ come non ha copertura costituzionale il giudizio ordinario a cognizione piena per la tutela dichiarativa (31).
Tuttavia, si tratta di un rito pensato e voluto con le migliori garanzie,
salutato come la novità più progressista della riforma del ’90, e capace di
dare una veste omogenea alla disciplina processuale della cautela. È allora
statisticamente probabile che sia ricondotta all’irragionevolezza (con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.) la scelta legislativa tesa a differenziare
la disciplina processuale di due misure volte alla produzione del medesimo
risultato (o di un risultato analogo) solo ad una e non anche all’altra applicandosi il rito cautelare uniforme. Fu questa (tra l’altro) la logica su cui la
Corte costituzionale giustificò l’estensione all’istruzione preventiva del reclamo cautelare; è questa oggi la ratio su cui si fonda la dichiarazione di
incostituzionalità in esame.
5. Pure riconoscendo in linea di principio l’espansività di tutte le disposizioni relative al procedimento cautelare uniforme in materia di istruzione preventiva (compatibili con le pecualiarità di tali misure), oggetto
specifico di attenzione (tramite il sindacato sull’art. 669-quaterdecies c.p.c.)
è l’art. 669-quinquies c.p.c., norma deputata ad individuare il giudice competente ad emettere la misura cautelare nell’ipotesi in cui la controversia sia
(30) Ad eccezione che per l’attuazione, dal momento che al sequestro giudiziario di
prove si applica una disciplina peculiare rispetto a quella generale dell’art. 669-duodecies
c.p.c.
(31) La Corte costituzionale conferma da tempo che il legislatore ordinario dispone
di un’ampia discrezionalità nel disciplinare gli istituti processuali (Corte cost., 16 maggio
2008, n. 144, cit.; Corte cost. 20 giugno 2008, n. 221; Corte cost. 9 novembre 2007, n. 376;
Corte cost. 26 giugno 2007, n. 237).
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deferita ad arbitri, anche non rituali (32) (è questo il giudice che sarebbe
competente a conoscere del merito in assenza di convenzione di arbitrato).
La questione è risolta attraverso la dichiarazione di incostituzionalità
della norma sindacata, piuttosto che per le vie dell’interpretazione, essendo
univoco il tenore della disposizione e perciò insuscettibile di diversa lettura.
Quello della competenza ad emettere la misura cautelare sulla prova
quando la controversia è deferita ad arbitri è problema posto da tempo all’attenzione degli interpretati e risolto in modo non dissimile da come oggi
fa la Consulta. Non esita la dottrina (33) a ritenere possibile una applicazione analogica dell’art. 669-quinquies c.p.c. (34), nel senso di estenderne la
portata all’istruzione preventiva; sicché, in caso di deferimento della controversia ad arbitri, il potere di emettere provvedimenti istruttori in via preventiva — lungi dall’essere negato — spetta al giudice ordinariamente
competente per il merito (35).
nt. 3.
(32)
Sull’applicazione dell’art. 669-quinquies c.p.c. all’arbitrato irrituale, v. supra
(33) Questa l’opinione della dottrina maggioritaria (per tutti BESSO, La prova, cit.,
244 ss., spec. 248, anche per riferimenti bibliografici). Anche senza rinviare espressamente
all’art. 669-quinquies c.p.c., ovvero prima della sua introduzione, l’attribuzione al giudice
ordinario del potere di provvedere in materia di istruzione preventiva, qualora la controversia fosse deferita ad arbitri, è tesi decisamente maggioritaria (BALENA, voce Procedimento,
cit., 3; TRISORIO LIUZZI, voce Istruzione preventiva, cit., 251; CALVOSA, voce Istruzione preventiva, cit., 318; NICOTINA, L’istruzione preventiva, cit., 50; TARZIA, Istruzione preventiva, cit.,
722; ROMANO, La tutela cautelare, cit., 295). Sul punto, v. anche infra nt. 42.
(34) Ritiene ROMANO, La tutela cautelare, cit., 295 che l’art. 669-quinquies c.p.c. sia
applicabile in via analogica all’istruzione preventiva.
(35) La possibilità di chiedere al giudice ordinario la pronuncia di provvedimenti
di istruzione preventiva aveva peraltro il pregio di risolvere un problema tecnico. Considerato che i provvedimenti istruttori assunti dagli arbitri sono privi di coercibilità, la loro
pratica attuazione dipendeva di regola dalla spontanea adesione dei soggetti coinvolti.
Non cosı̀ quando l’istanza istruttoria era formulata a futura memoria, ipotesi nella quale
l’attribuzione di competenza al giudice ordinario si accompagnava con gli ordinari poteri
coattivi al medesimo riconosciuti in caso di inerzia degli interessati. Ciò aveva ingenerato
il sospetto di una ingiustificabile disparità di trattamento, dal momento che la tutela cautelare della prova finiva per attribuire un’utilità giuridica che la medesima tutela conseguita in via ordinaria non avrebbe potuto assicurare (ROMANO, La tutela, cit., 297). Per
evitare la sperequazione, si era venuta formando una certa linea dottrinale (inaugurata da
TARZIA, Istruzione preventiva, cit., 723, a cui avevano aderito SALVANESCHI, Sui rapporti,
cit., 623; BESSO, La prova, cit., 246) secondo cui il concetto di periculum in mora tipico
dell’istruzione preventiva doveva estendersi fino a ricomprendere ogni ipotesi in cui il
terzo (chiamato a testimoniare, ovvero destinatario di ispezione) rifiutava la propria collaborazione, anche in pendenza del giudizio arbitrale (contro tale soluzione cfr. ROMANO,
La tutela, cit., 297). La questione ha oggi una portata applicativa molto minore, data l’innovativa previsione dell’art. 816-ter c.p.c. (introdotto con il D.Lgs. n. 40/2006), che abilita gli arbitri, qualora un testimone rifiuti di comparire innanzi a loro, di chiedere al Presidente del tribunale del luogo dove ha sede l’arbitrato, di ordinarne la comparizione
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La Corte costituzionale nega che al medesimo risultato si possa giungere per le vie dell’interpretazione (il che avrebbe condotto verso una dichiarazione di inammissibilità della questione), non essendo ciò sufficiente
a colmare il vuoto normativo. Ritiene invece necessario intervenire direttamente sulla portata precettiva delle norme considerate, e quindi sciogliere
ogni nodo con una sentenza di accoglimento della questione di legittimità
costituzionale.
La scelta va condivisa per più ragioni. Una interpretazione della
norma che andasse oltre il dato testuale (rectius, una forzatura dell’art.
669-quaterdecies c.p.c. tale da includervi il richiamo anche dell’art. 669quinquies c.p.c.) avrebbe potuto ritenersi sufficiente qualora intorno ad essa
si fosse formato quel « diritto vivente » capace di trasformare la portata
precettiva della disposizione di legge ordinaria. Intorno al problema che ci
occupa invece non è dato riscontrare alcun diritto vivente: come noto, nella
materia cautelare, sottratta al sindacato di legittimità, manca l’opera uniformatrice della Corte di cassazione (36) e con essa la possibilità che si formino consolidati orientamenti giurisprudenziali. D’altra parte, a quanto
consta non solo non ci sono pronunce di legittimità sul problema specifico,
ma neppure la giurisprudenza di merito si è diffusamente occupata della
questione (37). Non vi è spazio allora per ritenere che il « diritto vivente »
consenta di superare il dato testuale dell’art. 669-quaterdecies c.p.c., né
quindi che l’art. 669-quinquies c.p.c. si applichi alla materia specifica in via
analogica (38).
coatta. Da notare tuttavia che questa recente disposizione risolve solo in parte il problema,
operando essa solo per la prova testimoniale e non anche per l’ispezione di cose o persone. Su questo profilo, v. LICCI, Istruzione preventiva, arbitrato e art. 669-quaterdecies:
una convivenza possibile?, cit., § 5.
(36) Nonostante la Corte di cassazione non sia deputata ad esercitare il proprio controllo sui provvedimenti cautelari (non essendo impugnabile con ricorso straordinario il
provvedimento reso in sede di reclamo), vi è la possibilità che essa intervenga attraverso
l’istituto (di recente innovato con il D.Lgs. n. 40/2006) dell’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. Vi sono diverse pronunce rese ai sensi dell’art. 363 c.p.c. in cui la Corte, pure avendo dichiarato inammissibile il controllo in cassazione straordinario — per incensurabilità del provvedimento impugnato — ha enunciato il
principio di diritto nell’interesse della legge, cosı̀ esercitando sulla materia « nomofilachia ».
Cosı̀ per tutte Cass. 9 luglio 2009, n. 16091.
(37) Ci risulta che vi sia un solo precedente che affronta la questione risolvendola nel
senso di applicare l’art. 669-quinquies c.p.c. all’istruzione preventiva in via estensiva o analogica: cfr. Trib. Catania, 23 gennaio 1995, in Giur. it., 1995, I, 2, 820, con nota di PULEO,
Note minime su competenza cautelare e arbitrato (« nel caso di clausola compromissoria è il
giudice ordinario a dover disporre l’accertamento tecnico preventivo, dovendo ritenersi applicabile in via estensiva o quanto meno analogica l’art. 669-quinquies c.p.c. »).
(38) A conclusione opposta era giunta Corte cost. 5 luglio 2002, n. 320, cit. in relazione al diverso problema della inapplicabilità dell’art. 669-quinquies c.p.c. in presenza di
una convenzione per arbitrato irrituale. In quella sede la Corte ebbe a dichiarare manifesta-
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6. L’impossibilità di colmare il vuoto normativo per via interpretativa deriva poi dalla mancanza nella disciplina specifica dell’istruzione preventiva di alcuna disposizione capace di sopperire all’art. 669-quinquies
c.p.c. (come visto (39) non applicabile — prima dell’intervento della Consulta — neppure in via analogica). Non basta invocare l’art. 693 c.p.c. —
secondo cui l’istanza per istruzione preventiva si chiede « al giudice che
sarebbe competente per la causa di merito » — né vale l’art. 697 c.p.c. —
secondo cui in caso di eccezionale urgenza i relativi provvedimenti sono
pronunciati dal presidente del tribunale o dal giudice di pace con decreto
— perché si tratta di norme attributive di competenza in fattispecie che
mente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dal momento che la preclusione
all’ammissione della tutela cautelare in presenza di clausola di arbitrato irrituale — lamentata dal remittente — discende(va), non già dalla portata letterale delle norme denunciate,
bensı̀ dalla stessa interpretazione offerta dal remittente, incapace però di prevalere di fronte
ad opposte interpretazioni, pure proposte in dottrina e condivise in giurisprudenza. L’esigenza
nel caso di specie di risolvere la questione per via interpretativa era stata già annunciata da
chi aveva commentato l’ordinanza di rimessione (AULETTA, « Le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni non costituzionali, ma
perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali »: la disapplicazione del principio
in materia di arbitrato e tutela cautelare, in questa Rivista, 2002, 89 ss., in nota a Trib. Torino, sez. dist. di Chiasso, 21 maggio 2001), osservando come « non è affatto necessario, qui
più che mai, che la Corte costituzionale sia chiamata a svolgere l’improprio compito di interpretare la norma ordinaria, mentre è doveroso che, specie in assenza di indirizzi della
Corte Suprema (assenza congenita in materia cautelare), ciò faccia il giudice del merito ». I
due ambiti in cui la decisione citata e quella qui in esame, pure apparentemente omogenei,
sono chiamati a pronunciare si rivelano tra loro assai distanti e giustificano il diverso esito
della questione di costituzionalità (ancorché sia l’una che l’altra conducano a conclusioni similari, finendo entrambe per estendere la portata precettiva dell’art. 669-quinquies c.p.c.).
Mentre sul problema della compatibilità dell’art. 669-quinquies c.p.c. con l’arbitrato irrituale
poteva dirsi formato un diritto vivente, non solo per il contributo della dottrina, ma anche per
il sostegno di una consistente giurisprudenza di merito, nel caso che ci occupa, come si è visto (supra nt. precedente) quest’ultima risulta quasi del tutto assente. D’altra parte, il problema della compatibilità dell’art. 669-quinquies c.p.c. con l’arbitrato irrituale era facilmente
superabile per via interpretativa, dati gli incerti confini tradizionalmente posti tra arbitrato rituale e irrituale (confini di cui nel testo originario della disposizione non vi era traccia). Ben
più rigida (rectius, poco aperta a divergenti letture interpretative) è invece la portata testuale
dell’art. 669-quinquies c.p.c. quanto alla sua applicabilità all’istruzione preventiva, dato
l’inequivoco testo dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. nell’ammettere la disciplina del rito cautelare uniforme alla tutela preventiva della prova limitatamente all’art. 669-septies c.p.c. Sul
problema specifico dei rapporti tra tutela cautelare e arbitrato irrituale, si veda — tra gli altri — SASSANI, Intorno alla compatibilità tra tutela cautelare e arbitrato irrituale, in questa
Rivista, 1995, 710; AULETTA, Contro il divieto di assistena giurisdizionale (cautelare) per i
compromettenti in arbitrato libero, ivi, 1999, 82; CHIARLONI, Davvero incompatibili tutela
cautelare e clausola compromissoria per arbitrato libero?, in Giur. it., 1997, I, 2, 555;
ARIETA, Note in tema di rapporti tra arbitrato rituale e irrituale e tutela cautelare, in Riv.
dir. proc., 1993, 744.
(39) V. supra § precedente.
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esula dalla presenza di una convenzione di arbitrato (40). Il fatto che la
competenza ad emettere il provvedimento di istruzione preventiva vada individuata in presenza del deferimento ad arbitri del potere di decidere la
causa di merito muta non poco le cose.
Occorre riflettere sul ruolo dell’art. 669-quinquies c.p.c. in un contesto — quale il nostro — in cui gli arbitri sono sprovvisti (di regola) di potestas cautelare ex art. 818 (41) c.p.c., norma che sottrae loro il potere di
emettere misure cautelari (e cosı̀ anche di provvedere sull’istruzione preventiva) (42), salva diversa disposizione di legge (43). In assenza di una disposizione quale l’art. 818 c.p.c., si sarebbe pure potuto leggere l’art. 669quinquies c.p.c. quale norma sulla sola competenza, sicché in presenza di
una diversa disposizione parimenti attributiva di competenza, il sistema
avrebbe potuto ipotizzarsi completo (44). Di contro, l’art. 669-quinquies
(40) Invoca invece la disciplina specifica dell’istruzione preventiva (artt. 692-696
c.p.c.) DELLE DONNE, Ancora sui rapporti tra arbitrato, cit., § 3. Contra, LICCI, Istruzione
preventiva, cit., § 4.
(41) Per una ricostruzione del divieto dell’art. 818 c.p.c., cfr. RICCI G.F., Commento
all’art. 818, in Arbitrato, Commentario diretto da Carpi, Bologna, 2008, 481 ss.; LA CHINA,
L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, III ed. Milano, 2007, 145 ss.; AULETTA, Cognizione
sommaria e giudizio arbitrale, in Diritto dell’arbitrato, III ed., Torino, 2005, 493 ss. spec.
497; GHIRGA, Commento all’art. 818, in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Menchini, Padova, 2010, 310 ss.; LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 2006,
301; PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, vol. III, II ed., 2010, 218.
(42) Il divieto dell’art. 818 c.p.c. è esteso all’istruzione preventiva, data la comunanza di ratio, trattandosi pur sempre di due forme di tutela cautelare (RICCI E.F., La prova
nell’arbitrato rituale, Milano, 1974, 69 ss.; BESSO, La prova, cit., 245; SALVANESCHI, Sui rapporti, cit., 620; TRISORIO LIUZZI, voce Istruzione preventiva, cit., 251; TARZIA, Istruzione preventiva, cit., 722; GHIRGA, Commento all’art. 818, cit., 310 nt. 1; PUNZI, Il processo civile, cit.,
219; NICOTINA, L’istruzione preventiva, cit., 50; RICCI G.F., Commento, cit., 483, estendendo
il divieto a tutti i provvedimenti sommari, anche non cautelari). Sulla natura cautelare dei
provvedimenti di istruzione preventiva v. supra § 2 spec., nt. 7. Una certa apertura alla possibilità per gli arbitri di adottare misure di istruzione preventiva in pendenza dell’arbitrato è
rinvenibile in LA CHINA, L’arbitrato, cit., 146.
(43) Non è questa la sede per entrare nello specifico della disciplina dell’art. 818
c.p.c. e delle recenti modifiche apportate alla disposizione. Basti qui ricordare che la sottrazione agli arbitri del potere cautelare è tradizionalmente intesa quale conseguenza della carenza in capo ad essi di poteri autoritativi e coercitivi (non manca la dottrina di mostrare riserve contro questa scelta legislativa: LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir.
proc., 2003, 705 ss., spec. 724; ID., Arbitrato e tutela cautelare nella riforma del processo
civile, in questa Rivista, 1991, 253; ID., Diritto, cit., IV, 185; GIALLONGO, Accertamento tecnico preventivo, cit., 215). La disposizione è stata peraltro modificata di recente, prevedendo
la possibilità di derogare alla regola generale, e cosı̀ ammettendo che in specifiche fattispecie gli arbitri possano emettere misure cautelari (tra le eccezioni rientrava il disposto dell’art.
24 comma 8 D.Lgs. n. 5/2003 — oggi abrogato — che abilitava gli arbitri a decidere sull’istanza di sospensione della delibera assembleare).
(44) Ritiene invece che si tratti di disposizione sulla sola competenza DELLE DONNE,
Ancora sui rapporti tra arbitrato (anche irrituale) ed accertamento tecnico preventivo: è
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c.p.c. ancor prima di individuare la competenza ad emettere la misura cautelare, è disposizione attribuiva di un potere (45), che, in sua assenza, non
sarebbe dato ad alcuno.
Data la regola generale che crea continuità tra competenza cautelare e
competenza per il merito (46) (regola confermata pure dall’art. 693 c.p.c.),
l’art. 818 c.p.c. si colloca nel contesto quale lex specialis, escludendo che
gli arbitri — competenti a decidere del merito — possano anche rendere la
misura cautelare. È perciò necessario che vi sia una disposizione esplicita
capace di individuare un giudice dotato del potere cautelare in presenza di
tale lex specialis: disposizione individuabile proprio nell’art. 669-quinquies
c.p.c.
In altri termini, occorre leggere in combinato disposto gli artt. 818
c.p.c. (che esclude il potere degli arbitri) e 669-quinquies c.p.c. (che attribuisce il medesimo potere al giudice che sarebbe competente per il merito
in assenza di convenzione di arbitrato). La disapplicazione — in materia di
istruzione preventiva — dell’art. 669-quinquies c.p.c. comporterebbe l’operatività del solo art. 818 c.p.c. che nega il potere cautelare, norma il cui
dato testuale sarebbe difficilmente superabile per via interpretativa (mancherebbe una specifica disposizione capace di individuare l’autorità abilitata). L’impossibilità di risolvere per via interpretativa la questione (oltre
che dovuta alla mancanza di un diritto vivente) (47) è allora conseguenza
del vero significato dell’art. 669-quinquies c.p.c., norma attributiva non
solo di competenza, ma anche di potere, e perciò essa sola capace di superare il divieto dell’art. 818 c.p.c.
davvero illegittimo l’art. 669-quaterdecies nella parte in cui non prevede l’applicabilità a tali
cautele dell’art. 669-quinquies?, cit., § 2. L’A. sostiene che la questione si sarebbe potuta risolvere senza giungere alla dichiarazione di incostituzionalità individuando quale fonte della
potestas cautelare non già l’art. 669-quinquies c.p.c. bensı̀ lo stesso art. 24 Cost. come interpretato dalla costante giurisprudenza nel senso di imporre tra le garanzie minime quella della
tutela cautelare.
(45) Il divieto di attribuzione agli arbitri del potere di emettere provvedimenti di
istruzione preventiva si fonda su una duplice congiuntura. Ferma restando la mancanza in
capo ad essi di poteri coercitivi ed autoritativi (ragione su cui si basa l’assenza di poteri cautelari), a precludere loro il potere di emettere provvedimenti conservativi della prova ante
causam contribuisce il fatto che l’urgenza di provvedere sarebbe contraddetta dai tempi,
spesso lunghi, necessari per la designazione degli arbitri (SALVANESCHI, Sui rapporti, cit., 619;
BESSO, La prova, cit., 245). Né d’altra parte una prova assunta a futura memoria dagli arbitri potrebbe mai essere utilizzata qualora la causa fosse instaurata avanti all’autorità giudiziaria, ove possibile (RICCI E.F., La prova, cit., 69; SALVANESCHI, Sui rapporti, cit. 619).
(46) Che il giudice del merito sia anche il giudice a cui è demandato il potere di
emettere la misura cautelare — pure nelle forme dell’istruzione preventiva — è insegnamento costante tramandato da tempo. Sul punto, cfr. ROMANO, La tutela cautelare della prova,
cit., 282 nt. 6.
(47) V. supra § precedente.
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7. Resta da chiedersi quale sia la portata precettiva dell’intervento di
costituzionalità in esame e a quali ulteriori lacune dovrà ancora provvedere
la Corte costituzionale.
Tenendo conto dei limiti imposti dall’ordinanza di rimessione e della
rilevanza della questione, comprensibilmente l’incostituzionalità ha ad oggetto la sola disciplina dell’accertamento tecnico preventivo (48). Tuttavia,
seppure indirettamente, si desume dalla motivazione che il discorso vale in
pari misura per l’ispezione giudiziale o l’assunzione dei testimoni. Sarà allora la Corte nuovamente chiamata a pronunciarsi sul punto, ed a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. nella parte in cui
non consente di applicare l’art. 669-quinquies c.p.c. a questi residui settori
dell’istruzione preventiva. A meno che nel frattempo non si offra una lettura diversa della capacità di risolvere il problema per via interpretativa (49).
Ma non basta. Il percorso di erosione dell’art. 669-quaterdecies c.p.c.
— quanto ai limiti imposti all’applicazione del rito cautelare uniforme all’istruzione preventiva — ha fino ad ora interessato gli artt. 669terdecies (50) e 669-quinquies c.p.c. Ci si può chiedere se la Corte proseguirà sulla stessa strada, colpendo con la scure dell’incostituzionalità ulteriori disposizioni di quel rito ritenute necessarie per completare il procedimento nella cautela della prova.
Strettamente collegato all’art. 669-quinquies c.p.c. è l’art. 669-octies
comma 5 c.p.c., laddove stabilisce che se la controversia è oggetto di com-
(48) Da notare che diverso è il percorso (e diversi sono gli effetti) seguiti da Corte
cost. 16 maggio 2008, n. 144 cit. per dichiarare l’illegittimità degli artt. 669-terdecies e 695
c.p.c. nella parte in cui escludono la reclamabilità dell’ordinanza di rigetto dell’istanza di
istruzione preventiva. In quest’ultimo caso la pronuncia si estende a tutte le domande di
istruzione preventiva (assunzione di testimoni, accertamento tecnico, ispezione giudiziale);
nel caso in esame, invece, la portata precettiva della pronuncia non va oltre l’accertamento
tecnico preventivo. La differenza è dovuta alla diversa formulazione della rimessione: mentre infatti il Tribunale di Chieti (con riferimento al problema del reclamo cautelare) aveva rimesso la questione di legittimità costituzionale estendendo genericamente l’indagine a qualsiasi istanza di istruzione preventiva, qui i termini dell’ordinanza del rimettente sono più
stringendosi limitandosi il Tribunale di La Spezia a sollevare la questione per l’accertamento
tecnico preventivo.
(49) Sembra difficile invece poter leggere la dichiarazione di incostituzionalità qui in
esame come estendibile anche alle altre forme istruttorie, quali l’assunzione dei testimoni, o
lo svolgimento dell’ispezione giudiziale.
(50) D’altra parte, anche con riferimento al reclamo cautelare il percorso non è completo: la declaratoria di incostituzionalità resa da Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144, cit.,
estendendo il rimedio ai soli provvedimenti di diniego dell’istanza di istruzione preventiva,
non lo ha previsto per quelli di accoglimento. La levata di scudi contro siffatta soluzione
(criticata dalla dottrina maggioritaria: tra gli altri FERRARI, La reclamabilità, cit., 255; LICCI,
Istruzione preventiva, cit., 263; DELLE DONNE, La Consulta ammette il reclamo, cit.) forse indurrà ad un ulteriore intervento anche sul punto.
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promesso o di clausola compromissoria, la parte, nel termine di trenta
giorni o nel diverso termine fissato dal giudice, « deve notificare all’altra un
atto con il quale dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta alla
nomina degli arbitri ». La norma si colloca bene in un contesto in cui vi è
consequenzialità necessaria tra fase cautelare e merito, contesto che —
come visto (51) — resta estraneo all’istruzione preventiva (52).
Tuttavia, pure assumendo che l’instaurazione del giudizio di merito
dopo l’istruzione preventiva non è necessaria, l’art. 669-octies comma 5
c.p.c. consente di segnare il passaggio dalla fase cautelare al merito qualora la domanda di merito sia ciò nonostante proposta. La norma, anche
a prescindere dalla sua finalità diretta, è utile strumento interpretativo
per individuare l’attività tipica che introduce il procedimento arbitrale, ai
fini della pendenza della lite (53) (decorrenza degli effetti sostanziali e
processuali della domanda) e della individuazione dell’oggetto della domanda. Pertanto, fermo restando il regime di strumentalità « eventuale »
e « processuale » nella disciplina cautelare della prova, l’applicazione
dell’art. 669-octies c.p.c. completa il sistema individuando il termine (e
l’attività) a decorrere dalle quali la domanda di merito (nelle forme arbitrali) è proposta (rectius, a decorrere dalla notifica di una parte all’altra di un atto contenente la propria dichiarazione di promuovere un procedimento arbitrale proponendo la domanda e procedendo alla nomina
degli arbitri). Qui però le vie dell’interpretazione costituzionalmente
orientata (piuttosto che dell’incostituzionalità) dovrebbero rivelarsi più
facilmente percorribili. Può cioè ritenersi — data la lettura sistematica
degli artt. 669-quaterdecies, 669-quinquies (all’esito dell’incostituzionalità) e 669-octies comma 5 c.p.c. — che quest’ultima disposizione operi
in materia di istruzione preventiva (senza alcuna dichiarazione di incostituzionalità), nel senso di segnare termini e condizioni della pendenza
del giudizio arbitrale.
Non si può poi escludere che in futuro la Corte torni sul problema dei
rapporti tra rito cautelare uniforme e istruzione preventiva indagando su altre e diverse disposizioni. Il che, se da un lato è apprezzabile nella prospettiva di estendere l’intera disciplina degli artt. 669-bis ss. c.p.c. (in quanto
compatibile) ad una materia affine (54), da un altro rischia di esaltare fin
(51) Supra §§ 2 e 3.
(52) Essa, nella sua portata testuale, opera quando è chiesto un provvedimento cautelare conservativo, dal momento che per quelli anticipatori non vi è necessità, ma solo facoltà di proporre la causa di merito (LUISO, Diritto, cit., IV, 385). Maiori causa, la disposizione non ha una portata diretta in materia di istruzione preventiva per il debole vincolo che,
come visto (supra §§ 2 e 3) lega la fase cautelare a quella di merito.
(53) Sul tema, v. MURONI, La pendenza del giudizio arbitrale, Torino, 2008, passim.
(54) Per le ragioni già esposte supra §§ 2 e 3.
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troppo (esagerandolo) il ruolo della Consulta quale legislatore piuttosto che
giudice delle leggi. Una completa rivisitazione della materia meriterebbe
uno specifico intervento di riforma; intervento tutt’altro che da escludere in
un sistema processualcivilistico, quale il nostro, in cui esso si ripropone ormai a cadenza (quasi) annuale.
ROBERTA TISCINI
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CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni Unite; sentenza 1o luglio 2008, n. 17930 —
VITTORIA Pres.; FIORETTI Est.; PIVETTI P.M.; Camera arbitrale per i lavori pubblici c. Comune di Siena e Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture.
Arbitrato rituale nei lavori pubblici - Compenso degli arbitri - Determinazione
della Camera arbitrale - Qualificazione giuridica dell’ordinanza - Impugnabilità - Giurisdizione del giudice ordinario.
L’atto di determinazione del compenso arbitrale emesso dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici è equiparabile ad un atto di arbitraggio, ex art. 1349
c.c., in relazione al quale sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — Con l’unico motivo di ricorso la Camera Arbitrale ricorrente denuncia violazione delle norme e dei principi in materia di riparto della giurisdizione. Errata attribuzione della controversia alla
giurisdizione del giudice amministrativo. Sussistenza della giurisdizione dell’A.G.O. Secondo la ricorrente non sarebbe condivisibile la tesi del Consiglio di
Stato, secondo cui, in materia di determinazione del compenso degli arbitri da
parte della Camera Arbitrale, il provvedimento di determinazione della misura
del compenso incida su posizioni configurabili quali interessi legittimi. Il D.M.
2 dicembre 2000, art. 10 (regolamento contenente le norme di procedura del
giudizio arbitrale) delineerebbe modalità di fissazione del corrispettivo dovuto
dalle parti agli arbitri, che decidono la controversia, attraverso un meccanismo
di proposta di determinazione, che non genererebbe alcuna posizione di interesse
legittimo in capo alle parti del giudizio. Né il fatto che il provvedimento della
Camera Arbitrale abbia natura amministrativa varrebbe ad attribuire la sua cognizione al TAR. La determinazione camerale del corrispettivo dovuto dalle
parti agli arbitri inciderebbe su due distinte sfere giuridiche soggettive: quella
degli arbitri, che hanno diritto al compenso per l’attività prestata e che derivano
dalla Camera Arbitrale la misura di detto compenso, e quella delle parti del giudizio arbitrale, che hanno l’obbligo di retribuire l’attività svolta dagli arbitri nel
loro interesse. Detta Camera, in questa prospettiva, svolgerebbe funzione analoga a quella di un terzo soggetto, cui sia demandato il compito di quantificare
la prestazione economica dovuta da una parte del contratto a favore di un’altra.
Rispetto a tale schema non indurrebbe a diversa conclusione la considerazione
della natura amministrata dell’arbitrato in materia di lavori pubblici, posta che
l’arbitrato amministrato è solo una particolare modalità di svolgimento del giudizio arbitrale secondo una particolare disciplina, ma non è un arbitrato avente
carattere distinto dall’arbitrato libero e ordinario. (Omissis). Il Consiglio di Stato
afferma che l’atto camerale, incidendo sul quantum del diritto oggettivo al compenso, sulla base di una tariffa predeterminata e vincolante per le parti, predisposta « al fine di istituire una forma di controllo amministrativo in funzione di
garanzia e moderazione della misura dei compensi liquidati nel corso delle procedure arbitrali », sia espressione di un potere autoritativo, « non fondato su al95
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cuna base negoziale » e, quindi, di « un’indubbia discrezionalità amministrativa
nella fissazione della misura del compenso », e che, pertanto, a fronte del potere
amministrativo della Camera Arbitrale sussisterebbe « la posizione di giuridica
denominata interesse legittimo », che comporterebbe la sussistenza della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo. Una prima osservazione si impone. Affermare che l’arbitrato amministrato si svolge sotto l’egida
di un potere autoritativo conferisce all’arbitrato, per alcuni aspetti, un carattere
di obbligatorietà che mal si concilia con il fondamentale principio della volontarietà dell’arbitrato. Non appare condivisibile l’affermazione che il potere della
Camera Arbitrale non è fondato su alcuna base negoziale. Tale affermazione dimentica quella che è la struttura e la funzione di ogni arbitrato amministrato, in
cui si ha una istituzione che fornisce assistenza alle parti ed agli arbitri, al fine
di agevolare, sia dal punto di vista logistico che procedurale, lo svolgimento
dell’arbitrato. Nell’arbitrato amministrato, secondo autorevole dottrina, fra le
parti dell’arbitrato e l’istituzione prende vita un vero e proprio rapporto contrattuale, di natura mista con prevalenti elementi del mandatecene si affianca, senza
sostituirlo, al rapporto di mandato fra le parti e gli arbitri. Il contratto nasce
quando la relativa offerta, pubblicizzata dalla istituzione, viene accettata dalle
parti dapprima attraverso una specifica disposizione del patto di arbitrato e poi
con il deposito presso la istituzione della domanda di arbitrato notificata da una
di esse. Anche nel caso dell’arbitrato amministrato in materia di lavori pubblici
si verifica una situazione analoga, atteso che, con il prevedere la possibilità di
deferire eventuali controversie al giudizio di un collegio arbitrale, le parti accettano anche la disciplina prevista per lo svolgimento dell’arbitrato in maniera
amministrata e, quindi, in particolare, per quanto qui interessa, sia le tariffe per
la liquidazione del compenso agli arbitri sia le modalità per la sua liquidazione.
Non sembra corretto, pertanto, ritenere che il potere della Camera Arbitrale di
provvedere alla liquidazione del compenso spettante agli arbitri sia avulso da
una qualsiasi base negoziale. Né appare corretto ritenere che l’atto della Camera
Arbitrale sia espressione di discrezionalità amministrativa. La liquidazione del
compenso spettante agli arbitri non costituisce il risultato di una valutazione,
comparazione e composizione dei vari interessi (pubblici e privati) presenti in
una determinata vicenda amministrativa al fine dell’attuazione di un interesse
pubblico, ma il risultato di una valutazione effettuata sulla base di criteri prestabiliti e vincolanti, senza lasciare spazio ad ulteriori criteri diversi da quelli individuati dal più volte citato Decreto Interministeriale n. 398/2000. Tale normativa
regolamentare impone di determinare il compenso, tenendo conto del valore e
della complessità della controversia, e di determinarlo nell’ambito del compenso
minimo e massimo dello scaglione applicabile in base al valore della controversia medesima. Conseguentemente la liquidazione del compenso agli arbitri, anche se effettuata da un soggetto della pubblica amministrazione, non è configurabile quale provvedimento autoritativo, emesso nell’esercizio di un potere discrezionale, di fronte al quale sia ravvisabile una posizione di interesse legittimo. Tale conclusione è confortata da questa ulteriore considerazione. La disposizione regolamentare, di cui al D.I. 2 dicembre 2000, n. 398, art. 10, comma 3,
la quale attribuisce alla determinazione del Consiglio arbitrale il carattere di titolo esecutivo, contrasta con l’art. 474 c.p.c. che riserva alla legge lo stabilire
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quali provvedimenti sono titoli esecutivi, disponendo che sono titoli esecutivi « i
provvedimenti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva ».
Pertanto detta disposizione dovrebbe essere disapplicata. Conseguentemente,
non essendo l’« ordinanza » in questione utilizzabile quale titolo esecutivo, non
potrebbe neanche essere esperita un’azione esecutiva per la riscossione coattiva
del compenso determinato da detta ordinanza, senza adire il giudice in sede contenziosa per ottenere una sentenza in virtù della quale, una volta divenuta definitiva, ottenere, se necessario, ponendo a base dell’azione esecutiva detta sentenza, l’adempimento coattivo del debito. Perciò dovrebbe essere disapplicata
anche la parte della disposizione in questione, che qualifica l’« ordinanza » come
non impugnabile. Dette considerazioni portano ad escludere che possa attribuirsi
all’ordinanza del Consiglio della Camera arbitrale carattere vincolante per parti
ed arbitri, e che, quindi, possa imporsi alle parti ed agli arbitri indipendentemente da una loro accettazione espressa o tacita. Anche per questo ulteriore motivo si deve escludere che dinanzi al potere della Camera Arbitrale di determinare la misura del compenso agli arbitri sia configurabile una posizione di interesse legittimo, come ritenuto dal Consiglio di Stato, scindendo arbitrariamente
l’an dal quantum del diritto di credito al compenso, quasi che in concreto tale
diritto possa configurarsi indipendentemente dal suo contenuto. Posto che la determinazione del compenso non serve a regolare un rapporto tra amministrazione
e parti dell’arbitrato, ma tra queste e gli arbitri, stabilendo la misura del loro
credito, appare evidente come detta determinazione si pone sullo stesso piano
dell’atto determinativo del terzo (di cui all’art. 1349 c.c., comma 1), che se
manca o è contestato, è sostituito dalla determinazione del giudice. Devesi escludere, pertanto, che l’impugnazione della liquidazione operata dal Consiglio della
Camera Arbitrale sia di spettanza della giurisdizione generale di legittimità del
giudice amministrativo. (Omissis). Come su detto la determinazione del compenso serve a stabilire il contenuto del diritto di credito, che gli arbitri vantano
nei confronti delle parti dopo avere eseguito la loro prestazione professionale.
Non essendo tale diritto determinato, ma determinabile, la determinazione della
Camera Arbitrale si pone sullo stesso piano dell’atto determinativo del terzo (di
cui all’art. 1349 c.c., comma 1), che se manca o è contestato è sostituito dalla
decisione del giudice. Nel caso dell’arbitrato di diritto comune, qualora la determinazione del compenso effettuata dagli arbitri nel lodo non venga accettata
dalle parti, il compenso viene determinato su ricorso degli arbitri, sentite le
parti, dal Presidente del Tribunale indicato nell’art. 810 c.p.c. con ordinanza, che
costituisce titolo esecutivo, reclamabile dinanzi alla Corte d’Appello (art. 814
c.p.c., comma 2 e 3). Tale mezzo di tutela appare esperibile anche nei confronti
della liquidazione operata dalla Camera Arbitrale, in considerazione del fatto che
a tale liquidazione, non avendo efficacia di titolo esecutivo, può essere attribuita
la stessa efficacia di proposta di liquidazione fatta nel lodo dal collegio arbitrale,
per cui, se manca l’accettazione degli obbligati, gli arbitri possono rivolgersi,
come detto, al Presidente del Tribunale, perché determini, con ordinanza avente
efficacia di titolo esecutivo, la misura del loro compenso. Per quanto precede il
ricorso deve essere accolto. (Omissis).
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La Corte di Cassazione interviene sulla natura giuridica dell’ordinanza
di liquidazione dei compensi arbitrali emessa dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici.
1. La sentenza della Corte di Cassazione in esame affronta il dibattuto tema della qualificazione giuridica dell’atto di determinazione del
compenso arbitrale, emanato dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici.
Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione trae origine da un contratto di appalto stipulato tra una pubblica amministrazione ed una società
privata per la ristrutturazione di complessi edilizi. Insorta controversia in
merito all’esecuzione del contratto, le parti avevano provveduto alla formazione di un collegio arbitrale in conformità con quanto previsto dal D.P.R.
21 dicembre 1999, n. 554. In seguito all’emanazione e al deposito del lodo,
l’Istituzione arbitrale aveva con ordinanza stabilito il compenso spettante al
collegio arbitrale.
Tale provvedimento di determinazione è stato in primis impugnato dinanzi al T.a.r. del Lazio dalla pubblica amministrazione, la quale aveva
contestato la correttezza dei parametri e dei criteri adottati dal consiglio
della Camera nella valutazione del compenso dovuto.
Il T.a.r. Lazio, sez III, nella sentenza 3 febbraio 2004, n. 974 dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. Il Tribunale amministrativo ha ritenuto, infatti, che il provvedimento di liquidazione del compenso, spettante
al collegio arbitrale, incidesse su diritti soggettivi a contenuto patrimoniale
e che, quindi, le relative controversie rientrassero nella cognizione del giudice ordinario, non avendo il legislatore introdotto alcuna ipotesi di giurisdizione esclusiva a riguardo.
Avverso tale sentenza, la pubblica amministrazione ha proposto appello, ribadendo la sussistenza in materia della giurisdizione del giudice
amministrativo.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza 10 marzo 2005, n. 1008, ha ribaltato l’orientamento espresso dal Tribunale amministrativo regionale, affermando la giurisdizione del giudice amministrativo, sul rilievo che la posizione giuridica soggettiva, di cui si chiedeva la tutela, fosse una posizione
di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, come tale rientrante nella
giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo.
La Camera arbitrale, infine, ha impugnato la sentenza del Consiglio di
Stato, proponendo ricorso per Cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost. La
questione portata all’esame dei giudici della Corte di Cassazione ha ad oggetto, quale unico motivo di ricorso, la qualificazione giuridica del provvedimento di liquidazione emanato dalla Camera arbitrale, da cui discende
l’individuazione dell’autorità giudiziaria competente in merito all’impugnazione dello stesso.
La sentenza in epigrafe offre, dunque, lo spunto per confrontare le ar98
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gomentazioni addotte dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario, a
sostegno delle rispettive tesi sulla qualificazione giuridica dell’atto di liquidazione del compenso arbitrale emesso dalla Camera arbitrale.
2. « L’arbitrato nel settore delle opere pubbliche è al centro di una
storia lunga e tormentata » (1), di cui ci sembra opportuno riportare le ultime vicende, con riferimento in particolare al procedimento di liquidazione
del compenso arbitrale.
L’art. 32 Legge 11 febbraio 1994, n. 109, nella sua originaria formulazione, vietava che nei capitolati generali o speciali venisse previsto il deferimento delle controversie a collegi arbitrali.
Considerati i dubbi di legittimità costituzionale che la disposizione
poneva, per violazione degli artt. 3, 24, 97 e 113, la Legge 2 giugno 1995,
n. 216 (2) non solo eliminò il divieto di arbitrato nel settore dei lavori pubblici, ma, nel consentirlo, sembrò introdurre un’ipotesi di arbitrato obbligatorio (3).
La formulazione poco chiara della disposizione costrinse il legislatore
ad intervenire nuovamente sulla materia con la Legge 18 novembre 1998,
n. 415, il cui art. 10 contiene un testo interamente sostitutivo dell’art. 32
della Legge 11 febbraio 1994, n. 109. La legge c.d. Merloni ter, ha, quindi,
introdotto un’ipotesi di arbitrato « facoltativo », prevedendo espressamente
(1) Cosı̀ VERDE, L’arbitrato in materia di opere pubbliche alla luce dell’art. 5,
comma 16-sexies legge n. 80/2005, in questa Rivista, 2005, 223.
(2) La suddetta legge di conversione del D.L. 2 aprile 1995, n. 101, disponeva che
qualora le parti non avessero raggiunto l’accordo bonario, disciplinato dalla stessa legge, la
definizione delle controversie venisse « attribuita ad un arbitrato, ai sensi delle norme del titolo VIII del libro quarto del codice di procedura civile ».
(3) Sulla questione della illegittimità costituzionale dell’ipotesi di arbitrato obbligatorio la Corte Costituzionale si era già espressa nella sentenza n. 152/1996 (in Foro pad.,
1996, 255), riguardo alla disposizione di cui all’art. 16 della Legge n. 741/1981, che introduceva un arbitrato obbligatorio, come tale contrario all’orientamento espresso dalla stessa
Corte Costituzionale nella precedente sentenza 14 luglio 1977, n. 127 (pubblicata in Giur.
cost., 1977, 1103, con nota di ANDRIOLI, L’arbitrato obbligatorio e la Costituzione). Secondo
la Corte Costituzionale un arbitrato è facoltativo e quindi legittimo solo quando trova il suo
fondamento nella espressa e concorde volontà delle parti, e dunque quando è consentito anche ad una sola parte di escluderlo, e sempre che venga rispettato il principio della par condicio delle parti nella formazione del collegio arbitrale. Ed è proprio su questo punto che
l’arbitrato in materia di opere pubbliche si è allontanato dall’arbitrato volontario, in quanto
per il combinato effetto della scelta legislativa dell’arbitrato e dell’attribuzione alla pubblica
amministrazione del potere di procedere alla nomina di un maggior numero di arbitri, si era
giunti all’imposizione di uno strumento che poteva in astratto attribuire un vantaggio illegittimo all’amministrazione. Sul tema si rinvia a: BARONE, Considerazioni sul procedimento arbitrale e sugli aspetti processuali dell’arbitrato irrituale, in I processi speciali, Napoli, 1978,
83 ss.; BRIGUGLIO, Gli arbitrati obbligatori e gli arbitrati da legge, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2003, 81 ss.; I. LOMBARDINI, Illegittimità dell’arbitrato obbligatorio in materia di opere pubbliche, in Giur. it., 2006, 1450 ss.
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che le parti « possono » deferire ad arbitri le controversie derivanti dall’esecuzione dei contratti in materia di lavori pubblici, ma necessariamente nella
forma di arbitrato « amministrato » (4). La gestione della procedura arbitrale è stata deferita ad un ente, la Camera arbitrale per i lavori pubblici,
istituito « presso » l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, ai sensi
dell’art. 4 della suddetta legge.
Le norme relative alla composizione e modalità di funzionamento
della Camera, ai criteri cui la Camera deve attenersi nel fissare i requisiti
soggettivi e di professionalità per assumere l’incarico di arbitro, nonché
alla durata dell’incarico, sono state dettate con il D.P.R. 21 dicembre 1999,
n. 554 (5). Il decreto interministeriale, emanato di concerto tra il Ministero
di Grazia e Giustizia e quello dei Lavori Pubblici, 2 dicembre 2000, n. 398,
ha stabilito, invece, le norme di procedura del giudizio arbitrale e le tariffe
per la determinazione del compenso dovuto agli arbitri, « nel rispetto dei
principi del codice di procedura civile ».
Con particolare riferimento alla liquidazione del compenso degli arbitri, l’art. 151, comma 10, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 c.d. Regolamento generale sui lavori pubblici, ha attribuito tale potere alla Camera arbitrale, introducendo in questo modo una disciplina che si allontana decisamente dall’art. 814, comma 2, c.p.c. Tale procedura prevede che il collegio arbitrale, in considerazione dell’esito della lite e sulla base delle domande accolte e degli importi riconosciuti, con riguardo alle richieste iniziali, stabilisca nel lodo su quale parte ed in quale misura devono essere
poste le spese del giudizio. Inoltre, provvede a liquidare le spese di difesa
sulla base della tariffa professionale degli avvocati.
Alla Camera compete, invece, la determinazione del compenso arbitrale, su proposta dello stesso collegio, tenendo conto del valore della
causa, ricavabile attraverso i criteri stabiliti dai commi 4 a 6 dell’art. 10
(4) Autorevole dottrina definisce questa ipotesi di arbitrato come « arbitrato facoltativo da legge », ove il legislatore, pur lasciando alle parti la possibilità di scegliere tra arbitrato e giudizio dinanzi al giudice statale, impone a queste ultime un particolare tipo di arbitrato, laddove si orientino nel primo senso. La Corte Costituzionale ha di recente (nella
sent. 8 giugno 2005, n. 221) affermato che il legislatore ordinario, ove garantisca alle parti
la possibilità di sottrarsi all’arbitrato e il rispetto del principio di eguaglianza delle parti nella
composizione del collegio, può limitare l’autonomia privata. In tal senso: VERDE, Lineamenti
di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 39.
(5) L’art. 150 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 disponeva che il collegio arbitrale fosse formato da tre arbitri e che il Presidente del collegio venisse nominato dalla Camera arbitrale. In questo modo veniva sottratta alla libera scelta delle parti la nomina del
terzo arbitro e rimessa la stessa ad un organismo costituito presso l’Autorità per la vigilanza
sui lavori pubblici. Tale organismo è parte della pubblica amministrazione, che nella maggioranza dei casi è parte in causa nel giudizio arbitrale, e non ha dunque i requisiti di imparzialità e « terzietà richiesti dalla Costituzione per tutti i giudici e per tutti i giudizi ». Cosı̀ si
è espresso il Consiglio di Stato nella sentenza 17 ottobre 2003, n. 6335 (in questa Rivista,
2003, 743 ss., con nota di LUISO).
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Decreto Ministeriale 2 dicembre 2000, n. 398, e del « numero ed importanza delle questioni trattate », applicando le tariffe allegate al decreto ministeriale. Inoltre è stabilito dagli artt. 150, commi 5 e 6, e 151, commi 10
e 11, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, che il compenso arbitrale sia versato alla Camera, in parte in acconto ed in parte a saldo, nel termine di
trenta giorni dal deposito del lodo. L’Istituzione arbitrale provvede alla liquidazione con « ordinanza non impugnabile » che costituisce « titolo esecutivo ». Infine, sebbene lo stesso art. 10, commi 4 e 5, stabilisca espressamente
i criteri a cui la Camera deve attenersi per determinare il valore della controversia e dunque per individuare anche il corrispettivo spettante agli arbitri, è
riconosciuto (6) alla stessa Camera, con espressa motivazione, il potere di incrementare fino al doppio i compensi massimi previsti dalla tariffa allegata in
considerazione della « particolare complessità delle questioni trattate, delle
specifiche competenze utilizzate e dell’effettivo lavoro svolto » (7).
Il procedimento di liquidazione del compenso arbitrale disciplinato
dal combinato disposto dagli artt. 150 e 151 del D.P.R. 21 dicembre 1999,
n. 554; e artt. 10 e 11 D.M. 2 dicembre 2000, n. 398, è stato introdotto dal
legislatore, per ovviare ad alcuni inconvenienti tradizionalmente connessi
alla materia dei compensi arbitrali. Infatti, nell’opinione comune una delle
motivazioni di maggior sfavore nei riguardi dell’arbitrato in questa materia
è stata individuata, proprio, nel procedimento di liquidazione degli onorari
arbitrali, ed in particolare: nel diretto contatto tra parti ed arbitri nella fissazione degli stessi, nel rilevante ammontare dei corrispettivi, e nella generalizzata elasticità dei criteri utilizzati dai collegi per la loro liquidazione (8).
(6) Tale potere della Camera è stabilito dall’allegato al Decreto Ministeriale 2 dicembre 2000, n. 398.
(7) La disciplina a cui fa riferimento la sentenza della Corte di Cassazione in commento è quella anteriore all’introduzione del D.Lgs. 12 aprile 2006, n.163, che ha previsto
un procedimento arbitrale a doppio binario, un arbitrato « bifronte ». Sul tema si rinvia inter
alios a LA TORRE, L’arbitrato in materia di lavori pubblici, in Giust. civ., supplemento al fasc.
11, 2006, 11 ss. Sembra opportuno ricordare che il legislatore è intervenuto nuovamente sulla
materia introducendo nell’art. 3, commi 19-22, della Legge 24 dicembre 2007, n. 244, il divieto per le pubbliche amministrazioni e soggetti equiparati di deferire ad arbitri le controversie in tema di contratti aventi ad oggetto « lavori, forniture e servizi ». La ratio del divieto è il contenimento della spesa pubblica, che risulta particolarmente incrementata dagli
esiti sfavorevoli dei procedimenti arbitrali, a carico delle pubbliche amministrazioni. (Sul
tema si veda LOMBARDINI, Sub art. 241, Arbitrato delle opere pubbliche, in Arbitrati speciali,
commentario diretto da F. CARPI, Collana Le riforme del diritto italiano, Bologna, 2008, 176
ss.; TRAVI, Arbitrati negli appalti pubblici: nuovi divieti e incertezze persistenti, in Corr. giur.,
n. 4, 2008, 449 ss.). L’introduzione del divieto è stato, però prorogato dapprima con l’art. 15,
comma 1, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, c.d. milleproroghe, convertito con modificazioni
dalla Legge 28 febbraio 2008, n. 31, al 1o luglio 2008, e poi di recente con la Legge 27 febbraio 2009, n. 14, al 31 dicembre 2009.
(8) A tal proposito parte della dottrina ha evidenziato che una delle cause dell’ecces-
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La soluzione adottata dal legislatore delegato, per sopperire a tali inconvenienti, è stata di attribuire in maniera esclusiva alla Camera arbitrale,
il compito di determinare la misura del compenso spettante agli arbitri.
L’unica competenza che residua in capo agli arbitri, circa il loro onorario,
è la formulazione di una proposta di liquidazione, che se pur obbligatoria,
non è comunque vincolante per la Camera arbitrale.
Il sistema introdotto differisce notevolmente dall’originaria previsione
di cui all’art. 51 del D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, che conteneva un
espresso rinvio all’art. 814 c.p.c.
Infatti, si è innanzitutto ritenuto opportuno attribuire ad un soggetto
terzo, la Camera, rispetto al collegio arbitrale la liquidazione del loro compenso, evitando cosı̀ che gli stessi arbitri siano tenuti a valutare ex se la
propria attività ed a trattare con le parti il pagamento di quanto dovuto (9).
Inoltre viene meno il debole procedimento di autoliquidazione disciplinato dall’art. 814 c.p.c. per l’arbitrato rituale. Tale disposizione investe
gli arbitri del potere di liquidare le spese e l’onorario, ma considera la liquidazione come non vincolante per le parti, se le stesse non la accettano.
La diretta liquidazione del compenso arbitrale ha, insomma, il carattere negoziale di una proposta, anche se qualificata, che tende a definire in via
transattiva la questione del compenso per il giudizio arbitrale.
In difetto di accettazione, l’ordinamento detta un procedimento di liquidazione suppletivo innanzi al Presidente del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’arbitrato (10), sede che ai sensi dell’art. 816 c.p.c. è stabilita dalle parti ovvero, qualora queste non abbiano provveduto a riguardo,
dagli stessi arbitri nella loro prima riunione. In questo caso, il Presidente
sivo costo per la pubblica amministrazione delle procedure arbitrali si trovi nell’utilizzo, da
parte degli arbitri, di differenti parametri di riferimento per la liquidazione dei danni subiti
dagli appaltatori. Gli arbitri vi provvedono applicando alcune disposizioni che riguardano la
valutazione dell’utile d’impresa e l’incidenza delle spese generali ai fini della formazione dei
prezzi a base d’asta. In questo modo il risarcimento riconosciuto alle imprese non è quasi mai
pari al danno che esse abbiano effettivamente subito, ma è un valore diverso e superiore, con
la conseguenza di un incentivo al contenzioso. In realtà, analoghi criteri di liquidazione vengono applicati anche dal giudice amministrativo, ove però gli inconvenienti sono meno percepibili, poiché vi si associa un indirizzo restrittivo nel riconoscere il diritto al risarcimento
del danno. Cfr., TRAVI, op. ult. cit., 449.
(9) In questo senso: CORSINI, L’arbitrato, in Manuale del diritto dei lavori pubblici,
a cura di A. Bargone e P. Stella Richter, Milano, 2001, 589; MATASSA, La Camera arbitrale
per i lavori pubblici, in L’attuazione della legge quadro sui lavori pubblici a cura di L. Carbone, F. Caringella, G. De Marzo, Milano, 2000, 733 ss.
(10) In senso conforme, in giurisprudenza: Cass. 7 maggio 1999, n. 4601, in Giust.
civ., 2000, 2732; Cass. 28 gennaio 2003, n. 1226, in Giust. civ., 2003, 1560. Sulla possibilità
che nel caso di silenzio delle parti siano gli arbitri a scegliere la sede, e quindi anche il giudice competente a conoscere delle controversie si rinvia a: PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, 413; BRIGUGLIO, La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di A.
Briguglio, E. Fazzalari, R. Marengo, Milano, 1994, 84.
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del Tribunale liquida i compensi con un’ordinanza, che costituisce titolo
esecutivo giudiziale e, che, prima della recente riforma introdotta con il
D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, si riteneva (11) comunque ricorribile per
Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., in quanto decisoria sul diritto degli
arbitri (12).
Al fine di agevolare il recupero del compenso loro spettante, il legislatore, quindi, ha qualificato l’ordinanza emessa dalla Camera « titolo esecutivo », equiparandola a quella del Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 814, ultimo comma, c.p.c.
L’equiparazione tra le due ordinanze è limitata però esclusivamente a
questa caratteristica. Infatti, mentre la prima è senza dubbio un atto giurisdizionale, attualmente reclamabile ai sensi dell’art. 825, comma 4,
c.p.c. (13), sulla natura giuridica della seconda non vi è unanimità di vedute
in giurisprudenza come in dottrina.
3. Il giudice amministrativo e autorevole dottrina riconoscono alla
determinazione del compenso da parte del consiglio della Camera arbitrale (14) « natura di atto amministrativo vero e proprio e non di atto negoziale
(11) Cfr. Cass., 17 ottobre 1996, n. 9074, in Giust. civ., 1997, 694; Cass., 6 gennaio
1982, n. 21, in Giur. it., 1982, 310; Cass., 27 luglio 1990, n. 7602, in Arch. civ., 1991, 42;
in dottrina, VERDE, in AA.VV., Diritto dell’arbitrato rituale, II ed., Torino, 2000, 104.
(12) Tale rimedio si riteneva comunque non esperibile avverso l’ordinanza emessa
dalla Camera arbitrale, senza riconoscere alla stessa Camera natura di organo giurisdizionale,
con violazione del divieto di istituzione di giudici speciali, ai sensi dell’art. 102 Cost. Anche
se, come è stato osservato da autorevole dottrina, le disposizioni regolamentari che prevedono la risoluzione dell’eventuale conflitto tra arbitri e parti con un provvedimento « non
impugnabile che costituisce titolo esecutivo », sembrano effettivamente conferire alla Camera
arbitrale « funzioni non paragiurisdizionali, ma giurisdizionali in senso proprio », contrastanti
con il fondamento privatistico dell’istituto arbitrale. Cfr., VERDE, Le funzioni « paragiurisdizionali » della Camera arbitrale per i lavori pubblici, in questa Rivista, 2001, 159 ss.; nonché, BUONFRATE, Appalti pubblici: l’arbitrato amministrato dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici e il nuovo sistema di risoluzione alternativa delle controversie, in Giur. it.,
2001, 880.
(13) Il reclamo deve essere presentato entro 30 giorni dalla comunicazione, ed a riguardo, il tribunale in composizione collegiale provvede, in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile.
(14) Come è stato evidenziato da G. VERDE, op. ult. cit., 155, il compito di liquidare
il corrispettivo a saldo per la decisione della controversia, « secondo i parametri della tariffa »
prevista dal Decreto Ministeriale 2 dicembre 2000, n. 398, e di riscuoterlo è stato affidato ad
una sezione definita « paragiurisdizionale » istituita dalla Camera arbitrale con l’ordine di
servizio n. 1 del 16 novembre 2000. L’A. ha osservato che le disposizioni dettate dal decreto
interministeriale e dal regolamento di attuazione, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, che disciplinano il procedimento di liquidazione del compenso arbitrale devono essere considerate
illegittime. Il regolamento di attuazione avrebbe, infatti, dovuto disciplinare esclusivamente
l’istituenda Camera arbitrale, con la conseguenza che tutte le disposizione in esso contenute
relative al procedimento arbitrale, tra cui senza dubbio l’art. 150 che attribuisce alla Camera
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di arbitraggio, come si desume dalla natura amministrata dell’arbitrato in
esame » (15).
Il Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno risolvere il problema della
tutela nei confronti degli atti emessi dalla Camera arbitrale, applicando il
criterio che regola il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice
amministrativo, ossia in base alla natura della situazione giuridica che si
assume lesa. L’applicazione del criterio fondato sulla distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, già di per sé non agevole, assume connotati di ancora maggiore complessità in questa materia.
