Avvocati di famiglia n. 2 2014 - Osservatorio nazionale sul diritto di

ISSN 2039-6503
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 2 - aprile-giugno 2014
Anno VII - n. 2 - aprile-giugno 2014 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma
Avvocatidifamiglia
Il ruolo dell’avvocato durante la crisi della famiglia
L’ascolto del minore
I provvedimenti patrimoniali in materia familiare
dopo la riforma
Il nuovo art. 38 delle disposizioni di attuazione
del codice civile
La soft law nel diritto di famiglia
Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno VII, n. 2 - aprile-giugno 2014
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
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SOMMARIO
Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
Sommario
Editoriale
Riflessioni sul ruolo dell'avvocato durante
la crisi della famiglia tra diritto, etica
e deontologia. Tra passato e futuro 2
(Emanuela Comand)
La questione
L’ascolto del minore: principi giusti
e rischi di neopuerocentrismo 5
(Gianfranco Dosi)
Riforme
Gli strumenti a garanzia dei provvedimenti
patrimoniali in materia familiare
dopo la riforma 20
(Sara Maffei)
Considerazioni sul nuovo art. 38
delle disposizioni di attuazione
del codice civile 29
(Flora Randazzo)
Mediazione
Approcci interdisciplinari e conciliativi
nella crisi familiare: la soft law nel diritto
di famiglia 34
(Sara Maffei)
Giurisprudenza
Non sussiste sospensione della prescrizione
tra coniugi separati 40
(Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981)
Non costituiscono maltrattamenti in famiglia
fatti occasionali ed episodici determinati
da rapporti interpersonali connotati
da permanente conflittualità 44
(Cass. pen. Sez. VI, 20 gennaio 2014 n. 2326)
Il punto di vista: Maltrattamenti familiari
denunziati dal coniuge responsabile
del fallimento del vincolo matrimoniale
(Giancarlo Savi) 46
L’ordinanza del 3 aprile 2014, nel procedimento
113/2014 presso il Tribunale di Grosseto
sulla trascrizione del matrimonio celebrato
all’estero tra persone dello stesso sesso 56
(Giancarlo Mazzotta)
Linee guida
Linee guida sulla pubblicità degli avvocati 67
(Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma seduta del 9 gennaio 2014)
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EDITORIALE
EMANUELA COMAND, AVVOCATO, PRESIDENTE DELLA SEZIONE DI UDINE DELL’OSSERVATORIO
RIFLESSIONI SUL RUOLO DELL'AVVOCATO DURANTE
LA CRISI DELLA FAMIGLIA TRA DIRITTO, ETICA
E DEONTOLOGIA. TRA PASSATO E FUTURO
1. Il ruolo dell’avvocato si è modificato negli ultimi decenni, adattandosi alle esigenze di una società che cambia continuamente. Da difensore di diritti violati, da rappresentante di interessi di natura
eminentemente economica, abbiamo dovuto modificare il nostro rapporto nei confronti dei cittadini,
passando da un ruolo squisitamente processuale ad
un complesso di attività che lambiscono vari rami
del sapere e delle scienze umane.
Sebbene il nostro compito sia quello di tutelare i
diritti delle persone, è indubbio che negli ultimi anni
siamo stati chiamati ad impegni sempre più complessi, affinando via via le nostre capacità e potenziando, non solo l’aspetto della formazione, ma anche e soprattutto acquisendo una sempre maggiore
consapevolezza del nostro ruolo.
2. L’avvocato che si occupa del diritto di famiglia e
dei minori, sente in maniera particolare tale esigenza e, nel tempo, anche grazie al fiorire delle associazioni che si occupano di famiglia, ha imparato
a coniugare le conoscenze tecniche, con la sempre
maggiore capacità di entrare in empatia con le persone che si rivolgono a lui e chiedono aiuto.
L’avvocato deve affrontare situazioni dolorose, di
disagio, spesso legate alla violenza fisica e morale.
Il continuo confronto con situazioni complesse e
difficili, impone l’acquisizione di nuovi strumenti di
comunicazione e maggiore comprensione per le esigenze dei cittadini.
3. L’avvocato che si occupa di famiglia e di minori
non può limitarsi a fornire notizie relative alle norme
ed al funzionamento della giustizia, ma ha il dovere
di valutare le relazioni familiari nel loro complesso.
Il suo nuovo compito è quello di preservare, per
quanto possibile i rapporti affettivi tra i componenti
della famiglia, sia che si tratti di fornire informazioni che possono dirimire all’origine la nascita di
conflitti, sia ricercando, ove possibile ed anche con
l’ausilio di strumenti alternativi al processo, la composizione in via bonaria delle vertenze.
Ciò postula la ricerca di un difficile e continuo
equilibrio, tra la doverosa attività di tutela dei diritti
del proprio assistito (dovere peraltro imposto dalla
legge professionale e dal codice di deontologia forense) ed una visione più ampia dei rapporti intercorrenti con gli altri componenti familiari.
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In un’ottica così complessa, diventa fondamentale l’opera di mediazione, tra il doveroso rispetto
dei diritti della parte e l’identificazione dell’ideale
composizione delle esigenze anche degli altri componenti del nucleo familiare.
Questo non significa accettare di sacrificare i diritti di un componente della famiglia rispetto ad un
altro, ma acquisire la capacità di individuare il
punto di equilibrio tra le varie istanze, valorizzando
i punti di contatto ed evitando di esasperare i punti
di frizione.
Ciò impone un duplice sforzo: da un lato presuppone una conoscenza tecnico-giuridica delle norme
che disciplinano il diritto di famiglia con particolare
attenzione ai diritti dei minori, dall’altro impone
un’attività di individuazione ed interpretazione
delle esigenze individuali e complessive dei componenti del nucleo familiare, qualunque ne sia la composizione.
L’avvocato di famiglia ha spesso il difficile compito di “ridimensionare” le pretese del proprio assistito, senza peraltro frustrarne i diritti.
Compito molto complesso che può allontanare i
clienti particolarmente “accaniti” e desiderosi di
vincere ad ogni costo.
L’avvocato di famiglia non dovrebbe invece voler
semplicemente vincere la causa, a scapito dell’equilibrio complessivo del nucleo familiare, ma
ottenere la massima soddisfazione per il proprio assistito, utilizzando al meglio gli strumenti processuali che la legge gli riconosce.
Avvocato di famiglia e cliente
Quali sono i problemi che si pongono ad un avvocato che si trova per la prima volta di fronte ad un
cliente?
Deve individuare le problematiche del futuro assistito e comprendere quali siano le dinamiche che
si sono sviluppate all’interno della famiglia.
Deve comprendere il tipo di clienti che dovrà assistere dal momento che molto spesso il cliente
identifica nell’avvocato il proprio “braccio armato”
e delega a lui una serie di azioni che nulla hanno a
che vedere con la mera attività processuale. Non è
infrequente, nel corso dei primi colloqui, raccogliere
sfoghi accorati o violenti con richieste di vendette,
punizioni, ritorsioni.
EDITORIALE
Vi sono poi “categorie” di clienti che vedono nell’avvocato un sostegno, che va ben oltre l’assistenza
di tipo legale.
In questo caso il nostro apporto può non essere
sufficiente e si rende necessario un adeguato sostegno psicologico, che andrà fornito da altri operatori
di sostegno al nostro ruolo quali psicologi, psicoterapeuti, mediatori familiari, ecc.
È poi necessario analizzare le relazioni che il proprio assistito ha con il coniuge, il convivente, i figli.
Per acquisire un quadro complessivo della situazione familiare ed inquadrare anche le dinamiche
conflittuali, può essere utile valutare i rapporti economici esistenti all’interno del nucleo familiare poiché, alle volte la crisi è direttamente connessa con le
questioni economiche ed è il frutto di rancori o recriminazioni collegati a rapporti patrimoniali sbagliati.
Questo può accadere quando uno dei due coniugi
svolge un’attività di casalinga e dipende totalmente
dall’altro coniuge; oppure quando i coniugi si sono
sposati molto giovani ed hanno costruito un rapporto matrimoniale, basato sulla dipendenza psicologica di uno rispetto all’altro.
Non è poi infrequente che, anche a fronte di condivisione di interessi patrimoniali, si siano sviluppate condizioni di sudditanza di un coniuge rispetto
all’altro, se non di sfruttamento.
Si pensi al fenomeno dell’impresa familiare ed
alla necessità di riequilibrare i rapporti economici
nel caso in cui, uno dei due coniugi, o conviventi, abbia prestato la propria attività lavorativa con totale
sacrificio e dedizione, senza peraltro ricevere soddisfazioni di tipo economico.
Avvocato di famiglia e altri operatori del diritto familiare
L’avvocato non è uno psicologo, non è un mediatore, non è un giudice; ma deve utilizzare tutti
gli aiuti e gli strumenti necessari per inquadrare
correttamente il caso, valutare le norme di legge
applicabili, valutare i rischi di un contenzioso anche con riferimento alle conseguenze dell’utilizzo
di determinati strumenti processuali, a volte invasivi per la vita familiare.
L’avvocato, oltre a rapportarsi con il cliente e con
gli altri componenti della famiglia (anche ad opera di
un altro avvocato), deve operare con altri operatori
del diritto, quali psicologi, assistenti sociali, responsabili delle comunità di accoglienza per i minori.
Al di là delle facili polemiche, è indubbio che con
tali soggetti sia essenziale instaurare un rapporto di
correttezza e coordinamento.
Spesso il rapporto con il consulente di parte, come
lo psicologo, è essenziale nella parte iniziale di un
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EDITORIALE
percorso processuale di separazione perché da un
lato ci permette di capire se la “fotografia che ci
siamo fatti” della famiglia corrisponda alla realtà,
dall’altro ci fornisce strumenti più raffinati per formulare quel progetto di separazione che dovrà “reggere” negli anni futuri.
Quanto alla mediazione familiare, senza nulla togliere al suo valore ed al merito di aver introdotto, nel
diritto di famiglia concetti ormai irrinunciabili quali
la necessità di uscire dal ghetto della ricerca a tutti i
costi della colpa ed al rispetto dei ruoli dei genitori, in
un’ottica di trasformazione dal rapporto coniugale a
quello puramente genitoriale, mi limito a ricordare
quanto affermava un noto psicoterapeuta quale Scaparro che disse che la prima mediazione che dovremmo
essere capaci di fare è quella tra di noi, cioè tra professionisti che a vario titolo si occupano di diritto di famiglia.
Avvocato di famiglia e deontologia
La deontologia rappresenta lo studio degli strumenti deontici, nel significato semantico del dover
essere.
L’avvocato nel rapportarsi con il cliente deve porre
in essere un determinato comportamento, confacente anche alle norme del nostro codice di deontologia forense.
Ma non basta: oltre al cliente, deve rispettare le
norme del codice di deontologia anche con riferimento ad altri operatori del diritto; e spesso ciò confligge con i valori di altre categorie professionali.
Sicuramente le regole che disciplinano i comportamenti del medico, dello psicologo, del mediatore,
ma anche del giudice, non sempre coincidono con i
doveri dell’avvocato.
Non solo: in un’ottica di più ampio respiro, possiamo affermare che spesso le stesse regole del nostro processo non rispettano i diritti dei minori e la
loro dignità.
La Convenzione di New York e la Convenzione di
Strasburgo, richiamano concetti più complessi dell’interesse del minore.
Possiamo affermare che il rispetto del principio
del contraddittorio, rappresenta in senso ampio la
proiezione del principio di uguaglianza?
È sufficiente il rispetto di tale principio nei procedimenti minorili per affermare che il minore è rispettato nelle sue primarie esigenze di tutela?
Si fa strada, tra coloro che operano nel mondo dei
minori, sempre più spesso l’idea che la rigidità del
processo, comprima la dignità dei minori.
Sicuramente l’ingresso nei procedimenti di famiglia e dei minori, di figure quali il curatore speciale
e l’avvocato del minore, rappresenta un passo
avanti, ma non è ancora sufficiente a garantire completamente quel diritto all’ascolto del minore, ovvero alle sue esigenze, che sembra rappresentare
ancora un’opzione all’interno del processo e non un
diritto irrinunciabile.
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Il problema è che per l’avvocato di famiglia non è
più sufficiente rispettare solo le regole dei codici e
della deontologia, ma deve sempre domandarsi a
cosa lo porterà l’utilizzo di un determinato strumento processuale.
È il grande dilemma del nostro mondo: “é sempre
possibile coniugare le regole del processo ed il fine
che si vuole perseguire?”
Per l’avvocato di famiglia, stretto tra le norme sostanziali e processuali, rispettoso dei diritti dei minori, osservante delle norme di deontologia è indispensabile operare tenendo presenti questi valori:
1. il rispetto del principio della bigenitorialità;
2. il dovere morale di far sì che il rapporto coniugale o di convivenza non degeneri in una
guerra senza fine;
3. avere una visione più ampia del singolo fatto,
recuperando il concetto della dignità delle persone e avendo ben chiara la necessità di mantenere in buono stato le relazioni familiari;
4. porsi molte e continue domande: devo sostenere le ragioni del mio cliente sempre e comunque?
Se il minore si trova all’interno di un conflitto ed
il mio intervento può determinare il peggioramento
della qualità della sua vita, come mi devo comportare?
Conclusioni
Non è vero che l’avvocato è sempre portato al
conflitto.
L’avvocato deve essere preparato ad affrontare il
conflitto, se questo è necessario e funzionale al
soddisfacimento di un diritto.
L’avvocato di famiglia può anche avere una funzione sociale e non deve temere di svolgere un ruolo
chiave nelle dinamiche familiari.
D’altro canto le nuove proposte di legge, identificano nell’avvocato uno strumento essenziale alla
deflazione del sistema giudiziario.
Si pensi agli organismi di mediazione, all’arbitrato, ma soprattutto alla negoziazione assistita,
che prevede la possibilità di risolvere un contenzioso solo grazie al nostro intervento, riconoscendo
poi valore di titolo esecutivo al nostro accordo.
*****
L’avvocato di famiglia può avere non solo una funzione sociale, ma anche “educativa”.
Il rapporto con le problematiche familiari ha arricchito la nostra professione, facendoci uscire da
schemi rigidi e sollecitando la nostra creatività.
Cambia il ruolo dell’avvocato perché cambia la società.
L’avvocato dovrà avere la capacità di inventare, costruire soluzioni diverse caso per caso.
Soluzioni diverse per persone e famiglie diverse.
LA QUESTIONE
L’ASCOLTO DEL MINORE: PRINCIPI GIUSTI
E RISCHI DI NEOPUEROCENTRISMO
GIANFRANCO DOSI, AVVOCATO, PRESIDENTE NAZIONALE DELL’OSSERVATORIO
I. Come è disciplinato nell’ordinamento giuridico l’obbligo di ascoltare il minore in tutte le procedure che
lo riguardano?
Il diritto del minore di essere ascoltato nei procedimenti che lo riguardano è stato sancito in via generale
nella Convenzione internazionale di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176). Al primo comma dell’articolo 12 si afferma che il fanciullo capace
di discernimento ha diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa. Il
secondo comma precisa «a tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni
procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o
un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale».
In base poi all’articolo 6 della Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del
25 gennaio 1996 (ratificata dall’Italia con la legge 20 marzo 2003, n. 77), l’audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardano è obbligatoria. Ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al
minore stesso, come risulta dal testo stesso della norma sovranazionale. La Convenzione prevede, infatti, che
ogni decisione relativa ai minori indichi le fonti di informazioni da cui ha tratto le conclusioni che giustificano il provvedimento adottato nel quale deve tenersi conto dell’opinione espressa dai minori, previa informazione a costoro delle istanze dei genitori nei loro riguardi e consultandoli personalmente sulle eventuali statuizioni da emettere, salvo che l’ascolto o l’audizione siano dannosi per gli interessi superiori dei minori stessi.
L’obbligatorietà dell’ascolto del minore è stata nel nostro ordinamento successivamente prescritta per le
procedure di separazione e divorzio nonché per quelle relative all’affidamento di figli nati fuori del matrimonio nell’articolo 155-sexies del codice civile (nel testo inserito dalla legge 14 febbraio 2006, n. 54, oggi articolo 337-octies, dopo la riforma operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il D. Lgs. 28 dicembre
2913, n. 154) dove si prevede che “il giudice dispone l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni
dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”. In tutte queste procedure, in cui il minore non
è parte processuale e non è assistito da un difensore, l’ascolto del minore risponde all’esigenza primaria di
effettività della tutela dei suoi diritti (Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
La riforma operata con la legge 219/2012 ha anche aggiunto nel medesimo articolo 337-octies del codice
civile la precisazione che “nei procedimenti in cui si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo alle condizioni di affidamento dei figli, il giudice non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse
del minore o manifestamente superfluo”.
La medesima riforma ha adeguato al principio anche l’articolo 4 della legge sul divorzio che al quarto
comma contiene ora la precisazione che all’udienza di comparizione iniziale emette gli eventuali provvedimenti temporanei e urgenti “…disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.
La novità della riforma del 2012 e 2013 sulla filiazione sta soprattutto, però, nel fatto di aver esteso espressamente a qualsiasi procedura giudiziaria – e non solo a quelle relative all’affidamento in sede di scissione
della coppia genitoriale – il diritto del minore ad essere ascoltato. Il principio generale è stato specificato nel
nuovo articolo 315-bis del codice civile il quale è intitolato “Diritti e doveri del figlio” e al secondo comma
precisa solennemente che “il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove
capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”.
Sempre la medesima riforma ha chiarito anche quali devono essere le modalità dell’ascolto del minore
prescrivendo in proposito nell’articolo 336-bis del codice civile che “Il minore che abbia compiuto gli anni
dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano. Se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato. L’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari. I genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il pubblico ministero, sono ammessi a
partecipare all’ascolto se autorizzati dal giudice, al quale possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento. Prima di procedere all’ascolto il giudice informa il minore della
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LA QUESTIONE
natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto. Dell’adempimento è redatto processo verbale nel quale
è descritto il contegno del minore, ovvero è effettuata registrazione audio video”.
Secondo l’articolo 38-bis delle disposizioni di attuazione del codice civile – introdotto dall’articolo 96 del
D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 di attuazione della legge - “i difensori, il curatore speciale e il pubblico ministero non devono richiedere l’autorizzazione del giudice allorché l’ascolto avviene con mezzi tecnici quali
l’uso di uno specchio unitamente ad impianto citofonico”.
Quindi l’ordinamento italiano contiene ora una disciplina giuridica ben definita e molto chiara sull’ascolto
del minore nell’ambito delle procedure giudiziarie che lo riguardano.
Una sintesi ricostruttiva molto efficace delle norme di legge oggi pacificamente ritenute applicabili è contenuta in due decisioni molto recenti. Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7479 ha chiarito per esempio che la
ancata previsione normativa dell’obbligatorietà dell’ascolto del minore nelle procedure di cui alla legge n.
64/1994 di attuazione della convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale dei minori, non esclude che
l’audizione del minore sia un adempimento doveroso in quanto previsto nell’art. 12 della Convenzione di
New York sui diritti del fanciullo per tutte le procedure relative ai minori; dagli artt. 3 e 6 della Convenzione
di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge 20 marzo 2003, n. 77 (Cass.17201 del 2011); infine
dal vigente L. n. 219 del 2012, art. 315 bis del codice civile.
Non è questa la sede per entrare nel merito di alcune perplessità che le norme sopra richiamate hanno
sollevato nel dibattito immediatamente successivo alla loro introduzione soprattutto con riferimento alle
ipotesi (contrasto con l’interesse del minore o manifesta superfluità dell’ascolto) in cui è possibile per il giudice sia pure con provvedimento motivato escludere l’ascolto, ovvero con riferimento alla discrezionalità del
giudice nell’escludere i genitori, i difensori, il curatore e addirittura il pubblico ministero dai momenti riservati all’ascolto del minore (ove non esistano locali o attrezzature idonee alla salvaguardia della serenità
del minore). Sarà la prassi nei tribunali a verificare se queste perplessità sono fondate o meno e sarà la giurisprudenza a costruire le regole minime per evitare che la discrezionalità possa vanificare le prospettive di
piena attuazione del diritto all’ascolto.
Per il momento, come si dirà più oltre, il dibattito tra i giuristi, in ambito forense e nella giurisprudenza è
impegnato soprattutto nella individuazione di linee guida in materia di ascolto del minore e nell’approfondimento delle conseguenze dell’ascolto. Ed in questa prospettiva non è inopportuno segnalare che è visibile
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LA QUESTIONE
in alcune decisioni giudiziarie (Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5237 di cui parlerà più oltre) il rischio di uno
scivolamento verso un neopuerocentrismo che, con l’attribuzione di una valenza tendenzialmente decisionale all’opinione espressa dal minore nei procedimenti in cui si tratta di scegliere il genitore collocatario, potrebbe portare come conseguenza ad una deresponsabilizzazione oggettiva del giudice dal compito di dover egli sempre assumere le decisioni per i minori (ove i genitori non se siano stati capaci) nel rispetto dei
loro diritti e del loro migliore interesse. Il rischio sembrava accuratamente evitato in altra precedente decisione a firma dello stesso relatore (Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2012, n. 7773) nella quale (pur annullandosi una
sentenza che immotivatamente aveva disatteso il risultato dell’audizione di una diciassettenne) si era affermato che “le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse del minore, che può non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi:
si impone, tuttavia, un onere di motivazione la cui entità deve ritenersi direttamente proporzionale al grado
di discernimento attribuito al figlio”.
II. Attraverso quali adempimenti, comportamenti e modalità comunicative si realizza l’ascolto del minore nel processo?
Ha ben sintetizzato alcuni di questi adempimenti Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7479 che ha chiarito
per il diritto del minore all’audizione non esclude la preventiva valutazione dell’eventuale dannosità e contrarietà all’interesse del minore dell’adempimento. L’audizione può essere svolta, secondo le modalità stabilite dal giudice anche da soggetti diversi da esso. Le ragioni dell’esclusione dell’audizione, ovvero il pericolo di danno per il minore, devono essere esplicitate.
Dal canto suo Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2014, n. 3540 ha chiarito che l’ascolto del minore, già previsto
nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ora necessario ai sensi degli artt. 3 e 6
della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. 20 marzo 2003, n. 77, quale strumento d’acquisizione della sua opinione laddove abbia un sufficiente grado di discernimento, “postula che
il minore riceva le informazioni pertinenti ed appropriate, con riferimento alla sua età ed al suo grado di
sviluppo”, e tali informazioni non nuocciano al suo benessere (Cass. n. 16753/2007). Può essere difatti
omesso nei casi in cui il giudice del merito, secondo il suo prudente apprezzamento, ravvisi suddetto pericolo di pregiudizio ovvero un contrasto con gli interesse superiori per l’interessato, ovvero reputi il minore non adeguatamente maturo alla stregua della situazione di fatto considerata (Cass. SU n 22238/2009,
13241/2011, 17201/2011).
Le modalità dell’audizione, che non costituisce un atto istruttorio tipico, bensì un momento formale del
procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda
in cui è coinvolto, sono affidate alla discrezionalità del giudice, il quale deve ispirarsi al principio secondo
cui l’audizione stessa deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di
esprimere liberamente la propria opinione (Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1838).
Si è ritenuto in passato - pur esprimendosi da più parti, anche in dottrina, preferenza per l’audizione diretta - che il giudice, soprattutto quando particolari circostanze lo richiedano, possa avvalersi di esperti, delegando agli stessi l’audizione del minore (Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7282) pur ritenendosi necessario che il soggetto che procede all’audizione sia investito di una specifica delega da parte del giudice competente, inerente al dovere di informarlo di tutte le istanze o scelte che lo riguardano, al fine di acquisire la
sua volontà. Analogamente ha ritenuto una successiva decisione della Cassazione in una vicenda di adozione in casi particolari (Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2011, n. 21651) dove si è ricordato che la giurisprudenza
ha più volte insistito sull’obbligatorietà dell’ascolto, la cui mancanza potrebbe rendere invalido il provvedimento assunto, ma che nulla la norma sull’adozione in casi particolari dice sulle modalità di ascolto. Pertanto il minore potrebbe essere ascoltato direttamente dal giudice, oppure l’ascolto potrebbe essere indiretto,
tramite un ausiliare del giudice, psicologo, educatore, che riferirà poi al giudice stesso. Nello stesso senso
Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11687 secondo cui se vero che L’audizione dei minori è un adempimento
necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino senza che possa ritenersi sufficiente, a tale scopo,
che il minore sia stato interpellato o esaminato da soggetti le cui relazioni siano state successivamente acquisite al fascicolo processuale, ove il giudice non ritenga di procedere all’audizione diretta deva avvalersi
di esperti investiti da specifica delega.
Il nuovo art. 336-bis del codice civile nel testo uscito dalla riforma introdotta con il D. Lgs. 28 dicembre 2013,
n. 154 (“Il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è
ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti nei quali devono
essere adottati provvedimenti che lo riguardano…. L’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di
esperti o di altri ausiliari) rende ora queste prassi non più plausibili. L’audizione è ora secondo la legge un
dovere personale del giudice il quale semmai si può far assistere da esperti ma non può delegare ad esperti
l’audizione.
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LA QUESTIONE
La disciplina giuridica è certamente fondamentale per l’attuazione effettiva dei diritti che le norme oggi
riconoscono al minore “che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento” (art. 315-bis c.c.).
Tuttavia, ora che le norme giuridiche sono state introdotte e sono entrate pienamente in vigore è necessario riservare attenzione a quello che potrebbe essere definito con un termine della psicologia sociale il “setting” dell’ascolto, cioè quell’insieme di adempimenti, comportamenti, azioni e modalità comunicative attraverso cui può adempiersi in modo adeguato all’obbligo dell’ascolto. Saranno soprattutto le buone prassi
su questi aspetti (oltre che la formazione personale degli operatori) a definire questo “setting” a cominciare
dalla modalità esteriori e formali dell’audizione (luogo, tempi, orari). In qualche tribunale il confronto tra operatori ha anche prodotto appositi protocolli di lavoro.
Intanto va detto che la riforma ha sostituito con il termine “ascolto” quello precedentemente usato di “audizione” che era stato utilizzato nel 2006 nella riforma sull’affidamento condiviso. Allora il testo dell’art.
155-sexies del codice civile prevedeva che “il giudice dispone l’audizione del figlio minore”. Questa espressione risulta oggi nel nuovo art. 337-octies c.c. “il giudice dispone l’ascolto del figlio minore”. Dal che si comprende come il legislatore abbia voluto rispettare lo spirito delle convenzioni internazionali che attribuiscono all’ascolto non il significato di un atto, ma di un atteggiamento di attenzione all’opinione del minore
che si realizza anche attraverso il momento formale dell’audizione ma non si esaurisce in questo. La giurisprudenza di legittimità già da tempo aveva individuato questa caratteristica peculiare negando che l’ascolto
del minore costituisca un atto istruttorio “bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto” (Cass. civ.
Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1838).
Nel processo penale l’audizione del minore è un atto i cui confini sono molto chiari: si tratta di un esame
del minore su questioni specifiche di cui egli è stato testimone (assunzione della testimonianza) o vittima
(deposizione della parte lesa). Spesso nelle forme dell’audizione protetta cui si riferisce l’articolo 498 c.p.p.
Nel processo penale minorile è un atto di acquisizione di informazioni legate al reato commesso.
Nel processo civile - salvo che il minore non venga ascoltato come testimone – è ancora non del tutto riconosciuto chiaramente l’obiettivo dell’audizione. Tralasciando in questa sede il problema del come il giudice debba predisporsi all’audizione, di quale debba essere l’atteggiamento di accoglienza interiore ed esteriore del minore e di come tener conto del comprensibile stato di ansia che nel minore accompagna questo
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LA QUESTIONE
adempimento, non c’è dubbio che il giudice debba acquisire principalmente il punto di vista del minore
sulle questioni intorno alle quali è poi chiamato a decidere, senza limitarsi ad una indagine generale sullo
stato di vita del minore. Per quanto questa modalità potrebbe apparire eccessivamente diretta, non è possibile ipotizzare che vi si possa fare a meno. Sarà il giudice a dover individuare le modalità comunicative più
adeguate per rendere l’audizione un momento significativo nel contesto dell’atteggiamento generale di
ascolto del minore stesso.
A tale proposito si deve, però, certamente considerare che l’obiettivo dell’ascolto è differenziato anche in
relazione al diverso tipo di procedimento. Se, per esempio, si tratta di un’azione di stato in cui è necessario
valutare l’interesse del minore all’acquisizione o alla dismissione di uno status filiationis è evidente che
l’ascolto tenderà alla verifica di questo elemento. Se si tratta di acquisire il necessario consenso del minore
ad un provvedimento per il quale la legge lo prevede espressamente (come in materia di adozione) sarà
questo l’obiettivo dell’ascolto. Se si tratta di un procedimento civile instaurato a causa di un abuso della potestà o di una situazione di abbandono l’ascolto tenderà all’acquisizione di elementi utili ad individuare i
provvedimenti di protezione più adeguati. Se si tratta di un procedimento (separazione, divorzio, scissione
della coppia genitoriale non coniugata, anche relativi a contrasti trasnazionali) nel quale è necessario valutare l’affidamento o il domicilio nel quale il minore dovrà vivere con uno dei due genitori, l’ascolto tenderà
all’acquisizione non solo di elementi utili a prendere questa decisione, ma, in relazione alla riconosciuta
capacità di discernimento del minore, anche all’acquisizione dell’opinione del minore in merito a questa
scelta.
In questo senso – anticipando quanto sarà detto nel prossimo capitolo - le funzioni dell’ascolto potrebbero
differenziarsi tra funzioni che sono state chiamate di tipo cognitivo (tendenti cioè all’acquisizione di elementi di conoscenza in vista dell’adozione di un provvedimento che concerne il minore) e funzioni che potrebbero essere chiamate decisionali (tendenti cioè all’acquisizione dell’opinione del minore rispetto a scelte
precise che lo riguardano per lo più legate alla decisione sul suo domicilio presso l’uno o l’altro genitore in
caso di scissione della coppia genitoriale). In questo secondo caso la decisione del giudice sarebbe vincolante
in modo direttamente proporzionale al grado di discernimento del minore.
Il momento formale dell’audizione potrebbe essere omesso solo se ciò è manifestamente in contrasto con
gli interessi superiori del minore, come prevedono l’art. 6 della Convenzione di Stasburgo e gli articoli 336bis e 337-octies c.c. i quali ultimi consentono al giudice di non procedere a tale adempimento se esso possa
risultare manifestamente superfluo.
Potremmo individuare quattro momenti rilevanti nell’audizione. Questi elementi compongono il setting
dell’ascolto.
Il primo momento è quello dell’informazione. La Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti del minore all’art. 3 prevede espressamente che il minore ha diritto di “ricevere ogni informazione pertinente”. Nella normativa sul processo penale minorile questo diritto del minore è molto ben espresso: l’art.
1 del DPR 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) prescrive testualmente che “Il giudice illustra all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico sociali delle decisioni”.
Il diritto di informazione cui si riferisce la Convenzione di Strasburgo del 1996 comprende anche ai sensi della
lettera c) dell’art. 3 anche il diritto di “essere informato delle eventuali conseguenze dell’attuazione della sua
opinione e delle eventuali conseguenze di ogni decisione”. Se mai ci fosse qualche dubbio sull’importanza
di questa fase si può ricordare che l’art. 4 della Convenzione prescrive al giudice, prima di adottare qualsiasi
decisione, di verificare che il minore “abbia ricevuto ogni informazione pertinente”.
Il secondo momento è quello della consultazione destinata ad acquisire l’opinione del minore. Sempre
l’art. 3 della Convenzione del 1996 prevede alla lettera b), appunto il diritto del minore di “essere ascoltato
e di esprimere la sua opinione”. E’ la fase centrale, quindi, del momento formale dell’audizione. L’ascolto è
condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari (art.336-bis c.c.).
Il terzo momento è costituito dalla acquisizione dell’opinione del minore ove il tipo di procedimento lo richieda. Occorrono in questa fase capacità di ascolto e capacità di decifrazione. Per questo – ma anche per
garantire visibilità all’adempimento che pur sempre si colloca nell’ambito di un contraddittorio – l’art. 336bis prescrive che “dell’adempimento è redatto processo verbale nel quale è descritto il contegno del minore,
ovvero è effettuata registrazione audio video”.
Il quarto e ultimo momento formale del “setting” è la decisione. Su questo aspetto la Convenzione di Strasburgo all’articolo 6 prescrive che si debba “tenere debitamente conto dell’opinione espressa” dal minore.
Il punto centrale sta nel verificare se “tenere debitamente conto” voglia dire adeguare il provvedimento all’opinione espressa dal minore capace di discernimento ovvero potersi discostare dall’opinione espressa
dal minore esplicitandone le ragioni. Come si vedrà tra breve a questa domanda sono state date risposte differenziate a seconda del tipo di procedimento.
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LA QUESTIONE
III. Può il giudice discostarsi dall’opinione espressa dal minore?
Nei procedimenti in cui soprattutto deve essere acquisita l’opinione del minore in relazione alla sua collocazione presso uno o l’altro genitore, richiamando quanto detto sopra e per usare una terminologia ormai
entrata nel lessico giudiziario, si tratta di verificare se l’audizione abbia rilevanza cognitiva, cioè serva sostanzialmente alla conoscenza di elementi utili per la decisione, oppure se debba avere anche una valenza
decisionale cioè se determini o meno l’obbligo per il giudice di adeguarsi all’opinione espressa dal minore.
Negli ultimi anni la giurisprudenza aveva adottato un orientamento prudente. Ci si riferisce soprattutto
a Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2012, n. 7773 che ha annullato la sentenza di merito che aveva disatteso in modo
ritenuto immotivato il risultato dell’audizione di una diciassettenne la quale aveva espresso la volontà di andare a stare con il padre.
Nella sentenza in questione ci si era soffermati soprattutto sull’obbligo di motivazione del giudice in caso
di provvedimento difforme dall’opinione espressa dal minore ed era stato chiarito che la norma contenuta
nell’articolo 155-sexies, primo comma, del codice civile nella parte in cui prevede l’audizione del minore da
parte del giudice, non solo consente di realizzare la presenza nel giudizio dei figli, in quanto parti sostanziali del procedimento, ma impone certamente che degli esiti di tale ascolto si tenga conto. Le valutazioni
del giudice – si concludeva in questa sentenza - in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse
del minore, che può non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi: si impone, tuttavia, un onere di motivazione la cui entità deve ritenersi direttamente proporzionale
al grado di discernimento attribuito al figlio.
Pertanto l’orientamento sembrava aver adottato il punto di vista della funzione cognitiva dell’audizione
attribuendo al giudice il compito soprattutto di acquisire le informazioni necessarie per decidere in piena
autonomia, purché motivatamente.
Una recente decisione ha rimeditato il principio della natura cognitiva dell’audizione ritenendolo inapplicabile quanto meno nei procedimenti in cui si tratta di verificare con quale dei genitori, in caso di loro separazione, il figlio (ultradodicenne ma anche di età inferiore ove capace di discernimento) debba rimanere
ad abitare. Si tratta di procedimenti quindi in cui il punto di vista del minore viene acquisito non solo per
fornire al giudice informazioni sul miglior provvedimento da adottare ma soprattutto per verificare l’eventuale volontà del minore in ordine a tale scelta non potendo certo adottarsi una decisione di questo genere
senza tenerne conto.
La decisione in questione (Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5237) è stata adottata nell’ambito di una vicenda
legata ad un caso di sottrazione internazionale di minore. La sentenza, accogliendo il ricorso del padre di una
minore che contro il desiderio espresso dalla figlia minore, era stata collocata presso la madre, richiama le
decisioni secondo le quali “l’ascolto del minore, avente capacità di discernimento, avrebbe una rilevanza
cognitiva, in quanto l’esito di quel colloquio può consentire al giudice di valutare direttamente se sussista
o meno il fondato rischio, per il minore medesimo, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, a pericoli
psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile” (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17201 in
motivazione; Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2011, n. 13241; Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16753; Cass. civ. Sez.
I, 18 marzo 2006, n. 6081) e afferma che “tale orientamento deve essere rimeditato, in considerazione della
sempre maggiore rilevanza che l’ascolto del minore ha assunto tanto nel nostro ordinamento quanto in
ambito internazionale, ragion per cui deve ritenersi che ormai non residuino spazi per assegnare all’ascolto
una sussidiaria funzione meramente cognitiva, nel caso in cui un minore sia in grado di esprimere la propria volontà, avendo piena capacità di discernimento. Sotto tale profilo la distinzione lessicale tra questa formula e il raggiungimento da parte del minore, secondo la terminologia adottata dalla Convenzione dell’Aja
all’art. 13, comma 2, di un’età e una maturità tali da giustificare il rispetto della sua opinione, appare sempre più sfuocata, fino al punto di dover ritenere che quando, ricorrendone i presupposti, si sia proceduto all’ascolto del minore, della volontà così manifestata si debba sempre e necessariamente tener conto anche
in materia di sottrazione internazionale di minori”.
IV. Quali sono le conseguenze del mancato ascolto del minore?
Poiché l’ascolto del minore nelle procedure che lo riguardano costituisce un obbligo del giudice, si pone il
problema di verificare quali siano le conseguenze della violazione di questo obbligo.
La questione era stata solo lambita nel 2002 dalla Corte costituzionale che non diede una risposta specifica al quesito di quale sia la conseguenza del mancato ascolto del minore (in particolare nei procedimenti
de potestate). Occupandosi nel 2002 di alcune censure sollevate sull’articolo 336 del codice civile la Corte
(Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 1) ebbe ad affermare che la mancata previsione in tale disposizione dell’obbligo di sentire il minore ultradodicenne e, se opportuno, anche quello di età inferiore, non è incostituzionale in quanto la norma non può che essere interpretata alla luce dell’articolo 12 della Convenzione di New
York sui diritti del fanciullo che impone l’ascolto del minore nelle procedure che lo riguardano. Tale pre10 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
LA QUESTIONE
scrizione, ormai entrata nell’ordinamento, è idonea ad integrare la disciplina dell’articolo 336 del codice civile, nel senso di configurare il minore come “parte” del procedimento, con la necessità del contraddittorio
nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell’articolo 78 del codice di procedura civile. Compete, però al giudice stabilire – concluse allora la Corte costituzionale – sulla base delle
norme generali sulle nullità processuali civili, quali conseguenze esplichi sul provvedimento reclamato
l’inosservanza dell’articolo 336, secondo comma, interpretato nel senso sopra precisato.
In base alle norme delle Convenzioni sopra richiamate l’ascolto del minore nei procedimenti di adottabilità è stato ritenuto in passato di regola necessario (Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2005 n. 12168; Cass. civ. Sez. I,
26 novembre 2004 n. 22350; Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2003 n. 4124; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2000 n. 9802).
Ugualmente si è detto per l’ascolto dei minori nelle procedure per il mancato illecito rientro nella originaria residenza abituale, che, se non è imposta per legge, in ragione del carattere urgente e meramente ripristinatorio della situazione di tale procedura, tuttavia è di regola ritenuto opportuno, se possibile (Cass. civ.
Sez. I, 4 aprile 2007 n. 8481).
Una prima risposta particolarmente autorevole in giurisprudenza sul tema specifico delle conseguenze
della mancata audizione del minore giunse nel 2009 da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
chiamate ad intervenire in un procedimento di modifica delle condizioni di separazione in cui era stata sollevata una questione di giurisdizione. La Corte ritenne che la mancata audizione del minore senza una giustificazione plausibile determina nei procedimenti di separazione o di revisione delle condizioni di separazione un difetto di contraddittorio cui consegue la nullità della decisione (Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009,
n. 22238). Per giungere a tale conclusione la Corte sostenne che nei procedimenti di separazione “i minori
che, ad avviso di questa Corte non possono considerarsi parti del procedimento, sono stati esattamente ritenuti portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori, in sede di affidamento o di disciplina
del diritto di visita del genitore non affidatario e, per tale profilo, qualificati parti in senso sostanziale. Costituisce quindi violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato
ascolto dei minori”.
La tesi che il mancato ascolto del minore costituisca un vizio di nullità per violazione del contraddittorio
– che presuppone una dubbia distinzione tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale - è stata di
fatto abbandonata dalla giurisprudenza successiva che in ogni caso continua a riferirsi al concetto metagiuridico del minore “parte sostanziale” espresso in quella decisione.
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 11
LA QUESTIONE
Per esempio Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7479 ancora di recente ricorda come l’omesso adempimento
o l’omessa motivazione sulla sua assenza determinano una lesione del diritto al contraddittorio (S.U. 22238
del 2009), da far valere in sede d’impugnazione ne limiti e secondo le regole fissati dall’art. 161 c.p.c.
Come si è detto, però, nel suo complesso la tesi della nullità per difetto di contraddittorio non è stata e non
è particolarmente felice da un punto di vista strettamente processualistico quanto meno nelle procedure in
cui certamente il minore non assume la veste di parte anche processuale.
In particolare in una decisione della Corte di cassazione del 2011 i giudici - occupandosi di un procedimento di adottabilità – mutarono indirizzo sostenendo la tesi che l’audizione del minore non ha una finalità istruttoria o di tipo processuale (integrazione del contraddittorio) ma è un atto con cui si dà dignità alla
persona minore di età per esprimere il suo punto di vista nel procedimento che lo riguarda. Un momento
formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito
alla vicenda in cui è coinvolto. La censura – sollevata con il ricorso - riguardava il fatto che il genitore non
era stato avvisato dell’audizione. Ed a tale proposito la Corte precisava che “l’audizione del minore non rappresentando una testimonianza o un altro atto istruttorio rivolto ad acquisire una risultanza favorevole all’una o all’altra soluzione, bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni
ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto, deve svolgersi in modo tale
da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi
con tutte le cautele e le modalità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, compresa la
facoltà di vietare l’interlocuzione con i genitori e/o con i difensori, nonché di sentire il minore da solo, o ancora quella di delegare l’audizione ad un organo più appropriato e professionalmente più attrezzato. Ne deriva che, costituendo scelta del tutto discrezionale del giudice quella di sentire il minore senza la presenza
dei difensori delle altre parti, la dedotta violazione del contraddittorio per il mancato avviso dell’udienza fissata per detta audizione non sussiste” (Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1838).
Una successiva decisione della Cassazione – in una vicenda di adozione in casi particolari – sostenna la
tesi della invalidità (non meglio specificata) della sentenza per omessa audizione del minore (Cass. civ. Sez.
I, 19 ottobre 2011, n. 21651) ricordando che la giurisprudenza aveva più volte insistito sull’obbligatorietà dell’ascolto, ove indicato, la cui mancanza potrebbe rendere invalido il provvedimento assunto.
Con maggiore precisione – e anticipando la posizione che diventerà poi prevalente nella giurisprudenza Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2012, n. 1251, sempre in un caso di adottabilità, chiariva che l’articolo 15, comma
2 nel testo novellato dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, pone nel giudizio di primo grado l’obbligo di audizione
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LA QUESTIONE
del minore che abbia compiuto i 12 anni e anche del minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento; la nullità della sentenza conseguente alla violazione di tale obbligo può essere fatta
valere nei limiti e secondo le regole fissate dall’art. 161 cod. proc. civ. e, dunque, è deducibile con l’appello
e, se riscontrata, non implica la rimessione al primo giudice, esulando dalle ipotesi previste dall’art. 354 del
codice di procedura civile.
Su questa linea si colloca una importante decisione della Cassazione che ha precisato definitivamente il punto
di vista della giurisprudenza di legittimità sulle conseguenze processuali della mancata audizione del minore,
pur riproponendo la tesi sulla natura di parte sostanziale del minore nei procedimenti di separazione.
La sentenza in questione (Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11687) è certamente la decisione più completa
finora pubblicata sul tema dell’audizione del minore contenendo un vero e proprio decalogo sull’ascolto del
minore nei procedimenti giudiziari. La sentenza ricorda che l’audizione dei minori è un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino ed, in particolare, in quelle relative al loro affidamento
ai genitori – ivi comprese le procedure di revisione delle condizioni di affidamento - senza che possa ritenersi
sufficiente, a tale scopo, che il minore sia stato interpellato o esaminato da soggetti (nella specie, assistenti
sociali) le cui relazioni siano state successivamente acquisite al fascicolo processuale, dovendo il giudice, ove
non ritenga di procedere all’audizione diretta, avvalersi di esperti investiti da specifica delega.
L’operatività, in linea generale, del principio – prosegue la sentenza - comporta l’insussistenza della necessità di motivare specificamente le ragioni della disposta audizione del minore; per converso, si ritiene che
il giudice sia tenuto a fornire adeguata giustificazione nelle ipotesi in cui ravvisi di escludere l’ascolto, vale
a dire solo quando esso sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso (Cass.
civ. Sez. I, 26 aprile 2007, n. 9094; Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17201; Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n.
18538). Lo ribadisce oggi l’’attuale articolo 336-bis del codice civile secondo cui “Se l’ascolto è in contrasto con
l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto
con provvedimento motivato”.
L’imprescindibilità dell’audizione, nei termini sopra delineati, non solo consente di realizzare la presenza
nel giudizio dei figli, in quanto parti “sostanziali” del procedimento, ma impone certamente che degli esiti
di tale ascolto si tenga conto. Le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse del minore, che può non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi: al riguardo si ritiene sussistente un onere di motivazione direttamente proporzionale al grado
di discernimento attribuito al minore (Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2012, n. 7773). Come si è riferito nel precedente capitolo successivamente la Cassazione (con lo stesso relatore) ha “rimeditato” il concetto di rilevanza
meramente cognitiva dell’audizione che serve sostanzialmente alla conoscenza di elementi utili per la decisione e ha attribuito all’audizione valenza decisionale che imporrebbe di adeguare il provvedimento all’opinione espressa dal minore tutte le volte in cui il giudice ne rileva la capacità piena di discernimento
(Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5237).
Come sopra detto, quindi, la conseguenza della omessa audizione è la nullità per violazione delle norme
che impongono l’audizione. La violazione dell’obbligo di audizione può essere fatta valere nei limiti e secondo le regole fissate dall’articolo 161 del codice di procedura civile e, dunque, è deducibile con l’appello
(Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2012, n. 1251). La giurisprudenza ha anche avuto modo di chiarire in ogni caso
che la questione di nullità derivante dall’omissione dell’audizione non può essere sollevata per la prima
volta davanti alla Corte di cassazione (Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18538).
Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata previsione normativa dell’obbligatorietà dell’ascolto del minore nelle procedure di cui alla
legge n. 64/1994 di attuazione della convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale dei minori, non
esclude che l’audizione del minore sia un adempimento doveroso in quanto previsto nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo per tutte le procedure relative ai minori; dagli artt. 3 e 6 della
Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge 20 marzo 2003, n. 77 (Cass.17201 del
2011); infine dal vigente L. n. 219 del 2012, art. 315 bis c.c.
Nel procedimento per la sottrazione internazionale di minori, l’ascolto del minore risulta, peraltro, finalizzato alla valutazione, ex art. 13, comma 2, della cit. convenzione, anche l’eventuale opposizione del minore al ritorno.
Il diritto del minore all’audizione non esclude la preventiva valutazione dell’eventuale dannosità e contrarietà all’interesse del minore dell’adempimento, anche in considerazione del carattere urgente del procedimento relativo alla sottrazione internazionale dei minori (Cass. 1527 del 2013).
L’audizione può essere svolta, secondo le modalità stabilite dal giudice anche da soggetti diversi da esso.
Le ragioni dell’esclusione dell’audizione, ovvero il pericolo di danno per il minore, devono essere esplicitate (Cass. S.U. 22238 del 2009).
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LA QUESTIONE
L’omesso adempimento o l’omessa motivazione sulla sua assenza determinano una lesione del diritto al
contraddittorio (S.U. 22238 del 2009), da far valere in sede d’impugnazione ne limiti e secondo le regole fissati dall’art. 161 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2014, n. 3540 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ascolto del minore, già previsto nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ora necessario ai sensi degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. 20
marzo 2003, n. 77, quale strumento d’acquisizione della sua opinione laddove abbia un sufficiente grado di
discernimento, “postula che il minore riceva le informazioni pertinenti ed appropriate, con riferimento alla
sua età ed al suo grado di sviluppo”, e tali informazioni non nuocciano al suo benessere (Cass. n. 16753/2007).
Può essere difatti omesso nei casi in cui il giudice del merito, secondo il suo prudente apprezzamento, ravvisi suddetto pericolo di pregiudizio ovvero un contrasto con gli interesse superiori per l’interessato, ovvero
reputi il minore non adeguatamente maturo alla stregua della situazione di fatto considerata (Cass. SU n
22238/2009, n. 12293/2010, 13241/2011, 17201/2011).
Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 336, ultimo comma, c.c. (“per i provvedimenti di cui ai commi precedenti i genitori e il minore sono
assistiti da un difensore”) trova applicazione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della potestà genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore e non in una
controversia relativa al regime di affidamento e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita. In tale ipotesi, la partecipazione del minore nel conflitto genitoriale deve
esprimersi, ove ne ricorrano le condizioni di legge, solo se ne ravvisi la corrispondenza agli interessi del minore medesimo e si riscontri un grado di discernimento adeguato, mediante il suo ascolto, oltre che mediante
l’esercizio dei poteri istruttori officiosi di cui il giudice può usufruire in virtù della natura e della preminenza dell’interesse da tutelare.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5237 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In considerazione della sempre maggiore rilevanza che l’ascolto del minore ha assunto tanto nel nostro
ordinamento quanto in ambito internazionale, deve ritenersi che ormai non residuino spazi per assegnare
all’ascolto una sussidiaria funzione meramente cognitiva, nel caso che un minore sia in grado di esprimere
la propria volontà, avendo piena capacità di discernimento. Sotto tale profilo la distinzione lessicale tra questa formula e il raggiungimento da parte del minore, secondo la terminologia adottata dalla Convenzione
dell’Aja all’art. 13, comma 2, di un’età e una maturità tali da giustificare il rispetto della sua opinione, appare sempre più sfuocata, fino al punto di dover ritenere che quando, ricorrendone i presupposti, si sia proceduto all’ascolto del minore, della volontà così manifestata si debba sempre e necessariamente tener conto
anche in materia di sottrazione internazionale di minori.
Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18538 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 315 bis cod. civ. introdotto dalla legge 10 dicembre 2012 , n. 219, prevede il diritto del minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore, ove capace di discernimento, di essere ascoltato in
tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, e quindi anche in quelle relative all’affidamento ai genitori, salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con il suo “superiore interesse”. (Nella specie, la Corte di
cassazione nell’enunciare il principio, ha rigettato la doglianza in ordine alla mancata audizione del minore
ai fini della sua collocazione prevalente presso uno dei genitori, in quanto la stessa non era stata richiesta
nel corso del giudizio di merito e la questione risultava proposta per la prima volta nella memoria ex art. 378
cod. proc. civ. peraltro solo con riferimento al sopravvenuto art. 315 bis cod. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11687 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’audizione dei minori è un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino senza
che possa ritenersi sufficiente, a tale scopo, che il minore sia stato interpellato o esaminato da soggetti le
cui relazioni siano state successivamente acquisite al fascicolo processuale, dovendo il giudice, ove non ritenga di procedere all’audizione diretta, avvalersi di esperti investiti da specifica delega. Il giudice, nelle ipotesi in cui ravvisi di escludere l’ascolto, e cioè quando esso sia manifestamente in contrasto con gli interessi
superiori del fanciullo stesso, è tenuto a fornire adeguata giustificazione.
Le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse del minore, che può
non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno essere difformi ma il giudice ha un onere
di motivazione sulle ragioni per le quali ritiene di prendere una decisione difforme rispetto a quella espressa
dal minore.
14 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
LA QUESTIONE
La nullità della sentenza per la violazione dell’obbligo di audizione può essere fatta valere nei limiti e secondo le regole fissate dall’articolo 161 del codice di procedura civile e, dunque, è deducibile con l’appello.
Le modalità dell’audizione, che non costituisce un atto istruttorio tipico, bensì un momento formale del
procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda
in cui è coinvolto, sono affidate alla discrezionalità del giudice, il quale deve ispirarsi al principio secondo
cui l’audizione stessa deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di
esprimere liberamente la propria opinione.
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2012, n. 7773 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La norma contenuta nell’articolo 155-sexies, primo comma, codice civile, nella parte in cui prevede l’audizione del minore da parte del giudice, non solo consente di realizzare la presenza nel giudizio dei figli, in
quanto parti sostanziali del procedimento (Cass., Sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238), ma impone certamente
che degli esiti di tale ascolto si tenga conto. Naturalmente le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse del minore, che può non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi: si impone, tuttavia, un onere di motivazione la cui entità
deve ritenersi direttamente proporzionale al grado di discernimento attribuito al figlio.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2012, n. 1251 (Famiglia e Diritto, 2012, 10, 888, nota di ASTIGGIANO)
In tema di procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, l’articolo 15, comma 2, della legge
4 maggio 1983, n. 184, nel testo novellato dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, pone nel giudizio di primo grado
l’obbligo di audizione del minore che abbia compiuto i dodici anni e anche del minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento; la relativa nullità è deducibile con l’appello e, se riscontrata,
non implica la rimessione al primo giudice, esulando dalle ipotesi previste dall’articolo 354 codice di procedura civile.
Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2011, n. 21651 (Fam. Pers. Succ., 2012, 6, 426 nota di GORINI)
Nell’ambito del procedimento di adozione in casi particolari, pur essendo obbligatoria l’audizione del minore, tanto da rendere invalido - in sua mancanza - il provvedimento assunto, tuttavia non sono indicate le
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 15
LA QUESTIONE
modalità dell’ascolto del minore, che potrà essere sentito dal Giudice direttamente o tramite un ausiliare,
psicologo o educatore, che riferirà anche in ordine alla sua capacità di discernimento.
Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1838 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione, l’articolo 10, comma secondo, della legge 4 maggio 1983, n,. 184 come novellato dalla
legge 28 marzo 2001, n. 149 il quale dispone che i genitori e in mancanza, i parenti entro il quarto grado che
abbiano rapporti significativi con il minore possano partecipare a “tutti” gli accertamenti disposti dal tribunale, si riferisce non solo ai tradizionali mezzi d’istruzione probatoria disciplinati dalla sezione III del capo
II, titolo I del libro II del codice di procedura civile, ma a qualunque atto d’indagine che il giudice ritenga di
eseguire per iniziativa propria o delle parti al fine di verificare se sussista lo stato di abbandono; esso non è
tuttavia applicabile all’audizione del minore, la quale, non rappresentando una testimonianza o un altro
atto istruttorio rivolto ad acquisire una risultanza favorevole all’una o all’altra soluzione, bensì un momento
formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito
alla vicenda in cui è coinvolto, deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione; ne discende che, costituendo scelta del tutto discrezionale del giudice quella di sentire il minore senza la presenza dei difensori delle altre parti, non costituisce
violazione del diritto al contraddittorio il mancato avviso dell’udienza fissata per detta audizione.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17201 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dalla legge n. 64 del 1994 (di ratifica della Convenzione de L’Aja del 25 ottobre
1980) in tema di sottrazione internazionale di minori, non sussiste l’obbligo del giudice di procedere all’audizione del minore, in quanto l’art. 7, comma 3, di detta legge prevede che il Tribunale per i minorenni può
disporla, qualora la ritenga opportuna, tenuto conto dell’età del minore, dell’esigenza di evitargli ulteriori
traumi psichici e della celerità del procedimento; tuttavia, detta audizione, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure che
li riguardino, ai sensi degli art. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la
legge 20 marzo 2003, n. 77, salvo pericolo di danno per l’interessato, con la conseguenza che tale adempimento è necessario anche nel procedimento per la sottrazione internazionale di minori, per poter valutare
in esso, ex art. 13, comma 2, della cit. convenzione, anche l’eventuale opposizione del minore al ritorno,
16 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
LA QUESTIONE
salvo ragioni di inopportunità o danno, e non può essere escluso con mero riferimento al dato anagrafico
del minore.
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2011, n. 13241 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento in tema di sottrazione internazionale del minore, previsto dall’art. 7 della legge 15 gennaio 1994, n. 64 (di esecuzione e di autorizzazione alla ratifica della Convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980),
il tribunale per i minorenni può provvedere all’audizione del minore - purché capace di discernimento, in
relazione alla sua età ed al grado di maturità - e trarre dal relativo ascolto elementi ai fini della valutazione
in ordine alla sussistenza del fondato rischio, per il minore medesimo, di essere esposto, per il fatto del suo
ritorno, a pericoli psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile (secondo quanto prevede
l’art. 13, primo comma, lettera b, della cit. Convenzione), fermo restando che l’opinione contraria al rientro,
espressa dal minore, non è condizione di per sé preclusiva all’emanazione dell’ordine di rimpatrio; tuttavia,
tenuto conto della funzione meramente ripristinatoria del procedimento, anche l’audizione del minore, pur
prevista dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e divenuta adempimento necessario, ai sensi degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata con la legge 20
marzo 2003), n. 77, non è prescritta in via assoluta, bensì rimessa alla predetta valutazione del giudice, che
può non ricorrervi, ove neghi, anche secondo il notorio, sufficiente maturità al minore stesso e privilegi l’interesse superiore di questi a non essere esposto al presumibile danno derivante dal coinvolgimento emotivo nella controversia che opponga i genitori. (Nella specie la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza
di merito che aveva ritenuto la superfluità dell’ascolto del minore, avente solo otto anni, in funzione cognitiva, riferendo gli eventuali disagi essenzialmente alla pervicace condotta del genitore “abductor”, il padre,
quale volta all’appannamento della figura materna).
Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7282 (Famiglia e Diritto, 2011, 3, 268, nota di QUERZOLA)
In tema di adozione, l’art. 10, comma secondo, della legge 4 maggio 1983 n. 184, come novellato dalla legge
28 marzo 2001 n. 149, il quale dispone che i genitori e in mancanza, i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore possano partecipare a “tutti” gli accertamenti disposti dal tribunale,
si riferisce non solo ai tradizionali mezzi d’istruzione probatoria disciplinati dalla sezione III del capo II, titolo I del libro II del codice di procedura civile, ma a qualunque atto d’indagine che il giudice ritiene di eseguire per iniziativa propria o delle parti al fine di verificare se sussista lo stato di abbandono, comprendendo
esemplificativamente anche le indagini e le relazioni affidate ad istituti o altri operatori specializzati; esso
non è tuttavia applicabile all’audizione del minore, la quale, non rappresentando una testimonianza o un
altro atto istruttorio rivolto ad acquisire una risultanza favorevole all’una o all’altra soluzione, bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in
merito alla vicenda in cui è coinvolto, deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto
del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte ad
evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l’interlocuzione con i
genitori e/o con i difensori, nonché di sentire il minore da solo, o ancora quella di delegare l’audizione ad
un organo più appropriato e professionalmente più attrezzato.
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Famiglia e Diritto, 2010, 12, 1110 nota di SERRA)
La mancata audizione del minore senza una giustificazione plausibile determina nei procedimenti di separazione o di revisione delle condizioni di separazione un difetto di contraddittorio cui consegue la nullità
della decisione
Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16753 (Nuova Giur. Civ. 2008, 3, 1, 373 nota di PAZÉ)
Ai sensi dell’art. 13 della Convenzione de L’Aja 25.10.1980, la volontà del minore di opporsi al rientro non
integra una condizione di per sé preclusiva dell’emanazione dell’ordine di rimpatrio da parte del giudice
dello Stato richiesto quando essa provenga da un minore che - secondo il motivato apprezzamento del Tribunale per i minorenni - non abbia raggiunto l’età e il grado di maturità tali da giustificare il rispetto della
sua opinione; in tale caso l’ascolto del minore, avente capacità di discernimento, ha una rilevanza cognitiva,
in quanto l’esito di quel colloquio consente al giudice di valutare direttamente se sussista o meno il fondato
rischio, per il minore medesimo, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, a pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile.
Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2007, n. 9094 (Famiglia e Diritto, 2007, 7, 741)
La prevista audizione del minore riceve una consacrazione normativa indiscutibile e la sua esclusione,
oltre che per la valutazione di non idoneità del minore a renderla (per età o stati psichici particolari), deve
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 17
LA QUESTIONE
essere correlata soltanto al rischio che la stessa audizione per quanto protetta, rechi danni gravi alla serenità del destinatario.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2007, n. 8481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento, di volontaria giurisdizione, previsto dalla L. 15 gennaio 1994, n. 64 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980 in tema di sottrazione internazionale di minori) - inquadrabile nello schema generale dei procedimenti speciali in materia di famiglia e di stato delle persone,
e quindi soggetto, per quanto in essa non previsto, alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di
consiglio, e nel contempo caratterizzato dall’estrema urgenza di provvedere nell’interesse del minore, rientra nell’esercizio di poteri discrezionali del giudice, non sindacabile in sede di legittimità, la valutazione dell’opportunità di procedere all’audizione dei minori e delle relative modalità, non risultando prescritto che
possa procedersi all’audizione dei minori solo previa convocazione formale degli stessi (nella specie, il tribunale per i minorenni aveva proceduto all’audizione dei minori presentati direttamente in udienza dal genitore convenuto) (Cassa senza rinvio, Trib. Minorenni Salerno, 25 Ottobre 2005).
Cass. civ. Sez. I, 18 marzo 2006, n. 6081 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sottrazione internazionale del minore, il giudice, cui sia stato richiesto di emettere un provvedimento di rientro nello Stato di residenza del minore illecitamente sottratto, nell’accertare se sussista il fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo rientro, a pericoli psichici, o comunque di
trovarsi in una situazione intollerabile (ai sensi dell’art. 13, primo comma, lettera b, della Convenzione de
L’Aja 25 ottobre 1980, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 15 gennaio 1994, n. 64), deve
attenersi ad un criterio di rigorosa interpretazione della portata della condizione ostativa al rientro, sicché
egli non può dar peso al mero trauma psicologico o alla semplice sofferenza morale per il distacco dal genitore autore della sottrazione abusiva, a meno che tali inconvenienti non raggiungano il grado - richiesto
dalla citata norma convenzionale - del pericolo psichico o della effettiva intollerabilità da parte del minore.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2005, n. 12168 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, i minori devono essere sentiti, a norma dell’art. 10 della legge 4 maggio 1983, n. 184, solo se di età superiore ai dodici anni, mentre, se di età inferiore,
la loro audizione viene rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Ne consegue, in quest’ultimo caso,
che il mancato esercizio del relativo potere discrezionale non è sussumibile, in sede di legittimità, nè sotto
la specie della violazione di legge, sia pure in relazione alle norme della Convenzione di New York sui diritti
del fanciullo del 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 176 del 1991), poichè l’anzidetta Convenzione, all’art. 12, introduce l’obbligo di tenere conto delle opinioni del minore in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo riguardi solo se si tratti di “fanciullo capace di discernimento” e “tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità”; nè sotto la specie della mancanza di espressa motivazione sul punto, qualora dal contesto della pronuncia impugnata possano desumersi adeguate ragioni a
fondamento dell’assunto circa la sussistenza dello stato di abbandono del minore, giacchè in tal caso la volontà del minore, alla cui raccolta è preordinata la sua audizione, si palesa del tutto priva di rilievo ai fini della
relativa statuizione del giudice, chiamato ad emettere provvedimenti dettati dalla “considerazione preminente dell’interesse superiore del fanciullo”, secondo quanto impone l’art. 3 della predetta Convenzione.
Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 2004, n. 22350 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione dei minorenni in casi particolari “ex lege” L. n. 184 del 1983, l’audizione del
minorenne da parte della Corte di Appello, in sede di gravame, è riservata all’apprezzamento del giudice
del merito, in virtù di una disciplina conforme ai principi recati dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989, sui diritti del fanciullo di New York, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge n. 176 del 1991,
che stabilisce l’obbligo di tenere conto delle opinioni del minore in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo riguardi soltanto se si tratti di “fanciullo capace di discernimento” e “tenendo conto della sua
età e del suo grado di maturità”.
Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2003, n. 4124 (Famiglia e Diritto, 2004, 25, nota di EMANUELA RAVOT)
Nella disciplina dell’adozione dettata dalla legge n. 184 del 1983, come modificata dalla legge n. 176 del
1991 che ha ratificato e reso esecutiva in Italia la convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989, l’esigenza di ascoltare il minore - nella duplice previsione, obbligatoria per gli ultradodicenni
e facoltativa per gli infradodicenni costituisce una costante (vedi artt. 7 e 25 della legge n. 184 del 1983 per
la dichiarazione di adozione, artt. 10 e 15 della legge n. 184 del 1983 in tema di adottabilità, e gli artt. 22 e 23
della legge n. 184 del 1983 in tema di affidamento preadottivo) intesa ad attribuire rilievo alla personalità e
18 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
LA QUESTIONE
alla volontà del minore in relazione a provvedimenti che nel suo interesse trovano la loro ragion d’essere.
Pertanto, la necessità o l’opportunità di procedere a un nuovo ascolto del minore che sia già stato audito,
rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il cui mancato utilizzo non è censurabile in Cassazione
sotto l’aspetto della violazione di legge.
Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 1 (Famiglia e Diritto, 2002, 3, 229, nota di TOMMASEO, ODINO, PASCHETTI)
Non è fondata, in riferimento agli art. 2 e 31 comma 2 cost., in relazione all’art. 12 della convenzione sui
diritti del fanciullo, resa esecutiva con l. n. 176 del 1991, nonchè agli art. 3 commi 1 e 2 (per irragionevolezza
della disciplina censurata e per disparità di trattamento rispetto alla procedura di adottabilità) e 111 commi
1 e 2 (per violazione del principio del giusto processo) cost., la q.l.c. dell’art. 336 comma 2 c.c., nella parte in
cui non prevede che nei procedimenti camerali concernenti la potestà dei genitori siano sentiti il minore ultradodicenne e, se opportuno, anche quello di età inferiore, o altrimenti i suoi genitori o il tutore, in quanto
trattasi di questione che muove da una premessa interpretativa erronea, dal momento che l’art. 12 della citata convenzione è idoneo ad integrare la disciplina dell’art. 336 comma 2 c.c., nel senso di configurare il minore capace di discernimento come “parte” del procedimento che lo concerne, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale.
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2000, n. 9802 (Famiglia e Diritto, 2001, 2, 155, nota di GIULIANO)
Nella disciplina dell’adozione dettata dalla l. n. 184 del 1983, l’esigenza di ascoltare il minore è dettata
dalla necessità di attribuire rilievo alla sua volontà in relazione a provvedimenti che trovano la loro ragion
d’essere nel suo interesse. (Nella specie, la C.S. ha ritenuto soddisfatta tale esigenza in una ipotesi in cui, a
seguito del rinvio della stessa Cassazione, che aveva annullato per carenza di motivazione la decisione di merito, la quale aveva dichiarato lo stato di adottabilità di un minore infradodicenne, tra l’altro, senza che questi venisse sentito personalmente, la nuova sentenza, adeguatamente motivata sul punto della sussistenza
dello stato di abbandono del minore, era stata emessa dopo che, nel corso dell’audizione protetta dello
stesso, gli era stato semplicemente domandato se egli si trovasse a proprio agio ed intendesse rimanere
nella famiglia nella quale era attualmente inserito, e non se avesse voluto ritrovare la sua famiglia biologica,
in considerazione dell’interesse alla stabilità familiare ed affettiva del minore stesso, indispensabile nella
fase adolescenziale).
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 19
RIFORME
GLI STRUMENTI
A GARANZIA
DEI PROVVEDIMENTI
PATRIMONIALI
IN MATERIA FAMILIARE
DOPO LA RIFORMA
SARA MAFFEI
ome avviene con riferimento ad ogni tipo
di provvedimento è possibile che anche
quello c.d. a contenuto patrimoniale disposto in materia di famiglia, sia che riguardi gli obblighi di mantenimento che quelli alimentari, debba fronteggiare l’inadempimento del
soggetto obbligato. Nella prassi è possibile che una
siffatta situazione d’inottemperanza si configuri
tanto in seno alla famiglia unita quanto, ancor più,
nel contesto della sua crisi. Infatti, con riferimento
alla situazione della dissoluzione della famiglia, il
mancato adempimento, ad esempio, dell’obbligo di
mantenimento può divenire un mezzo col quale il
soggetto economicamente più forte preme sull’altro in linea con le dinamiche conflittuali connaturate alla crisi. Inoltre, può verificarsi il caso, tutt’altro che sporadico, che dalla dissoluzione di un nucleo familiare originario ne sorgano di nuovi, con
conseguente incremento degli obblighi di mantenimento, id est dei costi da sostenere e con l’ovvia difficoltà di fronteggiarli. Quali che siano le ragioni
della mancata esecuzione dei provvedimenti relativi alle obbligazioni in oggetto vi è da chiedersi
quale sia la compatibilità, e quindi l’utilizzabilità,
degli strumenti di espropriazione forzata disciplinati dal libro terzo del codice di rito con riferimento
ai crediti generati nell’ambito della famiglia. Si
tratta, invero, di strumenti esecutivi che mal si addicono a tali obbligazioni proprio in virtù delle loro
caratteristiche, in particolare: l’urgenza ed il carattere periodico1. L’assegno di mantenimento, diritto
emblematico che potrebbe necessitare di un’esecuzione forzata nell’ambito dei processi della famiglia
(in crisi), è fortemente connesso ai bisogni fondamentali della vita per il soggetto beneficiario. Ciò si-
C
20 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
gnifica che, se una tale obbligazione rimane inadempiuta per il periodo che normalmente intercorre
quando si utilizzano le forme del libro terzo del
c.p.c., l’avente diritto rischia di subire danni non
sempre reversibili2. In altre parole, sussiste il rischio
che dinanzi ad un inadempimento si abbiano delle
ricadute a livello di mancata soddisfazione dei bisogni primari delle persone coinvolte, donde pare
debba almeno mettersi in dubbio la necessità di
operare una distinzione tra situazioni patrimoniali
e personali. Ergo, strumenti di espropriazione forzata tradizionali, che tendenzialmente funzionano
con riferimento alla tutela esecutiva delle obbligazioni pecuniarie, prestano il fianco a critiche insuperabili quando si tratta di crediti nascenti nel diritto di famiglia3. Tra l’altro, in questo modo si rischierebbe altresì di violare uno dei principi fondanti il processo e cioè quello secondo cui l’utilizzo
di strumenti processuali non può andare a danno
della parte che ha ragione4. Ma i problemi non si
esauriscono qui. Il medesimo assegno di mantenimento sopra richiamato configura un’obbligazione
futura a carattere periodico5. Da ciò deriva che, solo
nel momento in cui una mensilità non è corrisposta, si verifica l’inadempimento del debitore e la
possibilità, di riflesso, per il creditore di attivarsi esecutivamente. Questo implica che il creditore dovrebbe attivarsi infinite volte secondo il numero
d’inadempimenti che il debitore pone in essere,
senza mai essere finalmente tutelato in modo definitivo6.