Innanzitutto, secondo l’impostazione del giudice amministrativo, la
natura amministrativa dell’ordinanza deriverebbe dalla qualificazione soggettiva dell’organo deliberante. La Camera arbitrale, secondo l’orientamento prevalente, è infatti un organo, che, pur operando in piena autonomia ed indipendenza, è pur sempre amministrativo, essendo, istituito
« presso » una pubblica amministrazione, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici (16).
il potere di liquidazione del compenso, « fuoriescono dall’ambito dell’attuazione ». Inoltre,
l’art. 10 nel qualificare l’ordinanza di liquidazione del compenso « non impugnabile » ed attribuendole efficacia di titolo esecutivo, contrasta con « i principi del codice di procedura civile », che ai sensi dell’art. 32 della Legge 11 febbraio 1994, n. 109 avrebbe dovuto rispettare.
(15) Cosı̀ espressamente il Consiglio di Stato nella sentenza 10 marzo 2005, n. 1008,
in Urb. e app., 2005, 1079, con nota di VASTA.
(16) L’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici è da considerarsi una Autorità indipendente. L’Autorità è stata istituita con la legge 109 del 1994, per sopperire all’esigenza
di dotare il settore degli appalti pubblici di un organismo indipendente deputato a difendere
la pluralità degli interessi pubblici e privati che spesso in tale settore si trovano ad essere in
conflitto. L’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici è stata definita un tipico esempio di
organismo deputato al controllo dell’intero settore dei lavori pubblici (Cfr., CASSESE, FRANCHINI, I garanti delle regole, Bologna, 1996, 30 ss.). L’orientamento dottrinale maggioritario
concorda sulla sussumibilità delle autorità indipendenti nel novero dei soggetti pubblici amministrativi, considerando a tal fine necessario valutare la natura delle funzioni assegnate a
ciascuno di tali organismi. L’indipendenza ex se dal potere politico, non è ritenuta, infatti, inconciliabile con il concetto di pubblica amministrazione, ma al contrario garantita dagli artt.
97 e 98 cost. Cfr.: CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, 222; CARINGELLA, Il diritto amministrativo, Napoli, 2002, I, 406 ss. Questa impostazione genera effetti
anche in relazione al regime giurisdizionale degli atti emessi dalle autorità indipendenti. In
particolare, per quanto rileva in questa sede, l’art. 4 della Legge n. 205/2000, di riforma del
processo amministrativo, ha previsto l’introduzione dell’art. 23-bis nell’ambito della preesistente normativa istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, Legge n. 1034/1971, al fine
di dare avvio ad un processo amministrativo accelerato in taluni settori tra i quali sono compresi « i provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti ». Sebbene la disposizione chiaramente si rivolga a tutti gli atti emessi dalle autorità, si ritiene che sia solo
una norma di accelerazione processuale e non fondi la giurisdizione amministrativa nei settori interessati, per cui al fine di individuare il giudice competente a conoscere di tali atti sarà
necessario applicare le disposizioni dettate in tema di riparto di giurisdizione.
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Parte della dottrina (17) considera « soddisfacente » il criterio soggettivo — formale per qualificare il provvedimento di liquidazione della Camera arbitrale come atto amministrativo. Secondo questa impostazione, il
regime degli atti dipende esclusivamente dalla natura, pubblicistica ovvero
privatistica, dell’ente che li ha emessi, senza dunque che sia necessaria
l’ulteriore indagine sul contenuto del provvedimento in esame.
Nel caso di specie, il provvedimento di liquidazione sarebbe un « atto
amministrativo in senso stretto » in quanto emesso da una pubblica amministrazione, dotato, per espressa disposizione, di esecutività ed impugnabile
dinanzi al giudice amministrativo per i vizi di legittimità.
Infatti, solo considerando il provvedimento come un atto amministrativo e riconoscendo la sua efficacia esecutiva come un espresso riferimento
alla naturale esecutorietà dei provvedimenti amministrativi, si potrebbe ritenere legittima la disposizione di rango secondario, art. 10 D.M. 2 dicembre 2000, n. 398 (18), che lo qualifica come titolo esecutivo. Diversamente
la disposizione violerebbe la riserva di legge introdotta dall’art. 474 c.p.c.,
secondo la quale sono titoli esecutivi « i provvedimenti e gli altri atti ai
quali la legge espressamente attribuisce efficacia esecutiva ».
Il Consiglio di Stato non ha ritenuto sufficiente il mero profilo soggettivo per qualificare l’ordinanza della Camera come atto amministrativo,
considerando necessario l’esame delle caratteristiche sostanziali dell’atto,
al fine di individuarne la sussistenza degli indici di riconoscimento del
provvedimento amministrativo (19).
Il potere esercitato dalla Camera nella liquidazione del compenso arbitrale è considerato dal giudice amministrativo un potere autoritativo, in
quanto la determinazione vincola le parti, ha efficacia esecutiva ed inoltre
(17) VERDE, Sulla liquidazione dei compensi degli arbitri nell’arbitrato delle oo.pp.,
in questa Rivista, 2006, 332. L’Autore segue la tesi tradizionale che considera qualifica l’atto
di natura amministrativa sulla base della mera riconducibilità formale dello stesso ad un pubblico potere.
(18) Tale interpretazione consentirebbe di superare i profili di illegittimità dell’art. 10
D.M. 2 dicembre 2000, n. 398. Tuttavia il Consiglio di Stato intervenuto nella materia con
la sentenza 17 ottobre 2003, n. 6335, ha ritenuto la disposizione esente da vizi. Il giudice
amministrativo, infatti, ha osservato che l’attribuzione alla Camera del compito di liquidare
il compenso arbitrale in modo vincolante per le parti, in base a tariffe prefissate con decreto
interministeriale, sia coerente con l’intera disciplina di arbitrato amministrato ed, in particolare, con il ruolo della Camera stessa di soggetto preposto alla gestione ed al controllo del
procedimento.
(19) La dottrina tradizionale definisce i provvedimenti amministrativi come manifestazioni di volontà aventi rilevanza esterna, provenienti da una pubblica amministrazione
nell’esercizio di un’attività amministrativa, indirizzate a soggetti determinati o determinabili
ed in grado di apportare una modificazione unilaterale nella sfera giuridica degli stessi. Caratteristiche rilevanti del provvedimento amministrativo sono dunque l’autoritarietà e l’esecutività. Cfr., CARINGELLA, op. loc. ult. cit.; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, cit.,
463 ss.
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non trova fondamento su alcuna base negoziale. Nessun negozio attribuirebbe infatti tale potere alla Camera, ma piuttosto una disposizione normativa se pur di rango secondario. Si giunge cosı̀ alla conclusione di dover
considerare l’atto di determinazione del compenso, estraneo alla procedura
arbitrale, come atto, cioè, che non partecipa della natura volontaria, facoltativa e consensuale dell’istituto arbitrale, natura che deve ritenersi alla
base di qualsiasi arbitrato anche se amministrato.
Inoltre, sembra sussistere in questa attività anche l’esercizio di una
forma di discrezionalità amministrativa da parte della Camera. Quest’ultima
non è infatti vincolata al mero rispetto di tariffe predeterminate, ma, nell’applicazione delle stesse, ha la possibilità di scegliere il compenso che ritiene
più opportuno nell’ambito di limiti minimi e massimi. A tale discrezionalità si
dovrebbe riconoscere, inoltre, una portata ulteriore, considerando che la Camera ha il potere di incrementare fino al doppio i compensi massimi previsti
dalla tariffa, in considerazione della « particolare complessità delle questioni
trattate, delle specifiche competenze utilizzate e dell’effettivo lavoro svolto »,
come risulta dall’allegato al D.M. 2 dicembre 2000, n. 398.
Tale potere discrezionale troverebbe la sua ratio nella necessità di garantire, nella materia dei lavori pubblici, una moderazione della misura dei
compensi liquidati nel corso delle procedure arbitrali, di contenere i costi
complessivi relativi a detta attività, gravanti sulla spesa pubblica, nonché di
assicurare un controllo pubblico sulle modalità di svolgimento degli arbitrati. In questo modo il legislatore ha, infatti, coniugato « l’utilità e la flessibilità » dell’arbitrato con un « controllo pubblico sullo svolgimento »
dello stesso.
Infine, il provvedimento di liquidazione inciderebbe esclusivamente
sul quantum del diritto soggettivo degli arbitri al compenso, e non anche
sull’an dello stesso, con la conseguenza che gli arbitri sarebbero titolari di
un diritto soggettivo al compenso per la prestazione eseguita, ma di un
mero interesse legittimo alla sua concreta determinazione (20).
La conseguenza di questa impostazione è che le controversie sulla
quantificazione del compenso arbitrale da parte della Camera dovrebbero
rientrare nell’alveo della giurisdizione generale di legittimità del giudice
amministrativo. L’ordinanza sarebbe, pertanto, impugnabile per i tradizionali vizi di incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge.
Le parti, inoltre, potrebbero dolersi del superamento del limite massimo e minimo della tariffa applicabile, ferma restando, invece, l’insindacabilità nel merito delle determinazioni assunte. La qualificazione dell’ordinanza come « non impugnabile » si riferirebbe esclusivamente al profilo
della insindacabilità nel merito della scelta effettuata dalla pubblica ammi-
(20) Come è stato osservato da VERDE, Sulla liquidazione dei compensi degli arbitri
nell’arbitrato delle oo.pp., cit., 334.
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nistrazione, mentre rimarrebbe inalterata la possibilità per le parti di impugnare l’atto per i normali vizi di legittimità.
Legittimati a proporre il ricorso avverso l’ordinanza della Camera arbitrale dovrebbero dunque essere gli arbitri e le parti del procedimento arbitrale, mentre legittimata passiva dovrebbe essere la Camera arbitrale
stessa. Ma dubbi sono stati sollevati in dottrina circa la legittimazione processuale della Camera arbitrale e non invece della Autorità per la vigilanza
sui lavori pubblici. Infatti, condividendo l’impostazione per cui la Camera
arbitrale è un organo, un’articolazione dell’Autorità per la vigilanza, solo
quest’ultima dovrebbe avere la legittimazione processuale attiva e passiva.
Inoltre, considerato il diritto al compenso arbitrale un pieno diritto
soggettivo, si darebbe vita ad un procedimento lungo e complesso, che renderebbe ancora più difficile il recupero dei crediti da parte degli arbitri.
Laddove la Camera infatti non provvedesse all’emissione dell’ordinanza,
gli arbitri dovrebbero dapprima rivolgersi al giudice ordinario per ottenere
una sentenza dichiarativa che riconosca il proprio diritto di credito nei confronti delle parti, e poi avviare il procedimento per ottenere dal giudice
amministrativo la determinazione del compenso, in sostituzione della Camera inottemperante (21).
Questa impostazione (22) dovrebbe anche condurre alla conclusione
per cui al fine di portare ad esecuzione il provvedimento di liquidazione del
compenso, la Camera arbitrale dovrebbe servirsi delle normali forme di riscossione della pubblica amministrazione (23), potendosi quindi avvalere
delle procedure privilegiate dettate per la riscossione delle entrate patrimoniali dello stato (24) dal R.D. n. 639/1910 e successive modifiche.
(21) Cfr., G. VERDE, op. ult. loc. cit.
(22) Dalla qualificazione dell’ordinanza di liquidazione dei compensi arbitrali deliberata dalla Camera come un provvedimento amministrativo in senso stretto, si dovrebbe ricavare un’ulteriore conseguenza. In particolare, si potrebbe anche ammettere la possibilità
che la pubblica amministrazione, nel caso la Camera arbitrale, in via di autotutela annulli
l’ordinanza di determinazione del compenso arbitrale considerata illegittima.
(23) Infatti il regolamento di attuazione, emanato con il D.P.R. 21 dicembre 1999, n.
554 all’art. 150 comma 6 prevede che il corrispettivo a saldo per la decisione della controversia deve essere versato dalle parti alla Camera arbitrale, la quale sarà dunque competente
a procedere nel caso di inadempimento da parte delle stesse. In questo senso, F. TIZI, Sulla
liquidazione dei compensi arbitrali negli arbitrati in materia di pubblici appalti, in questa
Rivista, 2007, 273, in particolare nota 15.
(24) In realtà, tale conclusione è stata esclusa nella Risoluzione di massima adottata
dalla Camera arbitrale d’intesa con l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, nella seduta del 24 giugno 2003. Con questa risoluzione, la Camera ha chiarito i dubbi sorti in precedenza circa la riscossione degli onorari arbitrali, dichiarando che spetta agli arbitri la legittimazione esclusiva a perseguire le parti eventualmente inadempienti, « quale naturale riflesso della titolarità del diritto di loro esclusiva spettanza ». Su tali problematiche si rinvia
a BATTISTINI, Il sistema di riscossione degli onorari arbitrali nell’arbitrato amministrato dalla
Camera arbitrale per i lavori pubblici, in questa Rivista, 2003, 875 ss.
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Infine, è opportuno sottolineare che parte della dottrina, pur condividendo la devoluzione dell’ordinanza di liquidazione nell’alveo della giurisdizione del giudice amministrativo, non ha ravvisato a riguardo alcun
esercizio da parte della pubblica amministrazione di un potere autoritativo
e dunque nemmeno ha riconosciuto alla posizione giuridica soggettiva di
cui sono titolari gli arbitri, la qualificazione di interesse legittimo. L’ordinanza di liquidazione non rientrerebbe nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, quanto piuttosto nella sua giurisdizione
esclusiva (25). Il legislatore avrebbe dunque surrettiziamente introdotto una
nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva con una norma di rango secondario. La base normativa che giustifichi tale soluzione si potrebbe ravvisare
in diverse disposizioni legislative, come si dirà in seguito, tra cui, senza
dubbio, nell’art. 33 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dalla
Legge 21 luglio 2000, n. 205, qualificando l’attività svolta dalla Camera
arbitrale, come gestione di un servizio pubblico di composizione delle controversie (26).
4. Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione confuta l’iter
argomentativo proposto dal Consiglio di Stato e perviene a una diversa interpretazione dell’atto emesso dalla Camera arbitrale.
La Suprema Corte, pur non negando la natura pubblicistica dell’ente deliberante, osserva che l’ordinanza di liquidazione del compenso arbitrale incide su due distinte sfere giuridiche. Da una parte vi è la sfera giuridica degli
arbitri, titolari del diritto al compenso per la prestazione eseguita, che dipendono dalla Camera per la misura dello stesso; e, dall’altra, quella delle parti
che hanno l’obbligo di corrispondere agli arbitri il compenso spettante.
La Camera arbitrale in questo contesto svolge un ruolo equiparabile a
quello di un qualsiasi terzo « soggetto a cui sia demandato il compito di
quantificare una prestazione economica dovuta da una parte di un contratto » nei confronti dell’altra.
La Corte non ritiene sufficienti per giungere a diversa conclusione le
considerazioni circa la natura amministrata dell’arbitrato in materia di lavori pubblici, né la natura discrezionale della determinazione effettuata
dalla Camera arbitrale.
(25) Per un approfondimento sul tema si veda inter alios: CAIANIELLO, La tutela dei
diritti fondamentali in cento anni di giustizia amministrativa, in Dir. Soc., 1989, IV, 565 ss.;
ID., Il Giudice amministrativo ed i nuovi criteri di riparto delle giurisdizioni, in Foro amm.,
1998, 1943 ss.
(26) Si tratterebbe di un servizio pubblico in senso stretto, ossia servizi che soddisfano un interesse pubblico ed in relazione ai quali i pubblici poteri assumono un ruolo organizzativo per assicurarne la fruizione da parte dei cittadini. Questa considerazione è stata
rilevata da CAPONI, L’arbitrato amministrato dalle Camere di commercio in Italia, in questa
Rivista, 2000, 674 ss.
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Infatti, la caratteristica dell’arbitrato amministrato è la previsione di
particolare forme, modalità di svolgimento della procedura stessa, al fine di
garantire un maggiore controllo. Immutato è però il fondamento dell’arbitrato amministrato che si trova pur sempre nel consenso, nella scelta volontaria delle parti. Dunque, non si ritiene condivisibile la considerazione per
cui il potere della Camera arbitrale sarebbe « privo di alcun fondamento
negoziale »; è infatti la libera scelta delle parti a deferire la controversia ad
arbitri e anche quella di far gestire l’intera procedura arbitrale da un ente
terzo, al quale sono attribuiti particolari compiti.
Lo stesso Consiglio di Stato (27), in una precedente sentenza, ha sottolineato che l’arbitrato amministrato altro non è che una forma di arbitrato
assistita da una istituzione a ciò preposta, che provvede alla risoluzione di
svariate problematiche di carattere pratico e svolge una funzione di controllo dell’intero processo arbitrale.
L’esistenza e l’attribuzione a questi enti di particolari funzioni nell’ambito della procedura arbitrale non comporta di per sé la creazione di un
rapporto tra l’istituzione stessa e gli arbitri, i quali nell’accettazione dell’incarico assumono obblighi esclusivamente nei confronti delle parti.
La dottrina prevalente (28) è concorde nell’affermare l’esistenza di un
vero e proprio rapporto contrattuale fra le parti e gli arbitri, alla formazione
del quale partecipa, nell’arbitrato amministrato, l’istituzione ad hoc. Nel
settore dei lavori pubblici, il rapporto contrattuale tra parti ed arbitri, a differenza di quanto avviene nell’arbitrato rituale, è notevolmente influenzato
dall’intermediazione della Camera arbitrale. Infatti, con l’accettazione della
nomina, gli arbitri si vincolano a quanto previsto nel regolamento, comprese anche le disposizioni relative alle modalità di determinazione e recupero degli onorari arbitrali, ciò perché il regolamento, richiamato nella
convenzione di arbitrato, integra ex lege lo stesso contratto di arbitrato. Per
quanto riguarda le parti, pur non potendo inquadrare il regolamento interministeriale dei lavori pubblici nella categoria dell’offerta al pubblico, in
quanto espressione di un potere autoritativo, si vincolano al rispetto delle
disposizione dettate per l’arbitrato amministrato in virtù del loro espresso
rinvio fatto tramite un atto negoziale (29).
Senza dubbio, quindi, la Camera deriva i propri poteri da un accordo
(27) In questo modo si esprime il Consiglio di Stato nella già precedentemente citata
sentenza del 17 ottobre 2003, n. 6335.
(28) Cfr. G. MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato, in Rass. Arb., 1990, 3 ss.; G. BERNINI, L’arbitrato, Bologna, 1993, 128 ss.; RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato (interno), Padova, 1991, 247 ss.
(29) Cfr. POLVANI, Arbitrato amministrato e camere arbitrali, in Dizionario dell’arbitrato, a cura di N. Irti, Torino, 1997, 21; BATTISTINI, Il sistema di riscossione degli onorari
arbitrali nell’arbitrato amministrato dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici, in questa
Rivista, 2003, 883 ss.
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negoziale nel quale le parti accettano le disposizioni contenute nel regolamento, ed in particolare le modalità di liquidazione del compenso e l’applicazione delle relative tariffe.
Conseguenza di queste considerazioni è che il rapporto che intercorre
tra arbitri e parti nell’arbitrato amministrato in materia di lavori pubblici
non presenta « caratteri diversi da quello che intercorre tra arbitri e parti
nell’arbitrato disciplinato dal codice di rito ». La previsione di una complessa procedura di liquidazione dei compensi arbitrali non porta di per sé
ad escludere che la stessa abbia ad oggetto pur sempre un diritto di credito.
Infatti, con l’accettazione della nomina, gli arbitri assumono comunque
l’obbligo di eseguire una prestazione d’opera intellettuale ed il correlativo
diritto di credito ad un compenso.
Nemmeno sembra che la Camera nell’emissione dell’ordinanza di liquidazione eserciti la tipica discrezionalità amministrativa. Infatti, la quantificazione del compenso spettante agli arbitri non presuppone una « valutazione, comparazione e composizione degli interessi, pubblici e privati,
presenti in una determinata vicenda amministrativa al fine dell’attuazione
di un pubblico interesse ». Il quantum debeatur deve essere determinato in
base alle tariffe predeterminate e, comunque, applicando criteri di valutazione stabiliti ex ante nel regolamento di attuazione; la discrezionalità che
la Camera ha nell’applicazione di tali criteri non differisce in alcun modo
dalla discrezionalità presente in ogni liquidazione di compensi.
L’atto di liquidazione, pur se proveniente da una pubblica amministrazione, non può dunque essere definito un provvedimento autoritativo,
emesso nell’esercizio di un potere discrezionale, a fronte del quale in capo
agli arbitri dovrebbe sussistere un interesse legittimo (30). Piuttosto, l’ordinanza di liquidazione si deve far rientrare nell’alveo dell’attività della pubblica amministrazione di diritto privato, che di questo segue le forme e le
disposizioni normative.
Conseguenza della qualificazione dell’atto della Camera come atto di
natura privatistica è la necessaria disapplicazione della disposizione di cui
all’art. 10, comma 3, del Decreto Interministeriale 2 dicembre 2000, n. 398,
che attribuisce allo stesso carattere di « titolo esecutivo », perché contrastante con la riserva di legge di cui all’art. 474 c.p.c. Inoltre, l’ordinanza,
non avendo carattere esecutivo, non potrà essere utilizzata per riscuotere
coattivamente il compenso in essa determinato, ma sarà necessario a tal fine
adire il giudice ordinario per ottenere una sentenza in base alla quale esperire l’azione esecutiva. Per questa ragione, secondo la Corte di Cassazione,
(30) Tale atto non dovrebbe considerarsi come espressione della c.d. attività amministrativa in senso stretto, ossia di quell’attività che si manifesta con l’esercizio di poteri autoritativi e certificativi della pubblica amministrazione, ma piuttosto dell’attività di diritto
privato.
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dovrebbe essere, altresı̀, disapplicata la disposizione nella parte in cui qualifica l’ordinanza come « non impugnabile ».
5. Nella sentenza in epigrafe, la Suprema Corte qualifica la Camera
arbitrale come terzo arbitratore e fa rientrare il suo potere di determinazione del compenso arbitrale nella fattispecie di cui all’art. 1349 c.c. L’ordinanza di liquidazione del compenso arbitrale emessa dalla Camera è dunque considerata un atto di arbitraggio. L’Istituzione arbitrale nell’esercizio
della sua competenza non regola un rapporto tra amministrazione e parti,
ma tra parti ed arbitri, limitandosi a determinare il quantum del loro credito. In tale rapporto, l’istituzione arbitrale svolge dunque un ruolo che si
pone sullo stesso piano del terzo arbitratore.
Sembra, infatti, che l’ordinanza presenti tutti i caratteri della fattispecie di cui all’art. 1349 c.c. Le parti, con la convenzione di arbitrato, e gli
arbitri, con l’accettazione della nomina, deferiscono ad un terzo, il consiglio della Camera arbitrale, la determinazione di una « prestazione dedotta
nel contratto ». La determinazione non è rimessa al mero arbitrio del terzo,
ma al suo equo apprezzamento, i cui confini saranno delimitati dal necessario rispetto della tariffa allegata al decreto interministeriale.
Questa ricostruzione del potere della Camera potrebbe essere avvalorata dalla decisione assunta dal governo in sede di emanazione del D.P.R.
21 dicembre 1999, n. 554, di non riprodurre alcune delle disposizione contenute nel progetto. In particolare, il progetto del D.P.R consentiva alla Camera di determinare il compenso arbitrale anche in deroga alle tariffe professionali vigenti; prevedeva che il costo della Camera dovesse incombere
sulla parte ricorrente; e che una parte degli importi versati venissero trattenuti dalla Camera stessa proprio per provvedere al pagamento delle spese
di funzionamento e del compenso dei suoi organi (31). Questa disposizione
avrebbe fatto sorgere forti dubbi circa la qualificazione della Camera come
(31) Il testo originario dell’art. 151, comma 11, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, era
il seguente: « Gli importi dei corrispettivi dovuti alla Camera arbitrale per la decisione delle
controversie sono versati all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati ai sensi
dell’art. 4, comma 10-quinquies, della Legge 11 febbraio 1994, n. 109, con decreto del Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica all’unità previsionale di
base della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativa al funzionamento dell’Autorità per
la vigilanza sui lavori pubblici al fine del pagamento delle spese di funzionamento della Camera arbitrale, del compenso degli organi della Camera stessa e del compenso agli arbitri ».
Questa disposizione è stata dichiarata illegittima dalla Corte dei Conti, nella deliberazione 8
maggio 2000, n. 40 (in Riv. Corte Conti, 2000, 171), in sede di controllo preventivo di legittimità, ai sensi dell’art. 100 Cost. La Corte ha, infatti, ritenuto che il versamento di una parte
dei corrispettivi arbitrali alla Camera arbitrale, per la successiva riassegnazione al bilancio
dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici violasse i principi generali in materia di bilancio, che vietano tendenzialmente le c.d. « entrate di scopo », nonché l’art. 32 Legge 11
febbraio 1994, n. 109.
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arbitratore ex art. 1349 c.c. L’Istituzione arbitrale non avrebbe, infatti, rivestito il ruolo di soggetto terzo, ma sarebbe stata comunque interessata alla
quantificazione del compenso degli arbitri (32). Nel testo attuale del regolamento è stata, tuttavia, eliminata la possibilità che la Camera trattenga una
parte dei compensi (33).
L’arbitratore può decidere secondo il suo criterio individuale, in
quanto le parti nel deferimento dell’incarico, hanno riposto piena fiducia
nella sua correttezza e imparzialità, oltre che nella sua capacità di discernimento. Il suo apprezzamento si sottrae per questa ragione ad ogni controllo
nel merito della decisione e le parti possono impugnare la determinazione
solo nel caso in cui questa sia manifestamente iniqua o erronea. La determinazione della Camera arbitrale sarà dunque nulla solo se sacrifica notevolmente l’interesse di una delle parti (34), senza giustificarsi nell’economia
del contratto, ovvero se è il risultato della falsa conoscenza o utilizzazione
degli elementi posti a fondamento della determinazione.
L’insidacabilità nel merito del provvedimento di liquidazione del
compenso arbitrale potrebbe essere dunque giustificato, anche seguendo
questa diversa qualificazione giuridica.
Altra causa di invalidità della determinazione del terzo è considerata
la violazione delle istruzioni impartitegli dalle parti. Nell’arbitrato amministrato dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici l’unica differenza è data
dalla circostanza per cui non sono le parti ad impartire istruzioni con la stipulazione del contratto di arbitrato, ma le stesse sono stabilite ex ante dalla
normativa di settore e la loro violazione determina comunque l’invalidità
dell’atto camerale.
Nei casi di invalidità della determinazione per i motivi anzidetti ovvero nel caso in cui la Camera arbitrale non provveda all’emanazione dell’ordinanza, questa sarà sostituita dalla determinazione giudiziale (35).
(32) Questo profilo è stato sottolineato da LUISO, La Camera arbitrale per i lavori
pubblici, in questa Rivista, 2000, 417 ss.
(33) L’omissione di tali spese è stata considerata dalla dottrina come un incentivo all’utilizzo dello strumento arbitrale nel settore dei lavori pubblici, ovvero come « un valore
aggiunto » dell’arbitrato in questa materia rispetto all’arbitrato amministrato in genere. Cfr.
BUONFRATE - LEOGRANDE, L’arbitrato nei lavori pubblici: dubbi di legittimità e altre questioni
aperte, in Riv. trim. app., 2002, 102 ss.
(34) L’orientamento maggioritario in dottrina e giurisprudenza ritiene che, in tema di
arbitraggio, per stabilire quando la determinazione della prestazione da parte del terzo sia
impugnabile per manifesta iniquità ai sensi dell’art. 1349 c.c., deve farsi riferimento, in mancanza di un criterio legale, al principio desumibile dall’art. 1448 c.c., sicché ricorre la manifesta iniquità in presenza di una variazione superiore alla metà di quella equa. Cfr., Cass., 30
dicembre 2004, n. 24183, in I Contratti, 2005, f. 7, 668 ss.; in dottrina, C.M. BIANCA, Diritto
civile, 3. Il contratto, Milano, 2000, 330 ss.
(35) Seguendo l’impostazione della natura privatistica dell’atto di liquidazione della
Camera arbitrale si potrebbe risolvere l’inconveniente derivante dalla necessità di avviare il
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La legge non disciplina, relativamente all’arbitraggio, le modalità procedimentali della determinazione giudiziale. Tuttavia, la dottrina prevalente
ritiene applicabile in via analogica, in quanto compatibile, la disposizione
dettata dall’art. 1473 c.c. circa la determinazione del prezzo. L’intervento
giudiziale, ai sensi dell’art. 82 disp. att. c.c., potrà dunque essere richiesto
da una delle parti mediante ricorso al Presidente del Tribunale del luogo di
esecuzione della prestazione da determinare. Le peculiarità della fattispecie in oggetto hanno persuaso la Corte di Cassazione a non applicare queste regole procedimentali, ma, piuttosto, ad avvicinare la liquidazione del
compenso da parte della Camera arbitrale a quella prevista per l’arbitrato
rituale dall’art. 814 c.p.c. Le Sezioni Unite hanno, infatti, osservato che all’ordinanza camerale non può essere riconosciuto carattere esecutivo, ma
piuttosto valenza di una mera proposta di liquidazione, in tutto equiparabile
a quella effettuata dagli arbitri rituali nel lodo. Da ciò consegue che, laddove gli obbligati non accettino la determinazione della Camera arbitrale,
sarà possibile rivolgersi al Presidente del Tribunale, del luogo ove ha sede
l’arbitrato, affinché determini la misura del compenso arbitrale, con ordinanza che costituisce titolo esecutivo. Avverso tale ordinanza le parti potranno esperire reclamo dinanzi alla Corte di Appello, entro trenta giorni
dalla comunicazione, e la Corte provvederà in camera di consiglio con ordinanza, ex art. 825 c.p.c. In questo modo, però, la Corte di Cassazione finisce con l’avvicinare sempre di più il procedimento di liquidazione nel
settore dei lavori pubblici a quello previsto per l’arbitrato rituale, pressoché
eliminando le peculiarità e le differenze dettate dal legislatore in questo
settore da sempre considerato « sensibile » e pertanto oggetto di una disciplina ad hoc. Infatti, anche in relazione all’efficacia di questa ordinanza, la
Corte di Cassazione la equipara ad una mera proposta non vincolante per
le parti, non attribuendole dunque neanche la portata di un atto di arbitraggio (36), che vincola in ogni caso le parti, le quali sono tenute al rispetto
della determinazione in essa contenuta e possono impugnarla solo laddove
sussistano i presupposti di invalidità previsti dall’art. 1349 c.c. (37).
lungo procedimento di impugnazione del silenzio della pubblica amministrazione. L’art. 2,
comma 5, della Legge 7 agosto 1990, n. 241 come modificato dalla Legge 14 maggio 2005,
n. 80, prevede che nel caso in cui la pubblica amministrazione non emani il provvedimento
a cui è tenuta nel termine stabilito, le parti interessate potranno con ricorso impugnare il silenzio, anche senza la necessità della previa diffida dell’amministrazione inadempiente. Il
giudice amministrativo sarà competente a conoscere anche della fondatezza dell’istanza.
(36) Questa contraddizione è stata rilevata anche da LUISO, La liquidazione del compenso negli arbitrati dei lavori pubblici, in questa Rivista, 2008, 2, 165 ss., il quale osserva
che « una volta correttamente qualificata la determinazione della Camera come arbitraggio, è
errato sostenere che l’atto determinativo del terzo è sostituito dal giudice se contestato ».
L’atto potrebbe essere, infatti, sostituito dal giudice solo laddove ne venga accertata la manifesta iniquità o erroneità, in conformità con quanto stabilito dall’art. 1349 c.c.
(37) Con la stipulazione della clausola di arbitraggio le parti non solo assumono
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Inoltre, si ritiene opportuno sottolineare che nell’accogliere questa
impostazione, la Corte di Cassazione non chiarisce alcuni aspetti dell’atto
di arbitraggio, ed in particolare chi ed in che modo conferisca l’incarico
alla Camera arbitrale di procedere alla formulazione di tale atto. Si dovrebbe, infatti, supporre che le parti al momento del deposito della domanda di arbitrato oltre ad accettare le norme procedimentali dettate dal
regolamento per lo svolgimento dell’arbitrato amministrato, conferiscano
anche implicitamente all’Istituzione il potere di determinare il compenso
arbitrale attraverso questo atto di arbitraggio. In questo modo si potrebbe
giustificare l’assenza di un incarico formale per iscritto alla Camera. Tuttavia ciò che sembra mancare è proprio la volontà delle parti e degli arbitri
di deferire la decisione all’Istituzione. Si tratta pur sempre di una imposizione, di un vincolo per le parti legislativamente imposto, di cui non vi è
traccia nella disciplina dell’arbitrato amministrato, né se ne vede la ratio.
6. La Corte di Cassazione nella sentenza in esame accoglie dunque
l’orientamento espresso già da autorevole dottrina per cui l’ordinanza di liquidazione del compenso degli arbitri emessa dalla Camera arbitrale è un
atto di natura privatistica, inquadrabile nell’istituto dell’arbitraggio, ex art.
1349 c.c.
Tuttavia, la Suprema Corte con questa sentenza, nonostante prenda
una chiara posizione sulla natura giuridica dell’ordinanza, lascia inalterate
tutte le incertezze preesistenti. Concordiamo con la Corte sulla illegittimità
dell’art. 10, comma 3, Decreto Interministeriale 2 dicembre 2000, n. 398,
nella parte in cui definisce l’ordinanza della Camera arbitrale « non impugnabile » e « titolo esecutivo ». Infatti, l’attribuzione alla Camera arbitrale
del compito, comunque non derogabile per espressa volontà delle parti, di
liquidare il compenso degli arbitri con un atto che vincola parti, arbitri e
periti, sembra doversi considerare proprio come attribuzione di una « funzione giurisdizionale » (38). Dal che sarebbe difficile sostenerne la legittimità.
l’obbligo di accettare la dichiarazione del terzo, ma realizzano già l’esecuzione di tale obbligo, assumendo a priori la dichiarazione che sarà per fare il terzo. Da questa particolare fusione di obbligo e sua realizzazione discende l’impossibilità per le parti di impedire la attuazione del rapporto, cui la pronuncia del terzo si riferisce, in quanto esse potranno certamente
non adempiere al contratto, ma non impedire che il dictum dell’arbitratore ne divenga automaticamente parte integrante. Cfr., SCADUTO, Gli arbitratori nel diritto privato, in Annali del
Seminario giuridico della R. Università di Palermo, XI, Cortona, 1923, 82 ss.; DIMUNDO,
L’arbitraggio. La perizia contrattuale, in AA.VV., L’arbitrato profili sostanziali, I, in Giur.
sist. dir. civ. comm., Torino, 1999, 147 ss.
(38) Cfr. VERDE, Le funzioni « paragiurisdizionali » della Camera arbitrale per i lavori pubblici, cit., 159, il quale definisce il compito affidato all’Istituzione arbitrale di liquidare i compensi arbitrali « non una funzione paragiurisdizionale, ma giurisdizionale in senso
proprio », poiché tali statuizioni risolvono un possibile conflitto tra arbitri, parti e periti, con
un provvedimento definito non impugnabile ed esecutivo.
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È da chiedersi se dovendosi l’eventuale azione giudiziaria proporre dinanzi al giudice ordinario, quest’ultimo possa provvedere « disapplicando »
l’atto illegittimo. La risposta affermativa si risolverebbe, però, in un espediente. Infatti, non si tratterebbe di disapplicare una tantum l’atto, ma piuttosto di affermare la stessa illegittimità del sistema organizzativo voluto dal legislatore ed immutato con il decreto interministeriale. In altre parole, la disapplicazione maschererebbe un sostanziale annullamento dell’atto (d.m.), che
compete, in via principale, al giudice amministrativo (39). D’altra parte, la
stessa disapplicazione non sembra funzionale alla decisione prescelta dalla
Suprema Corte, perché, comprimendo la stessa ragion d’essere della Camera
arbitrale, introduce uno schema decisorio inappropriato, ove si consideri: a)
che manca una precisa volontà delle parti di richiedere l’arbitraggio (essendo
la soluzione di rimettere alla Camera arbitrale la determinazione dei compensi
imposta, e non volontariamente scelta); b) che, comunque, anche nella prospettiva della Suprema Corte, non si tratterebbe di arbitraggio, atteso che la
determinazione della Camera non si configura come atto negoziale vincolante
(impugnabile ex art. 1349 c.c.), ma come una proposta che ciascuna delle parti
può rendere irrilevante semplicemente rifiutandosi di accettarla.
L’unica via praticabile è, allora, quella di ritenere che la determinazione della Camera sia un atto amministrativo, non esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c., ma dotato di esecutorietà come qualsiasi atto amministrativo. E ciò è possibile sostenere aderendo a quella parte della dottrina che
considera il regime degli atti dipendente dalla qualificazione soggettiva
dell’organo deliberante. La Camera arbitrale per i lavori pubblici presenta
infatti tutti i caratteri di una pubblica amministrazione. L’Ente è stato istituito « presso » l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici e da quest’ultima dipende sia per il reperimento di risorse finanziarie che per il personale necessario allo svolgimento delle sue funzioni. La Camera è inoltre
composta da un Presidente e da un Consiglio arbitrale entrambi nominati
dall’Autorità per la vigilanza, la quale svolge inoltre una funzione di controllo sull’attività dell’Istituzione arbitrale. Queste caratteristiche (40) hanno
spinto la dottrina prevalente a considerare la Camera arbitrale come un ente
(39) Il Consiglio di Stato si è già espresso sul tema, confermando la legittimità del
Decreto Ministeriale nella già citata sentenza 17 ottobre 2001, n. 6335.
(40) La dottrina prevalente ritiene che per accertare la natura pubblica di un ente sia
necessario guardare al regime giuridico dello stesso, ossia al complesso di norme e di principi che ne regolano l’esistenza e l’attività. In particolare gli indici di riconoscimento della
natura pubblica di un ente sono individuabili in: un sistema di controlli pubblici; una ingerenza dello Stato o di altra pubblica amministrazione nella nomina o revoca dei dirigenti
nonché nell’amministrazione dell’ente; una partecipazione della pubblica amministrazione
nelle spese di gestione; un potere di direttiva della pubblica amministrazione per il perseguimento di determinati obiettivi; costituzione ad iniziativa pubblica. Cfr.: A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 32 ss.; VIRGA, Diritto amministrativo, Milano,
2001.
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pubblico, ma potrebbero indurre persino a dubitare dell’autonomia e della
distinta soggettività giuridica dell’Ente ed a considerarla come un organo,
una mera articolazione dell’Autorità per la vigilanza.
Considerando dunque l’ordinanza come un atto amministrativo, dotato
di naturale ed automatica esecutività, tale atto dovrebbe essere impugnato
dinanzi al giudice amministrativo per i tradizionali vizi di illegittimità, violazione di legge ed eccesso di potere, « inserendo nel sistema una non prevista ipotesi di giurisdizione esclusiva ». Questa impostazione sembra, anche se non risolvere, quanto meno semplificare i problemi che deriverebbero dall’applicazione del tradizionale criterio di riparto di giurisdizione tra
giudice amministrativo e giudice ordinario basato sulla dicotomia interesse
legittimo - diritto soggettivo. L’applicazione del criterio, già di per sé non
agevole, risulterebbe ancora più complesso nel caso di specie, in considerazione delle peculiari funzioni e poteri attribuiti alla Camera arbitrale in
ordine alla liquidazione dei compensi arbitrali.
L’attrazione dell’ordinanza di liquidazione dei compensi arbitrali
nell’alveo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo potrebbe trovare il suo fondamento normativo nell’art. 33 D.Lgs. 31 marzo
1998, n. 80, come modificato dalla Legge 21 luglio 2000, n. 205 e dalla
sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204. La disposizione
riserva alla giurisdizione esclusiva tutte le controversie « in materia di
pubblici servizi », ciò in considerazione della peculiarità della materia,
derivante dalla difficoltà di procedere in essa ad una distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, nonché da un necessario controllo
pubblico. Proprio la commistione tra interessi pubblici e privati e la necessità di calmieramento dei costi derivanti dalle procedure arbitrali
hanno indotto il legislatore a dettare in questa materia un arbitrato amministrato e a prevedere l’istituzione di un Ente che svolge funzioni di
gestione e controllo su queste procedure (41). Tale attività posta in essere
dalla Camera arbitrale di gestione delle procedure arbitrali può essere
considerata alla stregua di un servizio pubblico (42). Infatti, la composi-
(41) L’inquadramento dell’attività della Camera arbitrale in termini di servizio pubblico non è affatto agevole, considerata la storica difficoltà di definizione del concetto nonché le considerevoli e frequenti incertezze della giurisprudenza amministrativa e ordinaria.
Tuttavia sembra potersi arrivare ad estendere la nozione di servizio pubblico fino a ricomprendere anche l’attività di gestione della procedura arbitrale, proprio dalla tendenza manifestasi nella giurisprudenza del giudice amministrativo, ad allargare i confini della materia sino
ad includervi segmenti dell’attività della pubblica amministrazione sinora considerati estranei. Cfr. sentenza T.A.R. Catania, Sez. III, 7 gennaio 2002, n. 7, in Vita Notarile, 2002, I,
292, in cui si sono considerate rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie relative alla fase di esecuzione di contratti di appalti pubblici di
lavori, servizi e forniture.
(42) La nozione di servizio pubblico è stata considerata tra le più tormentate dell’ordinamento italiano, poiché il legislatore non ne ha mai fornito una definizione espressa. Sul
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zione di controversie e l’organizzazione del procedimento a tal fine dettato è qualificabile come un « servizio pubblico in senso stretto », ovvero
un’attività che è finalizzata al soddisfacimento di un interesse pubblico
ed in cui il pubblico potere svolge un ruolo organizzativo per consentirne
la fruizione da parte di tutti i cittadini.
Inoltre, si potrebbe desumere la necessità dell’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo anche dall’art. 245 (43) D.Lgs. 12 aprile
2006, n. 163. Questa disposizione riserva al giudice amministrativo ovvero alternativamente al Presidente della Repubblica, mediante ricorso
straordinario, la cognizione di tutti i provvedimenti emessi dall’Autorità
per la vigilanza sui lavori pubblici. Dalla norma si potrebbe ricavare la
volontà del legislatore di riservare al giudice amministrativo la cognizione non solo degli atti emessi dall’Autorità ma anche dall’Istituzione
arbitrale che presso la stessa è stata istituita. Come abbiamo anticipato,
infatti la Camera arbitrale non sembra dotata di propria autonomia, ma
piuttosto dipendere dalla Autorità amministrativa, della quale ne dovrebbe seguire anche il regime degli atti.
Tuttavia, la Corte di Cassazione nella sentenza in commento non ha
ritenuto decisivo tale argomento, considerando a contrario che il mancato riferimento agli atti della Camera arbitrale ovvero alle disposizioni
normative che disciplinano l’Ente, debba indurre ad escludere una volontà del legislatore di riservare alla giurisdizione del giudice amministrativo anche degli atti dell’istituzione arbitrale. In realtà, sembra che la
ratio legis dell’introduzione di questa ipotesi di giurisdizione esclusiva
si rinvenga nella difficoltà di individuare la natura giuridica della molteplicità degli atti emessi dalle autorità amministrative indipendenti ed, in
questo caso, dall’Autorità per la vigilanza e dall’intreccio inestricabile
delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte. Questa esigenza di semplificazione e di tutela degli interessi pubblici, implicati negli atti emessi
dalle autorità indipendenti, sembra sussistere anche in relazione agli atti
emessi dalla Camera arbitrale, la cui natura giuridica è altrettanto discussa.
tema si distinguono tradizionalmente due indirizzi: la concezione c.d. soggettiva e quella c.d.
oggettiva. Sul tema si rinvia a: MERUSI, (voce) Servizio pubblico, in Noviss. dig. it., vol. XVII,
1970; POTOTSCHNIG, I servizi pubblici, Padova, 1964; CAIA, La disciplina dei servizi pubblici,
in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA (a cura di), Diritto
amministrativo, Milano, 1998, 893 ss.
(43) La disposizione normativa prevede che: « gli atti delle procedure di affidamento,
nonché degli incarichi e dei concorsi di progettazione, relativi a lavori, servizi e forniture
previsti dal presente codice, nonché i provvedimenti dell’Autorità, sono impugnabili, alternativamente mediante ricorso al Tribunale amministrativo regionale competente o mediante
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ».
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Si ritiene opportuno che sia il giudice amministrativo competente a
decidere delle impugnazioni avverso l’ordinanza di liquidazione della
Camera arbitrale anche per un diverso ordine di ragioni. Infatti, la previsione di un procedimento di liquidazione degli onorari arbitrali, che in
molti aspetti si distingue da quello dettato dal codice di rito, dipende
proprio dall’esigenza di assicurare in questa materia una certa tutela e
controllo sull’attività della pubblica amministrazione. In questa prospettiva, la previsione di una liquidazione che avvenga non con una mera
proposta non vincolante per le parti, ai sensi dell’art. 814 c.p.c., ma
piuttosto con un’ordinanza « non impugnabile che costituisce titolo esecutivo », ha la finalità di garantire una tutela aggiuntiva agli arbitri nel
soddisfacimento del loro diritto di credito, ma anche di assicurare un
ruolo di calmiere dei costi derivanti dalle procedure arbitrali all’ente
pubblico che vi provvede.
Inoltre, la qualificazione dell’ordinanza come un atto amministrativo,
se da un lato comporta una riduzione o comunque un adeguamento dei
compensi arbitrali, dall’altro assicura agli arbitri una agevole riscossione
degli stessi. Al contrario, la considerazione dell’atto come un arbitraggio,
ex art. 1349 c.c., laddove « le parti non adempiano spontaneamente, aggiunge al sacrificio di un compenso in misura ridotta, il costo di un procedimento giudiziale per ottenere l’adempimento coattivo » (44) dell’obbligazione pecuniaria.
Altro è, poi, il problema dei limiti del sindacato giurisdizionale del
giudice amministrativo. Si ritiene che la cognizione di quest’ultimo debba
essere limitata alla corretta applicazione della tariffa contenente l’indicazione degli onorari arbitrali, nonché alla corretta individuazione dello scaglione applicabile a seconda del valore della controversia decisa dal collegio arbitrale.
Non sembra, invece, che il giudice amministrativo possa sindacare se
agli arbitri spetta il diritto al compenso. Infatti, il diritto al compenso esiste per il solo fatto che il lodo è stato emanato.
Né sembra, come è stato evidenziato (45), censurabile la determinazione del compenso arbitrale che sia rispettosa dei limiti tariffari, ma che si
ritenga eventualmente iniqua. Infine, altri problemi possono essere fatti valere soltanto in controversie che involgono la responsabilità degli arbitri e
che sono di competenza del giudice ordinario.
Sembra comunque che la natura amministrativa dell’ordinanza di liquidazione della Camera arbitrale insieme con le altre disposizioni dettate
(44) In tal senso VERDE, Sulla liquidazione dei compensi degli arbitri nell’arbitrato
delle oo.pp., cit., 336.
(45) Cfr. VERDE, op. loc. ult. cit.
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in questa materia, trovino unica giustificazione nella « sensibilità » del settore dei lavori pubblici, ove « le esigenze di rapidità e di specializzazione
intrinsecamente connesse al contenzioso in materia » (46), devono convivere con interessi pubblici e con esigenze di controllo sul settore.
RITA TUCCILLO
(46) Cosı̀ Cons. Stato, sent. 17 ottobre 2003, n. 6335, si veda in particolare con nota
di G. VERDE, L’arbitrato nelle controversie in materia di opere pubbliche: un problema ancora in cerca di una soddisfacente soluzione, in Corr. giur., 2004, 522.
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TRIBUNALE DI BOLOGNA; sentenza 17 aprile 2008; GRAZIOSI Est. — Costruzioni Sveco Buriani S.p.a. (avv.ti Baldini e Faldella) c. Cumoli + 4 (avv.
Ciani).
Arbitrato rituale o irrituale - Interpretazione della clausola compromissoria Clausola compromissoria dubbia - Irritualità.
Arbitrato irrituale - Decisione secondo diritto - Incompatibilità - Contraddittorietà della clausola compromissoria - Nullità.
In caso di dubbio la clausola compromissoria si deve intendere per arbitrato
irrituale.
La decisione secondo diritto è incompatibile con l’arbitrato irrituale, essendo
prevista dall’art. 822 c.p.c. per il rituale, pertanto una clausola che preveda un arbitrato irritale e di diritto è non già dubbia bensı̀ puramente contraddittoria, o logicamente insostenibile, in quanto con essa le parti manifestano la volontà per due
cose incompatibili; la contraddittorietà della volontà elide la volontà stessa, con
la conseguenza che siffatta clausola è nulla per difetto di volontà.
CENNI DI FATTO. — Una società di costruzioni promuove un giudizio arbitrale
attivando la clausola compromissoria inserita nel contratto di cessione di quote sociali, stipulato dalla stessa società con le controparti. Emesso il lodo, la società lo
impugna per nullità e inefficacia della clausola compromissoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — La prima preliminare questione da vagliare concerne la validità della clausola compromissoria. L’attore ne sostiene la nullità perché sarebbe un ibrido contraddittorio tra arbitrato rituale e irrituale. Controparte ne
assume la validità, come irrituale, sostenendo altresı̀ che, avendo all’udienza 14
gennaio 2003 dinanzi al Collegio arbitrale dichiarato le parti a verbale « di considerare l’arbitrato come irrituale » (cfr. lodo, pag. 8), con ciò le parti stesse avrebbero (firmando il verbale) stipulato un negozio di accertamento del patto compromissorio che integrava e sostituiva l’art. 17 della scrittura privata, cioè la clausola
compromissoria contestata dall’attore. In realtà, da quanto risulta appunto dallo
stesso lodo, le parti hanno semplicemente dato una qualificazione alla clausola
compromissoria in virtù della quale il procedimento arbitrate era già incardinato;
non può quindi ritenersi sussistente una sostituzione dell’originario patto compromissorio. Quanto poi alla qualificazione, compete ovviamente al giudice, trattandosi appunto di accordo già stipulato e non sostituito con altro. Nel caso di specie,
l’accordo compromissorio è l’art. 17 del contratto di cessione di quote sociali, che
deferisce ogni controversia nascente da esso a un collegio di « tre arbitri irrituali »
che pronuncerà « secondo diritto », e le cui definizioni, « che dovranno essere succintamente motivate, avranno valore di patto contrattuale direttamente stipulato
dalle parti », escluso quindi sia il deposito ex art. 825 c.p.c. sia qualsiasi impugnazione. È nota che la prevalente giurisprudenza afferma che in caso di dubbio si
deve intendere irrituale la clausola d’arbitrato. E peraltro espressamente affermato
dalla Suprema Corte (Cass. n. 15150/2003) che la decisione secondo diritto è incompatibile con l’arbitrato irrituale, essendo prevista dall’art. 822 c.p.c. per il rituale. Infatti vi è una differenza sostanziale (su cui detta lettura giurisprudenziale si
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fonda e che impedisce di aderire a posizioni contrarie come quelle di Cass. n.
13114/2004) tra l’arbitrato rituale in cui le parti conferiscono un potere dirimente
delle loro controversie che, pur di natura privata come l’irrituale, sfocia tuttavia in
un lodo suscettibile di esecutività ex art. 825 c.p.c., e l’irrituale, in cui le parti affidano agli arbitri la soluzione della controversia « attraverso uno strumento strettamente negoziale », riconducibile alla loro volontà (cfr. Cass. n. 12714/2002) e
non al diritto (anche se ovviamente con questo non può contrastare, essendo la volontà negoziale valida solo se non illecita: art. 1418, comma 1 c.c.). Dunque la
clausola sopra citata appare palesemente contraddittoria, da un lato affidando agli
arbitri un potere decisorio conforme, seppur privato, a quello di un terzo quale antologicamente è il giudice (cioè colui che risolve le controversie in base al diritto,
a parte i marginali spazi dell’equità) e al tempo stesso l’esercizio della propria volontà negoziale senza impugnazione alcuna: da un lato, dunque, l’arbitro è terzo
(esercita il diritto), dall’altro rappresenta le parti (ne esprime la volontà negoziale).
Non è questo il caso di una clausola dubbia — nella quale ipotesi verrebbe in gioco
l’applicabilità o meno dell’orientamento giurisprudenziale nel senso dell’irritualità
— bensı̀ puramente contraddittoria. Un conto è, infatti, non riuscire a identificare il
contenuto della volontà delle parti (il dubbio), un conto è identificarlo come logicamente insostenibile, cioè, appunto, contraddittorio. È esatta al riguardo la prospettazione attorea, laddove adduce una « autodistruzione giuridica » come senso
della presente clausola (citazione, pag. 5). Le parti, infatti, hanno manifestato volontà per due cose incompatibili: conferire all’arbitro funzione di terzo e funzione
di « procurator ». Non a caso la pratica non riscontra l’esistenza di arbitrati che
siano al contempo rituali e irrituali, ma ha sempre mantenuto una distinzione tra le
due specie. La contraddittorietà della volontà elide la volontà stessa: a ciò consegue che la clausola è nulla per difetto di volontà. Non incide, nella fattispecie, il
principio di conservazione ex art. 1367 c.c., in quanto ha come presupposto il dubbio, che, come si è visto, è concetto diverso dalla contraddittorietà. È vero che una
situazione di contraddittorietà potrebbe dar luogo a dubbio, ma questo qualora la
contraddittorietà non pervenga a un grado cosı̀ alto da rendere del tutto logicamente
insostenibile la volontà espressa dalle parti, corde invece accade nel caso in esame.
La conservazione, in questo caso appunto, non sarebbe tale, bensı̀ costituirebbe una
sostituzione della volontà delle parti con unta scelta dell’interprete: il che evidentemente non è riconducibile all’art. 1367 c.c.
La nullità della clausola compromissoria genera la nullità del lodo, per difetto
di mandato agli arbitri. Ciò comporta il rigetto delle domande riconvenzionali di
parte convenuta, che si fondato su presupposti incompatibili. Non è accoglibile
neppure la domanda attorea di rimborso delle spese e oneri per le difese dinanzi al
collegio arbitrale, essendo stata la parte attrice coautrice della clausola contraddittoria, che ha generatola nullità ed avendo contribuito allo svolgimento comunque
della procedura arbitrale attribuendo, come si è visto e pur esulando ciò dai suoi
poteri, una qualificazione di irritualità della clausola (cfr. art. 1227, comma 2 c.c.).
La particolarità della fattispecie, oltre alla soccombenza reciproca, giustifica
la compensazione delle spese.
(Omissis).
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Sulla presunta incompatibilità tra arbitrato irrituale e pronuncia secondo diritto (*).
1. La sentenza in commento affronta, in particolare, la questione relativa al rapporto tra la tipologia dell’arbitrato voluto dalle parti e il metro
di giudizio utilizzato per la soluzione della controversia.
Nel caso di specie, una società di costruzioni aveva stipulato un contratto di cessione di quote sociali, al quale era stata apposta una clausola
compromissoria.
La società conveniva poi in giudizio le controparti perché venisse dichiarata la nullità della clausola compromissoria e del lodo medio tempore
emesso in sede arbitrale. A sostegno della domanda di nullità veniva portata l’argomentazione secondo cui la clausola compromissoria « sarebbe un
ibrido contraddittorio tra arbitrato rituale e irrituale ». In particolare, detta
clausola, contenuta nell’art. 17 del contratto di cessione di quote sociali,
deferisce ogni controversia nascente da esso ad un collegio di « tre arbitri
irrituali » che pronuncerà « secondo diritto », e le cui definizioni, « che dovranno essere succintamente motivate, avranno valore di patto contrattuale
direttamente stipulato dalle parti », con esclusione del deposito ex art. 825
c.p.c. e di qualsiasi impugnazione.
Il Tribunale di Bologna giunge a dichiarare la nullità della clausola e
del lodo, attraverso un ragionamento che percorre un duplice passaggio: in
primo luogo viene riaffermato l’indirizzo giurisprudenziale (all’epoca dell’instaurazione del giudizio largamente prevalente) in base al quale in caso
di dubbio nell’interpretazione della clausola si deve intendere irrituale l’arbitrato; in secondo e più rilevante luogo si rileva che, come anche sostenuto in una pronuncia della S.C. (1), la decisione secondo diritto è incompatibile con l’arbitrato irrituale, essendo essa prevista dall’art. 822 c.p.c.
per il solo arbitrato rituale.
Premesso ciò il giudice bolognese spiega come, con riferimento alla
clausola compromissoria oggetto di giudizio, non emerga, in realtà, un
dubbio sulla qualificazione dell’arbitrato, quanto piuttosto una palese contraddizione (consistente nella previsione di una pronuncia secondo diritto
nell’ambito di un arbitrato irrituale), ossia una manifestazione di volontà
logicamente insostenibile che, come tale, è come se non fosse stata
espressa. La mancanza di volontà determina quindi il venir meno di un ele(*) Nell’elaborare il presente scritto non si è potuto tener conto della nuova disciplina dell’arbitrato, intervenuta con il D.Lgs. n. 40/2006, poiché nel caso di specie sia la stipula della clausola compromissoria, sia la proposizione della domanda di arbitrato (finanche
tutto il procedimento arbitrale), sono intervenute prima dell’entrata in vigore del suddetto decreto legislativo.
(1) Cass., Sez. I, 10 ottobre 2003, n. 15150, in Arch. civ., 2004, 906; in Gius., 2004,
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mento essenziale del patto compromissorio che, cosı̀ come il conseguente
lodo, deve essere dichiarato nullo.
2. Nello specifico, la decisione del giudice di legittimità (2), cui il
tribunale di Bologna si riferisce per giustificare il suo orientamento, ritiene
che l’art. 822 c.p.c., per il quale « gli arbitri decidono secondo le norme di
diritto, salvo che le parti li abbiano autorizzati con qualsiasi espressione a
pronunciare secondo equità », si riferisca esclusivamente all’arbitrato rituale. La norma non sarebbe quindi applicabile all’arbitrato libero che, a
differenza del rituale, consisterebbe in una composizione della lite attuata
mediante una decisione che le parti s’impegnano a considerare come
espressione della propria volontà.
Tale discorso non convince. A mio avviso è possibile effettuare
un’analisi critica dell’assunto secondo cui l’art. 822 c.p.c. si applica solo
all’arbitrato rituale facendo riferimento ad una pluralità di profili argomentativi. Del resto, il pensiero espresso dalla S.C. nella citata sentenza rimanda in qualche modo a diverse tematiche: la differenza tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale e la natura dei due istituti, con richiamo, peraltro,
al problema dell’applicabilità delle norme del titolo VIII del libro IV c.p.c.
all’arbitrato libero; l’interpretazione dei patti compromissori; il regime, rectius i motivi di impugnazione dei lodi irrituali.
3. Non è questa la sede per un’approfondita ricostruzione delle riflessioni intorno alla natura dell’arbitrato e alla differenza tra arbitrato rituale e irrituale. Si può tuttavia dar conto, a grandi linee, della evoluzione
giurisprudenziale e dottrinale degli ultimi anni.
Qualche anno dopo l’entrata in vigore della Legge n. 25/1994, con la
sentenza n. 527/2000 delle sezioni unite (3), la S.C., a consacrazione di un
percorso giurisprudenziale invero già inaugurato immediatamente dopo tale
riforma, ha affermato la natura privata dell’arbitrato rituale e del dictum che
lo definisce, ed ha smontato la ricostruzione della dottrina minoritaria che
ne sosteneva la natura giurisdizionale.
Anche il lodo rituale è, al pari del lodo libero, un atto negoziale, ed il
giudizio arbitrale non configura un’assegnazione all’arbitro di una frazione
della giurisdizione, bensı̀ uno strumento antitetico alla giurisdizione stessa,
ovvero la sua negazione, o per meglio dire la rinuncia ad essa attraverso il
(2) V. nota precedente.
(3) Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, in Riv. dir. proc., 2001, 254 ss., con nota
di RICCI, La « natura dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le Sezioni Unite; in
Corr. giur., 2001, 51 ss., con note di CONSOLO, RUFFINI e MARINELLI; in Foro padano, 2002, 34
ss., con nota di RUBINO SAMMARTANO, Vittoria di tappa - Arbitrato irrituale come processo:
un sogno impossibile?; in questa Rivista, 2000, 704 ss., con nota di FAZZALARI, Una svolta
attesa in ordine alla natura dell’arbitrato.
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patto compromissorio. Da ciò deriva che non v’è alcuna differenza, sul
piano ontologico, fra l’arbitrato rituale e l’arbitrato irrituale, avendo il lodo,
in entrambi i casi, natura di atto di autonomia privata che risolve la controversia sul piano privatistico. La differenza, invece, va individuata nel fatto
che nell’arbitrato rituale le parti vogliono un lodo che può essere reso esecutivo e produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., all’esito di un procedimento che richiede l’osservanza (anche in sede d’impugnazione) delle
norme del codice di rito; mentre nell’arbitrato irrituale le parti intendono
affidare all’arbitro la soluzione di controversie attraverso un atto negoziale
atipico, non regolamentato, legittimato dal principio ex art. 1322 c.c., non
soggetto — salvo diversa volontà delle parti — alle regole procedimentali
del titolo VIII del libro IV c.p.c. e insuscettibile di impugnazioni diverse da
quelle contrattuali (4).
È vero, d’altro canto, che una parte della dottrina si è sempre opposta
alla concezione unitaria dell’arbitrato, nel senso che, se da un lato ha ritenuto di aderire alla tesi della natura privata dell’arbitrato, dall’altro ha ricondotto l’arbitrato rituale alla categoria della « giurisdizione privata » (5).
Mentre l’arbitrato irrituale, pur avendo la medesima natura privata del rituale, non ne condivide né la struttura, né gli effetti (6). Altri mettono in
dubbio l’assunto, propugnato dalle Sezioni Unite del 2000, secondo il quale
il giudizio arbitrale sarebbe antitetico a quello giurisdizionale. Si rileva,
inoltre, che usare l’espressione « giudizio arbitrale » non appare coerente
con l’affermazione per cui l’arbitrato è sı̀ processualizzato ma non giurisdizionalizzato. Dunque, nella sostanza viene messa in dubbio l’idea che l’arbitrato rituale si collochi fuori dalla giurisdizione (7). Ancora, l’arbitrato libero, ricondotto per lo più alle figure sostanziali dell’arbitraggio e del mandato con rappresentanza, si svolgerebbe nell’assenza di forme predeterminate (pur nel rispetto del principio del contraddittorio, che tuttavia non sa(4) Per questi ultimi aspetti e per gli sviluppi relativi alla natura dell’arbitrato di cui
s’è brevemente dato conto, si veda Cass., 2 luglio 2007, n. 14972, in Nuova giur. civ. comm.,
143 ss.
(5) Cfr. OCCHIPINTI, È nulla, per indeterminatezza dell’oggetto, la convenzione arbitrale che non consente di stabilire se le parti abbiano voluto un arbitrato rituale o un arbitrato irrituale, in questa Rivista, 2008, 381 ss., ove richiama BOVE, Note in tema di arbitrato
libero, in Riv. dir. proc., 1999, 689, nota 2, allorché afferma che l’arbitrato rituale presenta
tutti i connotati della « giurisdizione in senso lato, ossia intesa come un’attività di risoluzione
della controversia giuridica ».
(6) OCCHIPINTI, È nulla, per indeterminatezza dell’oggetto, la convenzione arbitrale
che non consente di stabilire se le parti abbiano voluto un arbitrato rituale o un arbitrato
irrituale, cit., 382, con nota di richiamo a VASETTI, voce Arbitrato irrituale, in Noviss. dig. it.,
Torino, 1957, 857 ss.
(7) RUBINO SAMMARTANO, Vittoria di tappa - Arbitrato irrituale come processo: un
sogno impossibile?, cit., 42 ss., che peraltro rileva che « nell’arbitrato rituale le parti intendono che l’arbitro decida la controversia, mentre nell’arbitrato irrituale esse si limitano a delegare a terzi la facoltà ad esse spettante di transigere o di comporre la vertenza ».
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rebbe decisivo ai fini della reductio ad unum dell’istituto arbitrale nelle sue
due forme, ovvero per affermare la struttura processuale anche dell’arbitrato irrituale) (8). Da ciò conseguirebbe che all’arbitrato libero non si applicano le norme processuali previste dal codice per l’arbitrato rituale (9).
Invero, la svolta « privatistica » delle sezioni unite del 2000 è anche
frutto dei rilievi della dottrina maggioritaria. Da quella pronuncia (ma in
realtà, come più sopra si è accennato, già nel ’95 le Sezioni Unite si erano
espresse nel senso della natura privata del lodo rituale) (10) sembra abbia
preso — per cosı̀ dire — sempre più quota l’opinione (da taluni sostenuta
anche prima della riforma del ’94) (11) per cui la vera differenza tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale sta nel diverso regime d’impugnazione dei
rispettivi lodi e, soprattutto, nella possibilità, per il lodo rituale, di ottenere,
tramite l’exequatur, l’efficacia esecutiva (12). Peraltro, mentre dottrina e
giurisprudenza proseguivano nell’opera di avvicinamento delle due figure
d’arbitrato, la versione irrituale era oggetto di decisioni tese alla sua « processualizzazione » (13).
Del resto, anche a voler ammettere la diversità della natura delle due
(8) V. ancora la ricostruzione di OCCHIPINTI, È nulla, per indeterminatezza dell’oggetto, la convenzione arbitrale che non consente di stabilire se le parti abbiano voluto un
arbitrato rituale o un arbitrato irrituale, cit., 382.
(9) RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 116.
(10) Cass. Sez. un., 24 maggio 1995, in Giust. civ., 1995, I, 2365.
(11) Cfr. tra gli altri PUNZI, voce Arbitrato (rituale e irrituale), cit., 4 ss.; BIN, Il compromesso e la clausola compromissoria in arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. e proc. civ.,
1991, 375 ss.
(12) In dottrina, tra gli altri, v. LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2007, IV,
363 ss.; CONSOLO-MARINELLI, La Cassazione e il « duplice volto » dell’arbitrato in Italia:
l’exequatur come unico discrimine fra i due tipi di arbitrato?, in Corr. giur., 2003, 678 ss.;
in giurisprudenza, ad es., Cass Sez. I, 2 luglio 2007, n. 14972, cit. Inoltre, per un orientamento in tal senso propugnato prima del revirement del 2000 si veda Cass., 4 ottobre 1994,
n. 8046, in Corr. giur., 1994, 1326 ss., con nota critica di CARBONE, Superata la distinzione
tra arbitrato rituale e irrituale?. In tale ultimo arresto, la Cassazione spiega che « (...) la differenza tra le due figure finisce in realtà col ridursi alla maggiore o minore immediatezza del
riscontro giurisdizionale offerto alle contestazioni che possano insorgere dopo la pronuncia
del lodo, poiché nel primo caso (cioè in caso di lodo rituale, nda) le parti possono avvalersi,
attraverso il deposito del lodo e il decreto di esecutività del pretore, dell’efficacia esecutiva
della sentenza arbitrale, mentre, nel secondo caso, sono tenute a instaurare un ordinario giudizio di cognizione (...) ».
(13) BARTOLINI, La scelta delle parti fra arbitrato rituale ed irrituale. L’interpretazione della clausola compromissoria fra incertezze giurisprudenziali e interventi legislativi,
in Nuova giur. civ. comm., 2008, 153, la quale richiama, con riferimento alla necessità del
rispetto del principio del contraddittorio Cass., 27 febbraio 2004, n. 3975; Cass., 8 settembre
2004, n. 18049, ibidem, voce cit., n. 144; Cass., 8 aprile 2004, n. 6950, in Giust. civ., 2005,
I, 1329, con nota di RUFFINI; con riferimento alla mancanza/insufficienza del contraddittorio
come abuso del mandato e non come vizio del procedimento (quindi con conseguente impugnabilità ex art. 1429 c.c.) Cass., 9 agosto 2004, n. 15353, ivi, 2004, I, 2557; Cass., 18 settembre 2001, n. 11678, in Foro it., 2002, I, 623.
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tipologie di arbitrato, si potrebbe comunque sostenere che sussistono rilevanti punti di contatto tra il rituale e l’irrituale. In altri termini, l’attrazione
all’arbitrato irrituale di alcune norme previste dal codice di procedura civile per l’arbitrato rituale può essere consentita sia dalla necessità di rispettare il contraddittorio, sia dalle eventuali indicazioni in tal senso date dalle
parti (14).
Peraltro, in punto di applicabilità all’arbitrato libero di norme dettate
per l’arbitrato rituale nel capo VIII del titolo IV c.p.c., la giurisprudenza ha
dato l’impressione di avere le idee poco chiare. Cosı̀, ad esempio, da un
lato è stato ritenuto applicabile all’arbitrato irrituale l’art. 810 c.p.c. in merito alla possibilità di rivolgersi al presidente del tribunale per la nomina
dell’arbitro (15); da altro lato è stata negata l’applicazione dell’art. 815
c.p.c. sulla ricusazione, ritenendosi non essenziale nell’arbitrato irrituale il
requisito dell’imparzialità del giudicante (16).
Preso atto di ciò, non mi pare azzardato ritenere che all’arbitrato libero si possa applicare l’art. 822 c.p.c., e che quindi esso possa esaurirsi
con una pronuncia secondo diritto. Ossia, al di là della possibilità (invero
dibattuta) che all’arbitrato irrituale si applichino tutte o solo alcune delle
norme del capo VIII del libro IV c.p.c. (con esclusione certa di quelle che
fondano la differenza tra i due istituti), penso che non vi siano problemi nel
ritenere senz’altro applicabile la norma sul metro di giudizio che devono
utilizzare gli arbitri per risolvere la lite.
4. Il giudice bolognese, nella sentenza in commento, dedica gran
parte del suo ragionamento al problema dell’interpretazione della clausola
compromissoria.
Il presupposto di partenza è che la clausola arbitrale è un atto contrattuale, dunque l’interprete, per la ricostruzione del suo contenuto, deve servirsi dei criteri disciplinati negli artt. 1362 ss. c.c., in particolare del criterio d’interpretazione soggettiva ex art. 1362 c.c., unitamente a quello dell’interpretazione complessiva delle clausole del contratto di cui all’art.
1363 c.c. (17).
Per il giudice (ma anche per l’arbitro) si tratta di ricostruire la comune
(14) Di questa idea sembrerebbe anche BIAVATI, Arbitrato irrituale, in AA.VV., Arbitrato, commentario diretto da G. Carpi, Bologna, 2007, 163, il quale offre i suoi spunti con
riferimento al nuovo art. 808-ter. Tuttavia essi, a mio avviso, possono considerarsi di respiro
generale e attecchiscono bene anche nel contesto precedente alla riforma del 2006.
(15) Cass., 24 gennaio 2003, n. 1112.
(16) Cass., 25 giugno 2005, n. 13701.
(17) BARTOLINI, La scelta delle parti fra arbitrato rituale ed irrituale. L’interpretazione della clausola compromissoria fra incertezze giurisprudenziali e interventi legislativi,
cit., 150 ss.
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intenzione delle parti, ossia la volontà di sottoporsi ovvero derogare alla
disciplina prevista dal codice di procedura civile per l’arbitrato rituale.
La giurisprudenza col tempo ha enucleato dei criteri guida per l’interprete, non senza contraddizioni e confusioni concettuali, ai fini della riconducibilità dell’arbitrato previsto nella clausola alla tipologia rituale ovvero
libera. Inoltre, ricostruzione della volontà delle parti significa anche aver
riguardo al comportamento delle stesse dopo la stipula della convenzione
arbitrale (18).
Per quanto concerne i criteri ermeneutici enunciati dalla giurisprudenza, attualmente l’orientamento prevalente ritiene che, in punto di configurazione di un arbitrato irrituale, non siano decisivi il conferimento agli
arbitri del potere di decidere secondo equità o come amichevoli compositori, né la previsione dell’inappellabilità del lodo o dello svolgimento dell’arbitrato « senza formalità di procedura ». D’altro canto, espressioni volte
ad attribuire l’attività del « giudicare » che sfoci in un « giudizio » circa
una « controversia », testimoniano la volontà di predisporre un arbitrato rituale (19).
Insomma, secondo la giurisprudenza la decisione secondo equità o
emessa da arbitri in qualità di amichevoli compositori, la inappellabilità del
lodo e l’assenza di ogni formalità di procedura possono caratterizzare indifferentemente i due tipi di arbitrato.
Peraltro in passato l’espressione « amichevoli compositori » attribuita
agli arbitri veniva interpretata come sintomatica dell’irritualità (20), non già
del potere di decidere secondo equità. In particolare, si riteneva che l’amichevole compositore fosse un negoziatore che conducesse ad una transazione, e che, invece, nel caso dell’equità, gli arbitri potessero effettuare
un’interpretazione più elastica della norma giuridica da applicare, sempre
comunque dovendo emettere un giudizio sulla controversia (21). Come s’è
visto la giurisprudenza recente invece considera che, allorché nella clausola
(18) V., tra le altre pronunce, Cass. 24 luglio 1997, n. 6928, in Gius., 1997, 22, 2621;
App. Milano, 10 marzo 1995, in Foro pad., 1996, I, 23; Trib. Roma, 5 febbraio 2001 (ord.),
in Gius, 2001, 23, 2775.
(19) V. la esaustiva ricostruzione di OCCHIPINTI, È nulla, per indeterminatezza dell’oggetto, la convenzione arbitrale che non consente di stabilire se le parti abbiano voluto un
arbitrato rituale o un arbitrato irrituale, cit., 383 ss. Per quanto riguarda le decisioni giurisprudenziali in tal senso v., tra le altre, Cass., 13 aprile 2001, n. 5527; Cass., 29 novembre
2000, n. 15292; Cass., 1o febbraio 1999, n. 833, in questa Rivista, 1999, 517 ss. con nota di
FAZZALARI, In dubio... pro arbitrato rituale; Cass., 10 novembre 1981, n. 5942; per un indirizzo contrario cfr. Trib. Terni, 9 febbraio 1998, in Gius., 1998, 1758.
(20) Cass., 7 dicembre 1950, n. 2687, in Giur. it., 1951, I, 1, 720; Cass., 9 marzo
1982, n. 1519.
(21) OCCHIPINTI, È nulla, per indeterminatezza dell’oggetto, la convenzione arbitrale
che non consente di stabilire se le parti abbiano voluto un arbitrato rituale o un arbitrato
irrituale, cit., 386.
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è previsto che l’arbitro (o il collegio) giudichi come amichevole compositore, altro non si vuole indicare che il metro di giudizio secondo equità, a
prescindere dalla qualificazione in termini di ritualità o di irritualità dell’arbitrato. Tuttavia, una pronuncia abbastanza recente della S.C. sembra riproporre l’orientamento originario (22), il quale però, nel contesto complessivo
della giurisprudenza ed anche della dottrina (23), può essere considerato
minoritario.
Quindi, si tratterebbe di valorizzare espressioni che indichino l’attività
del « giudicare » con il risultato di un « giudizio » in ordine ad una « controversia », poiché esse caratterizzano la previsione dell’arbitrato rituale (24). Non può sfuggire che quest’impostazione sembra confliggere con le
conclusioni a cui la giurisprudenza è arrivata in ordine alla natura privatistica dell’arbitrato rituale. Si è, allora, fatto notare che l’unico criterio valido per ricostruire il contenuto del patto compromissorio lo si ritrova nella
volontà delle parti di ottenere o meno un lodo che, per mezzo dell’exequatur, ottenga efficacia esecutiva (25). A tale proposito si può senz’altro aderire all’interrogativo se « il ricorso da parte di certi giudici al consueto
strumentario di interpretazione del patto compromissorio configuri una
sorta di “resistenza” ideologica alla nuova concezione in materia di arbitrato (alla quale tuttavia sembrano aderire), oppure rappresenti una semplice ritrosia ad abbandonare alcuni collaudati criteri ermeneutici (...) » (26).
Invero, di recente in una pronuncia la S.C. ha richiamato l’art. 1369
c.c., che impone di intendere le espressioni con più sensi “nel senso più
conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”. Dunque, se senso e natura del contratto si trovano nella sua esecuzione, le espressioni dubbie
vanno intese come se consentissero una più rapida esecuzione, cioè nel
senso della ritualità (27).
Occorre aggiungere, poi, che la giurisprudenza ha sempre adottato (28)
(22) Cass., 8 luglio 2004, n. 12561, in Foro it., 2005, I, 2835 ss.
(23) CECCHELLA, La impugnazione del lodo irrituale qualificato erroneamente come
rituale e munito di esecutività, in questa Rivista, 2001, 53 ss.; VERDE, Lineamenti di diritto
dell’arbitrato, Torino, 2004, 122 ss.; CECCHELLA, in L’arbitrato a cura del medesimo, Torino,
2005, 61.
(24) Cosı̀ si esprime Cass., 4 giugno 2001, n. 7520, in Gius. civ., 2002, I, 2245.
(25) CONSOLO-MARINELLI, La Cassazione e il « duplice volto » dell’arbitrato in Italia:
l’exequatur come unico discrimine fra i due tipi di arbitrato?, cit., 678 ss.
(26) COMASTRI, Su alcune questioni ricorrenti in tema di arbitrato, in questa Rivista,
2004, 336.
(27) Cfr. Cass., 2 luglio 2007, n. 14972, cit., 147, e la nota di BARTOLINI, La scelta
delle parti fra arbitrato rituale ed irrituale. L’interpretazione della clausola compromissoria
fra incertezze giurisprudenziali e interventi legislativi, cit., 151.
(28) Almeno fino alla riforma del 2006.
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(salvo sporadiche e isolate voci contrarie) (29) un criterio ermeneutico residuale per i casi in cui non fosse possibile ricostruire l’intenzione delle parti
con i consueti canoni interpretativi, nel senso che, permanendo dubbi, l’arbitrato deve ritenersi irrituale (30) (realizzando cosı̀ la c.d. conservazione
del contratto ex art. 1367 c.c.). Tale soluzione peraltro è avversata dalla migliore dottrina (31).
Orbene, da questo quadro, che ad avviso di chi scrive non sempre appare chiarissimo, sembra comunque emergere che per la giurisprudenza
non contano tanto le indicazioni terminologiche date dalle parti sulla ritualità o l’irritualità, oppure sul metro di giudizio da porre a fondamento della
decisione, che può valere sia per l’arbitrato rituale che per quello libero (e
già questo rilievo senz’altro può aiutare a contrastare l’assunto, sostenuto
nella sentenza in commento, della pretesa incompatibilità tra arbitrato irrituale e pronuncia di diritto) (32), quanto piuttosto le espressioni che evochino un’attività di giudizio o comunque, proprio per meglio ricostruire la
comune intenzione delle parti, l’analisi del comportamento complessivo
delle parti successivo alla stipulazione del patto compromissorio, soprattutto in sede di processo arbitrale (33).
Ora, nella sentenza in commento, il tribunale di Bologna muove dalle
espressioni utilizzate dalle parti per sostenere che nel caso di specie non si
è di fronte ad una clausola dubbia, ma ad una clausola logicamente insostenibile, cioè che dice qualcosa di giuridicamente inconcepibile, e rispetto
alla quale, stante la (asserita) evidente radicale invalidità, non ha senso utilizzare i comuni canoni ermeneutici, men che meno il canone residuale
dell’« in dubio pro irritualità », che comunque viene riconosciuto come criterio condiviso da quasi tutta la giurisprudenza. Insomma, il principio di
conservazione ex art. 1367 c.c. non si applica poiché presuppone un dubbio, ma qui non si ha un dubbio circa una volontà in quanto tale volontà
manca.
A questo punto occorre però vedere cosa è riportato, in concreto, nella
clausola compromissoria e cosa è accaduto dopo la stipulazione della
stessa.
(29) Cass., 1o febbraio 1999, n. 833, cit., 256; Trib. Bologna, 6 ottobre 2004, n. 2840,
in Guida al dir., 2005, 68.
(30) La ragione di ciò risiederebbe nel sostanziale sfavore che la giurisprudenza ha
manifestato verso l’arbitrato rituale, considerato strumento eccezionale e derogatorio rispetto
alla giurisdizione ordinaria. Si segnalano, tra le altre: Cass., 13 aprile 2001, n. 5527, cit., 361;
Cass., 20 marzo 1990, n. 2315, cit., 517.
(31) FAZZALARI, In dubio pro... arbitrato rituale, in questa Rivista, 518 ss.
(32) BARTOLINI, La scelta delle parti fra arbitrato rituale ed irrituale. L’interpretazione della clausola compromissoria fra incertezze giurisprudenziali e interventi legislativi,
cit., 151.
(33) LONGO, La rilevanza della condotta processuale delle parti nell’interpretazione
della clausola compromissoria, in questa Rivista, 2002, 124 ss.
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Il contratto di cessione di quote sociali prevedeva, all’art. 17, che ogni
controversia nascente da esso venisse deferita ad un collegio di « tre arbitri irrituali » che pronunciasse « secondo diritto », e le cui definizioni dovessero essere « succintamente motivate » e avessero « valore di patto contrattuale direttamente stipulato dalle parti », con esclusione sia del deposito
di cui all’art. 825 c.p.c., sia di qualsiasi impugnazione.
È vero che non ci si deve fermare alle espressioni utilizzate dalle
parti, tuttavia ad avviso di chi scrive in questo caso gli elementi a favore
della scelta dell’irritualità sono chiari. In particolare, al di là dell’indicazione specifica dell’irritualità, ciò che rileva maggiormente, alla luce anche
dell’evoluzione esegetica circa la natura dell’arbitrato, è l’esclusione del
deposito del lodo e del regime d’impugnazione.
È anche vero che nella sentenza qui commentata si critica l’accostamento irritualità-pronuncia di diritto, nel senso che, da un lato, vi sarebbe
l’intenzione di risolvere la lite con uno strumento negoziale espressione
della volontà delle parti, dall’altro vi sarebbe il proposito di affidare la soluzione della controversia ad un soggetto terzo e imparziale che applica il
diritto, con potere decisorio sostanzialmente conforme a quello di un giudice. Dunque, un arbitro non può essere, allo stesso tempo, rappresentante
delle parti e terzo rispetto ad esse, procurator e giudice.
D’altra parte, tale binomio è, generalmente, caratteristica tipica dell’arbitrato irrituale, istituto che trova fondamento nel principio di autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c., e che viene tradizionalmente ritenuto
omologabile alla figura del mandato (34).
Non si ravvisano, quindi, valide ragioni per escludere che le parti
possano dar mandato ad uno o più soggetti, che esse stesse scelgono, di risolvere una controversia applicando norme giuridiche. Anche in ciò, del resto, può consistere l’autonomia privata.
Inoltre, va segnalato che nel caso di specie, dopo la stipula del patto
compromissorio, le parti hanno dato corso alla procedura arbitrale che si è
conclusa con l’emissione di un lodo. Come poi ripercorso dal giudice bolognese, le stesse parti in una udienza davanti al collegio arbitrale hanno
dichiarato a verbale « di considerare l’arbitrato come irrituale ». Per il tribunale emiliano, tuttavia, risulta dal lodo che tale ultima dichiarazione non
vale come accertamento sostitutivo della clausola di cui all’art. 17 del contratto, ma come semplice qualificazione della clausola compromissoria giusta la quale il procedimento era già stato avviato. Non si tratta, quindi, di
una sostituzione dell’originaria clausola.
Al di là di quest’ultimo rilievo, se l’arbitrato ha avuto luogo, si può
ritenere che le parti, scambiandosi gli atti introduttivi e rispettando, in or-
(34) Tra le altre si vedano Cass., 13 marzo 1998, n. 2741, in Giur. it., 1999, 1611 ss.;
App. Milano, 7 aprile 1998, in Giur. it., 1999, 291 ss.
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dine a questi, i presupposti di legge (per esempio la forma scritta), abbiano
manifestato in ogni caso una valida volontà compromissoria (35).
5. Che gli arbitri irrituali nel decidere possano ricorrere alle norme
giuridiche ce lo conferma, in realtà, anche la giurisprudenza intervenuta,
nel corso degli anni, sul tema, lato sensu, delle impugnazioni.
L’orientamento tradizionale ritiene che avverso il lodo irrituale siano
esperibili le tipiche azioni d’impugnativa contrattuale, pur con gli adattamenti, in punto di motivi d’impugnazione, dovuti alle peculiarità del lodo
arbitrale. Più specificamente, si dice che il lodo libero è impugnabile per
errore di fatto revocatorio o per violazione di norme imperative (36), nonché attraverso i rimedi proponibili quando il mandatario eccede i limiti del
proprio mandato (37). Dunque l’errore degli arbitri irrituali è errore negoziale ed è rilevante solo se ha comportato una falsa rappresentazione o
un’alterazione della percezione dei fatti controversi (38).
Generalmente, quindi, si è sempre esclusa in questo ambito l’impugnazione per motivi di diritto (39), esclusione peraltro contrastata dalla prevalente dottrina (40).
È ben vero che quest’ultima circostanza non comporta necessariamente
che la pronuncia non sia di diritto. Anzi, se si dice espressamente che non ci
si può lamentare delle valutazioni giuridiche degli arbitri irrituali (senza peraltro escluderle in quanto inconcepibili, come fa la sentenza in commento) si
finisce coll’ammettere indirettamente che il metro di giudizio di un lodo libero
possa essere il diritto. Del resto, in tema di arbitrato rituale, l’art. 829 c.p.c.
(35) AMADEI, Note in tema di inesistenza di accordo compromissorio per arbitrato
rituale e impugnazione per nullità del lodo, in questa Rivista, 2002, 310. Il ragionamento
dell’autore si riferisce ad una clausola compromissoria per arbitrato rituale, ma non si vede
perché non possa trovare applicazione anche con riguardo ad una clausola per arbitrato libero. Alle pagine seguenti l’autore sviluppa una riflessione di ordine generale: « (...) come si
può consentire alla parte, che (...) ha dato corso alla procedura (...), di dedurre in sede d’impugnazione (...) la carenza di patto compromissorio? Non sembra corretto che il soggetto che
ha accettato e dato svolgimento al processo arbitrale poi possa lamentarsi del fatto che gli
arbitri non avevano potere decisorio, soprattutto se in ipotesi il lodo le è sfavorevole (...) ».
(36) Cfr. ex plurimis Cass., 13 marzo 1998, n. 2741, in Giur. it., 1999, 1611 ss.;
Cass., 5 novembre 1991, n. 5821.
(37) TARZIA, Nullità e annullamento del lodo arbitrale irrituale, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1991, 459; Cass., 18 gennaio 1992, n. 595, in Giur. it., 1992, I, 1, 1446.
(38) Cass., 8 agosto 1990, n. 8010; Id., 28 ottobre 1986, n. 6311; App. Milano, 7
aprile 1998, in Giur. it., 1999, 291 ss.; RICCI, Sull’impugnazione per errore del lodo arbitrale
irrituale, in Riv. dir. proc., 1977, 436 ss.
(39) Cass., 16 maggio 2003, n. 7654, in Foro it., 2004, I, 1651 ss.; Trib. Busto Arsizio, 11 luglio 2005, n. 516, in Mass. Red., 2005; Trib. Napoli, 15 febbraio 1997, in Gius.,
1997, 2690; Cass., 4 ottobre 1994, 8046, cit.; Cons. Stato, 3 luglio 2000, n. 3652, in Foro
amm., 2000, 2578.
(40) V. la ricostruzione di NOVIELLO, Lodo libero e impugnazione per errore di diritto,
in questa Rivista, 2002, 63 ss.
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contempla la possibilità per le parti di prevedere la non impugnabilità del lodo
per errores in iudicando. Comunque, negli ultimi anni si è assistito, in giurisprudenza, all’apertura di spazi sempre meno stretti all’impugnazione (sempre
in senso lato) per motivi di diritto del lodo libero.
Cosı̀, dapprima la S.C. (41), dopo aver distinto — in sintonia con la
dottrina civilistica — tra eccesso ed abuso di mandato, ha configurato,
quanto a quest’ultima fattispecie, una responsabilità per danni degli arbitri
irrituali che, senza giustificazione, si pronuncino secondo diritto anziché,
come previsto nel patto compromissorio, secondo equità. Al di là delle valutazioni di merito sulla ricostruzione (42), di cui non si può qui dar conto,
ciò che rileva è l’ammissione implicita della pronuncia di diritto. A ciò va
aggiunto che, sempre per la S.C., « non sussiste contrapposizione tra diritto
ed equità, atteso che il giudizio di equità richiede pur sempre il riferimento
ad una fattispecie normativa (...). È pertanto potere degli arbitri chiamati al
giudizio secondo equità applicare il diritto ogni volta in cui essi ne ravvisino la coincidenza con l’equità (...) » (43).
Una ulteriore piccola apertura alla rilevanza dell’errore di diritto degli
arbitri liberi è stata concessa dal Consiglio di Stato (44). In sostanza si è
ammessa la possibilità d’impugnare un lodo irrituale per motivi di diritto
allorché gli arbitri abbiano erroneamente supposto l’esistenza di una norma
inesistente, o viceversa. L’errore, che in questo caso è vizio percettivo di
norme, deve essere essenziale e riconoscibile. È esclusa, quindi, la rilevanza dell’erronea valutazione o interpretazione delle norme applicate. Ma
qui, ancora una volta, ci interessa vedere che l’applicazione del diritto
viene implicitamente ammessa.
Più recentemente, la Suprema Corte (45) ha avuto modo di sviluppare ulteriormente il ragionamento su eccesso e abuso di mandato, apparendo incline
ad accogliere anche l’impugnazione del lodo irrituale nel caso in cui gli arbitri irrituali abbiano deciso secondo diritto una controversia da risolvere col ricorso all’equità o al diritto straniero, e viceversa. Inoltre, muovendo dalla
sentenza del supremo consesso amministrativo testè ricordata, la Cassazione è
giunta ad ammettere, in obiter dictum, la rilevanza del c.d. errore percettivo di
diritto, equiparato, ai fini impugnatori, all’errore di fatto.
6. Va sottolineato, infine, che v’è una non scarsa giurisprudenza che,
a prescindere dalle questioni relative ai motivi d’impugnazione dei lodi irrituali e sia pur incidentalmente, dice chiaramente che in sede di arbitrato
(41)
(42)
mento di un
(43)
(44)
(45)
Cass., 13 marzo 1998, n. 2741, cit.
Del resto, in sede di commento, manifesta perplessità NELA, Verso il riconoscinuovo motivo di impugnazione del lodo irrituale?, in Giur. it., 1999, 1610 ss.
Cass., 4 luglio 2000, n. 8937, in Mass. Ann. Cass., 2000, 1488.
Cons. Stato, Sez. VI, 21 maggio 2001, n. 2807, in questa Rivista, 2002, 59 ss.
Cass., 14 luglio 2004, n. 13114, in Giur. it., 2005, 782 ss.
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libero è possibile la pronuncia secondo norme giuridiche. Ossia, ammette
che gli arbitri, ancorché investiti del compito di decidere secondo equità,
possano applicare il diritto, ove reputino la soluzione legale corrispondente
a quella equitativa (46).
Evidentemente non v’è alcuna incompatibilità assoluta tra arbitrato irrituale e pronuncia di diritto.
È vero, comunque, che non si è tenuto conto, in questa sede, della distinzione tra arbitrato-transazione e arbitrato-giudizio, ossia tra un arbitrato
inteso come devoluzione al collegio del compito di negoziare una soluzione
e un arbitrato che tende ad accertare la fondatezza delle domande (47).
D’altro canto, non ha fatto riferimento a tale bipartizione né il tribunale
bolognese della cui decisione qui si scrive, né — pare — la già citata sentenza della S.C. su cui il giudice emiliano ha fondato le sue riflessioni.
Dunque, la sentenza in commento asserisce l’inconciliabilità arbitrato
irrituale-pronuncia di diritto in assoluto. Tale asserzione può essere confutata per mezzo di un chiarissimo passaggio che troviamo in una pronuncia,
peraltro già ricordata, della Cassazione (48): « (...) cosı̀ come è consentito
alle stesse parti comporre direttamente una controversia mediante un’attività negoziale, sia essa di natura transattiva o di accertamento (...), nulla
impedisce a terzi di procedere, nell’ambito del mandato ricevuto, alla sua
definizione anche mediante un atto negoziale di accertamento riconducibile
alla volontà dei mandanti e come tale vincolante per le stesse parti che si
sono preventivamente obbligate a rispettarlo e cioè di comporla non solo
attraverso reciproche concessioni ma anche con il riconoscimento delle
pretese dell’una o dell’altra parte e con l’applicazione a tal fine di norme
giuridiche o di criteri equitativi. In effetti, sia nell’arbitrato rituale che in
quello irrituale con contenuto non transattivo, si è in presenza di una pronuncia di natura decisoria (...) ».
In conclusione, due interrogativi: non cozza forse contro il principio
di autonomia privata (da cui l’arbitrato irrituale trae fondamento) ritenere
che le parti, per mezzo del patto compromissorio, non possano attribuire
agli arbitri la facoltà di decidere applicando il diritto? E poi, non è proprio
la stessa legge a prevedere un arbitrato irrituale di diritto all’art. 412-ter
c.p.c.?
FRANCESCO CAMPIONE
(46) Cass., 10 marzo 1995, n. 2802; Id., 6 aprile 1990, 2889, in Arch. civ., 1990, 911.
(47) Come segnala NELA, Piccole aperture giurisprudenziali verso l’ampliamento del
novero dei motivi di impugnazione del lodo irrituale, in Giur. it., 2005, 786, il quale a sua volta
segue quanto rilevato da TARZIA, Nullità e annullamento del lodo arbitrale irrituale, in Riv. trim.
dir. e proc. civ., cit., 451-452, la distinzione risale a MONTESANO, Interrogativi sull’arbitrato irrituale dopo la riforma del 1983, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 441 ss. Inoltre NELA, op. cit.,
ritiene che tale distinzione abbia un indubbio valore descrittivo che coglie due aspetti contrapposti dell’arbitrato libero, e che la giurisprudenza non vi abbia mai fatto ricorso.
(48) Cass., 13 marzo 1998, n. 2741, cit., 1614.
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TRIBUNALE DI COSENZA; sentenza 29 settembre 2009, n. 2451 — Consorzio
Bonifica della Piana e di Sibari e della Media Valle del Crati (avv. Arieta) c.
Vincenzo Liuzzi (avv. F.V. Ponte).
Lavoro e Previdenza (controversie in materia di) - Sanzioni disciplinari - Lodo
- Impugnazione - Arbitrato - Natura - Irrituale - Disciplina - Applicabilità artt. 412-ter e quater c.p.c.
Lavoro e Previdenza (controversie in materia di) - Sanzioni disciplinari - Arbitrato irrituale - Lodo - Mancata notifica - Impugnazione - Prescrizione
- Termini delle impugnative negoziali - Esclusione - Art. 828, comma 2
c.p.c. - Applicabilità.
Il procedimento arbitrale intentato dal lavoratore per l’impugnazione di una
sanzione disciplinare ai sensi dell’art. 7 Legge n. 300/1970 cui, posta l’irritualità,
si applicano gli artt. 412-ter e quater c.p.c., è una figura ibrida connotata da elementi sia della disciplina negoziale sia della disciplina processuale.
Peraltro, la spiccata processualizzazione dell’istituto suggerisce, in mancanza
di notifica del lodo, di escludere l’applicabilità dei termini di prescrizione previsti
per le impugnative negoziali concentrandosi sul temine, residuale, di cui all’art.
828, comma 2, c.p.c.
CENNI DI FATTO. — Il Consorzio di Bonifica della Piana e di Sibari e della Media Valle del Crati impugna dinanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Cosenza
il lodo emesso dal Collegio di Conciliazione nel procedimento arbitrale intentato,
ai sensi dell’art. 7 della Legge n. 300/1970, dal sig. Vincenzo Liuzzi, per la dichiarazione di illegittimità della sanzione disciplinare irrogata. Eccepisce il Consorzio
la violazione dell’art. 7 Legge n. 300/1970 e la nullità della costituzione del collegio; la nullità del lodo arbitrale per omessa pronuncia sul punto n. 2 del provvedimento disciplinare determinante sulla valutazione complessiva della sanzione comminata; l’annullabilità del lodo per errore sul consenso dell’arbitro datore di lavoro;
l’annullabilità del lodo per dolo degli arbitri; la nullità del lodo per eccesso di
mandato e per violazione del contratto collettivo. Conclude per sentir dichiarare la
nullità o annullabilità e revocare il provvedimento impugnato e, dunque, dichiarare
la legittimità della sanzione irrogata. Si costituisce in giudizio il convenuto eccependo la carenza di legittimazione attiva dell’attore e la tardività dell’impugnazione
mentre nel merito contesta la domanda e conclude per il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Preliminarmente va rigettata l’eccezione di difetto
di legittimazione attiva dell’attore posto che alla prima udienza il Consorzio ha
prodotto la legge regionale n. 12/2006 attestante il suo stato di liquidazione e la
delibera n. 1203 del 27 dicembre 2005 con la quale il commissario straordinario è
stato confermato commissario ad acta. (Omissis).
Va, poi, accolta l’eccezione di tardività dell’impugnazione del lodo sollevata
dal lavoratore.
Infatti, questo procedimento arbitrale, che la legge denomina di arbitrato irrituale, costituisce, come ha chiarito la stessa giurisprudenza con sentenza n. 2576
del 2 febbraio 2009 (conf. Cass. 23 febbraio 2006, n. 4025), un ibrido nel quale si
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rinvengono tracce della disciplina negoziale dell’arbitrato irrituale ed elementi di
una disciplina che ha le forme tipiche del processo. A questo arbitrato la richiamata
decisione della Suprema Corte ha ritenuto applicabile all’art. 7 della Legge n. 300/
1970 l’art. 412-ter e quater c.p.c. che individua il giudice competente (il Tribunale
del Lavoro della sede in cui è stato emanato il lodo); la forma dell’impugnazione
(il ricorso); il termine (30 giorni dalla notifica del lodo); i motivi (relativi alla validità del lodo); il contenuto della pronuncia (in quanto viene richiamato l’art. 429,
comma 3, c.p.c.) e il regime della sentenza arbitrale.
Sicuramente nella legge vi è una lacuna in quanto non è espressamente disciplinato il termine per l’impugnativa nel caso in cui il lodo non sia stato notificato.
Per cui è legittimo chiedersi quale sia il regime applicabile in questa ipotesi.
L’indubbia processualizzazione dell’istituto, quale emerge dai tratti salienti
sopra elencati, porta ad escludere che in questa ipotesi si possano richiamare i termini di prescrizione previsti per le impugnative negoziali. Una tale soluzione, oltretutto, tradirebbe l’evidente ratio legis di contenere in tempi assai stretti la definizione delle controversie disciplinari. Ciò posto, l’unico termine a cui fare riferimento finisce con l’essere quello di cui all’art. 828, comma 2, c.p.c., ossia dell’anno dall’emanazione del lodo.
Nel caso di specie tale termine risulta ampiamente decorso dal momento che
il lodo è stato emanato il 21 novembre 2006 e il ricorso è stato depositato il 17
giugno 2008.
Il ricorso, quindi, deve essere dichiarato inammissibile.
Attesa la novità della questione, rispetto alla quale non si rinvengono specifici
precedenti giurisprudenziali, vengono compensate le spese di lite.
Il procedimento arbitrale contemplato dall’art. 7, comma 6, Legge 20
maggio 1970, n. 300: sui termini di prescrizione per l’impugnativa
del lodo in mancanza di notifica.
Nel caso di specie il Tribunale di Cosenza, adito in sede di impugnazione di lodo arbitrale emesso in materia di sanzioni disciplinari, a fronte
di un’eccezione di tardività dell’impugnazione, da un canto, si sofferma
sulla vexata quaestio della natura dell’arbitrato de quo e della disciplina
applicabile risolvendola in modo del tutto conforme alla più recente giurisprudenza in materia; dall’altro, affronta il problema dei termini di prescrizione applicabili alle impugnative in mancanza di notifica del lodo, con un
decisum — per vero — senza precedenti (1).
Più specificatamente, la sentenza in epigrafe richiama le argomentazioni già enucleate dalla Suprema Corte con riferimento alla natura dell’arbitrato in materia di sanzioni disciplinari, per giungere anch’essa alla conclusione che il procedimento arbitrale ai sensi dell’art. 7 della Legge n.
300/1970, per quanto sia espressamente previsto dalla legge, riveste co(1 )
Non si rinvengono pronunce giurisprudenziali in argomento.
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munque carattere irrituale, come tale eccezionalmente equiparabile a quello
irrituale previsto dalla contrattazione collettiva (2) (3).
E difatti la Suprema Corte — alla stregua di un orientamento ormai
consolidato (4) — precisa che un arbitrato irrituale dettato dalla legge è sı̀
possibile (tanto da essere ancora previsto dalla Legge n. 533/1973 art. 5,
comma 2), ma costituisce una fattispecie speciale ed eccezionale atteso che
l’arbitrato, quando è contemplato dalla legge, è di norma rituale (5). Ove risulti la espressa qualifica di irrituale (come in effetti nell’art. 5, comma 1),
allora c’è un’eccezionale equiparazione di quell’arbitrato irrituale a quello
(parimenti) irrituale che la regolamentazione collettiva può in generale prevedere.
Ne consegue che sul piano della disciplina — il vero tormento dell’arbitrato irrituale, derivante dalla sua origine e dalla conseguente confusione
d’idee giunta sino ai giorni nostri (6) — si è arrivati comunque all’applicazione a questo procedimento degli artt. 412-ter e quater c.p.c. (7). Peraltro
è opinione ormai consolidata che il modello di arbitrato scaturito da tali
norme rappresenta, nel panorama normativo italiano, una figura lato sensu
ibrida (8), forse, secondo alcuni, anche troppo frettolosamente definita irrituale dal legislatore al fine di distinguerla idealmente da quella prevista da(2) Le due sentenze cui si fa riferimento sono Cass., 2 febbraio 2009, n. 2576; nonché Cass., 23 febbraio 2006, n. 4025. Cfr. quest’ultima in Rep. Foro it., 2007 con nota di E.
D’ALESSANDRO. In entrambe le sentenze viene affrontato il tema dei rapporti tra il procedimento arbitrale ex art. 7, Legge n. 300/1970 e quello delineato dall’art. 412-quater c.p.c. alla
luce dell’abrogazione del comma 3 dell’art. 5, Legge 11 agosto 1973, n. 533 da parte dell’art. 43, comma 7, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80.
(3) In ordine alla natura irrituale dell’arbitrato de quo, cfr. Cass. 16 marzo 2004, n.
5359, Rep. Foro it., 2004, voce Arbitrato, n. 229; 2 settembre 2003, n. 12798, id., Rep. 2003,
voce Lavoro (Rapporto), n. 134; 4 aprile 2002, n. 4841, id., Rep., 2002, voce cit. n. 884.
(4) Cfr. Cass., 4 marzo 2008, n. 5863.
(5) Cfr. in arg. Cass., 7 aprile 1999, n. 3373; Cass., 24 luglio 2002, n. 10859 in Foro
it., 2002, parte I, 3252 con nota di C.M. BARONE in cui si rimanda per quanto riguarda in particolare l’arbitrato in materia di sanzioni disciplinari in dottrina a BORGHESI, La giurisdizione
del pubblico impiego privatizzato, Padova, 2002, 318 ss.
(6) Cosı̀ FAZZALARI, in L’arbitrato. Il processo Civile. Collana diretta da E. FAZZALARI, Torino, 1997, 124 ss.
(7) La disciplina applicata ex artt. 412-ter e quater si pone sulla stessa linea direttrice dell’art. 5, Legge n. 533/1973 (su cui ex plurimis, BARONE, in AA.VV., Le controversie
in materia di lavoro, 87, 220) ribadendo espressamente la natura facoltativa dell’arbitrato in
materia di lavoro (TRISORIO LIUZZI, Riv. dir. proc., 2001, 999, CECCHELLA, in ALPA, L’arbitrato,
Profili sostanziali, 1999, II, 964, 965 BOCCAGNA, AA.VV., N.l.c.c., 1999, 5-6, 1569).
(8) Cosı̀ CECCHELLA, in ALPA, op. cit., 970. Sulla figura di arbitrato irrimediabilmente
incerta vedi CAPPONI, in VERDE, Diritto dell’arbitrato, 2005, 572; VERDE, II, 359; MONTESANO,
ARIETA, IV 34. Nel senso della ritualità v. spec. MONTELEONE, Riv. trim., 2001, 60; PUNZI, questa Rivista, 2001, 389 ss., 394 ss.; TRISORIO LIUZZI, Riv. dir. proc., 2001, 992 ss., 995-997;
MONTESANO, MIETA, Tratt., II, 93; SIGNORINI, Mass. Giur. lav., 2003, 383-384). Nel senso dell’irritualità v. BOCCAGNA, AA.VV., N.l.c.c., 1999, 5-6, 1561 ss.; SALVANESCHI, Riv. dir. proc.,
1999, 46 ss.
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gli artt. 806 ss. Vero è, però, che la disomogeneità di tale arbitrato sia sotto
il profilo strutturale che funzionale si evidenzia soprattutto rispetto agli arbitrati ex lege oggi presenti in materia lavoristica.
Facendo un passo indietro va ricordato brevemente che all’applicazione degli artt. 412-ter e quater c.p.c. si è arrivati alla fine di una lunga
querelle, sorta dopo che l’art. 43, comma 7, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80
(poi a sua volta abrogato dall’art. 72 D.Lgs. n. 165/2001) abrogò il comma
2 e 3 dell’art. 5, Legge 11 agosto 1973 n. 533 e aggiunse al codice di procedura civile due norme, costituite appunto dagli artt. 412-ter e quater
c.p.c. Tale disposizione stabiliva che il lodo irrituale in materia di lavoro,
emesso a seguito di un arbitrato ex lege, fosse impugnabile nei termini previsti dall’art. 2113 c.c. (a pena di decadenza entro sei mesi dalla cessazione
del rapporto di lavoro ovvero dalla pronuncia del lodo, se successiva), dinanzi al giudice di prime cure, individuato secondo le ordinarie regole di
competenza per territorio di cui all’art. 413 c.p.c.
Dopo l’abrogazione è sorta una comprensibile confusione sul regime
di impugnazione del lodo irrituale in materia di lavoro emesso a seguito di
arbitrato ex lege, categoria in cui — come si è già detto — una giurisprudenza ormai consolidata riconduce il procedimento arbitrale, quale modalità alternativa — rispetto alla giurisdizione statale — per l’impugnazione
delle sanzioni disciplinari irrogate dal datore di lavoro privato (9).
Si trattava, dunque, di stabilire se all’arbitrato irrituale previsto dalla
legge fosse applicabile l’art. 412-quater c.p.c. dettato per l’arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi. In caso di risposta affermativa, il lodo
sarebbe stato impugnabile nel termine di trenta giorni dalla sua avvenuta
notificazione dinanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro, la cui
decisione sarebbe stata non appellabile ma immediatamente ricorribile per
cassazione. Al contrario, non accogliendo questa tesi, una volta venuto
meno il rinvio all’art. 2113 c.c., il lodo irrituale sarebbe stato impugnabile
entro il termine sostanziale di decadenza del diritto dedotto in arbitri, dinanzi al giudice del lavoro di prime cure, territorialmente individuato ai
sensi dell’art. 413 c.p.c., la cui decisione sarebbe stata appellabile e poi,
eventualmente, anche ricorribile per cassazione.
Se quest’ultima tesi è stata preferita a lungo dalla dottrina (10) i giu-
(9) Tra le altre, Cass. 24 gennaio 2005, n. 1398, Rep. Foro it., 2005, voce Arbitrato,
n. 182; 2 settembre 2003, n. 12798, id., Rep., 2003, voce Lavoro (rapporto), n. 1134; 4 aprile
2002, n. 4841, id., Rep., 2002, voce cit., n. 884; 9 settembre 1988, n. 5118, id., Rep., 1989,
voce cit., n. 966.
(10) In questo senso v. CAPPONI, L’arbitrato in materia di lavoro dopo le riforme del
1998, in G. VERDE, Diritto all’arbitrato rituale, II ed., Torino, 2000, 421 ss., spec. 430; CECCHELLA, L’arbitrato del diritto del lavoro, in L’arbitrato a cura di CECCHELLA, Torino, 2005,
619 ss. spec. 630, e prima ancora LUISO, L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro
dopo la riforma del 1998, in questa Rivista, 1999, 31 ss., spec. 44.
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dici di legittimità non si sono appiattiti su tale posizione ed hanno invece
ritenuto che gli artt. 412-ter e quater c.p.c. siano norme di generale applicazione. Di talché, nell’ottica di una previsione normativa che contempli un
arbitrato irrituale ex lege, v’è una equiparazione di quell’arbitrato irrituale
a quello altrettanto irrituale previsto dai contratti collettivi, venendo da sé
l’applicazione in ogni caso degli artt. 412-ter e quater c.p.c. (11).
2. Ora, ferma l’applicazione della disciplina prevista dagli artt. 412ter e quater c.p.c., il tribunale, chiamato a decidere sull’eccezione di tardività dell’impugnazione, affronta il problema del termine dell’impugnativa
nel caso in cui il lodo non sia stato notificato, precisando che nella legge vi
è una lacuna in quanto questa ipotesi non è espressamente disciplinata.
Il problema del vuoto legislativo effettivamente sussiste. Nonostante
ciò, il tribunale di Cosenza ha ritenuto che proprio dalla disciplina degli
artt. 412-ter e quater c.p.c. derivi un tessuto normativo che attribuisce all’arbitrato in esame elementi tipici del processo, tali da escludere il richiamo ai termini di prescrizione validi per le impugnative negoziali. Di
conseguenza, e per non venire meno alle esigenze di speditezza proprie
delle controversie disciplinari, il giudice, con una pronuncia del tutto innovativa, ha concluso per la sopravvivenza, in questa fattispecie, dell’unico
temine di un anno dall’emanazione del lodo.
Non ci sono precedenti giurisprudenziali in argomento e la materia
non aveva trovato, fino a questa pronuncia, una soluzione esaustiva.
Anche in letteratura, peraltro, le voci che si sono occupate di questo
specifico problema sono poche e succinte.
Sul punto, infatti, si è affermato che la natura di gravame negoziale di
cui all’art. 412-quater c.p.c. possa escludere che la mancata notificazione
del lodo a cura di una delle parti comporti l’applicazione del termine annuale: invero, il termine per l’impugnativa sarebbe opportunamente regolato come decadenza processuale (l’atto di autonomia in cui si sostanzia il
lodo risulterebbe concretamente un giudizio tendente alla irrevocabilità
propria del giudicato). Pertanto, la natura dell’atto impugnato e dell’azione
portano ad escludere l’applicazione del termine lungo annuale, valendo —
in difetto di notifica — come per l’arbitrato irrituale di diritto comune, gli
(11) Si è anche aggiunto che « non solo risulterebbe ingiustificato un trattamento
processuale differenziato per due fattispecie entrambe di arbitrato irrituale; ma sarebbe anche
difficile identificare un autonomo e distinto regime di impugnativa del lodo nel caso di arbitrato irrituale ex lege giacché quello previsto dal comma 2 e 3 dell’art. 5 Legge n. 533/1973
è stato abrogato... Tale abrogazione si spiega proprio considerando che il legislatore ha dettato (nell’art. 412-quater c.p.c.) un nuovo regime (unificato) dell’impugnazione del lodo in
caso di arbitrato irrituale ». Vedi anche in questo senso Cass. 23 febbraio 2006, n. 4027, in
Foro it., 2007, I 903 con nota di DESIATO. In linea con questi profili, in dottrina, SALVANESCHI,
Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in Riv. dir. proc., 1999, 25 ss.
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ordinari termini di decadenza sostanziale (ad esempio quello quinquennale
dell’azione di annullabilità) (12).
A tutto ciò segue l’applicabilità dei termini di prescrizione e decadenza propri delle azioni contrattuali che, peraltro, non escluderebbero la
configurabilità dell’obbligo degli arbitri, sulla scia del disposto dell’art. 825
c.p.c., di comunicare il lodo entro dieci giorni dalla sottoscrizione.
Una parte di dottrina, invece, si è dichiarata favorevole all’applicazione del termine annuale affermando che, se da un canto, volendo ottenere
l’esecutività del lodo, la parte vittoriosa debba notificarlo alla controparte
al fine di far decorrere il termine breve, dall’altro canto, in mancanza di
notifica, si debba ritenere applicabile — per analogia — il termine annuale
di cui all’art. 828, comma 2, c.p.c. (13).
Mi sembra che il ragionamento del giudice rilevi sotto un duplice
profilo. Evidenzia, innanzitutto, che in casi specifici l’arbitrato, anche se irrituale, quando è caratterizzato da una spiccata normativa processuale, va
integrato con le regole che il codice di rito detta per il giudizio arbitrale
come, appunto, l’art. 828, comma 2, c.p.c. Nondimeno, sceglie poi di essere fedele alla volontà della legge che è quella di evitare la pendenza delle
controversie disciplinari oltre certi limiti temporali e, tenendo conto che
l’impugnazione è proponibile anche prima dell’exequatur, fissa il dies a
quo della decorrenza nell’ultimo momento certo della procedura arbitrale,
la sottoscrizione del lodo. Va soggiunto che il termine non può essere prorogato ai sensi dell’art. 327, comma 2, atteso che nel giudizio arbitrale non
vi è posto per la contumacia (14).
ALESSANDRA COLOSIMO
(12) CECCHELLA, L’arbitrato nel diritto del lavoro, cit., 620 e ss. In senso contrario,
vedi CAPPONI.
(13) LUISO, L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro dopo la riforma del
1998, in questa Rivista, 1999, 31 ss.
(14) Cosı̀ ANDRIOLI in Comm., IV, 904 ss.
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II)
STRANIERA
Sentenza annotata
REGNO UNITO — HIGH COURT OF JUSTICE, Queen’s Bench Commercial Division; sentenza del 17 dicembre 2009 — Double K Oil Products 1996 Ltd v
Neste Oil OYJ.
Impugnazione per nullità del lodo ex art. 68, comma II lettera g) Arbitration
Act - Lodo effetto di frode e/o contrario all’ordine pubblico - Presupposti
- Frode di un terzo rispetto alle parti del procedimento arbitrale - Rilevanza - Esclusione.
Impugnazione per nullità del lodo ex art. 68 comma II lettera a) Arbitration
Act - Violazione del dovere di correttezza del tribunale arbitrale - Diniego
di richieste istruttorie - Rilevanza - Esclusione.
Impugnazione per nullità del lodo ex art. 68 comma II lettera a) Arbitration
Act - Violazione del dovere di correttezza del tribunale arbitrale - Mancata desunzione di adverse inferences dal contegno passivo di una parte Rilevanza - Esclusione.
Nell’ordinamento inglese il motivo d’impugnazione per nullità del lodo previsto dall’art. 68, comma II lettera g) Arbitration Act non è integrato nell’ipotesi in
cui questo sia l’effetto di una frode commessa da un soggetto terzo rispetto alle
parti del procedimento arbitrale, né tale vizio assume rilievo sotto il profilo della
violazione dell’ordine pubblico.
La violazione del dovere di correttezza del tribunale arbitrale, contestabile in
sede d’impugnazione per nullità del lodo ex art. 68, comma II lettera a) Arbitration Act, non sussiste nell’ipotesi in cui gli arbitri non abbiano ordinato a una
parte, su richiesta dell’altra, di rendere disponibile la testimonianza di alcuni soggetti per il controinterrogatorio, atteso che rientra nella discrezionalità del tribunale la possibilità di negare l’ammissione di qualsiasi mezzo di prova ritenuto superfluo o non necessario ai fini della decisione.
La mancata desunzione da parte degli arbitri di adverse inferences dal contegno passivo di una delle parti non può criticarsi in sede d’impugnazione per nullità del lodo ex art. 68 comma II lettera a) Arbitration Act, atteso che, come nel
processo civile, trattasi di valutazione di fatto rimessa alla discrezionalità del tribunale e pertanto insindacabile nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo.
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CENNI DI FATTO. — Nell’ottobre del 2000 Double K Oil Product (« Double
K »), società costituita in Israele, conclude un contratto con Severgazprom, società
parte del gruppo energetico russo Gazprom, per la fornitura di un quantitativo pari
a 150.000 mt per anno del condensato di gas stabile prodotto da quest’ultima presso
uno stabilimento sito nella Russia nord-occidentale. Tale quantitativo, secondo alcune informazioni fornite all’epoca dalla compagnia russa, avrebbe dovuto rappresentare la produzione totale su base annua dell’impianto sino alla fine del 2010.
Nel dicembre 2004, Double K stipula un contratto con cui s’impegna a vendere a sua volta la stessa quantità annua del condensato di gas acquistato in Russia a una compagnia finlandese partecipata dallo Stato, Neste Oil Oyj (« Neste Oil »
o « Neste »). Il contratto, soggetto alla legge inglese e contenente una clausola
compromissoria per arbitrato amministrato LCIA con sede a Londra, viene rinnovato dalle parti sino alla fine del 2007. Mentre sono in corso delle trattative per
rinnovare il contratto per l’anno 2008, Gazprom entra in contatto direttamente con
Neste e le due società stipulano un accordo per la fornitura diretta del gas, in principio dal settembre al dicembre 2007, poi per l’intero anno successivo. Conseguentemente, Gazprom interrompe la fornitura del condensato di gas a favore di Double K e quest’ultima, trovandosi nell’impossibilità di rispettare il contratto con Neste, blocca ogni pagamento in favore di Gazprom per le forniture già effettuate nei
mesi precedenti.
Double K inizia senza successo un procedimento cautelare in Finlandia, chiedendo che venga inibita la consegna del gas in favore di Neste da parte di Gazprom
e, allo stesso tempo, viene convenuta in giudizio da quest’ultima, davanti alla
Commercial Court di Mosca, per il pagamento delle forniture già eseguite.