Proprio per ovviare a questi inconvenienti la riforma del diritto di famiglia, ed in particolare la
legge n.151 del 19757, introdusse una serie di strumenti ad hoc volti a favorire l’esecuzione degli obblighi in oggetto, capaci di affiancarsi a quelli del libro terzo del codice di rito, finalizzati a rafforzare la
tutela dei crediti di contribuzione e di mantenimento connaturati al diritto di famiglia. Gli artt.146,
1488 e 156 c.c. furono riformulati proprio a presidio
del dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, di
istruire, educare e mantenere la prole nel corso del
rapporto tra i genitori, ma anche nel momento di
crisi dello stesso. Le possibilità che si profilavano dinanzi al legislatore della riforma erano diverse e
contemplavano anche ipotesi ulteriori rispetto all’opzione infine adottata. In particolare, era possibile preferire le forme di esecuzione forzata indiretta9, scegliere la minaccia di una sanzione penale
finalizzata a dissuadere dal porre in essere inadempienze dell’obbligo di corresponsione dell’assegno
di mantenimento10, o prevedere mezzi di tutela specifica per il credito sorto nell’ambito familiare. Il risultato furono quegli strumenti apostrofati dai
primi commenti dottrinali successivi alla riforma
come mezzi di “tutela privilegiata”11 a presidio dei
crediti di mantenimento e alimentari, gli unici dotati di strumenti processuali diversi da quelli tradi-
RIFORME
zionali. In particolare, la risposta si concretizzò in
misure diverse, quali: l’obbligo di prestare idonea
garanzia, l’iscrizione ipotecaria sui beni del debitore,
particolari tipologie di sequestri e di deviazioni del
reddito del debitore o di altri suoi di crediti continuativi.
Vero è che il legislatore della riforma, in quell’occasione, ha tracciato un quadro dei presidi processuali piuttosto frazionato e solo raramente ha tenuto conto delle caratteristiche uniche e peculiari
del diritto della famiglia. Infatti, anziché introdurre
strumenti processuali valevoli in maniera generalizzata con riferimento all’ambito del diritto della
famiglia, si assiste ad una frammentazione degli
stessi in virtù dello status della coppia, con pesanti
ripercussioni su molteplici aspetti processuali. In altre parole, il nostro ordinamento anziché contemplare un’unica, generale figura di sequestro o di deviazione del flusso del reddito, applicabile con riferimento ad un qualunque inadempimento verificatosi rispetto alle situazioni patrimoniali connesse al
diritto di famiglia, è andato a differenziare la disciplina, secondo il momento che vive la coppia: matrimonio, separazione o divorzio. Va altresì immediatamente posto l’accento sul dato che sino all’approvazione, datata 10 dicembre 2012, della legge n.
219, oltre che del decreto legislativo del 28 dicembre
2013, n. 154, si trattava di strumenti processuali previsti esclusivamente a presidio dei figli nati all’in-
terno del matrimonio, da cui scaturivano gravi problematiche di discriminazione12. Lo sforzo dell’analisi è volto a provare una spiegazione del panorama
attuale, focalizzando lo studio sulle novità introdotte dall’ultima Riforma in materia, con l’ulteriore
tentativo di razionalizzazione nella direzione di isolare sempre più i casi nei quali la giustizia si è resa
ineffettiva.
Sebbene lo scenario abbia a lungo mantenuto
delle forti distinzioni con riferimento agli strumenti
a tutela delle situazioni facenti capo ai figli “legittimi” o a quelli “naturali”, l’odierno panorama risulta profondamente innovato nel segno della civiltà e del dettato costituzionale. In particolare, con
l’adozione dapprima della legge n. 219 del 10 dicembre 2012, poi del decreto legislativo n. 154 del 28
dicembre 201313,14, il nostro paese compie un fondamentale passo di civiltà sancendo l’uguaglianza dei
figli dinanzi alla legge, attraverso l’introduzione di
importanti novità tanto sul piano del diritto sostanziale quanto su quello processuale. Anzitutto, dopo
anni di problemi connessi alla difficoltà di ravvisare
nell’ordinamento nazionale un’efficace trasposizione del dettato costituzionale di cui all’art. 30, si
sancisce definitivamente la parità dei diritti dei figli,
con l’eliminazione di qualsivoglia ulteriore specificazione15; a tal fine il nuovo art. 315 del codice civile
prevede che “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”. In questo modo si estirpa dall’ordinamento
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 21
RIFORME
quell’insieme di odiose previsioni che consentivano
il dispiegarsi di un trattamento differenziato e deteriore in ragione di un fatto, cioè la decisione o
meno dei genitori di contrarre matrimonio, al quale
il figlio è assolutamente estraneo16.
Ciò premesso, come già si è accennato, oggetto di
questa analisi saranno quegli aspetti delle novità
processuali che hanno delle ricadute sui mezzi di
rafforzamento dei provvedimenti a contenuto patrimoniale, con esclusione di ogni altro ambito interessato dalle novità della riforma in materia di filiazione. Preme particolarmente di portare l’attenzione sull’articolo 3 della l. n. 219 del 2012 e prima di
tutto sulle modifiche che la norma in parola apporta
all’articolo 38 delle disposizioni per l’attuazione del
codice civile; in seconda battuta, l’indagine si soffermerà sulla parte seguente della norma richiamata e dunque sui “nuovi” strumenti esecutivi speciali a tutela dei diritti dei figli agli alimenti a al
mantenimento.
Anzitutto, come rilevato quasi all’unanimità in
sede di primi commenti della dottrina, per ciò che
concerne il piano processuale si assiste ad una vera
rivoluzione copernicana data dal passaggio di tutti
i procedimenti relativi all’affidamento e al mantenimento di figli minori sotto la competenza del Tribunale ordinario. In effetti, ad opera della novella,
molti procedimenti vengono espunti dall’elenco
contenuto nell’art. 38 delle disp. att. c.c., così diventando di competenza del Tribunale ordinario e non
più di quello per i minori; in particolare, la norma
da ultimo richiamata, in conseguenza della riforma
stabilisce che “sono di competenza del tribunale per
i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, del codice civile”. La medesima disposizione, al 2° comma, prevede altresì che “sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non
è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria”. Tali previsioni concretano un risultato significativo, oltre che a livello di
conformità al dettato costituzionale, anche per una
serie di ragioni non secondarie connesse alle garanzie fondamentali del giusto processo e alle esigenze pratiche che scaturiscono dalle situazioni
connesse ai processi della famiglia. Anzitutto, detta
opzione pone fine a quel panorama di disparità e di
incertezza che si era generato con riguardo alla tematica della competenza nei procedimenti relativi a
minori17. Invero, in quella cornice, la scelta di abbandonare il sistema bipartito in favore della competenza generalizzata del Tribunale ordinario costituisce un punto d’arrivo tutt’altro che trascurabile.
Nei processi della famiglia e quando si fronteggiano
rapporti che concernono minori si ha a che fare con
situazioni dotate di connotati unici, rispetto alle
quali il processo diviene lo strumento capace di incidere sul complesso di situazioni soggettive attive
22 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
che fa capo a un individuo e che lo connota nella relazione con i suoi familiari. Se questo è vero, il
mezzo processuale deve risultare efficace ed essere
il più possibile rispondente alle esigenze con le quali
s’interfaccia. Inoltre, non può dimenticarsi come il
Tribunale ordinario rappresenti un organo ben più
distribuito sul territorio e dunque più vicino a chi
decida di ricorrervi, rispetto a quello per i minorenni
che opera generalmente a livello distrettuale18; ciò
significa che in conseguenza della riforma l’accesso
alla giustizia per i figli nati fuori dal matrimonio
viene notevolmente agevolato, e contestualmente si
supera questo aspetto di incomprensibile disparità
che pare ancora più grave se si pensa alle problematiche pratiche connesse allo spostamento del minore che esistevano con la disciplina antecedente
alla riforma. Parimenti, in dottrina non si è mancato
di rilevare come il Tribunale ordinario rappresenti
l’organo più “dotato” per espletare al meglio la fase
istruttoria19 dei procedimenti relativi ai minori. In
questa direzione, non si può che salutare con favore
la recente novella del codice. Si è giunti, finalmente,
almeno con riferimento alla tematica della competenza, all’eliminazione dei problemi di coordinamento connessi al sistema antecedente e quindi ad
uno scenario, almeno in parte, organizzato in modo
da essere maggiormente conforme a quel valore
fondamentale dell’ordinamento che è rappresentato
dalla certezza del diritto. Vi sono per verità anche
alcuni inconvenienti connessi alla riforma: in particolare, si è già riscontrato un aumento dei ruoli per
i Tribunali ordinari che potrebbe determinare problematiche non irrisorie connesse alla gestione pratica della mutata competenza. Parimenti, l’aver
espunto dall’elenco dell’art. 38 disp. att. c.c. una serie di procedimenti, senza prevedere una disposizione ad hoc relativa alle forme processuali da seguire riguardo ad ogni singolo procedimento, genera
una serie di quesiti aperti, rispetto ai quali all’opera
di razionalizzazione della dottrina e della giurisprudenza dovrebbe subentrare quella legislativa. In
particolare, si fa riferimento alle norme dapprima
contenute nell’elenco dell’art. 38 disp. att. c.c. ed attualmente eliminate dalla norma stessa, rispetto
alle quali si è aperta la questione delle forme rituali
da seguire, ovverosia quelle camerali20, in linea con
lo spirito globale della riforma, oppure quelle del rito
ordinario di cognizione21, dal momento che manca
un appiglio legislativo che consenta di derogare alla
“strada maestra” secondo quanto indicato dall’art.
9 del codice di rito. Detta riflessione conduce ad
analizzare un ulteriore elemento di forte novità che
la riforma introduce: si tratta della generalizzazione
del procedimento di cui agli artt. 737 ss c.p.c. a
fronte di qualunque controversia circa affidamento
e mantenimento dei minori22. Tale opzione si coniuga perfettamente con la ricostruzione operata da
quella parte della dottrina23 che ha sempre ritenuto
RIFORME
compatibile il rito de quo con le controversie in oggetto. Diversamente, argomentano le molte voci in
dottrina che hanno a più riprese chiarito l’inadeguatezza del rito camerale quale strada da seguire
per l’accertamento di diritti soggettivi24 oltre a coloro i quali hanno sollevato dei dubbi di legittimità
costituzionale avverso la nuova previsione25.
Con riferimento al secondo aspetto cui si accennava, l’art. 3, comma 2 della l. n. 219 del 2012 si preoccupa di fornire una disciplina relativa alle misure
speciali di tutela esecutiva in favore dei figli nati
fuori dal matrimonio, secondo il modello esistente
con riferimento agli strumenti previsti agli artt. 146,
156, 316 bis c.c. e 8 l. div.
Anzitutto è necessario porre l’accento sull’ambito
applicativo della norma richiamata che, in linea con
la sua formulazione, esplica i propri effetti in relazione a tutti i “provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole”. Pertanto, gli strumenti a garanzia dei provvedimenti
patrimoniali in parola sono coniati esclusivamente
a tutela del rapporto che lega i genitori ed i figli e
non quello tra i genitori26. Inoltre, l’enunciazione appena richiamata ha una portata talmente ampia e
generale da aver indotto parte della dottrina ad ipotizzare che, con l’approvazione della norma in parola, la disciplina speciale antecedente debba ritenersi abrogata27. Tale ragionamento sarebbe suffragato tanto dal dato che si è dinanzi ad una legge
successiva, sotto il profilo temporale, quanto dalla
considerazione, perlopiù facente riferimento alle intenzioni del Legislatore, che se l’obiettivo è quello di
uguagliare la condizione dei figli non vi è altra
strada da percorrere se non quella di parificare anche gli strumenti in commento dettando, finalmente, una sola ed unica disciplina. Tale ricostruzione, che pure affascina, presta il fianco a molte
critiche; in primo luogo l’impossibilità, alla luce dei
principi che regolano il nostro ordinamento in materia, di affermare che una norma generale possa
abrogarne una speciale. Inoltre, la norma in parola,
in apertura indirizzata ai figli nati fuori dal matrimonio, richiama più volte tanto l’art. 156 c.c. quanto
l’art. 8 l.div.28. Pertanto, sebbene la ricostruzione cui
si è accennato consentirebbe di aggirare molte delle
problematiche che si sono rilevate circa l’esistenza
di una disciplina frammentata e che si distingue a
seconda dello status dei genitori, allo stato non pare
corrispondere al dettato normativo. Parimenti il riferimento ai “provvedimenti patrimoniali in materia
di alimenti e mantenimento della prole” pone la
problematica dell’inquadramento dei due concetti.
Se con riferimento al “mantenimento” pare pacifico
il riferimento all’istituto previsto a tutela della prole,
sia questa minorenne o maggiorenne ma incolpevolmente non autosufficiente, lo stesso non può
dirsi per gli “alimenti”. Con riferimento al concetto
da ultimo richiamato in dottrina si sono sviluppate
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 23
RIFORME
due tesi. Una prima ricostruzione propende per collegare la nuova previsione alla situazione dei figli
maggiorenni che si trovano a fronteggiare uno stato
di bisogno dopo aver raggiunto l’indipendenza economica29. Diversamente argomenta chi ritiene che,
dimostrando una certa superficialità, il Legislatore
della riforma abbia utilizzato in modo improprio il
concetto di “alimenti” al fine di rendere possibile anche ai figli maggiorenni non autosufficienti di attingere alle nuove misure30.
Al di la della portata applicativa dell’art. 3, 2 della
l. n. 219 del 2012, il profilo indubbio è che si è dinanzi
ad una norma che disciplina una serie di strumenti
cui attingere sul piano delle tutele esecutive; si
tratta di misure equivalenti, almeno a livello di nomen, a quelle che già aveva previsto il Legislatore in
materia, ovverosia: l’ordine del giudice di prestare
idonea garanzia, il sequestro dei beni dell’obbligato,
l’ordine della deviazione del flusso di reddito e la
possibilità, ex art. 2818 c.c., di iscrivere ipoteca giudiziale sui beni dell’obbligato. Sebbene sia necessario analizzare singolarmente ogni strumento richiamato, pare si debba procedere altresì con delle considerazioni a livello globale. Anzitutto, soddisfa il
dato che il Legislatore, in un’opera di enorme importanza, quale è l’affermare che i figli sono uguali
dinanzi alla legge, non abbia trascurato i profili esecutivi e sia intervenuto per estendere anche ai figli
nati fuori dal matrimonio quegli strumenti speciali
che, sino alla riforma, almeno a livello normativo,
24 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
erano esclusivo appannaggio dei figli “legittimi”. La
riforma in tal senso non dimentica che l’insegnamento Chiovendiano alla luce del quale il processo
deve dare al soggetto “tutto quello e proprio quello
che egli ha diritto di conseguire”31. Purtroppo, nel
portare avanti questo importante obiettivo il Legislatore della riforma attinge con non poche imprecisioni agli artt. 156 c.c. ed 8 l. div., manipolando, con
una tecnica tutt’altro che precisa, dette norme al
fine di coniare gli strumenti esecutivi ad hoc per i figli nati fuori dal matrimonio.
La prima delle nuove misure coniate pone in capo
al giudice la possibilità di ordinare al soggetto obbligato in materia di alimenti e mantenimento della
prole di prestare idonea garanzia reale o personale,
purché rispetto a costui vi sia il pericolo dell’inadempimento. Lo strumento in parola, invero, non
fa che riproporre quanto stabilito dall’art. 156, 3 c.c.,
oltre che dall’art. 8, 1 l.div., ivi compresi i nodi problematici connessi alle due norme cui attinge32; si
tratta delle questioni relative alla sua natura e alla
possibilità o meno di applicare d’ufficio lo strumento, senza che sia necessario un contraddittorio, precedente o successivo33. Invero, come precisato nelle considerazioni generali (supra), lo strumento che pur presenta molti profili sovrapponibili
ai suoi omologhi disciplinati in sede di separazione
e di divorzio, se ne discosta dal punto dei vista dei
soggetti beneficiari; non più i figli ed il coniuge debole o comunque il titolare dell’assegno divorzile
RIFORME
ma esclusivamente la prole (nata fuori del matrimonio). Soprattutto, però, vi è da chiedersi come
fronteggiare l’eventualità che detto ordine del giudice sia a sua volta ignorato dal soggetto obbligato,
ed in particolare sulla possibilità di intervenire in
via coattiva nei confronti del soggetto recalcitrante.
Sul punto in dottrina è stata prospettata tanto la
possibilità di attingere all’astreinte italiana, id est
l’art. 614 bis c.p.c.34, quanto quella di far riferimento
alla misura coercitiva speciale di cui all’art. 709 ter
c.p.c.35 Invero, con riferimento alla misura coercitiva generale detta strada non pare percorribile dal
momento che si è dinanzi ad un inadempimento
che non riguarda ne un obbligo di fare infungibile,
ne tanto meno un obbligo di non fare. In altri termini, ammettere che una situazione come l’inosservanza dell’ordine in parola possa beneficiare
dello strumento disciplinato all’art. 614 bis del codice di rito significa accogliere quella tesi estensiva
circa l’ambito applicativo della norma de qua36, che
non pare condivisibile. Diversamente, applicare le
sanzioni disciplinate all’art. 709 ter c.p.c. sembra
corretto giacché la norma da ultimo richiamata
sanziona gli atti capaci di arrecare pregiudizio al
minore o di ostacolare le modalità dell’affidamento,
categoria all’interno della quale pare si possa senz’altro ricondurre l’inadempimento degli obblighi
in oggetto e anche l’inottemperanza all’ordine giudiziale emesso proprio per contrastare il pericolo
del mancato adempimento. Inoltre, se con riferimento al giudice competente gli artt. 156, 3 c.c. e 8,
1 l.div. richiamano rispettivamente “il giudice” ed
“il Tribunale” “che pronuncia la separazione/ lo
scioglimento o la cessazione degli effetti civili del
matrimonio”, l’art. 3, 2 l. 219 del 2012 parla di “giudice”. In virtù delle considerazioni sopra svolte relative alla generale applicazione del rito camerale
ad opera della riforma, pare necessario concludere
che il provvedimento in parola, da ultimo introdotto dalla Novella, potrà essere pronunciato al termine del giudizio svolto secondo le forme degli artt.
737 ss. del codice di rito.
Il secondo strumento individuato dall’art. 3, 2
della l. n. 219 del 2012 è un sequestro speciale. Il Legislatore della riforma aveva dinanzi a sé tre tipologie di sequestro già operanti in materia, disciplinate
rispettivamente agli artt. 146 c.c., 156 c.c. e 8, 7 l.div.
Invero, soprattutto ad opera della pronuncia grazie
alla quale la Corte Costituzionale37 aveva chiarito
l’applicabilità del sequestro tipico del procedimento
separativo anche ai figli allora “naturali” sembrava
pronosticabile che con la riforma il Legislatore optasse per detto modello. Diversamente l’opzione
prescelta appare chiara nel rinviare all’art. 8, 7 della
l.div., sebbene non senza apportare modifiche allo
strumento cui attinge. In effetti, il sequestro introdotto dalla riforma non necessita dell’istanza di
parte ma potrebbe scaturire da un intervento ex of-
ficio, il che appare perfettamente in linea con una
misura che mira a garantire diritti di cui sono titolari i soggetti minori. Il dato che la scelta del Legislatore sia caduta sul sequestro disciplinato in ambito divorzile appare meritevole giacché optando
per l’analoga misura operante in sede di separazione personale dei coniugi il Legislatore avrebbe
fatto riferimento ad uno strumento più limitato
tanto sul piano dei presupposti, quanto con riferimento ai beni che possono essere oggetto della misura stessa. Per quanto attiene al primo profilo richiamato mentre ai sensi dell’art. 156 c.c. può ricorrersi a detto sequestro a fronte di un’inadempienza,
il medesimo istituto nella disciplina divorzile può
essere concesso per “assicurare che siano soddisfatte o conservate le ragioni del creditore”, dunque
senza che sia necessario accertare un inadempimento. Per quanto attiene all’oggetto, mentre l’art
156 c.c. si riferisce a “parte dei beni dell’obbligato”,
l’art. 8, 7 l.div. ammette la sequestrabilità “dei beni
del coniuge obbligato” (apparentemente) senza
porre limitazioni38. In realtà, la disciplina dell’istituto in sede di divorzio è anch’essa soggetta ad un
limite che lo stesso art. 8, 7 l.div. detta, ovverosia il
fatto che nell’ipotesi di sequestro divorzile di
somme dovute al soggetto obbligato queste “sono
soggette a sequestro e pignoramento fino alla concorrenza della metà”. Infine, pare ipotizzabile che
anche con riferimento a tale strumento si possa ripropone il dibattito sulla sua natura cautelare39 o coercitiva40.
Anche con riferimento alla c.d. deviazione del
flusso di reddito il Legislatore della riforma decide
di richiamare la figura individuata dalla legge sul
divorzio. Invero, la tecnica legislativa adottata con
riferimento allo strumento in parola genera non pochi problemi interpretativi dal momento che, sul
punto, l’art. 3, della l. 219 del 2012 prevede che il
giudice possa “ordinare ai terzi tenuti a corrisponaprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 25
RIFORME
dere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, di versare le somme dovute direttamente agli aventi diritto, secondo quanto previsto
dall’articolo 8, secondo comma e seguenti, della
legge 1° dicembre 1970, n. 898”. L’aver richiamato
l’art. 8, 2 l.div. è indice di una certa superficialità del
Legislatore della riforma che, anziché richiamare il
comma 3 e seguenti, rinvia al secondo comma relativo all’ipoteca 41. Inoltre, anche un altro errore,
ben più grave, vizia la nuova norma; invero, se la
contribuzione diretta secondo il dettame dell’art. 8
l.div. si concreta in una procedura di tipo stragiudiziale, il medesimo strumento, per come è disciplinato dalla novella, necessita invece di un ordine del
giudice, in modo ben più affine alla disciplina di cui
all’art. 156 c.c. Detta formulazione problematica ha
generato in dottrina una serie di tesi volte a razionalizzare la norma e a conferirle un senso. Anzitutto vi è chi afferma che si deve dare preminenza
alla volontà del Legislatore, chiara nell’attingere
allo strumento disciplinato in sede di divorzio. In
effetti, nella norma vi è un richiamo expressis verbis
proprio all’art. 8, 2 l.div., da intendersi all’art. 8,
comma 3 e seguenti l.div.42 Di conseguenza, stando
a questa ricostruzione non sarebbe necessario alcun intervento giudiziale. In maniera non troppo
distante si pone la ricostruzione che ravvisa nella
previsione dell’ordine giudiziale una “svista legislativa”43, sulla scorta di più argomenti; anzitutto il
favor del Legislatore della riforma nei confronti
26 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
della disciplina divorzile, palesato dall’aver rinviato
alla stessa sia con riferimento all’ordine di prestare
idonee garanzie, sia avuto riguardo all’istituto del
sequestro. In secondo luogo, detta ricostruzione, dal
momento che consente di attingere ad una procedura che non richiede l’intervento giudiziale, finisce col valorizzare il principio della ragionevole durata. Diversamente argomenta chi ritiene che il rinvio avrebbe dovuto essere all’art. 156 c.c.44 Non è
mancato chi ha affermato che, ad opera della novella, è stato inserito un terzo modello, diverso sia
da quello tracciato dall’art. 156 c.c. che dall’art. 8
l.div. e nel quale l’ordine del giudice rende inutile
l’attesa dei trenta giorni (disciplinata dall’art. 8, 3 e
4 l.div.), oltre a chiarire la necessità della condotta
del terzo debitor debitoris45. Infine, un’ulteriore ricostruzione che ravvisa nella nuova norma una strada
diversa sia da quella tracciata nel contesto divorzile che da quella della separazione46 chiarisce la
necessità di seguire le forme connaturate allo strumento in sede di divorzio, sebbene l’invio della raccomandata previsto dall’art. 8 l.div. dovrebbe ritenersi sostituito dall’ordine giudiziale. Un ulteriore
profilo problematico è dato dal fatto che la norma si
riferisca a somme dovute “anche periodicamente”
riproponendo esattamente la stessa formula dell’art. 156 c.c.
Infine, con riferimento alla possibilità di iscrivere
un’ipoteca giudiziale sui beni del coniuge tenuto a
corrispondere gli alimenti o il mantenimento giova
RIFORME
solo ribadire quanto sia pleonastico il Legislatore nel
richiamare una norma già perfettamente operante.
Invero, sul punto pare si possa valorizzare l’opzione
legislativa di riferirsi ai “provvedimenti definitivi”
anziché alle “sentenze”. Tale scelta consente, pacificamente, di ritenere che il decreto che conclude il
rito camerale, esecutivo ai sensi dell’art. 741 del codice di rito rientri tra i provvedimenti che consentono l’iscrizione ipotecaria in parola . Pertanto, anche con riferimento a questo profilo, è sancita a
chiare lettere la possibilità per i figli nati fuori del
matrimonio di attingere all’ipoteca giudiziale di cui
all’art. 2818 c.c.
In definitiva, pare possa affermarsi che sul piano
qualitativo la tecnica legislativa che caratterizza
l’art. 3 della legge n. 219 del 2012 non soddisfi pienamente . In effetti, come si è tentato di evidenziare
nel corso di questa analisi, il Legislatore detta una
disciplina ricca di imprecisioni, così lasciando all’opera della dottrina e della giurisprudenza il compito di chiarire i non pochi profili dubbi. Detto ri-
lievo, che è negativo in termini assoluti, risulta ancor più grave se si pensa che nei processi della famiglia si fronteggiano situazioni che per i loro caratteri necessitano di una tutela urgente, agile e soprattutto che quel valore fondamentale che è la certezza del diritto sia fatto rispettare. Vero è che per
la prima volta si compiono dei passi fondamentali,
quali la parificazione dei figli quanto all’organo
competente, la (scarna) disciplina di un unico modello processuale cui attingere e le previsioni di misure esecutive speciali per i figli nati fuori del matrimonio. Tutto ciò significa passare da un sistema
estremamente opaco, di difficile lettura, improntato
alla frammentazione ad uno scenario nettamente
più chiaro e capace di tenere conto almeno di alcune delle peculiarità connesse alle situazioni in
parola. Se questo è vero, pare possibile un giudizio
finale positivo, nella speranza che si sia realmente
avviato il tanto auspicato ripensamento globale
della materia processuale nella sua applicazione
alle vicende delle persone e della famiglia.
Note
1
V. CECCHELLA, I riti familiari (Per un modello unitario e razionale della tutela giurisdizionale dei diritti in materia di famiglia), Siracusa, 16 ottobre 2009, in www.avvocatidifamiglia.net.
2
V. F.DANOVI, Esecuzione forzata e garanzie patrimoniali nei processi di separazione e divorzio, in Dir. famiglia, 2005, 04, 1349. In
particolare l’Autore afferma che il “bisogno di una tutela effettiva e senza dilazione si presenta nel caso degli obblighi di
mantenimento in re ipsa (..)”.
3
L’argomento peraltro rafforza il ragionamento proposto (supra). Infatti, se si trattasse di obblighi riconducibili tout court
alla categoria delle obbligazioni pecuniarie gli strumenti dell’espropriazione forzata tradizionali dovrebbero essere i più
idonei a fronteggiare una situazione d’inadempimento.
4
V. LUISO, Diritto processuale civile, I, Milano, 2009, p. 423.
5
In questo stesso senso v. GRAZIOSI, L’esecuzione forzata dei provvedimenti del giudice in materia di famiglia, in Dir. famiglia,
2008, 02, 880 ss.
6
V. CECCHELLA, I riti familiari (Per un modello unitario e razionale della tutela giurisdizionale dei diritti in materia di famiglia), Siracusa, cit.. In particolare, l’Autore con riferimento all’opzione adottata con l’art. 474, 1 c.p.c. evidenzia il bisogno, connaturato agli strumenti tradizionali, di “reintroduzione di un autonomo processo esecutivo per ogni prestazione mancata”.
7
Si tratta della legge 19 maggio 1975 n. 151, nota come riforma del diritto di famiglia.
8
Lo strumento che era disciplinato dall’articolo 148 del codice civile è trasmigrato in identici termini nel nuovo art. 316
bis c.c. ad opera del decreto legislativo n. 154 del 2013.
9
Sull’adeguatezza dell’esecuzione indiretta si erano espressi diversi autori in dottrina. CARPI, Note in tema di tecniche di attuazione dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 110 sgg.; e PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti della personalità: strumenti e tecniche di tutela, in Foro it., 1990, V, 1 ss. In generale sulle misure coercitive indirette v. CHIARLONI, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980; COLESANTI, Misure coercitive e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc., 1980, 601 ss.; FRIGNANI, Le penalità di mora
e le “astreintes” nei diritti che si ispirano al modello francese, in Riv. dir. civ., 1981, I, 506 ss.; più di recente, anche per un aggiornato
inquadramento del problema, v. VULLO, L’esecuzione indiretta in Italia, Francia e Unione europea, in Riv. dir. proc., 2004, 727 sgg.
10
Sulla tutela penale delle c.d. situazioni patrimoniali sorte dal diritto della famiglia v. infra par. 2.7. In estrema sintesi, il
riferimento è alla previsione di cui all’art. 570 c.p., oltre che dell’art. 12 sexties l.div. Inoltre, vi è la possibilità di una pronuncia
ex art. 388 c.p., cui sommare quella della sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento ai sensi dell’art. 165 del codice penale.
11
CARPI , Doveri coniugali patrimoniali e strumenti processuali del nuovo diritto di famiglia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 213;
ACONE, La tutela dei crediti di mantenimento, cit., p. 6.
12
V. infra par. 2.8.
13
Tra i primi commenti alla riforma v. CEA, Trasferimento del contenzioso dal giudice minorile al giudice ordinario ex art. 219/12,
in Foro it., 2013, IV, 116; DANOVI, Nobili intenti e tecniche approssimative nei nuovi procedimenti per i figli (non più) “naturali”, in Corr.
Giur., 2013, 537; DE FILIPPIS, La nuova legge sulla filiazione: un prima lettura, in Fam. e dir., 3, 2013, 291 sgg.; GRAZIOSI, Una buona novella di fine legislatura: tutti i “figli” hanno eguali diritti, dinanzi al tribunale ordinario, in Fam. e dir., 3, 2013, 263 sgg.; SCARSELLI, La
recente riforma in materia di filiazione: gli aspetti processuali, in Giusto proc. civ., 3, 2013, 667 sgg.; TOMMASEO, La nuova legge sulla
filiazione: i profili processuali, in Fam. e dir., 3, 2013, 251 sgg.
14
Invero, la legge n. 219 del 2012, secondo la delega contenuta all’art. 2 della stessa, è stata seguita dal d.lgs n. 154 del 28
dicembre 2013. In relazione al d.lgs. In parola è stata sollevata questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega
laddove introduce l’azione degli ascendenti. V. Tribunale minorenni di Bologna, ordinanza 2-5 maggio 2014, in dejure.it.
15
In effetti l’art. 1, comma 11, della l. n. 219 del 2012 stabilisce che “nel codice civile, le parole «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli»”. Parimenti la delega contenuta all’art. 2, comma 1, lett. a)
della medesima novella, detta un’indicazione a legiferare nella stessa direzione “salvo l’utilizzo delle denominazioni di «figli nati nel matrimonio» o di «figli nati fuori dal matrimonio» quando si tratta di disposizioni a essi specificamente relative”.
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 27
RIFORME
16
Il punto è rilevato da DANOVI, Testo della Relazione tenuta a Perugia il 28 giugno 2013 all’incontro di Studi organizzato
dal Centro Studi Giuridici e Politici: Le ultime riforme della Giustizia Civile; GRAZIOSI, Una buona novella, cit., 263.
17
Non è questa la sede per affrontare un tema così complesso e lungamente dibattuto; basti ricordare come dopo l’approvazione della l. n. 54 del 2006 in dottrina si contrapponeva la tesi che riteneva immutata la competenza del Tribunale
per i minorenni con riferimento all’affidamento e al mantenimento del figli (allora) “naturali” e quella che affermava
quella del Tribunale ordinario. Nel primo senso v. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: profili processuali, in
Fam. e dir., 2006, 397; per la seconda ricostruzione v. SALVANESCHI, I procedimenti di separazione e divorzio, in Fam. e dir., 2006,
356.
18
Rileva giustamente GRAZIOSI, Una buona novella, cit., 267 che “i diritti della personalità di soggetti minori (..) per la loro
importanza e delicatezza, richiederebbero un complessivo rafforzamento della prossimità del giudice”. Nello stesso senso
v. anche DANOVI, Testo della Relazione tenuta a Perugia il 28 giugno 2013, cit.
19
Così DANOVI, Testo della Relazione tenuta a Perugia il 28 giugno 2013, cit.
20
A favore dell’applicabilità del rito camerale DANOVI, Testo della Relazione tenuta a Perugia il 28 giugno 2013, cit.; SCARSELLI, La recente riforma in materia di filiazione: gli aspetti processuali, cit., 681.
21
Così Trib. Varese, sez. I, ordinanza 22 marzo 2013, est. Cavallaro, in www.ilcaso.it; Trib. Velletri, sez. civ., ordinanza 8
aprile 2013, est. Reggiani, in www.ilcaso.it; in dottrina predilige il rito ordinario, sebbene limitatamente al procedimento di
cui all’art. 269 c.c., GRAZIOSI, Una buona novella, cit., 270. Lo stesso autore per tutti gli altri procedimenti espunti arriva alla “conclusione che ad essi si applichi il rito camerale”.
22
La norma, come noto, chiarisce che “Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.”
23
Chiarisce che “la scelta di optare per un simile rito, piuttosto che per quello più farraginoso di cui al secondo libro del
codice di procedura civile, può ritenersi giustificabile, e financo preferibile” SCARSELLI, La recente riforma in materia di filiazione:
gli aspetti processuali, cit., pp. 680 ss.
24
V. CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema d procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., 431; MANDRIOLI,
Procedimenti camerali su diritti e ricorso straordinario per cassazione, in Riv. dir. proc., 1988, 921; PROTO PISANI, Usi ed abusi della procedura camerale (appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione degli interessi devoluta al giudice), cit., 393.
25
Così GRAZIOSI, Una buona novella, cit., pp. 268 ss.
26
Così BUFFONE SERVETTI, Garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole nell’art. 3 della
legge 219/2012, in Il dir. di famiglia e delle persone, 2013, 1523.
27
V. GRAZIOSI, Una buona novella di fine legislatura: tutti i “figli” hanno eguali diritti, dinanzi al tribunale ordinario, cit., 278. In particolare, l’Autore ipotizza l’abrogazione degli artt. 156 c.c. e 8 l.div. seppure non manchi di rilevare i profili che potrebbero
opporsi a tale ricostruzione; in tal senso nello scritto si evidenzia il fatto che “gli artt. 156 cod. civ. e 8 l. div., in quanto norme
speciali, non possono essere stati abrogati da una norma generale sopravvenuta qual’è l’art. 3 l. n. 219 del 2012”.
28
Così TOMMASEO, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, cit., 260; DANOVI, Le ultime riforme in tema di diritto di famiglia e processo, Testo della Relazione tenuta a Perugia il 28 giugno 2013 all’incontro di Studi organizzato dal Centro Studi
Giuridici e Politici: Le ultime riforme della Giustizia Civile.
29
Così DE MARZO, Novità legislative in tema di affidamento e di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, in Foro it., 2013,
I, V, 16.
30
V. BUFFONE SERVETTI, Garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole nell’art. 3 della legge
219/2012, cit., 1532.
31
Così CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1935, 41.
32
Così GRAZIOSI, Una buona novella, cit., 277; DE FILIPPIS, La nuova legge sulla filiazione: un prima lettura, cit., 298.
33
Con riferimento agli interrogativi proposti si rinvia all’analisi già dedicata nel corso di questo Capitolo all’ordine in parola, v. pp. 15 ss.
34
V. GRAZIOSI, Una buona novella, cit., nota 44.
35
Così TOMMASEO, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, cit., 261.
36
In dottrina non sono mancate opinione volte ad affermare l’applicabilità dell’astreinte italiana ad obblighi di fare fungibili in virtù della discrasia esistente tra rubrica e testo della norma. Così v. ZUCCONI GALLI FONSECA, Le novità della riforma in
materia di esecuzione forzata, in Riv. trim. dir e proc. Civ., 2010, 197; MATERA, L’esecuzione degli obblighi di fare (fungibili) e di non fare,
in Riv. esec. forzata, 2012, 444.