Soccombente dinanzi ai giudici russi tanto in primo grado quanto in appello,
Double K attiva la suddetta clausola compromissoria e inizia l’arbitrato, nel febbraio 2008, agendo nei confronti di Neste sia in via contrattuale che extracontrattuale. A titolo contrattuale asserisce che Neste, essendo a conoscenza del fatto che
il quantitativo di gas disponibile presso lo stabilimento non sarebbe sufficiente a
onorare il contratto con Double K, abbia violato una clausola — implicita nel contratto di fornitura — che vieterebbe a ciascuna delle parti di rendere impossibile
l’adempimento dell’altra. A titolo extracontrattuale, invece, afferma che la condotta
dolosa di Neste abbia indotto Gazprom a terminare il contratto con Double K e che,
in ogni caso, la condotta complice delle due società abbia arrecato danni a Double K.
Con lodo reso il 1o luglio 2009, il tribunale arbitrale rigetta la domanda formulata a titolo contrattuale statuendo che Double K non ha provato né che l’accordo diretto tra Gazprom e Neste abbia reso impossibile l’adempimento da parte
sua del contratto in favore della seconda (in altri termini, non essendo risultato
provato che la produzione massima dello stabilimento non fosse sufficiente a soddisfare ambedue i contratti) né che, in ogni caso, Neste potesse essere consapevole
che la contrattazione diretta con Gazprom avrebbe reso impossibile l’adempimento
da parte di Double K.
Sul piano extracontrattuale, di conseguenza, rigetta ambedue le domande promosse da Double K, per carenza di prova degli elementi suddetti e di qualsiasi
condotta dolosa da parte di Neste.
Double K impugna per nullità il predetto lodo davanti alla High Court of Justice, Queen’s Bench Commercial Division, ex art. 68 Arbitration Act sulla base di
quattro motivi, tra di loro collegati.
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MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis).
This is an application by the Claimant, Double K Oil Products 1996 Ltd
(« Double K ») to challenge an arbitration award made on 1 July 2009 in favour of
the Defendant, Neste Oil Oyj (« Neste ») on grounds of serious irregularity under
s.68 Arbitration Act 1996. The arbitration was an LCIA arbitration, the tribunal
consisting of Mr Richard Southwell QC (who was chairman), Mr Michael Collins
QC and Mr Neil Kaplan QC. The Claim Form seeks an order setting aside the
Award on the following grounds: (a) the failure by the Tribunal to comply with its
duty under s.33 Arbitration Act 1996 (the duty to act fairly), (b) the failure by the
Tribunal to deal with all the issues that were put to it, and (c) the award being obtained by fraud or the award or the way in which it was procured being contrary to
public policy. Ground (a) has been argued under two heads, namely an assertion
that the Tribunal acted unfairly in not ordering Neste to make certain witnesses
available at the hearing, and an assertion that the Tribunal unfairly relied on materials covered by legal professional privilege. In the result, there are four grounds at
issue, which Double K submits are interrelated. — (Omissis).
The first ground is under s. 68(2)(g) Arbitration Act 1996, by which an award
may be set aside if it was obtained by fraud or the award or the way in which it
was procured is contrary to public policy. Double K’s case in this respect is most
conveniently summarised in its skeleton argument as follows. The « public policy
on which Double K relies is the prohibition against false evidence to procure a
favourable decision. This ground qualifies under any or all of the three grounds set
out in s 68(2)(g). During the arbitration, Neste submitted a statement [dated 27
January 2009] it obtained from Gazprom Pererabotka confirming production levels
of VGC by Gazprom’s refinery in Sosnogorsk of 315,000 and 290,000 mt in 2007
and 2008. The Tribunal relied on this statement. Gazprom’s statement is contradicted by new information obtained by Double K from Severgazprom. Both Neste
and Gazprom Pererabotka knew the information in the Gazprom Pererabotka statement was false. In any event, an award affected by fraud must be set aside whether
the fraud itself was committed by Neste or by Gazprom. In either case, the award
and the way it was procured are contrary to public policy ». In a further passage it
is said that, « The Gazprom Pererabotka statement of 27 January 2009 was unconscionable and reprehensible. It was provided with the dishonest intention deliberately to mislead the Tribunal and may “comfortably” be described as fraud. Neste
knew this information to be false ». These assertions were reflected in oral submissions. The basis of the application under this ground, therefore, is that evidence was
adduced in the arbitration by the respondent which has now been shown to be false,
not merely in the sense that it was incorrect, but in the sense that it was known by
the respondent to be false, and therefore submitted fraudulently.
19 Given the seriousness of this assertion, it is necessary to explain the facts
in relation to this ground in some detail. — (Omissis).
By letter of 27 January 2009, Neste’s General Counsel wrote to the member
of the Gazprom Group, a company called Gazprom Pererabotka, which from 1 October 2007 took over responsibility for the operation of the Sosnogorsk Plant and
the production of VGC. The letter refers to the arbitration, stating, « we hereby ask
you to specify the volume of stable gas condensate refined in 2007 and 2008 at the
gas processing unit at the Sosnogorsk Gas Processing Plant [GPP] as well as the
potential designed capacity at the Plant ».
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23 Later that day, that is 27 January 2009, Gazprom Pererabotka replied saying:« In reply to your enquiry, we hereby inform you that the following volumes of
stable condensate were refined at the Sosnogorsk GPP in 2007: in 2007 approx. 315
thousand tonnes refined and in 2008 approx 290 thousand tonnes. Gas condensate
is refined according the established contracts. The designed capacity of the Plant
allows for the refining of up to 950 thousand tonnes of stable condensate annually ». — (Omissis).
By letter of 6 February 2009, Eversheds requested that the Tribunal order
Neste to make Mr V.N. Tochilin available for examination at the oral hearing or,
failing that, to exclude his testimony pursuant to Art 20.4 of the LCIA Rules. The
Tribunal was also invited to draw all appropriate negative inferences in relation to
Mr Tochilin’s letter, and more generally in respect of Neste’s claim not to be able
to obtain and/or produce evidence from Gazprom. Neste responded to the effect
that since Mr Tochilin worked for Gazprom, it had no ability to make him available at the oral hearing. By email dated 9 February 2009 dealing with that and a
considerable number of other matters that arose in the run up to the hearing, the
Tribunal declined to order that Neste be required to produce Mr Tochilin as a witness for cross-examination, and permitted the letter of 27 January 2009 to be received as evidence, to be given appropriate weight in the light of each party’s submissions. The hearing went ahead on that basis.
25 The Award, as I have said, was made on 1 July 2009. In paragraph 122 of
the Award, the Tribunal makes reference to the evidence as to the production capacity of the Sosnogorsk Plant, including the letter of 27 January 2009. In paragraph 123, appears the following: « Under the Purchase Agreement with [Double
K] and the September 2007 contract with [Neste] together, [Gazprom] was contractually bound to supply at a total rate of around 27,666 metric tons per month for
the three months October to December 2007, plus or minus 10%. In 2008, the total monthly rates under both contracts would have been around 25,000 metric tons
per month, and the total to be delivered during the year, 300,000 metric tons, subject to a possible deviation under each agreement of plus or minus 10%. Thus the
total to be supplied in 2008, if [Gazprom] took advantage of a deviation of minus
10%, would have been around 270,000 metric tons. It appears that both in the last
quarter of 2007, and during 2008, [Gazprom] could have met this required supply
on the basis of the figures set out above ». — (Omissis).
26 I now come to the new evidence that Double K has produced in this regard since the Award and upon which this part of the application is based. —
(Omissis).
28 Leaving aside for the moment the question whether the evidence was not
available at the time of the hearing, or indeed any time up to the date of the Award,
I now describe what the evidence consists of. It comes, as indicated in Double K’s
witness statements, from Severgazprom, and deals with the years 2006 and 2007.
Although, as Neste says, the documents purport to show planned production, in the
case of 2006 it is correct to say, as Double K points out, that matters go further in
that the plans are available on a monthly as well as a yearly basis. Totalled up, I
am told that these amounted in 2006 to a figure of 232,600 mt. A breakdown by
month is not available for 2007, but the plan (which I understand is undated) gives
a figure of 240,300 mt for that year. The latter figure compares with 315,000 mt
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stated as having been refined at Sosnogorsk in 2007 in the letter of 27 January
2009. — (Omissis).
30 In its skeleton argument for this hearing, Double K appended further material in the form of a document called the « Gazprom Databook 2008 » which is
available on the Gazprom website. In Mr Shackleton’s fourth witness statement of
1 December 2009, he explains that this came to light when Double K’s expert, Mr
Peter Jones, decided of his own accord to review the Gazprom website. The document concerned appears to be dated 7 July 2009, but in any case there is no dispute that it was not available prior to the Award. As I have said, its production at
the hearing was not opposed by Neste. It gives figures for the production of condensates from the Northwestern Federal District for the years 2003 to 2008, and it
is not in dispute that the Sosnogorsk Plant is the only Gazprom gas processing plant
located in this district. The production figures shown on the website are 209,800
mt for 2007 and 192,600 mt for 2008. These compare with figures given in the 27
January 2009 statement of 315,000 tons and 290,000 tons respectively. — (Omissis).
33 The authorities show that the applicable principles are as follows. In accordance with the high threshold applicable to s. 68 Arbitration Act 1996 (Lesotho
Highlands Development Authority v. Impregilo SpA [2006] 1 AC 221 at 235H,
Lord Steyn), it is not enough in an application under s. 68(2)(g) to show that one
party inadvertently misled the other, however carelessly (Cuflet Chartering v. Carousel Shipping Co Ltd [2001] 1 Lloyd’s Rep 707, Moore-Bick J, at [12]). It will
normally be necessary to satisfy the court that some form of reprehensible or unconscionable conduct has contributed in a substantial way to the obtaining of the
award. A challenge to an award cannot, therefore, be made on the grounds of an
innocent failure to give proper disclosure (Profilati Italia SRL v. PaineWebber Inc
[2001] 1 ArbLR 51, [2001] All ER (Comm) 1065, Moore-Bick J at [17] and [22]),
or the innocent production of false evidence (Elektrim SA v. Vivendi Universal SA
[2007] All ER (Comm) 365, Aikens J at [80]-[81]). Where, as in the present case,
the allegation is fraud in the production of evidence, the onus is on the applicant to
make good the allegation by cogent evidence (Cuflet at [12], Elektrim at [81]). The
applicant must show that the new evidence relied upon to demonstrate the fraud
was not available at the time of the arbitration and would have had an important
influence on the result (Westacre Investments Inc v Jugoimport-SDPR Holding Co
Ltd [1999] 2 Lloyd’s Rep 65 at 76-77, Waller LJ, applied by Cooke J in Thyssen
Canada Ltd v Mariana Maritime SA [2005] ArbLR 62 at [60]-[66] and in DDT
Trucks of North America Ltd v DDT Holdings Ltd [2007] 2 Lloyd’s Rep 213 at
[22]-[23]). The latter point (important influence on the result) takes effect within
the statutory requirement that the irregularity has caused or will cause substantial
injustice to the applicant (Thyssen at [65]). — (Omissis).
35 Section 68(2)(g), Aikens J pointed out at [79], « does not refer to the fraud
of a party to the arbitration. On the face of the wording it would seem that the
“fraud” referred to in the paragraph can be committed by anyone who is connected
with the arbitration process. If this were right, then (for example) if it were proved
that a witness for one side or another has committed perjury when giving evidence
before the Tribunal, that would be a “fraud” within para (g). If so then, if it were
also proved that the perjured evidence resulted in the award being in favour of that
party, then, logically, the award would have been “obtained by fraud” ». But, he
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concluded, this is not the correct construction of these words. It « is a party to an
arbitration that obtains an award in its favour or has one made against it. The words
“obtained by fraud” must refer to an award being obtained by the fraud of a party
to the arbitration or by the fraud of another to which a party to the arbitration was
privy ». He continued at [80]: « If this wording referred to the fraud of anyone that
was involved in the arbitral process, whether or not the fraud was committed with
the knowledge of the relevant party to the arbitration, then that would give unsuccessful parties carte blanche to apply to the court to set aside or remit an award.
The unsuccessful party need only assert (for example) that a witness of the successful party had committed perjury (even without the knowledge of the successful
party) and the award had as a result been in the favour of that party. It could then
be asserted that the award had been “obtained by fraud”, resulting in “substantial
injustice”; therefore the award must be set aside or remitted ».
36 In the present case, the letter of January 27, 2009 was sent by Gazprom,
but produced as evidence in the arbitration by Neste, being the Respondent. On the
authority of Elektrim, fraud must be demonstrated on the part of Neste. Double K
has argued that this case was wrongly decided, and does not reflect international
public policy that a party is not entitled to keep the benefit of an award that has
been obtained on the basis of false evidence. I reject that submission for the reason
given by Aikens J. I should add that where the requirements of the subsection are
established, the Court will intervene, however inconvenient the results — I was
told that this arbitration had cost US$7 million — because not to do so would undermine the integrity of the arbitration process. The question for the Court is
whether such requirements are satisfied or not.
37 I express my conclusions on this question as follows: (1) Though as I have
said the witness statements in support of the application do not deal in an entirely
satisfactory way with the evidence obtained in July 2009, I think that Double K has
shown to a sufficient degree that the new evidence relied upon to demonstrate the
alleged fraud was not available at the time of the arbitration. That is not in dispute
as regards the website evidence. (2) I have set out above Double K’s case as to the
falsity of the 27 January 2009 statement. In essence, it is that the figures given for
volumes of stable condensate refined in 2007 and in 2008 differ so markedly from
those contained in the new information that no conclusion other than fraud is possible. The figure given in the 27 January 2009 statement for 2007 was 315,000 mt.
The production plans obtained by Double K in July 2009 show planned production
of 240,300 mt for that year. The Gazprom website shows production of 209,800 mt
for that year. As regards 2008, the statement of 27 January 2009 gives a figure of
approximately 290,000 mt refined during that year, whereas the commensurate figure on the website is 192,600. — (Omissis).
The question is ultimately whether the Court should infer fraud on the part of
Gazprom in producing the letter of 27 January 2009 because of the discrepancy between the figures in that letter and those shown in the new material. I have not
found this an easy question, because plainly the new material raises serious questions as regards the 27 January 2009 letter. But the various figures which feature in
the evidence as put to the Court as regards the production capacity of the Sosnogorsk Plant do not appear to me to be sufficiently clear to establish to the necessary standard of proof (Elektrim at [81]) that Gazprom produced the letter of 27
January 2009 fraudulently, and I do not consider that I should so find. (4) In any
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case, the question I have to answer is whether the Award was obtained by Neste’s
fraud. — (Omissis).
In any case, I am satisfied that there is no direct evidence to support the allegation that Neste knew that the information in the statement of 27 January 2009
was false, nor can this be inferred from the evidence that is available. In summary,
there is in my view no basis for the contention that Neste acted fraudulently in respect of Gazprom’s letter of 27 January 2009. That is sufficient to require that the
application under this ground be dismissed. (6) However, even if contrary to the
above, a claim under s.68(2)(g) was established, Double K must show that the
fraud caused or will cause it substantial injustice. An applicant in these circumstances must show that as a consequence of its fraud, the other party obtained an
Award in its favour (Elektrim at [82]). In paragraph 121 of the Award, the Tribunal speak of the« actual production capacity, as opposed to any theoretical or designed capacity » of the plant. In oral argument, Mr Davies QC said that Double
K’s key point in the arbitration was not the actual capacity of the Sosnogorsk Plant,
but how much VGC was available for export. This is not in dispute. Mr Shackleton agreed that this was how Double K had put its case. Double K’s case was put,
I was told by Mr Davies QC, not on the basis of the production capacity of the
Plant, but on the basis that because of various domestic considerations within Russia, not all the production could be exported. The Tribunal, he says, was not asked
in Double K’s closing submissions to make any findings as to the production capacity of the plant. (7) Despite Double K’s submissions that what it submits was
the false statement of 27 January 2009 permeated the entire Award, there appears
to me to be considerable force in Mr Davies’ submission, particularly the last point.
However there is a further point to take into account which goes more directly to
the question of substantial injustice. Mr Shackleton accepted in oral argument the
correctness of the analysis in paragraph 22 of Neste’s skeleton argument as to what
Double K’s case required it to prove. Leaving aside whether it was possible for
Gazprom to fulfil its obligations both to Double K and to Neste, in order to make
its claim good, Double K had to prove that Neste knew when it entered into the
direct contract with Gazprom that it was impossible for Gazprom to fulfil both
contracts. However the Tribunal found that Neste did not know when it entered into
the direct contract with Gazprom that it was impossible for Gazprom to fulfil both
contracts (paragraphs 132, 149(2) and 171 of the Award). Double K also had to
prove that Neste’s direct contract with Gazprom caused Gazprom not to fulfil the
Purchase Agreement with Double K. In fact, the Tribunal found that Neste did not
cause Gazprom to breach the Purchase Agreement with Double K (Award paragraph 174). I have already set out its conclusion, in which the Tribunal noted with
respect to all Double K’s causes of action that « it was in no instance convinced
that it was but for the Respondent’s actions that the Claimant lost its contract. The
Tribunal finds that it appears from the evidence that this was the Gazprom Group’s
unilateral decision. This finding of the lack of causation infects all of the claims in
this arbitration ». (8) As Neste puts it, Double K lost for multiple and comprehensive reasons. In those circumstances, even if the factual basis for an application under s.68(2)(g) had otherwise been made out, which I have held it has not been, it
does not appear to me that Double K can show that substantial injustice was caused
to it within the meaning of s.68(2) Arbitration Act 1996. — (Omissis).
38 There are two grounds raised under s. 68(2)(a) (general duty of fairness),
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of which the first (to take the heading from Double K’s skeleton argument) is a
failure on the part of the Tribunal to order witnesses to be made available. The
background to this complaint is as follows. On 23 December 2008, Double K’s solicitors wrote to the Tribunal stating that throughout the documentary record and
witness statements, reference had been made to Ms Kaisa Hietala and Mr Seva
Loktyukhov. Ms Hietala, it was said, was directly responsible for Neste’s relationship with Double K. Mr Loktyukhov joined Neste from Gazprom in 2007, and
would « undoubtedly have had knowledge of the Claimant’s contractual relationship with Gazprom... as well as of production and export volumes at the Sosnogorsk plant. Further, Mr Loktyukhov appears to have been heavily involved in
Respondent’s negotiations with Gazprom in 2007 for a direct contract... ». On that
basis, Double K requested the Tribunal to direct Neste to make both these people
available for cross examination at the oral hearing, failing which Double K « reserves all rights to request that the Tribunal draw the appropriate negative inference ». — (Omissis).
On 12 January 2009, the Chairman emailed to the effect that the Tribunal had
decided not to make the order sought « which in the judgment of the Tribunal
would not be an appropriate order, not least because the Respondent does not seek
to rely on evidence from either of these persons. Whether any inferences are to be
drawn from the fact that the Respondent does not produce evidence from either of
these persons will be a matter on which submissions can if so wished be made at
the substantive hearing ». — (Omissis).
42 In the course of the Award, the Tribunal refer to both Ms Hietala and Mr
Loktyukhov at various points. As regards Mr Loktyukhov in particular, in paragraphs 135 and 136 the Tribunal refer to his role at the time Neste and Gazprom
were discussing the possibility of an agreement between them in September 2007.
Referring to a draft contract, the Tribunal states, « It is improbable that this draft
contract could have been prepared by [Gazprom] and sent less than an hour and a
half after the faxed letter to [Neste] unless there had been some previous contact
with Mr Loktyukhov that laid the ground work ». — (Omissis).
In his oral submissions, Mr Shackleton summarised the case as follows.
Double K was prevented from accessing relevant information. Procedural irregularity arose from the Tribunal’s handling of Neste’s failure to call these two witnesses,
consisting in not ordering them to be made available, but offering the opportunity
to draw negative inferences, and then changing the basis upon which such inferences would be drawn. This followed, he said, because the Tribunal drew inferences on the basis not only of Neste’s, but also of Double K’s, failure to make the
witnesses available. To make this good he draws attention to passages in the Award
in which the Tribunal said that neither party called the witnesses, and (it is submitted) further relied upon a non-existent agreement to limit the number of witnesses.
— (Omissis).
46 Two passages in the Award in particular found Double K’s complaint. In
paragraph 46, the Tribunal state, « Mr Loktyukhov was not called as a witness by
the Respondent (or by the Claimant) ». In paragraph 77, dealing with Double K’s
complaints as to the absence of evidence from six witnesses including Ms Hietala
and Mr Loktyukhov, the Tribunal states, « In the absence of evidence from, and
availability for questioning of, these witnesses, the Claimant contended that inferences adverse to the Respondent should be drawn by the Tribunal in a number of
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instances. The Tribunal will endeavour to deal with the more significant instances
below; but it notes here that the parties to this arbitration rightly sought to limit the
extent of their written and oral evidence so as to avoid duplication, lengthening of
the oral hearings, and the additional costs which that would have involved ». —
(Omissis).
48 Neste maintained that the Tribunal had no power to order it to call Ms Hietala and Mr Loktyukhov for cross-examination. The IBA Rules which appear to
give such power did not apply to this arbitration. In any case, it is submitted that
such an order would have been « quite exceptional » and it is impossible to say that
the decision not to make it constituted an irregularity of any sort, let alone a serious one. As regards the drawing of adverse inferences, Neste submits that this was
a decision about evaluation of the evidence, which was a decision on the merits for
the Tribunal, and does not provide a basis for a s.68 challenge. The criticisms
Double K has made of the Award are said to be wholly unfounded.
49 I express my conclusions on this question as follows. (1) Whether or not
the Tribunal had power to order Neste to produce Ms Hietala and Mr Loktyukhov
for cross-examination, such an order would have been an unusual one (Brandeis
(Brokers) Ltd v Black [2001] ArbLR 15 at [74], per Toulson J). The Tribunal’s decisions to decline to make such an order were unexceptionable, and were certainly
not unfair, and did not give rise to any irregularity. (2) I do not accept Double K’s
criticisms of paragraphs 46 and 77 of the Award. It is certainly correct that any
criticism of Double K for the non-attendance of Mr Loktyukhov would have been
entirely (and obviously) wrong. The reference in paragraph 46 to him not being
« called as a witness by the Respondent (or by the Claimant) » is on the face of it
perplexing. But read in context with the rest of the Award I would conclude (as
Neste submits) that it is a reference to the principle that « there is no property in a
witness ». It is plain that the Tribunal was not under the impression that the evidence from Ms Hietala and Mr Loktyukhov was excluded by agreement. The Tribunal expressly records that the « Claimant complained strongly in the course of
the arbitration about the fact that the Respondent did not rely on evidence from
[them] » (Award paragraph 76). I reject as entirely unjustified the contention set out
above that, aware that it had acted unfairly, the Tribunal sought in its Award retrospectively to justify its decision on this basis. (3) I do not accept the submission
that the Tribunal changed the basis upon which it would draw negative inferences.
It is clear from the Award that the Tribunal was well aware of the nature of Double
K’s submission that adverse inferences should be drawn from the failure to call
these (and other) potential witnesses (Award paragraph 77). At paragraph 173 it is
stated, « The Claimant asks the Tribunal to draw adverse inference from the Respondent’s alleged failure to call other witnesses including Messrs Loktyukhov and
Koushnarev who attended the meeting [of 25 September 2007]. The Tribunal does
not consider it appropriate to draw the adverse inferences contended for by the
Claimant: the three main witnesses were called and were fully questioned by Mr
Shackleton; and the Tribunal does not accept that anything substantial was lost by
these additional persons not being called as witnesses ». (4) The nature of Double
K’s complaint is in reality that the Tribunal failed to draw adverse inferences from
the absence of these witnesses. This reflects what is clearly Double K’s deeply held
conviction as to what it perceives as the wrong outcome of the arbitration, but it
does not raise questions of unfairness within s. 33 Arbitration Act 1996, or irregu149
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larity. This was an exceptionally experienced international Tribunal, well able to
appreciate Double K’s case, including as to inferences to be drawn from the failure
to call witnesses. The inferences which it drew, and did not draw, constitute part of
its decision on the merits, and are not susceptible to challenge under s.68. A similar analysis has been approved in the context of civil litigation: see Jaffray & Others v. Society of Lloyd’s [2002] EWCA Civ 1101 at [562], per Waller LJ: « the refusal to draw adverse inferences really belongs to the [appellants’] substantive
challenge to the judge’s decision on the merits ». — (Omissis).
Alcune osservazioni circa l’impugnativa per nullità del lodo, il dovere
di act fairly del tribunale arbitrale e la conduzione della fase
istruttoria negli arbitrati commerciali internazionali.
1. Molti sono gli spunti offerti dal provvedimento della High Court
of Justice che qui si annota, sebbene il contenuto dispositivo dello stesso
non sorprenda.
La parte soccombente in arbitrato ha impugnato per nullità il lodo asserendo, che: i) esso sarebbe stato ottenuto con frode della controparte,
consapevole che gli arbitri avevano deciso in base a una prova falsa, ovvero che il lodo per tale motivo contrasterebbe con l’ordine pubblico; ii) gli
arbitri avrebbero violato il proprio dovere di act fairly, non ammettendo
una testimonianza richiesta e facendo riferimento a materiale riservato; iii)
gli arbitri avrebbero omesso di pronunciarsi su tutte le domande delle parti.
Con l’esclusione del motivo sub iii), come si vede, i temi trattati attengono tutti ai rapporti tra la conduzione dell’istruttoria nell’arbitrato internazionale e il regime di impugnativa per nullità del lodo. All’analisi
della decisione si tornerà in seguito, dopo alcune considerazioni di carattere generale a questo riguardo.
L’argomento della prova nell’arbitrato internazionale è da tempo oggetto
di grandi attenzioni in dottrina nonché motivo di discussioni ancora attuali (1).
Da anni si ritiene che il settore sia fertile campo per la nascita di
(1) In Italia, v., da ultimo, E.F. RICCI, La prova nell’arbitrato internazionale: tra
principio di flessibilità e regole di correttezza: una pietra miliare verso l’armonizzazione di
tradizioni diverse, in questa Rivista, 3, 2008, 311-327; tra i numerosi contributi nel contesto
internazionale, v. MARRIOTT, Evidence in International Arbitration, in Arbitration International, 5(3), 280-290; DERAINS, La Pratique de l’administration de la preuve dans l’arbitrage
commercial international, in Revue de l’arbitrage, 2004, 781-802; PIETROWSKI, Evidence in
International Arbitration, in Arbitration International, 22(3), 75 ss.; sulla valutazione delle
prove, v. anche, di recente, SCHLAEPFER, P. BARTSCH, A few reflections on the assessment of
evidence by international arbitrators, in International Business Law Journal, 2010, 3, 211223; sull’assunzione delle prove, PATOCCHI, MEAKIN, Procedure and the taking of evidence in
international commercial arbitration: the interaction of civil law and common law procedures, in International Business Law Journal, 1996, 7, 884-899.
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prassi condivise, un punto d’incontro tra tradizioni giuridiche spesso agli
antipodi, e che dunque gli arbitrati internazionali possano rappresentare un
viatico per la creazione di una sorta di diritto comune della prova (2).
Pur essendo vero che nella conduzione dell’istruttoria gli arbitri internazionali continuano in parte ad applicare schemi, modelli e regole procedurali a essi « familiari » (3), è un dato di fatto che si sia ormai giunti a una
certa uniformità di soluzioni, tanto che l’esistenza di un diritto comune,
ovvero di un diritto transnazionale della prova nell’arbitrato internazionale,
è stata più volte affermata (4). La prassi ha raggiunto dei risultati considerevoli (si pensi, ad esempio, all’ampio catalogo di mezzi di prova e di ricerca della prova disponibili) soprattutto grazie a una serie di strumenti di
soft law (5), tra i quali spiccano le Regole IBA, soventemente adottati dalle
parti in maniera vincolante o semplicemente come guide lines.
Peraltro, c’è anche chi, in controtendenza con tali entusiasmi, proprio
a causa dell’esistenza di questi strumenti di soft law volti a riepilogare le
buone prassi comuni nate nel corso degli anni, ha paventato il rischio di
una judicialisation (6) dell’arbitrato internazionale.
(2) Da identificarsi nelle regole in materia di prova contenute nei regolamenti delle
maggiori istituzioni di arbitrato amministrato, nella Legge Modello e nelle Regole UNCITRAL,
e, soprattutto, nelle IBA Rules on the Taking of Evidence in International Arbitration, (« Regole
IBA »), la cui revisione è stata terminata di recente e la cui nuova versione è stata adottata dall’IBA con risoluzione del 29 maggio 2010. A commento della versione del 1999, cfr. MOURRE,
Differenze e convergenze tra common law e civil law nell’amministrazione della prova: spunti
di riflessione sulle IBA Rules on Taking of Evidence, in questa Rivista, II, 2007, 179-197.
(3) V. in tal senso CARLEVARIS, Commento all’art. 20 Reg. Arb. ICC, in BRIGUGLIO, L.
SALVANESCHI (a cura di), Regolamento di Arbitrato della Camera di Commercio Internazionale, Milano, 2005; BLACKABY, PARTASIDES, Redfern and Hunter on International Commercial
Arbitration, Oxford, 2009, spec. par. 6.
(4) Di un « modello misto » tra sistemi di civil law e common law in tema di prova
si parla da tempo: si vedano, di nuovo, CARLEVARIS, Commento, cit. e la bibliografia ivi indicata, 360 ss.; BERNARDINI, L’arbitrato internazionale in Italia dopo la riforma del 2006, in
Dir. Comm. Int., 2009, 3, 481 ss.; WIRTH, Ihr Zeuge Herr Rechtsanwalt! Weshalb Civil-Law
Schiedsrichter Common-Law Verfahrensrecht anwenden?, in SchiedsVZ, 2003, 9 ss.; FRIEDLAND, A Standard Procedure for Presenting Evidence in International Arbitration, in Mealy’s
International Arbitration Review, 1996, 133 ss.. Di recente, v. gli auspici espressi, anche in
tema di disciplina della prova, da BOECKSTIEGEL, in Past, Present, Future Perspectives of Arbitration, in Arbitration International, 2009, 25(3), 293-302; per una nitida disamina delle
prassi attualmente diffuse v., infine, HANOTIAU, The Conduct of the Hearings, in NEWMAN,
HILL, The Leading Arbitrators’ Guide to International Arbitration, New York, 2008.
(5) Oltre alle Regole IBA, per cui v. supra, anche le regole UNCITRAL sono attualmente in corso di revisione. A dimostrazione del buon livello di armonizzazione raggiunto in
tema di prova, cfr. le minime revisioni apportate sinora agli articoli 17-32, relativi alla conduzione del’istruttoria (v. Report of Working Group II (Arbitration and Conciliation), sui lavori della XXV sessione dello scorso 19 febbraio 2010).
(6) Circa il dibattito, cfr. PARK, The Procedural Soft Law of International Arbitration: Non-Governmental Instruments, in MISTELIS, LEW, Pervasive Problems in International
Arbitration, 2006, spec. 146 e i riferimenti ivi indicati sub nota 12.
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Nel condividere tanto l’intento quanto gli entusiasmi ricordati, a chi
scrive pare che in simili strumenti le parti e gli arbitri possano certamente
trovare un riferimento e che sinora ne abbiano fatto un’applicazione apprezzabile. Deve rilevarsi, piuttosto, che residuano in argomento alcune
criticità di altro genere e che divengono evidenti nelle fasi patologiche,
eventuali ma non troppo, in cui il lodo è impugnato per nullità ovvero se
ne richiede l’enforcement.
Ciò che manca nell’arbitrato internazionale è un trattamento comune
degli errori procedurali eventualmente commessi dagli arbitri e tale lacuna
si riflette inevitabilmente, anche ab initio, sullo svolgimento dell’arbitrato.
È opinione condivisa che gli arbitri internazionali debbano rispettare
gli standards procedurali minimi, quali il principio del contraddittorio, il
diritto alla difesa o altri generici canoni di correttezza, i quali ricorrono
sotto diverse interpretazioni ed espressioni come motivi d’impugnazione
dei lodi nei diversi sistemi giuridici nazionali (7).
Del suddetto processo di armonizzazione questi principi devono costituire il punto di partenza, proprio allo scopo di mitigare le differenze tra
approcci e discipline giuridiche (e interpretazioni delle corti) esistenti nei
diversi Paesi sui mezzi d’impugnazione dei lodi.
Date queste premesse, di seguito, dopo brevi cenni ad alcune problematiche che la disciplina dei mezzi d’impugnazione dei lodi può implicare,
si analizzerà — senza alcuna pretesa di completezza — la disciplina inglese
contenuta nell’Arbitration Act del 1996 (« AA »), con specifico riguardo all’impugnazione per nullità del lodo ex art. 68 e in particolare all’ipotesi,
dimostratasi problematica nel caso di specie, del lodo asseritamente ottenuto a seguito di frode, ovvero asseritamente contrario all’ordine pubblico.
Successivamente si svolgeranno alcune osservazioni circa il potere di conduzione dell’istruttoria da parte degli arbitri, con specifica attenzione al diniego di richieste di prova e alla (libertà di) desunzione di adverse inferences dal comportamento processuale delle parti.
Non si analizzeranno, invece, i temi dell’impugnazione dei lodi infra
petita e dell’utilizzo di informazioni « riservate » nell’arbitrato internazionale (8) pur toccati dalla decisione in commento, ma privi di particolare rilievo nell’economia della stessa.
2. Nel voler tracciare un quadro di alcune delle problematiche ad
oggi esistenti, va premesso che non si intende entrare nella questione, an-
(7) Persiste tuttavia un certo divario, stante la mancanza di una nozione comune di
queste garanzie fondamentali: al riguardo, v. di nuovo PARK, The Procedural Soft Law, cit.,
141 ss..
(8) Sul tema, pur d’interesse, esiste una folta bibliografia: v. ex multis, PRYLES, Confidentiality, in NEWMAN, HILL, The Leading Arbitrators, cit..
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cora dibattuta, di quale giudice sia competente a conoscere dell’impugnazione del lodo: se quello della sede, dell’ordinamento nel cui territorio il
lodo è stato reso, quello della legge processuale scelta dalle parti, o quello
della legge applicabile al merito della controversia. Né si intendono trattare
qui i temi dei cosiddetti « anational awards » o dei lodi con nazionalità
duale o multipla (9). Si darà per scontato, in linea con quanto ritenuto dall’opinione prevalente e con quanto avvenuto nel caso di specie, ove non si
trattava né di un lodo anazionale né di un lodo « con differenti passaporti »,
che il giudice della sede dell’arbitrato sia quello competente a decidere.
La dottrina maggioritaria è solita considerare la previsione di mezzi di
impugnazione dei lodi internazionali dinanzi alle corti statali uno « struggle between finality and fairness », necessario per promuovere l’efficienza
dell’arbitrato internazionale e dunque infondere fiducia nelle parti sulla
bontà dello strumento arbitrale in genere (10). All’estremo opposto c’è invece chi afferma che sarebbe opportuna la totale eliminazione di qualsiasi
mezzo di impugnazione del lodo che preceda la fase dell’enforcement (11).
È un fatto che ad oggi se le impugnative del lodo siano rimedi rinunciabili o meno dipende da ciascun ordinamento e dal carattere inderogabile
delle disposizioni che le prevedono (12). Salvo che le parti, ove possibile,
non abbiano consapevolmente deciso di escluderli, i mezzi di impugnazione hanno rilievo centrale e svolgono inevitabilmente un ruolo nel processo di armonizzazione della disciplina dell’arbitrato in genere, e della
prova nello specifico (13).
Il momento patologico dell’impugnazione per nullità del lodo, infatti,
(9) In proposito, v. amplius LEW, MISTELIS, KROELL, Comparative International Commercial Arbitration, The Hague, 2003, spec. 667 ss.; ATTERITANO, voce Arbitrato estero, in
Dig. disc. priv., Torino, 2007, 78 ss., nonché, in passato, LATTANZI, L’impugnativa per nullità
nell’arbitrato commerciale internazionale, 1989, spec. 83-104.
(10) In tal senso, cfr. LEW, MISTELIS, KROELL, Comparative International, cit., 664 ss.
e PARK, Why Courts Review Arbitral Awards, in BRINER, FORTIER, BERGER & BREDOW, Recht
der Internationalen Wirtschaft und Streiterledigung im 21. Jahrhundert: Liber Amicorum
Karl-Heinz Böckstiegel, Koeln, 2001, 595.
(11) FOUCHARD, La portée internationale de l’annulation de la sentence arbitrale
dans son pays d’origine, in Revue de l’arbitrage, 1997, 329 ss., spec. 351-352.
(12) In Italia, v. artt. 829, 830, comma 2 e 831 c.p.c.: al riguardo, circa l’arbitrato internazionale con sede in Italia, cfr. BRIGUGLIO, La dimensione transnazionale dell’arbitrato, in questa Rivista, 2005, 688 ss.; nel Regno Unito, v. i rilievi svolti infra nel paragrafo successivo.
(13) Ne discende l’utilità dello studio delle pronuncie rese nei giudizi d’impugnazione per nullità, soprattutto data la frequente indisponibilità dei lodi, spesso non resi pubblici neanche in forma anonima (cfr. al riguardo art. 30 Regolamento LCIA). Si rammenta,
però, che in alcuni sistemi particolarmente attenti alla riservatezza, come quello inglese, può
accadere che anche le decisioni rese all’esito del giudizio d’impugnazione non siano pubblicate, talora persino in assenza di un’esplicita richiesta delle parti in tal senso. Su questo tema,
v. SHACKLETON, Arbitration-related court proceedings and confidentiality, in International Arbitration Law Review, 2003, 6(5), 45-46 e HILL, FLETCHER, Confidentiality of arbitration in
court proceedings, ibidem, 2004, 7(4), 48-50.
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consente di retrocedere alla volontà delle parti e alle pregresse fasi del procedimento arbitrale. Al contrario, in mancanza di critiche al riguardo, in
ipotesi in cui ambedue le parti siano rimaste soddisfatte dal provvedimento,
ovvero la parte soccombente si limiti a svolgere le proprie eccezioni in sede
di opposizione alla richiesta di enforcement, tale controllo non sarà possibile e potrebbe accadere che il lodo di cui le parti siano rimaste soddisfatte
sia l’esito di un procedimento condotto in maniera per cosı̀ dire « peculiare ». Quand’anche il controllo avvenga è possibile poi che quelle « peculiarità » restino tali, dando luogo a soluzioni ingiuste.
Anche nei casi in cui il lodo è impugnato per nullità, difatti, non sempre il suddetto esercizio di controllo è possibile.
Sia per la tassatività dei motivi di impugnazione, che per la volontà di
non « interferire » con l’arbitrato, la stragrande maggioranza delle corti nazionali tende a limitare lo spettro delle critiche disponibili fornendo interpretazioni restrittive. Questo pare l’unico dato certo: ovunque, impugnare
per nullità un lodo per motivi attinenti al procedimento ottenendo successo
è impresa ardua (14).
L’idea sottesa a tali interpretazioni restrittive, si è scritto, deve rinvenirsi nel concetto della delocalizzazione dell’arbitrato in materia di procedimento e di prova (15), per cui, fatte salve alcune garanzie fondamentali, il
processo arbitrale non avrebbe alcun legame con l’ordinamento giuridico
della sua sede.
L’espressione delocalizzazione è certamente eccessiva e non può avallarsi. Semmai, limitatamente al tema della conduzione del procedimento e
alla materia delle prove, rispetto alla legge processuale della sede può riscontrarsi un certo distacco (16), ovvero un radicamento « ristretto », nel
(14) Si vedano i dati riportati in BLACKABY, PARTASIDES, Redfern and Hunter, cit., par. 10
C(c)(iv): con riferimento alle impugnazioni ex art. 68 Arbitration Act, gli AA. riportano che, al
2006, soltanto il 30% di queste avevano ottenuto successo. V. anche, sulla valutazione delle
prove, LEW, MISTELIS, KROELL, Comparative International, cit., 675: « the assessment of evidence
is in the discretion of the tribunal and can rarely amount to a ground to challenge an award ».
(15) Che, nel sistema inglese, sarebbe da ravvedersi con riferimento alla prova nel
combinato disposto degli artt. 34 e 68 dell’Arbitration Act (v. infra). Sulla delocalizzazione dell’arbitrato in tema di conduzione dell’istruttoria, v., per la dottrina francese, MOURRE, Differenze
e Convergenze, cit., spec. 181 e nota 5; sugli estremi cui la teoria ha portato in termini più generali e sulla critica alla tesi dell’eseguibilitá del lodo estero annullato nel Paese d’origine, v., tra
gli altri, ATTERITANO, voce Arbitrato, cit., e ID., L’enforcement delle sentenze del commercio internazionale, Milano, 2009; BRIGUGLIO, L’arbitrato estero. Il sistema delle convenzioni internazionali, Padova, 1999, spec. 218 ss.. Per alcuni esempi sul significato dell’affermazione del distacco dell’arbitrato internazionale dalla disciplina processuale della sede dell’arbitrato, v., con
riferimento all’Italia, BERNARDINI, L’arbitrato, cit., spec. nota 26.
(16) Cfr. E.F. RICCI, in La prova nell’arbitrato internazionale, cit. e BERNARDINI,
L’arbitrato, loc ult. cit.. Parlano di una diminuizione d’importanza della legge della sede dell’arbitrato, in questo senso, anche FOUCHARD, GAILLARD, GOLDMAN, International Commercial
Arbitration, The Hague, Boston, 1999, 1239.
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senso che, in effetti, agli arbitri basterà emettere un lodo che, per come sia
stata condotta l’istruttoria e considerata la disciplina applicabile alla sua
impugnazione, sia in grado di resistervi. In altri termini, nei limiti in cui un
arbitrato si radica inevitabilmente presso un determinato ordinamento giuridico statale (i.e. quello della sede), tale radicamento guarda, nella prospettiva in cui qui si parla, esclusivamente ai mezzi di impugnazione disponibili, ossia alle garanzie minime in tema di conduzione dell’istruttoria che
questi assicurano.
Questa ipotesi, peraltro, è dimostrabile nella prassi: nella totalità dei
casi, a causa del summenzionato approccio restrittivo, il potere di controllo
delle corti statali sui lodi circa profili procedurali attinenti alla prova potrà
esercitarsi soltanto ove sia possibile invocare la violazione del principio del
contraddittorio (17) ovvero dimostrare che il lodo sia contrario all’ordine
pubblico (18); motivi, com’è noto, tutt’altro che facili da dimostrare.
Agli arbitri, dunque, basterebbe premurarsi di assumere condotte non
grossolane e che, non in genere, ma nell’interpretazione fornita dalle corti
nell’ordinamento che devono prendere in esame, non integrino lesioni di
questi principi fondamentali.
Ma è tale prospettiva sempre soddisfacente in termini di giustizia sostanziale? Forse, in casi estremi, vale la pena rivalutare il legame con la
sede per poter giovarsi di meccanismi, provenienti dal diritto processuale
civile dell’ordinamento considerato, che altrimenti sarebbero carenti nella
disciplina dell’arbitrato internazionale?
Concludendo si cercherà, nei limiti permessi dal caso annotato, di
dare una risposta a tali interrogativi.
3. L’AA prevede la possibilità di impugnare i lodi per motivi attinenti alla competenza degli arbitri (art. 67), nelle ipotesi, in analisi nel presente scritto, di « serious irregularity » indicate dall’articolo 68 e, infine,
per ragioni di diritto ai sensi dell’art. 69. Tali mezzi sono a disposizione
delle parti del procedimento arbitrale e, ai sensi dell’art. 72, del terzo pretermesso. Ex art. 70 essi devono proporsi, a pena di decadenza e previo
esaurimento dei diversi mezzi di correzione o altro gravame eventualmente
previsti, (e salvo estensione dei termini, v. infra) entro 28 giorni « from the
date of the award ».
L’art. 68 (« Challenging the award: serious irregularity »), su cui ci
si concentrerà in questa sede, contempla una serie di motivi di impugna-
(17) O, che dir si voglia, del diritto delle parti ad una « fair hearing », ad aver potuto « present their case » o, ancora, del rispetto del principio del due process.
(18) Sul punto v. CARLEVARIS, Commento, cit., 365, che ricorda anche che verosimile
appare l’annullamento quando, ad esempio, gli arbitri non abbiano ammesso una prova rilevante e ammissibile; su tale punto, v. infra.
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zione per nullità del lodo (19), il cui carattere tassativo è stato enfatizzato
dalla dottrina (20).
Tale disposizione, definita « a very curious provision » (21), prevede
che il lodo possa essere annullato quando dal giudizio rescindente compiuto
sia manifesto che esso sia affetto da (o l’effetto di) una « serious irregularity », risultante in una « substantial injustice » a danno di una delle parti.
La sussistenza della « serious irregularity » dovrà valutarsi caso per
caso e dovrà identificarsi in una delle nove fattispecie indicate nel testo
dell’art. 68, II comma (22).
Dovrà ricorrere non da sola, bensı̀ assieme alla « substantial injustice » sofferta o che sarà prevedibilmente sofferta da una delle parti: figure
« sintomatiche » della « substantial injustice » sono il « real effect on applicant » o la dimostrazione di una « financial loss ». Il fatto che le condizioni debbano ricorrere insieme rende ancor più improbabile l’accoglimento di un’impugnazione ex art. 68 (23).
Il relativo testo va letto in congiunzione con il testo degli artt. 33
(19) A commento dell’Arbitration Act inglese, in generale, v. SUTTON, GILL, GEARING,
in Russel on Arbitration, 2007, 484 ss.; nell’arbitrato internazionale, v. PARK, Two Faces of
Progress: Fairness and Flexibility in Arbitral Procedure, in Arbitration International, 23(3),
499-503; in Italia, esclusivamente sul dibattito e i passaggi storici che hanno preceduto
l’emanazione della legge, cfr. PILOTTERI, L’Arbitration Act 1996: l’attesa riforma della legge
inglese sull’arbitrato, in Dir. Comm. Int., 1997, 4, 803 ss..
(20) Cfr. TWEEDDALE, TWEEDDALE, Arbitration of Commercial Disputes, Oxford, 2005,
spec. 768.
(21) Cfr, le parole del giudice Colman, riportate in TWEEDDALE, Recent cases on serious irregularity, in Arbitration, 2000, 66(4), 319.
(22) « (...) Serious irregularity means an irregularity of one or more of the following
kinds which the court considers has caused or will cause substantial injustice to the applicant (a) failure by the tribunal to comply with section 33 (general duty of tribunal); (b) the
tribunal exceeding its powers (otherwise than by exceeding its substantive jurisdiction: see
section 67); (c) failure by the tribunal to conduct the proceedings in accordance with the
procedure agreed by the parties; (d) failure by the tribunal to deal with all the issues that
were put to it; (e) any arbitral or other institution or person vested by the parties with powers in relation to the proceedings or the award exceeding its powers; (f) uncertainty or ambiguity as to the effect of the award; (g) the award being obtained by fraud or the award or
the way in which it was procured being contrary to public policy; (h) failure to comply with
the requirements as to the form of the award; or (i) any irregularity in the conduct of the
proceedings or in the award which is admitted by the tribunal or by any arbitral or other
institution or person vested by the parties with powers in relation to the proceedings or the
award (...) ».
(23) V. ad esempio, High Court of Justice (Q. B. Commercial Court), sent. 9 luglio
2009, Compania Sudamericana de Vapores SA v. Nippon Yusen Kaisha, in cui il giudice
Beatson ha ritenuto sussistente una seria irregolarità nel procedimento arbitrale non avendo
gli arbitri permesso a una parte di procedere alla cross examination di determinati testi; ha
poi però rigettato l’impugnazione considerando che quand’anche fosse stato ammesso detto
contro esame gli esiti del procedimento non sarebbero comunque cambiati.
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(« General duty of the tribunal ») (24) e, in materia di istruttoria, 34 (« Procedural and evidential matters ») (25). L’art. 68, infatti, costituisce il limite
(eventuale) della discrezionalità garantita agli arbitri dall’art. 33, atto a preservare quelle che comunemente si ritengono le fondamentali garanzie processuali in materia di arbitrato (26).
Ambedue le norme (artt. 33 e 68) sono espressamente indicate come
« mandatory » dall’AA e, pertanto, non sono in alcun modo derogabili dalle
parti (che, invece, possono sempre escludere l’impugnazione del lodo per
motivi di diritto ex art. 69).
In linea con quanto sopra ricordato con riferimento ai diversi ordinamenti statali, l’applicazione di queste norme, per quanto necessaria e indisponibile all’accordo delle parti, è da sempre ristretta nella giurisprudenza
inglese, anche in arbitrati domestici, ai casi estremi in cui « the substance
and nature of the injustice goes well beyond what could reasonably be expected as an ordinary incident of arbitration » (27). Cosı̀, si è affermato
circa gli errori commessi dagli arbitri nella valutazione delle prove che
questi non integrerebbero una « serious irregularity » ma, appunto, un
« simply and ordinary incident of the arbitral process » (28).
Nella giurisprudenza inglese, in altri termini, il controllo dei giudici
ex art. 68 si ritiene limitato per il solo fatto che le parti hanno scelto di arbitrare la propria controversia (29). Tale tendenza, se moderata, è sicura-
(24) « (1) The tribunal shall (a) act fairly and impartially as between the parties,
giving each party a reasonable opportunity of putting his case and dealing with that of his
opponent, and (b) adopt procedures suitable to the circumstances of the particular case,
avoiding unnecessary delay or expense, so as to provide a fair means for the resolution of
the matters falling to be determined. (2) The tribunal shall comply with that general duty in
conducting the arbitral proceedings, in its decisions on matters of procedure and evidence
and in the exercise of all other powers conferred on it ».
(25) « (1) It shall be for the tribunal to decide all procedural and evidential matters,
subject to the right of the parties to agree any matter. (...) ».
(26) Sul punto, v. PARK, Two Faces, cit., 500: « (...) The discretion, however, must always be excersised in the shadow of section 68, which imposes constraints related to fundamental procedural fairness (...) These provisions work in tandem to present the two faces of
progress in English arbitration law. One rejects parochial application of purely local procedures. The other aims to safeguard elemental due process (...) ».
(27) Cfr. GLOSTER, Attempts to thwart the arbitration process: current examples of
how the court makes parties stick to their agreement to arbitrate, in Arbitration, 2007, 73(4),
407-412 e anche SUTTON, GILL, GEARING, in Russel, cit., spec. 484, dove si parla di « many
challenges unmeritorious ».
(28) Cosı̀, High Court of Justice (Q. B. Commercial Court), sent. 7 novembre 2002,
Bulfracht (Cyprus) Ltd v. Boneset Shipping Company Limited MV Pamphilos, con nota di
SMITH, Tribunal’s duty to act fairly, in International Arbitration Law Review, 2008, 11(1),
3-6.
(29) « The test [on substantial injustice] is not what would have happened had the
matter been litigated. To apply such a test would be to ignore the fact that the parties have
agreed to arbitrate, not litigate », in tal senso, TWEEDDALE, Recent cases, cit., 317.
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mente apprezzabile (30), come sicuramente apprezzabile è l’enfatizzazione
del « principio di non interferenza » delle corti statali nei procedimenti arbitrali, la cui importanza può ricavarsi già dai lavori preparatori uniti all’AA (31), ove l’art. 68 è descritto come « a longstop, only available (...)
where the tribunal has gone so wrong in its conduct of the arbitration that
justice calls out for it to be corrected ».
La stessa non va però condotta agli estremi, atteso che la serie di
mezzi di impugnazione disponibili avverso un lodo nell’ordinamento inglese, a causa di interpretazioni troppo restrittive, potrebbe risultare incompleta (32). Di ciò non pare essere esattamente consapevole la dottrina anglosassone che, invece, saluta con favore tale approccio restrittivo, critica fortemente tentativi di corti inferiori di scardinare e/o di mitigare tale approccio (33) ed è giunta persino ad affermare che l’approccio restrittivo adottato
è un ottimo punto di partenza nella via dell’ulteriore auspicata compressione dei poteri delle corti inglesi, ree di intervenire « too readily in arbitral proceedings » (34)!
Il caso qui in esame, a prescindere dalla soluzione adottata, mostra, in
alcune pericolose affermazioni di principio, esattamente tale rovescio della
medaglia: la High Court, pur impegnandosi in un’ampia trattazione dei vari
motivi di nullità del lodo, si è infine nascosta dietro la considerazione dell’istituto di cui all’art. 68 AA come un mezzo ben diverso dall’appello, per
emettere una decisione che nulla aggiunge alla consolidata prassi delle corti
inglesi, secondo cui una « serious irregularity will not serve as a back door
through which to attack the merits of a decision » (35).
(30) Conclude in tal senso, PARK, Two Faces, cit., 503.
(31) Cfr. Report of the Department Advisory Committee on Arbitration Law, febbraio
1996. Sui vari risvolti del principio di non interferenza delle corti statali nell’arbitrato, dal
tema della antisuit injunctions a quello ora in esame, v. DENNYS, Arbitration update: the limits of the courts’ interference, in Construction Law Journal, 2008, 24(1), 3-9.
(32) Su questo punto, v. infra e quanto espresso nelle conclusioni.
(33) Per vero, risultano pochissimi casi in cui impugnazioni ex art. 68 siano state accolte e, a quanto è dato rilevare, nella maggior parte delle occasioni si è trattato di lodi infra petita (art. 68 (2)(d)). V. DUNDAS, Metropolitan Property Realisation Ltd v. Atmore Investments Ltd: when is an irregularity neither irregular nor serious, in Arbitration, 2009, 75(2),
284-288; GALLOWAY, Ascot Commodities v. Olam International Ltd [2002] C.L.C. 277 (QBD
(Comm)), in International Arbitration Law Review, 2002, 5(2), 20-21; o, infine, HOLLAND,
BERRY, Metropolitan Property Realizations v. Atmore Investment - serious irregularity or
simply wrong?, in International Arbitration Law Review, 2009, 12(3), 25-28.
(34) Cosı̀, v. MACPHERSON, MAINWARING-TAYLOR, Final and binding?, cit., 5 e H.R.
DUNDAS, Challenging awards and arbitrators: a losing game?, in Arbitration, 2005, 71(4),
353-363.
(35) Cfr. la storica sentenza della House of Lords, 30 giugno 2005, nel caso Lesotho
Highlands v. Impregilo S.p.a., in cui la corte inglese, pur in presenza di un parere di minoranza del giudice Philips, ha concluso affermando la necessità di interpretare restrittivamente
la previsione dell’art. 68, in linea con lo scopo, perseguito dall’AA, di garantire la non inter-
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4. Con il primo motivo d’impugnazione Double K ha chiesto l’annullamento del lodo, affermando che questo sarebbe stato ottenuto per effetto della frode di Neste nei suoi confronti o che, in alternativa, per questo stesso motivo, il lodo sarebbe stato contrario all’ordine pubblico.
Procedendo in ordine, punto fermo in giurisprudenza è che, in ipotesi
in cui si asserisca che il lodo è il risultato di comportamenti fraudolenti, è
ammessa davanti al giudice dell’impugnazione la conduzione di un vero e
proprio « trial of issues ». La High Court, nel caso di specie, pur concludendo per il rigetto, ha effettivamente condotto un vero e proprio trial, ammettendo anche che fossero prodotte nuove prove a corredare la domanda
di annullamento.
Nel corso dell’arbitrato una delle questioni più dibattute e di maggior
importanza era stata quella di provare quale ammontare di condensato di
gas annualmente lo stabilimento in Russia fosse in grado di produrre.
Il contratto tra Severgazprom e Double K concerneva un quantitativo
di circa 150.000 mt per anno e un quantitativo simile era contemplato nel
contratto stipulato nel settembre 2007 tra Gazprom e Neste. Se, come affermato da Double K, lo stabilimento non era in grado di produrre una
quantità sufficiente a coprire ambedue i contratti, era evidente allora che la
condotta di Neste di contrattare direttamente con Gazprom avrebbe inevitabilmente rotto i rapporti di quest’ultima con Double K, essendo inoltre
improbabile che, ove cosı̀ fosse, Neste avesse ignorato la circostanza.
Le prove a disposizione nei due diversi giudizi non hanno permesso
di fare interamente luce su questi dati. L’impressione globale è che vi fossero vari argomenti in favore della tesi, rigettata dal tribunale e poi dalla
High Court, per cui la produzione effettiva dell’impianto in questione non
sarebbe stata in grado di coprire l’intero quantitativo previsto nei due contratti.
Durante l’arbitrato, dopo la presentazione di alcune perizie di parte,
che avevano descritto quantitativi sempre diversi e leggermente inferiori a
quello che sarebbe stato necessario a coprire entrambi i contratti, a un certo
ferenza della giurisdizione statale nei procedimenti arbitrali e altresı̀ in coerenza con la necessità, per vero non troppo giuridica, di mantenere intatta l’appetibilità di « Londra come
luogo di risoluzione delle controversie ». Vedila in National Law Journal, 2005, 155(71987199), 1640-1641, 1664-1665, Lesotho: a fillip for international arbitration; in International
Arbitration Law Review, 2005, 8(5), 64-67, con nota di SHEPPARD, Rights of appeal under s.
68 of the Arbitration Act 1996; in Arbitration, 2005, 71(4), 368-371, con commento di MAIN,
Court supervision of awards and the interpretation of the Arbitration Act 1996: Lesotho Highlands Development Authority v. Impregilo S.p.a. and Others e Ibidem, 2006, 72(2), 119123, con nota di MACPHERSON, MAINWARING-TAYLOR, Final and binding? Challenges under the
Arbitration Act 1996, section 69; in Journal of Business Law, 2005, 11, 745-751, con nota di
SERIKI, Serious Irregularity and the Arbitration Act 1996: Lesotho Highlands Development
Authority v. Impregilo SpA; citata anche in NESBITT, FINNIS, International Arbitration: bestriding the narrow world, in PLC, 2006.
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punto era stata prodotta una lettera da parte di Neste. Tale lettera conteneva
le dichiarazioni rilasciate dal general manager di Gazprom Pererabotka
(altra società del gruppo Gazprom che, a quanto rappresentato, avrebbe
preso in carico gli affari dello stabilimento da Severgazprom a partire dal
1o ottobre 2007), in risposta a una lettera ricevuta dalla stessa Neste con la
quale questa chiedeva di precisare, allo scopo di utilizzare l’informazione
nel procedimento arbitrale in corso, la produzione annuale dello stabilimento. Manco a dirlo, stando al contenuto di tale dichiarazione il quantitativo indicato, ancora diverso dai dati a disposizione, sarebbe stato sufficiente a coprire i due contratti.
Double K aveva chiesto, pertanto, che il tribunale arbitrale ordinasse
a Neste di rendere disponibile la testimonianza del manager, e che desumesse « all appropriate adverse inferences » dall’eventuale mancato rispetto dell’ordine, ovvero che ne escludesse del tutto la rilevanza probatoria ex art. 20.4 Reg. LCIA. Il collegio arbitrale, pur facendo riferimento alla
dichiarazione ai fini della decisione, non aveva preso in esame tale richiesta.