37
Il riferimento è a Corte Cost., 18 aprile 1997, n. 99, www.minoriefamiglia.it
38
Il punto è evidenziato da C.MORETTI, La riforma della filiazione. Aspetti personali, successori e processuali l. 10 dicembre 2012,
n.219, DOSSETTI, M.MORETTI, C.MORETTI, Bologna, 2013, p. 165. Contra v. BUFFONE SERVETTI, Garanzia dei provvedimenti patrimoniali
in materia di alimenti e mantenimento della prole nell’art. 3 della legge 219/2012, cit., 1526, laddove si afferma che “il vincolo ex
art. 156 c.c. offre una tutela di maggior favore”.
39
V. DOSSETTI, in BOLINI CATTANEO (diretto da), Il diritto di famiglia, I, Famiglia e matrimonio, 2 ed., Torino, 2007, 840 ss.
40
Così v. FEOLA, Le garanzie dell’assegno post-matrimoniale, in BONILINI TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, Milano, 2010,
p. 947 ss.
41
Come rileva giustamente DE FILIPPIS, La nuova legge sulla filiazione: un prima lettura, cit., 298, nota 30.
42
Così GRAZIOSI, Una buona novella, cit., 277.
43
Così BUFFONE SERVETTI, Garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole nell’art. 3 della
legge 219/2012, cit., 1529.
44
V. TOMMASEO, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, cit., 260.
45
Così DE MARZO, Novità legislative in tema di affidamento e di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, cit., 16. Contra BUFFONE SERVETTI, Garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole nell’art. 3 della legge 219/2012,
cit., pp. 1530 ss. In particolare, i due Autori da ultimo richiamati rilevano come “con il decreto legislativo 1 settembre 2011
n. 150, il legislatore ha chiaramente manifestato l’intenzione di voler ridurre la frammentazione dei procedimenti giurisdizionali e arrestare la proliferazione dei modelli processuali differenziati”.
46
Così DE FILIPPIS, La nuova legge sulla filiazione: un prima lettura, cit., 299.
47
Così BUFFONE SERVETTI, Garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole nell’art. 3 della
legge 219/2012, cit., 1531.
48
Così F.DANOVI, Nobili intenti e tecniche approssimative nei nuovi procedimenti per i figli (non più) “naturali”, in Corr. Giur., 2013,
537.
28 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
RIFORME
CONSIDERAZIONI
SUL NUOVO ART. 38
DELLE DISPOSIZIONI
DI ATTUAZIONE
DEL CODICE CIVILE
FLORA RANDAZZO
MAGISTRATO, TRIBUNALE PER I MINORENNI DI PALERMO
mpio e vivace, e per certi versi fecondo, si
è fatto il dibattito tra gli operatori del diritto sulla corretta interpretazione prima,
e sulla concreta applicazione poi, della recente riforma in materia di filiazione, incluse le disposizioni sul riparto di competenze tra il giudice
dei minori e quello della separazione, con correlate
problematiche circa le relative funzioni del Pubblico
Ministero, questione che in queste brevi riflessioni
cercherò di illustrare per offrirne ulteriore occasione
di discussione.
Già dall’entrata in vigore della L. 10.12.12 n. 219
(anzi ancor prima) si era registrata una certa preoccupazione da parte dei giudici minorili circa la possibilità che la tanto auspicata parificazione tra figli
“legittimi” e “naturali” comportasse, nella pratica,
una riduzione della effettiva tutela di soggetti vulnerabili, quali i minori, che il diritto nazionale e sovranazionale mira a garantire attraverso la previsione di un giudice specializzato.
Preoccupazioni che non sono state fugate dal D.
L.vo 28.12.2013 n. 154, il quale merita certamente
una attenta lettura, se non altro per il concetto di
“responsabilità genitoriale” introdotto col novellato
art. 316 c.c., con annessa sostituzione del termine
“potestà” contenuto nelle altre numerose norme di
codici e leggi speciali, argomento che comunque
esula dal tema che qui intendo affrontare.
E difatti, per tornare al problema della suddivisione delle competenze, è rimasta immutata e sempre più pressante l’esigenza di verificare se ed in
quali termini la infelice formula adottata dall’art. 3
della sopra citata legge (il quale, come noto, ha modificato l’art. 38 disp. Att. C.p.c.) valga a dirottare la
competenza funzionalmente attribuita al T.M. relativamente ai procedimenti limitativi o ablativi della
A
potestà (rectius responsabilità genitoriale) verso il
T.O., laddove sia instaurato avanti a quest’ultima
A.G. un giudizio che oggi va inquadrato tra quelli disciplinati dagli artt. 337 bis e segg. Cod. civ., quali introdotti dal D.L.vo 154/13 (con cui, in buona sostanza, sono stati assimilati i procedimenti relativi
ai figli nati fuori dal matrimonio a quelli di separazione, come pure a quelli instaurati ai sensi del novellato art. 316 c.c., tutti ora soggetti alla cognizione
del T.O., cosÏ risolvendo i problemi posti dall’omessa
previsione nel menzionato art. 38 dei procedimenti
ex art. 317 bis, in passato devoluti alla competenza
del T.M., il quale dovrà solo intervenire nell’ambito
dei rapporti tra minori ed ascendenti).
È dunque scaturito un serrato confronto tra i giudici minorili e le corrispondenti Procure, che inevitabilmente, e direi finalmente, ha coinvolto sia il
giudice che il P.M. presso il Tribunale ordinario, confronto reso ineluttabile da una tecnica legislativa
quanto meno poco accorta, quale quella con la
quale si è costruito il nuovo art. 38 disp. Att. C.c..
Non è superfluo rammentare che in detta norma
è stato precisato, nel primo comma, quali siano in
via generale i procedimenti funzionalmente devoluti alla competenza del T.M., con la specificazione
che: “per i procedimenti di cui all’art. 333 resta
esclusa la competenza del tribunale per i minorenni
nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi
dell’art. 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta
la durata del processo la competenza, anche per i
provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario” (art. 37 bis lett. c) D. L.vo n. 154/13: sono altresÏ
di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli artt. 251 e 317 bis del codice civile).
Nel tentativo di attribuire ad una simile espressione un significato meno oscuro e quanto più aderente al principio di concentrazione dei giudizi
avanti al medesimo organo, ma anche alla finalità
di salvaguardare la specializzazione della tutela giurisdizionale dei minori, mi è tornato utile un lavoro
di assemblaggio delle varie e disparate opinioni al
riguardo comparse sulla mailing list dell’aimmf,
spesso corredate dai primi provvedimenti emanati
dalle differenti AA.GG. del territorio nazionale e - in
taluni casi - da linee guida o protocolli predisposti
ad hoc.
Le idee che sono scaturite dal confronto mi hanno
allora stimolato a tradurre in questo scritto alcune
considerazioni che - per quanto aperte ai contributi
che verranno dagli sviluppi del dibattito negli altri
distretti, e nell’attesa di verifica delle conseguenti
ricadute sul piano pratico - ad oggi consentirebbero
di uscire da una situazione di incertezza e disorientamento che in qualche modo ha comportato una
inopportuna diversificazione dei modelli di interaprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 29
RIFORME
vento di ciascun giudice su singoli casi, ovvero, a
monte, una disparità di richieste inoltrate dagli organi della Procura minorile.
Ed invero, sgombrato il campo da ogni equivoco
circa il mantenimento in capo al T.M. delle competenze scaturite dalle comunicazioni dovute a norma
dell’art. 609 decies c.p.(ed ovviamente di quelle attinenti l’eventuale dichiarazione dello stato di abbandono e le conseguenti procedure di adozione di
minori), uno dei primi spunti di discussione all’indomani dell’entrata in vigore della L. n. 219/12 è
stato quello di individuare in forza di quale criterio
si sarebbe dovuto operare un “passaggio di competenze” dal T.M. al T.O., in pendenza di un giudizio di
separazione, tutte le volte in cui si presenti una questione che possa determinare l’emanazione di provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità dei
genitori.
Per il vero, dovendosi a mio avviso decisamente
negare che possa ravvisarsi una litispendenza tra i
procedimenti de potestate e le vicende giudiziarie avviate avanti al T.O. in epoca anteriore ai suddetti procedimenti (tale senso potendosi attribuire al tenore
testuale dell’art. 38, che fa riferimento ad un giudizio in corso) su aspetti attinenti, oltre che la separazione, anche l’esercizio della potestà - se non altro
in quanto non si tratterebbe della “stessa causa”
proposta avanti a due giudici egualmente competenti, giacché la competenza attribuita sul piano generale al T.M. gli sarebbe stata sottratta, a prima vista, proprio in virtù della vis attrattiva prevista per
legge nei casi in questione - sarebbe forse più corretto parlare di continenza di cause a norma dell’art
39 c.p.c., soluzione, questa (che ad es. i giudici ordinari e minorili di Brescia hanno sostenuto nello stilare un protocollo di intesa datato 10.4.2013), ad ogni
modo non del tutto pacifica, poiché anche in tal
caso varrebbe l’osservazione che il medesimo art. 38
avrebbe privato il T.M. ex lege della propria competenza.
Mi è sembrato tuttavia poco utile approfondire
tale aspetto, sul quale in verità in questa sede possiamo trascurare di soffermarci, altre essendo le ragioni che potrebbero indurre a condividere una interpretazione ragionevole, nei limiti di cui appresso
si dirà, di una innovazione legislativa mal concepita
Intanto possiamo rammentare che, in concomitanza con l’entrata in vigore della riforma, da più
parti si è ritenuto necessario muoversi sul solco di
una lettura del più volte citato art. 38 assolutamente
fedele al dato letterale ed alla manifesta volontà di
concentrazione dei giudizi, nel senso di ritenere che
in tutte le ipotesi in cui fosse stata segnalata alla
Procura minorile una situazione gravemente pregiudizievole per minori i cui genitori avessero già intrapreso avanti al T.O. un giudizio di separazione
etc., si dovesse riconoscere la vis attrattiva di tale
A.G. preventivamente adita, sia che il pregiudizio
30 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
implicasse eventuali provvedimenti limitativi sia
che si profilasse l’esigenza di emanare provvedimenti ablativi della potestà.
Se infatti, secondo i fautori di tale tesi, in ipotesi
siffatte anche al P.M. presso il T.O. andrebbe riconosciuta la qualità di “parte”, dotata di tutti i poteri di
iniziativa, ed anche di impugnazione, attribuiti alla
parte pubblica nel rito minorile (ciò in quanto le regole di cui agli artt. 69 e segg. c.p.c., circa i poteri
conferiti al P.M. nel processo civile, altro non farebbero che rimandare alle disposizioni che ne consentono o ne impongono l’intervento, o che gli attribuiscono poteri di iniziativa, cosa che appunto si
verificherebbe allorché in un procedimento di separazione o divorzio o comunque di cessazione della
convivenza dei genitori si inneschi una procedura
azionabile ex art. 336 c.c., essendo la competenza
del requirente sempre rapportata a quella del giudice presso il quale è istituito), sotto altro profilo
l’infelice dizione dell’ultima parte dell’art. 38 circa
“i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate
nel primo periodo” dovrebbe intendersi nel senso di
comprendervi quei provvedimenti emanati nella serie di procedimenti disciplinati dalle norme indicate
nella prima parte dell’articolo di che trattasi.
In effetti però, sulla interpretazione fatta propria
dai sostenitori del suddetto orientamento è legittimo sollevare non poche perplessità, in primo
luogo poco convincente risultando la tesi che in ogni
caso al P.M. presso il T.O. (oltretutto niente affatto
attrezzato a misurarsi con le problematiche tipiche
dei contesti ove opera il giudice minorile, e poco incline ad assumere un ruolo maggiormente attivo a
tutela dei minori, ampliando in tale direzione la propria specializzazione ed addivenendo a protocolli di
raccordo con i servizi territoriali, oltre che col P.M.
minorile) possano riconoscersi le medesime prerogative attribuite all’omologo organo del T.M., soprattutto in ragione del fatto che i suoi poteri di intervento e di iniziativa costituiscono una eccezionale deroga al potere dispositivo delle parti proprio
del processo civile (cfr. sul punto Cass. I, n.17764/
2012).
In secondo luogo, ulteriore motivo di dubbio deriva dalla constatazione che la formulazione del richiamato art. 38 sembrerebbe delineare una forma
di competenza del G.O. “a tempo”, circoscritta cioé
alla durata del procedimento scaturito dall’evento
separativo, decorrente dal deposito del ricorso introduttivo fino all’emanazione del provvedimento
conclusivo del primo grado di giudizio (con le connesse difficoltà dovute alla carente disciplina di ciò
che avverrebbe una volta definito il detto procedimento), e soprattutto dal rilievo che - quanto meno
con riguardo alle pronunce di decadenza - la imprecisa dizione della norma non autorizzerebbe a riconoscervi una chiara intenzione di trasferire anche
tale competenza al G.O., giacché ove cosÏ fosse stato
RIFORME
sarebbe bastato prevedere che per i procedimenti di cui
all’art. 333, 330 etc, resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi … di giudizio di separazione etc. in luogo dell’oscura frase la competenza,
anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni
richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario
(v. al riguardo decreto del Tribunale minorenni di Palermo dell’11.12.2013).
Ed allora, meno fragile appare altra opzione ermeneutica, che qui vengo ad illustrare, qual’è maturata seguendo il dibattito e selezionando le variegate posizioni dalle quali dottrina e giurisprudenza
si sono accostate alla controversa questione.
Addentrandoci nel dettaglio di un ragionamento
che in buona misura mi pare convincente, va detto
preliminarmente che si deve conferire il giusto valore al primo dei presupposti indicati dal legislatore
per rendere operante la vis attrattiva, vale a dire che
vi sia un giudizio in corso, seguito alla cessazione
della convivenza dei genitori, poiché l’utilizzo di tale
locuzione non può avere altro significato se non
quello che il procedimento disciplinato dagli artt.
337 bis e segg. Cod. civ. deve essere iniziato in epoca
antecedente a quello volto ad incidere sulla responsabilità genitoriale (peraltro opportunamente dovendosi distinguere tra giudizio in corso e giudizio
pendente, poiché ove ad es. pendessero i termini per
l’impugnazione ovvero per la riassunzione, il vuoto
di tutela in tal modo creatosi dovrebbe ad ogni buon
conto comportare la competenza esclusiva del T.M.).
Ciò premesso, per tentare di dare un senso compiuto alle generiche indicazioni suggerite dalla
norma che stiamo esaminando, pare preferibile concentrarsi dapprima sulla portata innovativa di essa
rispetto a situazioni che, ai sensi dell’art. 330 c.c.,
possano in ipotesi implicare uno spostamento di
competenza del T.M. verso il giudice deputato a trattare la vicenda separativa.
A tal proposito (con la ragionevole riserva di una
massiccia opera di sensibilizzazione della magistratura ordinaria rispetto a temi tradizionalmente
devoluti alla cognizione della magistratura minorile)
da più parti si è fatta strada la propensione ad includere nella competenza del T.O. procedente anche
quella inerente la pronuncia di decadenza, ciò in
funzione dell’obiettivo di privilegiare la ratio ispiratrice della novella, vale a dire l’unicità delle tutele
del minore, obiettivo, questo, coniugato alla fondata
preoccupazione di evitare che le parti in causa possano strumentalizzare a piacimento la presenza di
diverse AA.GG. virtualmente egualmente competenti (v. tra le altre la decisione del T.M. di Torino apparsa sulla lista aimmf, nonché quelle del T.M. di
Bari del 30.3.2013 e per ultimo del T.M. di Sassari del
14.1.2014, ed inoltre le linee operative assunte in
data 18.10.13 dal T.M. di Trieste).
Senza trascurare - ma tralasciando, per mera comodità espositiva, di soffermarvisi - le valide argomentazioni spese a sostegno di tale orientamento,
interessa qui sottolineare come si riveli più convincente l’opinione di chi (v. decreti T.M. Catania
22.5.2013, T.M. Brescia 22.7.2013, T.M. Palermo
11.12.2013, nonché il commento di C. Padalino in affidamentocondiviso.it, ed ancora la nota di riscontro
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 31
RIFORME
al Ministero da parte del Presidente T.M. Firenze L.
laera) ha decifrato il controverso significato del
nuovo art. 38, nel senso che l’inciso trascritto nel 1°
comma dopo il segno punto e virgola: in tale ipotesi
per tutta la durata del processo la competenza, anche per
i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate
nel primo periodo, spetta al giudice ordinario, vada in realtà rapportato unicamente al primo periodo della
seconda - e non della prima - parte della detta disposizione, in tal modo attribuendosi al giudice ordinario la cognizione dei soli procedimenti (e l’emanazione dei relativi provvedimenti) ex art. 333 c.c. e
non di quelli ex art. 330 c.c..
In altri termini - come si legge nel decreto sopra citato emanato dai giudici palermitani - è significativo
l’utilizzo nel primo periodo della seconda parte del
1° comma, dell’espressione procedimenti di cui all’art.
333, contrapposta, nella seconda parte separata da
un punto e virgola, all’espressione provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo.
Si tratterebbe in sostanza di adattare la lettura del
dato testuale (che in modo approssimativo avrebbe
definito come primo periodo quello che deve più correttamente intendersi come periodo precedente) ad
una coerente interpretazione logica e sistematica,
rispettosa del discrimine tra i provvedimenti volti a
regolamentare le modalità di esercizio della potestà
da parte di una coppia genitoriale separata, e quelli
incidenti sulla spettanza della potestà, nei casi più
drammatici di disgregazione familiare.
Peraltro, non pare pertinente il rilievo che cosÏ ragionando si andrebbe ad impedire una valutazione
32 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
unitaria del medesimo nucleo familiare da parte di
una stessa A.G., soccorrendo nella direzione qui proposta proprio quegli stessi poteri-doveri di coordinamento che i fautori della indiscriminata vis attrattiva invocano per rendere funzionante l’innovazione legislativa ed effettiva la tutela del minore.
Del resto, a sostegno dell’orientamento ora illustrato, sul quale pure si registra una certa convergenza di opinioni, milita la pur banale osservazione
che qualora l’ultima parte dell’art. 38 (in tale ipotesi
per tutta la durata del processo la competenza, anche per
i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate
nel primo periodo, spetta al giudice ordinario) avesse realmente voluto rinviare al primo periodo, il riferimento in quest’ultimo all’intero comparto di materie attribuite alla competenza funzionale del T.M. si
risolverebbe in una generalizzata ed ingiustificata
trasmigrazione verso il G.O. di attribuzioni che nulla
hanno a che vedere con l’azione esercitata innanzi
a lui dai genitori.
Legando tali osservazioni all’analisi delle refluenze della novella laddove invece si presenti, nel
corso di quella stessa azione, una situazione suscettibile di determinare una compressione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c., mi sento di
poter dire che anche in tal caso la lettura della
norma non è particolarmente agevole. Tra le poche
certezze, pare non potersi seriamente dubitare che
il giudice ordinario adito possa oggi in via incidentale emanare detti provvedimenti limitativi.
D’altronde, sul solco del riconoscimento, in capo
al giudice della separazione, del potere di assumere
RIFORME
anche d’ufficio ogni provvedimento utile alla prole,
si era già attestata la migliore giurisprudenza di legittimità, muovendo da quelle norme (artt. 155, 155
sexies e 709 ter c.c., art. 6 L. 898/70) che tale potere
esplicitamente o implicitamente gli conferivano, e
giungendo a ravvisare una competenza esclusiva di
quel giudice ogni qual volta si fosse resa necessaria
una decisione su una domanda fondata sul comportamento pregiudizievole di un genitore (v. tra le
altre l’ordinanza n. 20352/11).
Piuttosto, come peraltro fin dalla pronuncia appena ricordata era stato chiarito, la linea di demarcazione tra la competenza del G.O. e quella del T.M.
andrebbe individuata con riferimento ai soggetti legittimati a proporre ricorso ex art. 333 c.c..
Ed il quadro normativo - seppure apparentemente
reso più netto dall’introduzione di una deroga alla
generale competenza del T.M., in pendenza di un
giudizio di separazione - non muta laddove si tenga
presente che ancor oggi la titolarità a ricorrere o a
resistere avanti al G.O., per quanto appresso dirò, rimane a mio avviso di spettanza dei soli genitori.
Ed invero, l’attenzione va spostata a questo punto
sul secondo inciso dato come presupposto dal legislatore perché operi lo spostamento di competenza
al T.O., vale a dire che il giudizio colà in corso si
svolga tra le stesse parti.
Ebbene, quanto alla identità soggettiva tra le parti,
non si può prescindere dal rilievo che allo stato parti
dei giudizi avanti al tribunale civile, salvo le disposizioni eccezionali e derogatorie di cui all’art. 70
c.p.c. (v. già citata Cass. I, 17764/2012), sono esclusivamente i soggetti privati legittimati ad agire o resistere, e nella specie unicamente i membri della coppia genitoriale, il che induce a negare che al P.M. ordinario possa, nei detti giudizi, essere implicitamente attribuita la qualità di parte.
Corollario della superiore asserzione è che il P.M.
ordinario non dovrebbe poter vantare alcun potere
di impulso in ordine ad eventuali provvedimenti limitativi delle prerogative connesse alla responsabilità genitoriale, essendo il suo intervento circoscritto
allo svolgimento degli atti elencati dall’art. 72 c.p.c.
con riferimento agli altri casi di intervento menzionati
al comma 2°.
Una utile chiave di lettura in tal senso è peraltro
fornita dalla considerazione che, ove così non fosse,
si sarebbe resa necessaria una espressa modifica o
abrogazione dei commi 3° e 4° del richiamato art. 72
c.p.c. (che inibiscono al P.M. l’impugnazione delle
sentenze di separazione personale), mentre il silenzio serbato al riguardo dal legislatore non può che
accrescere i seri dubbi qui prospettati circa il supposto ampliamento dei poteri del P.M. ordinario.
La rigorosa applicazione di un tale principio condurrebbe pertanto a concludere che tutte le volte in
cui, nel giudizio in corso avanti al G.O. (tale intendendosi quello di cui agli artt. 316 e 337 bis e segg.
c.c. apertosi col deposito del ricorso e che non si
trovi in una fase di “quiescenza”), una delle parti private introduca una richiesta limitativa dell’altrui potestà, il T.M. coinvolto successivamente da una delle
suddette parti dovrebbe comunque spogliarsi della
competenza attribuitagli in via generale (o meglio
rimettere gli atti all’ormai competente giudice della
separazione), mentre altrettanto non dovrebbe avvenire qualora la richiesta promani dal P.M. minorile, ponendosi unicamente, in tal caso, un problema
di raccordo tra AA.GG..
Certamente la soluzione sopra delineata potrebbe
apparire alquanto semplicistica, dal momento che
proprio la consolidata giurisprudenza che ha ispirato il principio della concentrazione delle tutele ha
fatto perno sulla possibilità che il giudice della separazione, nonostante operi nell’alveo di un giudizio di parte, si pronunci anche ultra petita a garanzia dei figli di minore età.
Tuttavia, deve riconoscersi che la chiara scelta legislativa di dar vita ad una riforma che poco o nulla
ha di organico - piuttosto che porre mano, finalmente, ad una modifica ordinamentale che ridisegni
la geografia giudiziaria (inclusi gli organi della c.d.
pubblica accusa) assicurando quel patrimonio di
specializzazione che è dotazione irrinunciabile del
T.M. - fa sì che, ancora una volta, spetti alla magistratura farsi carico di elaborare criteri quanto più
precisi che possano consentire (a tutti gli operatori
del diritto ma anche e soprattutto ai diretti destinatari delle decisioni) di individuare quale sia il giudice naturale cui rivolgersi.
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 33
MEDIAZIONE
APPROCCI
INTERDISCIPLINARI
E CONCILIATIVI
NELLA CRISI FAMILIARE:
LA SOFT LAW NEL
DIRITTO DI FAMIGLIA
ALESSANDRA CORDIANO
1. Interventi mediativi e cultura della conciliazione. La
trattazione dei nuovi strumenti di conciliazione e di
prevenzione nei più recenti contesti familiari riguarda, trasversalmente, le molteplici tipologie ormai attestate ed è una questione, a tutta prima, di
natura principalmente culturale: costituisce un dato
incontrovertibile che il fine ultimo e il criterio ermeneutico del contesto giuridico familiarista è
quello della tutela e della promozione dei minori e
dei soggetti più deboli della compagine familiare. In
questa prospettiva, anche se dottrina e giurisprudenza hanno spesso adottato posizioni contrarie
con riguardo alla tutela del coniuge debole1, è evidente
che l’operatore giuridico è tenuto ad affrontare le
questioni in esame, supportato da una forte capacità empatica, ancorché non confusiva, che consenta di comprendere le fragilità emotive, culturali
e sociali di tutte le parti (anche) diversamente deboli2.
In particolar modo, l’operatore giuridico è vincolato
alla promozione e alla tutela dell’interesse e dei diritti inviolabili della prole, come fine primario del
suo mandato fiduciario (l’avvocato) o della sua funzione (il giudice). Questa peculiarità, data per acquisita per chiunque possieda competenze esperienziali e teoriche del diritto delle persone e della
famiglia, costituisce il presupposto per affermare la
necessità della diffusione di una cultura conciliativa
e di un approccio mediativo nei riguardi del procedimento di famiglia, con ciò intendendo non solamente il “processo” di famiglia, ossia tutte le procedure che diversamente riguardano i soggetti coinvolti, ma anche le situazioni conflittuali, di disagio
e di potenziale pericolo, con le quali gli operatori,
giuridici e non, si trovano a confrontarsi anche in
sedi stragiudiziali e informali. Questo “nuovo stru34 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
mento di tutela”, che sinteticamente si traduce in
mezzi e strategie compositive del conflitto, da un
lato, definisce la necessità che gli operatori giuridici
coinvolti siano in grado di intervenire con modalità
deflattive e conciliative nella causa e nella crisi familiare; dall’altro, determina una riflessione delle
prassi esistenti e degli strumenti vigenti, alla luce di
una differente cultura della soluzione del contenzioso familiare.
Il “processo di famiglia” è una struttura complessa, formata di istituti giuridici, di prassi municipali e di relazioni informali fra i soggetti attori,
nella quale i paradigmi dell’efficienza (banalmente
riconducibile al problema dei costi della giustizia),
del giusto processo (ossia dei tempi della giustizia) e
del principio del contraddittorio non possono esplicarsi con le stesse modalità con cui avviene in altri
settori del diritto e, segnatamente, del diritto civile.
Talvolta gli stessi concetti perdono di senso, se comparati e accostati alla tutela del minore, pur senza
sconfessare i cardini del processo civile e la consolidata giurisprudenza della Cedu, in tema di giusto
processo minorile3. Emblematico, in tal senso, è il
caso della mediazione nel processo civile, recentemente introdotta per ragioni di risparmio dei costi e
di sgravio degli oneri processuali, e della mediazione
familiare, strumento ad accesso fondamentalmente
libero e volto ad una ricomposizione della coppia
genitoriale, anche a discapito dei tempi della procedura, come testimoniato dall’art. 155 sexies c.c.4, che
la consente anche prima dell’emanazione dei provvedimenti provvisori5.
Costituisce un ulteriore tratto peculiare del contenzioso familiare, come detto, che esso sia caratterizzato e fondato sulla tutela e sulla promozione
dell’interesse della prole, recentemente confermato
dall’introduzione ad opera della legge 149/2001 dell’avvocato del minore nei procedimenti adottivi e de
potestate6. Si è anche detto che, nonostante qualche
riserva, lo stesso contenzioso appaia teso anche alla
tutela dei soggetti più fragili della struttura familiare, a prescindere dalla minore età: è constatazione banale che l’avvocato familiarista debba essere attento alle fragilità emotive, alle debolezze culturali e alle problematiche economiche del cliente,
senza per ciò tradire quanto ripetutamente affermato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo in
tema di giusto processo minorile.
Il processo di famiglia, qui tecnicamente inteso,
non si costituisce, come tradizionalmente avviene,
secondo una relazione trilatera, composta dal giudice e dalle parti; accanto a questi soggetti, si pone,
certamente, la figura del minore, recentemente rafforzata e formalizzata come parte processuale, al
quale debbono essere garantiti l’ascolto e l’autodeterminazione personale; accanto al minore, vi sono
i Servizi sociali territoriali, i Servizi socio-sanitari,
il consulente tecnico d’ufficio, talvolta affiancato
MEDIAZIONE
dai consulenti di parte, e i mediatori pubblici e privati7.
La stessa relazione fra gli organi giurisdizionali si
presenta(va) complessa: non solo per il problema
(oggi in parte risolto) del riparto di competenza e
della diversità (ancora esistente) fra riti processuali
fra filiazione legittima e naturale e nella filiazione
naturale, ma soprattutto per le frequenti sovrapposizioni di procedure e di competenze fra il giudice
della separazione e del divorzio - che era fino ad
oggi il tribunale competente anche per i provvedimenti di affido dei figli naturali -, il giudice tutelare
- al quale è affidato il compito, ex art. 337 c.c., di vigilare sull’esecuzione del giudice di merito e a “intrattenere” le relazioni con il tessuto sociale di riferimento -, e il tribunale per i minorenni8.
A questi peculiari “incastri” di competenze si aggiunge la constatazione che, nella crisi familiare, il
problema dei costi e dei tempi della giustizia è affiancato da un ulteriore tipologia costi: quelli emotivi ed individuali dei soggetti coinvolti e i costi sociali del welfare, relativi alle strutture di sostegno e
di supporto, necessarie per condurre la famiglia
verso e attraverso gli equilibri successivi alla crisi.
2. La riduzione dei costi individuali e il sostegno dei costi del welfare nella crisi familiare. La legge di modifica dell’art. 155 c.c.9, nel senso indicato, può costituire un utile banco di prova: l’introduzione della
legge n. 54 del 2006 ha sancito l’ordinarietà dell’affido condiviso, relegando - con una scelta aprioristica forse non del tutto consona al tema in esame10
- l’affido esclusivo a modalità residuale, allorquando la condivisione della responsabilità genitoriale risulti in contrasto e in pregiudizio con l’interesse della prole. La giurisprudenza, inoltre, si è sovente espressa nel senso di negare che la mera conflittualità esistente fra i genitori costituisca un presupposto discriminante per accogliere le istanze
per l’affido esclusivo della prole, derogando al principio della bigenitorialità.
La larga, massiccia applicazione dell’affido condiviso ha condotto ad una apparente diminuzione
dei tempi e dei costi della giustizia, riducendo alla
sola udienza presidenziale la composizione della
lite, quanto meno con riferimento al contenzioso
riguardante i figli e il loro affidamento. Tuttavia, la
stessa disciplina non ha inciso sui costi correlati
alle successive procedure connesse, se non, forse,
nel senso di un loro innalzamento: è probabile, infatti, che la riduzione e la “compressione” della fase
giudiziale deputata al conflitto ad una sola udienza,
comporti l’aumento dei costi connessi con le procedure, che si instaurano successivamente: le richieste di modifica delle condizioni di separazione,
ex artt. 710 c.p.c. e 155 ter c.c.11, di ricorso per divorzio contenzioso, il ricorso al Tribunale per i minorenni o anche “solo” l’intervento del Giudice tuteaprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 35
MEDIAZIONE
lare per mancata ottemperanza delle disposizioni
del giudice del merito (art. 337 c.c.). Sono quelle
procedure, che originano a seguito di conflitti celati
e di provvedimenti solo “apparentemente consensuali”: a questo proposito un risalente studio sugli
accessi al Giudice tutelare di Roma già segnalava la
preponderanza di richieste di vigilanza dell’autorità giudiziaria in ragione dell’inadempimento dei
provvedimenti emessi in sede di separazioni consensuali12.
Queste riflessioni, oltre ad accompagnare verso
una sensibilizzazione e a un’applicazione ragionata
dello strumento (pur sempre utile) dell’affido condiviso, vogliono promuovere fra operatori, giuridici
e non, una relazione collaborativa, di reciproco riconoscimento dei linguaggi e delle competenze, e sostenere il supporto dei costi sociali connessi (servizi
sociali territoriali, consultori, Ulss) e degli strumenti
giuridici esistenti (primo fra tutti, quello estremamente proficuo del giudice tutelare, come giudice
che vigila sull’esecuzione), che forniscano alle famiglie le strategie per contenere e risolvere le conflittualità; diffondere un cultura conciliativa e deflattiva dei conflitti familiari.
L’innalzamento a livello nazionale del numero di
procedure giudiziali di separazione e divorzio, l’abbassamento della durata dei matrimoni, dell’età dei
coniugi che accede al processo, l’abbassamento dell’età dei minori coinvolti13 e il numero significativo
36 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
dei minori stranieri residenti (anche non accompagnati) costituiscono dati oggettivi, che incoraggiano
alla spinta verso una cultura conciliativa, ad esempio, potenziando gli strumenti esistenti (il giudice
tutelare e una sua fruttuosa e costante relazione con
i servizi) e promuovendo una proficua collaborazione interdisciplinare, volta alla creazione di protocolli di intesa, di linee guida di applicazione virtuosa, di tavoli di lavoro permanente fra i diversi
componenti del contenzioso familiare. Affinché
questo complesso di istituti giuridici e di prassi informali, questo reticolo di rapporti e di strumenti di
supporto possa condurre verso scelte (in senso lato)
giudiziali, che siano realmente condivise e alla effettiva riduzione dei costi emotivi ed individuali dei
soggetti coinvolti.
3. Il giudice tutelare quale strumento conciliativo. Un
strumento conciliativo e preventivo del conflitto familiare, si è detto, può essere efficacemente svolto
mediante un uso sapiente del giudice tutelare: esso
stesso mezzo conciliativo, per la capacità che questo
possiede di offrire luoghi e momenti di ascolto alle
parti, e per creare, mantenere e rafforzare le relazioni con i servizi sociali territoriali di supporto.
Benché possa apparire di controtendenza, il tema
riveste invero elementi di grande attualità: nonostante le forti (e ragionevoli) spinte verso la costituzione di un giudice unico della famiglia, a dispetto
MEDIAZIONE
degli oneri ingenti di lavoro, la frequente scarsa specializzazione, la forte frammentarietà delle competenze e il limitato raccordo con il tribunale ordinario e, particolarmente, con il tribunale per i minorenni, infatti, quello che si può lamentare con maggiore forza è, piuttosto, la scarsa sensibilità e sensibilizzazione verso gli strumenti di cui il giudice tutelare è dotato, al fine di comporre e prevenire l’acutizzarsi dei conflitti nella crisi della famiglia.
Questa attitudine conciliativa è rappresentata, in
prima battuta, dagli affidi consensuali, di cui all’art.
4 l. ad., la cui fruizione, più o meno larga, dimostra
la collaborazione e l’intesa con il tessuto sociale di
sostegno: in tal senso, lungi dal rappresentare un
mero esecutore del decreto di idoneità formale del
progetto confezionato dai servizi, il giudice tutelare
può efficacemente contribuire al successo del progetto di affido consensuale, nei termini, evidentemente, del rientro del minore nella famiglia d’origine; allo stesso tempo, egli dovrebbe vigilare sullo
stesso affido, per rinviarlo al giudice minorile
quando esso manifesti elementi di criticità rispetto
al benessere dei minori.
Un secondo esempio di questa peculiarità, infine,
è costituito dallo strumento di cui all’art. 337 c.c.: la
prassi applicativa conosce il rinvio al Giudice tutelare delle separazioni conflittuali, ad opera già del
Presidente o in seguito del Giudice istruttore, mediante l’apertura di una procedura che corre parallela a quella principale e che poi mantiene la propria autonomia, anche a seguito della definizione
del percorso di separazione. Altrettanto proficua, e
non tacciabile di un banale paternalismo, è l’abitudinarietà a rinviare al Giudice tutelare anche le separazioni consensuali, per le quali il Presidente nutra qualche forte perplessità: le prassi in tal senso
non hanno mancato di mostrare significativi risultati, con riguardo al sostegno della coppia genitoriale nel rispetto delle prescrizioni del giudice e al
supporto fornito dai servizi nella gestione della
prole. La forte carica e potenzialità conciliativa sta
nella capacità del Tutelare di offrire un luogo informale, mantenendo una propria veste istituzionale
e autorevole, e nella possibilità di creare momenti
di ascolto per le parti, insieme alla verifica delle prescrizioni emesse dal giudice della separazione, e di
collegamento e collaborazione con i Servizi sociali,
affinché quel monitoraggio della genitorialità possa
divenire poi sostegno e magari mediazione.