A corredo della domanda d’impugnazione, Double K ha prodotto due
nuove prove, consistenti: i) nella testimonianza scritta di un proprio dirigente relativa ad alcune dichiarazioni da questi ottenute dai suoi « contatti »
all’interno di Severgaszprom — i quali avrebbero confermato una produzione notevolmente inferiore a quella testimoniata dal dirigente di Gazprom
Pererabotka; ii) in un comunicato estratto dal sito di Gazprom, in cui, anche qui, figurava un quantitativo di nuovo diverso, di nuovo inferiore.
Sul valore della prima nuova prova, ove non s’indicavano neppure le
fonti delle informazioni (asseritamente perché i dirigenti in questione avevano chiesto di restare anonimi) sono stati avanzati dei dubbi in sede di
impugnazione per nullità. Sul valore da attribuire al comunicato estratto dal
sito di Gazprom (pubblicato in data successiva all’emissione del lodo), invece, vi sono (e vi sono state nel giudizio) meno obiezioni.
Riepilogato tale quadro, il giudice, perfettamente in linea con la giurisprudenza inglese sul punto (36) e concorde sulla necessità di ricercare una
« reprehensible or unconscionable conduct », si è preoccupato di valutare
la sussistenza tanto di una « serious irregularity », ossia, nella specie, che
il lodo fosse stato ottenuto con frode, quanto di una « substantial injustice ».
Sul primo elemento, ha ritenuto di recepire integralmente quanto statuito in una precedente decisione e ha dunque aderito alla tesi per cui la
frode di cui si parla nell’art. 68 comma II lett. g) deve provenire da una
parte del procedimento arbitrale o da « those privy to that party », ma non
anche da un terzo rispetto al procedimento arbitrale quale, ad esempio, un
(36)
Per cui si veda il « leading case » citato nella nota precedente.
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testimone (37). Secondo questa interpretazione, una lettura più ampia farebbe sı̀ che in ogni caso in cui si provi che un testimone abbia dichiarato
il falso il requisito di cui all’art. 68 comma II lett. g) risulti integrato, e all’attore basti soltanto provare che « the perjured evidence resulted in the
award being in favour of that party », perché, logicamente, il lodo sia il risultato di frode. Detto in altri termini, secondo la sentenza in commento e
il precedente evocato, se la disposizione si riferisse alla frode di chiunque
sia stato coinvolto nel procedimento arbitrale e avesse rilievo anche quando
la parte che se ne è giovata non fosse a conoscenza di tale frode si finirebbe
per attribuire alla parte soccombente « carte blanche » in sede di impugnazione (38).
Quanto al secondo elemento, abbastanza laconicamente, il giudice ha
poi precisato che comunque « even if the factual basis for an application
under s.68(2)(g) had otherwise been made out, which I have held it has not
been, it does not appear to me that Double K can show that substantial
injustice was caused to it ».
Pur riconoscendo le indubbie difficoltà nel caso specifico di trarre
un’idea chiara e precisa dalle prove prodotte dalle parti, la decisione della
High Court non può per questo giustificarsi e ad ogni modo non può condividersi.
Da essa, infatti, deriva un vuoto di tutela per la parte che abbia motivo di ritenere (e mezzi per dimostrarlo) che l’arbitrato si sia concluso in
suo sfavore a causa, ad esempio, di una testimonianza falsa (39).
Oltre che nel sistema inglese, si è ricordato in dottrina che in alcuni
ordinamenti nazionali, quali quello belga, lussemburghese, scozzese e statunitense (40), la frode è espressamente contemplata come motivo d’impugnazione per nullità del lodo. È noto che in altri, come quelli svizzero e
(37) Cfr. High Court of Justice (Q.B. Commercial Court), sent. 19 gennaio 2007,
Elektrim SA v. Vivendi Universal SA & Ors.. Vedila in Arbitration Law Monthly, 2007, 6/7,
5-9 e in Lloyd’s Maritime and Commercial Law Quarterly, International Maritime and Commercial Law Yearbook 2008, 2008, 3.
(38) Circa questo stesso orientamento, v. poi quanto riportato in SUTTON, GILL, GEARING, in Russel, cit., 497, ove si spiega che il fatto che si possa dimostrare con certezza che
un testimone abbia mentito non significa di per sé che « any award subsequently produced
by the tribunal will trigger this ground ». Al contrario, e in più, sarà necessario dimostrare
che « the defendant can fairly be blamed for the adducing of the evidence and the deception
of the tribunal and that the evidence of deception, which could not have been produced at
trial with reasonable diligence, could be expected to be decisive at a re-hearing ».
(39) Su questi temi, v. ampiamente, WIRTH, Production of Documents and Fraud in
International Arbitration, in GIOVANNINI, MOURRE, Written Evidence and Discovery in International Arbitration, ICC Dossiers, Paris, 2009, 177-193.
(40) Cfr. WIRTH, Production of Documents, cit., 188. Per l’Austria, invece, v. LIEBSCHER, HAUGENEDER, Looking at the new Austrian arbitration law through the spectacles of the
English Arbitration Act 1996, in International Arbitration Law Review, 2006, 9(4), 109-118.
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italiano, si prevede il mezzo straordinario della revocazione (41). In mancanza di rimedi poi, dove la frode non è contemplata come motivo d’impugnazione né esistono strumenti revocatori, il lodo che ne sia l’effetto è
generalmente ritenuto in violazione dell’ordine pubblico (42).
Non era dunque privo di pregio l’argomento di Double K secondo cui,
che si potesse configurare o meno una frode nel senso indicato dall’art. 68,
il lodo sarebbe stato comunque contrario all’ordine pubblico.
Il concetto di ordine pubblico, spesso e volentieri utilizzato come argomento « residuale » dalle parti, è stato definitivo « nebuloso » (43), nonché, proprio nell’ordinamento inglese, « a very unruly horse, and when you
get astride it you never know where it will carry you. It may lead you from
sound law » (44). Non v’è, in effetti, un’uniforme interpretazione del concetto nei differenti Stati e proprio il fatto che ne esistano varie nozioni nei
vari sistemi genera incertezza e dà luogo alla possibilità che un lodo possa
essere ritenuto valido in un Paese, quando sarebbe annullato alle stesse
condizioni altrove. Anche per queste ragioni, c’è chi ha persino proposto di
eliminarlo dai motivi d’impugnazione per nullità dei lodi (« no reference
should be made vacatur on grounds of public policy ») (45).
Per far fronte a questi problemi, si è tentato allora di enucleare un
concetto universalmente riconosciuto di ordine pubblico (c.d. ordine pubblico internazionale) (46), ma anche qui non si è raggiunta l’uniformità auspicata.
(41) Cfr. sul sistema svizzero, su quelli francese e italiano e, in genere, sulla necessità del rimedio revocatorio nell’arbitrato internazionale, v. DE GIOVANNI DI SANTA SEVERINA,
TORNESE, La revocazione dei lodi internazionali, in questa Rivista, III, 2009, 499-519, in nota
a Tribunale Federale svizzero, sentenza 6 ottobre 2009. Altro è dire che il caso di specie traslato nel nostro ordinamento avrebbe dovuto rientrare presumibilmente, non senza difficoltà,
entro il requisito di cui al n. 3) art. 395 c.p.c..
(42) Di nuovo, con riferimento agli ordinamenti francese, canadese, tedesco e alla
Model Law UNCITRAL, cfr. WIRTH, Production of Documents, cit., 188. V. anche, DE LOTBINIERE MCDOUGALL, BOUCHARDIE, How international arbitral tribunal establish the facts of a
case through documentary evidence, in International Business Law Journal, 2008, 4, 509522, in cui gli AA. citano tra le altre una pronuncia della Cour de Cassation, del 19 dicembre 1995, in cui il giudice francese ha ritenuto il lodo effetto di frode annullabile per violazione dell’ordine pubblico internazionale.
(43) Cfr. BLACKABY, PARTASIDES, Redfern and Hunter, cit., par. 10 C(c)(iii).
(44) Sentenza resa nel caso Richardson v. Mellish (1824), citata in BLACKABY, PARTASIDES, Redfern and Hunter, loc. ult. cit.
(45) PARK, Why Court, cit., 605, che definisce l’ordine pubblico « a chameleonlike
concept that risks misapplication when refracted through parochial cultural lenses ».
(46) V. l’Interim Report presentato dall’International Law Association nel 2000, sulle
nozioni di « truly international » o « trans national » public policy, ad includere le leggi
fondamentali del diritto naturale, i principi di giustizia universale, le norme di jus cogens nel
diritto internazionale pubblico e i principi generali della morale accettati dalle ccdd. nazioni
civilizzate. Sul concetto di ordine pubblico e sul cd, « approccio minimalista » v., per tutti,
RADICATI DI BROZOLO, Controllo del lodo internazionale e ordine pubblico, in questa Rivista,
IV, 2006, 629-653.
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Sebbene il concetto di ordine pubblico sia ancora ben lungi dall’essere
applicato uniformemente, quel che è certo è che le ipotesi relative a casi
come quello di specie, in cui il lodo sia impugnato « if it has been induced
or affected by bribery, corruption or fraud » (47), ne rappresentano un
esempio di diffusa applicazione.
Dunque, anche accogliendo la lettura fornita dal giudice inglese sul
concetto di frode ex art. 68 AA, il vuoto avrebbe potuto essere colmato ricorrendo alla clausola, invocata in subordine da Double K, della contrarietà
del lodo all’ordine pubblico. Il giudice non l’ha fatto e peraltro ha liquidato
l’argomento senza neanche motivare sul punto, ma, come ricordato, nascondendosi dietro la linea restrittiva fornita dalla giurisprudenza prevalente ed escludendo dunque l’esistenza della « substantial injustice ».
Rimane incerto dunque, se in base alla sentenza, in simili casi sia permesso nell’ordinamento inglese il ricorso all’argomento dell’ordine pubblico: l’impressione, tuttavia, in linea con la tendenza a limitare le impugnazioni dei lodi, è negativa e ciò lascia priva di tutela la parte che voglia
dimostrare che il procedimento arbitrale sia stato deciso a suo danno sulla
base di una prova falsa (48).
5. Con il secondo motivo d’impugnazione Double K ha lamentato la
violazione del dovere del tribunale arbitrale di « act fairly » sancito dall’art.
33 AA, di cui si è già detto in precedenza.
Considerato fondato « on the common law duty on the tribunal to act
in accordance with natural justice » (49), il dovere del Tribunale di agire
correttamente, contemplato nell’art. 33 e richiamato dall’art. 68 AA, è altresı̀ riprodotto, in termini sostanzialmente coincidenti, dall’art. 14 del Regolamento LCIA (« Conduct of the Proceedings ») (50). Il significato di tale
dovere va ravvisato, da un lato, nel necessario rispetto del due process e,
(47) Cfr. LEW, MISTELIS, KROELL, Comparative International, cit., 676: e supra, nota 42.
(48) Senza voler dire, quando si voglia comunque tentare la via dell’impugnazione,
dell’ulteriore onere di dover chiedere, se a distanza di tempo, l’estensione dei termini alla
corte adita, conseguenza tale onere del carattere « ordinario » di tutti i mezzi di impugnazione previsti dall’AA. Nella versione del 1950 dell’AA si prevedeva la possibilità di « fresh
evidence » divenuta nota alle parti dopo la chiusura del procedimento arbitrale, ammettendo
la possibilità della riapertura del procedimento da parte dello stesso tribunale. Nell’attuale
versione non se ne fa più menzione, cosicché la questione è rimessa alla discrezionalità del
giudice dell’impugnazione per nullità. Su questi temi, cfr. SUTTON, GILL, GEARING, in Russel,
cit., spec. 497 e M. CATO, Arbitration Practice and Procedure. Interlocutory and Hearing
Problems, London, Hong Kong, 2002, spec. 1107-1108.
(49) Cfr. TWEEDDALE, TWEEDDALE, Arbitration, cit., 768.
(50) « The parties may agree on the conduct of their arbitral proceedings and they
are encouraged to do so, consistent with the Arbitral Tribunal’s general duties at all times:
(i) to act fairly and impartially as between all parties, giving each a reasonable opportunity
of putting its case and dealing with that of its opponent (...) ».
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dall’altro, nella necessità di un’efficiente e rapida conduzione del procedimento da parte degli arbitri (51).
Il lodo ottenuto dopo che gli arbitri abbiano contravvenuto a tale loro
dovere sarà in astratto impugnabile per nullità e potrebbe incontrare problemi in sede di enforcement ai sensi dell’art. V comma (1) lett. (d) ed
eventualmente comma (2) lett. (b) della Convenzione di New York.
Nel caso trattato, secondo quanto arguito da Double K, il tribunale
non avrebbe rispettato tale dovere per non aver ordinato, come da questa
richiesto, che Neste procurasse la testimonianza di alcuni soggetti della
propria compagine societaria, i quali, secondo elementi emersi nel corso
dell’arbitrato, sarebbero potuti essere a conoscenza del dato della produzione annuale dello stabilimento (52).
Neste si è difesa argomentando che gli arbitri non avrebbero potuto
emettere tale ordine, essendo la possibilità prevista soltanto nelle Regole
IBA non applicabili al caso di specie. In realtà, il potere degli arbitri di invitare (non ordinare) una parte, su richiesta dell’altra, a presentare alcuni
testimoni, non pare aver bisogno di un referente cosı̀ chiaro ed espresso, ma
può ricavarsi dal sistema del Regolamento LCIA e dalle prassi diffuse nei
tribunali arbitrali.
Il giudice, in linea con l’atteggiamento remissivo spesso assunto nel
testo della sentenza, non si è espresso sul punto, limitandosi ad affermare
che, sia che il tribunale avesse il potere di ordinare la testimonianza sia che
non l’avesse, « such an order would have been an unusual one ». La decisione di rifiutare tale richiesta, dunque, non era da considerarsi eccezionale,
non era stata certamente « ingiusta » e non aveva dato luogo ad alcuna
« serious irregularity ».
Inoltre, il giudice ha persino giustificato, pur definendolo « on the face
of it perplexing », il passo del lodo in cui gli arbitri avevano affermato, riferendosi a questi mancati testi, che nessuna delle due parti (e non solo
Neste) aveva provveduto a chiamarli: secondo il giudice, semplicemente un
riferimento al principio per cui « there is no property in a witness ».
Gli arbitri internazionali godono della massima discrezionalità in tema
di mezzi di prova e possono pertanto, nel rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, escludere o limitare l’assunzione di determinati mezzi e, segnatamente, di testimonianze (53). È ciò che è avvenuto nel
(51) Cfr. PHILIP, The Duties of an Arbitrator, in NEWMAN, HILL, The Leading Arbitrators’, cit..
(52) Oltre a non ordinare la testimonianza, il tribunale aveva poi omesso di desumere, come anche richiesto da Double K, negative inferences dalla mancata comparizione dei
testi. Di tale profilo, attinente più alla valutazione sulla rilevanza delle prove che sulla loro
ammissibilità, si dirà infra, al paragrafo successivo.
(53) Cfr. ZIADE, DE TAFFIN, Fact witnesses in international arbitration, in International Business Law Journal, 2010, 2, 115-134.
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caso di specie, nella misura in cui nel lodo si legge: « the three main witnesses were called and were fully questioned (...) the Tribunal does not accept that anything substantial was lost by these additional persons not
being called as witnesses ». Si registra anche, però, che la possibilità che
gli arbitri rifiutino di ammettere una testimonianza è insolita e inusuale al
di fuori dei casi di manifesta irrilevanza della testimonianza stessa (54) e
comunque che nel decidere sull’ammissibilità delle prove gli arbitri internazionali dovrebbero applicare un « robust common sense » (55).
Affermazioni di principio a parte, il caso annotato dimostra che il tribunale arbitrale nel caso specifico, sebbene avesse potuto, non si è creato
alcuno scrupolo nel non ordinare la testimonianza richiesta e ha motivato
la scelta rammentando nel lodo che « the parties to this arbitration rightly
sought to limit the extent of their written and oral evidence so as to avoid
duplication, lengthening of the oral hearings, and the additional costs
which that would have involved ». Il rifiuto, certamente ammissibile, è stato
dunque apparentemente giustificato soltanto sulla base dell’interesse delle
parti alla celere definizione della disputa e al contenimento dei costi.
Ciononostante, il lodo è restato immune dalle critiche, in linea con
l’insegnamento della giurisprudenza inglese per cui il diniego di una richiesta istruttoria volta a provare una questione rilevante costituisce una irregolarità, ma se questa sia anche sufficientemente seria ai sensi dell’art. 68 dipenderà dai fatti e dal caso specifico (56). Entrare nel merito del caso in
questione, si ripete, non aiuta a comprendere come le cose in effetti siano
andate e se la condotta degli arbitri potesse davvero dirsi lesiva del loro
dovere di correttezza. Quel che è certo è che, per come l’ha analizzata il
giudice, la questione non pare risolta.
Il dovere di correttezza del tribunale, in conclusione, può spesso contrapporsi alle esigenze di celere definizione o di contenimento dei costi del
procedimento (57), le quali possono a loro volta rischiare di diventare (soprattutto se questo è l’approccio mostrato dalle corti nazionali) delle vere e
proprie « scriminanti » per gli arbitri.
6. Sempre in tema di violazione del dovere di correttezza, come
detto, Double K ha altresı̀ lamentato che il tribunale avrebbe omesso di
(54) Cfr. HANOTIAU, The Conduct, cit., spec. nota 22; cfr. anche ZIADE, DE TAFFIN, Fact
witnesses, cit., ove si rileva che « in practice, the tribunal generally agrees to hear witnesses and would only refuse to hold any hearings in exceptional circumstances ». Sul punto, v.
anche supra nota 18.
(55) MARRIOTT, Evidence, cit., 6, il quale continua affermando che, pertanto, gli arbitri « will prefer direct evidence to indirect evidence, corroborated evidence to uncorroborated, sincere evidence to that which is slick and evasive ».
(56) Cfr. SUTTON, GILL, GEARING, in Russel, cit., 489.
(57) Cfr. PARK, Two Faces, cit., 501.
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trarre le opportune negative inferences (58) dalla condotta di Neste di non
aver chiamato i due testimoni richiesti.
Tale profilo, attinente principalmente alla valutazione delle prove, è
stato liquidato dal giudice dell’impugnazione in maniera ancora più sbrigativa di quanto fatto per gli altri motivi.
Tra le corti inglesi si è ritenuto che l’ipotesi in cui l’arbitro non abbia
adeguatamente preso in esame l’intero apparato probatorio delle parti potrà
integrare un fondato motivo di annullamento « if an arbitrator genuinely
overlooked evidence that really mattered, or got the wrong end of the stick
in misunderstanding it » (59). Ovviamente, per provare una condotta simile
sarà necessario entrare nel merito dell’arbitrato. Il giudice del presente
caso, invece, non ha neppure iniziato l’indagine e ha rigettato il motivo
sulla base di un esame superficiale e apparentemente per due ragioni.
Da un lato, trattandosi di « an exceptionally experienced international
Tribunal », questo era « well able to appreciate Double K’s case, including
as to inferences to be drawn from the failure to call witnesses ». Dall’altro,
perché, ad ogni modo, « the inferences which it drew, and did not draw,
constitute part of its decision on the merits, and are not susceptible to
challenge under s. 68 », principio questo in linea con quanto si afferma anche nel contenzioso civile (60).
Il richiamo all’esperienza del tribunale arbitrale, per quanto sia fattore
che nella pratica incide non poco sulla sorte dei lodi pronunciati, non ha
davvero nulla di giuridico.
Il secondo motivo, invece, riveste maggior interesse.
In principio si è d’accordo nel ritenere che la fase della valutazione
del peso delle prove, come già detto in precedenza (61), attenga a un giudizio di fatto e legandosi all’ampia discrezionalità che è attribuita agli arbitri internazionali, difficilmente potrà essere sindacata in sede di giudizio
d’impugnazione per nullità.
Come si vedrà di seguito, tuttavia, la possibilità di desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti, per come si struttura
nell’arbitrato internazionale, non incide soltanto sulla fase della valutazione
delle prove.
(58) Sul quale, v. VAN HOUTTE, Adverse Inferences in International Arbitration, in
GIOVANNINI, MOURRE, Written Evidence, cit., 195-217; SHARPE, Drawing Adverse Inferences
from the Non-production of Evidence, in Arbitration International, 22(4), 549-571 e anche
O’MALLEY, The procedural rules governing the production of documentary evidence in international arbitration - as applied in practice, in Law & Practice of International Courts and
Tribunals, 2009, 8(1), 27-90.
(59) Di nuovo, cfr. SUTTON, GILL, GEARING, in Russel, cit., 489.
(60) Citando la decisione della Court of Appeal, Civil Division, del 26 luglio 2002,
nel caso Jaffray & Others v. Society of Lloyd’s: « the refusal to draw adverse inferences really belongs to the [appellants’] substantive challenge to the judge’s decision on the merits ».
(61) Cfr. supra, note 14 e 28.
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Le adverse inferences sono previste nell’arbitrato internazionale, sovente come « sanzione » per comportamenti processuali omissivi, e per
quanto menzione espressa dell’istituto sia presente solo nelle Regole
IBA (62), non v’è dubbio che esso sia parte della prassi dei tribunali arbitrali. In effetti, anche nel caso concreto, in cui si applicavano le Regole
LCIA — che si limitano ad attribuire una grande discrezionalità agli arbitri in tema di « assessment of evidence » — non è stato in contestazione tra
le parti né in dubbio per gli arbitri che la possibilità esistesse.
Va precisato che in moltissimi casi gli arbitri compiono questo tipo di
esercizio senza farne menzione, senza avvertire le parti, senza citare la circostanza chiaramente nel lodo, anche per evitare che si possano poi montare impugnazioni (63).
In molte altre ipotesi, tuttavia, l’utilizzo di questo istituto è compiuto
deliberatamente dagli arbitri e ha subito nel contesto dell’arbitrato internazionale una sorta di « procedimentalizzazione », specie nei casi in cui l’uso
è (simulatamente) sanzionatorio poiché legato all’ordine di produrre una
determinata prova. Cosı̀, oltre a richiedersi il rispetto di determinate condizioni di ammissibilità (64), agli arbitri si chiede che avvisino previamente le
parti di ciò che faranno o intendono fare (65), in mancanza ritenendosi violato il diritto di difesa.
Delle due l’una: o si preferisce non fare alcuna menzione dell’utilizzo
dello strumento e in tal caso si rimarrà nel campo della valutazione insindacabile dell’arbitro, oppure, se lo si vuole usare, ciò dovrà farsi secondo
lo schema procedimentale sviluppatosi, anticipando alle parti le conseguenze negative che potrebbero derivare da un certo comportamento processuale, in mancanza restando violata la procedural fairness (66).
Se quanto precede è vero, le adverse inferences quali argomenti di
prova attengono alla valutazione delle prove appunto, ma identificando anche uno strumento richiedono determinate cautele nella loro « assunzione ».
(62) Cfr. Articolo 9 Regole IBA.
(63) V. in tal senso, l’ampia giurisprudenza dell’Iran - United States Claims Tribunal citata in SHARPE, Drawing Adverse Inferences, cit., spec. 555.
(64) La dottrina ha elencato le seguenti condizioni, alle quali le adverse inferences
come prove indirette, secondarie o indiziare (i.e. argomenti di prova) potrebbero trarsi dal
comportamento processuale delle parti: (i) reasonableness; (ii) consistency with the facts in
the record; e (iii) logical relation between the inference and the likely nature of the « missing
evidence » (v. VAN HOUTTE, Adverse Inferences, cit., 213).
(65) Né tale requisito è messo in dubbio dalla decisione, riportata in VAN HOUTTE,
Adverse Inferences, loc ult. cit., in cui il Tribunale Federale svizzero, (sent. 9 gennaio 2008,
causa 4A.450/2007) ha ritenuto che « an arbitrator does not disregard due process when he
does not inform or warn a party that he considers the evidence produced insuffıcient »: la diversità del caso in questione è evidente.
(66) BEELEY, STOCKLEY, Spare the rod and spoil the party: how procedurally robust
should a tribunal be?, in Arbitration, 2009, 75(3), 349-359.
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Da quest’ultimo punto di vista, dunque, l’utilizzo delle adverse inferences deve ritenersi, almeno in astratto, sindacabile in sede d’impugnazione per nullità.
Ne segue che, anche su questo punto, la decisione del giudice ha perso
l’occasione per precisare, prescindendo dal caso specifico, la portata di alcune garanzie del giusto processo nell’assunzione e nella valutazione delle
prove negli arbitrati internazionali. L’effetto, come per gli altri punti, è
quello di lasciare le parti prive di tutela, e sottoposte qui al rischio che
siano desunte dal loro contegno passivo « invalid adverse inferences » (67).
6. Trovare un ragionevole compromesso tra il carattere definitivo di
un lodo e il potere delle corti di proteggere le parti da un’ingiusta conduzione del procedimento arbitrale costituisce senza dubbio compito delicato (68).
La sentenza in commento ha fornito l’occasione per analizzare il regime di impugnazione per nullità del lodo ex art. 68 AA e per trattare alcuni profili in tema di prova nell’arbitrato internazionale.
La decisione, per il resto, non costituisce un precedente di grande peso
o spessore, poiché ha esclusivamente confermato il « considerable hurdle »
che l’attore deve affrontare per usufruire di tale strumento. A dirla tutta, più
che un hurdle, essa sembra aver confermato l’impossibilità di successo per
la parte che voglia impugnare un lodo in determinate situazioni e, dunque,
l’esistenza di alcuni vuoti di tutela.
Questi vuoti, che non sembrano avvertiti come tali dalla dottrina e
dalla giurisprudenza inglesi (69), ad avviso di chi scrive possono influenzare
a priori la conduzione della fase istruttoria negli arbitrati internazionali.
Si torna perciò agli interrogativi che ci si è posti nelle premesse.
La prospettiva di un legame ristretto con l’ordinamento della sede
dell’arbitrato esclusivamente fondato sulla valutazione della « fine » che il
lodo farà davanti alle corti nazionali è sempre soddisfacente in termini di
giustizia sostanziale? Varrebbe la pena rafforzare il legame con la sede per
poter giovarsi di meccanismi atti a colmare i vuoti di tutela esistenti?
La risposta a tali domande, nonostante l’atteggiamento di chiusura di
cui è espressione la sentenza commentata, non sembra essere unanimemente chiara neppure nell’ordinamento inglese (70).
(67) SMITH, Tribunal’s duty, cit., 6.
(68) Di nuovo, SMITH, Tribunal’s duty, loc. ult. cit..
(69) Nella giurisprudenza, v. peraltro la recentissima decisione High Court of Justice
Queen’s Bench Division Commercial, sentenza del 28 maggio 2010, nel caso H J Heinz Co
Ltd v. EFL Inc, in cui il giudice inglese ha affermato che la « fresh discovered evidence is
not admissible to impugn the award », consacrando una volta in più l’orientamento di chiusura descritto in questa sede.
(70) Di nuovo, v. PARK, Two Faces, cit., 502: « (...) Anecdotal evidence indicates that
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Come si è autorevolmente sostenuto, « effıcient arbitration implicates
a tension between the rival goals of finality and fairness » e soltanto « a
middle ground provides judicial review for the grosser forms of procedural
injustice. To this end, legislators and courts must engage in a process of
legal fine tuning that seeks a reasonable counterpoise between arbitral autonomy and judicial control mechanisms » (71).
Se non sono le corti, dovranno essere i legislatori dunque. Per quanto
riguarda l’Inghilterra, probabilmente il legislatore non sarà di aiuto in tal
senso, almeno stando alle notizie disponibili circa una possibile imminente
riforma dell’Arbitration Act (72).
Rebus sic stantibus, la tendenza delle corti a non interferire nei procedimenti arbitrali, continuerà ad incoraggiare « the disruptive party to
continue its foul play and abuse of the process » (73). Non è forse il caso di
chiedersi se per questa via finirà per incoraggiare anche il foul play degli
arbitri?
Di fronte a tale situazione, nell’impossibilità di sostenere che all’arbitrato domestico e poi a quello internazionale si applichi residualmente l’intero impianto del diritto processuale civile dello Stato sede, l’unica soluzione attuabile oggi pare quella di analizzare i — talora errati — orientamenti giurisprudenziali delle corti nazionali e di qui trarre a contrario una
visione più dettagliata della conduzione della fase istruttoria nell’arbitrato
internazionale, comprensiva delle diverse conseguenze che una certa conduzione può portare nei diversi Paesi (74).
ALESSANDRO FABBI
the lesson has been learned with mixed results. (...) The new openness does not command
universal acceptance, however. In at least one recent international case, an English chairman of great distinction endorsed application of the Civil Procedure Rules to document production on the basis that London had been chosen as the venue for hearings ». V. poi, soprattutto, BRAWN, The court’s power to intervene in arbitration matters in England and Wales,
with particular reference to the court’s inherent and residual discretion, in Arbitration, 2010,
76(2), 214-228, in cui l’A. segnala l’esistenza di vuoti di tutela nella disciplina dell’arbitrato
inglese e analizza le ipotesi in cui, attivando meccanismi e disposizioni propri del diritto
processuale civile, le corti possono intervenire a colmare questi vuoti.
(71) PARK, Why Courts, cit., 596.
(72) Che andrebbero nel senso auspicato dalla dottrina e indicato supra, v. note 33
e 34.
(73) BEELEY, STOCKLEY, Spare the rod, cit., in Arbitration, 2009, 75(3), 355.
(74) Simile idea è sostenuta da PARK, in Arbitration’s Protean Nature: The Value of
Rules and the Risks of Discretion, in Arbitration International, 2003, 19, 279 ss., il quale ritiene che tale esercizio potrebbe essere compiuto dalle maggiori istituzioni di arbitrato amministrato.
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GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
ITALIANA
Lodi annotati
COLLEGIO ARBITRALE (Zimatore Pres.; Briguglio; Sicari); lodo reso in Roma
il 15 ottobre 2008 nella controversia tra: Basilio Rossi e Maria Teresa Bianchi e Pierluigi Alfa, Cesare Alfa, Cecilia Alfa e Gabriele Alfa, nonché Luigi
Alfa e Gilda Alfa.
Contratti atipici - Permuta di bene presente con bene futuro - Accertamento
dell’evento dedotto nella clausola condizionale - Termine di avveramento
dell’evento dedotto nella clausola condizionale, termine della condizione Fictio iuris di avveramento dell’evento dedotto in condizione e risarcimento del danno.
Per individuare il tipo contrattuale e per determinare se sia configurabile un
contratto preliminare di permuta ovvero un contratto misto, occorre valutare gli
interessi concreti dei contraenti con particolare riferimento al significato praticoeconomico dell’operazione.
Il procedimento diretto a verificare l’evento dedotto in condizione e, quindi, il
successivo accertamento diretto alla verifica della corrispondenza tra l’evento previsto e l’evento realizzato non può essere limitato all’analisi della sola clausola
condizionale, ma richiede un’analisi complessiva del testo e del contesto contrattuale al fine di accertare il contenuto della clausola condizionale, in relazione al
concreto assetto di interessi voluto dalle parti.
La mancata previsione di un termine finale di avveramento in relazione ad
una condizione sospensiva apposta ad un contratto non postula che l’effıcacia sospensiva della condizione debba estendersi fino al momento in cui sia accertata
l’assoluta impossibilità, oggettiva o soggettiva, dell’avveramento, dovendo, per
converso, la valutazione di tale impossibilità avvenire in termini concreti, con riferimento alla relativa prevedibilità nel contesto storico, sociale ed ambientale del
momento, considerando che il contratto deve considerarsi ineffıcace per mancato
avveramento della condizione dal momento in cui è decorso il lasso di tempo congruo entro il quale la condizione avrebbe dovuto avverarsi.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — I. Sulla clausola compromissoria. In primo luogo, il
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Collegio reputa opportuno precisare la natura e la disciplina di questo giudizio arbitrale. A tal fine il Collegio rileva che il giudizio è stato promosso e si svolge in
forza della clausola compromissoria contenuta nel punto 6 del contratto stipulato il
23 ottobre 1982 tra i Signori Basilio Rossi e Pietro Gialli (da una parte) e Pietro
Alfa ed Aldo Alfa (dall’altra). Tale clausola prevede che « ... le eventuali controversie nascenti da questo atto siano decise inappellabilmente da arbitri. Gli arbitri in numero di tre, saranno scelti rispettivamente dalle due parti contraenti i
primi due, il terzo di comune accordo tra i primi due arbitri, o, in mancanza dal
Presidente del Tribunale di Roma ». Inoltre, come rammentato, all’udienza del 29
marzo 2007 tutte le parti presenti ed i loro difensori hanno dichiarato che questo
arbitrato deve intendersi come un arbitrato rituale e di diritto. Pertanto, alla luce
della clausola compromissoria, delle domande delle parti e della condotta, anche
processuale, tenuta dalle medesime, visto l’art. 822 c.p.c. e l’orientamento della
giurisprudenza, il Collegio qualifica questo procedimento come un arbitrato rituale
secondo diritto (sul punto v., fra le tante, Cass., Sez. I, 2 luglio 2007, n. 14972, in
Repertorio Foro it., 2007, Arbitrato: « Posto che sia l’arbitrato rituale che quello
irrituale hanno natura privata, la differenza tra l’uno e l’altro tipo di arbitrato...
va ravvisata nel fatto che, nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga
ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime formale del procedimento arbitrale,
mentre nell’arbitrato irrituale esse intendono affıdare all’arbitro (o agli arbitri) la
soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una
composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà
delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri
come espressione della loro volontà... »). II. Sulla regolarità del contraddittorio.
(Omissis). Come già anticipato, con ordinanza del 27 giugno 2007 il Collegio Arbitrale, a scioglimento della riserva assunta nell’udienza del 29 marzo 2007, in ordine alla regolarità della costituzione del Collegio Arbitrale sotto il profilo della regolarità del contraddittorio, ha osservato (tra l’altro): — che i sigg. Rossi e Gialli
hanno chiesto che sia dichiarato l’obbligo dei resistenti « ad adempiere a tutte le
obbligazioni dedotte a loro carico », ovvero hanno chiesto il risarcimento del
danno per l’asserito inadempimento dei promittenti venditori; — che il contratto
del 23 ottobre 1982, oltre a prevedere obblighi di trasferimento delle quote di proprietà del complesso immobiliare, prevede altresı̀ che i sigg. Pietro ed Aldo Alfa
« si impegnano a prestare qualsiasi assenso o consenso ed a fare tutto quanto sarà
richiesto, sia per l’approvazione del progetto, sia per la concessione edilizia... »;
— che tale obbligo appare assunto congiuntamente da entrambi i signori Alfa e richiede di essere adempiuto congiuntamente. Ciò premesso, considerata la inscindibilità della prestazione sopra indicata, il Collegio ha ritenuto e ritiene che il presente giudizio debba necessariamente svolgersi assicurando il contraddittorio di
tutti i soggetti coinvolti dalle domande proposte dagli istanti e sottoposte alla cognizione del Collegio.
Sulla scorta di queste considerazioni, che qui si ribadiscono, il Collegio, con
ordinanza del 27 giugno 2007, ha rilevato che gli eredi del sig. Aldo Alfa (e cioè i
signori Luigi e Gilda Alfa) — sebbene la originaria domanda di arbitrato fosse stata
notificata anche a loro — non avevano provveduto alla nomina di un arbitro, né
avevano aderito alla nomina dell’arbitro compiuta dagli eredi del sig. Pietro Alfa o,
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comunque, alla costituzione del Collegio arbitrale cosı̀ come nel frattempo realizzatasi. Pertanto, ravvisata una situazione di litisconsorzio necessario nei riguardi
degli eredi di Aldo Alfa, il Collegio, con la citata ordinanza del 27 giugno 2007, ha
disposto che « a cura della parte più diligente si provveda a rinnovare l’invito alla
nomina dell’arbitro (ovvero alla conferma dell’intero Collegio Arbitrale cosı̀ come
costituito) nei confronti degli eredi del sig. Aldo Alfa (e cioè di sigg.ri Alfa Luigi
e Alfa Gilda); e, in caso di mancata nomina, si provveda alla nomina secondo la
disciplina del codice di rito (art. 810 c.p.c.) ». (Omissis). III. — Sui quesiti nn. 1,
2 e 3 proposti dai sigg. Rossi e Gialli (cfr. memoria del 12 marzo 2007) e sui quesiti nn. 1, 2, 3 e 4 proposti dagli eredi del sig. Pietro Alfa, sig.ri Pierluigi, Cesare,
Cecilia e Gabriele Alfa (cfr. memoria del 30 novembre 2007). III.1. — Il problema
della qualificazione e della validità del contratto del 23 ottobre 1982. Entrando nel
merito della controversia, il Collegio ritiene di poter prendere congiuntamente in
esame i primi tre quesiti proposti dagli istanti signori Rossi e Gialli. Tali primi tre
quesiti muovono da una medesima premessa, che riveste carattere preliminare e
potenzialmente assorbente: l’accertamento della validità e dell’efficacia della scrittura privata del 23 ottobre 1982. (Omissis). Conviene subito osservare che il contratto in esame risulta di difficile ed incerta interpretazione: il testo è complesso e
tortuoso, e sotto più profili appare confuso se non addirittura contraddittorio. Il
contratto (eccettuate le disposizioni relative alla « facoltà di optare per la cessione... con corrispettivo in danaro » limitatamente ad una quota minore del compendio immobiliare, sulle quali ci si soffermerà più oltre — cfr. infra § V.) non si
lascia inquadrare in nessuno schema tipico. Esso ha certamente carattere preliminare, ma non programma né una vendita, né una permuta tra beni presenti.
La clausola n. 2 del contratto, per certi versi, sembrerebbe prefigurare una
permuta tra un bene presente ed uno futuro: vale a dire tra il trasferimento di 6/7
della proprietà del compendio immobiliare “Cinema X” ed il trasferimento della
proprietà di una parte del fabbricato che i promittenti acquirenti avrebbero costruito
sull’area in questione dopo la demolizione dei manufatti esistenti. Il contratto stabilisce un criterio per la determinazione della misura di questo secondo trasferimento (di una porzione del nuovo fabbricato), costituente il corrispettivo del primo:
gli acquirenti del compendio immobiliare e costruttori del nuovo edificio avrebbero
trasferito ai venditori signori Alfa una quota del nuovo edificio variabile (e decrescente) a seconda della « cubatura totale dell’edificando fabbricato ». Si prefigurerebbe cosı̀ una permuta tra un bene presente e determinato ed uno futuro e determinabile. Ma questa qualificazione e questa ipotesi ricostruttiva è contraddetta dalla
stessa clausola n. 2, dove si prevede che nell’effettuare il trasferimento del complesso immobiliare i signori Alfa « si riserveranno la proprietà delle aree ideali
corrispondenti alle unità immobiliari da loro scelte in permuta e facenti parte del
costruendo fabbricato. Ne consegue che lo stipulando atto notarile contemplerà il
trasferimento di quanto promesso... dai sigg.ri Pietro ed Aldo Alfa in favore dei
sigg.ri Pietro Gialli e Basilio Rossi o di chi loro nomineranno con la sola riserva
da parte dei primi due delle aree corrispondenti alle unità immobiliari promesse
loro in permuta, ed un contratto di appalto per la realizzazione, da parte dei sigg.ri Pietro Gialli e Basilio Rossi o di chi per loro delle unità immobiliari promesse
in permuta ai sigg.ri Pietro ed Aldo Alfa. Il corrispettivo di appalto corrisponderà,
nel suo ammontare al valore dei diritti immobiliari che, come sopra detto, verranno trasferiti in proprietà dai sigg. Pietro ed Aldo Alfa ai sigg. Pietro Gialli e
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Basilio Rossi... ». Cosı̀, al trasferimento della proprietà dei 6/7 del complesso immobiliare “Cinema X” non si contrappone il trasferimento della proprietà di una
quota del nuovo fabbricato da edificarsi, bensı̀ un contratto di appalto (il cui corrispettivo non sarebbe stato pagato in danaro). In definitiva, la scrittura privata del
23 ottobre 1982 configura — piuttosto confusamente — un contratto complesso ed
atipico, nel quale si combinano, pur sempre nella prospettiva dell’impegno negoziale preliminare, prestazioni proprie del contratto di vendita, di permuta, di appalto, senza che nessuno schema tipico prevalga sull’altro. Nondimeno, il contratto
persegue una funzione di scambio meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322,
comma 2 c.c.; è lecito; e l’oggetto delle prestazioni dedotte risulta determinato o,
quanto meno, determinabile alla stregua dei criteri stabiliti dalle stesse parti. Ne
consegue che il contratto supera il vaglio di validità. III.2. — Il profilo della efficacia del contratto del 23 ottobre 1982. Ipotesi della presupposizione. Ancora più
complicata l’analisi della scrittura privata del 23 ottobre 1982 sotto il profilo della
sua efficacia. Su questo piano il dibattito processuale si è lungamente soffermato
sulla ravvisabilità nel contratto di una condizione sospensiva (e sul suo avveramento) ovvero sulla ravvisabilità di una presupposizione, avuto riguardo al Piano
Particolareggiato approvato dal Comune di Tivoli in data 30 novembre 2005.
(Omissis). Il Collegio reputa di poter escludere l’ipotesi della presupposizione,
condividendo l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la presupposizione
deve intendersi « ... come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di “condizione”, da considerarsi implicita e, comunque, certamente
non espressa nel contenuto del contratto... »; con la conseguenza che la presupposizione risulta « configurabile... tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si
evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata
dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile
della volontà negoziale, venga successivamente mutata... » (Cass., Sez. III, 24
marzo 2006, n. 6631, in Contratti, 2006, 1085). Ora, poiché nel testo contrattuale
del 23 ottobre 1982 si fa un espresso riferimento alla futura adozione di un Piano
Particolareggiato e più esattamente al « piano particolareggiato, conseguente al
piano regolatore di Tivoli, che verrà redatto dal Comune di Tivoli », l’ipotesi della
presupposizione può escludersi. III.3. La scrittura privata del 23 ottobre 1982 come
contratto sottoposto a condizione sospensiva. Invero, il contratto del 23 ottobre
1982 non contiene in termini chiari ed espliciti una condizione. Le parti non utilizzano il vocabolo condizione o altro analogo termine, né fanno riferimento alla disciplina di cui agli artt. 1353 e segg. c.c. Tuttavia, indipendentemente dalla terminologia utilizzata nel contratto (la cui imprecisione è già stata rilevata), appare evidente che il programma negoziale divisato dalle parti non prevede alcun effetto immediatamente dispositivo ma risulta collegato e subordinato al verificarsi di un
evento futuro ed incerto. Sulla precisa individuazione di tale evento futuro ed incerto occorrerà soffermarsi diffusamente più oltre; per il momento, e secondo una
prima apparenza, può dirsi che esso consiste nella approvazione del Piano particolareggiato che avrebbe dovuto essere adottato dal Comune di Tivoli. Nelle “premesse”, a pag. 2 del contratto del 23 ottobre 1982, si legge che « i sigg. Pietro
Gialli e Basilio Rossi o chi loro nomineranno intendono procedere alla demolizione
dei manufatti che insistono sull’area .......... ed alla successiva riedificazione di un
fabbricato avente la volumetria consentita dal piano particolareggiato, conseguente al piano regolatore di Tivoli, che verrà redatto dal Comune di Tivoli ».
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Nelle clausole successive (clausola n. 2, pag. 6) si legge che « la individuazione
delle porzioni immobiliari che i sigg. Pietro Gialli e Basilio Rossi si sono obbligati
a dare in permuta ai sigg. Pietro e Aldo Alfa... dovrà essere effettuata subito dopo
l’approvazione, da parte del Comune di Tivoli, del progetto esecutivo del realizzando fabbricato... » (e, dunque, evidentemente, dopo la approvazione del Piano
particolareggiato). Ed ancora (clausola n. 3, pag. 8) si legge che « i sigg. Pietro
Gialli e Basilio Rossi provvederanno a far redigere, a loro cura e spese, ma a nome
dei sigg. Pietro ed Aldo Alfa, il progetto relativo al fabbricato da edificarsi. Essi
ne cureranno la presentazione al Comune di Tivoli per la prescritta approvazione.
Ottenuto il rilascio della concessione edilizia, i sigg. Pietro Gialli e Basilio Rossi
ne daranno notizia ai sigg. Pietro ed Aldo Alfa... ». Peraltro, il contratto (pag. 7)
prevede che « ... lo stipulando atto notarile contemplerà il trasferimento di quanto
promesso... dai sigg. Pietro ed Aldo Alfa in favore dei sigg. Pietro Gialli e Basilio
Rossi o di chi loro nomineranno, con la sola riserva da parte dei primi due delle
aree corrispondenti alle unità immobiliari promesse loro in permuta, ed un contratto di appalto per la realizzazione, da parte dei sigg. Pietro Gialli e Basilio
Rossi o di chi per loro delle unità immobiliari promesse in permuta ai sigg. Pietro
ed Aldo Alfa ». Dalle clausole sopra riportate risulta, da un lato, confermato che il
contratto ha carattere preliminare: i proprietari “promettono e si obbligano a trasferire” e la produzione degli effetti traslativi ed obbligatori è rinviata ad un futuro
“stipulando atto notarile”. Dall’altro, che la futura attività negoziale con carattere
definitivo sarebbe stata posta in essere solo dopo il verificarsi della condizione dedotta (approvazione del Piano particolareggiato, presentazione del progetto e rilascio della concessione edilizia). III.4. (Segue) Secondo gli eredi del sig. Pietro Alfa
la condizione sospensiva contenuta nel contratto del 23 ottobre 1982 consisterebbe
nella « imminente approvazione del Piano Particolareggiato... ». Per contro, i sigg.
Rossi e Gialli negano che la approvazione del Piano particolareggiato fosse stata
configurata dalle parti come una condizione il cui avverarsi dovesse essere “imminente”. Il Collegio osserva che il contratto del 23 ottobre 1982 non fissa un termine
preciso entro il quale l’approvazione del Piano Particolareggiato del Comune di Tivoli sarebbe dovuta necessariamente intervenire; né il contratto offre elementi indiretti dai quali argomentare che la detta condizione sospensiva avrebbe dovuto necessariamente avverarsi entro un breve lasso temporale. Il contratto prevede alcuni
termini, stabilendo, ad esempio che « non appena liberato da persone e cose il
compendio immobiliare... e comunque entro novanta giorni dalla data di rilascio
della concessione edilizia... i sigg. Pietro ed Aldo Alfa trasferiranno, con la sola
riserva delle aree ideali di cui al punto 1) che precede, il complesso immobiliare... »; ed ancora che « entro il termine di mesi trenta dalla data di completamento della demolizione dei manufatti oggi esistenti, i sigg. Pietro Gialli e Basilio
Rossi... dovranno ultimare la costruzione del nuovo fabbricato... ». Ma non prevede
alcun termine entro il quale la condizione sospensiva rappresentata dalla approvazione del Piano Particolareggiato avrebbe dovuto avverarsi. La previsione di un
termine breve entro il quale la condizione avrebbe dovuto necessariamente verificarsi non può essere ricavata neppure dall’esame del comportamento delle parti
successivo alla conclusione dell’accordo del 1982. Sotto questo profilo, è significativo notare che alla fine del 1985 il sig. Pietro Alfa scrisse ai sigg. Rossi e Gialli
(lettera datata 27 dicembre 1985, all. 4 al fascicolo di parte dei sigg. Pierluigi, Cesare, Cecilia e Gabriele Alfa) denunciando l’alterazione « delle condizioni contrat175
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tuali » a causa del « lungo tempo intercorso, per Vostra esclusiva responsabilità »,
e comunicando che « decorsi ulteriori venti giorni, riterrò il rapporto risolto ».
Tuttavia, successivamente a tale missiva, non risulta che sia stata assunta alcuna
iniziativa volta a provocare la risoluzione del contratto del 1982 ovvero una dichiarazione di definitiva inefficacia di esso per il mancato avveramento della condizione. Dunque, anche la condotta delle parti successiva alla conclusione del contratto del 23 ottobre 1982 — condotta caratterizzata da una lunga inerzia, durata
molti anni — porta ad escludere che i contraenti avessero configurato la approvazione del Piano Particolareggiato come un fatto di prossima realizzazione, in tempi
brevi. Deve, piuttosto, reputarsi che le parti, programmando una complessa operazione immobiliare nella quale sarebbero dovuti intervenire atti amministrativi,
sgomberi, demolizioni e ricostruzioni, fossero ben consapevoli dei tempi medio
lunghi entro i quali può avvenire l’adozione di uno strumento urbanistico. Tuttavia,
il Collegio osserva che negare che l’approvazione del Piano Particolareggiato fosse
attesa da un giorno all’altro non significa affermare che lo stato di incertezza della
condizione possa protrarsi indefinitamente. Ma su questo punto si tornerà più
avanti. III.5. Sul contestato avveramento della condizione. Si tratta ora di definire
precisamente quale fosse il fatto dedotto nel contratto come condizione sospensiva
e stabilire, quindi, se essa debba reputarsi avverata o meno.
Per rispondere a questo interrogativo, che riveste rilevanza decisiva, risultano
particolarmente utili le indagini e gli accertamenti tecnici effettuati dal Consulente
tecnico di ufficio, prof. ing. M. M.; accertamenti che il Collegio ritiene di condividere integralmente. Nella propria relazione il C.T.U., dopo avere individuato il
compendio immobiliare del quale si discute, ha svolto un’analitica ricostruzione
cronologica degli eventi e della disciplina urbanistica applicabile all’area in questione. In particolare, il C.T.U. ha segnalato (pag. 43 e segg.) che, in data 30 novembre 2005, il Comune di Tivoli, ai sensi della L.R. 36/1987, ha approvato il
Nuovo Piano Particolareggiato di Piazza Matteotti (DCC n. 102); ed ha riportato
nella sua consulenza uno stralcio della relazione di accompagnamento al Piano,
nonché la disciplina dettata dallo stesso. Il Piano, tra l’altro, individua una serie di
Unità di Intervento e Aree di trasformazione (artt. 3 e 4); definisce parametri urbanistici ed edilizi (art. 5); stabilisce le regole di attuazione del Piano. Rispondendo
al Quesito n. 3, il C.T.U. ha rilevato che « Con l’approvazione del Piano Particolareggiato di Piazza Matteotti, il 30 novembre 2005, l’area dell’ex Cinema X viene
inserita nell’Unità di Intervento B e, in particolare, nell’Area di Trasformazione
B » (pag. 54 della C.T.U.). Dopo avere precisato che « Le particelle catastali che
ricadono nella detta AT vengono identificate coi nn. 290, 291, 303, 304 (parte),
305 » e che « le particelle 290, 291, 303, 304 (parte) sono attribuibili alla proprietà delle persone elencate nella risposta al Quesito n. 1 », il C.T.U. ha accertato
che « l’area rispondente alle p.lle 290, 291, 303, 304 (parte) ha una superficie di
2319 mq. La superficie dell’intera Area di Trasformazione risulta di 3100 mq. Il
P.P. prevede un indice fondiario di 4,5 mc/mq. La volumetria edificabile consentita
sull’area oggetto della controversia è perciò pari a 10436 mc di cui il 15%, pari
a 1565 mc, con destinazione terziario e commerciale e l’85%, pari a 8871 mc, con
destinazione residenziale. Considerando un’altezza virtuale interpiano di 3,2 m,
come previsto dal DM 1444/1968, si ottiene una superficie edificabile di 3261 mq,
nelle stesse proporzioni, per destinazioni d’uso, delle cubature ». Avendo accertato
la edificabilità dell’area in questione, il C.T.U. è passato all’esame del 4o quesito al
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fine di stabilire « ... se la realizzazione di un nuovo edificio sia possibile anche
sulla sola area in questione, indipendentemente da interventi edificatori sulle aree
limitrofe, e se sia possibile anche senza il consenso di terzi proprietari di altre
aree ». Per rispondere al quesito il C.T.U. ha opportunamente preso le mosse dalla
disciplina dettata dall’art. 7 del Piano Particolareggiato, che ne definisce le regole
di attuazione. (Omissis). Sulla base di questa disciplina, il C.T.U. ha osservato che
« prima di una realizzazione, anche limitata ad una delle aree che la formano, è
necessario che sia redatto un progetto di insieme per l’edificazione di tutta l’Area
di Trasformazione (vedasi risposta al quesito precedente), in base ad uno studio
unitario esteso all’intera AT. Non si può cioè redigere un progetto limitato alla
propria area di proprietà quando, come in questo caso, l’AT prevista dal Piano
Particolareggiato comprende aree di diversa proprietà. La presentazione di un
progetto al Comune, per l’approvazione e l’iter autorizzativo, fino alla concessione
edilizia, spetta al proprietario dell’area. Per redigere il progetto di insieme è necessario l’accordo fra i proprietari. Una volta redatto il piano d’insieme e approvato, i singoli proprietari possono passare alla realizzazione per parti, purché in
coerenza con esso ». Da queste premesse, il C.T.U. ha tratto la giusta conclusione
che « è sı̀ possibile la realizzazione di un nuovo edificio anche sulla sola area in
questione, ma non indipendentemente da interventi edificatori sulle aree limitrofe,
almeno per quanto riguarda l’unitarietà progettuale. La realizzazione infatti deve
essere preceduta dal progetto d’insieme esteso all’intera AT e dalla sua approvazione ». Infine, il C.T.U. è passato ad esaminare l’ultimo profilo del 4o quesito al
fine di stabilire se l’edificazione sia possibile anche senza il consenso di terzi proprietari di altre aree. In base della vigente disciplina urbanistica « Il consenso dei
proprietari delle altre aree eventualmente comprese nell’Area di Trasformazione è
in linea di massima necessario, per la redazione del progetto d’insieme. Se del
caso, si può ricorrere alla formazione di un comparto. L’istituto del comparto è
volto all’attuazione di un piano particolareggiato mediante la suddivisione dei terreni, edificati e non, in unità fabbricabili da trasformare secondo speciali prescrizioni. La sua funzione essenziale è quella di rendere attuabili interventi diretti su
aree interessanti più proprietari, anche in caso di loro disaccordo. Quando, infatti,
non vi sia unanime intenzione di procedere all’attuazione degli interventi previsti
dal PP, i proprietari consenzienti che rappresentino almeno i tre quarti del valore
del comparto, in base all’imponibile catastale, possono costituire un consorzio e
procedere alle necessarie espropriazioni. (..........) Nel caso presente quindi occorrerebbe, per la redazione del progetto, o il consenso dei proprietari interessati o,
in mancanza di esso, il ricorso da parte di alcuni di essi, costituenti almeno i tre
quarti del valore, all’istituto del comparto. Il valore delle singole proprietà è da
considerarsi proporzionale alle rispettive superfici, non essendovi fabbricati (per il
cinema, i proprietari avevano a suo tempo rinunciato alla plusvalenza riferibile all’edificazione). Pertanto, potrebbero ricorrere al detto istituto i proprietari di tre
quarti della superficie complessiva dell’Area di Trasformazione. Da quanto riportato nella risposta al quesito n. 3, risulta che l’intera proprietà indivisa per cui è
causa ha una superficie di 2319 mq mentre la superficie dell’intera Area di Trasformazione risulta di 3100 mq, con un rapporto di 2319/3100 = 0,748 (74,8%),
inferiore cioè ai 3/4 (75%) previsti dalla legge per la costituzione di un consorzio ». Svolti tali accertamenti, il C.T.U., in risposta al quesito n. 4, ha tratto la conclusione — correttamente argomentata e condivisa dal Collegio — « che la realiz177
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zazione di un nuovo edificio oggi è possibile in astratto anche sulla sola area in
questione, ma non indipendentemente da interventi edificatori sulle aree limitrofe,
e non è possibile anche senza il consenso di terzi proprietari di altre aree, in
quanto questi debbono aderire alla progettazione d’insieme » (pag. 59 della relazione del CTU). III.6. — (Segue). Conclusioni: mancato avveramento della condizione. Sulla base delle considerazioni che precedono, il Collegio reputa che il fatto,
eventuale ed incerto, dedotto nel contratto come condizione non si sia verificato nei
termini che le parti avevano originariamente programmato. Interpretando il contratto del 23 ottobre 1982 e risalendo alla comune intenzione delle parti (v. supra
ai §§ III.3 e III.4), il Collegio ritiene che i contraenti abbiano inteso subordinare la
conclusione del contratto definitivo alla approvazione di un Piano Particolareggiato
che consentisse senz’altro ed immediatamente, sulla base del solo « progetto relativo al fabbricato da edificare » e del rilascio di una corrispondente concessione
edilizia, la realizzazione di un nuovo edificio sull’area oggetto del trasferimento. La
condizione dedotta nel contratto non contemplava l’ipotesi di fatto, poi effettivamente verificatasi, per la quale il futuro, possibile intervento edificatorio avrebbe
dovuto interessare un’area più vasta di quella di proprietà dei sigg. Alfa; non contemplava prescrizioni planivolumetriche, né comparti edificatori o consorzi tra proprietari confinanti; né, conseguentemente, contemplava la necessità del consenso
dei confinanti o l’ipotesi di espropriazione delle aree dei proprietari non aderenti al
consorzio. La condizione sospensiva concepita dalle parti non corrisponde, dunque,
alla disciplina urbanistica adottata con il nuovo Piano Particolareggiato del 2005. Il
contratto del 1982, che pure indugia su taluni profili di dettaglio del rapporto (basti pensare alla liberazione del Bar Bracchetti), nulla dice in ordine alla necessità
di richiedere il consenso di terzi confinanti, in ordine alle conseguenze di un eventuale rifiuto del detto consenso, in ordine alla necessità di provocare un processo
espropriativo. In questa prospettiva, il fatto che — secondo gli accertamenti compiuti dal C.T.U. (cfr. pag. 59 della relazione) — l’area in questione non raggiunga
i 3/4 dell’intera Area di Trasformazione non appare decisiva. Infatti, anche qualora
l’area fosse stata maggiore dei 3/4 dell’intera superficie, nondimeno il rilascio della
concessione edilizia non sarebbe dipesa dallo sola iniziativa dei proprietari, ma sarebbe dovuta passare attraverso un procedimento complesso (formazione di un
consorzio e successiva espropriazione delle aree e delle costruzioni dei proprietari
non aderenti — cfr. art. 23 cit. nella nota n. 5). Il fatto (nel nostro caso, la nuova
disciplina normativa del territorio) che si è verificato non corrisponde al fatto che
le parti avevano dedotto come condizione. La disciplina convenzionale non è in
grado di governare il più complesso riassetto del territorio comunale dettato dal
Piano particolareggiato. E le lacune del contratto non possono certamente essere
colmate dal Collegio Arbitrale, che non potrebbe arbitrariamente stabilire obblighi
e fissare termini a carico di terzi. III.7. — (Segue) Né il Collegio potrebbe limitarsi
a sancire l’obbligo dei proprietari signori Alfa di prestare il loro assenso al Piano
Planivolumetrico, quando è evidente che tale assenso, isolatamente preso, sarebbe
inidoneo a consentire il rilascio di una concessione edilizia. E neppure potrebbe
sancire l’obbligo di prestare tale assenso in attesa di un’eventuale, futura, possibile
manifestazione di assenso da parte dei proprietari confinanti; assenso del tutto ipotetico, della cui esistenza o della cui eventuale possibile manifestazione non è stata
fornita alcuna prova. Una soluzione di tal genere forzerebbe indebitamente il testo
contrattuale; ed avrebbe l’unico, inammissibile effetto di protrarre ulteriormente ed
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arbitrariamente la condizione di incertezza del rapporto. Sotto quest’ultimo profilo,
giova richiamare un giusto principio affermato dalla Corte Suprema, secondo la
quale « La carenza della indicazione di un termine entro il quale la condizione sospensiva o risolutiva debba verificarsi o mancare non comporta necessariamente
un vincolo a tempo indeterminato delle parti ben potendosi il termine desumere
implicitamente dalle esigenze di tutela degli opposti interessi delle parti con la
conseguenza che quando il rapporto giuridico sia sospensivamente condizionato al
verificarsi di un evento del quale non sia indicato il termine entro il quale possa
utilmente avverarsi, il contratto deve considerarsi ineffıcace per il mancato avveramento della condizione — senza che ricorra l’esigenza della previa fissazione di
un termine da parte del giudice — dal momento in cui sia decorso il lasso di tempo
congruo entro il quale la condizione avrebbe dovuto avverarsi e con l’ulteriore
conseguenza che, quando la condizione è quella dell’adempimento dell’obbligazione principale di una parte, la condizione deve considerarsi non avverata nel
momento in cui la mora del soggetto obbligato abbia assunto il carattere di un
inadempimento di non scarsa importanza, che renda non più possibile l’adempimento della obbligazione contro la volontà del creditore » (Cass., Sez. II, 27 dicembre 1994, n. 11195, in Rep. Foro it. 1994, Contratto in genere [1740], n. 317).
In conclusione, il Collegio ritiene che la condizione sospensiva dedotta nel contratto del 23 ottobre 1982 non si sia verificata; e che il contratto sia divenuto ormai
definitivamente inefficace. L’inefficacia del contratto esclude la configurabilità dell’inadempimento lamentato dai sig. Rossi e Gialli e, cosı̀, la ravvisabilità dei danni
da essi pretesi. (Omissis). III. 7. — Ulteriori considerazioni sul quesito n. 1 proposto dai sigg. Rossi e Gialli. Ferme le considerazioni e le conclusioni che precedono,
il Collegio, per completezza della motivazione, rileva che, anche indipendentemente dal mancato verificarsi della condizione, il quesito n. 1 proposto dagli istanti
sigg. Rossi e Gialli — volto ad ottenere la pronuncia di un lodo, costitutivo, che
trasferisse in loro favore la proprietà del compendio immobiliare — non avrebbe
potuto comunque trovare accoglimento. Come è noto, l’art. 2932 c.c. consente al
Giudice di pronunciare « una sentenza che produca gli effetti del contratto non
concluso » solo « qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo ». Orbene, nel
caso di specie, la pronuncia di un lodo che trasferisse la proprietà del compendio
immobiliare in questione non sarebbe stata comunque possibile per l’indeterminatezza e per l’attuale indeterminabilità dell’area oggetto del trasferimento. (Omissis)
V. — Sui quesiti nn. 5 e 6 proposti dai sigg. Rossi e Gialli. V.1. — Premesse di
fatto. La scrittura privata del 28 febbraio 1983 e la sentenza del Tribunale di Roma
n. 13515 del 29 settembre 1993. (Omissis). In fatto, occorre rammentare che la
scrittura privata del 23 ottobre 1982, nel prevedere lo scambio dei 6/7 della proprietà del compendio immobiliare verso una porzione variabile del nuovo costruendo edificio, prevedeva anche (nelle Premesse) « la facoltà, da parte dei sigg.
Pietro ed Aldo Alfa, di optare per la cessione, a favore degli stessi Pietro Gialli e
Basilio Rossi o di chi loro si sono riservati di nominare, od in favore di terzi estranei al presente contratto, con corrispettivo in denaro, di 1/7 dell’intero compendio,
da parte del sig. Pietro Alfa, e del 30% della propria quota di 1/7, da parte del
sig. Aldo Alfa, al prezzo che, nel caso di cessione in favore dei sigg.ri Pietro Gialli
e Basilio Rossi o di chi questi si sono riservati di nominare, viene oggi determinato nel suo ammontare e che resterà invariato, rispettivamente di £. 200 milioni,
in favore di Pietro Alfa, e di £. 60 milioni, in favore di Aldo Alfa ». Nella clausola
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n. 2 la medesima scrittura disponeva che « i sigg.ri Pietro ed Aldo Alfa, al momento
della scelta delle unità immobiliari che essi intendono ricevere in permuta,
avranno la facoltà di optare per la cessione, a loro libera scelta, a favore di terzi
estranei al presente contratto o a favore dei sigg.ri Pietro Gialli e Basilio Rossi o
di chi essi si sono riservati di nominare, con corrispettivo in denaro, di 1/7 dell’intero compendio immobiliare, da parte del sig. Pietro Alfa, e del 30% della propria
quota di 1/7, da parte del sig. Aldo Alfa, al prezzo che, nel solo caso di cessione
in favore dei sigg. Pietro Gialli e Basilio Rossi o di chi loro nomineranno, viene
oggi determinato e resterà invariato, rispettivamente di £. 200 milioni, in favore di
Pietro Alfa, e di £. 60 milioni, in favore di Aldo Alfa. Dette somme dovranno essere corrisposte dai sigg.ri Pietro Gialli e Basilio Rossi o da chi per loro agli
aventi diritto, sigg. Pietro ed Aldo Alfa, in ragione del 50% a sbancamento avvenuto ed in ragione del restante 50% entro quattro mesi dalla data di versamento
della prima rata ».
In data 28 febbraio 1983 tra il sig. Pietro Alfa, da un lato, ed i sigg. Rossi e
Gialli, dall’altro, fu sottoscritta una seconda “scrittura privata” che si riallacciava
espressamente alle clausole sopra riportate della precedente scrittura privata del 23
ottobre 1982 (relative alla cessione anticipata di 1/7 della proprietà del compendio
immobiliare in questione). In tale scrittura privata del 1983, premesso che « il sig.
Pietro Alfa intende sciogliere anticipatamente la riserva come sopra formulata, cedendo ai sigg. Pietro Gialli e Basilio Rossi, od a chi essi nomineranno al momento
della stipula notarile, la quota di 1/7 dell’intero compendio immobiliare sopradescritto per il convenuto corrispettivo di £. 200.000.000, con la proporzionale riduzione delle percentuali di costruzione promesse in permuta... », le parti convennero
« 1) il sig. Pietro Alfa cede, vende e trasferisce ai sigg.ri Pietro Gialli e Basilio
Rossi od a chi loro nomineranno al momento della stipula dell’atto notarile la
quota di 1/7 dell’intero compendio immobiliare descritto in premessa, per il convenuto corrispettivo di £. 200.000.000 (lire duecentomilioni) ».
Alla scrittura privata del 1983 non seguı̀ la stipula dell’atto notarile. (Omissis). Con sentenza n. 13515 del 29 settembre 1993 (depositato dall’Avv. M.G.P., su
richiesta del Collegio, nell’udienza del 25 gennaio 2008; già all. 3 al fascicolo di
parte dei Signori Pierluigi, Cesare, Cecilia e Gabriele Alfa), il Tribunale di Roma,
« definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Gialli Pietro e Rossi
Basilio, con atto di citazione in riassunzione del 9 maggio 1992 nei confronti di
Alfa Pierluigi, Alfa Gabriele, Alfa Cesare e Alfa Cecilia, cosı̀ provvede: dichiara il
difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria per effetto della clausola
compromissoria contenuta nel contratto inter partes ». (Omissis). Su questo punto
gli eredi del sig. Pietro Alfa hanno eccepito l’inammissibilità del quesito n. 5, volto
ad ottenere la dichiarazione di avvenuta cessione della quota di 1/7, rilevando che
« il giudicato sulla scrittura privata 28 febbraio 1983 come contratto preliminare
impedisce la diversa qualificazione e, dunque, la declaratoria di avvenuta cessione
in favore dei sig.ri Rossi Basilio e Gialli Pietro della quota di 1/7 del compendio
immobiliare Cinema X » (cfr. memoria del 30 novembre 2007). L’eccezione di giudicato è infondata. Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 13515 del 29 settembre 1993, si è limitato a dichiarare « il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria per effetto della clausola compromissoria contenuta nel contratto
inter partes ». Decisione corretta e condivisa dal Collegio Arbitrale, poiché la scrittura privata del 28 febbraio 1983 richiama espressamente la scrittura privata del 23
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ottobre 1982 (« restano fermi tutti gli altri patti e condizioni di cui alla richiamata
scrittura privata 23 ottobre 1982 ») e, dunque, richiama anche la clausola compromissoria contenuta nella clausola n. 6 della scrittura privata del 23 ottobre 1982 (né
mai, in questo giudizio arbitrale, alcuna delle parti ha eccepito che la scrittura privata del 28 febbraio 1983 sarebbe sottratta alla cognizione del Collegio arbitrale).
Ma l’efficacia della sentenza del Tribunale di Roma si esaurisce nella dichiarazione
del « difetto di giurisdizione » (rectius: difetto della potestas iudicandi dell’A.G.O.
in considerazione del patto compromissorio), senza vincolare in alcun modo il Collegio Arbitrale in ordine alla qualificazione del contratto o alla valutazione dei suoi
effetti. A sostegno di questa conclusione milita una costante giurisprudenza secondo
la quale « La sentenza del giudice del merito che statuisca unicamente sulla competenza, anche se esamina e decide questioni preliminari di merito ai limitati fini
della negazione ed individuazione della competenza (come quella della qualificazione giuridica della domanda), non contiene, né esplicitamente né implicitamente,
alcuna pronuncia di merito suscettibile di passare in cosa giudicata; pertanto, la
sentenza di incompetenza dal luogo a giudicato soltanto formale e non preclude al
giudice dichiarato competente l’esame e l’eventuale applicazione, per la decisione
di merito, di norme di diritto sostanziale, ancorché in contrasto con le premesse
della sentenza sulla competenza » (Cass., Sez. III, 23 aprile 2004, n. 7775, in Rep.
Foro it., 2004, Cosa giudicata civile [1860], n. 5; sulla stessa linea Cass., Sez. III,
14 novembre 2003, n. 17248, in Rep. Foro it., 2003, Cosa giudicata civile [1860],
n. 50: « Le sentenze che statuiscono sulla competenza — ad eccezione delle decisioni della corte di cassazione in sede di regolamento di competenza — non sono
suscettibili di passare in cosa giudicata in senso sostanziale poiché la decisione
sulla questione di competenza, emessa dal giudice di merito con sentenza non più
impugnabile, dà luogo soltanto al giudicato formale, il quale si concreta in una
preclusione alla riproposizione della questione soltanto davanti al giudice dello
stesso processo, ma non fa stato in un distinto giudizio promosso dalle stesse parti
dinanzi ad un giudice diverso »). V.4. — (Segue) Nel merito, il Collegio ritiene che
la scrittura privata del 28 febbraio 1983 contenga una contratto definitivo di vendita di 1/7 del compendio immobiliare. Nel senso che si tratti di un contratto definitivo, e non preliminare, depone univocamente il testo della scrittura secondo il
quale « il sig. Pietro Alfa cede, vende e trasferisce ai sigg.ri Pietro Gialli e Basilio Rossi od a chi loro nomineranno al momento della stipula dell’atto notarile la
quota di 1/7 dell’intero compendio immobiliare descritto in premessa, per il convenuto corrispettivo di £. 200.000.000 ». La clausola mostra una volontà immediata
e definitiva di trasferire la proprietà del bene verso un corrispettivo in danaro; non
rinvia l’effetto traslativo del diritto ad una successiva manifestazione di volontà;
non sottopone il trasferimento ad alcuna condizione. Le parti hanno convenuto che
« al momento della stipula dell’atto notarile » gli alienanti Rossi e Gialli avrebbero
potuto designare come acquirente un terzo, da indicare nell’atto pubblico di vendita; ma tale riserva di nomina non è incompatibile con il carattere definitivo del
contratto. In proposito la giurisprudenza ha ritenuto che « Nel valutare se le parti
abbiano concluso un contratto definitivo di compravendita o un semplice preliminare è necessario ricercare l’effettiva volontà delle parti, al di là della qualificazione da esse attribuita al contratto stesso; in particolare, non è incompatibile con
la qualificazione del contratto di vendita come definitivo il fatto che l’acquirente si
sia impegnato “per sé o per persona da nominare”... » (Cass., Sez. I, 21 giugno
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2002, n. 9079, in Giust. civ., 2002, I, 3096). In senso conforme, è stato affermato
che « Al fine di stabilire se le parti abbiano concluso un contratto preliminare ovvero definitivo di compravendita, non sono decisive le espressioni usate (come, ad
esempio, “preliminare” nell’intestazione del contratto ovvero “vende” nel testo),
mentre non rileva né la riserva di nomina del contraente, ai sensi dell’art. 1401
c.c., che può operare indifferentemente sia in un negozio definitivo che preparatorio, né l’aver posto come condizione, che è prevista dalla legge ed attiene all’effıcacia del negozio, l’ottenimento di una autorizzazione alla vendita da parte del
giudice tutelare, ai sensi dell’art. 320 c.c. » (Cass., Sez. II, 14 agosto 2007, n.
17682; in Rep. Foro it., 2007, Contratto in genere [1740], n. 471). Ciò premesso,
il Collegio ritiene che la scrittura privata del 28 febbraio 1983 sia valida, efficace
ed abbia carattere definitivo, producendo l’effetto di trasferire la proprietà di 1/7 del
compendio immobiliare in questione in favore dei signori Rossi e Gialli o — come
espressamente e ripetutamente disposto nella detta scrittura — in favore dei soggetti che questi vorranno nominare « al momento della stipula dell’atto notarile ».
(Omissis)
Accertamento dell’avveramento dell’evento dedotto come condizione
del contratto, termine della condizione e risarcimento del danno.
1.
La controversia definita con lodo arbitrale (1) del 27 ottobre 2008
(1) La natura giuridica di arbitrato rituale e di diritto, dichiarata dal Collegio, si
fonda sull’interpretazione della clausola compromissoria e sulla condotta e le dichiarazioni
processuali delle parti (l’importanza del comportamento processuale delle parti al fine di individuare la natura dell’arbitrato è ben sottolineata da LONGO, La rilevanza della condotta
processuale delle parti nell’interpretazione della clausola compromissoria, in questa Rivista,
2002, 124 ss.), in conformità con l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che riscontra
il discrimen tra natura rituale ed irrituale dell’arbitrato nel fatto che mentre nel primo le parti
vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli
effetti di cui all’art. 825 c.p.c., in quello irrituale esse intendono affidare all’arbitro la soluzione di controversie solo attraverso lo strumento negoziale. Si tratta, pertanto, di una questione di carattere interpretativo della voluntas contrahaentium, da risolversi mediante l’applicazione degli strumenti ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., in relazione alla quale
non può attribuirsi valore determinante al fatto che con l’arbitrato rituale le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice. In questo senso, precisamente, Cass., Sez. I, 2 luglio 2007, n. 14972, in Nuova giur. civ. comm., 2008, f. 2, pt. 1, 143
ss., con nota di BARTOLINI, La scelta delle parti fra arbitrato rituale ed irrituale. L’interpretazione della clausola compromissoria fra incertezze giurisprudenziali e dottrinali, in cui la
Corte ha qualificato rituale l’arbitrato in un caso in cui la clausola compromissoria attribuiva
all’arbitro un potere decisionale sulle controversie che potessero insorgere sull’interpretazione ed esecuzione del contratto e difettava di elementi univocamente sintomatici dell’irritualità, mentre il quesito sottoposto all’arbitro faceva esplicito riferimento ad un lodo con effetto di sentenza. In senso conforme, si veda anche, Cass., Sez. I, 10 novembre 2006, n.
24058, in Foro it., 2007, f. 7-8, pt. 1, 2181, anche se di particolare importanza risulta, in merito, Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527, in questa Rivista, 2000, 699, con nota di E. FAZZALARI. Si sottolinea, nella giurisprudenza più recente, che l’art. 808-ter, comma 1, c.p.c., se-
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trae origine dalla stipulazione di due contratti datati rispettivamente 23 ottobre 1982 e 28 febbraio 1983.
Con il primo contratto, una parte prometteva e si obbligava a trasferire in proprietà alla controparte un complesso immobiliare; il corrispettivo
di tale prestazione era costituito dall’obbligazione di trasferire al promittente alienante una parte del fabbricato che il promittente acquirente
avrebbe edificato sulla medesima area, dopo la demolizione dei manufatti
esistenti. La demolizione dei manufatti esistenti e la costruzione di una
nuova opera sull’area oggetto del trasferimento richiedevano, tuttavia, l’approvazione da parte del Comune competente di un Piano Particolareggiato,
applicativo del Piano Regolatore comunale, circostanza verificatasi in data
30 novembre 2005.
Il secondo contratto del 28 febbraio 1983 prevedeva il trasferimento
della proprietà di parte del complesso immobiliare oggetto del precedente
contratto, verso il corrispettivo di un prezzo (2).
In relazione ai due contratti descritti, insorgeva controversia tra gli
stipulanti, in ordine alla validità ed efficacia degli stessi. In particolare, il
promittente acquirente adiva il Collegio Arbitrale, chiedendo di accertare la
validità e l’efficacia del primo contratto e, quindi, di emettere un lodo arbitrale che trasferisse agli stessi la proprietà del complesso immobiliare oggetto del contratto. Secondo parte attrice, il contratto del 1982, da qualificarsi come preliminare di permuta, era sospensivamente condizionato all’approvazione del Piano Particolareggiato del Comune di Tivoli. L’approvazione di tale Piano nel 2005 avrebbe reso efficace il contratto, determi-
condo la formulazione vigente, prevede un favor per l’arbitrato rituale, nella parte in cui prevede che « le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a
quanto disposto dall’articolo 824-bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo » (in
questo senso ed in deroga al precedente orientamento, Cass., 1 febbraio 1999, n. 833, in questa Rivista, 1999, 589; Trib. Bologna, 6 ottobre 2004, in Rep. Foro it., 2006, Arbitrato, n.
115; Corte Arb. Firenze, 6 novembre 2002, in questa Rivista, 2002, 747). In ambito dottrinale, si veda sul punto, VERDE, Arbitrato irrituale, in questa Rivista, 2005, 665 ss.
(2) In relazione a tale contratto rileva il rinvio diretto alla precedente scrittura privata del 1982, « restano fermi tutti gli altri patti e condizioni di cui alla richiamata scrittura
privata 23 ottobre 1982 ». Tra queste clausole è compresa la clausola compromissoria, con
la conseguenza che anche le controversie inerenti il contratto successivo devono ritenersi devolute alla decisione degli arbitri in essa previsti (in questo senso la sentenza del Tribunale
di Roma, 29.9.1993, n. 13515, richiamata a 41 del lodo arbitrale in commento).
Osserva CONFORTINI, Problemi generali del contratto attraverso la locazione, Padova,
1988, 251, che nel caso in cui i contraenti, anziché provvedere direttamente alla determinazione del contenuto di una clausola, pongano in essere un rinvio ad una fonte esterna,
« danno vita ad un negozio il cui valore non è determinabile attraverso la mera interpretazione delle dichiarazioni delle parti ». Il negozio per relationem richiede di essere interpretato ed applicato, estendendo « l’oggetto della propria conoscenza ad un elemento estrinseco
ad esso, ovvero all’oggetto della relatio ».
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nando l’avveramento della condizione sospensiva dedotta nel contratto
stesso.
Parte resistente eccepiva che il contratto prevedeva « come presupposizione e condizione sospensiva » l’imminente approvazione del Piano Particolareggiato. In particolare, il ritardo con cui era avvenuta l’approvazione
e le modalità di approvazione dello stesso non consentivano di ritenere avverata la condizione dedotta all’interno del contratto del 1982, con la conseguenza che il contratto in questione non poteva ritenersi suscettibile di
esecuzione forzata in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c.
In relazione al contratto stipulato in data 28 febbraio 1983, parte attrice ne sosteneva la natura definitiva, chiedendo, pertanto, un lodo dichiarativo del trasferimento di proprietà avvenuto tra le parti, mentre parte resistente lo qualificava come atto avente natura di preliminare, subordinato
anch’esso all’approvazione del Piano Particolareggiato del Comune di Tivoli.
Le problematiche oggetto della controversia, nitidamente ed esaustivamente affrontate dal Collegio Arbitrale, concernono, quindi, la natura
giuridica, l’efficacia e la validità dei suddetti contratti, anche in relazione
alla rilevanza ed alla natura giuridica da attribuire all’approvazione del
Piano Particolareggiato comunale.
2. Uno dei profili di maggior rilievo che si possono cogliere dall’analisi del lodo arbitrale in commento concerne il rapporto tra qualificazione ed interpretazione del contratto. L’individuazione della natura giuridica dei contratti stipulati tra le parti costituisce un’attività preliminare e
necessaria all’individuazione della disciplina applicabile agli stessi.
In prima approssimazione, l’interpretazione consiste in un complesso
procedimento diretto ad accertare il significato di una determinata forma
rappresentativa (3); la qualificazione giuridica consiste nell’attività di con-
(3) Più precisamente, occorre rilevare, AA.VV., Dieci lezioni introduttive a un corso
di diritto privato, Torino, 2006, 29 s., che l’espressione interpretazione designa due distinte
nozioni « l’attività diretta all’individuazione del significato di una disposizione normativa, il
risultato finale di tale attività ». Il carattere procedurale dell’interpretazione è puntualmente
sottolineato da IRTI, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in L’interpretazione
del contratto nella dottrina italiana, Padova, 2000, 611, ove evidenzia che il significato del
testo è « il risultato di una procedura, di una messa in opera dei canoni legali », raggiunto
attraverso l’esercizio di canoni prestabiliti.
Nel senso del testo, BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica), Milano, 1949, 3, secondo cui l’interpretazione rilevante per il diritto
consiste in un’attività diretta a riconoscere e ricostruire il significato da attribuire a forme
rappresentative, è, cioè, diretta a fissare il significato e la portata dei precetti giuridici, che
vengono in applicazione, il significato e la portata delle fattispecie, delle quali si discute la
verificazione nel caso concreto. In questo senso, PUGLIATTI, I fatti giuridici, revisione e aggiornamento di Angelo Falzea, con prefazione di Natalino Irti, Milano, 1996, 172. Secondo
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fronto e sussunzione di una determinata operazione concreta o di un dato
storico entro lo schema giuridico predisposto dal legislatore (4).
Un primo orientamento dottrinale distingue in modo netto il procedimento interpretativo dalla qualificazione dell’atto. La ricognizione del
senso da attribuire alla forma espressiva, secondo tale orientamento, sarebbe logicamente precedente e pregiudiziale rispetto alla qualificazione
dello stesso (5). In sostanza, l’interprete sarà tenuto, in primo luogo, ad accertare il significato delle espressioni, in base agli strumenti interpretativi
predisposti dal legislatore, e, solo in un secondo momento ed in relazione
L. MOSCO, Principi sulla interpretazione dei negozi giuridici, Napoli, 1952, 1 ss., si ha interpretazione tutte le volte in cui sia necessario comprendere il significato di un atto spirituale
manifestato ed il procedimento interpretativo può essere suddiviso in fasi: la ricerca del senso
apparente della dichiarazione (interpretazione inferiore); la ricerca del reale volere che potrebbe differenziarsi dal senso usuale.
Per interessanti rilievi sul dibattito tra chi ritiene che l’attività interpretativa sia volta
ad individuare un fatto giuridico e chi lo strumento per cogliere un valore, si veda PROTO,
L’interpretazione del contratto nella letteratura monografica (1970-1999), in L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, cit., 403 ss.
(4) Sul punto si veda, C.M. BIANCA, Diritto civile, 3. Il contratto2, Milano, 2000, 410
ss.; GAZZONI, Manuale di diritto privato12, Napoli, 2006, 809. In questo senso, anche, Cass.,
Sez. II, 26 aprile 1990, n. 3485, in Giur. it., 1991, 1, 1, 61.
Secondo N. IRTI, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, cit., 613 s., « qualificare un accaduto come contratto è accertare la concordanza di decisioni delle parti, e rinvenirla conforme ad una fattispecie legale di contratto ».
(5) In questo senso, in particolare, BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, I,
II, Milano, a cura di G. Crifò, 810 s., secondo cui l’interpretazione consisterebbe in
un’attività conoscitiva logicamente anteriore alla questione posta dalla fase successiva del
complesso procedimento, incentrato sul collegamento della fattispecie negoziale ad un
dato tipo contrattuale o meno. Una precisa distinzione tra le due operazioni è, altresı̀,
svolta da C.M. BIANCA, op. ult. cit., 410 s., il quale critica l’orientamento diretto a far
rientrare nell’alveo dell’attività interpretativa anche la qualificazione giuridica dell’atto.
Secondo l’A., tale commistione deve essere evitata in quanto la qualificazione giuridica
rientra nell’ambito di una differente ed autonoma operazione che consiste nella valutazione giuridica del contratto, volta ad accertare il valore giuridico (e non il significato)
dell’atto e può articolarsi in tre momenti: la qualifica (« segue l’interpretazione in quanto
essa tende a classificare il contratto, e cioè ad accertare in quale schema causale-giuridico
esso debba essere inquadrato »); la verifica degli effetti; l’integrazione degli effetti. CARRESI, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo e
continuato da Mengoni, XXI, 2, Milano, 1987, 505 s.; ZICCARDI, Le norme interpretative
speciali, Milano, 1972, 10, rileva che l’interpretazione è diretta ad indagare il significato
giuridico del contratto, mentre la qualificazione è volta ad individuare la norma cui il fenomeno va imputato e, quindi, l’effetto del contratto. C. SCOGNAMIGLIO, Introduzione, in
SANGERMANO, L’interpretazione del contratto. Profili dottrinali e giurisprudenziali, Milano, 2007, XI, precisa che al procedimento ermeneutico è affidato il compito di ricostruire la portata dell’atto di regolamentazione, « onde consentire la valutazione, da parte
dell’ordinamento giuridico, dell’interesse perseguito con il medesimo, l’inserimento dell’atto all’interno degli schemi qualificatori predisposti dall’ordinamento e, infine, l’attribuzione ad esso dell’effetto giuridico ».
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ai risultati raggiunti, potrà controllare se lo scopo pratico perseguito dalle
parti sia meritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., sia da
inquadrare o meno in uno schema tipico predisposto dal legislatore, sia da
qualificare come contratto preliminare o definitivo (6).
Occorre osservare che la natura dell’atto da interpretare assume uno
specifico rilievo all’interno del procedimento ermeneutico, sia quale criterio di scelta dei vari significati da attribuire ad una data forma espressiva,
nell’ambito dei criteri predisposti dal legislatore, sia in quanto è il legislatore stesso a riferirsi testualmente alla natura dell’atto, nell’art. 1369 c.c.
Pertanto, in dottrina, nell’analizzare e distinguere i due procedimenti, si
sottolinea la necessità di procedere ad una preliminare e provvisoria identificazione del tipo di atto giuridico al quale l’atto concreto corrisponde (7).
La problematica in questione si presenta come dirimente tra i vari contratti
tipici o atipici che possano venire in rilievo, ma assume una rilevanza ancora maggiore qualora si tratti di discernere tra più atti non aventi natura
contrattuale, in relazione ai quali non sussista una disciplina giuridica specificamente diretta a regolarne il procedimento ermeneutico (8).
Anche in base a tali considerazioni, un altro orientamento dottrinale
ritiene che una netta distinzione tra i due momenti non sembri concreta-
(6) Valutazioni precisamente svolte dal Collegio Arbitrale, sia in relazione al
primo che al secondo contratto (qualificato come contratto definitivo di vendita). In particolare, dopo un puntuale esame delle clausole del contratto del 23 ottobre 1982, il Collegio giunge a qualificarlo, dopo averne rilevato il carattere preliminare, come « contratto
complesso atipico, nel quale si combinano, pur sempre nella prospettiva dell’impegno negoziale preliminare, prestazioni proprie del contratto di vendita, di permuta, di appalto,
senza che nessuno schema tipico prevalga sull’altro. Nondimeno, il contratto persegue una
funzione di scambio meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322, comma 2 c.c. » (p. 22).
Sul punto si veda infra.
(7) Sul punto, si veda, BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., 810, secondo
cui occorre procedere a tale preliminare valutazione al fine di scegliere tra le norme che disciplinano l’interpretazione quelle meglio rispondenti al tipo di atto da interpretare.
(8) A titolo esemplificativo, si può richiamare la distinzione degli atti unilaterali in
atti giuridici in senso stretto e negozi giuridici, ma anche quella tra atti di diritto privato e
atti amministrativi. In relazione alla prima distinzione, in particolare, ritenere non applicabile
l’art. 1324 c.c. e, quindi, gli artt. 1362 ss. c.c. (salva l’analogia) agli atti non negoziali implica una preventiva qualificazione degli stessi quali atti non negoziali.
Secondo V. PESCATORE, L’interpretazione degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto
patrimoniale, in L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, cit., 530 s., nell’ipotesi in cui il contenuto della dichiarazione ed i suoi effetti siano puntualmente fissati, in maniera rigorosa dalla legge, come per la diffida ad adempiere, l’attività dell’interprete, prima
ancora di attribuire un significato alle parole o ai comportamenti, deve ritenersi limitata « alla
sussunzione dell’atto entro lo schema legale; dunque alla sua qualificazione giuridica », con
la conseguenza che, qualora l’atto possieda i requisiti di legge che ne consentono l’inquadramento in uno di questi schemi legali, « esso è destinato a produrre i suoi effetti indipendentemente dal senso che l’interprete può trarne ».
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mente operabile (9), anche se gli stessi possono ritenersi almeno logicamente distinguibili (10).
La giurisprudenza tende a distinguere le due fasi, dell’interpretazione
e della qualificazione, evidenziando che il processo interpretativo si articola, in una prima fase, concernente la ricerca e la determinazione dell’intento pratico perseguito dalle parti ed, una seconda fase, attinente alla sussunzione del dato storico entro lo schema giuridico che ad esso si ritenga
adeguato (11).
3. Pertanto, nel caso di specie, l’interpretazione delle clausole del
contratto stipulato in data 23 ottobre 1982, consente, innanzitutto, di escludere la configurabilità di una permuta tra bene presente determinato ed un
bene futuro determinabile, come rappresentato da parte attrice. Infatti, l’oggetto delle prestazioni contrattuali si articola nel trasferimento della proprietà di un complesso immobiliare, verso il corrispettivo del trasferimento
di parte della proprietà dell’edificio che l’acquirente stesso avrebbe dovuto
edificare. Il Collegio Arbitrale ha, opportunamente, rilevato che l’oggetto
della controprestazione non è costituito dal trasferimento della proprietà di
(9) Nel senso dell’unità dell’interpretazione e della qualificazione, in particolare, P.
PERLINGIERI, Manuale di diritto civile, Napoli, 1998, 440; BIGLIAZZI-GERI, L’interpretazione del
contratto (artt. 1362-1372), in Il codice civile, Commentario, diretto da Schlesinger, Milano,
1991, 21 ss.; BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, 318 ss.; COSTANZA,
Interpretazione dei negozi di diritto privato, in Dig. civ., Torino, 1993, 28. Secondo GRASSETTI, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova,
1938, 103, l’interpretazione del contratto, come determinazione della fattispecie, comprende
anche la sua qualifica giuridica.
(10) In questo senso, in particolare, N. IRTI, Principi e problemi di interpretazione
contrattuale, cit., 613 s., secondo cui « l’interpretazione fa il contratto, poiché, accertando il
significato di ciascuna decisione e il concordare di esse, permette il raffronto con le fattispecie normative e determina il predicato giuridico dell’accaduto. La qualifica, che discende da
una relazione di conformità, implica l’accertamento di significato di due termini: della norma
descrittiva di fattispecie e del fatto conguagliato ad essa. Il legislatore...disgiunge e separa ciò
che nasce insieme, e perciò colloca (o sembra collocare) il contratto nel prius e l’interpretazione nel posterius. Risolto il contratto nella concordanza di decisioni..., l’unità è ricostruita », con la conseguenza che « determinazione del significato e attribuzione di qualifica
giuridica appartengono al medesimo processo ».
(11) Cfr., Cass., Sez. IV, 4 giugno 2007, n. 12936, in Contratti, 2007, 10, 899, secondo cui in tema di interpretazione del contratto, « il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima — consistente nella ricerca e nella individuazione
della comune volontà dei contraenti — è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice
di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale », mentre la qualificazione, concretandosi nella soluzione di
questioni di diritto, è interamente soggetta al sindacato della Corte di Cassazione per quel che
concerne sia l’individuazione e la delimitazione della fattispecie astratta sia la sussunzione in
quest’ultima della fattispecie concreta. In senso conforme, Cass., Sez. III, 12 gennaio 2006,
n. 420, in Contratti, 2006, 8-9, 765; Cass., 26 aprile 1990, n. 3485, cit.
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un bene futuro, quanto dalla realizzazione e costruzione di unità immobiliari da ritrasferire, in parte, ai promittenti alienanti (12).
Lo schema della permuta è stato, in passato, ritenuto idoneo a rappresentare l’operazione economica in esame, partendo dalla considerazione
che la comune intenzione dei contraenti fosse diretta al conseguimento di
un risultato traslativo, cioè, l’acquisto della proprietà dell’area contro l’acquisto della proprietà delle costruende porzioni di edificio (13). Pertanto, si
verrebbe a produrre l’immediato trasferimento della proprietà dell’area in
favore del permutante costruttore e l’acquisto delle proprietà delle unità
immobiliari, allorché le stesse vengano ultimate (14).
Più di recente, si è sostenuto che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un’area edificabile in cambio di un fabbricato
o di alcune sue parti, da costruire sulla stessa superficie, a cura e con i
mezzi del cessionario, possa integrare sia un contratto di permuta di un
bene esistente con un bene futuro, sia un contratto misto costituito con gli
elementi della vendita e dell’appalto. Si configura il primo contratto se il
sinallagma negoziale sia consistito nel trasferimento reciproco della proprietà attuale e della cosa futura — ipotesi che si verifica anche se è previsto un conguaglio in danaro, non incidendo tale clausola sulla causa tipica del negozio di permuta — e l’obbligo di erigere l’edificio permanga
su un piano accessorio e strumentale; va ravvisato, invece, l’altro contratto
(12) D’altra parte, nel contratto in esame, sono le stesse parti ad utilizzare il riferimento al contratto di appalto, oltre ad operare uno specifico richiamo alla realizzazione dell’immobile.
(13) In questo senso, C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, in Tratt. Vassalli, VII,
1, Torino, 1972, 1020 ss.
In giurisprudenza, Cass., Sez. II, 18 novembre 1987, n. 8487, in Mass. Giur. it., 1987,
1876, secondo cui si ha permuta, che è un contratto di scambio ad effetti reali, consistente
nel reciproco trasferimento della proprietà di cose o entrambe presenti o l’una presente e
l’altra futura, « quando il proprietario del suolo edificatorio lo ceda ad un imprenditore contro appartamenti del costruendo fabbricato, ma non quando le due parti si obbligano l’una a
costruire un edificio e l’altra, (il proprietario del suolo), a cedere parte dell’immobile quale
compenso ». Tale ultimo contratto che ha effetti obbligatori va qualificato come contratto innominato del genere do ut facias, analogo al contratto di appalto (dal quale differisce per la
mancanza di corrispettivo in danaro) e comporta una diversa valutazione dell’incidenza delle
prestazioni delle parti e dei rispettivi inadempimenti.
(14) La situazione che si veniva in tal modo a creare risultava, tuttavia, particolarmente rischiosa per il proprietario dell’area, fino al sopraggiungere delle riforme normative
dirette a tutelare gli acquirenti di immobili da edificare. In particolare, tale contraente, all’atto
della conclusione del contratto avrebbe perso subito la proprietà del suolo senza acquistare
alcun bene. In caso di inadempimento del costruttore, quindi, l’eventuale risoluzione del
contratto lascia fermi i diritti acquistati dai terzi sull’area ed in caso di fallimento del costruttore il diritto dell’altro permutante si sarebbe convertito in un semplice credito al valore delle
costruende unità immobiliari, da insinuare nel passivo fallimentare. Sul punto, si veda, LUMINOSO, I contratti tipici e atipici, in Tratt. Iudica, Zatti, Milano, 1995, 195. In questo senso,
puntualmente, Cass., Sez. I, 4 aprile 1973, n. 934, in Giur. it., 1973, I, I, 1033.
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quando la costruzione del fabbricato sia stata al centro della volontà delle
parti e l’alienazione dell’area abbia costituito soltanto il mezzo per conseguire l’obiettivo primario (15). Pertanto, in considerazione della flessibilità
del tipo contrattuale, le parti possono convenire delle modifiche rispetto
alla disciplina generale del contratto, ma nei limiti in cui tali varianti presentino carattere di complementarità e accessorietà rispetto all’interesse
principale (16).
Per individuare il tipo contrattuale e per valutare se sia configurabile
un contratto preliminare di permuta ovvero un contratto misto, occorre,
pertanto, valutare gli interessi concreti dei contraenti (17). In particolare, il
criterio di riferimento è costituito dal significato pratico-economico dell’operazione, nel senso che nella permuta il trasferimento della proprietà
del bene è inteso come corrispettivo dell’alienazione del bene, considerato
come prodotto finito, mentre nel contratto di appalto viene richiesto e pagato un servizio di produzione del bene. Tali elementi si possono ricavare
solo dall’interpretazione del contratto stipulato tra le parti, in base ai criteri
ermeneutici predisposti dal legislatore, comprensivi del comportamento
complessivo delle parti, in base al secondo comma dell’art. 1362 c.c. Il
concreto riferimento che le parti possano operare alla realizzazione di unità
immobiliari, il nomen juris utilizzato (18) e le ulteriori obbligazioni contrattuali (19) — come può essere l’obbligo di demolizione delle precedenti
(15) In questo senso, Cass., Sez. II, 24 gennaio 1992, n. 811, in Giust. civ., 1993, f.
5, 1, 1305, con nota di DE TILLA.
(16) Rileva sul punto, C.M. BIANCA, Diritto civile, 3. Il contratto, cit., 476, che il
contratto di scambio bene contro prezzo può qualificarsi come vendita anche qualora il venditore si obblighi a prestazioni che concorrono a completare il bene oppure ad agevolarne il
conseguimento, l’uso o il pagamento. Quando le particolari finalità dell’operazione sono
compatibili con il tipo legale predisposto dal legislatore, lo stesso si qualifica in base a quest’ultimo con l’applicazione della disciplina corrispondente.
(17) A tal fine, vari sono stati i criteri utilizzati, in dottrina ed in giurisprudenza, per distinguere le due figure: la sussistenza di un dare, piuttosto che di un fare; la prevalenza del lavoro o della materia; la strumentalità del lavoro rispetto alla somministrazione della materia.
Per un’indicazione della tesi adottata dalla giurisprudenza, si veda, Cass., Sez. Un., 12
maggio 2008, n. 11656, in Urb. App., 2008, 7, 850 e in Corriere giur., 2008, 10, 1380 con
nota di CLARICH, secondo cui il contratto riguardante la cessione di un fabbricato non ancora
realizzato, con previsione dell’obbligo del cedente di eseguire i lavori necessari al fine di
completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto
gli estremi della vendita di una cosa futura, quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da
elementi propri della vendita di cosa presente e dell’appalto, a seconda che assuma rilievo
centrale, nel sinallagma contrattuale, l’intento delle parti avente ad oggetto il conseguimento
della proprietà dell’immobile completato ovvero il trasferimento della proprietà attuale del
suolo e l’attività realizzatrice dell’opera da parte del cedente, a proprio rischio e con la propria organizzazione.
(18) Il quale non è dirimente per l’interprete, ma può, senza dubbio, costituire un
elemento dal quale desumere la comune intenzione dei contraenti.
(19) Cass., Sez. II, 24 gennaio 1992, n. 811, cit., ha ritenuto adeguata ai principi di
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opere —, costituiscono, pertanto, tutti indici che hanno propriamente indotto il Collegio Arbitrale a definirlo come « contratto complesso e atipico,
nel quale si combinano, pur sempre nella prospettiva dell’impegno negoziale preliminare, prestazioni proprie del contratto di vendita, di permuta,
di appalto, senza che nessuno schema tipico prevalga sull’altro ».
4. Altro aspetto di carattere problematico affrontato dal Collegio
concerne il rapporto tra termine e condizione o, rectius, quale sia il principio di diritto per valutare quando possa ritenersi definitivamente inefficace
il contratto sottoposto a condizione sospensiva, nel caso in cui le parti non
abbiano fissato alcun termine di avveramento dell’evento dedotto in condizione.
Come costantemente affermato in dottrina e giurisprudenza, l’indagine
diretta alla verifica all’avveramento o meno della condizione sospensiva
dedotta nel contratto costituisce un accertamento di fatto, che richiede una
valutazione di corrispondenza tra il fatto e la previsione contenuta nel contratto (20). Anche in questo caso, sarà necessario per l’interprete individuare
concretamente il significato delle espressioni contrattuali, al fine di determinare l’evento dedotto in condizione, e tale attività dovrà svolgersi tramite
gli strumenti interpretativi predisposti dal legislatore agli artt. 1362 ss. c.c.
In via di prima approssimazione, può ritenersi che l’evento dedotto in
condizione nel contratto del 1982 sia costituito dall’approvazione del Piano
Particolareggiato approvato dal Comune di Tivoli in data 30 novembre
2005 (21). Tuttavia, al verificarsi dell’evento, le parti non subordinano il
diritto la valutazione di fatto compiuta dalla Corte d’appello, che ha ritenuto, nel caso esaminato, la sussistenza di un contratto preliminare di permuta di cosa presente (area) con cosa
futura (unità del fabbricato da costruire). Infatti, « le parti avevano voluto realizzare il sinallagma tra due prestazioni di dare, giacché quella di fare... era soltanto secondaria e preparatoria dello scambio reciproco tra gli immobili, e che il versamento del denaro, previsto nella
stessa scrittura, aveva il solo scopo di ristabilire l’equilibrio tra le prestazioni, eventualmente
alterato dal maggior valore delle unità immobiliari rispetto a quello del terreno ». Pertanto,
« le prestazioni dovevano essere valutate in modo unitario, cioè in una sola fattispecie negoziale traslativa, sostanziata dal consenso alla produzione dell’effetto reale », mentre le espressioni adoperate nella scrittura privata ed, in particolare, lo specifico riferimento contrattuale,
non erano da sole sufficienti a fare qualificare il contratto come appalto, né a tale conclusione
poteva indurre la clausola con cui si era stabilita la revisione del conguaglio in denaro, sia
perché questa è applicabile anche ad altri contratti, sia perché, nel caso in esame, l’adeguamento riguardava il costo dei materiali e non, come in tema d’appalto, anche quello della
manodopera.
(20) BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, rist. II ed., Napoli, 2002, 527.
(21) In realtà, anche la natura di condizione dell’evento in questione è stata oggetto
di uno specifico ed approfondito accertamento da parte del Collegio giudicante, il quale ha
escluso di poter qualificare come presupposizione l’evento previsto, in considerazione dell’espresso riferimento all’approvazione del Piano Particolareggiato, contenuto nel contratto.
Essendo la presupposizione eine unentwickelte bedingung (una condizione non sviluppata)
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trasferimento della proprietà del bene, ma la stipulazione di un futuro contratto con il quale si « contemplerà il trasferimento di quanto promesso ».
Si tratta, quindi, di un contratto preliminare sospensivamente condizionato
all’approvazione, secondo determinate modalità, del Piano Particolareggiato da parte del Comune di Tivoli, con l’evidente conseguenza che anche
la possibilità di ottenere una sentenza costitutiva che produca gli effetti del
contratto non concluso, ai sensi dell’art. 2932 c.c., è subordinata al verificarsi dell’evento dedotto in condizione (22).
Nel caso di specie, malgrado le parti non facciano espresso riferimento ad una condizione o agli artt. 1353 ss. c.c., il « programma negoziale
divisato dalle parti non prevede alcun effetto immediatamente dispositivo » (23), ma risulta collegato al verificarsi di un evento futuro e incerto cui
è subordinata l’efficacia del contratto preliminare (24), in assenza, tuttavia,
ovvero una circostanza esterna al contratto che senza essere prevista quale condizione del
contratto ne costituisca un presupposto oggettivo (C.M. BIANCA, Diritto civile, 3. Il contratto,
cit., 463), la stessa non è configurabile nell’ipotesi in cui le parti abbiano fatto espresso riferimento a tale evento, come si riscontra nel contratto del 23 ottobre 1982. Sottolinea, a
questo proposito, la giurisprudenza, Cass., Sez. III, 24 marzo 2006, n. 6631, in Contratti: riv.
di dottrina e giurisprudenza, 2006, f. 12, 1085, con nota di AMBROSOLI, La presupposizione
in due recenti pronunce della Suprema Corte, che, in tema di rapporti giuridici sorti da contratto, la presupposizione deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato,
ad una particolare forma di condizione, da considerarsi implicita e, comunque, certamente
non espressa nel contenuto del contratto e, dall’altro, alla stessa causa del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo
rilievo resta dunque affidato all’interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del contratto stipulato. Può, pertanto, ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una
situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo
tale che l’assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l’operazione negoziale, cosı̀ da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell’art. 1467 c.c.
(22) Nel caso oggetto del lodo in commento, l’impossibilità è stata, comunque, evidenziata in considerazione dell’indeterminatezza e indeterminabilità dell’area oggetto del trasferimento.
(23) In questi termini si esprime il Collegio Arbitrale (p. 26 del lodo), evidenziando
che l’accertamento relativo alla sussistenza della condizione è indipendente dalla terminologia utilizzata nel contratto.
(24) La relazione tra fattispecie ed effetto giuridico è ben sottolineata in AA.VV.,
Dieci lezioni introduttive a un corso di diritto privato, cit., 144, ove si rileva che « l’effetto
giuridico... si svolge in una relazione temporale con il fatto che lo determina: accaduto il
fatto, segue l’effetto descritto dalla norma giuridica ». Il punto di partenza di tale opinione è
che la norma possa essere configurata come il motore degli effetti giuridici, « nella dimensione temporale, l’effetto è, di necessità, posto in un momento logicamente, se non cronologicamente, successivo al fatto cui è ricondotto ». Tale rapporto temporale si può evidenziare
in modo chiaro nell’ipotesi del contratto sottoposto a condizione sospensiva, in cui « l’effetto,
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di indicazione di alcun limite temporale entro il quale la condizione sospensiva avrebbe dovuto avverarsi (25). La valutazione in merito all’avveramento o meno dell’evento è stata sviluppata su un duplice binario da parte
del Collegio Arbitrale, in conformità con i prevalenti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul punto.
Da un lato, si è valutato se l’approvazione del Piano Particolareggiato
del Comune di Tivoli del 2005 costituisse atto idoneo a ritenere avverata la
condizione (26), dall’altro, si è considerato il ruolo da attribuire al decorso
del tempo al fine di considerare suscettibile di avveramento o meno la condizione stessa, sia al momento dell’approvazione del Piano Particolareggiato, sia successivamente all’approvazione dello stesso.
se si produce, si produce a distanza di tempo rispetto al fatto originario, pur restando con
questo in relazione eziologica ».
I rapporti tra condizione, atto ed effetto sono puntualizzati da FALZEA, La condizione
e gli elementi dell’atto giuridico, rist. Camerino, 1979, 177 ss., secondo il quale « la condizione opera non direttamente sulla struttura dell’atto o sulla struttura dell’effetto, sibbene sui
rapporti che collegano l’atto all’effetto ». Secondo CATAUDELLA, I contratti, parte generale,
Torino, 2000, 119, la condizione rientra nella categoria caratterizzata dalla previsione pattizia dell’incidenza sull’efficacia del contratto di un evento o di un non evento, esterno. Rileva
BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 507, che il negozio condizionale appartiene
alla categoria dei negozi in relazione ai quali sono differiti i soli effetti (negozio a fattispecie complessa); SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile9, rist., Napoli, 2002,
195. Secondo OPPO, Note sull’istituzione di non concepiti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948,
86 s., si tratterebbe di un negozio a formazione successiva.
(25) Con il termine condizione si suole indicare indifferentemente sia la clausola
condizionale inserita nel negozio, attraverso la quale le parti subordinano l’efficacia o la risoluzione di questo a un evento futuro e incerto, sia l’evento in essa dedotto per farne dipendere la produzione o la risoluzione degli effetti del negozio (SACCO, DE NOVA, Il contratto, in
Tratt. Dir. Civ., dir. da R. Sacco, Torino, 1993, t. II, 139; PUGLIATTI, I fatti giuridici, cit., 119).
Risulta evidente che, quantomeno sul piano logico, una cosa è la clausola condizionale, altra cosa è l’evento futuro e incerto in essa contemplato. Tale profilo risulta di notevole importanza anche per differenziare la prova dell’avveramento dell’evento futuro e incerto, dalla
prova della sussistenza della clausola condizionale, all’interno di un contratto formale. Sul
punto si veda SPATARO, La prova dell’avveramento della condizione apposta a un contratto
a forma vincolata è libera, in Contratti, 2000, 11, 990 ss., secondo cui se il contratto deve
rivestire la forma scritta ad substantiam, anche la condizione, da intendersi quale clausola
condizionale, deve essere pattuita per iscritto. Poiché la forma per la validità del negozio è
anche la forma per la prova, ne discende che la prova dell’esistenza o del contenuto della
clausola condizionale inserita in un contratto, per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, dovrà essere data necessariamente per iscritto, mentre tali limiti probatori non si
applicano in relazione alla prova dell’avveramento dell’evento futuro e incerto dedotto in
condizione, per il quale la prova deve ritenersi libera anche se inserito in un contratto per il
quale è richiesta la forma scritta ad substantiam.
(26) Più precisamente, la condizione individuata dal Collegio (p. 34) è costituita dall’approvazione di un Piano Particolareggiato che consentisse senz’altro ed immediatamente,
sulla base del solo progetto relativo al fabbricato da edificare e del rilascio di corrispondente
concessione edilizia, la realizzazione di un nuovo edificio sull’area oggetto del trasferimento.
Sul punto, si veda infra.
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In relazione al primo punto, l’evento può dirsi realizzato se, in base
ad una valutazione pratica, sussiste corrispondenza tra l’evento reale e
l’evento previsto. Il procedimento diretto ad accertare l’avveramento o
meno dell’evento dedotto nella clausola condizionale può assumere un
certo grado di complessità.
La prima fase del procedimento in questione ha carattere interpretativo, consistendo nell’accertamento del contenuto delle clausole contrattuali
relative all’evento condizionante l’efficacia o la risoluzione del contratto. In
tale fase preliminare, l’interprete deve valutare quale sia l’evento cui le
parti hanno fatto riferimento all’interno del contratto, cioè quale sia
l’evento previsto dai contraenti.
Il secondo profilo, di fatto, consiste nell’accertamento relativo all’evento reale, nel qual caso può essere determinante il ruolo assunto da un
ausiliario tecnico al fine di individuare il fatto concretamente verificatosi
nella realtà (27).
La terza fase del procedimento logico in esame richiede una valutazione di corrispondenza dell’evento previsto con quello, in concreto, verificatosi. Eventuali inesattezze o difformità non sono sufficienti ad escludere
automaticamente la corrispondenza, salvo che siano talmente gravi da alterare il significato socio-economico dell’evento (28). La valutazione relativa
(27) Nel procedimento definito con il lodo arbitrale in commento lo svolgimento
dell’accertamento tecnico è risultato necessario al fine di valutare lo stato dei luoghi in seguito all’approvazione del Piano Particolareggiato da parte del Comune di Tivoli. L’accertamento in questione ha evidenziato che, al fine di poter eseguire le opere indicate nell’ambito
del contratto nel 1982, quindi, della demolizione delle precedenti opere e della costruzione
di nuove opere, risultava necessario « o il consenso dei proprietari interessati o, in mancanza
di esso, il ricorso da parte di alcuni di essi, costituenti almeno i tre quarti del valore, all’istituto del comparto » (p. 33 del lodo). La conseguenza è che sul terreno su cui insiste il
complesso immobiliare in questione « la realizzazione di un nuovo edificio oggi è possibile
in astratto anche sulla sola area in questione, ma non indipendentemente da interventi edificatori sulle aree limitrofe, e non è possibile anche senza il consenso di terzi proprietari di
altre aree, in quanto questi debbono aderire alla progettazione d’insieme » (p. 34). Ma sul
punto si veda infra.
(28) In questo senso, si veda, C.M. BIANCA, op. ult. cit., 557 s. Rileva BETTI, Teoria
generale del negozio giuridico, cit., 527, che per considerarsi avverato l’evento occorre
un’esatta corrispondenza tra il fatto e la previsione contenuta nel negozio. Osserva LOMO2
NACO, Delle obbligazioni e dei contratti in genere , I, Napoli-Torino, 1912, 343 ss., che nel
diritto romano, si poteva considerare avverata una condizione solo in ipotesi di rigorosa conformazione dell’evento ai termini degli atti che lo contengono, « si deve consultare il contratto...ed attenersi a quanto esso prescrive circa il tempo, il modo e le circostanze dello
adempimento delle condizioni. Queste si debbono adempiere in forma specifica, non per
equipollente ». Tuttavia, precisa l’A. che, in seguito all’influenza del Code Napoleon, tale rigida conformazione non deve ritenersi più necessaria con il Codice civile del 1865, il cui art.
1166, richiedeva che qualsiasi condizione deve essere adempiuta nel modo « verisimilmente
voluto ed inteso dalle parti », con la conseguente esigenza di indagare la comune intenzione
delle parti al fine di valutare se l’evento reale corrisponda all’evento voluto. Conclude,
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alla gravità delle alterazioni consiste in un accertamento di fatto (29), la cui
individuazione è rimessa all’interprete, fermo restando che non può ritenersi avverata una condizione in cui solo alcuni degli eventi dedotti si siano
realizzati o in cui sia necessario il consenso di soggetti terzi, diversi dai
contraenti — nei quali casi non può dirsi cessata la situazione di pendenza —.
La prima fase del procedimento consiste, quindi, nell’accertamento
dell’evento dedotto quale condizione del contratto. Tale accertamento presuppone un’attività interpretativa delle clausole contrattuali, in conformità
con i canoni ermeneutici predisposti dal legislatore ed, in particolare, della
comune intenzione delle parti, di cui all’art. 1362 c.c.
L’individuazione dell’evento dedotto dalle parti ed il conseguente accertamento diretto alla verifica della corrispondenza tra evento previsto ed
evento verificato richiedono un esame dell’assetto di interessi previsto dai
contraenti. Pertanto, dall’esame della comune intenzione delle parti e dall’utilizzazione dei vari criteri ermeneutici, può ritenersi non avverata la
condizione, qualora l’assetto di interessi voluto dalle parti non si sia in
concreto realizzato con l’evento reale.
Un esempio può chiarire la situazione rappresentata. Due contraenti
subordinano l’efficacia di un contratto di vendita di vestiti di seta per le figlie dell’acquirente, all’evento futuro ed incerto dell’arrivo della nave dall’India. Le parti non stabiliscono nel contratto che la nave deve giungere
presso il porto con i vestiti di seta per le figlie dell’acquirente, né individuano un termine di avveramento della condizione. La nave arriva dall’India dopo trent’anni.
quindi, l’A. che le condizioni devono essere adempiute, « ordinariamente e per regola generale », in forma specifica, ma possono anche essere adempiute per equivalenti quando è verosimile che tale sia stata l’intenzione delle parti. Osserva, BENEDETTI, La condizione e il termine, in AA.VV., Il nuovo contratto, Bologna, 2007, 731, che l’evento condizionale deve avverarsi secondo le modalità previste nella clausola contrattuale e non è consentito al giudice
di ritenere avverato o meno un evento qualitativamente diverso da quello prefigurato dalle
parti contraenti.
In relazione all’onere della prova, relativo all’avveramento o meno della condizione,
in applicazione dei principi generali ricavabili dall’art. 2697 c.c., lo stesso grava a carico
della parte che assume l’avveramento o il non avveramento dell’evento quale presupposto
della sua azione.
(29) Sul punto, Cass., 17 novembre 1977, n. 5028, in Foro it., 1978, 1, 2017, precisa
che l’accertamento del giudice circa l’effettiva portata della condizione apposta ad un contratto costituisce un giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se condotta senza
violazione delle norme sull’interpretazione del contratto ed adeguatamente motivata. La
Corte di Cassazione ha, inoltre, precisato che non è suscettibile di esecuzione in forma specifica il preliminare di vendita di un immobile da costruire, se la cosa non viene ad esistenza
con le precise caratteristiche previste nel contratto, nella specie è stata valutata non sussistente la suddetta corrispondenza a causa del mutamento del progetto, conseguente al diniego
della licenza edilizia per il progetto primitivo.
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La condizione non può ritenersi avverata. Le parti non hanno pattuito
alcun termine per l’avveramento dell’evento futuro e incerto e non hanno
indicato in modo espresso che il contratto debba ritenersi concluso al momento in cui la nave arriverà dall’India con i vestiti di seta per le figlie del
contraente. Tuttavia, il procedimento diretto a verificare l’evento dedotto in
condizione e, quindi, il successivo accertamento diretto alla verifica della
corrispondenza tra l’evento previsto e l’evento realizzato non può essere limitato all’analisi della sola clausola condizionale, ma richiede un’analisi
complessiva del testo e del contesto contrattuale al fine di accertare il contenuto della clausola condizionale, in relazione al concreto assetto di interessi voluto dalle parti. Pertanto, il senso letterale delle parole riveste sicuramente un ruolo di primaria importanza per accertare il significato della
forma espressiva utilizzata dai contraenti, ma tale canone interpretativo
deve essere coordinato ed integrato anche dagli ulteriori strumenti ermeneutici predisposti dal legislatore ed, in particolare, dal criterio sistematico,
di cui all’art. 1363 c.c., e dal criterio della comune intenzione delle parti (30).
Applicando tali osservazioni al caso deciso dal Collegio Arbitrale,
deve concludersi, anche in questa ipotesi, che l’evento dedotto quale condizione del contratto del 1982 non sia rappresentato dalla mera approvazione del Piano Particolareggiato da parte del Comune di Tivoli nel 2005,
non essendo questo l’assetto di interessi cui le parti hanno subordinato l’efficacia del suddetto contratto. Infatti, il Collegio Arbitrale, interpretando il
contratto e risalendo alla comune intenzione delle parti, ha precisamente ritenuto che le stesse « abbiano inteso subordinare la conclusione del contratto definitivo alla approvazione di un Piano Particolareggiato che consentisse senz’altro ed immediatamente, sulla base del solo “progetto relativo al fabbricato da edificare” e del rilascio di una corrispondente concessione edilizia, la realizzazione di un nuovo edificio sull’area oggetto del
(30) Tale conclusione risulta compatibile sia con l’orientamento per il quale la comune intenzione delle parti costituirebbe lo scopo dell’attività ermeneutica (tra gli altri, C.