4. L’approccio interdisciplinare nei Protocolli d’intesa:
un’efficace forma di soft law?. L’esempio dei Protocolli
d’intesa per l’applicazione virtuosa di Linee guida
condivise fra operatori, insieme alla grande risorsa
rappresentata dai Tavoli di lavoro permanenti, intradisciplinari fra operatori giuridici e interdisciplinari fra questi ultimi e altri professionisti non giuridici, costituiscono una risorsa importante che il ter-
ritorio può creare, al fine di una proficua collaborazione e condivisione di intenti.
Proprio i Protocolli d’intesa, siglati talvolta all’interno delle singole associazioni, altre volte fra tutti
i soggetti coinvolti (Tribunale, Ordini professionali,
Associazioni di categoria, Servizi sociali di base e
Servizi specialistici) posseggono, da un lato, la capacità di agevolare e consentire un mutuo riconoscimento delle persone, dei linguaggi, delle competenze e dei fondamenti epistemologici spesso profondamente differenti che caratterizzano gli operatori familiaristi. Questo mutuo riconoscimento permette, da un atteggiamento spesso di grande diffidenza, di giungere ad un’unità di scopi e di linguaggi
e alla nascita, magari, di altre iniziative, di altri documenti comuni: il Protocollo sull’ascolto del minore, ad esempio, è stato frequentemente l’elemento propulsivo per l’attivazione dell’aula di
ascolto presso le sedi di Tribunale.
Dall’altro lato, i Protocolli hanno il pregio di mettere in rete gli operatori coinvolti, di creare un contesto comune, relazioni assidue e luoghi anche informali di scambio: così può accadere, ad esempio,
nelle ipotesi di Protocolli fra unità sanitarie locali e
consultori, per la costituzione di strumenti per la
messa in rete dei soggetti che vengono a conoscere
situazioni di violenza su donne e su minori.
E’ evidente che, trattandosi di Protocolli d’intesa
per l’adozione di Linee guida comuni, si discorre di
applicazione virtuosa, ancorché condivisa largamente, e non di strumenti dotati di vincolatività,
prescrittività o giusitiziabilità. Questa tipologia di
“regole”, infatti, si inserisce in quel contenitore ampio e dal contenuto variegato, costituito dalla così
detta soft law, essa stessa di non pronta definizione.
La soft law rappresenta una nuova forma giuridica
in risposta alla acuita complessità fenomenologica,
ovvero, con altri termini, costituisce l’espressione di
nuovi modi di gestire processi decisionali compositi, comportando, almeno in parte, il superamento
della sistematica e della dogmatica della teoria della
fonti di hard law e, insieme con questa, del diritto
proveniente dalle istituzioni politiche e dalle procedure a queste connesse14. Le ragioni di questo superamento si trovano, in larga parte, in fenomeni sociologici ed economici dettati dalla globalizzazione
e del mercato, insieme alla sostanziale presa di potere della governance comunitaria, che ha comportato, oltre ad una condivisione di sovranità, anche
la graduale validazione di “espressioni giuridiche
(più) soft”, ai margini delle fonti del diritto, con rilevanti effetti pratici15.
Molteplici sono le funzioni e la struttura che accomunano le forme disomogenee di soft law, che
possiedono sicuramente una forte carica persuasiva, accanto a funzioni informative, di socializzazione valoriale e di orientamento del processo interpretativo propriamente inteso. Accanto a queste
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 37
MEDIAZIONE
molteplici funzioni, si colloca quella di moral suasion,
che ben si inserisce nel contesto, a vocazione mediativa, del diritto di famiglia. La forza persuasiva
ammanta tutto il processo formativo di queste peculiari regole, consentendo ab origine la condivisione
dei progetti sottesi, fondata non sull’autorità, ma su
nuovi circuiti giuridici. Le norme di soft law, infatti,
non si fondano sulle regole dell’obbedienza derivanti dall’emanazione ad opera dell’organo istituzionale, ma sul mutuo riconoscimento di nuovi soggetti operanti nel settore di riferimento (es., le associazioni di avvocati familiaristi o quelle di psicologi
operanti nel campo della famiglia e dei minori), creando effettivamente nuovi criteri di legittimazione
e mutando lo scenario dei soggetti attori del processo di produzione delle stesse regole.
Per altro verso, il contenuto delle norme protocollari, species del genus soft law, è profondamente connotato dalle modalità della negoziazione, che riscuote l’adesione alla regola più “morbida”, come
quella fortemente pensata, condivisa e voluta. Le
norme in parola, quindi, oltre alla funzione di socializzazione valoriale, hanno un ruolo determinante perché modellano in maniera significativa la
realtà a cui la norma protocollare è destinata ad applicarsi: in questo senso, non solo la norma ha una
funzione interpretativa della fattispecie concreta,
ma entra, altresì, nella decisione presa dal giudice.
Infine, e questo risulta un profilo inedito, è possibile constatare come la norma di soft law, nel caso
specifico del diritto di famiglia, abbia avuto un ruolo
determinante nella formazione della regola hard:
tutta la materia dell’ascolto del minore, infatti, è
stata recentemente novellata dal d.lgsl. n. 154/2013,
emanato sulla delega della legge n. 219/2012, riformulando essenzialmente la materia alla luce di
quelle che erano le prassi assodate e condivise
presso numerose sedi di Tribunale del territorio nazionale. Non tanto l’ascolto del giudice della separazione, che è stato integralmente e pressoché pedissequamente trasfuso dal vecchio art. 155 sexies
c.c. al nuovo art. 337 octies c.c., quanto quello del giudice minorile, oggi individuato dal nuovo art. 336 bis
c.c., è modellato secondo quanto disponevano
spesso i Protocolli sull’ascolto: rispetto alla scelta
del giudice di non provvedere a consultare il minore
e all’adempimento del provvedimento motivato;
alle modalità di consultazione diretta o mediante
l’ausilio di esperti, alla redazione del processo verbale, e alla preventiva informazione del minore riguardo alla natura del procedimento e agli effetti
dell’ascolto. In particolare, poi, con riferimento alla
possibilità di partecipare all’ascolto da parte degli
altri soggetti coinvolti (genitori, difensori di questi,
curatore del minore, pubblico ministero), il secondo
comma dell’art. 336 bis oggi prevede sì la possibilità
di “suggerire” al giudice argomenti e temi sui quali
ascoltare il minore; tuttavia questi sono ammessi a
38 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
partecipare all’ascolto, solo a seguito di apposita autorizzazione del giudice, salvo quanto disposto dal
(nuovo) art. 38 bis dip. att. c.c., anche questo di matrice prettamente protocollare.
Il tema, è noto, costituisce un aspetto significativo
a livello professionale - soprattutto riflettendo su
quante perplessità abbia suscitato la nuova formulazione dell’art. 56 del codice deontologico, anche
alla luce delle disposizioni della Convenzione di
Lanzarote in tema di ascolto -; al contempo, per ciò
che qui interessa, esso dimostra come il legislatore
abbia operato sul contenuto delle norme, attraverso
un meccanismo di costruzione “dal basso”, che risulta efficacemente inedito sotto il profilo della tradizionale produzione delle fonti normative.
Per questa ragione non è da condividere l’idea che
i Protocolli nella materia de qua siano necessariamente inutili o anche dannosi16 - inutili perché pedissequamente riproducono la norma di legge e in
ogni caso perché privi di rilevanza giuridica; dannosi allorquando esprimano regole contra jus.
Da un lato, infatti, sebbene si consenta una sorta
di destrutturazione del sistema delle fonti, come
tradizionalmente inteso, e insieme una diversificazione delle procedure e la moltiplicazione dei soggetti legittimati a produrle, è ben evidente che ciò
non implica l’ammissibilità di deroghe o violazione
dei diritti ascrivibili a tutti i soggetti coinvolti nel
contesto di riferimento: la soft law, in tal senso, presuppone che l’ordinamento non sia (più) esaustivo
ed esprime “solo” altre forme normative, le quali,
MEDIAZIONE
sebbene non cogenti secondo i tradizionali canoni
della prescrittività e sanzionabilità, entrano nelle
decisioni assunte. Il problema, a ben vedere, non è
tanto quello delle disposizioni protocollari che violano la norma di legge, piuttosto scarse in realtà,
bensì quello della loro disapplicazione o violazione.
Non appare sufficiente, anzi tutto, “liquidare” il
problema con l’idea che l’ordinamento assorba in sè
l’inefficienza delle regola protocollare inutile, mediante la sua disapplicazione. Se, infatti, la norma
protocollare è applicata, perché esprime un modello
condiviso e negoziato, al contempo essa ha l’effetto
- intrinsecamente correlato - di orientare ad essa i
comportamenti dei contraenti, che saranno aderenti
alla norma. D’altro canto, l’adozione di un comportamento così indirizzato, ingenera negli stessi contraenti una legittima aspettativa a veder osservata
la norma di riferimento. In altre parole, l’avvocato
sarà legittimamente propenso a credere che la controparte osservi il Protocollo sottoscritto e così adeguerà la propria strategia difensiva alla luce di questa aspettativa.
Al contempo, non è da escludere che l’adesione
alla norma protocollare produca un ulteriore effetto,
che potremmo chiamare “di liceità”: il comportamento conforme alla disposizione di soft law è per
principio lecito, ossia riconosce a chi la osserva un
esonero di responsabilità da eventuali pregiudizi incorsi ai soggetti coinvolti, derivanti dal comportamento conforme.
Il fenomeno è noto con riguardo al tema delle certificazioni di qualità, invero del tutto peculiare, es-
sendo sostanzialmente normato attraverso disposizioni soft - le norme e specifiche tecniche. Ma il tema
ha investito potentemente anche l’ambito della responsabilità medica, che già ad opera della giurisprudenza richiamava le Linee guida scientificamente e internazionalmente riconosciute per escludere (o meno!) la responsabilità civile e penale di chi
le avesse correttamente osservate. A seguito dell’entrata in vigore della legge Balduzzi, n. 189, 8 novembre 2012, poi, la questione è ancor più attuale:
l’art. 3, primo comma, della legge recita infatti che
“L’esercente la professione sanitaria, che nello svolgimento della propria attività, si attiene alle linee
guida e buone pratiche, accreditate dalla comunità
scientifica, non risponde penalmente per colpa
lieve”. La norma ha sancito per legge un ruolo prescrittivo assegnato alle norme di soft law, dimostrando come la carica persuasiva di quelle non preclude intrinsecamente forme di reazione ordinamentali.
Sotto il profilo che qui interessa, per concludere,
v’è da chiedersi se sia così vero che la mancata applicazione e la violazione delle disposizioni dei Protocolli in materia di diritto di famiglia - che siano
stati negoziati, condivisi e sottoscritti -, ad opera di
una delle parti contraenti non producano alcuna
conseguenza. Forse non è tempo per immaginare
una condanna della giurisprudenza per violazione
di questo inedito diritto vivente; certamente, tuttavia,
è lecito richiedere e attendersi l’assunzione di responsabilità e consapevolezza da parte di chi, questi Protocolli li ha voluti e sottoscritti.
Note
1
C. RIMINI, La tutela del coniuge più debole fra logiche assistenziali ed esigenze compensative, in p. 765 ss.
2
Cfr. G. GALUPPI, La conflittualità nelle separazioni e il danno che ne consegue su genitori e figli, in Dir. fam. pers., 2011, p. 329 ss.
3
M.G. RUO, Avvocato, tutore, curatore del minore nei procedimenti di adottabilità, in Dir. fam. pers., 2011, p. 338 ss.
4
Oggi 337 octies c.c.
5
Non costituisce opzione praticabile il rinvio ai centri di mediazione, che il giudice potrebbe disporre ai sensi del secondo comma dell’art. 342 ter c.c., per la situazione di alta conflittualità e di rischio concreto, caratterizzanti queste fattispecie.
6
Sull’avvocato del minore e sul suo patrocinio, da ultimo, F. TOMMASEO, Rappresentanza e difesa del minore nel processo civile,
in Fam. dir., 2007, p. 409 ss.; G. DOSI, La controriforma in tema di avvocato del minore (dalla legga 149/2001 al disegno di legge per le
norme di attuazione s/3048), in ivi, 2006, p. 217 ss.; ID., Una svolta nei giudizi de potestate e di adottabilità: in vigore, dopo anni di
proroghe, l’obbligo di un difensore per genitori e minore, ivi, p. 951 ss.
7
Costituisce un ulteriore elemento di criticità l’intervento di modifica della legge 149/2001, che di fatto ha scelto di precludere ogni legittimazione processuale ai Servizi sociali, così come al Tribunale per i minorenni, negando anche a quest’ultimo un autonomo potere di impulso per l’apertura della procedura di adottabilità; questa rimane, pertanto, sottoposta all’attivazione del p.m. presso il Tribunale per i minorenni, il quale, tuttavia, non è affatto obbligato a dare corso alla segnalazione dei Servizi sociali.
8
Su questa “pericolosa intersecazione di competenze”, F. DANOVI, Il riparto delle competenze tra giudice minorile e giudice ordinario: il tribunale unico della famiglia, cit., p. 260.
9
Oggi art. 337 ter c.c.
10
Criticamente F. RUSCELLO, Crisi della famiglia e affidamenti familiari: il nuovo art. 155 c.c., in Dir. fam. pers., 2007, p. 265 ss.
11
Oggi art. 337 octies c.c.
12
L. DEL CONTE-A. DELL’ANTONIO, Competenze del G.T. ai sensi dell’art. 337 c.c.: problemi giuridici e psicologici nel contesto esperienziale, in Dir. fam. pers., 1984, p. 773.
13
Si tratta del Dossier Famiglia 2010, elaborato dall’Istat e consultabile sul sito ufficiale al link http://www.istat.it/societa/DossierFamigliaInCifre.pdf.
14
R. BIN, Soft law, no law, in A. SOMMA (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, cit., p. 31.
15
Così F. SNYDER, Soft law e prassi istituzionale nella Comunità europea, in Soc. dir., 1993, p. 90 ss.
16
Così G. CASABURI, L’ascolto del minore tra criticità processuali ed effettività della tutela, in nota ad App. Milano, 21 febbraio
2011, in Corr. mer., 2012, p. 32.
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 39
GIURISPRUDENZA
NON SUSSISTE
SOSPENSIONE
DELLA PRESCRIZIONE
TRA CONIUGI SEPARATI
Cassazione civile, sezione I,
Sentenza 4 aprile 2014, n. 7981
Presidente Carnevale
Relatore Pietro Campanile
(omissis)
1 - Con atto di precetto notificato in data 10 gennaio 2003 V. M.T. intimava al proprio coniuge B.C.,
dal quale si era separata consensualmente nell’anno 1980, il pagamento della somma di Euro
48.842,55, corrispondente alla differenza fra quanto
dovuto e quanto versato a titolo di mantenimento
proprio (dall’aprile 1980 fino al settembre 2002) e
del figlio A., limitatamente al periodo compreso fra
l’aprile del 1980 e il gennaio 1985. A tale atto faceva
seguito il pignoramento, nelle forme dell’espropriazione presso terzi, con riferimento alla pensione erogata dall’INPS. 1.1 - Il B. proponeva opposizione all’esecuzione, eccependo in primo luogo di
aver esattamente adempiuto alla propria obbligazione, e, in via subordinata, la prescrizione dei diritti vantati dalla moglie, per prescrizione del termine decennale. Sosteneva che, in ogni caso, la prescrizione non poteva ritenersi sospesa per quanto
riguardava la quota del mantenimento relativa al
figlio A., divenuto maggiorenne nell’anno 1982. Affermava ancora l’opponente che la propria pensione, non essendo egli titolare di altri redditi, non
poteva essere assoggettata ad esecuzione forzata
nella quota di un terzo e chiedeva, quindi, che il pignoramento venisse ridotto alla percentuale di un
quinto.
1.2 - Con sentenza depositata in data 15 gennaio
2005 il Tribunale di Torino rigettava la proposta opposizione, rilevando in primo luogo l’infondatezza
dell’eccezione di prescrizione, il cui decorso era sospeso dal rapporto di coniugio ai sensi dell’art. 2941
c.c. e osservando, nel merito, che le contestazioni
del B., il quale, in quanto titolare di altri redditi, non
40 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
aveva diritto alla riduzione del pignoramento, non
trovavano riscontro nelle risultanze processuali.
1.3 - Avverso tale decisione interponeva appello il
B., il quale riproponeva le questioni già sollevate in
primo grado, ribadendo, in particolare, l’eccezione
di prescrizione.
Si costituiva la V., contestando la fondatezza del
gravame e proponendo appello incidentale in merito alla liquidazione delle spese processuali.
1.4 - Con sentenza non definitiva depositata in
data 23 marzo 2007 la Corte di appello di Torino accoglieva l’eccezione di prescrizione sollevata dal B.
in relazione all’intero credito vantato dalla moglie,
in primo luogo richiamando talune pronunce di
questa Corte (nn. 12333/1998 e 6975/2005) nelle quali
si era affermato - tanto in relazione al divorzio,
quanto alla separazione personale dei coniugi - che
la prescrizione del diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento non decorre dalla data
della sentenza di separazione o di divorzio, bensì
dalle singole scadenze di pagamento. Tali arresti, ad
avviso della Corte territoriale, pur non esaminando
specificamente il problema della sospensione della
prescrizione fra coniugi separati, avevano posto le
premesse logiche per il superamento dell’indirizzo
tradizionale secondo cui la separazione personale,
creando soltanto un’attenuazione del vincolo, non
osta alla sospensione della prescrizione. Sotto tale
profilo si osservava che la ratio della disposizione
contenuta nell’art. 2941 c.c. intesa ad evitare che la
riluttanza a convenire in giudizio il coniuge debitore
si risolva in un vantaggio per il medesimo, non ricorre nell’ipotesi del coniuge separato, in quanto in
tal caso l’unità familiare è già entrata in crisi e sì è
già verificato un intervento giudiziale nel momento
della pronuncia della separazione.
Si rilevava, ancora, che i rapporti patrimoniali fra
coniugi separati non si atteggiano in maniera diversa rispetto ai coniugi già divorziati, per i quali la
prescrizione non viene sospesa: conseguentemente
anche nel primo caso deve ritenersi inoperante la
disposizione contenuta nell’art. 2941 c.c. n. 1.
Veniva, pertanto, dichiarata la prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948 c.c. n. 4, del credito
azionato dalla V. con riferimento al periodo anteriore al 10 gennaio 1998.
Dichiarato inammissibile il motivo di appello
inerente alla riduzione del pignoramento, si disponeva, con separata ordinanza, in merito alla prosecuzione del giudizio, allo scopo di verificare la
fondatezza o meno dell’eccezione di adempimento
sollevata dal B..
1.5 - Con sentenza definitiva depositata in data 15
luglio 2008 la Corte territoriale determinava, sulla
base dei conteggi eseguiti dal consulente tecnico
d’ufficio, l’ammontare del credito relativo al periodo
non interessato dalla prescrizione, e, ritenuto assorbito l’appello incidentale, regolava le spese del-
GIURISPRUDENZA
l’intero giudizio sulla base dell’esito
complessivo della lite, ponendole, previa compensazione nella restante parte.
a carico dell’appellante principale nella
misura del cinquanta per cento.
1.6 - Per la cassazione di entrambe le
decisioni la V. ha proposto ricorso, deducendo due motivi. La parte intimata
non svolge attività difensiva.
Motivi della decisione
2. - Con il primo motivo, denunciandosi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma
1, n. 4, violazione degli artt. 99, 112, 342
e 345 c.p.c., la ricorrente si duole dell’omessa declaratoria di inammissibilità
dell’eccezione di prescrizione del credito relativo al contributo per il mantenimento della stessa V., in quanto sollevata per la prima volta in grado di appello.
2.1 - Viene in proposito formulato il
seguente quesito di diritto:
“Dica l’Ecc.ma Corte se la Corte di appello, dichiarando l’intervenuta prescrizione dell’intero credito in accoglimento dell’eccezione di prescrizione e della corrispondente domanda proposta dall’appellante, in
una situazione nella quale:
a) nel primo grado del giudizio la prescrizione era
stata opposta limitatamente alle somme dovute per
il mantenimento del figlio e non anche per il mantenimento della coniuge, e la pronuncia di rigetto
dell’opposizione era stata emessa con specifico riferimento all’eccezione e alla domanda così come
proposta;
b) con l’atto di appello era stata formulata dall’appellante domanda di accertamento e dichiarazione di “avvenuta estinzione per prescrizione” della
totalità del credito vantato dalla coniuge “in proprio
e per conto “ del figlio, eccependosi la prescrizione
per la totalità del credito;
c) l’appellata aveva eccepito l’inammissibilità per
novità dell’eccezione e della domanda relative alla
quota del credito imputata alla coniuge, sia incorsa
nella violazione dell’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2, in
relazione all’art. 2938 c.c., artt. 99, 112 e 342 c.p.c., in
applicazione dei quali avrebbe invece dovuto dichiarare l’inammissibilità per novità dell’eccezione
per il mantenimento della coniuge e della relativa
domanda.
2.2 - La censura è infondata, in quanto le premesse in base alle quali la doglianza, ed il relativo
quesito di diritto, sono articolate, non corrispondono alla reale situazione processuale come correttamente interpretata dalla corte distrettuale. Risulta
invero dall’esame degli atti processuali, consentito
dalla natura processuale del vizio dedotto, che l’ec-
cezione di prescrizione sollevata dall’opponente a
precetto nel primo grado del giudizio riguardava
l’intero credito vantato dall’odierna ricorrente.
Invero, evidentemente prefigurandosi il B. il rilievo
inerente alla sospensione di cui all’art. 2941 c.c.
aveva precisato che detta sospensione -per altro rilevabile anche d’ufficio - “in ogni caso” non era destinata ad operare per la quota di mantenimento del
figlio:
detta puntualizzazione acquista significato soltanto ove si acceda alla tesi, recepita dalla Corte di
appello nel delimitare l’ambito di operatività dell’eccezione sollevata dall’opponente sin nel primo
grado di giudizio, secondo cui la dedotta fattispecie
estintiva riguardava l’intero credito vantato dalla V..
Nessuna violazione dell’art. 345 c.p.c. è pertanto ravvisabile nella mera riproposizione, in grado di appello, di un’eccezione ritualmente sollevata - con la
medesima estensione qualitativa e quantitativa già nel corso del primo grado del giudizio.
3 - Con il secondo motivo si sostiene che l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione del credito
vantato dalla V., in quanto moglie separata del debitore, sarebbe avvenuta in violazione dell’art. 2941
c.c., n. 1.
3.1 - Viene indicato il seguente quesito di diritto:
“Dica l’Ecc.ma Corte, vista la fattispecie, nella
quale il coniuge separato ha spiegato opposizione
all’azione esecutiva avviata dalla consorte per il pagamento di crediti per il contributo al mantenimento posto a suo carico con verbale di separazione
consensuale, proponendo eccezione di prescrizione,
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 41
GIURISPRUDENZA
e la creditrice ha controeccepito la sospensione della prescrizione ex art.
2941 c.c., n. 1, e nella quale la Corte di
appello d Torino ha dichiarato prescritto
il credito ritenendo inapplicabile l’art.
2941 c.c., n. 1, se costituisca violazione
dell’art. 113 c.p.c., in relazione all’art.
2941 c.c., n. 1, l’assunto della Corte di
appello secondo cui l’operatività della
sospensione per i crediti per mantenimento sarebbe da escludere in caso di
separazione, sostenuto dalle seguenti
ragioni:
a) essere l’art. 2941 c.c., n. 1, preordinato alla tutela dell’unità familiare allo
scopo di impedire l’acquisto per usucapione per conseguire il risultato vietato
dall’art. 781 c.c., ormai non più in vigore;
b) essere i rapporti obbligatori derivanti dalla separazione equiparabili a
quelli derivanti dal divorzio, e perciò
non assistibili dall’art. 2941 c.c., n. 1, siccome originati dalla crisi familiare e
dall’intervento giudiziale, contrastante,
quest’ultimo, con le normali dinamiche
famigliari;
c) essere contraddittorio ricondurre le obbligazioni derivanti dalla separazione, in quanto fonte di
reciproche obbligazioni, a una disciplina (la sospensione della prescrizione) concepita invece a tutela
dell’unita familiare, mentre, ad avviso della ricorrente, l’applicabilità dell’art. 2941, n. 1, avrebbe dovuto essere riconosciuta in applicazione del dettato
normativo che prevede la sospensione della prescrizione tra coniugi senza fare eccezione per il caso
di separazione”.
3.2 - La censura è infondata, ragion per cui deve
rispondersi negativamente al proposto quesito di diritto.
3.3 - L’orientamento invocato dalla ricorrente risale alla nota pronuncia della Corte costituzionale
n. 35 del 1976 e alla decisione di questa Corte del 23
agosto 1985, n. 4502, sostanzialmente fondate sul tenore letterale della norma di cui all’art. 2941 c.c., n.
1, e sul rilievo che il regime di separazione dei coniugi comporta una mera attenuazione e non l’elisione del vincolo scaturente dal matrimonio. In particolare, è stato posto in evidenza, da un lato, il dato
formale, da interpretarsi in maniera rigorosa, dall’altro, il “favor matrimoni”, con il quale la sospensione della prescrizione ben si armonizzerebbe, consentendo ai coniugi “di attendere il raffreddamento
delle tensioni, senza esasperarle con la proposizione
di domande giudiziarie sotto la spada di Damocle
della prescrizione”.
Per il vero, nella stessa decisione, pur relegandole
in una prospettiva “de iure condendo”, si rilevava
42 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
che le osservazioni della parte ricorrente, la quale
sosteneva che la “ratio” della sospensione in parola
fosse compatibile unicamente con la pienezza del
vincolo coniugale, in qualche misura corrispondessero alle emergenze della realtà sociale, in base alle
quali poteva affermarsi che la separazione fosse diventata “l’anticamera del divorzio più che un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia”.
3.4 - A giudizio della Corte l’evoluzione del quadro normativo e della stessa coscienza sociale consentono di confermare la tesi sostenuta dalla Corte
territoriale.
3.5 - Deve in primo luogo osservarsi che l’esistenza di una chiara formulazione grammaticale
della norma non è sufficiente per limitare l’interpretazione all’elemento letterale, occorrendo altresì
che il senso reso palese dal significato proprio delle
parole, secondo la loro connessione, non si ponga in
contrasto con argomentazioni logiche sull’intenzione del legislatore (Cass., 5 aprile 1979, n. 1549).
Deve anzi aggiungersi che, essendo da tempo divenuto del tutto desueto il noto canone “in claris
non fit interpretatio”, l’art. 12 preleggi, laddove stabilisce che nell’applicare la legge non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse e dall’intenzione del legislatore, non privilegia
il criterio interpretativo letterale, poichè evidenzia,
attraverso il riferimento “all’intenzione del legislatore” un essenziale riferimento alla coerenza della
norma e del sistema.
GIURISPRUDENZA
Il dualismo, irrisolto dall’art. 12 preleggi, tra lettera “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e spirito, o “ratio” “intenzione del
legislatore” è stato invero sciolto dalla dottrina e
dalla giurisprudenza dominanti attraverso la “svalutazione” del primo criterio, rilevandosi l’inadeguatezza della stessa idea di interpretazione puramente letterale. Sotto altro profilo, mette conto di
richiamare come l’interpretazione della legge debba
e possa avere anche una funzione evolutiva ed adeguatrice, nel cui ambito ben può realizzarsi un risultato di tipo restrittivo, nel senso di ritenere, con
riferimento al caso in esame, che la norma contenuta nell’art. 2941 c.c. n. 1, si riferisca alla vincolo
coniugale pienamente inteso, con esclusione del regime della separazione personale.
3.6 - Di tale esigenza adeguatrice questa Corte si
è già resa interprete in due decisioni, opportunamente richiamate dalla Corte territoriale, nelle
quali, pur non affrontandosi espressamente il tema
della sospensione del termine prescrizionale, esplicitamente si afferma che “In tema di separazione
dei coniugi e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell’assegno
di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più
prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di
separazione o di cessazione degli effetti civili del
matrimonio, bensì dalle singole scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta,
l’interesse del creditore a ciascun adempimento”
(Cass., 4 aprile 2005, n. 6975; Cass., 5 dicembre 1998,
n. 12333).
3.7 - In effetti, il trattamento indifferenziato delle
ipotesi concernenti la prescrizione di diritti di natura post-matrimoniale e di azioni esercitate fra coniugi separati trova la sua giustificazione nel fatto
che in entrambi i casi i diritti e le azioni esercitate
non solo scaturiscono dalla crisi coniugale, ma trovano di regola il loro fondamento in pronunce giurisdizionali conclusive di controversie già intercorse
fra le stesse parti.
Prescindendo dall’ormai superata ed anacronistica “ratio” concernente le azioni reali, e consistente nella finalità di evitare, attraverso l’usucapione, che fosse aggirato il divieto, ormai insussistente, di donazione fra coniugi, appare comunque
contraddittorio rinvenire la stessa “ratio” nelle diverse ipotesi delle azioni esercitabili fra coniugi non
separati e non, in quanto, mentre nel primo caso
appare giustificata la riluttanza ad esperire azioni
giudiziarie nei confronti del coniuge convivente,
così turbando l’armonia familiare, nel secondo, non
solo all’armonia - laddove si prescinda da una eventuale riconciliazione, in realtà abbastanza rara - è
subentrata una situazione di crisi conclamata, ma,
proprio nell’ambito di essa, sono state necessaria-
mente esperite le azioni giudiziarie correlate alla
crisi coniugale. Deve anzi porsi in evidenza come
negli ultimi anni l’evoluzione del quadro normativo
e l’elaborazione giurisprudenziale (si pensi alla responsabilità endo-familiare) abbiano favorito l’accrescersi delle azioni giudiziarie relative alla soluzione di controversie correlate alla crisi familiare,
cui ha fatto riscontro, anche sotto il profilo procedurale, un significativo processo di unificazione dei
termini e delle modalità di esperimento delle azioni
relative alla separazione personale e allo scioglimento del matrimonio o alla cessazione dei suoi effetti civili.
3.8 - Laddove, poi, veniva richiamata la mera attenuazione, nel regime di separazione, del vincolo
matrimoniale, non sembra che si sia considerato
come, al tenue filo della speranza di una riconciliazione, siano da contrapporre effetti di natura giuridica che in realtà depongono nel senza di una sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo stesso.
Non rileva, invero, soltanto il venir meno della
convivenza, circostanza già di per sé non ostativa
all’instaurazione fra coniugi separati di azioni giudiziarie, che di certo, come già rilevato, non possono
determinare una crisi familiare già conclamata,
quanto la sopravvenienza alla separazione di rilevanti conseguenze di natura giuridica, tali da consentire una sostanziale assimilazione alla situazione che caratterizza gli ex coniugi, come il venir
meno della presunzione di paternità ove la nascita
di un figlio intervenga dopo il decorso di trecento
giorni, ovvero la sospensione degli obblighi della fedeltà (Cass., 17 luglio 1997, n. 6566) e di collaborazione.
In generale, deve rilevarsi che l’interpretazione
che qui viene accolta della norma contenuta nell’art. 2941, n. 1, sia da inquadrarsi nel generale e progressivo fenomeno di valorizzazione delle posizioni
individuali dei membri della famiglia rispetto al
principio della conservazione dell’unità familiare
che per lungo periodo si è imposta come elemento
fondante dell’interpretazione delle norme e dell’individuazione dei principi posti a fondamento del diritto di famiglia.
4 - Al rigetto del ricorso non consegue alcuna statuizione in merito al regolamento delle spese processuali, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dispone che in caso di diffusione del presente
provvedimento siano omesse le generalità delle
parti e dei soggetti menzionati in sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio
della Sezione Prima Civile, il 4 luglio 2013.
Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2014.
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 43
GIURISPRUDENZA
NON COSTITUISCONO
MALTRATTAMENTI
IN FAMIGLIA FATTI
OCCASIONALI
ED EPISODICI
DETERMINATI
DA RAPPORTI
INTERPERSONALI
CONNOTATI
DA PERMANENTE
CONFLITTUALITÀ
Corte di Cassazione, sez. VI penale
Sentenza 20 gennaio 2014, n. 2326
Presidente Agrò
Giudice Estensore Villoni
Non integrano il reato di maltrattamenti in famiglia fatti
occasionali ed episodici, pur penalmente rilevanti in relazione ad altre figure di reato (ingiurie, minacce, percosse), determinati da situazioni contingenti, quali i rapporti interpersonali connotati da permanente conflittualità, siccome insuscettibili di essere inquadrati in una
cornice unitaria espressione di un costante atteggiamento dell’agente di maltrattare o denigrare il soggetto
passivo.
omissis
sul ricorso proposto da B.F., …omissis;
avverso l’ordinanza n. 1805/13 Tribunale di Roma,
Sez. per il Riesame dell’8/7/2013;
esaminati gli atti e letti il ricorso ed il provvedimento decisorio impugnato;
udita in camera di consiglio la relazione del consigliere dott. Orlando Villoni;
udito il pubblico ministero in persona del sostituto P.G., dott. Viola Alfredo Pompeo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
44 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
Svolgimento del processo
1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di
Roma, sezione per il Riesame, adito ai sensi dell’art.
309 c.p.p., confermava l’ordinanza del 19/6/2013 con
cui il GIP del locale Tribunale aveva disposto la misura dell’allontanamento dalla casa familiare a carico di B.F., ravvisando a suo carico gravi indizi di
colpevolezza in ordine al reato di maltrattamenti in
famiglia compiuto ai danni della coniuge convivente
L.L. e del figlio E. a partire dall’anno 2011 e la sussistenza del pericolo di reiterazione di reati della
stessa specie.
Rispondendo alle doglianze formulate dalla difesa dell’indagato, il Tribunale evidenziava il deterioramento del rapporto coniugale insorto a partire dal 2011; le violenze contro il figlio minore manifestatesi anche in precedenza (2010) e ripropostesi nel 2012, quali attestate da dichiarazioni di
testimoni e referti medici; i maltrattamenti compiuti ai danni della moglie, anche essi attestati
dalle dichiarazioni di testimoni oltre che dalle denunzie dell’interessata; i comportamenti da stalker
attuati dall’indagato, acuitisi nell’apprendere di
una relazione extraconiugale intrapresa dalla moglie; la sussistenza in definitiva di una pluralità di
fonti indiziarie atte a fungere da elementi di riscontro alle denunzie presentate dalla L.; la sussistenza di concrete esigenze di tutela dell’incolumità personale dei denunzianti a fondamento dell’adottata misura coercitiva.
2. Avverso detta ordinanza ha presentato ricorso
l’indagato B.F., con atto sottoscritto dal suo difensore, con cui deduce mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione risultante dal
testo del provvedimento e di altri atti del procedimento specificamente indicati ai sensi dell’art. 606,
lett. e), c.p.p., nonché inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b),
c.p.p., in relazione all’art. 572 c.p. e art. 274 c.p.p.
Deduce il ricorrente che il Tribunale ha solo apparentemente motivato in ordine alle specifiche doglianze della difesa, omettendo di soffermarsi su
una nutrita serie di profili che, a suo dire, dimostrerebbero l’assoluta non veridicità delle prospettazioni provenienti dalla denunziante, alludendo in
particolare al tenore dei colloqui intercorsi tra l’indagato e la coniuge dal gennaio 2009 al giugno 2013
su canali telematici chat a dimostrazione del mantenimento di un rapporto paritario ed ispirato a civile confronto;
all’inverosimiglianza della ricostruzione in facto
della pretesa aggressione subita dalla L. nel settembre 2011; all’assenza di qualsivoglia certificazione
medica riferibile alla parte offesa; alla mancata audizione del figlio minorenne E. in ordine alle presunte violenze subite dal padre; alla decisione autonomamente adottata di volersi separare legalmente a causa della scoperta della relazione extra-
GIURISPRUDENZA
coniugale della moglie; alla mancata audizione di
testimoni più vicini alla figura dell’indagato.
Sotto il diverso profilo della violazione di legge,
deduce inoltre il carattere occasionale dei presunti
maltrattamenti; il timore mai palesato dalla denunziante nei confronti del marito, quale evidenziato dal tenore dei colloqui intrattenutisi tra gli
stessi per via telematica; l’assenza totale di motivazione in ordine alle esigenze cautelari ed alla pericolosità sociale dell’indagato, ritenute sussistenti
solo in ragione del clima coniugale emerso dalla vicenda e dalle azioni di controllo, condotte mediante
apparecchiatura di registrazione, che il ricorrente
avrebbe attuato durante il periodo di maggiore tensione coniugale.
Motivi della decisione
3. Il ricorso appare fondato nei termini di cui in
motivazione.
Nella ricostruzione dei momenti salienti della vicenda descritta nella denunzia presentata da L.L.
operata dal Tribunale, rilievo preminente assumono
due episodi di violenza fisica di cui l’indagato si sarebbe reso protagonista ai danni del figlio minore E.,
nonché un episodio di maltrattamenti che la donna
avrebbe subito nel corso di un incontro avvenuto
con il B. presso la sua azienda di lavorazione marmi
corrente in località …omissis.
Il primo dei due episodi di violenza fisica aveva
luogo nel 2010, quando anche la madre della L.
aveva assistito personalmente al pugno sferrato dal
B. al figlio, provocandogli un vistoso ematoma; il secondo episodio appare più circostanziato, poiché attestato anche da referto medico e da testimonianza
di persona estranea al contesto familiare, riguardando la brutale aggressione dell’indagato al figlio,
tale da provocargli tumefazione e sanguinamento
del labbro, mobilità di due denti e dolore alla mandibola, accaduta nel dicembre 2012.
Temporalmente nel mezzo e segnatamente nel
settembre 2011 si colloca l’episodio dell’incontro
avvenuto tra i coniugi L. - B. presso il luogo di lavoro di quest’ultimo e durante il quale, secondo la
prospettazione d’accusa, la denunziante sarebbe
stata aggredita sia verbalmente che fisicamente,
pur non essendovi al riguardo alcuna certificazione
medica.
Ciò premesso, sembra di poter agevolmente desumere come i comportamenti prevaricatori e/o violenti ascritti all’indagato si riducono a tre nell’arco
di un triennio, in un contesto familiare e coniugale
in costante deterioramento per via sia dei rapporti
di segno negativo tra padre e figlio, sia dell’allentamento del vincolo coniugale determinante l’instaurazione di due relazioni extraconiugali da parte
della L.
Così fissati i termini fattuali della vicenda e ferma
restando la sussistenza di un sufficiente quadro di
gravità indiziaria ad essi riferita, non sembra però
possibile poterli complessivamente ricomprendere
in un contesto unitario, normativamente connotato
dalla figura di reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi delineata dall’art. 572 c.p.
Il reato de quo richiede, infatti, per la sua configurazione, una serie abituale di condotte che possono
estrinsecarsi in atti lesivi dell’integrità psico-fisica,
dell’onore, del decoro o di mero disprezzo e prevaricazione del soggetto passivo, attuati anche in un
arco temporale ampio, ma entro il quale possono
agevolmente essere individuati come espressione di
un costante atteggiamento dell’agente di maltrattare o denigrare il soggetto passivo.
Secondo la giurisprudenza elaborata da questa
Sezione, invece, fatti occasionali ed episodici, pur
penalmente rilevanti in relazione ad altre figure di
reato (ingiurie, minacce, lesioni) determinati da situazioni contingenti (ad es. rapporti interpersonali
connotati da permanente conflittualità) e come tali
insuscettibili di essere inquadrati in una cornice
unitaria, non possono assurgere alla definizione
normativa di cui all’art. 572 c.p. (Cass. pen., sez. 6, n.
37019 del 27/5/2003, Caruso, Rv. 226794; sez. 6, n.
45037 del 2/12/2010, Dibra Rv. 249036).
Nell’indicare ed apprezzare i fatti costitutivi del
reato provvisoriamente contestato al ricorrente ed
alla base della misura coercitiva di cui all’art. 282bis
c.p.p. impostagli, i giudici del riesame non hanno,
dunque, assolto in maniera adeguata all’onere di definire in concreto i termini della ritenuta sussistenza
dell’ipotesi accusatoria, incorrendo nella violazione
di legge determinata da una non corretta interpretazione dell’ambito applicativo dell’art. 572 c.p., specie in un contesto familiare, emergente anche dalle
prospettazioni probatorie difensive, caratterizzato
dal progressivo indebolimento dei rapporti coniugali (denunziante e indagato essendo oggi separati
per iniziativa del ricorrente) pur inframmezzato da
tentativi più o meno concreti di riavvicinamento affettivo degli interessati (v. l’aspetto delle conversazioni telematiche intercorse su Facebook in un arco
temporale piuttosto ampio e la cui valenza è stata
del tutto negletta in sede di riesame).
L’ordinanza impugnata deve essere, dunque, annullata, spettando al Tribunale competente argomentare in maniera più esauriente circa la possibilità di ravvisare nei fatti e negli episodi prospettati
dall’accusa pubblica e privata il reato di maltrattamenti oggetto di provvisoria contestazione.
4. All’accoglimento del ricorso consegue l’annullamento dell’impugnata ordinanza ed il rinvio ai
sensi dell’art. 623 c.p.p., co. 1, lett. a), al Tribunale di
Roma per nuovo esame.
P.Q.M.
annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo
esame al Tribunale di Roma.
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 45
GIURISPRUDENZA
IL PUNTO DI VISTA
di GIANCARLO SAVI
AVVOCATO, PRESIDENTE DELLA SEZIONE DI MACERATA
DELL’OSSERVATORIO
MALTRATTAMENTI FAMILIARI DENUNZIATI
DAL CONIUGE RESPONSABILE DEL FALLIMENTO
DEL VINCOLO MATRIMONIALE
L’individuazione del confine che ricorre tra singole azioni delittuose, quali le percosse, la minaccia,
l’ingiuria, le molestie, la violenza privata, etc., e l’ipotesi criminosa più grave sanzionata dall’art. 572 c.p.,
che con elevata frequenza si presenta nelle aule di
Giustizia, costituisce attività ermeneutica e di giudizio complessa quanto delicata.
Rilevante l’interesse che suscita, nell’ambito di un
tale percorso, l’arresto di legittimità in disamina ed
in particolare l’analisi condotta a riguardo del rapporto di coniugio presupposto, siccome l’azione delittuosa posta in essere dal coniuge che patisce condotte che violano gli essenziali doveri coniugali.
D’altronde, l’abuso o, se si vuole, la “scorciatoia”
sottesa nell’agire del coniuge che invoca la tutela
penale più grave, onde prevenire e comunque porre
nel nulla la domanda volta alla declaratoria di addebito della separazione coniugale esercitata dall’altro, a tenore dell’art. 151 c.c., è un pericolo segnalato da tempo, ed a tale tema non è indifferente
neppure il clamore suscitato dai ricorrenti fatti di
sangue, assolutamente deprecabili, riportati pressoché quotidianamente dai mezzi di comunicazione,
che ha finito per produrre, quasi inconsapevolmente, una sorta di pregiudizio sociologico di massa
tendente ad ipotizzare sempre l’evenienza più
grave, anche in relazione ad accadimenti occasionali ed appartenenti a tutt’altro contesto relazionale.
La stessa possibilità di veder irrogate importanti
misure cautelari (quale è l’allontanamento dalla
casa familiare, secondo la previsione ex art. 282bis
c.p.p.), in esito alla formulazione dell’ipotesi accusatoria ex art. 572 c.p., di fatto ed in buona sostanza,
produce una ricaduta privilegiata sul contenzioso
matrimoniale, devastandone il peculiare contraddittorio, e così, imprimendo una soluzione anche al
rapporto giuridico privato tra i coniugi che accedono
al giudizio di separazione personale; cioè, con impronta sostanzialmente irreversibile, anche ove poi
sussegua, magari a distanza di anni, il proscioglimento del coniuge ingiustamente accusato in sede
penale.
Troppe infatti le vicende coniugali in cui la denuncia per maltrattamenti sporta dal coniuge già
convenuto (od in procinto di essere convenuto) in
giudizio dall’altro, con richiesta di separazione personale (la scoperta di infedeltà coniugali è peraltro
uno stereotipo classico), risulta in realtà finalizzata
46 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
all’ottenimento di condizioni di separazione davvero vantaggiose, che difficilmente verrebbero ottenute presso il Giudice civile; quest’ultimo, a fronte di
una misura cautelare già irrogata in sede penale, di
norma non può che prendere atto della situazione
determinatasi, ad esempio disponendo, gioco forza,
il regime di affidamento della prole e l’assegnazione
della casa familiare. La domanda di addebito viene
così come baypassata attraverso la rozza clava del ricorso alla grave ipotesi criminosa di cui all’art. 572
c.p., insidia preoccupante ove si consideri che in genere è fondata su fatti reattivi, seppur occasionali,
realmente posti in essere dal presunto coniuge maltrattante. Anche ove il movente della denuncia penale sia da individuarsi in altro senso, ad esempio in
una semplice “vendetta” od altri scopi similari non
commendevoli, la conclusione non muta.
Il pericolo quindi di trovarsi a fronte di un coniuge
che si ammanta delle vesti della vittima di maltrattamenti, ma tale non è, e che così agisce strumentalmente, esasperando l’invocazione di una tutela
penale obiettivamente debordante dalla funzione
propria prefigurata dall’ordinamento, induce l’interprete al rigore dell’analisi concreta, e nel caso di
specie la Corte di legittimità ha magistralmente corretto l’impostazione preconcetta espressa dal Giudice del riesame cautelare.
E la coraggiosa indicazione nomofilattica non è
sminuita da quel certo imbarazzo argomentativo
della Corte che in qualche modo emerge, nel momento in cui, analizzando con occhio obiettivo gli
elementi probatori valutati in sede di riesame, afferma che “sembra di poter agevolmente desumere come
i comportamenti prevaricatori e/o violenti ascritti all’indagato, si riducono a tre nell’arco di un triennio, in contesto familiare e coniugale in costante deterioramento per
via sia dei rapporti di segno negativo tra padre e figlio,
sia dell’allentamento del vincolo coniugale determinante
l’instaurazione di due relazioni extraconiugali da parte
della L. Così fissati i termini fattuali della vicenda non
sembra però possibile poterli complessivamente ricomprendere in un contesto unitario, normativamente connotato dalla figura di reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi delineata dall’art. 572 c.p.”.
Si coglie così la funzione di essenziale garanzia
della nostra Corte di legittimità, che ha serenamente ribadito un condivisibile principio di diritto1,
e pur in presenza del menzionato difficile “clima sociale” in materia.
Queste considerazioni inducono perciò a ripercorrere gli aspetti caratterizzanti l’ipotesi delittuosa
in questione, nonché gli orientamenti giurisprudenziali in uno agli interventi riformatori del legislatore.
La norma è collocata nel Titolo XI, del Libro II, del
Codice Penale, dedicato ai delitti contro la famiglia,
e sotto tale Titolo all’interno del Capo IV, che reca
l’intestazione “Dei delitti contro l’assistenza familiare”.
GIURISPRUDENZA
La stessa collocazione è stata criticata da maggioritaria dottrina2, sul rilievo che questo reato inerisce in realtà ai reati contro la persona, come peraltro prevedeva il Codice Zanardelli del 1889; il delitto si consumerebbe infatti attraverso condotte che
ledono obiettivamente l’integrità fisica e morale
della persona e che, conseguentemente, “danno
luogo a veri e propri reati contro la libertà e l’incolumità individuale”3. Si è poi considerato che i maltrattamenti possono aver luogo anche tra persone
che non sono legate da vincoli familiari, come si desume dal dato letterale soggettivo …“una persona
della famiglia o comunque convivente”4.
L’individuazione del bene giuridico oggetto di tutela non vede coincidenza di orientamento: un
primo filone dottrinale individua nella famiglia il
bene giuridico primario, mentre l’incolumità fisica e
psichica delle persone offese riceverebbe una tutela
indiretta5.
Nella giurisprudenza, ricorrente l’affermazione
secondo cui “oggetto della tutela non è solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia, intesa
in senso lato, ma è anche l’interesse del soggetto
passivo al rispetto della sua personalità”6.
Questo concetto di famiglia in senso ampio è stato
fatto oggetto di critiche in quanto si risolverebbe in
una vera e propria petizione di principio, dal mo-
mento che dà per dimostrato ciò che in realtà è tutto
da dimostrare e che, anzi, elementi testuali e motivi
storici sembrano smentire7, ovvero che tutte le persone richiamate dall’art. 572 c.p. siano da considerare “persone della famiglia”8.
D’altro canto, è stato evidenziato che il raggruppamento di alcuni reati all’interno del Titolo dedicato ai delitti contro la famiglia rappresenta in realtà lo scopo di tutela, vale a dire il fine che ha guidato il legislatore nella rilevazione dei beni ai quali
accordare protezione: affermare, allora, che l’oggetto
del reato di maltrattamenti è la famiglia significa incorrere nell’evidente equivoco di confondere lo
scopo della tutela con il bene giuridico tutelato tralasciando, poi, l’ambiguità del concetto di “famiglia”,
come ben noto insuscettibile di una definizione unitaria all’interno del sistema penalistico9.
Come emerge dallo stesso disposto della norma
in esame, tuttavia, la formulazione dell’art. 572 c.p.
– che abbraccia, come sopra cennato, nella propria
tutela una categoria ampia di persone – sembrerebbe considerare i rapporti familiari, intesi in senso
stretto, come elemento non dirimente10. Ecco, perciò, che la tutela dai maltrattamenti sarebbe diretta
non tanto ai beni o agli interessi della famiglia, bensì
ai cosiddetti “rapporti di familiarità”, ovvero, a meglio dire, quei “rapporti relazionali di varia natura
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 47
GIURISPRUDENZA
intercorrenti anche tra persone, fra le quali non vi
siano rapporti di coniugio, di parentela o di affinità”11.
Analogamente, quanti identificano il raggio di tutela della norma in esame nell’interesse del soggetto debole, ovvero di “colui che si trova esposto ad
una supremazia od all’arbitrio di un familiare o di
un soggetto preposto alla sua cura o educazione”12,
contro le degenerazioni relazionali e, più specificamente, nell’interesse del soggetto passivo al rispetto
della propria personalità nello svolgimento del rapporto personale13: la condotta prefigurata dall’articolo 572 c.p., infatti, viene posta in essere all’interno
delle relazioni interpersonali caratterizzate da un
rapporto connotato dalla fiducia e correttezza di un
soggetto verso l’altro od addirittura dalla soggezione; all’interno di una relazione interpersonale
così delineata, è persino fisiologico che ricorrano le
circostanze per il verificarsi di atti di imposizione, o
protervia e sopraffazione da un lato e, di maggiore
sofferenza e impotenza del soggetto passivo dall’altro, il quale ultimo, o perché gli pesa il senso di condizionamento ovvero di subordinazione, o perché è
avvinto da un invincibile “senso della famiglia”, od
ancora perché guidato dal sentire affettivo, non reagisce alle vessazioni che gli vengono inferte; in sostanza, causando la degenerazione relazionale in
48 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
parola, il soggetto attivo assume gioco forza le vesti
della parte “forte”.
L’integrità fisica e/o psichica risulta invero offesa
anche dalla singola ingiuria, minaccia, percossa, violenza privata, etc., ma è il contesto della reiterazione
di queste condotte attingenti al rapporto relazionale, sino ad indurre un regime di vita avvilente e
mortificante, a spostare l’asse della risposta sanzionatoria del sistema penalistico verso una misura
protettiva della “personalità” della vittima14.
Sebbene la lettera della norma si riferisca al soggetto attivo con il termine “chiunque”, ci si trova in
presenza di un reato proprio e, pertanto, può essere
commesso solamente da soggetto agente legato alla
vittima da un rapporto familiare, od investito di
un’autorità od una responsabilità nei suoi confronti,
o che si trova in una delle situazioni di affidamento
in virtù del rapporto di convivenza nel quotidiano15.
L’articolo 572 c.p. delinea la condotta criminosa
facendo semplicemente riferimento al nomen iuris
della norma, giusto il fatto che si punisce chiunque
maltratti una delle persone specificamente indicate
dalla disposizione; l’ontologica ambiguità rende ardua l’individuazione dei confini obiettivi della condotta incriminata, che perciò deve indurre a prudenza; certo, già il dato obiettivo impedisce di attribuire rilevanza alle generiche mancanze di riguardo;
GIURISPRUDENZA
diffuse le perplessità circa la compatibilità della fattispecie incriminatrice in esame con il principio costituzionale di determinatezza: se ne desume che il
delitto in esame rientra a pieno titolo nella categoria dei c.d. reati a forma libera, ovvero di quei reati
in cui il disvalore dell’illecito è tutto polarizzato sull’evento lesivo, a nulla rilevando le modalità con le
quali ad esso si perviene16.
La condotta dei “maltrattamenti” può assumere
perciò i significati più vari: può consistere in comportamenti violenti (ad esempio, colui che percuote
il coniuge), ma anche in aggressioni verbali o di tipo
“morale”; i singoli fatti pur lesivi dell’integrità fisica
o psichica del soggetto passivo non necessariamente debbono configurare autonome ipotesi di
reato17; ciò che rileva al fine di vedere integrati gli
estremi del reato punito dall’art. 572 c.p. è l’abitualità della condotta, ovvero la reiterazione della
stessa in un arco temporale (cosicché una certa
prossimità temporale tra i singoli atti costituisce
elemento obiettivo per individuare il peculiare connotato di disvalore costituito dall’abitualità in parola18); a riprova di ciò viene normalmente richiamata, oltre all’indicata origine semantica del termine “trattare/maltrattare” – che evoca una condotta che necessariamente si protrae nel tempo –,
anche la tradizione giuridica, originatasi con il Codice Penale sardo del 1859 e poi proseguita con il Codice Zanardelli del 1889, sotto la vigenza dei quali
era indubbio che il reato di maltrattamenti consistesse in condotte reiterate nel tempo.
L’elemento materiale del reato viene comunemente individuato dalla Corte di legittimità, in tutti
quei fatti, posti in essere con un nesso di abitualità
ed unitariamente considerati, lesivi dell’integrità fisica, psichica o comunque del patrimonio morale
del soggetto passivo, idonei ad arrecargli sofferenze,
privazioni, umiliazioni, sensazioni dolorose19, imprimendo allo stesso rapporto relazionale attinto un
connotato deteriore rispetto a quella normale e dignitosa condizione di vita che le è propria.
Seppur non sia mancata la considerazione di interpreti che hanno reputato il reato di maltrattamenti in questione come ipotesi di reato permanente20, ci troviamo nell’ambito dei cosiddetti reati
abituali; come noto, all’interno di questa categoria si
distinguono i reati abituali propri, nei quali le condotte, singolarmente prese, non integrano alcuna rilevanza penale, ma la acquistano solamente alla
luce della reiterazione; ed i reati abituali impropri
che ricorrono nelle ipotesi in cui le singole condotte
costituiscono già di per sé reato, ma la loro ripetizione nel tempo dà luogo ad una figura di reato più
grave21.
Invero la figura criminosa che ci occupa non può
farsi rientrare a priori in una o l’altra configurazione,
dal momento che può assumere le vesti sia dell’ipotesi propria che di quella impropria22.
Per il primo caso si consideri la situazione nella
quale il genitore, ponendo in essere comportamenti
iperprotettivi nei confronti del figlio (quali l’ipotesi
ricorrente della privazione del rapporto con l’altro
genitore, con gli ascendenti od il ceto parentale di
entrambi i rami, od addirittura l’esclusione da attività di socializzazione o di istruzione), impedisca
l’adeguato sviluppo psico-fisico e l’educazione verso
il traguardo della maturità adulta; aldilà della configurabilità di altre ipotesi di reato (quali quelle tipiche ex artt. 388, 610, 731 c.p.), la questione è realmente giunta all’attenzione della Corte di legittimità, la quale ha riconosciuto che la condotta di
maltrattamenti in famiglia non deve necessariamente consistere in atti violenti o mortificanti, ma
può anche essere integrata proprio da comportamenti iperprotettivi, giusta la considerazione secondo cui il bene protetto si individua, pur in via
mediata, nella salute psico-fisica della persona offesa23.
Per la seconda ipotesi (reato abituale improprio), si
consideri le condotte di percosse, minaccia, ingiuria, etc.; in questi casi, le singole condotte già risultano penalmente rilevanti, ma in ragione dell’abitualità si eleva la rilevanza criminale delle stesse attraverso la configurazione della più grave ipotesi di
maltrattamenti in famiglia, con importanti conseguenze sotto vari profili, ad iniziare dalla stessa procedibilità officiosa della notitia criminis.
Quanto alla forma della condotta del reato in questione, attesa la valenza semantica del termine
“maltratta”, è indubbiamente commissiva24; tuttavia, non è mancata una casistica riferibile a condotte omissive; una recente pronuncia della Corte
di legittimità25, testualmente rimarca come, “il reato
di maltrattamenti è integrato non soltanto da specifici
fatti commissivi direttamente opprimenti la persona fisica, sì da imporle un inaccettabile e penoso sistema di
vita, ma altresì da fatti omissivi di deliberata indifferenza
verso elementari bisogni assistenziali e affettivi di una
persona disabile”; opportuno però rimarcare che in
realtà ci si trova in presenza della violazione di positivi doveri giuridici di cura ed assistenza; d’altronde, soccorre la clausola generale di equivalenza
di cui all’art. 40, cpv., c.p., secondo la quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire
equivale a cagionarlo”26.
Tra il soggetto attivo e la vittima dei maltrattamenti deve intercorrere, come sopra cennato, una
relazione “qualificata”: l’incidenza della condotta illecita necessariamente attinge una vittima determinata, nel momento in cui deve essere “una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia,
o per l’esercizio di una professione o di un arte”27.
La norma è stata riformulata dalla L. 1 ottobre
2012 n. 172 (di ratifica della Convenzione europea di
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 49
GIURISPRUDENZA
Lanzarote), con riconoscimento da parte dell’ordinamento di una tutela della famiglia, in conformità
all’evoluzione dei costumi sociali, intesa come consortium vitae comunque instaurato, superando gli
anteriori limiti derivanti dalla concezione della relazione familiare come società naturale, coniugale
e parentale, fondata sul matrimonio.
Invero, l’introduzione nel corpo dell’art. 572 c.p.
dell’inciso “o comunque convivente”, era stato preceduto dalla giurisprudenza, che anche in sede di legittimità, in sostanza già garantiva l’applicazione
della norma incriminatrice anche ai maltrattamenti
patiti in ambiti relazionali ove comunque fossero
ravvisabili i tratti di una comunione di affetti analoga a quella che normalmente emerge nella famiglia matrimoniale28; anche in questo ambito dell’ordinamento giuridico una tale conclusione altro non
era che il riconoscimento dei diritti inviolabili dei
singoli nell’ambito delle “formazioni sociali” ove si
svolge e sviluppa la sua personalità, secondo il fondamentale canone guida di cui all’art. 2 Cost.
Un tale approccio evolutivo si rinviene ad esempio
quando, ai fini di ritenere configurato il reato di maltrattamenti in famiglia, si è ritenuto sufficiente che
ricorresse un “consorzio di persone tra le quali, per
strette relazioni e consuetudini di vita, fossero sorti rapporti di assistenza o solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”29, individuando così gli stessi tratti
della cosiddetta famiglia di fatto30, purché i relativi
rapporti fossero caratterizzati da una stabile convivenza31 e da una comunanza di vita e interessi.
Pur non mancando voci critiche della dottrina32, il
delineato punto di approdo riceveva conferma anche in casi peculiari ove non fosse integrata la stessa
ricorrenza di convivenza more uxorio nel quotidiano,
ma solamente “una relazione sentimentale, che aveva
comportato un’assidua frequentazione dell’abitazione del
partner, trattandosi di un rapporto abituale tale da far
sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale”33; e persino in ipotesi di relazione extraconiugale del coniuge che ancora vive
con moglie e figli34.
In esito alla menzionata riforma, operata con l’art.
4, co. I, lett. d), L. 1 ottobre 2012 n. 172, dovendo il
soggetto passivo e vittima dei soprusi risultare “comunque convivente”, un primo approccio interpretativo sembrava agevolmente condurre alla considerazione secondo cui il delitto in esame è da escludersi ogni volta che non ricorra una comunanza di
tetto (rimanendo unicamente il rilievo di altre figure
di reato quali le percosse, la minaccia, l’ingiuria,
etc.).
In realtà, la giurisprudenza, ha ribadito che “il delitto di maltrattamenti è configurabile pur se con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare di mero fatto,
desumibile, anche in assenza di una stabile convivenza,
dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza”35.
50 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
Ad ogni modo, il legislatore, introducendo la locuzione “comunque conviventi” (la rubrica della stessa
norma è stata anch’essa riformata in: “maltrattamenti contro familiari e conviventi”), ha inteso evidentemente estendere l’alveo applicativo dell’art.
572 c.p., anche a soggetti che sono uniti all’autore
dei maltrattamenti da rapporti diversi ed assai distanti da quelli familiari, come, a titolo esemplificativo, le cosiddette comunità parafamiliari, i legami
di coabitazione tra persone che condividono spazi
comuni e consuetudini di vita, le unioni di mutuo
aiuto (si pensi, addirittura, alla relazione che si instaura fra studenti o lavoratori fuori sede che condividano una stessa abitazione). Cosicché, le relazioni familiari, intese esse stesse nel senso lato appena sopra indicato, non esauriscono il novero di altre possibili relazioni che si concretano in eterogenee forme di “convivenza”36.
Quanto all’elemento psicologico che deve sorreggere la condotta nel reato di maltrattamenti in famiglia, più d’uno i profili da affrontare37.
Una prima linea interpretativa, propria di risalente giurisprudenza38, reputa che per l’integrazione
degli estremi del delitto in parola, debba ricorrere
un dolo specifico, che si concreta nello scopo di provocare nel soggetto passivo, attraverso una serie di
fatti, sofferenza psicologica, e/o esistenziale, e/o morale, pur senza alcun plausibile motivo se non
quello dell’avversione personale, del disprezzo o
dell’odio.
Anche a non voler considerare che nella norma
in esame non si rinviene alcuna espressione letterale che consenta di delineare un dolo specifico
(quali ad esempio le note locuzioni “allo scopo di…”,
“al fine di…”), l’orientamento in esame si rivela comunque fallace nel momento in cui si consideri
che nei reati abituali, e con evidenza in quello ex
art. 572 c.p., non è prevista la realizzazione di alcun scopo esterno, cui la condotta del reo deve tendere: il risultato del provocare le sofferenze elencate, infatti, ben lungi dal collocarsi in una prospettiva esterna alla condotta criminosa, è al contrario parte integrante di essa e, di conseguenza,
costituisce proprio l’oggetto della volizione dell’azione integrante il delitto39.
Altro orientamento rinviene la caratteristica saliente del reato abituale in parola non tanto nella
reiterazione delle condotte, bensì nell’inclinazione
dell’autore a siffatte condotte; in sostanza, il reo
agirebbe con colpa d’autore, con la conseguenza
che chi dovesse commettere queste reiterate condotte di maltrattamenti senza presentare quel determinato habitus mentale andrebbe esente da
pena40. L’opzione interpretativa appare decisamente anacronistica, per due ordini di ragioni: innanzitutto perché introdurrebbe nell’ordinamento
una forma di Gesinnungsstrafrecht chiaramente incompatibile con l’impostazione fondamentale im-
GIURISPRUDENZA
pressa dall’art. 25, co. II, Cost., nella parte in cui fa
riferimento al “fatto commesso”; in secondo luogo,
un’analisi imperniata sulla cosiddetta colpa d’autore andrebbe a confondere due piani che devono
rimanere ben separati; infatti, mentre la cosiddetta
colpa d’autore si inscrive nella sfera d’analisi della
colpevolezza, il dolo e la colpa appartengono alla
fattispecie41; e che l’analisi del dolo o della colpa è
questione diversa dall’analisi dell’elemento della
colpevolezza, è ampiamente dimostrato dal fatto
che anche il soggetto incapace di intendere e volere (pertanto, non “colpevole”), può commettere il
fatto con (un seppur distorto) animus nocendi, come
suggerisce anche una semplice lettura degli artt.
222 e 224 c.p.42
In ogni caso è innegabile che tutti gli episodi criminosi uniti in vincolo d’abitualità debbano rispondere ad un dolo unitario, seppur generico.
Ecco allora che altra opzione interpretativa sostiene come, affinché possa affermarsi ricorrere
l’elemento soggettivo in questione, l’autore deve
essersi rappresentato ab initio la serie dei maltrattamenti. Mentre di norma il dolo è considerato
come previsione e volizione di un determinato
evento e della coscienza e volontà della condotta
da cui l’evento stesso deriva (secondo l’icastica definizione fornita dall’art. 43 c.p.), nel reato abituale
il dolo si fraziona nella coscienza e volontà di una
pluralità di azioni od omissioni e nella previsione e
volizione di una pluralità di eventi; insomma, si
deve presentare fin dall’inizio come un’entità ben
precisa43. Pur riconosciuta a questa ricostruzione
dell’elemento soggettivo nel reato abituale il pregio di fornire una collocazione della categoria nel
sistema penale, si pone lontana da una reale analisi della fattispecie: appare in tale ottica davvero
improbabile che l’autore dei maltrattamenti compia il primo atto nella piena consapevolezza (che
peraltro dovrebbe proseguire immutata) di intraprendere un percorso che provocherà quello stato
di degradazione fisica e/o psichica della vittima
presupposto alla tutela; in secondo luogo, è stato
esattamente evidenziato che la configurazione dell’elemento soggettivo come coscienza e volontà ab
initio dell’evento conclusivo della serie di condotte
illecite si pone in una posizione di incompatibilità
con l’elemento soggettivo della colpa: posto che nel
tessuto normativo del nostro ordinamento esistono dei reati abituali colposi, “come può ritenersi
compatibile quel legame psicologico con la struttura della colpa?”44.
In realtà, sul piano pratico il richiedere che il soggetto agente abbia la consapevolezza delle proprie
precedenti azioni e la volontà, con il nuovo atto, di
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 51
GIURISPRUDENZA
persistere in un’azione criminosa, non elimina la
possibilità di negare il ricorrere del reato abituale
nei casi, frequenti, in cui la reiterazione degli atti
venga decisa di volta in volta, al di fuori di qualsiasi
programma sia esso preordinato o a formazione
progressiva; esemplificando, il coniuge violento, nell’atto di picchiare, non è detto che si rappresenti la
propria condotta anteriore e si renda consapevole
di concorrere, con questa nuova azione, a realizzare
l’offesa al bene protetto dal delitto di maltrattamenti45; detto in altre parole, la dimostrazione che il
reo, nel mettere in atto la risoluzione criminosa, si
sia rappresentato tutti gli elementi che costituiscono la condotta e le relazioni che li legano e che
fondano il tipo delittuoso, risulterebbe ardua (si
pensi peraltro al caso in cui il singolo evento di maltrattamento venga posto in essere a distanza di
tempo dall’altro); eppure la sussistenza del dolo non
è revocabile in dubbio46.
Ed allora, la soluzione razionale sembra rinvenirsi
nella riflessione secondo cui la consapevolezza del
reo in ordine ai singoli eventi costitutivi del reato,
“non deve necessariamente essere attuale ed effettiva, ma sufficiente risulta una coscienza latente di
essi”; in sostanza, non è necessario che il soggetto si
soffermi ad ideare peculiarmente tutti questi elementi, in quanto “essi sono già acquisiti mediante
l’interiorizzazione dell’esperienza pregressa”47; con
un limite persino ovvio: il mero fatto di percuotere
ricordando di avere percosso configura il reato di
maltrattamenti, solamente qualora nel secondo
evento di percosse si ravvisi il dolo di maltrattare48;
ricorrendo il diverso atteggiamento psicologico delineato dalla norma incriminatrice del reato di percosse, si integra unicamente questo reato, semmai
i singoli episodi da considerarsi uniti sotto il vincolo
della continuazione.
Consolidato nella giurisprudenza di legittimità
il canone secondo cui il delitto in parola richiede il
solo dolo generico, ossia che l’autore abbia la coscienza e la volontà di causare alla persona in relazione di familiarità l’indicata condizione di soggezione e di sofferenza che ne lede la personalità.49
In sintonia con la pronuncia in disamina, la Corte
di legittimità aveva da tempo evidenziato, come non
integri il delitto di maltrattamenti in famiglia la consumazione di episodici atti lesivi, pur attentando all’indicata posizione giuridica della persona, ove non
inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata
dall’imposizione al soggetto passivo di un regime di
vita obiettivamente vessatorio e comunque incompatibile con la relazione interpersonale presupposta50. Certo, nel condurre una tale indagine sull’elemento psicologico, occorrerà far ben attenzione a
non scivolare sul versante, sempre in agguato, delle
concezioni che esaltano l’ “indole perversa”, la “malvagità” o similari, secondo quella stessa forma Ge52 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
sinnungsstrafrecht, della quale abbiamo sopra evidenziata l’incompatibilità costituzionale.
L’ammissibilità della circostanza attenuante
della provocazione, di cui all’ art. 62, n. 2, c.p., è
questione controversa; recente giurisprudenza
ammette l’attenuazione delle conseguenze sanzionatorie soltanto in relazione ai singoli episodi
di maltrattamenti ai quali la medesima inerisce51;
come ben noto, per potersi configurare la provocazione deve ricorrere uno stato d’ira tale da determinare la perdita dei normali poteri di autocontrollo e da generare un forte turbamento; poi,
un fatto ingiusto altrui, che si badi, può consistere
sia in un fatto antigiuridico che in un comportamento contrario alle cd. regole sociali della civile
convivenza; ed infine, un rapporto di causalità psicologica fra l’offesa e la reazione52. Ciò ricordato,
il vero quesito inerisce il se la provocazione possa
efficacemente impedire la stessa configurabilità
dei maltrattamenti, ma la risposta è in genere negativa, non potendo legittimarsi il grave evento tutelato sulla base del solo ricorrere di provocazione;
tuttavia, nel concreto, possono ricorrere ipotesi,
come peraltro emerse nella casistica, in cui la soggezione od il timore della vittima di maltrattamenti non ricorre, come pure ipotesi di reazioni su
un piano di contesa paritaria, con reciproci atti illeciti; ed allora, il ricorrere anche di provocazioni
e l’analisi della natura di tali torti, assume evidentemente un rilievo di peso nell’accertamento
dell’effettivo contesto relazionale, sul cui rapporto
calare il giudizio di ricorrenza o meno del delitto
che qui ci occupa.
Il consenso dell’avente diritto, di cui all’art. 50 c.p.,
può avere efficacia scriminante a condizione che risulti prestato volontariamente nella piena consapevolezza di tutte le possibili conseguenze lesive, permanendo per tutto l’arco di durata della condotta
maltrattante53.
Resta da ultimo da menzionare le estese questioni
che suscitano le autonome fattispecie rientranti
nella previsione di cui al secondo comma dell’art.
572 c.p.54, nonché far cenno ai rapporti che possono
intercorrere tra il delitto di maltrattamenti e altre
fattispecie di reato “limitrofe”.