SCOGNAMIGLIO, L’interpretazione, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, I contratti
in generale, II, a cura di E. Gabrielli, Torino, 1999, 928; OPPO, Profili dell’interpretazione
oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943, 6; MOSCO, Principi sull’interpretazione dei
negozi giuridici, Napoli, 1952, 20 ss.; GRASSETTI, Interpretazione dei negozi giuridici « inter
vivos » (diritto civile), in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 906; V. RIZZO, interpretazione
dei contratti e relatività delle sue regole, Napoli, 1985, 168 ss.), che con l’orientamento che
indica la comune intenzione delle parti come uno strumento per individuare il significato
dell’accordo contrattuale (tra gli altri, IRTI, Testo e contesto, una lettura dell’art. 1362 codice
civile, Padova, 1996, passim; BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 324 ss.; COSTANZA, Profili dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, Milano, 1989, 11; GENOVESE, L’interpretazione del contratto standard, Milano, 2008, 49) e, quindi, uno strumento
di selezione della polisemia del testo contrattuale.
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trasferimento » (31). L’individuazione dell’evento previsto dalle parti richiede un complesso procedimento ermeneutico che sia fondato sulla complessiva analisi del testo contrattuale e sull’utilizzo dei vari criteri interpretativi predisposti dal legislatore.
L’evento in concreto verificatosi e, cioè, l’approvazione del Piano
Particolareggiato del 2005, come ha precisato il consulente tecnico, non
consentiva di realizzare immediatamente un nuovo edificio, ma subordinava tale possibilità a due ulteriori eventi alternativi. In particolare, per la
realizzazione di un intervento edificatorio, anche limitato ad una delle aree,
era necessaria la realizzazione di un progetto di insieme per l’edificazione
di tutta l’area di trasformazione, la cui predisposizione richiedeva l’accordo
fra tutti i proprietari dell’area in questione, con la conseguenza che la realizzazione di un nuovo edificio non era possibile indipendentemente da interventi edificatori sulle aree limitrofe, quantomeno in relazione al profilo
progettuale. In alternativa, in mancanza di accordo tra tutti i proprietari
dell’area per la realizzazione del progetto di insieme, la realizzazione dell’opera sarebbe stata possibile mediante la formazione di un comparto, che
richiedeva, tuttavia, il consenso di proprietari che rappresentassero almeno
i tre quarti dell’area (32).
Dal confronto tra l’evento dedotto dalle parti quale condizione del
contratto e l’evento in concreto realizzatosi il Collegio Arbitrale ha ritenuto
che « il fatto... che si è verificato non corrisponde al fatto che le parti avevano dedotto come condizione » (33).
Il complesso procedimento diretto al suddetto accertamento svolto dal
Collegio Arbitrale in modo articolato e puntuale, non può che ritenersi pienamente condivisibile, non essendosi verificato l’evento dedotto dalle parti
quale condizione del contratto del 1982 (34). Infatti, l’assetto di interessi
voluto dalle parti e disciplinato con il contratto del 1982 non prevedeva
l’articolata serie di eventi prevista dalla nuova disciplina normativa del territorio realizzata con il Piano Particolareggiato del Comune di Tivoli del
2005. Il contratto non faceva riferimento né in alcun modo prevedeva pre-
(31) In questi termini, p. 34 del lodo arbitrale in commento.
(32) In questo senso, si esprime il c.t.u. (p. 32 ss. del lodo arbitrale), il quale precisa
che per la redazione del progetto e, quindi, per la realizzazione di un intervento edificatorio
era necessario o il consenso dei proprietari interessati o, in mancanza di esso, il ricorso, da
parte di alcuni di essi costituenti almeno i tre quarti del valore, all’istituto del comparto.
(33) P. 35 del lodo.
(34) Come già rilevato, la mera approvazione del Piano Particolareggiato non consente
di ritenere avverata la condizione sospensiva dedotta, in quanto non vi è corrispondenza tra
l’evento verificatosi e quello previsto nel contratto, dovendosi ritenere che « i contraenti abbiano
inteso subordinare la conclusione del contratto definitivo alla approvazione di un Piano Particolareggiato che consentisse senz’altro ed immediatamente, sulla base del solo « progetto relativo
al fabbricato da edificare » e del rilascio di una corrispondente concessione edilizia, la realizzazione di un nuovo edificio sull’area del trasferimento » (p. 34 del lodo).
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scrizioni planivolumetriche, la necessità di richiedere il consenso di terzi
confinanti per la redazione del progetto unitario, le conseguenze di un rifiuto da parte di uno o più dei suddetti proprietari, la necessità o la possibilità di predisporre comparti edificatori, con l’ipotesi di espropriazione
delle aree dei proprietari non aderenti al consorzio.
La corrispondenza dell’evento previsto con quello verificato non può ritenersi automaticamente esclusa in base alla sussistenza di alcune inesattezze
o difformità tra gli stessi. Tuttavia, non vi è corrispondenza tra le previsioni
contrattuali e l’evento verificato se quest’ultimo non corrisponde all’assetto di
interessi voluto dalle parti, circostanza da escludere nel caso di specie, in cui
le parti hanno subordinato l’efficacia del contratto all’approvazione di uno
strumento urbanistico che consentisse senz’altro ed immediatamente la realizzazione di un nuovo edificio sull’area oggetto del trasferimento.
La condizione può dirsi mancata, condicio deficit o deest, quando vi
sia certezza che l’evento, che ne forma l’oggetto, non si è verificato o non
si verificherà, mentre non vi è tale certezza qualora vi siano circostanze che
ne rendano solo dubbio il verificarsi (35). Nel caso in cui l’evento non si
verifichi, il contratto è da ritenersi definitivamente inefficace (36), actus
conditionalis, defecta conditione, nihil est. Tuttavia, nel caso in esame, le
condizioni di fatto venutesi a creare con l’approvazione del Piano Particolareggiato non consentono di ritenere, in astratto, che vi sia certezza in merito alla non verificabilità dell’evento, teoricamente ancora possibile (37).
(35) In questo senso, già, Cass., 10 febbraio 1944, in Rep. Foro it., 1944, voce Obbl.
e contr., n. 173. Rileva BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 503, che la pendenza del precetto di autonomia privata perdura fino a quando sussiste la possibilità che
l’evento si avveri, mentre cessa nel momento in cui esso si avvera oppure manchi oppure sia
certo che non si possa più avverare.
(36) Di particolare interesse, risulta al riguardo la figura dell’impossibilità sopravvenuta,
anche se non inerente il caso esaminato dal Collegio. Il riferimento alla condizione impossibile
è contenuto nell’art. 1354 c.c., ma in dottrina non è stato attribuito un significato univoco al
suddetto attributo che sarebbe da intendersi: secondo alcuni, come qualità necessariamente soggettiva ed assoluta (FALZEA, Condizione (dir. priv.), in Enc. giur., VIII, Roma, 1988, 7; MIRABELLI,
Dei contratti in generale, in Comm. c.c., IV, 2, Torino, 1980, 231); secondo altri, come soggettiva e relativa (CARRESI, Il contratto, cit., 1987, 258); per altri ancora, come sinonimo di improbabile; per altri, situazioni oggettive, pur se relative (COSTANZA, op. ult. cit., 954, in modo coerente con l’interpretazione dell’attributo anche in altre disposizioni del Codice civile, « l’oggetto
del contratto impossibile non già in assoluto, ma in ragione delle specifiche condizioni degli stipulanti. Analogamente la condizione è considerata impossibile e, come tale idonea a determinare
la liberazione dell’obbligato, in ragione della sua situazione soggettiva, non già in base ad un
giudizio astratto »). In ipotesi di impossibilità sopravvenuta dell’evento cui le parti subordinano
l’efficacia del contratto (condizione sospensiva), non è applicabile l’art. 1354 c.c., traducendosi
l’impossibilità sopravvenuta nel mancato verificarsi dell’evento dedotto in condizione, con la
conseguenza che il contratto deve ritenersi definitivamente inefficace.
(37) Fermo restando che non può ritenersi verificato con l’approvazione del Piano
Particolareggiato del 2005.
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5. In base alle osservazioni svolte, la mancata corrispondenza dell’evento reale con quello descritto nella clausola condizionale, non determina necessariamente la definitiva inefficacia del contratto. A tal fine, occorre procedere ad un ulteriore accertamento diretto a verificare se debba
ritenersi persistente lo stato di pendenza della condizione ovvero il contratto debba ritenersi definitivamente inefficace. La soluzione di tale ulteriore quesito richiede di svolgere alcune riflessioni sul rapporto tra termine
e condizione, puntualmente svolte dal Collegio, all’esito delle quali ha dichiarato il contratto definitivamente inefficace.
Il rapporto tra termine e condizione è stato variamente affrontato da
dottrina e giurisprudenza. In linea teorica, il collegamento della condizione
ad un termine (38), « termine della condizione » (39), rientra nella generalità
delle ipotesi, volendo le parti evitare che l’incertezza dell’evento si protragga per un tempo non specificamente determinato o troppo a lungo (40).
Nel caso in cui il termine non sia espresso o non possa ricavarsi automaticamente dall’evento dedotto in condizione, si pone il problema relativo alla
regola giuridica da applicare.
Secondo un orientamento, sarebbe, nel caso di specie, applicabile
(38) Osserva CARUSI, Condizione e termini, in Trattato del contratto, diretto da V.
Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, Milano, 2006, 280 ss., che il termine di avveramento
dell’evento fissato dalle parti non può essere qualificato né come termine di adempimento né
come termine di efficacia del contratto. Il termine in questo caso deve essere inteso come « una
particolare modalità della clausola condizionale » e come « limite alla rilevanza dell’evento ».
(39) Interessante risulta la distinzione svolta da LOMONACO, op. ult. cit., 345 ss., tra
termine della condizione e termine della disposizione. L’adempimento della condizione non
è sempre sufficiente per rendere l’obbligazione esigibile, qualora risulti dall’atto che il termine sia stato apposto sia alla condizione che alla disposizione. In questo caso, l’avveramento della condizione, prima dello spirare del termine fissato, determina il sorgere dell’obbligazione, ma non la rende esigibile (l’esempio indicato dall’A. è il seguente « fra tre mesi,
se mi darete il vostro orologio, io vi darò 500 lire », in questo caso l’esigibilità dell’adempimento richiede il decorso del termine dei tre mesi; diversamente « se la nave arriva di qui
a tre mesi, voi mi darete 5.000 lire », il termine è posto all’avveramento dell’evento dedotto
in condizione e non alla disposizione).
In relazione ai vari significati della figura giuridica del termine si veda, PROTO, Termine essenziale e adempimento tardivo, Milano, 2004, 18 ss., In particolare, osserva puntualmente l’A., dopo aver qualificato il termine come « modalità cronologica di un fatto giuridico », che « la modalità temporale... può caratterizzare l’elemento costitutivo di una fattispecie che, ove sprovvista del termine, risulterebbe imperfetta; ovvero l’elemento necessario
dell’efficacia di una fattispecie di per sé strutturalmente perfetta ».
(40) Le parti possono fissare un termine per il verificarsi dell’evento dedotto in condizione, sia al momento della stipulazione del contratto, sia successivamente, in attesa dell’avveramento o meno della condizione. Cfr., Cass., Sez. III, 12 gennaio 2006, n. 419, in
Guida dir., 2006, 11, 85, secondo cui, nel caso in cui una condizione sia costituita da un
evento incerto sia nell’an che nel quando, le parti possono concordare un limite temporale
riguardo al suo verificarsi, per non lasciare indefinitamente nell’incertezza l’efficacia del
contratto, e sono abilitate a porre tale limite nell’interesse esclusivo di una di esse, nonché a
rinunciare a farlo valere, anche con comportamenti concludenti.
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l’art. 1183 c.c., il cui primo comma, in relazione al tempo dell’adempimento, stabilisce che « qualora, tuttavia, in virtù degli usi o per la natura
della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione, sia necessario un termine, questo, in mancanza di accordo delle parti, è stabilito dal
giudice ». La soluzione favorevole alla fissazione giudiziale del termine di
avveramento della condizione sembra giustificata dall’esigenza di delimitare la durata del vincolo contrattuale (41). Tuttavia, la tesi prevalente è
propensa a ritenere non applicabile al caso in esame l’art. 1183 c.c., preferendo per lo più procedere ad un esame rapportato alla possibilità dell’evento o ancora procedendo ad un’interpretazione del testo contrattuale,
nel quale ultimo caso, la polisemia del testo linguistico può trovare adeguati strumenti di risoluzione nei criteri di interpretazione del contratto
predisposti dal legislatore ed, in particolare, negli artt. 1366 e 1368 c.c. (42).
L’orientamento giurisprudenziale prevalente è propenso a non ritenere
applicabile l’art. 1183 c.c., trattandosi di situazione ontologicamente e teleologicamente distinta da quella relativa al termine della condizione, con
la conseguenza di dover attendere l’avveramento della condizione fino a
quando l’evento sia concretamente possibile (43). Si potrebbe, pertanto, ipotizzare la presenza di un obbligo a tempo indeterminato a carico delle parti (44), ma, più spesso, la giurisprudenza ritiene di far riferimento alla decorrenza di un termine ragionevole entro il quale l’avvenimento previsto
dalle parti si sarebbe dovuto verificare, decorso il quale il contratto deve ri-
(41) In particolare, sottolinea PECCENINI, La condizione nei contratti, Padova, 1995,
220, che la prefissione giudiziale del termine può servire per risolvere alcuni casi in cui la
condizione sia regolata in modo da durare all’infinito, ma non tutti. Nelle altre ipotesi, sarà
compito dell’interprete, non solo ricorrere all’applicazione analogica delle norme cogenti sul
termine in materia di vendita con patto di riscatto, ma considerare, altresı̀, tutte le pendenze
che comportano un’eccessiva paralisi della libertà delle parti contrarie ai principi di ordine
pubblico.
(42) In questo senso, in particolare, COSTANZA, La condizione e gli altri elementi accidentali, in I contratti in generale, a cura di Enrico Gabrielli, t. II, Torino, 2006, 940.
(43) Cosı̀ Cass., 26 luglio 1974, n. 2267, in Rep. Foro it., 1974, voce contratto in genere, n. 159, 509, secondo cui, nel caso in cui in un contratto sottoposto a condizione « non
sia stato posto un termine nella stessa dichiarazione o non risulti altrimenti dalla natura del
negozio, si deve attendere l’avveramento della condizione finché l’evento sia concretamente
possibile, senza che si possa far ricorso al giudice, ai sensi degli artt. 481, 1183 e 1331,
comma 2 c.c., trattandosi in questi casi di situazioni ontologicamente e teleologicamente distinte ».
(44) Cass., 24 aprile 1974, n. 1183, in Giur. it., 1975, I, 1, 944. Secondo App. Napoli, 30 dicembre 1968, n. 2798, in Dir. Giur., 1970, 282, in presenza di una condizione sospensiva, per il cui avveramento non è fissato alcun termine, deve riconoscersi ad un successivo accordo tra le parti o, in mancanza, al giudice il potere di stabilire detto termine, a meno
che non risulti inequivocabilmente che le parti stesse abbiano inteso obbligarsi per un tempo
assolutamente indeterminato.
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tenersi definitivamente inefficace (45). La mancata previsione di un termine
finale di avveramento in relazione ad una condizione sospensiva apposta ad
(45) In questo senso, Cass., 27 dicembre 1994, n. 11195, in Rep. Foro it., 1994, contratto in genere, n. 317; Cass., 16 dicembre 1991, n. 13519, in Giust. civ., 1992, I, 3095;
Cass., 7 giugno 1974, n. 1713, in Giur. it., 1975, I, 1, 477, secondo cui in caso di mancata
fissazione del termine di avveramento della condizione, può essere ottenuta la dichiarazione
giudiziale di inefficacia del contratto stesso per mancato avveramento della condizione, senza
che ricorra l’esigenza della previa fissazione di un termine da parte del giudice, ai sensi dell’art. 1183 c.c., « quando lo stesso ritenga essere trascorso un lasso di tempo congruo entro
il quale l’avvenimento previsto dalle parti si sarebbe dovuto verificare ». La soluzione, in sostanza, accolta dalla giurisprudenza sembra essere nel senso che non si sia in presenza di un
vincolo a tempo indeterminato in ipotesi di mancata fissazione del termine della condizione,
con la conseguenza che si possa ottenere la dichiarazione giudiziale di inefficacia del contratto per il mancato avveramento della condizione sospensiva o per l’avveramento di quella
risolutiva senza la previa fissazione di un termine da parte del giudice, qualora si ritenga trascorso un lasso di tempo congruo entro il quale l’avvenimento previsto dalle parti si sarebbe
dovuto verificare. La soluzione adottata, non contemplando la possibilità della previa fissazione di un termine da parte del giudice, si discosta dalla disciplina del termine di adempimento, il che sembrerebbe avallare la tesi secondo cui il termine è un elemento interno alla
clausola condizionale che necessariamente conterrebbe un elemento temporale, esplicitato
dalle parti o implicito, non essendo pensabile una condizione posta a tempo indeterminato.
Diverse sono le teorie adottate nel caso in cui sia fissato un termine per l’avveramento
dedotto in condizione. Una prima teoria ritiene che la clausola condizionale in cui è indicato
un termine di scadenza per l’avveramento dell’evento dedotto sia una condizione vera e propria e il termine sia un elemento della condizione stessa. Secondo un altro orientamento, tale
clausola conterrebbe solo un termine di efficacia, in base alla distinzione tra termini che limitano l’efficacia del negozio e termini che ineriscono alla mera esecuzione del negozio, disciplinando il tempo della prestazione. Ai termini del primo tipo si applica per analogia la
disciplina della condizione, i termini del secondo tipo sono disciplinati dall’art. 1183 ss. c.c.
Secondo un altro orientamento, tale clausola sarebbe una clausola mista in cui il mancato avverarsi dell’evento dedotto nel termine determina l’inefficacia dell’atto con la conseguente irretroattività degli effetti nel caso di mancato verificarsi della condizione a causa della scadenza temporale. Come osserva, MEZZOPANE, Approvazione di strumento urbanistico e condizione, in Contratti, 2005, 5, 450 ss., l’adozione di una piuttosto che di un’altra soluzione non
è indifferente, in quanto la disciplina della condizione e del termine sono differenti per diversi profili: il regime giuridico dell’adempimento; la costituzione in mora del debitore e la
disciplina della conseguente impossibilità sopravvenuta della prestazione; la disciplina dell’impossibilità sopravvenuta nei contratti con effetti traslativi o costitutivi nel caso di perimento della cosa per causa non imputabile all’alienante. Tutte le tesi esposte si fondano su
saldi presupposti, tuttavia la soluzione secondo cui il termine non è che un elemento temporale interno alla clausola condizionale dovrebbe essere preferita per ragioni di coerenza da
chi, criticando la tesi del doppio contratto o della doppia condizione in riferimento alla condizione unilaterale, ritiene preferibile considerare la condizione unilaterale una species del
genus condizione. Se le parti hanno inteso prevedere nel contratto una condizione, hanno voluto anche gli effetti giuridici derivanti da questa scelta, pertanto si trascenderebbe la volontà
originaria se si considerasse il termine un elemento autonomo in grado di imporre, nel caso
di scadenza, la propria disciplina a discapito di quella, in più punti divergente, della condizione.
In senso sostanzialmente conforme alla giurisprudenza, anche, C.M. BIANCA, Diritto
civile, 3. Il contratto, cit., 641, secondo cui « valida alternativa » all’applicazione dell’art.
1183 c.c. « è quella di riconoscere che la durata non può comunque protrarsi oltre un limite
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un contratto non postula che l’efficacia sospensiva della condizione debba
estendersi fino al momento in cui sia accertata l’assoluta impossibilità, oggettiva o soggettiva, dell’avveramento, dovendo, per converso, la valutazione di
tale impossibilità avvenire in termini concreti, con riferimento alla relativa
prevedibilità nel contesto storico, sociale ed ambientale del momento (46).
D’altra parte, la previsione di una condizione risolutiva o sospensiva
costituisce espressione dell’autonomia privata attraverso la quale le parti
definiscono l’efficacia spaziale e temporale del loro atto. Partendo da questa premessa, si può osservare (47) che la mancata indicazione di un termine
entro cui debba verificarsi l’evento dedotto in condizione non comporta necessariamente un vincolo a tempo indeterminato per le parti, in quanto può
implicitamente desumersi l’esistenza di un termine dalle esigenze di tutela
degli opposti interessi delle parti. Pertanto, nel caso in cui il rapporto giuridico sia sospensivamente condizionato al verificarsi di un evento senza
indicazione di un termine, il contratto deve considerarsi inefficace per mancato avveramento della condizione dal momento in cui è decorso il lasso di
tempo congruo entro il quale la condizione avrebbe dovuto avverarsi (48).
Tale soluzione è stata condivisibilmente accolta anche dal Collegio
Arbitrale, il quale, dopo aver verificato il mancato avveramento dell’evento
dedotto in condizione, ha considerato, in base ad un compiuto esame delle
clausole contrattuali (49), che il lasso di tempo congruo entro cui la condi-
ragionevole, trascorso il quale il vincolo contrattuale deve senz’altro considerarsi terminato ».
Diversamente, secondo, GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., 934, in difetto di pattuizione del termine della condizione, le parti possono adire il giudice, ma solo per il mancato
avveramento dell’evento dedotto in condizione sospensiva, sempre che un termine sia preteso dalla natura del contratto e deve ritenersi che la condizione non sia potestativa. Il giudice, secondo l’A., può, in questo caso, o fissare il termine entro il quale la condizione dovrà eventualmente avverarsi ovvero dichiarare che essa si deve intendere, in considerazione
del tempo trascorso, come non avverata; BENEDETTI, La condizione e il termine, cit., 726.
(46) Cass., Sez. I, 26 agosto 1998, n. 8493, in Giust. civ. Mass., 1998, 1784.
(47) In questo senso, COSTANZA, La condizione e gli altri elementi accidentali, cit.,
939 s.
(48) COSTANZA, op. ult. cit., 940, nota 22, la quale trae un ulteriore corollario da tale
soluzione, cioè che qualora la condizione dell’adempimento sia costituita dall’adempimento
dell’obbligazione principale di una parte, essa deve considerarsi non avverata nel momento
in cui la mora del soggetto obbligato abbia assunto il carattere di un inadempimento di non
scarsa importanza, che renda non più possibile l’adempimento dell’obbligazione, contro la
volontà del creditore.
(49) Il Collegio si è anche soffermato sull’argomentazione difensiva che individuava
il termine di avveramento dell’evento, come imminente. Fermo restando che il contratto non
prevede alcun termine entro il quale la condizione avrebbe dovuto avverarsi, tale termine non
può ritenersi imminente. In tal senso, depongono le clausole contrattuali, il comportamento
delle parti successivo alla stipulazione e lo stesso programma contrattuale, trattandosi di una
complessa operazione immobiliare « nella quale sarebbero dovuti intervenire atti amministrativi, sgomberi, demolizioni, e ricostruzioni ».
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zione si sarebbe dovuta verificare, dovesse essere ritenuto definitivamente
decorso, con la conseguente inefficacia definitiva del contratto in esame.
L’art. 1183 c.c. (50) è, invece, ritenuto applicabile dalla giurisprudenza
in ipotesi di termine, cosiddetto, cum voluerit, la cui determinazione è cioè
demandata alla volontà di una delle parti, mentre, in base alle conclusioni
esposte, non risulta applicabile alla condizione meramente potestativa. Differenziare (51) tra le due figure richiede un’interpretazione della volontà
delle parti, in applicazione dei criteri interpretativi codificati (52).
6. Il mancato avveramento dell’evento dedotto quale condizione del
contratto influisce anche sulle eventuali violazioni dell’art. 1358 c.c. poste
in essere dai contraenti. La norma in questione, rubricata « comportamento
(50) Qualora, nella stipulazione di un contratto, i contraenti abbiano correlato ad un
evento futuro non l’efficacia del vincolo, come accade nel caso del negozio condizionato, ma
solo il tempo dell’adempimento di una determinata prestazione, non sono invocabili i principi inerenti alla condizione, o al termine, quali elementi accidentali del negozio incidenti
sulla sua efficacia, e rimane applicabile la disciplina sul tempo dell’adempimento di cui agli
artt. 1183 ss. c.c., con la conseguenza che il termine per l’adempimento medesimo deve ritenersi maturato con il verificarsi dell’evento, che può essere costituito anche dalla prestazione della controparte ovvero dal compimento di determinate attività in suo favore. In questo senso, in particolare, Cass., Sez. III, 14 aprile 2000, n. 4853, in Giust. civ. Mass., 2000,
810.
(51) In tema di obbligazioni da contratto, il criterio distintivo tra termine e condizione va ravvisato nella certezza e nell’incertezza del verificarsi di un evento futuro che le
parti hanno previsto per l’assunzione di un obbligo o per l’adempimento di una prestazione.
Secondo, Cass., Sez. II, 22 marzo 2001, n. 4124, in Contratti, 2001, 10, 861, si riscontra termine quando detto evento futuro sia certo, anche se privo di una precisa collocazione cronologica, purché risulti connesso ad un fatto che si verificherà certamente e, come tale, può riguardare sia l’efficacia iniziale che quella finale di un negozio giuridico o di un’obbligazione
o di un credito di una parte. Nell’ipotesi di condizione, invece, si versa nell’incertezza dell’evento futuro dal cui verificarsi dipende il sorgere o il permanere dell’efficacia di un contratto o di un’obbligazione ad esso inerente.
(52) In questo senso, in particolare, Cass., Sez. II, 21 maggio 2007, n. 11774, in Rep.
Foro it., 2007, voce contratto in genere: elementi del contratto, n. 433, 988, secondo cui la
disciplina di cui all’art. 1183 c.c. è da ritenersi applicabile anche nell’ipotesi di apposizione
del termine cosiddetto cum voluerit, « la cui determinazione è demandata alla volontà di una
delle parti, e la distinzione tra detto termine e la condizione meramente potestativa costituisce questione che attiene all’interpretazione della volontà delle parti, in quanto il citato art.
1183 c.c. consente espressamente, senza differenziare tra volontà e mera volontà, che la fissazione del termine sia demandata ad un’autonoma statuizione di uno dei soggetti del rapporto obbligatorio ».
Sottolinea CATAUDELLA, op. ult. cit., 126, che la situazione in cui il termine iniziale sia
rimesso alla mera volontà dell’alienante o dell’obbligato sia raffrontabile a quella disciplinata
dall’art. 1355 c.c., in quanto anche in questa ipotesi si paleserebbe la mancanza di una seria
volontà di vincolarsi. Tuttavia, in considerazione della tassatività delle ipotesi di nullità e
dell’inapplicabilità dell’art. 1355 c.c. in via analogica, secondo l’A. non si potrebbe parlare
di termine, venendo meno la nota della certezza non solo con riguardo al quando, ma anche
con riferimento all’an.
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delle parti nello stato di pendenza », stabilisce un obbligo comportamentale
per i contraenti nella situazione di pendenza della condizione, disponendo
che gli stessi devono « comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte » (53).
Nel caso oggetto di esame da parte del Collegio, si tratta di un contratto preliminare sottoposto a condizione sospensiva, con la conseguenza
che il principale e primario obbligo, subordinato al verificarsi dell’evento
dedotto, è costituito dalla conclusione del contratto definitivo, per mezzo
del quale una parte si obbligava a trasferire all’altra un complesso immobiliare prestabilito. Il trasferimento di parte di tale complesso immobiliare
a terzi, salvo il disposto dell’art. 1357 c.c., comporta la violazione dell’obbligo derivante dall’art. 1358 c.c., in quanto si tratta di un atto traslativo di
un diritto, contrario agli obblighi di lealtà e salvaguardia identificabili nella
clausola di buona fede. Tale comportamento, pur essendo lesivo delle ragioni di controparte, risulta, tuttavia, inidoneo ad incidere sull’avveramento
o meno dell’evento dedotto in condizione, essendone estraneo.
Il trasferimento di parte del complesso immobiliare non incide in alcun modo sull’avveramento della condizione, costituito, nel caso esaminato
dal Collegio, dall’approvazione da parte del Comune di Tivoli del Piano
Particolareggiato. Pertanto, la condotta in questione non può farsi rientrare
nell’ambito applicativo dell’art. 1359 c.c. con la fictio iuris in esso prevista (54). L’applicabilità di quest’ultima disposizione richiede che la condotta
di uno dei contraenti, rectius, del contraente che aveva interesse contrario
all’avveramento della condizione, determini per causa a lui imputabile il
mancato avveramento della condizione stessa. La conseguenza prevista dall’ordinamento giuridico in tale circostanza è che la condizione si considera
come avverata, cioè la legge fa comunque determinare l’efficacia o la risoluzione del contratto collegate all’evento dedotto in condizione. Può, tuttavia, verificarsi che l’evento impeditivo della condizione abbia reso impossibile il contratto, nel qual caso deve ritenersi sussistente l’obbligo al risarcimento del danno per inadempimento contrattuale (55).
(53) La norma è ritenuta applicabile dalla giurisprudenza anche in ipotesi di condizione potestativa mista, in relazione all’attività di attuazione dell’elemento potestativo della
condizione mista. In questo senso, Cass., Sez. Un., 19 settembre 2005, n. 18450, in Foro it.,
2006, 9, I, 2386.
(54) Norma corrispondente all’art. 1359 c.c. del Codice civile vigente, si riscontra
all’art. 1168 c.c. del 1865 (espressione del brocardo quicumque sub conditione obligatus curavit ne conditio existeret, nihilominus obligatur). Secondo C.M. BIANCA, Diritto civile, 3. Il
contratto, cit., 556, più che di una finzione giuridica, si tratta di una vera e propria sanzione
conforme al principio secondo il quale l’autore di un illecito non può trarre dallo stesso effetti giuridici favorevoli.
(55) A tal proposito, rileva Cass., Sez. III, 2 giugno 1992, n. 6676, cit., che l’alienante di un bene sotto la condizione sospensiva del rilascio di determinate autorizzazioni
amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si
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Presupposto applicativo dell’art. 1359 c.c. è che il comportamento del
contraente abbia, in sostanza, inciso sulla condizione, determinandone il
mancato avveramento. L’art. 1358 c.c. viene ritenuto, generalmente, applicabile nelle ipotesi in cui si versi al di fuori dalla sfera di incidenza dell’art. 1359 c.c. e, quindi, nelle ipotesi in cui il comportamento del contraente non abbia inciso sul mancato avveramento dell’evento dedotto in
condizione (56). Il dovere di correttezza di cui all’art. 1358 c.c., obbliga, innanzitutto, le parti a non fare nulla che possa impedire l’avveramento della
condizione, ma, più in generale, a non porre in essere atti di disposizione
giuridica o di trasformazione economica incompatibili con il rapporto giuridico derivante dal verificarsi della condizione (57), non richiedendo, in
ogni caso, che il contraente debba adoperarsi attivamente perché la condizione si avveri (58).
propone, « ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di
siffatta condizione ». Pertanto, secondo la Suprema Corte, lo stesso deve rispondere delle
conseguenze dell’inadempimento di questa sua obbligazione contrattuale nei confronti dell’altra parte, la quale può chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni
conseguenti, « da accertare secondo il criterio della regolarità causale, che consente di riconoscere il danno nel caso in cui, avuto riguardo alla situazione di fatto esistente nel momento
in cui si è verificato l’inadempimento, debba ritenersi che la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo possibile il legittimo rilascio delle autorizzazioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile ».
(56) Le differenze tra le due disposizioni non si esauriscono a quelle indicate. In particolare, occorre rilevare che nell’art. 1358 c.c., il comportamento di buona fede cui deve attenersi il contraente è limitato ad un comportamento di buona fede diretto ad una mera conservazione delle ragioni della controparte, non comportando alcun obbligo di diligenza diretto a favorire l’avveramento della condizione (un obbligo diverso ed inferiore rispetto a
quello ricavabile dall’art. 1176 c.c.). Nel caso dell’art. 1359 c.c. rileva qualsiasi impedimento
imputabile a titolo di dolo o colpa della parte, con la conseguenza che non è sanzionata solo
la condotta contraria a buona fede, ma anche la condotta colposa secondo il criterio della
normale diligenza, « può dirsi allora che la parte è obbligata a rispettare l’aspettativa dell’altra parte mentre è tenuta secondo buona fede a salvaguardarla ». Osserva, COSTANZA, Condizione, termine e modo, in Il contratto in generale, Trattato di diritto privato, V, Torino, 2002,
234, che la tesi che riscuote più larghi consensi in relazione all’art. 1359 c.c. è quella che
collega la finzione di avveramento alla regola di correttezza contenuta nell’art. 1358 c.c., costituendo la prima una sanzione specifica della seconda. In questo senso, anche, PUGLIATTI, I
fatti giuridici, cit., 125. Sul rapporto tra le due norme si veda anche, PETRELLI, La condizione
elemento essenziale del negozio giuridico. Teoria generale e profili applicativi, Milano, 2000,
192 ss.
(57) In questo senso, BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 526. In termini più generici, osserva BENEDETTI, op. ult. cit., 746, che la buona fede assume nell’art.
1358 c.c. un contenuto essenzialmente negativo, come dovere di astenersi dal compiere atti
pregiudizievoli degli interessi degli altri contraenti.
(58) In questo senso, anche, BIGLIAZZI-GERI, Buona fede, in Dig. dir. priv., Sez. civ.,
X, I, Torino, 1987, 185. Diversamente, Cass., 22 marzo 1969, n. 926, in Giust. civ., 1969, I,
n. 1720, secondo la quale l’obbligo di buona fede imporrebbe alla parte, non solo di aste-
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Durante la fase della pendenza della condizione, si ritiene che il contraente possa, a date condizioni, ottenere la risoluzione del contratto, nel
caso in cui la violazione dell’obbligo giustifichi l’interesse dell’altra parte
a non rimanere ulteriormente vincolata al contratto, pur sempre nei limiti
applicativi dell’art. 1455 c.c. (59). La dottrina prevalente, tuttavia, pur ritenendo ammissibile la domanda di risoluzione in relazione alle ipotesi di
violazione dell’art. 1358 c.c., ha ritenuto che la sentenza di risoluzione, sia
per quanto riguarda l’effetto risolutivo, che per la conseguente eventuale
condanna al risarcimento del danno, dovrà ritenersi subordinata alla medesima condizione (60). Secondo la giurisprudenza (61), fino all’avveramento
della condizione sospensiva, il contratto non è efficace e, in linea di principio, il contratto inefficace non produce obbligazioni valide che possano
dirsi inadempiute, dando cosı̀ luogo a risoluzione per inadempimento (62).
L’unica ipotesi che può dare origine a risoluzione per inadempimento anche prima dell’avveramento della condizione sospensiva è quello di un inanersi da quanto possa pregiudicare le ragioni dell’altra parte, ma anche di compiere quanto
eventualmente occorra per conservare integre le ragioni stesse (sia comportamenti negativi
che positivi).
(59) Osserva C.M. BIANCA, op. ult. cit., 554, che, in pendenza della condizione, il ricorso al rimedio della risoluzione non legittima la pretesa al risarcimento del danno positivo,
rapportato cioè all’interesse all’esecuzione del contratto. Sul punto, si veda, anche, G. PETRELLI, op. ult. cit., 201, il quale precisa (si confronti anche per ulteriore bibliografia sul
punto) che la violazione della regola di buona fede costituirà fonte di un obbligo di risarcimento dei danni oltre che eventualmente di risoluzione del contratto per inadempimento.
(60) MAIORCA, Condizione, in Dig. disc. civ., V, I, Torino, 1987, 314; CARRESI, Il contratto, cit., 611; PECCENINI, La condizione nei contratti, cit., 221.
(61) In questo senso, Cass., Sez. II, 18 marzo 2002, n. 3942, in Contratti, 2003, 5,
443. Secondo Cass., 20 luglio 1971, n. 2335, in Foro. it., 1971, I, 2485 ss., e in Giur. it.,
1972, I, 1, 1204 ss., secondo cui deve ritenersi ammissibile la risoluzione per inadempimento
anche in pendenza della condizione, in quanto il contratto sottoposto a condizione è comunque un contratto valido e, malgrado la sua attuale inefficacia, non può lasciare privo di sanzione l’inadempimento agli obblighi dallo stesso imposti. L’impostazione della dottrina e
della giurisprudenza prevalente è tuttavia ferma nel ritenere che, in pendenza della condizione, si verifichi una situazione di pendenza anche dei singoli effetti che potrebbe produrre
il contratto. In caso di mancato avveramento della condizione, vi è inefficacia ex tunc, con la
conseguente perdita di valore di tutto ciò che era stato predisposto e reso obbligatorio in vista dell’obbligo principale sottoposto a condizione. Qualora si avveri la condizione sospensiva, il contratto dispiegherà ex tunc tutti i suoi effetti e sarà possibile richiedere la risoluzione per inadempimento.
(62) In questo senso, Cass., 4 aprile 1975, n. 1204, in Foro. it., 1975, I, 1990 e in
Giur. it., 1976, I, 1, 1604; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110, in Studium iuris, 2001, 949, secondo cui in ipotesi di violazione dell’art. 1358 c.c., è possibile ottenere la risoluzione del
contratto ed il risarcimento del danno, anche nell’ipotesi in cui il contratto sia rimasto definitivamente inefficace per il mancato avveramento della condizione sospensiva; Cass., 2 giugno 1992, n. 6676, in Giur. it., 1993, I, 1, 1308 ss. Cass., 11 novembre 1967, n. 2718, in Giur.
it., 1968, I, 1, 1375; Cass., 16 novembre 1960, n. 6071, in Giust. civ., 1961, I, 237. In dottrina, si veda, BRUSCUGLIA, Pendenza della condizione e comportamento secondo buona fede,
Milano, 1975, 34 ss.
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dempimento qualificato, consistente nel non tenere un comportamento secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte, come
impone l’art. 1358 c.c. (63).
Nel caso in cui la condizione si avveri determinando l’efficacia o la
risoluzione del contratto, la violazione dell’obbligo di buona fede, si può
tradurre in violazione dell’obbligazione contrattuale, da valutare in base ai
principi dell’inadempimento contrattuale.
Qualora, tuttavia, la condizione non si avveri, risulta più complesso
ipotizzare la configurabilità di un obbligo risarcitorio a carico del contraente che abbia violato il precetto di buona fede. La giurisprudenza (64),
in ipotesi di inadempimento del promissario acquirente ad un preliminare
condizionato all’approvazione di uno strumento urbanistico, approvazione
seguita solo tardivamente, ha evidenziato che il contratto condizionato è
produttivo di vincoli tra le parti, ma detti vincoli rimangono subordinati
alla condizione e, una volta che questa si sia avverata, fa perdere efficacia
ai vincoli interinalmente prodottisi, rendendo irrilevante il loro eventuale
inadempimento — si trattava di ipotesi di condizione risolutiva —. Quindi,
secondo questa impostazione, il venir meno dell’efficacia del contratto, travolgendo ex tunc tutte le obbligazioni sorte dallo stesso, impedisce che
l’inadempienza ad una di queste importi la risoluzione del contratto. Tuttavia, anche in base a tale orientamento, l’eccezione alla regola è costituita
ancora una volta dall’inadempimento agli obblighi di cui all’art. 1358 c.c.,
che viene generalmente considerata come un’ipotesi di responsabilità contrattuale.
Prima dell’avveramento della condizione, il contratto non obbliga i
contraenti, le uniche obbligazioni nascenti da un contratto provvisoriamente
efficace o inefficace sarebbero, quindi, quelle di comportarsi secondo buona
fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte, ai sensi dell’art. 1358
c.c. (65). Tuttavia, una volta divenuto certo il mancato avveramento della
condizione, in applicazione del generale principio indennitario su cui si
(63) Precisa, sul punto, Cass., Sez. II, 18 marzo 2002, n. 3942, cit., che l’art. 1358
c.c., costituisce, però, solo un’eccezione alla regola generale della non risolubilità, con la
conseguenza che nell’ipotesi in cui l’inadempimento della parte non abbia influito sul mancato verificarsi della condizione e sulla definitiva inefficacia del contratto, non valgono le ordinarie norme in tema di risoluzione per inadempimento, almeno fino a che il contratto non
abbia raggiunto la sua efficacia. Al giudice è demandato il compito di verificare se la violazione degli obblighi assunti dai promissari acquirenti con il contratto preliminare sottoposto
a condizione sospensiva comporti un danno irrimediabile ai promittenti venditori e la menomazione delle ragioni di questi ultimi.
(64) Cass., Sez. II, 4 agosto 1990, n. 7875, in Nuova giur. civ. comm., 1991, 728 ss.
(65) Si osserva, in dottrina, che l’art. 1358 c.c. viene per lo più applicato per sanzionare l’illegittimo influsso esercitato da una parte contrattuale sul verificarsi o meno della
condizione, nell’ipotesi in cui non sia applicabile il rimedio della finzione di avveramento,
previsto all’art. 1359 c.c.
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basa il rimedio risarcitorio all’interno del sistema del Codice civile, risulta
difficile ipotizzare la sussistenza di un danno subito dal contraente (66).
Cosı̀, in relazione al caso esaminato dal Collegio Arbitrale, in tema di vendita del complesso immobiliare sospensivamente condizionato all’approvazione del Piano Particolareggiato comunale, il trasferimento a terzi da parte
del promittente alienante della proprietà di parte del complesso immobiliare
configura una violazione dell’art. 1358 c.c. (67). Tuttavia, tale comportamento non ha una diretta incidenza sull’avveramento o meno dell’evento
dedotto in condizione, non rientrando, quindi, nell’ambito applicativo dell’art. 1359 c.c. (68). Il mancato avveramento della clausola condizionale e
la conseguente definitiva inefficacia del contratto de quo implicano la man-
(66) Secondo TRENTINI, Contratto sottoposto a condizione sospensiva e risoluzione, in
Contratti, 2003, 5, 443 ss., gli unici inadempimenti possibili in pendenza di condizione ed
indipendentemente dal verificarsi della stessa sono quelli che vanno ad incidere direttamente
sul verificarsi dell’evento dedotto in condizione. L’unico interesse delle parti che può essere
immediatamente leso anche in pendenza della condizione, è quello a che « la condizione non
subisca, nel suo verificarsi o mancare, condizionamenti irregolari ad opera delle parti. Invece,
in caso di inadempimento ad obblighi prodromici all’obbligazione principale sottoposta a
condizione che non toccano la condizione stessa, per verificare se una lesione risarcibile c’è
stata, bisognerà attendere il verificarsi o no della condizione ». Tale soluzione sembra logica
all’A., ad esempio, quando si discute in tema di condizione risolutiva una volta scaduto il
termine per il verificarsi della condizione « in effetti pare assurdo sanzionare una parte per il
mancato pagamento di quanto, ove regolarmente corrisposto, la parte stessa potrebbe ripetere
come indebito ». In sostanza, in pendenza della condizione, non si potrebbe parlare di obbligazione attuale, in quanto tale caratteristica presuppone la mancata subordinazione dell’obbligazione stessa ad una condizione non ancora verificata. Pertanto, se l’obbligazione è attuale, non è condizionata e può essere inadempiuta con tutte le conseguenze che ne derivano
specie in termini di risoluzione, se l’obbligazione è condizionata, non si può parlare di obbligazione attuale, né si può esigerla prima dell’avveramento della condizione (la questione
relativa all’attualità o meno dell’obbligazione e la sua subordinazione all’evento dedotto in
condizione è una questione interpretativa).
(67) Per una violazione dell’art. 1358 c.c., analoga a quella in esame, si veda, Cass.,
Sez. II, 2 luglio 2002, n. 9568, in Arch. civ., 2003, 12, 1300, con nota di TOMBESI e in Riv.
not., 2003, 2, 484, con nota di VOCATURO, secondo cui la conclusione di un patto di prelazione
relativo alla vendita di un proprio bene immobile sotto la condizione sospensiva del rilascio
di una determinata autorizzazione amministrativa, determina la nascita del dovere, in pendenza dell’avveramento della condizione, di comportarsi secondo buona fede astenendosi dal
compiere atti pregiudizievoli degli interessi dell’altro contraente, sia con riferimento all’oggetto della prestazione, che con riferimento all’avveramento della condizione. Nel caso di
specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto senz’altro lesivo di tale obbligo la vendita a terzi
dell’immobile, in quanto atto compiuto sull’oggetto della prestazione del negozio prelatizio
sottoposto a condizione e tale da vanificare il possibile futuro esercizio del diritto di prelazione.
(68) Nel caso di domanda rivolta ad ottenere il risarcimento del danno a carico della
parte che ha tenuto un comportamento contrario a buona fede, il giudice è tenuto a verificare
l’esistenza di un nesso di derivazione causale tra la mancata realizzazione della situazione
futura e incerta e l’inadempimento dell’obbligazione, applicando i criteri di cui all’art. 1223
c.c. Si veda, anche, Cass., 2 giugno 1992, n. 6676, in Giur. it., 1993, I, 1, 1308.
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cata produzione dell’effetto traslativo — o comunque dell’obbligo di concludere il contratto definitivo — e, quindi, la mancata produzione di alcun
evento dannoso (69) a carico del promittente acquirente (70).
7. In chiave processuale, il Collegio Arbitrale è stato chiamato a decidere anche in relazione ad un’eccezione di giudicato proposta da parte
convenuta. In particolare, tra le parti del contratto del 28 febbraio 1983 era
intervenuta una precedente sentenza del Tribunale di Roma (71) con cui lo
stesso aveva dichiarato il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria
ordinaria per effetto della clausola compromissoria contenuta nel contratto
stipulato tra le parti.
Nello stabilire il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, il Tribunale qualificava come preliminare il contratto oggetto del giudizio. Parte
resistente eccepiva l’eccezione di giudicato in relazione alla qualificazione
giuridica del suddetto contratto.
La sentenza del Tribunale di Roma è di natura processuale e suscettibile di giudicato formale. La cosa giudicata formale, ai sensi dell’art. 324
c.p.c., individuerebbe quella situazione di relativa immutabilità in cui si
viene a trovare la sentenza non più soggetta alle impugnazioni cosiddette
ordinarie. La cosa giudicata sostanziale, ai sensi dell’art. 2909 c.c., è data
invece dalla decisione vincolante contenuta nella sentenza passata in giudicato in senso formale. Dunque, il giudicato formale configura una situazione processuale rappresentata da una sentenza che ha definito e concluso
il processo; la cosa giudicata sostanziale è, invece, la qualificazione del
contenuto della sentenza e precisamente il modo di operare della sua efficacia. Il giudicato formale determina la preclusione alla riproposizione
della questione dinanzi al giudice dello stesso processo, ma non « fa stato
ad ogni effetto tra le parti, gli eredi e gli aventi causa », come recita l’art.
2909 c.c.
(69) Sottolinea, a questo proposito il Collegio Arbitrale (p. 38 del lodo) che « indipendentemente da qualunque valutazione della eventuale buona fede » della parte « risulta
assorbente che il contratto preliminare del 23 ottobre 1982 sia stato ritenuto definitivamente
inefficace; con la conseguenza che nessun danno può essere lamentato » per effetto della
vendita di parte del complesso immobiliare a terzi.
(70) In realtà, secondo C.M. BIANCA, Diritto civile, 5. La responsabilità, Milano,
1994, 4, in tal caso mancherebbe la stessa configurabilità di un inadempimento, « Il presupposto dell’obbligazione implica il requisito della sua certezza. L’inadempimento, cioè, presuppone, un rapporto obbligatorio non sottoposto a condizione sospensiva perché in pendenza di tale condizione il debitore non è tenuto ad adempiere ». Secondo F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., 937, la violazione dell’obbligo di buona fede, da intendersi come
un’applicazione della regola dettata dall’art. 1375 c.c., comporta l’immediato risarcimento
del danno per responsabilità contrattuale, salva l’ipotesi in cui la condizione non si avveri per
circostanze obbiettive o comunque non imputabili alla parte inadempiente.
(71) Trib. Roma, 29 settembre 1993, n. 13515.
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La dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono, seguendo la tradizione chiovendiana (72), che il giudicato sostanziale si formi soltanto sulle
pronunce che riconoscono o negano un bene della vita a una delle parti.
Questa lettura fa leva sulla lettera degli artt. 310, comma 2 (73), e 44 c.p.c.,
dai quali si ricava che la sentenza dichiarativa di incompetenza, non impugnata, rende incontestabile l’incompetenza dichiarata e la competenza del
giudice in essa indicato, solo qualora il processo sia riassunto in termini
davanti al giudice ad quem. Estinto il processo, il vincolo per il secondo
giudice cessa di operare, cosa che non potrebbe accadere se si trattasse di
cosa giudicata sostanziale.
La questione affrontata dal Collegio Arbitrale attiene al discusso tema
dei limiti oggettivi del giudicato sostanziale (74). L’oggetto del processo e,
dunque, del conseguente giudicato sostanziale si determina attraverso gli
elementi di identificazione dell’azione, ossia personae, causa petendi e petitum. Tuttavia, la sentenza è composta da un dispositivo, l’atto di tutela
giuridica e l’indicazione dei motivi in fatto e in diritto della decisione,
come si desume dall’art. 132 c.p.c. Diverse sono anche le funzioni a cui
sono preposti le due parti dell’atto, la motivazione ha una funzione giustificativa e illustrativa della decisione, il dispositivo ha un’efficacia imperativa ed è suscettibile di passaggio in giudicato sostanziale. Infatti, secondo
l’orientamento prevalente della dottrina e della giurisprudenza, sono le
parti, con le loro domande, ad indicare e delimitare l’oggetto della decisione del giudice, con la conseguenza che tali limiti verrebbero travalicati
se si estendesse il giudicato anche alle numerose questioni che il giudice ha
dovuto risolvere per pronunciare la sentenza. Tale impostazione trova con-
(72) Autorevole dottrina ha, infatti, definito la cosa giudicata come « l’affermazione
indiscutibile di una volontà concreta di legge, che riconosce o disconosce un bene della vita
ad una delle parti », con la logica conseguenza che la sentenza che pronuncia su questioni
processuali non è fornita di autorità di cosa giudicata, ma produce soltanto la preclusione
sulle questioni decise ». In tal senso, CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, II
ed., Napoli, 1935, 342 ss. Secondo la medesima prospettiva, anche, CARNELUTTI, Istituzioni
del processo civile italiano, I, Roma, 1956, 80 ss.; COSTA, Diritto processuale civile, Torino,
1980, 242.
(73) Dal secondo comma dell’art. 310 c.p.c., il quale dispone che sono fatti salvi gli
effetti delle sole sentenze sulla competenza della Corte di Cassazione, la giurisprudenza e la
dottrina prevalenti desumono l’efficacia endoprocessuale delle sentenze sulla competenza
pronunciate dai giudici di merito. Cfr. Cass., 11 febbraio 1999, n. 119, in Foro it., 2000, I,
603, con nota di Capponi; Cass., 8 marzo 1995, n. 2697, in Rep. Foro it., 1995, voce cosa
giudicata civile, n. 5. In dottrina, GIONFRIDA, La competenza nel nuovo processo civile, Trapani, 1942, 422; MONTELEONE, Estinzione (processo di cognizione), in Digesto civ., VIII, Torino, 1992, 131 ss.
(74) Sul tema si veda inter alios: PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e suoi limiti oggettivi, in Riv. dir. proc., 1990, 386 ss.; MONTESANO, In tema di accertamento incidentale e limiti del giudicato, in Riv. dir. proc., 1951, I, 329 ss.; HEINITZ, I limiti oggettivi della
cosa giudicata, Padova, 1937.
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forto nella lettera dell’art. 34 c.p.c., il quale stabilendo che le questioni
pregiudiziali (75) acquistano efficacia di giudicato solo se tale effetto è
espressamente richiesto dalla legge ovvero « per esplicita domanda delle
parti », introduce un chiaro limite all’oggetto del giudicato. Sono esclusi,
pertanto, dal giudicato sostanziale non solo i motivi dedotti nella sentenza (76), ma anche le decisioni sulle questioni di diritto esaminate e risolte
in via strumentale al fine di decidere la controversia, nonché le questioni
pregiudiziali quando a norma dell’art. 34 c.p.c. vengono risolte incidenter
tantum.
Ciò premesso, nel caso di specie la sentenza del tribunale di Roma nel
procedere all’esame della questione di carattere processuale della quale era
stato investito ha, in via del tutto incidentale, fornito una qualificazione
giuridica del negozio oggetto del giudizio.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha costantemente affermato che le decisioni del giudice di merito che statuiscono unicamente
sulla competenza, anche se esaminano e decidono questioni pregiudiziali ai
limitati fini della competenza stessa, non contengono « né implicitamente,
né esplicitamente, alcuna pronuncia di merito suscettibile di passare in cosa
giudicata ». Infatti, è dal carattere meramente processuale che discende
l’obbligatorietà dell’impugnazione attraverso il regolamento di competenza
(75) La dottrina distingue le questioni pregiudiziali in senso tecnico e in senso logico. Le prime sono le questioni aventi ad oggetto un’autonoma situazione sostanziale o un
autonomo rapporto giuridico, rientranti nella fattispecie costitutiva dell’effetto giuridico dedotto dall’attore con la domanda introduttiva. Le seconde sono definite come le questioni
aventi ad oggetto l’esistenza o il modo d essere del rapporto giuridico complesso o della situazione reale in cui si inserisce l’effetto giuridico fatto valere dalla parte attrice. Mentre in
dottrina e in giurisprudenza è pacifico che fuoriescono dall’oggetto del processo e dunque dal
giudicato sostanziale e rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 34 c.p.c. le questioni
pregiudiziali in senso tecnico, più controverso è invece se vi rientrino anche le questioni pregiudiziali in senso logico. La dottrina tradizionale (CHIOVENDA, op. ult. cit., 353 ss.) a riguardo, sostiene l’applicabilità dell’art. 34 c.p.c. alle questioni di esistenza, validità ed efficacia del rapporto giuridico fondamentale, che costituiscono oggetto di accertamento incidentale senza un’esplicita domanda di parte. Si deve precisare che un diverso orientamento dottrinale fa rientrare nell’ambito oggettivo del processo in cui sia chiesto l’accertamento di un
singolo effetto giuridico, anche le questioni pregiudiziali in senso logico relative all’esistenza
e validità del rapporto fondamentale, che il giudice abbia dovuto affrontare per giungere alla
decisione finale, cd. regola dell’« antecedente logico necessario » (cfr., MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 92 ss.). In tal senso, anche una consolidata giurisprudenza, che estende l’efficacia di giudicato automaticamente alle questioni che costituiscono la premessa o il presupposto logico necessario della decisione. Cfr. Cass., 6 settembre
1999 n. 9401, in Riv. not., 2000, 3, 643; Cass., 28 settembre 1994, n. 7890, in Foro it., 1995,
4, 1227, con nota di D’AQUINO e in Riv. not., 1995, 5, 1321.
(76) Autorevole dottrina, si è distaccata da questo orientamento, ritenendo piuttosto
che il giudicato si estenda anche ai motivi della sentenza. A sostegno di tale tesi viene enunciato il principio dell’economia dei giudizi. In tal senso, VON SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. V. Scialoja, Torino, 1898.
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necessario, ai sensi dell’art. 42 c.p.c., laddove si ritenesse al contrario che
la sentenza contenga anche statuizioni di merito, il regolamento di competenza sarebbe solo facoltativo (77), ai sensi dell’art. 43 c.p.c.
Le sentenze di natura processuale svolgono la funzione di evitare che
nell’ambito dello stesso processo possano essere riesaminate questioni di
carattere processuale già decise dando luogo a giudicato in senso solo formale e non anche in senso sostanziale.
Da ciò consegue che una sentenza processuale non preclude al giudice, ovvero nel caso di specie al Collegio Arbitrale, l’applicazione delle
norme di diritto sostanziale invocate dalle parti per la decisione di merito,
anche laddove in seguito a tale attività si giunga ad una decisione contrastante con le premesse giuridiche della sentenza processuale. Infatti, soltanto il giudicato sostanziale spiega i suoi effetti al di fuori del processo ed
è vincolante per tutti i futuri giudizi (78).
Inoltre, qualora si ritenesse che una questione preliminare di merito
sia suscettibile di passare in giudicato, sebbene esaminata soltanto incidenter tantum (79), ne discenderebbe, per la parte, la necessità di proporre un
regolamento di competenza al solo fine di impedire il passaggio in giudicato della questione preliminare di merito, indipendentemente dal fatto che
condivida la decisione processuale. In questo modo, si va a contrastare
proprio quel principio di economia degli strumenti processuali che si vorrebbe salvaguardare con l’estensione dei limiti oggettivi del giudicato sostanziale.
RAFFAELE TUCCILLO
(77) Cass., 7 marzo 1979, n. 1424, in Rep. Foro it., 1979, voce cosa giudicata civile,
n. 7, 601; Cass., 9 novembre 1977 n. 4795, in Rep. Foro it., 1977, voce competenza civile,
n. 216, 411; Cass., 22 gennaio 1977 n. 323, in Rep. Foro it., 1977, voce competenza civile,
n. 217, 411.
(78) Un orientamento della giurisprudenza, al contrario, estende i limiti oggettivi del
giudicato sostanziale anche alle questioni di merito che il giudice incidenter tantum abbia
deciso in una sentenza di natura processuale, ritenendo che il giudicato formale, operando
nell’ambito del processo e segnandone una tappa, copre con la sua autorità tutto ciò che ha
costituito « l’antecedente logico necessario della decisione », precludendo, in omaggio al
principio del ne bis in idem, ogni possibilità di ritornare sul cammino percorso e di riportare
la decisione sulle questioni preliminari o pregiudiziali. In tal senso, Cass., Sez. II, 5 maggio
1965, n. 810, in Foro it., 1965, 1, 988. Si deve, però, sottolineare che l’accento viene in questi casi posto sulle questioni di merito relative alla ammissibilità o proponibilità dell’azione
o del gravame, e non invece su quelle relative alla qualificazione della domanda, ovvero alla
qualificazione giuridica del negozio oggetto del giudizio.
(79) Occorre, tra l’altro, considerare che tale sentenza è impugnabile solo con regolamento necessario di competenza. Cfr. tra le molte decisioni in tal senso, Cass., 19 gennaio
1984, n. 456, in Giust. civ. mass., 1984, 1, 298.
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RASSEGNE E COMMENTI
La conciliazione stragiudiziale presso la Consob
VALERIO SANGIOVANNI
1.
Mediazione e conciliazione.
Gli scandali finanziari che hanno colpito duramente gli investitori negli ultimi anni hanno indotto il legislatore a reagire introducendo diverse
disposizioni miranti a tutelare i risparmiatori sia dal punto di vista sostanziale sia da quello processuale.