Per quel che riguarda i rapporti con il delitto di
“Abuso di mezzi di correzione o di disciplina”, il
confine con il reato di maltrattamenti va ricercato
nell’idoneità e/o liceità dello strumento quale
esplicazione dello ius corrigendi; è così che si
esclude, ad esempio, che l’uso della violenza possa
integrare il reato di cui all’art. 571 c.p., dal momento che essa non può in via di principio considerarsi uno strumento educativo di carattere lecito
e, quindi, il suo ricorso potrà integrare il delitto di
maltrattamenti55.
Al riguardo della violenza sessuale, le previsioni
di cui agli artt. 572 e 609bis c.p., “possono concorrere
GIURISPRUDENZA
tra loro, salvo che nel caso in cui ci sia la piena coincidenza tra le due condotte, nel senso che il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti
di violenza sessuale”56. Affinché si possa configurare
un concorso fra il reato di maltrattamenti e quello di
violenza sessuale occorre che siano stati posti in essere altri comportamenti vessatori e che, quindi, la
violenza necessaria a vincere la resistenza della vittima per abusarne sessualmente, si inserisca in un
più ampio contesto di sopraffazione, minaccia od altre angherie, in applicazione del criterio dirimente
fissato dall’articolo 15 c.p.
È assodato inoltre che i delitti di percosse, minaccia, ingiurie, molestie, restino assorbiti nel delitto di
maltrattamenti, in quanto elementi costitutivi di
quest’ultimo, ma non quelli di lesioni personali,
estorsione e danneggiamento57; complesse invece le
correlazioni con il delitto di violenza privata, che in
genere è assorbito58; mentre, la relazione che corre
con il reato di atti persecutori di cui all’articolo
612bis c.p., “vede applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie”59; il delitto di mal-
trattamenti in famiglia in danno del coniuge assorbe il reato di atti persecutori anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, rimanendo integri i doveri di reciproco rispetto che nascono dal rapporto coniugale60. Ricorre
invece l’ipotesi aggravata del delitto di atti persecutori ove ci si trovi in presenza di comportamenti che,
sorti in senso alla comunità familiare ovvero determinati dalla sua esistenza, esulino dalla fattispecie
dei maltrattamenti per sopravvenuta cessazione
della relazione personale61.
Nonostante il succinto spazio di questa sede,
questa disamina consente di evidenziare, a ragion
veduta, quanti e quali profili la previsione incriminatrice rimetta alla prudenza dell’interprete; davvero ampie, infatti, le questioni correlate all’evolversi del concreto rapporto personale dei soggetti
coinvolti, nelle cui pieghe, purtroppo, si può celare
l’insidia di una strumentalizzazione, da tenere in
debita considerazione; infine, la stessa analisi, conforta l’esattezza obiettiva delle conclusioni cui è
giunta la Suprema Corte, secondo i canoni guida
enumerati.
Note
1
Numerosi i precedenti di segno similare, tra i quali meritano menzione quelli recenti, di Cass. pen., Sez. VI, 20/11/2013
n. 49857, in banca data Juris; Id., 2/7/2012 n. 34978, ivi; Id., 28/3/2012 n. 15680, ivi; Id., 2/12/2010 n. 45037, ivi; Id., 7/10/2010 n.
1417, in banca dati Platinum; Id., 21/5/2009 n. 40385, in Foro It., 2010, II, 153; Id., 26/2/2009 n. 14409, in banca dati Juris; Id.,
4/11/2008 n. 6490, in banca dati Platinum.
2
MANZINI, Trattato di diritto penale, VII, Torino, 1963, 895, 919; MAGGIORE, Diritto penale, parte spec., Bologna, 1953, 695.
3
PISAPIA, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Noviss. Dig. It., X, Torino, 1964, 73.
4
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte spec., I, Milano, 2002, 510.
5
MANZINI, Trattato, op. cit., 920.
6
Cfr. ex multis, Cass. Pen., Sez. V, 17/3/2010 n. 24688, in Foro It., 2011, II, 385; Id., Sez. VI, 30/1/2007 n. 3419, in Riv. Pen., 2007,
638.
7
COPPI, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Enc. Dir., XXV, Milano, 1975, 237.
8
PECORELLA, Famiglia (delitti contro la), in Enc. Dir., XVI, Milano, 1967, 798.
9
COPPI, Maltrattamenti, op. cit., 228.
10
Sul punto COPPI, Maltrattamenti, op. cit., 227.
11
PISAPIA, Maltrattamenti, op. cit., 74.
12
FIANDACA–MUSCO, Diritto penale, parte spec., II, 1, Bologna, 2013, 388.
13
Ancor prima, PANNAIN, La condotta nel delitto di maltrattamenti, Napoli, 1964, 39.
14
COPPI, Maltrattamenti, op. cit., 236.
15
D’uopo peraltro ricordare, quanto ai figli in età minore, il tenore statutario del nuovo art. 315bis c.c., e come la L. 15 ottobre 2013 n. 119, abrogando il previgente co. II, dell’art. 572 c.p. (dopo che il D. L. 14 agosto 2013 n. 93, lo aveva modificato
sostituendo le parole “minore degli anni quattordici” con “minore degli anni diciotto”) ha contestualmente introdotto all’art. 61, n. 11quinquies, c.p., l’aggravante comune per il caso di commissione del delitto di maltrattamenti (nonché di un delitto non colposo contro la vita e l’incolumità individuale ovvero contro la libertà personale) in danno o in presenza di un
minore degli anni diciotto o in danno di una persona in stato di gravidanza.
16
BONFIGLIOLI, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Codice della famiglia a cura di SESTA, Milano, 2009, 2435.
17
Cfr., tra le tante univoche, Cass. pen., Sez. VI, 8/10/2013 n. 44700, in banca dati Juris; Id., 14/2/2013 n. 12828, in Fam. Dir.,
2013, 605; Cass. pen., Sez. II, 6/12/2012 n. 10994, in banca dati Platinum; Cass. pen., Sez. III, 3/5/2012 n. 46818, in banca dati
Juris; Cass. Pen., Sez. VI, 29/2/2012 n.15057, ivi; Cass. pen., Sez. II, 20/9/2011 n. 41011, in Fam. Dir., 2012, 58; Cass., pen., Sez. VI,
4/7/2011 n. 34405, ivi, 2011, 1050; Id., 16/11/2010 n. 45547, in Foro It., 2011, II, 138; Id., 14/7/2009 n. 38125, in banca dati Juris;
Cass. pen., Sez. V, 14/5/2010 n. 22790, in Foro It., 2010, II, 558; Id., 16/5/2007 n. 22850, in Guida Dir., 2007, 34, 66.
18
COPPI, Maltrattamenti, op. cit., 249.
19
Tra i precedenti recenti si segnalano, Cass. pen., Sez. VI, 24/10/2013 n. 47078, in banca dati Juris; Id., 7/5/2013 n. 23829,
ivi; Cass. pen., Sez. III, 19/4/2012 n. 19084, ivi; Cass. pen., Sez. VI, 10/12/2010 n. 250, ivi; Cass. pen., Sez. V, 22/10/2010 n. 41142,
in Cass. Pen., 2012, 3, 1012; Cass. pen., Sez. VI, 12/4/2006 n. 26235, in Guida Dir., 2006, 38, 76. Destano obiettivo interesse alcuni precedenti, che sembrano evidenziare il livello della sofferenza, e così, facendo riferimento al “carattere forte” della vittima che non sia rimasta “intimorita” dalla condotta coniugale, ne fa derivare che una situazione di tensione sia idonea a
scriminare la condotta effettivamente posta in essere; in tal senso, Cass. pen., Sez. VI, 12/3/2010 n. 25138, in Dir. Fam. Pers.,
2011, 128, con aspra nota critica di GALUPPI; in tale prospettiva, ma con riferimento ad un contesto familiare di forte tensione,
Cass. pen., Sez. VI, 18/2/2010 n. 20494, in Foro It., 2010, II, 441; con riferimento ad un contesto familiare caratterizzato da con-
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 53
GIURISPRUDENZA
tinue liti sfocianti in aggressioni da parte di tutti i componenti il nucleo familiare, cfr., Cass. pen., Sez. VI, 4/11/2008 n. 6490,
ivi, 2009, II, 391; mentre, le reciproche offese ed aggressioni fisiche - anch’esse idonee ad escludere la ricorrenza dell’abituale
prevaricante supremazia e la speculare vittima che vi soggiace - hanno costituito l’oggetto del precedente di Cass. pen., Sez.
VI, 20/1/2009 n. 9531, in banca dati Juris.
20
MANZINI, Trattato, op. cit., 929.
21
Per maggiori approfondimenti, si rinvia a, FORNASARI, Reato abituale, in Enc. Giur., XXVI, Roma, 1990, 3; ma anche alla dottrina risalente, LEONE, Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, 1933, 146.
22
Di contrario avviso, PANNAIN, La condotta, op. cit., 68 ss., il quale rileva come, affermando che la condotta tipica di maltrattamenti può esprimersi anche per il tramite di atti autonomamente non qualificabili come reato, si rischierebbe di “superare il limite del principio di legalità”. In ogni caso, aggiunge l’A., i singoli atti, pur non potendo essere qualificati autonomamente come illecito penale, dovranno assumere un carattere di oggettiva gravità comparabile con gli altri atti costituenti di per sé fattispecie di reato. Ad ogni modo, ne consegue che vanno esclusi dalla previsione ex art. 572 c.p., gli sgarbi,
i diverbi, o le mancanze di riguardo, l’indifferenza ed i silenzi prolungati, o più in generale le espressioni di maleducazione,
od addirittura le mere violazioni del galateo; contesti ben diversi che possono risultare rilevanti soltanto in sede civilistica,
ad esempio nell’accertamento della causa di addebito della responsabilità di una separazione tra coniugi.
23
Emblematico il caso di cui si è occupata, Cass. pen., Sez. VI, 23 settembre 2011 n. 36503, in Dir. Pen. Processo, 2011, 2,
1450.
24
Cfr. VITARELLI, Maltrattamenti mediante omissione ?, in Riv. It., Dir. Proc. Pen., 1998, 182.
25
Cass. pen., Sez. VI, 28 febbraio 2013 n. 9724, in Fam. Dir., 2013, 400; nello stesso senso, Cass. pen., Sez. VI, 31/5/2012 n.
34480, in Cass. Pen., 2013, 9, 3145.
26
Si ritiene comunemente che anche i reati abituali siano regolati dall’indicata equivalenza e, quindi, siano integrabili per
il mezzo di condotte omissive; cfr., COPPI, Maltrattamenti, op. cit., 248; PISAPIA, Maltrattamenti, op. cit., 75; ZANOTTI, Il reato omissivo improprio, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, II, Torino, 2001, 80; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, op. cit., 390, al richiamo di nota 11.
27
Cfr. Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo, in Lavori preparatori al Codice Penale e al Codice di Procedura Penale,
V, II, Roma, 1929, 642, 358 ss.
28
Tra le tante, cfr., Cass. pen., Sez. VI, 7/5/2013 n. 23830, in banca dati Juris; Cass., Sez. III, 19/1/2010 n. 9242, ivi; Cass. pen.,
Sez. II, 2/10/2009 n. 40727, ivi. Ovviamente, al pari della relazione familiare fondata sul vincolo del matrimonio, esulano
dalla fattispecie i fatti reato sopravvenuti alla cessazione del rapporto, precisazione di grande rilievo pratico; in punto, cfr.,
a titolo esemplificativo, Cass. pen., Sez. VI, 24/11/2011 n. 24575, in Foro It., 2013, II, 93.
29
Cass. pen., Sez. IV, 7/5/2013 n. 22915, in Guida Dir., 2013, 13, 76; Cass. pen., Sez. V, 3/3/2010 n. 24668, cit. in nota 6; Cass.
Pen., Sez. VI, 22/5/2008 n. 20647, in Riv. Pen., 2008, 881.
30
Imponente l’apporto in tema della dottrina civilistica; opportuna la menzione dei contributi di, CORASANITI, Famiglia di
fatto e formazioni sociali, in AA.VV., La famiglia di fatto, Parma, 1977, 143; PROSPERI, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli,
1980, 84; JEMOLO, La c.d. famiglia di fatto, in Scritti R. Nicolò, Milano, 1982, 47; GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano,
1983, 143; PERLINGIERI, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e l’equiparazione alla famiglia legittima, in AA.VV, Una
legislazione per la famiglia di fatto ?, Napoli, 1988, 136; FALZEA, Problemi attuali della famiglia di fatto, ivi, 51; TRABUCCHI, Natura, legge,
famiglia, in Riv. Dir. Civ., I, 1977, 1, e Morte della famiglia o famiglia senza famiglie, ivi, 1988, 19; ROPPO, voce Famiglia di fatto, in Enc.
Giur., XIV, Roma, 1989; ALPA, La famiglia di fatto, profili attuali, in Giur. It., 1989, IV, 810; D’ANGELI, La famiglia di fatto, Milano 1989;
MENGONI, La famiglia in una società complessa, in Iustitia, 1990, 4; DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, in Dig., Disc. Priv., VIII, Torino,
1992, 192; QUADRI, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di regolamentazione, in Dir. Fam. Pers., 1994, 288; FERRANDO,
Convivere senza matrimonio. Rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. Dir., 1998, 183; TOMMASINI, La famiglia
di fatto, Il diritto di famiglia, in Tratt. Dir. Priv. BESSONE, I, Torino, 1999, 503; SPADAFORA, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano 2001, 65; BUSNELLI, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. Dir. Civ., 2002, I, 520; ZATTI, Familia, Familiae –
Declinazione di un’idea. I. La privatizzazione del diritto di famiglia, in Familia, 2002, I, 9; SESTA, Verso nuove trasformazioni del diritto
di famiglia italiano, in Familia, 2003, I, 123; BALESTRA, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 1; CATAUDELLA, Coppie omosessuali: legislazioni in ordine sparso, in Guida Dir., 2004, 3, 65; GIACOBBE, Famiglia: molteplicità di modelli o unità categoriale, in Dir. Fam. Pers., 2006,
1219; LIPARI, Rapporti coniugali di fatto e rapporti di convivenza, in Riv. Trm. Dir. Proc. Civ., 2007, 1026; BONILINI, La famiglia, in Diritto
civile, diretto da Lipari e Rescigno, Milano, 2009, II La famiglia, 70; MORRONE, in Codice della famiglia, a cura di SESTA, Milano, 2009,
vol. I, sub art. 2 Cost.; e BIANCA, Diritto civile. 2.1 La famiglia, Milano, 2014, 19.
In questa sede risulta peraltro opportuno il richiamo alla valenza assunta da alcune disposizione processuali penali, ove
emerge il rilievo delle relazioni familiari di fatto, quali l’art. 199 c.p.p., inerente la facoltà di astenersi dal deporre concessa
al convivente dell’imputato; le previsioni di cui alla L. n° 154/2001 per la disciplina penalistica degli abusi familiari, di cui
all’art. 282bis c.p.p.; l’art. 681 c.p.p. in tema di richiesta di grazia; l’art. 30 della L. 26 luglio 1975 n° 354 che prevede la concessione di permessi ai condannati in caso di imminente pericolo di vita del convivente.
31
L’elemento della stabilità risulta parimenti approfondito dalla giurisprudenza civile, sia di legittimità che di merito; secondo il noto precedente di merito Trib. Brescia 10/4/2003, in Fam. Dir., 2003, 476, con nota di DELCONTE, “la convivenza more uxorio dev’essere connotata da stabilità e, dunque, dev’essere messa alla prova di un certo trascorrere del tempo, …si può definire stabile
quando perduri da almeno un paio di anni dal suo inizio”. Pone precipuo riferimento al criterio della stabilità, invero esigendone
la ricorrenza in uno ai connotati della continuità e regolarità, anche il precedente di Cass., Sez. I, 8/8/2003 n° 11975, in Guida
Dir., 2003, 38, 75; anteriormente si evidenziava il riferimento alla stabilità ed all’affidabilità, trascendente la mera esistenza
di rapporti sessuali, in Cass., Sez. I, 4/4/1998 n° 3503, in Fam. Dir., 1998, 333, con nota di DE PAOLA (nella giurisprudenza anteriore ricorreva la definizione “comunanza di vita e di interessi, non basata su un mero rapporto sessuale di carattere ancillare”; cfr.
Cass., Sez. I, 24/3/1977 n° 1161. Precisazione ulteriore si rinviene poi in Corte App. Roma 2/3/2001 n° 729, in Guida Dir., 2001,
25, 53, nella distinzione tra il semplice rapporto occasionale e la famiglia di fatto; Cass., Sez. I, 10/11/2006 n° 24056, in Fam.
Dir., 2007, 329, con nota di ASTIGGIANO, preferisce esprimersi con riferimento ad una convivenza di fatto consolidata e protrattasi nel tempo, assumendo che la stabilità è solo quella derivante da garanzie giuridiche. D’altro canto, si rinvengono
nell’ordinamento tracce positive, quali quella espressa nell’art. 6 L. 4 maggio 1983 n. 184 sull’adozione, che si riferiscono ad
un rapporto di convivenza di fatto stabile e continuativa di almeno tre anni, seppure in tema di adozione ovviamente rilevano elementi di estrema cautela. Tali questioni, peraltro, mettono in luce anche non trascurabili difficoltà probatorie.
32
COPPI, Maltrattamenti, op. cit., 239, il quale, con ampia argomentazione, rinvenendo nel modello legale di famiglia, intesa
come “società naturale fondata sul matrimonio”, secondo il criterio guida di cui all’art. 29 Cost. e del codice civile, un discrimine, evidenzia come il disvalore della condotta nasce in ragione di una duplicità di motivi: l’assidua intimità dei rap-
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GIURISPRUDENZA
porti e l’esistenza alla loro base di una relazione formale e giuridicamente rilevante; lo stesso A. mette altresì in guardia dai
pericoli di una analogia in malam partem, che l’interpretazione estensiva dell’istituto familiare finirebbe per produrre.
33
Cass. pen., Sez. V, 17/3/2010 n. 24688, cit. in nota 6.
34
Cass. pen., Sez. VI, 10/2/2011 n. 7929, in www.penalecontemporaneo.it; è opportuno però evidenziare che tale precedente,
si limita a dichiarare inammissibile il ricorso in sede di legittimità reputando che la ricostruzione del rapporto in termini
di relazione stabile costituisce quaestio facti e, quindi, solo latamente ed in via implicita può condurre a reputare rilevante
anche una relazione adulterina, ove connotata dall’elemento della stabilità. Tale precedente comunque è stato fatto oggetto
di aspre critiche, intravedendosi in ciò un’evidente ipotesi di analogia in malam partem, ed un compito del Giudice davvero
oltre misura, siccome chiamato ad individuare, in mancanza del presupposto fondamentale ed obiettivo della convivenza,
quando ricorra o meno nel concreto una relazione in grado di produrre vincoli di solidarietà ed assistenza; il precedente è
ivi annotato da, MALLAMACI, Anche la relazione adulterina può rientrare nel concetto di famiglia oggetto di tutela nel reato di maltrattamenti.
35
Cass. pen., Sez. VI, 27/5/2013 n. 22915, in Resp. Civ. Prev., 2013, 1336.
36
Cfr. VALLINI, Nuove norme a salvaguardia del minore, della sua libertà (integrità) sessuale e del minore nella famiglia, in Dir. Pen.
Processo, 2013, 152. Pur attenendo al diverso tema della soggezione personale autoritativa, desta vivo interesse il precedente
di Cass. pen., Sez. VI, 21/5/2012 n. 30780, in Foro It., 2013, II, 505, in relazione alle pratiche persecutorie realizzate all’interno
delle comunità carcerarie.
37
Per un primo inquadramento cfr., MENEGHELLO, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Trattato Dir. Fam. diretto da ZATTI,
Milano, 2011, 650
38
Tra altre, cfr., Cass. pen., Sez. I, 7/6/1942, P.M. e Frank, in Ann. Dir. Proc. Pen., 1943, 251.
39
In punto, v. PETTENATI, Sulla struttura del delitto di maltrattamenti in famiglia, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1961, 1106.
40
CONTENTO, Corso di diritto penale, II, Roma-Bari, 2008, 235.
41
ANGELINI, Sull’elemento soggettivo nel reato abituale, in Cass. Pen., 1993, 464.
42
COLACCI, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, Napoli, 1963, 119.
43
LEONE, Del reato abituale, continuato e permanente, op. cit., 127 ss.; PETTENATI, Sulla struttura del delitto di maltrattamenti in famiglia, op. cit., 1111; MANZINI, Trattato, op. cit., 931.
44
PETRONE, Reato abituale, voce in Noviss. Dig. It., XIV, Torino, 1967, 954; l’A. proprio nella sua esposizione critica all’orientamento in commento, osserva come l’unità dell’elemento psicologico può essere sì presente fin dall’inizio dell’esecuzione della
condotta abituale, ma può anche “svilupparsi in itinere, in concomitanza con il ripetersi degli episodi componenti la serie, sorreggendosi sulla costante consapevolezza dei precedenti attacchi e dell’apporto che ognuno di essi arreca all’offesa dell’interesse protetto” (955).
45
In tal senso, ANGELINI, Sull’elemento soggettivo nel reato abituale, op. cit., 466.
46
PULITANÒ, Ignoranza (dir. pen.), in Enc. Dir., XX, Milano, 1970, 43.
47
MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, 82.
48
ANGELINI, Sull’elemento soggettivo nel reato abituale, op. cit., 467.
49
Innumerevoli i precedenti di identico segno; limitandoci a quelli recenti, meritano di essere segnalati, anche per le loro
peculiarità, quali ad esempio l’incidenza delle convinzioni sociali, etiche e religiose, ovvero con riguardo alle caratteristiche concrete del rapporto relazionale, i seguenti: Cass. Pen., Sez. VI, 19/6/2012 n. 25183, in Cass. Pen., 2013, 6, 2338; Id.,
28/3/2012 n. 15680, ivi, 2013, 3, 1060; Id., 21/3/2012 n. 14233, in banca dati Juris; Id., 28/3/2012 n. 12089, in Foro It., 2012, II, 533;
Id., 26/4/2011 n. 26153, in Cass. Pen., 2012, 9, 2960; Id., 8/3/2011 n. 22787, in banca dati Juris; Id., 12/6/2010 n. 12798, ivi; Id.,
9/2/2010 n. 8598, ivi; Cass. pen., Sez. III, 9/12/2009 n. 8284, in Riv. Pen., 2010, 622; Cass. pen., Sez. VI, 23/10/2009 n. 46513, in banca
dati Juris; Id., 2/12/2009 n. 64, ivi; Id., 28/1/2009 n. 22700, in Foro It., 2009, II, 592; Id., 18/11/2008 n. 45808, in Guida Dir., 2009, 5,
90; Id., 4/11/2008 n. 6490, ivi; da segnalare come alcuni precedenti facciano riferimento piuttosto ad un dolo programmatico ed unitario, che funga da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima, inclinando la
volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti si vada realizzando e confermando; in tal senso, Cass. pen., Sez. VI, 14/4/2011 n. 17049, in banca dati Juris; Id., 11/12/2003 n. 6541, ivi; su tale falsariga,
esaltando la “progressività” della condotta, Cass., pen., Sez. VI, 12/4/2006 n. 26235, ivi.
50
Cfr. i precedenti già indicati in nota 1.
51
Cass. pen., Sez. VI, 18/9/2008 n. 35862, in Giur. It., 2009, 1756, con nota di FERRARI.
52
Cass. pen., Sez. I, 25/5/2012 n. 25836, in Fam. Dir., 2012, 945; e Cass. pen., Sez. V, 16/12/2011 n. 9907, ivi, 2012, 795, con nota
di MONTARULI.
53
Cass. pen., Sez. VI, 25/3/2010 n. 12621, in Riv. Pen., 2010, 734.
54
Per le quali, atteso il limitato spazio di questo scritto, è sufficiente limitarsi ai seguenti richiami: MANZINI, Trattato, op.
cit., 920; COPPI, Maltrattamenti, op. cit., 258; MAZZA, Maltrattamenti in famiglia e abuso dei mezzi di correzione, in Enc. Giur., XIX,
Roma, 1990, 2; DELOGU, Diritto penale, in Commentario di diritto italiano della famiglia Cian-Oppo-Trabucchi, VII, Padova, 1995, 636;
CARLONI, La responsabilità dell’autore di maltrattamenti in famiglia nel caso di suicidio della persona offesa, in Cass. Pen., 2008, 4077,
4082; CASSANI, La nuova disciplina dei maltrattamenti contro familiari e conviventi. Spunti di riflessione, in Arch. Pen., 2013, 3, 6.
In giurisprudenza, ex multis, solo ad esemplificazione, cfr., Cass. pen., Sez. VI, 28/6/1971 n. 722, in Giust. Pen., 1972, II, 708;
Id., 19/2/1990, in Cass. Pen., 1991, 1986; Id., 29/11/2007 n. 12129, in Cass. Pen., 2008, 4069; Cass. pen., Sez. III, 19/9/2008 n. 39338,
in banca dati Juris; Cass. pen., Sez. VI, 3/5/2011 n. 19700, ivi.
55
Cass. pen., Sez. VI, 18/3/1996 n. 4904, in Fam. Dir., 1996, 324; Id., 23/11/2010 n. 45467, in Cass. Pen., 2012, 98; Id., 10/5/2012
n. 36564, in banca dati Platinum.
56
Così, Cass. pen., Sez III, 12/7/2007 n. 36962, in Riv. Pen., 2008, 158; Id., 12/6/2007 n. 22850, in Fam. Dir., 2007, 911, con nota
di PITTARO; Id., 11/6/2013 n. 29742, in banca dati Juris.
57
Cass. pen., Sez. II, 13/12/2012 n. 15571, in banca dati Platinum; Cass. pen., Sez. VI, 28/3/2012 n. 13898, in Cass. Pen., 2013,
1059; Cass. pen., Sez. V, 17/3/2010 n. 24688, cit. in nota 6.
58
Cfr., a titolo esemplificativo, le fattispecie analizzate da Cass. pen., Sez. VI, 11/1/2012 n. 5365, in banca dati Juris; Id.,
10/6/2010 n. 37796, ivi; Cass., pen., Sez. III, 6/5/2010 n. 22769, in banca dati Platinum.
59
Cass. pen., Sez. V, 7/5/2013 n. 19545, in banca dati Juris.
60
Cass. pen., Sez. VI, 13/11/2012 n. 7369, in banca dati Juris.
61
Si vedano però le precisazioni inerenti il regime di separazione a differenza di quello divorzile, ma anche le frequentazioni abituali in relazioni non matrimoniali, rinvenibili in Cass. pen., Sez. VI, 12/6/2013 n° 50333, in banca dati Juris; Id.,
7/5/2013 n° 22915, cit.; Id., 13/11/2012 n° 7369, cit.; Id., Sez. III, 6/11/2012 n° 2328, in banca dati Juris; Id., Sez. V, 17/3/2010 n°
24688, cit.
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 55
GIURISPRUDENZA
L’ORDINANZA
DEL 3 APRILE 2014, NEL
PROCEDIMENTO 113/2014
PRESSO IL TRIBUNALE
DI GROSSETO
SULLA TRASCRIZIONE
DEL MATRIMONIO
CELEBRATO ALL’ESTERO
TRA PERSONE DELLO
STESSO SESSO.
GIUSEPPE MAZZOTTA
AVVOCATO DEL FORO DI PISA
Un provvedimento che esprime un'interpretazione creativa nell’inesistenza dei presupposti per un’applicazione
analogica e nel quadro della normativa che, in ambito in
ambito nazionale e sovranazionale, attribuisce un positivo giudizio di valore alla famiglia che si fonda sulla
coppia formata da persone di sesso diverso.
Il Caso
Con ordinanza in data 03 aprile 2014 il Tribunale
di Grosseto, in Camera di Consiglio, Presidente dott.
Cesare OTTATI, chiamato a pronunciarsi su di un’istanza di trascrizione del matrimonio celebrato tra
due uomini, G.C. e S.B., il 6 dicembre 2012 negli Stati
Uniti, a New York, ha ordinato all’Ufficiale di Stato
Civile del Comune di Grosseto, che lo aveva inizialmente qualificato come non trascrivibile, di
trascriverlo nei registri di stato civile.
In estrema sintesi, l’atto con il quale l’ufficiale di
stato civile aveva rifiutato la trascrizione si fondava
sui seguenti motivi: la legge italiana non prevede il
matrimonio tra persone dello stesso sesso; il contrasto di un atto con l’ordine pubblico ne impedisce
la trascrizione in Italia; nel caso in cui la celebrazione del matrimonio ponga la necessità di individuare l’ambito della giurisdizione italiana e/o i criteri per l’individuazione del diritto applicabile e le
condizioni di efficacia delle sentenze e degli atti
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stranieri, occorre riferirsi all’art. 27 della legge
218/1995 dettata in materia di “RIFORMA DEL SISTEMA
ITALIANO DI DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO” laddove è
stabilito che «La capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge
nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio. Resta salvo lo stato libero che uno dei nubendi abbia
acquistato per effetto di un giudicato italiano o riconosciuto in Italia», stante l’inapplicabilità, al caso oggetto dell’ordinanza, della la normativa contenuta
nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
(CEDU) ancorché ratificata con la legge n. 849 del
1955, la quale la esclude stabilendo all’art. 9 che “il
diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”.
L’ordinanza del Tribunale di Grosseto e la sentenza
4184/2012 della Corte di Cassazione
Il Giudice di Grosseto, a fronte di questa motivazione di rigetto dell’istanza di trascrizione, si riporta
anzitutto alla sentenza della Corte di Cassazione,
15-03-2012, n. 4184, che, peraltro, pronunciandosi su
analogo caso, questa volta coinvolgente l’ufficiale di
Stato civile del Comune di Latina aveva escluso la
trascrivibilità del matrimonio celebrato all’estero tra
persone dello stesso sesso.
Il caso era quello di due cittadini italiani G.A. e
O.M., che il 01.06.2002 avevano contratto matrimonio a l’Aja e, stante la loro residenza in Italia a Latina, avevano chiesto la trascrizione del relativo atto,
formato all’estero, all’ufficiale locale dello stato civile, ai sensi del d.p.r. 3.11.2000, n. 396. Veniva rigettata l’istanza di trascrizione da parte dell’ufficiale
dello stato civile – rifiuto motivato in conformità con
istruzioni del Ministero dell’Interno – in particolare,
le circolari nn. 2 del 26.3.2001 e 55 del 18.10.2007 – oltre che in osservanza dello stesso d.p.r. n. 396 del
2000, art. 18, secondo cui gli atti formati all’estero
non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico, in questo caso per l’identità di
sesso dei contraenti il matrimonio: ne seguiva
un’azione in Tribunale, proprio ai sensi del medesimo d.p.r. n. 396/2000, artt. 95 e 96 e, successivamente in Corte d’Appello di Roma, perché venisse
accertata l’illegittimità del rifiuto della trascrizione
opposto dall’ufficiale dello stato civile del Comune
di Latina e, conseguentemente, venisse ordinata la
trascrizione dell’atto di matrimonio, ma in entrambi
i casi i Giudici si pronunciavano negativamente per
i ricorrenti che, pertanto, ricorrevano in Cassazione,
laddove, appunto si è formata la sentenza che il Giudice di Grosseto richiama ma che, in quel caso, come
detto, confermava la legittimità del rifiuto opposto
dall’Ufficiale di Stato civile del Comune di Latina.
La sentenza 4184/2012 effettuava anche alcune
osservazioni che il Giudice dell’Ordinanza in commento ha inteso recuperare ed inserire nella propria
GIURISPRUDENZA
motivazione, peraltro invece, di segno opposto, in tal
modo non solo adottando un orientamento palesemente divergente rispetto a quello con il quale la
Suprema Corte aveva confermato il pronunciamento di altre due Corti di merito su un caso del
tutto analogo a quello in esame, ma facendo derivare conseguenze opposte da presupposti logico
giuridici in parte, almeno ad una prima lettura e a
detta del Giudice toscano, identici: può essere allora
utile verificare i passaggi del ragionamento seguito
dal Tribunale di Grosseto, onde poter verificare se
sia effettivamente così e se, ed in che misura, l’ordinanza in commento tenga nel debito conto gli inderogabili principi dell’ordinamento cui la sentenza
della Cassazione ha fatto esplicito riferimento.
Esame e confronto tra la motivazione dell’ordinanza del Giudice di Grosseto e di quella della
Cass. 4184/2012
Anzitutto ricordiamo che la citata sentenza del
4184/2012 stabiliva che «il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, non è inesistente per l’ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a
produrre effetti giuridici; anche ai sensi dell’art. 12 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza
del 24 giugno 2010, “Schalk e Kopf c. Austria”), la diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto “naturalistico” di “esistenza” del matrimonio. (Fattispecie relativa a cittadini italiani dello stesso sesso, i quali, unitisi
in matrimonio nei Paesi Bassi, avevano impugnato il ri-
fiuto di trascrizione dell’atto, opposto dall’ufficiale di stato
civile italiano; la S.C., in applicazione del principio, pur
respingendo il ricorso degli sposi, ha corretto la motivazione del decreto della Corte territoriale, che aveva legittimato il rifiuto di trascrizione dell’atto in difetto della sua
“configurabilità come matrimonio”). (Rigetta, App. Roma,
13/07/2006)» e concludeva che «le persone dello stesso
sesso conviventi in stabile relazione di fatto sono titolari
del diritto alla “vita familiare” ex art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo; pertanto, nell’esercizio del
diritto inviolabile di vivere liberamente la condizione di
coppia, esse possono adire il giudice per rivendicare, in
specifiche situazioni correlate ad altri diritti fondamentali, un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla
legge alla coppia coniugata».1
Il Giudice di Grosseto, di questa sentenza della
Corte di Cassazione, riporta, come argomento, a sostegno della propria, opposta, decisione finale, che:
«il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero non è inesistente per lo stato italiano, e
non è contrario all’ordine pubblico (questa la Suprema
Corte non lo riconosce esplicitamente); con la sentenza 24
giugno 2010 della Corte Europea dei Diritti Dell’uomo
(prima sezione caso Shalk e Kopf contro Austria) si è affermato che “il diritto al matrimonio riconosciuto dall’art.
12 della CEDU ha acquisito un nuovo e più ampio contenuto, inclusivo anche del matrimonio contratto tra due
persone dello stesso sesso”; la normativa di riferimento
per la trascrizione degli atti di matrimonio celebrati all’estero corrisponde all’art. 18 del DPR n. 396 del 2000,
secondo cui gli atti firmati all’estero non possono essere
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 57
GIURISPRUDENZA
trascritti se sono contrari a) all’ordine pubblico, b) all‘art.
115 del codice civile, secondo cui il cittadino italiano è
soggetto alle disposizioni contenute nella sezione I del
capo III del titolo VI del libro primo anche quando contrae
matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite, c) all’art.27 della legge n. 218 del 1995, secondo cui
la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”, d) all’art. 28
della legge n. 218 del 1995, secondo cui il matrimonio è
valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge
del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno
uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla
legge dello Stato di comune residenza in tale momento”,
e) all’art. 65 della legge n. 218 del 1995, secondo cui
“hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi
alla capacità delle persone nonché all’esistenza di rapporti
di famiglia o di diritti della personalità quando essi sono
stati pronunciati dall’autorità dello Stato la cui legge è
richiamata dalle norme della presente legge o producano
effetti all’ordinamento di quello Stato, anche se pronunciati da autorità di altro Stato, purché non siano contrari
all’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa».
Tuttavia, nella stessa ordinanza manca del tutto
ogni riferimento, alla motivazione della Cassazione
del 2012 nella parte, assai significativa, in cui si afferma che «nell’ordinamento giuridico italiano, pur essendo negato lo specifico fondamento costituzionale al riconoscimento del diritto al matrimonio di persone dello
stesso sesso, si è tuttavia affermato che nelle formazioni
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sociali di cui all’art. 2 Cost., è inclusa l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone
dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia e, che, fermo il
riconoscimento e la garanzia di tale diritto inviolabile, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento,
nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare
le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, e che, tuttavia, resta riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche
situazioni, potendo accadere che, in relazione a ipotesi
particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento
omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e
quella della coppia omosessuale, trattamento che la Corte
può garantire con il controllo di ragionevolezza».