Sotto il profilo della tutela processuale, il D.Lgs. n. 179/2007 ha istituito procedure di conciliazione e di arbitrato presso la Consob per i risparmiatori e gli investitori (1). In questo articolo ci soffermeremo in particolare
sulla conciliazione stragiudiziale. L’assetto normativo in materia si è peraltro recentemente complicato per effetto dell’emanazione del D.Lgs. n. 28/
2010 in materia di mediazione (2). Si tratta pertanto, in limine, di comprendere l’esatto ambito di applicazione dei due decreti legislativi. Come vedremo, tali testi normativi si pongono in rapporto da legge speciale (il
D.Lgs. n. 179/2007) a legge generale (il D.Lgs. n. 28/2010).
In via introduttiva si deve osservare che « conciliazione » e « media(1) In generale sulla tutela giurisdizionale nella materia dei servizi finanziari cfr.
CARPI, Servizi finanziari e tutela giurisdizionale, in Giur. comm., 2008, I, 1049 ss. In tema di
conciliazione e/o arbitrato presso la Consob v. BASTIANON, La tutela dell’investitore (non professionale) alla luce delle nuove disposizioni in materia di conciliazione ed arbitrato presso
la Consob, in Resp. civ. prev., 2010, 4 ss.; CAVALLINI, La Camera di conciliazione e di arbitrato della Consob: « prima lettura » del d.lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, in Riv. soc., 2007,
1444 ss.; CUOMO ULLOA, La camera di conciliazione e di arbitrato istituita presso la Consob,
in Contratti, 2008, 1178 ss.; GUERINONI, La conciliazione e l’arbitrato per le controversie
nell’intermediazione finanziaria, in Contratti, 2008, 301 ss.; NASCOSI, La nuova Camera di
conciliazione e arbitrato presso la Consob, in Nuove leggi civ. comm., 2009, 963 ss.; SERRA,
Brevi note sulla disciplina istitutiva della Camera di conciliazione e di arbitrato presso la
Consob, in Studium iuris, 2009, 262 ss.; SOLDATI, La camera arbitrale presso la Consob per
le controversie tra investitori ed intermediari, in Contratti, 2009, 423 ss.
(2) Fra i primi commenti alla legge sulla mediazione cfr. CARNEVALI, La nuova mediazione civile, in Contratti, 2010, 437 ss.; I. PAGNI, Mediazione e processo nelle controversie civili e commerciali: risoluzione negoziale delle liti e tutela giudiziale dei diritti, in Società, 2010, 619 ss.
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zione » non vanno confuse. La mediazione è l’attività che precede la conciliazione ed è finalizzata a conseguire tale conciliazione. Secondo la definizione legislativa per mediazione si intende « l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più
soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di
una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione
della stessa » (art. 1, lett. a, D.Lgs. n. 28/2010). La conciliazione invece è
« la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della
mediazione » (art. 1, lett. c, D.Lgs. n. 28/2010).
Vi è da chiedersi se il D.Lgs. n. 28/2010 e il D.Lgs. n. 179/2007 riguardino la stessa tipologia di controversie. L’ambito di applicazione del primo
decreto è molto ampio, riferendosi a controversie in materia di « condominio,
diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione
di veicoli o natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo
della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e
finanziari » (art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010). Come si può notare, rientrano nella definizione di controversie mediabili quelle concernenti i contratti
finanziari. L’espressione « contratti finanziari », a dire il vero, non pare essere
molto precisa, in quanto i contratti cui il legislatore vuole qui fare riferimento
andrebbero meglio denominati come « contratti relativi alla prestazione dei
servizi di investimento (3) » (cosı̀ letteralmente l’art. 23, comma 1, t.u.f.) oppure « contratti di intermediazione finanziaria ». Il termine « finanziari » ricorda un rapporto di finanziamento, che non sussiste invece fra l’investitore e
l’intermediario, dove la relazione è di « intermediazione » e non di finanziamento. Comunque, al di là della imprecisione lessicale, pare fuori di dubbio
che il legislatore volesse riferirsi in questa sede ai contratti disciplinati dall’art.
23, comma 1, t.u.f. Il D.Lgs. n. 179/2007 concerne invece le controversie insorte fra gli investitori e gli intermediari « per la violazione da parte di questi
degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza nei rapporti contrattuali con gli investitori » (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007). I rapporti
contrattuali cui si fa riferimento qui sono quelli regolati dall’art. 23 t.u.f. Dalla
nostra analisi risulta pertanto che, con riferimento ai contratti d’intermediazione finanziaria, l’ambito di applicazione dei due decreti legislativi è coincidente.
A questo punto sorge allora la domanda di quale sia il rapporto fra i
(3) La legge identifica i seguenti servizi e attività di investimento: « a) negoziazione
per conto proprio; b) esecuzione di ordini per conto dei clienti; c) sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; c-bis) collocamento senza assunzione a fermo né assunzione di garanzia nei confronti
dell’emittente; d) gestione di portafogli; e) ricezione e trasmissione di ordini; f) consulenza
in materia di investimenti; g) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione » (art. 1,
comma 5, t.u.f.).
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due procedimenti di conciliazione e di mediazione. Fortunatamente la questione è risolta espressamente dal legislatore, laddove chiarisce che chi intende esercitare un’azione « è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento
di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo
unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie
ivi regolate » (art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010). Nelle materie specifiche (intermediazione finanziaria) coperte dal D.Lgs. n. 179/2007, l’investitore ha dunque una facoltà di scelta: avvalersi del procedimento di conciliazione speciale previsto da tale decreto oppure avvalersi del procedimento
di mediazione generale previsto dal D.Lgs. n. 28/2010.
Dal punto di vista della collocazione sistematica, la materia della conciliazione stragiudiziale presso la Consob risulta distribuita su due livelli di
fonti: al già menzionato D.Lgs. n. 179/2007 bisogna difatti aggiungere il
reg. Consob n. 16763/2008 (4). Si tratta di una tecnica normativa ampiamente diffusa nei settori assicurativo, bancario e finanziario: essa consente
di conciliare l’indicazione di principi generali nel testo di rango legislativo
con regole di dettaglio nel testo di rango regolamentare (5).
Con riferimento agli obiettivi che il legislatore persegue con il D.Lgs. n.
179/2007, la previsione di un sistema di conciliazione stragiudiziale vuole
avere un effetto deflattivo della giustizia ordinaria. Come è noto, nel settore
degli investimenti si è assistito — negli ultimi anni — a un ampio contenzioso
fra risparmiatori e intermediari finanziari. Tale litigiosità ha avuto a oggetto,
principalmente, la inosservanza di norme di comportamento da parte degli intermediari. Le regole di condotta sono indicate nell’art. 21 t.u.f. A livello regolamentare il testo di riferimento è ora il reg. Consob n. 16190/2007 (6), il
quale ha abrogato e sostituito il previgente reg. Consob n. 11522/1998.
(4) Regolamento di attuazione del D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, concernente la Camera di conciliazione e di arbitrato presso la Consob e le relative procedure, in www.consob.it.
(5) Questa tecnica normativa non è scevra da pericoli. Bisogna difatti riflettere che
la presenza congiunta di una legge e di un regolamento porta con sé il rischio di ripetizioni
fra i due testi normativi. Inoltre sussiste il pericolo di contrasti, rischio che viene peraltro risolto secondo il principio della gerarchia delle fonti, cioè a vantaggio della legge. È difatti
appena il caso di ricordare che « i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle
disposizioni delle leggi » (art. 4, comma 1, disposizioni sulla legge in generale).
(6) Sul regolamento Consob n. 16190/2007 cfr. DURANTE, Con il nuovo regolamento
intermediari, regole di condotta « flessibili » per la prestazione dei servizi di investimento, in
Giur. mer., 2008, 628 ss.; RINALDI, Il decreto Mifid e i regolamenti attuativi: principali cambiamenti, in Società, 2008, 12 ss.; ROPPO, Sui contratti del mercato finanziario, prima e dopo
la MiFID, in Riv. dir. priv., 2008, 485 ss.; SANGIOVANNI, Informazioni e comunicazioni pubblicitarie nella nuova disciplina dell’intermediazione finanziaria dopo l’attuazione della direttiva MiFID, in Giur. it., 2008, 785 ss.; SANGIOVANNI, La nuova disciplina dei contratti di
investimento dopo l’attuazione della MiFID, in Contratti, 2008, 173 ss.
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Le norme di comportamento degli intermediari finanziari si lasciano
ricondurre a tre gruppi principali: i doveri informativi, il divieto di compiere operazioni inadeguate e il dovere di gestire i conflitti d’interessi.
I doveri informativi degli intermediari finanziari trovano riscontro nel
testo legislativo, laddove si dice che i soggetti abilitati devono « acquisire
le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano
sempre adeguatamente informati » (art. 21, comma 1, lett. b, t.u.f.) (7). Essi
vengono poi specificati negli artt. 27-36 reg. n. 16190/2007.
Il dovere di adeguatezza delle operazioni d’investimento non trova invece riscontro normativo diretto nel testo della legge (8). Sono ora gli artt.
(7) Con riferimento ai doveri informativi che fanno capo agli intermediari finanziari
cfr. ACHILLE, Contratto d’intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi d’informazione: tra nullità del contratto e responsabilità dell’intermediario, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2008, 1451 ss.; BARTOLOMUCCI, Ancora sugli obblighi informativi nel settore del mercato finanziario: tra doveri dell’intermediario e principio di autodeterminazione dell’investitore, in
Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 440 ss.; BRUNO, L’esperienza dell’investitore e l’informazione « adeguata » e « necessaria », in Giur. comm., 2008, II, 391 ss.; BULFARO, La responsabilità contrattuale dell’intermediario per violazione del dovere di informazione, in Nuova
giur. civ. comm., 2007, I, 1092 ss.; CAGGIANO, I doveri d’informazione dell’intermediario finanziario nella formazione ed esecuzione del contratto. Violazione e rimedi, in Dir. giur.,
2006, 453 ss.; CALVO, Il risparmiatore disinformato tra poteri forti e tutele deboli, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 2008, 1431 ss.; D’ALFONSO, Violazione degli obblighi informativi da parte
degli intermediari finanziari: la tutela del risparmiatore tra rimedi restitutori e risarcitori, in
Resp. civ., 2008, 965 ss.; EMILIOZZI, La responsabilità della banca per omessa informazione
del deterioramento del rating di obbligazioni acquistate da un cliente, in Riv. dir. comm.,
2006, II, 118 ss.; GRECO, Obbligazioni Cirio e violazione dell’obbligo di informazione: un ulteriore tassello sul tavolo della roulette della giurisprudenza, in Resp. civ. prev., 2010, 428
ss.; GRECO, Verso la contrattualizzazione dell’informazione precontrattuale, in Rass. dir. civ.,
2007, 1140 ss.; GUADAGNO, I confini dell’informazione precontrattuale e la « storia infinita »
dei contratti di intermediazione finanziaria, in Riv. dir. comm., 2009, I, 241 ss.; MARAGNO,
L’orientamento del Tribunale di Venezia in tema di sanzioni degli inadempimenti ai doveri
informativi a carico degli intermediari finanziari, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 1280
ss.; NATOLI, Le informazioni dei risparmiatori nella formazione del contratto « di risparmio », in Contratti, 2010, 67 ss.; PANZINI, Violazione dei doveri d’informazione da parte degli intermediari finanziari tra culpa in contrahendo e responsabilità professionale, in Contr.
impr., 2007, 982 ss.; SANGIOVANNI, Omessa informazione sulla rischiosità dell’investimento e
risoluzione del contratto, in Corr. mer., 2009, 973 ss.; SANGIOVANNI, Gli obblighi informativi
delle imprese di investimento nella più recente normativa comunitaria, in Dir. comun. scambi
internaz., 2007, 363 ss.; SPADARO, Violazione degli obblighi di informazione dell’intermediario finanziario ed annullamento del contratto per vizio del consenso: note a margine di una
(discutibile) pronuncia di merito, in Banca borsa, 2007, II, 506 ss.; TICOZZI, Violazione di obblighi informativi e sanzioni: un problema non solo degli intermediari finanziari, in Contratti, 2007, 363 ss.
(8) Sulla regola di adeguatezza cfr. FIORIO, Onere della prova, nesso di causalità ed
operazioni non adeguate, in Giur. it., 2010, 343 ss.; FRUMENTO, La valutazione di adeguatezza
e di appropriatezza delle operazioni di investimento nella direttiva Mifid, in Contratti, 2007,
583 ss.; GRECO, Intermediazione finanziaria: rimedi ed adeguatezza in concreto, in Resp. civ.
prev., 2008, 2556 ss.; SANGIOVANNI, Informazione sull’adeguatezza dell’operazione finanzia-
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39-44 reg. n. 16190/2007 a disciplinare l’adeguatezza e l’appropriatezza
degli investimenti finanziari.
La terza norma di comportamento consiste nel dovere di gestire i conflitti d’interessi (9). Al riguardo la legge prevede che gli intermediari: « a)
adottano ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che
potrebbero insorgere con il cliente o fra clienti, e li gestiscono, anche adottando idonee misure organizzative, in modo da evitare che incidano negativamente sugli interessi dei clienti; b) informano chiaramente i clienti,
prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti di interesse quando le misure adottate ai sensi della lettera a) non sono
sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere
agli interessi dei clienti sia evitato » (art. 21, comma 1-bis, t.u.f.).
Se i doveri informativi nei confronti degli investitori, di adeguatezza
nel compimento delle operazioni finanziarie e di gestione dei conflitti d’interesse sono le principali norme di comportamento cui sono sottoposti gli
intermediari finanziari, sorprende che nel testo del decreto qui in esame
sulla conciliazione presso la Consob si faccia riferimento solo agli « obblighi di informazione, correttezza e trasparenza » (art. 2, comma 1, D.Lgs. n.
179/2007). Il testo dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007 menziona solo
i doveri informativi (mentre non menziona il dovere di adeguatezza, che
costituisce la più importante fra le norme di comportamento cui sono tenuti
gli intermediari, né l’obbligo di gestire i conflitti d’interessi). Sotto questo
profilo si potrebbe arguire che l’inosservanza della regola di adeguatezza (e
di gestione dei conflitti d’interessi) non consenta di attivare il procedimento
di conciliazione davanti alla Consob. Questa soluzione interpretativa basata
sul dato testuale lascia però insoddisfatti, non essendo evidenti le ragioni
per cui tali violazioni non potrebbero essere oggetto di un procedimento
conciliativo. È vero che rimane ferma la possibilità (anzi il dovere) di avvalersi del meccanismo di mediazione di cui al D.Lgs. n. 28/2010, ma non
ria e dovere di astenersi, in Corr. giur., 2009, 1257 ss.; SANGIOVANNI, Operazioni inadeguate
e doveri informativi dell’intermediario finanziario, in Giur. comm., 2009, II, 557 ss.; SANGIOVANNI, Operazione inadeguata dell’intermediario finanziario fra nullità del contratto e risarcimento del danno alla luce della direttiva MiFID, in Contratti, 2007, 243 ss.; SANGIOVANNI,
Inadeguatezza della operazione finanziaria, risoluzione del contratto per inadempimento e
risarcimento del danno, in Corr. giur., 2006, 1569 ss.; SARTORI, Le regole di adeguatezza e i
contratti di borsa: tecniche normative, tutele e prospettive MiFID, in Riv. dir. priv., 2008, 25
ss.; SAVASTA, L’adeguatezza informativa ed operativa a fronte del rifiuto di fornire informazioni, in Società, 2009, 997 ss.; VENTURI, L’adeguatezza delle operazioni di intermediazione
finanziaria nelle prescrizioni della disciplina speciale e nell’orientamento della Cassazione,
in Riv. trim. dir. econ., 2009, II, 11 ss.
(9) In materia di conflitti d’interessi nell’intermediazione finanziaria cfr. CALVI, Il
conflitto di interessi nei servizi di investimento mobiliare e la responsabilità dell’intermediario, in Resp. civ. prev., 2007, 1016 ss.
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si capisce perché si debba ricorrere al sistema generale e non a quello specializzato della Consob.
A ciò si aggiunga che una parte significativa delle controversie fra investitori e intermediari finanziari verte sull’asserita inosservanza del dovere
di rispettare la forma scritta per i contratti d’intermediazione finanziaria.
L’art. 23, comma 1, t.u.f. esige che tali contratti vengano redatti per iscritto
e, in caso di inosservanza della forma prescritta, sancisce la nullità dei contratti (10). Questo genere di controversie non paiono coperte dal dato letterale dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007, che sembra limitato alle sole
liti concernenti l’inosservanza di (alcune delle) norme di comportamento
degli intermediari finanziari. Se è corretta questa interpretazione, l’ambito
di applicazione del procedimento di conciliazione Consob si riduce parecchio.
Si tratta poi di comprendere quale sia l’esatto significato da attribuirsi
al richiamo, operato dal legislatore dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/
2007, ai criteri della « correttezza » e della « trasparenza ». Intendendo in
senso ampio la nozione di « trasparenza », vi si potrebbe far rientrare anche il requisito di forma scritta dei contratti. Dal momento che il contratto
d’intermediazione finanziaria viene generalmente predisposto dall’intermediario e deve avere un contenuto minimo, la sua assenza configura un assenza di trasparenza nei confronti dell’investitore. A ciò si aggiunga che la
parte II del libro III del reg. n. 16190/2007 è rubricato « trasparenza e correttezza nella prestazione dei servizi/attività di investimento e dei servizi
accessori » e si compone degli artt. da 27 a 59, comprendendo fra l’altro
l’art. 37 che prescrive il requisito di forma scritta. Questa interpretazione
può forse essere sostenuta, ma non si può non rilevare come il tenore letterale dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007 non sia particolarmente riuscito. Al fine di ampliare l’ambito di applicazione della conciliazione Consob, invece dell’inciso « per la violazione da parte di questi degli obblighi
(10) Sul requisito della forma scritta dei contratti d’intermediazione finanziaria cfr.
BARENGHI, Disciplina dell’intermediazione finanziaria e nullità degli ordini di acquisto (in
mancanza del contratto-quadro): una ratio decidendi e troppi obiter dicta, in Giur. mer.,
2007, 59 ss.; DELLA VEDOVA, Sulla forma degli ordini di borsa, in Riv. dir. civ., 2010, II, 161
ss.; PACE, Gli ordini di borsa tra forma e mera archiviazione, in Banca borsa tit. cred., 2010,
II, 118 ss.; PONTIROLI - P. DUVIA, Il formalismo nei contratti dell’intermediazione finanziaria
ed il recepimento della MiFID, in Giur. comm., 2008, I, 151 ss.; SANGIOVANNI, L’art. 23.
T.U.F. e la sottoscrizione del contratto-quadro, in Giur. it., 2009, 1682 ss.; SANGIOVANNI,
Mancato aggiornamento del contratto-quadro e « nullità sopravvenuta », in Contratti, 2008,
653 ss.; SANGIOVANNI, Contratto di negoziazione, forma convenzionale e nullità per inosservanza di forma, in Contratti, 2007, 778 ss.; SANGIOVANNI, La nullità del contratto di gestione
di portafogli di investimento per difetto di forma, in Contratti, 2006, 966 ss.; SANGIOVANNI,
La nullità del contratto per inosservanza di forma nel caso delle obbligazioni argentine, in
Corr. mer., 2006, 737 ss. Più in generale sulle forme nel diritto dei contratti v., di recente,
COLACINO, Le forme negoziali nel nuovo diritto dei contratti: le c.d. forme di protezione, in
Studium iuris, 2010, 253 ss.
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di informazione, correttezza e trasparenza » ci si sarebbe potuti avvalere del
diverso inciso « per la violazione da parte di questi dei loro obblighi ».
Senza specificazione di quali obblighi possono essere violati dagli intermediari finanziari si avrebbe avuto la possibilità di far ricorso alla conciliazione a tutto tondo.
Tornando a esaminare la ratio della previsione di un procedimento
conciliativo nel contesto dell’intermediazione finanziaria, è chiaro che tutte
le volte in cui il procedimento di conciliazione consente di evitare il ricorso
all’autorità giudiziaria si è raggiunto l’auspicato obiettivo di deflazione
della giustizia ordinaria. Tale effetto può risultare particolarmente significativo proprio nelle aree, come quella dell’intermediazione finanziaria, che
hanno mostrato un alto livello di contenzioso negli ultimi anni.
2.
Le parti del procedimento.
La legge prevede anzitutto che « gli investitori possono attivare la
procedura di conciliazione, presentando, anche personalmente, istanza alla
Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob » (art. 4, comma 1,
D.Lgs. n. 179/2007).
L’esame di questa disposizione impone dapprima di soffermarsi su
quelle che sono le parti del procedimento di conciliazione: gli investitori,
da un lato, e gli intermediari, dall’altro.
La legge si premura di dare la definizione di « investitori »: « gli investitori diversi dai clienti professionali di cui all’articolo 6, commi 2-quinquies e 2-sexies, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni » (art. 1, lett. a, D.Lgs. n. 179/2007). Come si può notare, la tecnica legislativa è quella di rinviare al t.u.f., il quale — a dire il
vero — a sua volta rinvia ai regolamenti attuativi. Difatti l’art. 6, comma
2-quinquies, t.u.f. prevede solo che « la Consob, sentita la Banca d’Italia,
individua con regolamento i clienti professionali privati nonché i criteri di
identificazione dei soggetti privati che su richiesta possono essere trattati
come clienti professionali e la relativa procedura di richiesta » (11).
Il regolamento Consob di riferimento per la suddivisione nelle differenti categorie di investitori è il reg. n. 16190/2007. Tale regolamento definisce in primo luogo in via generale il « cliente » come « persona fisica o
giuridica alla quale vengono prestati servizi di investimento o accessori »
(11) Non ci soffermeremo oltre sulla nozione di « cliente professionale pubblico »,
limitandoci a segnalare che — anche in questo caso — la relativa definizione è rimessa a regolamento: « il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob,
individua con regolamento i clienti professionali pubblici nonché i criteri di identificazione
dei soggetti pubblici che su richiesta possono essere trattati come clienti professionali e la
relativa procedura di richiesta » (art. 6, comma 2-sexies, t.u.f.).
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(art. 26, lett. c, reg. n. 16190/2007). Il regolamento distingue poi fra
« cliente professionale » e « cliente al dettaglio ». Il cliente professionale è
« il cliente professionale privato che soddisfa i requisiti di cui all’allegato
n. 3 al presente regolamento » (art. 26, lett. d, reg. n. 16190/2007), mentre
il cliente al dettaglio è « il cliente che non sia cliente professionale o controparte qualificata » (art. 26, lett. e, reg. n. 16190/2007).
L’allegato n. 3 al reg. n. 16190/2007 è dedicato interamente alla definizione di cliente professionale privato: tale soggetto si caratterizza per il
fatto di essere « un cliente che possiede l’esperienza, le conoscenze e la
competenza necessarie per prendere consapevolmente le proprie decisioni
in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che assume ». I clienti professionali vengono poi distinti dall’allegato n. 3 in
« clienti professionali di diritto » e in « clienti professionali su richiesta ».
Non è questa la sede per entrare in dettaglio nella definizione di cliente
professionale. Quello che preme sottolineare qui è solo che il procedimento
di conciliazione è riservato ai clienti non professionali. I clienti al dettaglio
sono più deboli dal punto di vista del patrimonio informativo di cui dispongono, oltre che sotto il profilo economico. Essi necessitano di una maggiore
tutela, che trova espressione anche nel fatto di poter avviare — diversamente dagli intermediari finanziari (che possono solo resistere) — il procedimento di conciliazione.
Abbiamo visto come la nozione di « investitore » risulti di non facile
ricostruzione, in quanto obbliga all’esame di più testi, legislativi e regolamentari. Più semplice risulta invece la ricostruzione della nozione di « intermediario », quale controparte dell’investitore nel procedimento di conciliazione. La legge definisce gli « intermediari » come: « i soggetti abilitati
alla prestazione di servizi e attività di investimento di cui all’articolo 1,
comma 1, lettera r), del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni » (art. 1, lett. b, D.Lgs. n. 179/2007). Come per la
definizione di « investitore », si trova anche per quella di « intermediario »
un rinvio al t.u.f. Questo testo normativo però definisce subito, senza ulteriore rinvio a un regolamento, i soggetti abilitati nel modo che segue: « le
SIM, le imprese di investimento comunitarie con succursale in Italia, le
imprese di investimento extracomunitarie, le SGR, le società di gestione
armonizzate, le SICAV nonché gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco
previsto dall’articolo 107 del testo unico bancario e le banche italiane, le
banche comunitarie con succursale in Italia e le banche extracomunitarie,
autorizzate all’esercizio dei servizi e delle attività di investimento » (art. 1,
lett. r, t.uf.). A questa elencazione l’art. 1, lett. c, reg. n. 16763/2008 aggiunge « la società Poste Italiane - Divisione Servizi di Banco Posta ».
Il fatto che la legittimazione attiva al procedimento di conciliazione
spetti solo agli investitori (e non agli intermediari) è espressione di un trattamento privilegiato nei confronti del contraente debole del rapporto. Fra
l’investitore e l’intermediario viene concluso un contratto d’intermedia220
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zione finanziaria, sulla base del quale vengono posti in essere i successivi
investimenti. Tale contratto è quasi sempre predisposto dalla banca, la
quale si trova pertanto nella condizione di pre-determinarne il contenuto.
Inoltre l’intermediario dispone, nella quasi totalità dei casi, di un patrimonio informativo superiore rispetto alla controparte. Il legislatore ritiene che
questi rapporti di forza sbilanciati debbano essere riequilibrati. Per raggiungere questo risultato la legge si avvale di diversi strumenti. Uno di essi
consiste nell’aprire la strada della conciliazione solo alla parte debole del
rapporto contrattuale.
3.
L’istanza di conciliazione.
Proseguendo nell’analisi dell’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007, si
nota come questo preveda che gli investitori « possono » presentare
l’istanza di conciliazione. In questo modo si chiarisce che il ricorso alla
conciliazione Consob non è affatto obbligatorio ed è rimesso alla prudente
valutazione dell’investitore.
Dal momento che il meccanismo della conciliazione non è obbligatorio, si sarebbe portati a pensare che l’investitore possa agire immediatamente in giudizio. In realtà questa soluzione non coglie nel segno, in
quanto la facoltatività del procedimento di conciliazione davanti alla Consob non esclude l’obbligatorietà del procedimento di mediazione disciplinato in via generale dal D.Lgs. n. 28/2010. Ne consegue che l’investitore
che non vuole avvalersi del meccanismo previsto dal D.Lgs. n. 179/2007,
deve esperire il procedimento di mediazione del D.Lgs. n. 28/2010. In caso
negativo, l’investitore si trova esposto all’eccezione di improcedibilità (art.
5, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010).
L’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007 specifica ulteriormente che
l’istanza può essere presentata anche « personalmente ». Ne consegue che
non è necessario l’intervento di un avvocato. Uno degli obiettivi del meccanismo della conciliazione è quello di ridurre i costi della soluzione delle
controversie e questo risultato si raggiunge, fra le altre cose, eliminando la
necessità della difesa tecnica. Bisogna, del resto, dire che la difesa tecnica
nel procedimento di conciliazione non è necessaria anche in quanto in tale
procedimento si cerca solo di raggiungere un accordo transattivo fra le parti
e non si mira a stabilire chi abbia torto o ragione. Non vi è dunque necessità di un tecnico del diritto che assista le parti. Ciò non significa, naturalmente, che l’investitore non possa farsi assistere da un avvocato.
L’istanza va indirizzata alla Camera di conciliazione e arbitrato presso
la Consob.
La legge prevede due casi in cui la domanda di avviare il procedimento di conciliazione non può essere accolta: « l’istanza di conciliazione
non può essere presentata qualora: a) la controversia sia già stata portata su
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istanza dell’investitore, ovvero su istanza dell’intermediario a cui l’investitore abbia aderito, all’esame di altro organismo di conciliazione; b) non sia
stato presentato reclamo all’intermediario ovvero non siano decorsi più di
novanta giorni dalla sua presentazione senza che l’intermediario abbia comunicato all’investitore le proprie determinazioni » (art. 4, comma 2,
D.Lgs. n. 179/2007). In ambedue i casi sono ragioni di economia processuale che impongono di non trattare la domanda di conciliazione.
Il primo evento che rende improponibile la domanda si verifica
quando un altro organismo di conciliazione sia già stato investito della medesima problematica. Se anche la Camera di conciliazione presso la Consob potesse occuparsi — in via aggiuntiva — della stessa questione, vi sarebbe un inutile spreco di risorse, nel senso che due soggetti diversi si occuperebbero del medesimo caso. Tipicamente il ricorso alla conciliazione di
cui al D.Lgs. n. 179/2007 può essere escluso quando una delle parti si avvalga del procedimento di mediazione previsto in via generale dal D.Lgs.
n. 28/2010. La disposizione prevede la possibilità che sia stato l’intermediario a chiedere la conciliazione in altra sede; però — in questo caso —
occorre che l’investitore abbia dato il proprio consenso. Mentre dunque il
procedimento di conciliazione dinanzi alla Consob può essere avviato solo
dall’investitore, in altri contesti può accadere che la conciliazione venga
avviata dall’intermediario. Se, però, il procedimento è stato avviato in altra
sede senza il consenso dell’investitore, questi rimane libero di avvalersi del
procedimento Consob.
Il secondo caso in cui l’istanza di conciliazione non può essere accolta
si verifica quando non sia stato previamente presentato reclamo dell’investitore nei confronti dell’intermediario finanziario. Sussiste dunque una graduazione dei rimedi esperibili dall’investitore: il meccanismo meno invasivo è quello del reclamo; se il reclamo non produce effetti può essere avviato il procedimento di conciliazione. Naturalmente può succedere che
l’intermediario non prenda posizione sul reclamo e questo atteggiamento di
passività non può produrre l’effetto di ridurre la tutela di cui gode l’investitore. Per questa ragione la legge prevede espressamente che l’istanza di
conciliazione possa essere presentata anche quando il reclamo non sia stato
trattato dall’intermediario entro il termine di novanta giorni. Decorso un
tale lasso di tempo, si presume che l’intermediario non voglia rispondere al
reclamo e si lascia libero l’investitore di avviare il procedimento di conciliazione.
Non è risolto espressamente dal legislatore del D.Lgs. n. 179/2007 il
rapporto che intercorre fra il procedimento di conciliazione e il giudizio civile.
Sotto un primo profilo il problema è se le parti possano iniziare un
procedimento civile in pendenza del procedimento di conciliazione. A questa domanda deve essere data risposta negativa. Il D.Lgs. n. 179/2007 deve
difatti essere raccordato con le disposizioni del D.Lgs. n. 28/2010. Secondo
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questo testo normativo di carattere generale, l’azione in giudizio presuppone l’esperimento di un tentativo di mediazione (art. 5, comma 1, D.Lgs.
n. 28/2010). L’investitore, accortosi che l’intermediario non è disponibile a
giungere a un accordo a condizioni gradite al risparmiatore, può sı̀ rivolgersi all’autorità giudiziaria, ma solo dopo avere esperito un tentativo di
conciliazione (oppure di mediazione).
Sotto un secondo profilo la questione è se ci si possa rivolgere alla
Camera di conciliazione presso la Consob anche quando è già stato instaurato un processo civile. A me pare che a questo secondo quesito si possa
dare risposta positiva, se si vuole interpretare la normativa in un’ottica più
ampia possibile di deflazione del contenzioso civile. Bisogna peraltro dire
che è improbabile che, instaurato un giudizio civile, le parti ricorrano alla
conciliazione Consob. Difatti, se volessero giungere a un accordo transattivo potrebbero ben farlo nel corso del processo civile. Il carattere solo teorico del possibile ricorso alla conciliazione Consob a processo già avviato
risulta dal fatto che, ai sensi della disposizione generale dell’art. 5, comma
1, D.Lgs. n. 28/2010, un tentativo di mediazione è condizione di procedibilità dell’azione. Si dovrebbe dunque pensare all’ipotesi che, inizialmente
le parti siano ricorse inutilmente a un tentativo di mediazione di carattere
generale (fallito); e, solo una volta avviata l’azione in giudizio, tentino la
conciliazione Consob. Teoricamente questo ordine di avvenimenti è possibile, ma è altamente improbabile nella prassi.
Finora ci siamo occupati solo di quanto prevede direttamente la legge
in materia di presentazione dell’istanza di conciliazione. L’art. 8 reg. n.
16763/2008 interviene però a precisare i dettagli concernenti l’avvio del
procedimento.
L’istanza deve essere sottoscritta dall’investitore e « corredata della
documentazione attestante le condizioni di ammissibilità di cui all’articolo
7 » (art. 8, comma 1, reg. n. 16763/2008). L’art. 7 reg. n. 16763/2008 riproduce le condizioni di ammissibilità di cui all’art. 4, comma 2, D.Lgs. n.
179/2007 appena esaminate. Le condizioni di ammissibilità sono una negativa (non avere avviato altre procedure di conciliazione), l’altra positiva
(avere presentato reclamo senza avere ottenuto risposta). Con riferimento
alla prima condizione, è ragionevole assumere che l’investitore potrà limitarsi ad affermare di non avere avviato altre procedure di conciliazione, e
sarà semmai l’intermediario convenuto in conciliazione davanti alla Consob a eccepire che è pendente un’altra procedura di conciliazione. Con riferimento alla seconda condizione, l’investitore dovrebbe produrre copia
del reclamo presentato alla banca (anche se si deve rilevare che un tale
onere fa capo all’intermediario ai sensi dell’art. 8, comma 5, reg. n. 16763/
2008). L’istanza deve inoltre essere corredata della documentazione attestante il pagamento delle spese di avvio del procedimento. L’istanza « può
essere formulata utilizzando l’apposito modulo predisposto dalla Camera ».
L’utilizzo del modulo non è obbligatorio. Si tratta di una scelta che può es223
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sere preferibile nel caso in cui la controversia sia relativamente semplice e
non richieda particolari esplicazioni.
Il regolamento fissa il contenuto minimo dell’istanza, consistente nella
identificazione delle parti (« il nome, il cognome, il domicilio dell’istante
persona fisica ovvero, per le persone giuridiche, la denominazione, la sede
legale e il nome del legale rappresentante; gli indirizzi postali ed elettronici,
i numeri telefonici e di telefax da utilizzare nel corso del procedimento;
l’eventuale nomina di procuratori »), nella definizione dell’oggetto del contendere (« la descrizione della controversia e delle pretese, con indicazione
del relativo valore ») (12) e nell’impegno a rispettare le regole della conciliazione (« l’impegno a osservare gli obblighi di riservatezza e le altre
norme del presente regolamento »).
Come si è visto, l’istanza di conciliazione Consob può essere presentata dal solo investitore (e non dall’intermediario finanziario). Essa, al fine
di realizzare il necessario contraddittorio, deve però essere portata a conoscenza dell’intermediario. Al riguardo il regolamento prevede che
« l’istanza deve essere comunicata all’intermediario con mezzo idoneo a
dimostrarne l’avvenuta ricezione e depositata nei successivi trenta giorni
presso la Camera » (art. 8, comma 2, reg. n. 16763/2008). Si possono considerare mezzi idonei a dimostrare l’avvenuta ricezione — classicamente
— la raccomandata con ricevuta di ritorno, ma anche il fax e la posta elettronica certificata.
Sarebbe inutile assoggettare l’istanza di conciliazione a condizioni di
ammissibilità se poi nessuno si premura di verificare il rispetto di tali presupposti. Per questa ragione si prevede che « la Camera valuta l’ammissibilità dell’istanza entro cinque giorni dal suo deposito, invitando l’istante a
procedere entro un congruo termine ad eventuali integrazioni e correzioni.
Decorso inutilmente il termine assegnato, la Camera dichiara la inammissibilità dell’istanza dandone tempestiva comunicazione all’investitore e all’intermediario » (art. 8, comma 3, reg. n. 16763/2008). Anche questa disposizione rivela il favore del regolatore per l’istituto della conciliazione.
Non si deve dimenticare che chi promuove il procedimento di conciliazione
è un investitore non professionale e, dunque, un soggetto strutturalmente
debole. A ciò si aggiunga che il risparmiatore non è obbligato ad avvalersi
della difesa tecnica prestata da un avvocato. Per queste ragioni non si possono di certo escludere errori nella presentazione dell’istanza. La Camera
opera allora in ausilio dell’investitore, indicando quanto debba essere ancora fatto per rendere la domanda ammissibile. A tal fine fissa un termine
per tutti i necessari adempimenti.
(12) Più avanti il regolamento specifica che « il valore della controversia è determinato ai sensi degli articoli 10 e seguenti del codice di procedura civile e rileva ai fini del calcolo delle indennità da porre a carico delle parti » (art. 15 reg. n. 16763/2008).
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Oltre che l’investitore è anche la Camera a rivolgersi direttamente all’intermediario finanziario. Difatti « la Camera, ritenuta l’ammissibilità dell’istanza, entro cinque giorni dal suo deposito ovvero dalle integrazioni e
correzioni richieste, invita l’intermediario ad aderire al tentativo di conciliazione, trasmettendo le eventuali integrazioni e correzioni » (art. 8,
comma 4, reg. n. 16763/2008).
Nel procedimento il ruolo del « convenuto » viene assunto dall’intermediario. Questi « comunica alla Camera e all’investitore, con mezzo idoneo a dimostrarne l’avvenuta ricezione, non oltre i cinque giorni successivi
alla comunicazione dell’invito della Camera, la propria adesione al tentativo di conciliazione con apposito atto contenente l’impegno a osservare gli
obblighi di riservatezza » (art. 8, comma 5, reg. n. 16763/2008). L’atto deve
essere corredato: « a) dei documenti attestanti il pagamento delle spese di
avvio della procedura; b) della documentazione afferente al rapporto contrattuale controverso, ivi compreso il reclamo proposto dall’investitore e le
eventuali determinazioni assunte al riguardo ». L’inosservanza di norme di
comportamento presuppone l’instaurazione di un rapporto contrattuale fra
le parti. Il regolamento esige che sia l’intermediario a produrre la relativa
documentazione. A ben vedere, l’investitore dovrebbe essere in possesso di
una copia del contratto (l’art. 23, comma 1, t.u.f. impone difatti alla banca
di consegnare un esemplare del contratto al cliente). Tuttavia, in un’ottica
di semplificazione per il risparmiatore, l’onere di produrre in conciliazione
la documentazione contrattuale viene imposto all’intermediario.
Naturalmente può capitare che l’intermediario non intenda aderire alla
conciliazione e ciò rende vano il procedimento previsto dal legislatore. Per
questo caso la Camera attesta la mancata, tempestiva, adesione dell’intermediario al tentativo di conciliazione (art. 8, comma 6, reg. n. 16763/2008).
Questa attestazione è utile perché consente all’investitore di adire le vie
giudiziarie senza essere esposto all’eccezione di improcedibilità. Alla luce
dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010 l’esperimento di un tentativo di
mediazione è condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria. Il deposito
di tale attestazione in allegato all’atto di citazione soddisfa senz’altro il requisito di legge e impedisce all’intermediario convenuto di sollevare con
successo l’eccezione di improcedibilità.
A questo punto le parti si possono considerare « costituite » nel procedimento. Successivamente si tratta allora di procedere alla nomina del
conciliatore. Non ci soffermeremo in questa sede sulle disposizioni di dettaglio che regolano la nomina del conciliatore (art. 9 reg. n. 16763/2008) e
determinano i suoi obblighi (art. 10 reg. n. 16763/2008).
4.
Il procedimento di conciliazione.
Una volta costituitesi le parti e nominato il conciliatore, l’istanza di
225
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conciliazione deve essere esaminata nel corso di un apposito procedimento.
In materia di procedimento, la legge si limita a enunciare alcune regole di fondo, prevedendo che « il regolamento di cui all’articolo 2, comma
5, lettera f), disciplina le norme di procedura nel rispetto dei principi di riservatezza, imparzialità, celerità e di garanzia del contraddittorio, fatta
salva la possibilità di sentire le parti separatamente » (art. 4, comma 3,
D.Lgs. n. 179/2007) (13). Tale delega al regolamento ha trovato espressione
nell’art. 11 reg. n. 16763/2008, che stabilisce i principi generali della procedura.
Secondo tale disposizione « la procedura di conciliazione si ispira ai
principi dell’immediatezza, della concentrazione e dell’oralità ed è coperta
da riservatezza in tutte le sue fasi » (art. 11, comma 1, reg. n. 16763/2008).
Con particolare riferimento alla riservatezza si prevede che « la Camera assicura adeguate modalità di conservazione e di riservatezza degli atti introduttivi della procedura di conciliazione nonché di ogni altro documento
proveniente dai soggetti che hanno partecipato a qualsiasi titolo alla procedura di conciliazione o formatosi nel corso della procedura stessa » (art. 11,
comma 2, reg. n. 16763/2008). Infine « la procedura di conciliazione si
ispira a principi di imparzialità e garanzia del contraddittorio, fatta salva la
possibilità per il conciliatore di sentire le separatamente le parti » (art. 11,
comma 3, reg. n. 16763/2008).
Potrebbe apparire sorprendente la disposizione secondo cui « la conciliazione si svolge, di regola, nel luogo in cui è il domicilio del conciliatore » (art. 12, comma 1, reg. n. 16763/2008). Normalmente difatti, quando
una delle parti (nel caso di specie, l’investitore) si trova in una posizione di
debolezza nei confronti dell’altra (nel caso di specie, l’intermediario), tale
situazione viene per cosı̀ dire « compensata » con il fatto che la parte debole viene favorita sotto il profilo della competenza per territorio. In questo senso va interpretato il fatto che la legge presuma come vessatoria, fino
a prova contraria, la clausola con cui si stabilisce « come sede del foro
competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore » (art. 33, comma 2, lett. u, cod. cons.).
Nel caso di specie bisogna peraltro dire che il procedimento di concilia-
(13) L’art. 2 D.Lgs. n. 179/2007, richiamato dalla disposizione in esame, istituisce la
Camera di conciliazione e arbitrato. La norma richiamata si limita peraltro a dettare alcune
regole di fondo dell’organizzazione e del funzionamento della medesima, rinviando per il resto a un regolamento della Consob. In particolare il regolamento della Consob definisce: « a.
l’organizzazione della Camera di conciliazione e arbitrato; b. le modalità di nomina dei componenti dell’elenco dei conciliatori e degli arbitri...; c. i requisiti di imparzialità, indipendenza, professionalità e onorabilità dei componenti dell’elenco dei conciliatori e degli arbitri; d. la periodicità dell’aggiornamento dell’elenco dei conciliatori e degli arbitri; e. le altre
funzioni attribuite alla Camera di conciliazione e arbitrato; f. le norme per i procedimenti di
conciliazione e di arbitrato » (art. 2, comma 5, D.Lgs. n. 179/2007).
226
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zione non può essere equiparato a un giudizio né il regolamento Consob
può essere equiparato a un contratto. Inoltre il regolamento non è che privilegi la posizione dell’intermediario, avendo il regolatore scelto un’alternativa neutrale: il domicilio del conciliatore. Infine si osservi che la tutela
« territoriale » dell’investitore si realizza comunque, in quanto la Camera
— nel nominare il conciliatore — deve attenersi al criterio della « vicinanza territoriale all’investitore » (art. 9, comma 1, reg. n. 16763/2008).
Non è pertanto garantito che investitore e conciliatore siano domiciliati
esattamente nello stesso comune, ma è probabile che non distino di molto,
realizzandosi cosı̀ — nei fatti — quell’esigenza di tutela cui si è accennato.
La soluzione fatta propria dalla Consob appare, dunque, complessivamente
equilibrata.
Ispirata alla regola delle celerità è la disposizione secondo cui « il
conciliatore fissa la data e la sede per la prima riunione non prima di cinque e non oltre dieci giorni dalla data di accettazione, dandone tempestiva
comunicazione alle parti e alla Camera » (art. 12, comma 2, reg. n. 16763/
2008). Il tempo minimo concesso alle parti è dunque di una settimana,
mentre il tempo massimo è di due settimane. Mi pare che il termine minimo sia ragionevolmente equo per consentire alle parti una sufficiente preparazione in vista dell’incontro con il conciliatore. Va di nuovo sottolineato
che la preparazione non concerne elementi di diritto (non rilevanti per la
decisione del conciliatore), ma la esposizione dei fatti e le condizioni alle
quali si è disposti a conciliare.
Il regolamento prevede che il conciliatore « conduce gli incontri senza
formalità di procedura e senza obbligo di verbalizzazione e nel modo che
ritiene più opportuno, tenendo conto delle circostanze del caso, della volontà delle parti e della necessità di trovare una rapida soluzione della lite »
(art. 12, comma 3, reg. n. 16763/2008). Il procedimento è dunque ispirato
alla massima informalità e all’oralità. Ovviamente il compito del conciliatore è, dapprima, quello di ricostruire gli accadimenti, basandosi sul racconto effettuato dalle parti e — se necessario — sulla visione della documentazione prodotta. In un secondo momento la funzione del conciliatore
è quella di proporre una soluzione alla controversia che possa andare bene
ad ambedue le parti. Il conciliatore non deve invece ricondurre i fatti esposti a diritto, in quanto il suo compito — diversamente da quello di un giudice — non è di determinare chi abbia ragione e chi torto, ma solo quella
di proporre una soluzione che vada bene alle parti.
Con riferimento all’obiettivo della celerità, la legge prevede che « in
ogni caso il procedimento deve essere concluso nel termine massimo di
sessanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza di conciliazione »
(art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 179/2007). Si tratta, evidentemente, di una disposizione mirante a garantire una veloce soluzione della controversia. Il
termine previsto dalla legge appare peraltro piuttosto breve e quindi forse
destinato nella prassi a essere superato con una certa frequenza. Si pone
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cosı̀ il problema di comprendere cosa succeda una volta decorso inutilmente tale termine.
Con riguardo al possibile superamento del termine massimo di durata
del procedimento, il regolamento prevede che « il conciliatore, con il consenso delle parti, proroga il termine per la conclusione della procedura per
un periodo non superiore a sessanta giorni, comunicandolo alla Camera,
quando: a) ricorrono oggettivi impedimenti del conciliatore o delle parti; b)
è necessario acquisire informazioni e documenti indispensabili ai fini dell’esperimento del tentativo di conciliazione; c) vi è la ragionevole possibilità di un esito positivo della procedura » (art. 13, comma 2, reg. n. 16763/
2008). Anzitutto si noti che la proroga del termine è possibile solo con il
consenso di ambedue le parti. Questa disposizione è posta a vantaggio dell’investitore, il quale — se ritiene che il procedimento di conciliazione non
lo tuteli adeguatamente — può negare il proprio consenso alla proroga e,
dovendosi cosı̀ considerare fallito il tentativo di conciliazione, rimane libero di rivolgersi all’autorità giudiziaria. Dalla lettura della disposizione
regolamentare non si riesce peraltro a comprendere con certezza se i requisiti fissati per la proroga siano previsti in via alternativa (nel senso che basta uno di essi per la proroga) o cumulativa (nel senso che devono ricorrere
tutti e tre). Nel caso in cui il termine non venga prorogato, il tentativo di
conciliazione deve considerarsi come fallito, con la conseguenza che le
parti possono rivolgersi all’autorità giudiziaria.
5.
Gli esiti della conciliazione.
Una volta ascoltate le parti, ci si avvia verso l’esito del procedimento.
I possibili esiti della conciliazione sono delineati nel regolamento attuativo:
l’alternativa è fra la possibilità che la conciliazione riesca oppure che essa
non vada in porto.
Con riferimento al possibile esito positivo della conciliazione, il regolamento prevede che « se la conciliazione riesce, i contenuti dell’accordo
sono riportati in apposito processo verbale, sottoscritto dalle parti e dal
conciliatore. Se le parti non danno spontanea esecuzione alle previsioni
dell’accordo conciliativo, il verbale, previo accertamento della sua regolarità formale, è omologato con decreto del presidente del tribunale nel cui
circondario ha avuto luogo la conciliazione e costituisce titolo esecutivo per
l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale » (art. 14, comma 1, reg. n. 16763/2008). Questa disposizione prevede anzitutto la formalizzazione dell’accordo raggiunto fra le parti in un testo scritto. L’utilità del ricorso alla forma scritta
è di tutta evidenza: essa serve a suggellare gli accordi intercorsi, evitando
successivi ripensamenti delle parti nonché possibili successive difformità di
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visione sull’esatto contenuto degli accordi raggiunti. È significativo che
l’accordo, pur redatto dal conciliatore, venga sottoscritto dalle parti. Successivamente le parti devono dare esecuzione a tale accordo. Può però naturalmente capitare che la parte tenuta a un certo adempimento in esecuzione dell’accordo conciliativo non vi proceda spontaneamente, rendendo
cosı̀ necessaria l’esecuzione forzata. A tal fine viene attribuito al presidente
del tribunale il potere di omologare il verbale di conciliazione. In questo
contesto il potere del presidente del tribunale si limita all’accertamento
della regolarità formale del verbale. Una volta conseguita l’omologazione,
il verbale costituisce titolo esecutivo.
Con riferimento al possibile esito negativo del procedimento di conciliazione, il regolamento prevede che « quando non è raggiunto l’accordo,
su istanza congiunta delle parti il conciliatore formula una proposta rispetto
alla quale ciascuna delle parti, se la conciliazione non ha luogo, indica la
propria definitiva posizione ovvero le condizioni alle quali è disposta a
conciliare. Di tali posizioni il conciliatore dà atto in apposito verbale di
fallita conciliazione » (art. 14, comma 2, reg. n. 16763/2008). È probabile
che questa disposizione sia destinata a non assumere particolare rilevanza
pratica, in quanto essa presuppone un’istanza congiunta delle parti. Dal
momento che le parti non sono riuscite a conciliarsi, esse — di norma —
non presteranno il proprio consenso all’espressione di proposte conciliative.
Il procedimento di conciliazione produce i suoi effetti solo in ambito
civilistico. Per escludere qualsiasi rilevanza dal punto di vista amministrativo, la legge specifica che « le dichiarazioni rese dalle parti nel procedimento di conciliazione non possono essere utilizzate nell’eventuale procedimento sanzionatorio nei confronti dell’intermediario avanti l’autorità di
vigilanza competente per l’irrogazione delle sanzioni amministrative previste per le medesime violazioni » (art. 4, comma 7, D.Lgs. n. 179/2007). Al
fine di comprendere appieno il significato di questa disposizione, bisogna
riflettere sul fatto che — nella materia dell’intermediazione finanziaria —
convivono norme di rilevanza civile con regole di rilievo amministrativo.
Se, ad esempio, il cliente dell’intermediario contesta l’inosservanza dei doveri informativi dell’intermediario finanziario (art. 21 t.u.f.) e pretende il
risarcimento del danno che ne è derivato (14), tale richiesta si gioca sul
piano meramente civilistico del rapporto fra due soggetti privati.
(14) Le conseguenze civilistiche della violazione delle norme di comportamento degli intermediari finanziari sono state definite in due importanti sentenze della Corte di cassazione: Cass., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, in Banca borsa tit. cred., 2009, II, 133
ss., con nota di BOVE; in Contratti, 2008, 221 ss., con nota di SANGIOVANNI; in Corr. giur.,
2008, 223 ss., con nota di MARICONDA; in Danno resp., 2008, 525 ss., con note di ROPPO e di
BONACCORSI; in Dir. banca merc. fin., 2008, 691 ss., con nota di MAZZINI; in Dir. giur., 2008,
407 ss., con nota di RUSSO; in Giur. comm., 2008, II, 604 ss., con nota di BRUNO - ROZZI; in
Giust. civ., 2008, I, 2775 ss., con nota di FEBBRAJO; in Riv. dir. comm., 2008, II, 155 ss., con
nota di CALISAI; in Società, 2008, 449 ss., con nota di V. SCOGNAMIGLIO. In tali sentenze è stato
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Sarebbe tuttavia insufficiente limitarsi al lato privatistico del rapporto
(relazione diretta investitore-intermediario finanziario). In effetti un’altra
disposizione del t.u.f. (l’art. 190) prevede sanzioni amministrative (la sanzione amministrativa pecuniaria da euro duemilacinquecento a euro duecentocinquantamila) nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di
amministrazione o di direzione e dei dipendenti di società o enti abilitati i
quali violino — fra le altre norme — l’art. 21 t.u.f. Il legislatore si ispira
al principio del favore del meccanismo conciliativo. A questo fine vuole
evitare che l’intermediario possa essere reticente in sede di conciliazione
nel timore di subire successivamente delle sanzioni amministrative. Grazie
alla disposizione in esame, gli intermediari possono conciliare « liberamente », facendo anche ammissioni relative a propri comportamenti in violazione di disposizioni di legge. Se successivamente la conciliazione non
dovesse riuscire, tali dichiarazioni non producono effetti nel possibile separato procedimento amministrativo.
Le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 179/2007 in materia di conciliazione stragiudiziale si concludono prevedendo che « con il predetto regolamento sono determinate le modalità di nomina del conciliatore per la
singola controversia e il compenso a questi spettante... nonché l’importo
posto a carico degli utenti per la fruizione del servizio di conciliazione
stragiudiziale » (art. 4, comma 8, D.Lgs. n. 179/2007). Appare utile spendere qualche parola sui costi della conciliazione, tema evidentemente sen-
affermato il principio di diritto secondo cui la violazione dei doveri d’informazione del
cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità
precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione
destinato a regolare i successivi rapporti fra le parti; può invece dar luogo a responsabilità
contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di
violazioni riguardanti le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione
del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però
determinare la nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti,
a norma dell’art. 1418 c.c. Per un ulteriore approfondimento delle tematiche affrontate dalla
Corte di cassazione nelle sentenze nn. 26724 e 26725 del 2007 cfr. anche CESIANO, Gli obblighi dell’intermediario finanziario nella prestazione dei servizi di investimento dagli orientamenti della giurisprudenza di merito alle Sezioni Unite, in Riv. dir. soc., 2008, 614 ss.;
CHESSA, A proposito della violazione degli obblighi di informazione nel contratto di investimento finanziario dopo l’intervento della Suprema Corte a Sezioni Unite, in Riv. giur. sarda,
2008, 734 ss.; GENTILI, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le
Sezioni Unite, in Contratti, 2008, 393 ss.; MAFFEIS, Dopo le Sezioni Unite: l’intermediario
che non si astiene restituisce al cliente il denaro investito, in Contratti, 2008, 555 ss.; PROSPERI, Violazione degli obblighi di informazione nei servizi di investimento e rimedi contrattuali (a proposito di Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725), in Contr. impr.,
2008, 936 ss.
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sibile per chi si avvicina a questo meccanismo di risoluzione delle controversie. Al riguardo si tenga presente che il rapporto di forza fra i contraenti
non è certo identico, dal momento che si confrontano un investitore (normalmente una persona fisica) e un intermediario finanziario (ossia una persona giuridica), soggetti dotati di ben diversa capacità economica. Il legislatore non può essere insensibile a questo aspetto se vuole rendere efficiente lo strumento della conciliazione.
Il regolamento prevede che « le indennità per la fruizione del servizio
di conciliazione sono costituite dalle spese di avvio della procedura, da
corrispondere alla Camera, dal compenso del conciliatore e dalle spese da
questi sostenute, rimborsabili ai sensi del comma 5 » (art. 16, comma 1,
reg. n. 16763/2008).
Per quanto riguarda le spese di avvio della procedura, queste « sono
versate dalle parti all’atto del deposito, rispettivamente, dell’istanza e dell’atto di replica » (art. 16, comma 2, reg. n. 16763/2008). Bisogna considerare che tali spese sono veramente modeste, prevedendo l’allegato al reg.
n. 16763/2008 che si tratti di 30 euro per ciascuna parte.
Più consistente è l’ammontare di quanto dovuto a titolo di compenso del conciliatore. Al riguardo il regolamento prevede che « quando
la conciliazione riesce, il pagamento del compenso del conciliatore grava
in capo alle parti, che vi sono tenute solidalmente fra loro. In caso di
mancata conciliazione, la metà del compenso è posta a carico della camera » (art. 16, comma 3, reg. n. 16763/2008). L’allegato del regolamento determina l’ammontare del compenso del conciliatore in relazione
al valore della controversia. Curiosa è la previsione che, in caso di mancata conciliazione, spetta alla Camera pagare la metà delle spese del
conciliatore (l’altra metà del compenso continua a gravare sulle parti in
via solidale). Questa previsione produce due effetti. Da un lato si incentiva il tentativo di conciliazione: l’investitore sa che, se non si giungerà
a un accordo, sarà tenuto a pagare solo la metà della metà del compenso.
Trattandosi di importi relativamente modesti, il costo della fruizione del
servizio non dovrebbe disincentivare i risparmiatori. Contemporaneamente si è però scelto di non rendere il servizio gratuito in quanto tale
soluzione avrebbe aperto la strada a tentativi di conciliazione strumentali. Sotto un altro profilo, il fatto che la Camera debba reggere la metà
del compenso del conciliatore in caso di esito negativo della conciliazione spinge la Camera a scegliere conciliatori particolarmente abili. La
Camera è co-interessata al buon esito della conciliazione.
Infine il conciliatore ha diritto al rimborso delle spese: « la Camera,
con atto sottoposto all’approvazione della Consob secondo quanto previsto
dall’articolo 3, comma 3, determina in via generale le spese necessarie per
l’esecuzione dell’incarico, rimborsabili al conciliatore » (art. 16, comma 5,
reg. n. 16763/2008). Con questa disposizione viene attribuito alla Camera
il potere di determinare quali siano, in generale, le spese rimborsabili. Evi231
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dentemente si deve trattare di spese direttamente connesse con lo svolgimento dell’incarico. Con riferimento poi alla liquidazione delle spese concretamente affrontate dal conciliatore nel caso specifico « la Camera, dietro
proposta del conciliatore, liquida il compenso ad esso spettante e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione dell’incarico, ove opportunamente documentate. La liquidazione cosı̀ effettuata è vincolante per le
parti » (art. 16, comma 6, reg. n. 16763/2008).
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DOCUMENTI E NOTIZIE
Notizie libri
Appare, nella collana dei Breviaria iuris (Cedam, 2010) il Commentario breve
al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di M.V. Benedetelli, C.
Consolo e L.G. Radicati di Brozolo. Se ne sentiva la necessità. Ma al di là della
soddisfazione per la lacuna colmata, l’opera è da salutare con estremo favore perché ben più approfondita e prestigiosa (e « personale » e creativa negli apporti di
molti fra i numerosi commentatori) di quanto non accada di solito nel settore editoriale nel quale essa si colloca.
Esemplare è poi la completezza delle fonti commentate (oltre alle norme interne ed alle convenzioni internazionali, una ampia silloge di regolamenti arbitrali),
e particolarmente azzeccata è — nella parte seconda — la scelta del commento,
piuttosto che per complessi normativi, « per materie », trovandosi poi all’interno di
ciascuna di esse (convenzione arbitrale, sede dell’arbitrato, organo arbitrale, procedura arbitrale, misure cautelari, impugnazione, riconoscimento ed esecuzione ecc.)
riprodotte e chiosate sinotticamente le varie fonti normative volta a volta implicate.
[A.B.]
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