Questa parte della motivazione della sentenza
4184/2012 risulta alquanto rilevante in quanto
esprime la presa d’atto di un elemento oggettivo,
che si identifica nella struttura del nostro sistema
normativo, tracciato dalla Costituzione Italiana e
che, peraltro, è assai ben noto: il Titolo II, in materia
di RAPPORTI ETICO – SOCIALI, della Carta Costituzionale,
all’art. 29, prevede che «la Repubblica riconosce i diritti
della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e, all’art. 30, terzo comma, che «la legge assicura
ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e
sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia
legittima».
La Costituzione non ha istituito ma riconosciuto la
famiglia come unione tra uomo e donna in quanto,
evidentemente, intrinsecamente e costitutivamente
GIURISPRUDENZA
generativa, come risulta dalla costante annessione
della tutela della famiglia a quella dei figli e, per
questa stessa originaria ragione, egualmente e pienamente tutelati, ovviamente, anche se nati al di
fuori dell’istituto matrimoniale. Inoltre il ricorso al
diritto naturale per la qualificazione della famiglia
non è un’invenzione dell’Assemblea Costituente,
basti solo pensare a tal proposito a come Hegel definisse la famiglia Naturliches, sittliches gemeinwesen –
famiglia comunità etica naturale (Phanomenlogie des
Geistes - Fenomenologia dello spirito), segno questo di
una consapevolezza della rilevanza della struttura
antropologica che unisce, attraverso meccanismi
biologici, soggetti di età capacità e ruoli diversi,
come testimoniato da un altro grande pensatore
come Nietzsche, il quale sosteneva “Das Du ist alter
als das Ich” (il tu è più antico dell’io): argomenti questi
che, pur oggetto di diverse opzioni in ambito filosofico e giuridico, sono di indubbia rilevanza anche
perché provenienti da orientamenti culturali certamente non riconducibile, tra le culture che hanno
concorso alla redazione del testo costituzionale, a
quella di matrice cattolica, ma semmai alle altre due
grandi culture liberale e socialista.
E della famiglia come opzione in senso antropologico, con la quale il diritto si confronta, si trova
emblematica traccia persino in Platone che nella Repubblica vagheggia la scomparsa della famiglia e
l’assoluta comunanza delle donne e dei bambini:
una prospettiva dotata di una sua moralità se collegata all’idea della salvezza dello stato ma tale da
privare, fatalmente, ciascun componente della coppia genitoriale della possibilità di essere fedele, privando l’uno della possibilità di “eleggere” l’altra.
Peraltro questo riconoscimento non era e non è
una realtà esclusivamente propria del diritto costituzionale italiano ma si interfaccia con alcune fonti
sovranazionali, anch’esse formatesi negli anni di
entrata in vigore della costituzione: la Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre
1948, all’art. 16, stabilisce che «Uomini e donne in età
adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione» e che «la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla
società e dallo Stato».
Nel contesto di questo riconoscimento di famiglia
fondata sul matrimonio tra persone di sesso diverso,
assai prima della Carta di Nizza, sottoscritta nel dicembre 2000, la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Dell’uomo e delle Libertà Fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, nel Testo coordinato con gli emendamenti di cui al Protocollo n. 11 firmato a Strasburgo l’11 maggio 1994, entrato in vigore il 01 novembre 1998, stabiliva all’art.
8, dettato in materia di DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA
PRIVATA E FAMILIARE, che «ogni persona ha diritto al ri-
spetto della sua vita privata e familiare». Peraltro la
stessa carta di Nizza, all’art. 9, in materia di «DIRITTO
DI SPOSARSI E DI COSTITUIRE UNA FAMIGLIA» stabilisce che il
diritto «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». Questa disposizione risulta particolarmente significativa alla luce del fatto che il
Trattato sull’Unione Europea sottoscritto a Lisbona
il 13 dicembre 2007 ha conferito alla Carta di Nizza
lo stesso valore giuridico dei trattati, all’art. 6 (ex articolo 6 del TUE) che «l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il
12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore
giuridico dei trattati». E sempre la Convenzione per la
Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà
fondamentali, adottata a Roma, il 04 novembre 1950,
all’articolo 12, dettato in tema di DIRITTO AL MATRIMONIO, stabilisce che «a partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di
sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto».
Il complesso e articolato sistema normativo, alla
cui formazione hanno contribuito nel tempo, fonti
di diritto interno e sovranazionale, nel periodo dell’immediato secondo dopoguerra sino ai giorni nostri, concorre alla collocazione in termini sistematici
dell’espressione società naturale che «incontrò il consenso della maggioranza dell’Assemblea solo nel momento in cui divenne chiaro che con essa non si voleva
operare una sorta di abdicazione da parte dell’ordinamento statale in favore di un ordine giuridico fondato sulle
regole del diritto naturale, ma si voleva semplicemente
rappresentare, sul terreno costituzionale, la chiara consapevolezza della preesistenza della famiglia rispetto allo
Stato, indicando al futuro legislatore il rapporto di coordinamento tra ordinamento familiare e norme di fonte statale ed il limite del suo intervento, in un settore tradizionalmente poco permeabile alla legge».2
L’opzione costituzionale alla luce della diritto interno formatosi successivamente.
Nel corso del periodo intermedio all’approvazione
della Carta Costituzionale e alle più recenti fonti sovranazionali, si è radicata la distinzione, presente
nella Costituzione e nelle stesse fonti di diritto sovranazionale tra la famiglia costituita da un uomo e
una donna, nell’orbita degli artt. 29 e 30 della Costituzione ed unioni fondate da persone dello stesso
sesso, rientranti nell’ambito dell’art. 2 della Costituzione e presidiate dalle fonti di diritto comunitario e internazionale, come, ad es., l’art. 21 della già
citata Carta di Nizza che, in materia di NON DISCRIMINAZIONE, stabilisce che «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza,
il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni
personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura,
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 59
GIURISPRUDENZA
l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.
Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la
Comunità europea e del trattato sull’Unione europea è
vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei
trattati stessi».
Ma questa distinzione, originata da un pur positivo ma alquanto diverso giudizio di valore operato
dal legislatore costituente, ha avuto in significativo e
tangibile riflesso anche nell’ambito del diritto interno, laddove la legislazione ordinaria, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, presidiano, in
piena attuazione della normativa sovranazionale
dettata in materia di non discriminazione, tutta
l’area delle unioni diverse dal matrimonio, con una
regolamentazione che interviene nei più diversi settori connessi alla formazione di dette unioni.
Il recentissimo intervento della Corte Costituzionale con sentenza del 11 giugno 2014 n. 170. 3
Tutto quanto detto sin qui si può riscontrare nella
recentissima sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale
degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (NORME
IN MATERIA DI RETTIFICAZIONE DI ATTRIBUZIONE DI SESSO), nella
parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli
effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio,
consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli
adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore; (…) in
via consequenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art.
31, comma 6, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n.
150 (Disposizioni complementari al codice di procedura
civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della
legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui non prevede che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di
sesso di uno dei coniugi, che determina lo scioglimento del
matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti
alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di
mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente
regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore».
Il giudizio di legittimità costituzionale aveva ad
oggetto gli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164,
è stato promosso dalla Corte di Cassazione nel procedimento vertente tra B. A. ed altra e il Ministero
dell’interno ed altri con ordinanza del 6 giugno 2013,
iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42,
prima serie speciale, dell’anno 2013, ed originava da
60 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
un giudizio che una coppia sposata aveva instaurato
con la finalità di ottenere la cancellazione della annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile
del [loro] matrimonio», che l’ufficiale di stato civile
aveva apposta in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del
sesso del marito.
Segue. Profili di una ricostruzione dei fondamenti
costituzionali del matrimonio e delle tutele che è
possibile garantire alle coppie formate da persone
dello stesso sesso. La rilevanza di reciproci diritti
e doveri all’interno di una coppia no declinabili all’interno del modello matrimoniale.
La Corte di Cassazione – adita in sede di impugnazione avverso il decreto della Corte di Appello di
Bologna che, in riforma della statuizione di primo
grado, aveva respinto la domanda dei ricorrenti –
aveva successivamente sollevato questione di legittimità costituzionale, motivandone la rilevanza
sulla base del fatto che l’Ufficiale di stato civile
avesse nella specie correttamente operato in presenza della sentenza di rettificazione di sesso ed in
applicazione del citato art. 4 della legge 14 aprile
1982, n. 164, che testualmente, appunto, dispone che
«la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso […]
provoca lo scioglimento del matrimonio celebrato con il
rito religioso» e conclude sostenendo che «la scelta
del legislatore del 1982 − non modificata dalla legge
n. 74 del 1987 e pienamente confermata dalla novella introdotta con l’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011
− «risulta univocamente quella di aver introdotto una fattispecie di divorzio “imposto” ex lege che non richiede, al
fine di produrre i suoi effetti, una pronuncia giudiziale ad
hoc, salva la necessità della tutela giurisdizionale limitatamente alle decisioni relative ai figli minori»4 e che è
«tale soluzione ad essere, ad avviso della stessa Corte rimettente, di dubbia compatibilità con il sistema dei diritti
garantiti dagli evocati parametri costituzionali ed europei. Ne deriverebbe, infatti, il contrasto: con il diritto ad
autodeterminarsi nelle scelte relative alla identità personale, di cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo; con il diritto alla conservazione della preesistente
dimensione relazionale, quando essa assuma i caratteri
della stabilità e continuità propri del vincolo coniugale;
con il diritto a non essere ingiustificatamente discriminati
rispetto a tutte le altre coppie coniugate, alle quali è riconosciuta la possibilità di scelta in ordine al divorzio e con
il diritto dell’altro coniuge di scegliere se continuare la relazione coniugale».5
Dal canto suo, pervenendo alla conclusione opposta della non fondatezza della questione l’Avvocatura generale dello Stato richiamava, invece, «la non
superabilità del “paradigma eterosessuale” del matrimonio, ribadito anche dalla sentenza di questa Corte n. 138
del 2010» dalla quale traeva il corollario che «in Italia, il
matrimonio già celebrato tra due persone eterosessuali,
GIURISPRUDENZA
una delle quali modifichi in costanza di rapporto, senza
opposizione dell’altra, la propria identità di genere venga,
per ciò stesso, a caducarsi per “inesistenza acquisita”».6
Con questa motivazione si interfaccia quella della
Consulta la Quale, preliminarmente, afferma come
«la Corte di cassazione dubita che la soluzione al riguardo
imposta dall’art. 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164, non
modificata dall’art. 7 della successiva legge 6 marzo 1987
n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) e poi confermata dall’art. 31 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di
riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno
2009, n. 69), non applicabile in causa ratione temporis –
la soluzione, cioè, di collegare alla sentenza di rettificazione di sesso del coniuge l’effetto automatico di scioglimento del matrimonio – realizzi un bilanciamento adeguato tra l’interesse dello Stato a mantenere fermo il modello eterosessuale del matrimonio ed i contrapposti diritti maturati dai due coniugi nel contesto della precedente
vita di coppia».
Sulla base di questa premessa, di seguito, la Consulta motiva che «la soluzione del divorzio “imposto”
alla coppia che sia stata “interessata” dalla rettificazione
di sesso di uno dei suoi componenti rifletterebbe, infatti, il
limite, «privo di ambiguità», che il legislatore del 1982 ha
inteso porre all’esercizio del «diritto all’identità di genere
del soggetto che desidera rettificare il sesso che gli è stato
attribuito dalla nascita», con la riconosciuta presenza de
«l’interesse statuale a non modificare i modelli familiari»
(id est: il modello eterosessuale del matrimonio)».7
Segue. La sentenza della Consulta che ribadisce
l’indefettibile presupposto costituzionale del carattere eterosessuale del matrimonio sia rispetto
al diritto sovranazionale in ordine alla normativa
interposta sia rispetto alle prerogative del Parlamento Italiano.
La Consulta qualifica, come detto, la questione
come fondata ma sulla base della seguente motivazione che è sostanzialmente riassumibile in cinque
passaggi e che torna proprio sulle fonti nazionali e
sopranazionali cui si è riferito il giudice di Grosseto
con l’ordinanza in commento:
1) «La situazione (sul
Il venir meno del requisito,
piano fattuale innegaper il nostro ordinamento
bilmente infrequente,
essenziale, della
ma che, nella vicenda al
eterosessualità.
centro del giudizio principale, si è comunque
verificata) di due coniugi che, nonostante la rettificazione
dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, intendano
non interrompere la loro vita di coppia, si pone, evidentemente, fuori dal modello del matrimonio – che, con il venir
meno del requisito, per il nostro ordinamento essenziale,
della eterosessualità, non può proseguire come tale – ma
non è neppure semplicisticamente equiparabile ad una
unione di soggetti dello stesso sesso, poiché ciò equivarrebbe
a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, nel
cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale, che, seppur non più declinabili all’interno del modello matrimoniale, non sono, per
ciò solo, tutti necessariamente sacrificabili. (§ 5.1)»;8
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 61
GIURISPRUDENZA
2) «il parametro costituzionale di riferiLa nozione di matrimonio
mento per una corretta
presupposta dal
valutazione della pecuCostituente (cui conferisce
liare fattispecie in
tutela il citato art. 29
esame – in relazione ai
Cost.) è quella stessa
prospettati quesiti sulla
definita dal codice civile
legittimità della discidel 1942, che «stabiliva (e
plina, correttamente intuttora stabilisce) che i
dividuata dalla Corte di
coniugi dovessero essere
cassazione negli artt. 2
persone di sesso diverso»
e 4 della Legge n. 164
(sentenza n. 138 del 2010)
del 1982, che la risolvono in termini di divorzio automatico – non è dunque quello dell’art. 29 Cost.
invocato in via principale dallo stesso collegio rimettente,
poiché, come già sottolineato da questa Corte, la nozione di
matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che «stabiliva (e tuttora stabilisce) che
i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso» (sentenza n. 138 del 2010). Il che comporta che anche a colui
(o colei) che cambia il proprio sesso non resta impedito di
formare una famiglia, contraendo nuovo matrimonio con
persona di sesso diverso da quello da lui (o lei) acquisito
per rettifica (§ 5.2)»;9
3) «non pertinente è
anche il riferimento agli
Riferimento agli artt. 8 (sul
artt. 8 (sul diritto al ridiritto al rispetto della vita
spetto della vita famifamiliare) e 12 (sul diritto
liare) e 12 (sul diritto di
di sposarsi e formare una
sposarsi e formare una
famiglia) della CEDU,
famiglia) della CEDU,
come interpretati dalla
come interpretati dalla
Corte europea dei diritti
Corte europea dei diritti
dell’uomo (H. contro
dell’uomo (H. contro
Finlandia - decisione del
Finlandia – decisione
13 novembre 2012; Schalk
del 13 novembre 2012;
and Kopf contro Austria Schalk and Kopf contro
decisione del 22 novembre
Austria – decisione del
2010), invocati come
22 novembre 2010), innorme interposte
vocati come norme interposte, ai sensi della
denunciata violazione degli artt. 10, primo comma, e 117,
primo comma, Cost. E ciò perché, in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma
essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti
appartenenti al medesimo sesso.
La stessa sentenza della Corte EDU Schalk and Kopf
contro Austria, citata nell’ordinanza di rimessione, nel ritenere possibile una interpretazione estensiva dell’art. 12
della CEDU nel senso della riferibilità del diritto di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali, chiarisce come non derivi da una siffatta interpretazione una
62 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
norma impositiva, di una tale estensione, per gli Stati
membri. (§ 5.3)»;10
4) «pertinente, è invece, il riferimento al
Pertinenza del riferimento
precetto dell’art. 2 Cost.
all’art. 2 della Costituzione
Al riguardo questa
in relazione a quanto già
Corte ha già avuto
affermato dalla Corte
modo di affermare,
Costituzionale nella
nella richiamata senrichiamata sentenza
tenza n. 138 del 2010,
n. 138 del 2010
che nella nozione di
“formazione sociale” –
nel quadro della quale l’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – «è da annoverare anche l’unione omosessuale,
intesa come stabile convivenza tra due persone dello
stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere
liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei
tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». In
quella stessa sentenza è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei
componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto
attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al
matrimonio», come confermato, del resto, dalla diversità
delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto
le unioni suddette. Dal che la conclusione, per un verso,
che «nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le
unioni suddette», e, per altro verso, che resta, però, comunque, «riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni», nel
quadro di un controllo di ragionevolezza della rispettiva
disciplina (§ 5.5)»;11
5) «Sulla linea dei
principi enunciati nella
Interesse dello Stato
riferita sentenza, è innea non modificare il
gabile che la condizione
modello eterosessuale del
dei coniugi che intenmatrimonio e interesse
dano proseguire nella
della coppia
loro vita di coppia, pur
dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione
anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di situazioni
“specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con
riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento
di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di
adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal
legislatore. La fattispecie peculiare che viene qui in considerazione coinvolge, infatti, da un lato, l’interesse dello
Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una
volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di
GIURISPRUDENZA
sesso dei coniugi) e, dall’altro lato, l’interesse della coppia,
attraversata da una vicenda di rettificazione di sesso, a che
l’esercizio della libertà di scelta compiuta dall’un coniuge
con il consenso dell’altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe,
viceversa, mantenere in essere (in tal ultimo senso si sono
indirizzate le pronunce della Corte costituzionale austriaca
– VerfG 8 giugno 2006, n. 17849 – e della Corte costituzionale tedesca BVerfG, 1, Senato, ord. 27 maggio 2008, BvL
10/05) (§ 5.6).»
personale neppure di fatto. (…) 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo
stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza,
avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto. 5.
I limiti di cui al comma 3 possono essere derogati, qualora
il tribunale per i minorenni accerti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per
il minore».
Vi è, poi, l’art. 407 c.c., posto al Capo I, DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO, TITOLO DODICESIMO, DELLE MI-
Alcuni esempi di tutela della famiglia nell’intero
arco costituzionale, nel codice civile e nella legislazione ordinaria civile e penale.
Si offre un variegato quadro di tutela della convivenza more uxorio assicurato da specifiche fonti che
intervengono proprio nella modalità indicata dalla
Cass. 4184/2012 ossia assicurando un trattamento
omogeneo a situazioni che siano equiparabili al matrimonio senza essere fondate su di esso: su tutte,
ovviamente, si ricorda il recentissimo D.Lgs. 28-122013 n. 154 in tema di REVISIONE DELLE DISPOSIZIONI VIGENTI IN MATERIA DI FILIAZIONE, A NORMA DELL’ARTICOLO 2
DELLA LEGGE 10 DICEMBRE 2012, N. 219, che introduce una
serie di disposizioni tese ad equiparare la condizione dei figli nati fuori dal matrimonio rispetto a
quella di coloro che siano nati all’interno di esso.
A tal proposito, sul piano dell’eguale tutela tra famiglia fondata sul matrimonio e quella basata su
unioni di tipo diverso, rispetto alla responsabilità
nei confronti dei figli, si può subito citare l’art. 316
c.c., così come modificato dal D.Lgs. 28-12-2013 n.
154 in tema di REVISIONE DELLE DISPOSIZIONI VIGENTI IN MATERIA DI FILIAZIONE, A NORMA DELL’ARTICOLO 2 DELLA LEGGE
10 DICEMBRE 2012, N. 219, ed in base al quale viene eliminato in tutta la legislazione vigente ogni riferimento ai figli “legittimi” e a quelli “naturali” che, a
seguito della normativa introdotta, son semplicemente “figli”.
Ma già vi erano specifiche disposizioni dirette a
tutelare i legami famigliari sorti anche al di fuori del
matrimonio e comunque le unioni more uxorio.
L’art. 5, in tema di REQUISITI SOGGETTIVI della Legge 19
febbraio 2004, n. 40, recante “NORME IN MATERIA DI PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA”, in base al quale
«Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma
1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso,
coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi»
L’art. 6 della L 4-5-1983 n. 184, in materia di DIRITTO
DEL MINORE AD UNA FAMIGLIA, il quale, posto al TITOLO II
“DELL’ADOZIONE”, della stessa legge, stabilisce che
«l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da
almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non
deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione
SURE DI PROTEZIONE DELLE PERSONE PRIVE IN TUTTO OD IN PARTE
DI AUTONOMIA, del
LIBRO PRIMO del codice civile, DELLE
quale, disciplinando il procedimento dell’amministrazione di sostegno, stabilisce che «il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione
di sostegno deve indicare le generalità del beneficiario, la
sua dimora abituale, le ragioni per cui si richiede la nomina dell’amministratore di sostegno, il nominativo ed il
domicilio, se conosciuti dal ricorrente, del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del
beneficiario».
E, ancora, in settore completamente diverso, l’art.
9 del D.L. 15-1-1991 n. 8, recante NUOVE NORME IN MAPERSONE E DELLA FAMIGLIA, il
TERIA DI SEQUESTRI DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE E PER
LA PROTEZIONE DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA, NONCHÉ PER LA
PROTEZIONE E IL TRATTAMENTO SANZIONATORIO DI COLORO CHE
COLLABORANO CON LA GIUSTIZIA,
ART. 9 CONDIZIONI DI APquale, al
comma 5 prevede che «Le speciali misure di protezione
di cui al comma 4 possono essere applicate anche a coloro
che convivono stabilmente con le persone indicate nel
comma 2 nonché, in presenza di specifiche situazioni, anche a coloro che risultino esposti a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le
medesime persone. Il solo rapporto di parentela, affinità o
coniugio, non determina, in difetto di stabile coabitazione,
l’applicazione delle misure»
L’art 30, dettato in materia di permessi, della L. 267-1975 n. 354, NORME SULL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO E
SULL’ESECUZIONE DELLE MISURE PRIVATIVE E LIMITATIVE DELLA
LIBERTÀ, il quale stabilisce che «nel caso di imminente
pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con
le cautele previste dal regolamento l’infermo. Agli imputati il permesso è concesso, durante il procedimento di
primo grado, dalle medesime autorità giudiziarie, competenti ai sensi del secondo comma dell’articolo 11 a disporre il trasferimento in luoghi esterni di cura degli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado».
Notissima è la norma ex art. 6, in materia di SUCCESSIONE NEL CONTRATTO, della L. 27-7-1978 n. 392, recante norme sulla DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI
URBANI, la quale è stata oggetto di una sentenza della
Corte Costituzionale, sentenza 24 marzo-7 aprile
PLICABILITÀ DELLE SPECIALI MISURE DI PROTEZIONE, il
aprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 63
GIURISPRUDENZA
1988, n. 404 (Gazz. Uff. 13 aprile 1988, n. 15 - Serie
speciale),12 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art.
6, primo comma, L. 27 luglio 1978, n. 392, nella parte
in cui non prevede tra i successibili nella titolarità
del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio.
La sentenza del 1988 è stata seguita dall’importante ordinanza in data 14-01-2010, n. 7 con la quale
la Consulta ha stabilito che «è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6,
3° comma, legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui
non prevede che, in caso di cessazione della convivenza
more uxorio , al conduttore di immobile ad uso abitativo
succeda nel contratto di locazione il convivente rimasto
ad abitare nell’immobile locato, pure in mancanza di prole
comune, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.»13
L’art. 3, 2° comma, della legge 01-04-1999 n. 91 DISPOSIZIONI IN MATERIA DI PRELIEVI E DI TRAPIANTI DI ORGANI E
DI TESSUTI. PRELIEVO DI ORGANI E DI TESSUTI, che stabilisce
che «all’inizio del periodo di osservazione ai fini dell’accertamento di morte ai sensi della legge 29 dicembre
1993, n. 578 , e del decreto 22 agosto 1994, n. 582 , del Ministro della sanità, i medici delle strutture di cui all’articolo 13 forniscono informazioni sulle opportunità terapeutiche per le persone in attesa di trapianto nonché sulla
natura e sulle circostanze del prelievo al coniuge non separato o al convivente more uxorio o, in mancanza, ai figli maggiori di età o, in mancanza di questi ultimi, ai genitori ovvero al rappresentante legale»
Segue. Nella legislazione regionale.
Andando a verificare, poi, anche la legislazione regionale, spiccano le disposizioni di cui all’art. 4 lett.
g) e lett. h), dello Statuto regione Toscana “RICONOSCIMENTO DI ALTRE FORME DI CONVIVENZA” il quale dispone
che «la Regione persegue, tra le finalità prioritarie: la tutela e la valorizzazione della famiglia fondata sul matrimonio; il riconoscimento delle altre forme di convivenza»
e l’analoga norma del Nuovo Statuto della Regione
Umbria – Legge regionale 16 aprile 2005, n. 21 (B.U.
18 aprile 2005, n. 17, Ed. str.) che all’art. 9, in tema di
FAMIGLIA. FORME DI CONVIVENZA, che «La Regione riconosce
i diritti della famiglia e adotta ogni misura idonea a favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione le
affida. Tutela altresì forme di convivenza».
Anche qui vi è stato un intervento della Consulta
che, con sentenza in data 02-12-2004, n. 372, decidendo sul ricorso di legittimità promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha stabilito che
«a tali enunciazioni, anche se inserite in un atto-fonte,
come nella specie, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul
piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto ed esplicano una
funzione di natura culturale o anche politica, ma non normativa».14 Con identico contenuto si è espressa La
Consulta nella sentenza che ha adottato in ordine
64 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2014
al ricorso che la Presidenza del Consiglio dei Ministri
ha presentato sul citato art. 9 dello statuto della Regione Umbria Analogamente, su ricorso presentato
avverso la stessa disposizione adottata.15
Segue. Nella giurisprudenza, di merito e di legittimità.
La tutela della famiglia non fondata su matrimonio è pienamente assicurata anche nella giurisprudenza sia di merito che di legittimità: secondo la
Cass. civ. Sez. II, 20-12-2011, n. 27773 «il legato avente
per oggetto l’usufrutto vitalizio di uno specifico alloggio a
favore della convivente more uxorio può in via interpretativa essere esteso a un altro edificio di proprietà del testatore quando, dopo la redazione dell’atto mortis causa,
quest’ultimo bene sia stato adibito a residenza della coppia allorché l’intento del disponente sia stato preordinato
ad assecondare le esigenze abitative della beneficiaria»16
Per le recentissime Cass. civ. Sez. I, 22-01-2014, n.
1277 e Cass. civ. Sez. II, 02-01-2014, n. 7, rispettivamente, «il discrimine fra l’adempimento dei doveri sociali e morali, quale può individuarsi in qualsiasi contributo fra conviventi, destinato al menage quotidiano ovvero espressione della solidarietà fra persone unite da un
legame intenso e duraturo, e l’atto di liberalità, va individuato, oltre che nella spontaneità, soprattutto nel rapporto
di proporzionalità fra i mezzi di cui l’adempiente dispone
e l’interesse da soddisfare. Orbene, tale requisito, riconosciuto in relazione alle obbligazioni naturali in generale,
deve essere ribadito in riferimento all’adempimento di doveri morali e sociali nella convivenza more uxorio»17 e
«l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta da un terzo in danno della convivente
“more uxorio” del comodatario, legittima quest’ultima
alla tutela possessoria, consentendole di esperire l’azione
di spoglio. La qualità di convivente “ more uxorio “ del comodatario di un appartamento destinato ad abitazione
legittima ad esperire l’azione di spoglio (nella specie, contro un terzo), in quanto la convivenza “ more uxorio” determina sulla casa ove si svolge e si attua il programma
di vita in comune un potere di fatto basato su un interesse proprio del convivente, ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i
connotati tipici di una detenzione qualificata, avente ti-
GIURISPRUDENZA
tolo in un negozio giuridico di tipo familiare. (Cassa con
rinvio, App. Torino, 30/11/2006)»18
Nella giurisprudenza di merito si segnala il Trib. Genova Sez. III, sentenza del 30-10-2013, per il quale «anche per la convivenza more uxorio infatti, la Cassazione ha
previsto la gratuità delle prestazioni lavorative rese nell’ambito della famiglia, definendo la convivenza come una
vera e propria comunità familiare caratterizzata dalla presunzione di gratuità delle prestazioni rese al suo interno.
Al convivente more uxorio è stato così riconosciuto il diritto
di succedere nel contratto di locazione purché la convivenza
sia stata caratterizzata da serietà e stabilità».19
Il Tribunale di Verona, sentenza 26-09-2013, per la
quale «il convivente more uxorio può pretendere il risarcimento del danno non patrimoniale per il vulnus arrecato alla propria libertà sessuale, conseguente alla lesione
della capacità sessuale subita dal proprio partner, se il
rapporto di convivenza con la vittima primaria - per durata, solidità e continuità - risulti essere assimilabile ad
un rapporto di coniugio».20
Vi è l’interessante pronuncia dell’Uff. indagini
preliminari Napoli Sez. XX, 02-08-2013, n. 1790, per
il quale «il convivente more uxorio non è punibile ai sensi
dell’art. 384, comma secondo, c.p., per il reato di favoreggiamento personale commesso mediante false o reticenti
dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria senza essere sta
o previamente informato, ai sensi dell’art. 199 c.p. della
facoltà di astenersi dal rilasciarle».21
E proprio l’art.199 c.p.p., in tema di FACOLTÀ DI ASTENSIONE DEI PROSSIMI CONGIUNTI, prevede che «1. I prossimi congiunti dell’imputato non sono obbligati a
deporre. Devono tuttavia deporre quando hanno
presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi o
un loro prossimo congiunto sono offesi dal reato. 2.
Il giudice, a pena di nullità, avvisa le persone predette della facoltà di astenersi chiedendo loro se intendono avvalersene. 3. Le disposizioni dei commi
1 e 2 si applicano anche a chi è legato all’imputato
da vincolo di adozione. Si applicano inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato
durante la convivenza coniugale: a) a chi, pur non
essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o
abbia convissuto con esso; b) al coniuge separato
dell’imputato; c) alla persona nei cui confronti sia
intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’imputato».
Il Trib. Milano, che, con sentenza in data, 21-022007 ha stabilito che «in caso di decesso della vittima di
un sinistro stradale il risarcimento del danno non patrimoniale, nella duplice accezione di danno morale e di
danno esistenziale derivato dalla perdita definitiva del
rapporto parentale, spetta “iure proprio” ed a diverso titolo a tutti coloro che hanno subito un grave perturbamento per la morte. Anche il convivente non legato da vincoli parentali può essere titolare del diritto al risarcimento
del danno non patrimoniale, e ciò a prescindere dal fatto
che si tratti di convivenza “more uxorio” o di convivenza
determinata da un diverso rapporto, purché si dimostri
una comunanza di vita e di affetti».22
Conclusioni
Il quadro descritto in queste pagine restituisce
l’immagine, chiara e netta, di un sistema normativo,
che dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, ad ogni
livello, di legislazione sovranazionale, di norma costituzionale, di legge ordinaria oltre che di giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, distingue la famiglia fondata sul matrimonio dalle unioni
diverse da essa, rientranti queste ultime in un quadro di tutela costituzionale, ma sotto il diverso regime dell’art, 2 della Costituzione il quale dispone,
come è noto, che «la Repubblica riconosce e garantisce
i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Del resto, secondo quanto stabilito dalla stessa
Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’art. 29 della Costituzione23 «non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98,
107, 108, 143, 143-bis e 156-bis c.c., impugnati, in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., nella parte in cui non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.
L’interpretazione dei concetti di famiglia e di matrimonio
non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo dell’art. 29 Cost., modificandolo in modo tale da includervi
fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo
quando fu emanato. I costituenti, elaborando l’art. 29
Cost., tennero presente la nozione di matrimonio definita
dal codice civile del 1942 secondo cui i coniugi devono essere persone di sesso diverso. Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione
creativa. La censurata normativa, che contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima con riferimento all’art. 3 Cost., perché
essa trova fondamento nell’art. 29 Cost. e non dà luogo ad
un’irragionevole discriminazione, non potendo le unioni
omosessuali essere ritenute omogenee al matrimonio».24
In apertura si sono ricordate le norme che l’ordinanza del Giudice di Grosseto richiama onde sorreggere nella motivazione il pronunciamento finale: tra
queste il Giudice Toscano omette di citare l’art. 107
c.c., che pure la sentenza 4184/2012 citava espressamente e che risulta, nell’economica complessiva
della fattispecie sulla quale l’ordinanza ha deciso, assolutamente determinante in quanto descrive giuridicamente le caratteristiche dell’atto che dovrà poi
essere trascritto e stabilisce che «nel giorno indicato
dalle parti l’ufficiale dello stato civile, alla presenza di due
testimoni, anche se parenti, dà lettura agli sposi degli articoli 143, 144 e 147; riceve da ciascuna delle parti persoaprile-giugno 2014 | Avvocati di famiglia | 65
GIURISPRUDENZA
nalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di
seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio. L’atto di
matrimonio deve essere compilato immediatamente dopo la
celebrazione». La più volte citata cassazione 4184/2012,
affermava a riguardo che «in primo luogo, dall’art. 107
c.c., 1° co., che, nel disciplinare la forma della celebrazione
del matrimonio, prevede tra l’altro che l’ufficiale dello stato
civile celebrante riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie – si
veda anche l’art. 108, 1° co. –» si ricava che «l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula in sostanza la diversità di sesso
dei coniugi. (…) La diversità di sesso dei nubendi è richiesta dalla legge per la identificabilità giuridica dell’atto di
matrimonio per cui l’atto mancante di tale requisito viene
a comportare la sua qualificazione non tanto secondo la categoria della propria validità, quanto piuttosto della propria stessa esistenza».
La norma dell’art. 107 c.c. citata è imprescindibile,
anche per l’ufficiale di stato civile che, di seguito all’ordinanza del Giudice di Grosseto, dovesse procedere alla trascrizione dell’atto di matrimonio celebrato all’estero; ma, in tal caso, siamo di fronte, non
ad un’interpretazione, se pure estensiva, ma, semmai, in quanto si versa nell’ambito di una fattispecie
non descritta dalla norma, di applicazione analogica,
sulla base di una supposta eadem ratio della norma ex
art. 107 c.c. rispetto ad una fattispecie, quella, appunto il matrimonio tra persone dello stesso sesso
che, in essa, indubbiamente, non è prevista.
Ma tale applicazione, possibile quando, appunto,
una fattispecie nbon sia normata pur avendo la eadem
ratio di un’altra regolamentata, alla luce di quanto evidenziato nella rassegna di normativa e di giurisprudenza, non appare in alcun modo ammissibile, visto
che, la fattispecie non prevista dall’art. 107 c.c. ossia il
matrimonio tra persone dello stesso sesso, trova una
vasta tutela ex art. 2 della Costituzione e nelle fonti
normative e giurisprudenziali citate, con la conseguenza che, laddove questa applicazione egualmente
vi fosse, essa si risolverebbe in un’interpretatio abrogans
di una normativa che il legislatore, sia quello costituente che quello intervenuto successivamente, con
provvedimenti sottoposti anche al vaglio della verifica di costituzionalità, ha inteso ed intende mantenere distinte, onde evitare che l’equiparazione del
matrimonio tra persone di sesso diverso a quello tra
persone dello stesso sesso, si traduca in uno svuotamento, di fatto, di contenuto, dell’istituto della famiglia fondata sul matrimonio e di quella tra persone di
sesso diverso, anche more uxorio, rispetto alle quali, il
nostro ordinamento esprime una specifica tutela.
Note
1
Fam. Pers. Succ., 2012, 12, 857 nota di FANTETTI; CED Cassazione, 2012; Famiglia e Diritto, 2012, 7, 665 nota di GATTUSO;
Notariato, 2012, 5, 504 nota di CALÒ; Nuova Giur. Civ., 2012, 7-8, 1, 588 nota di FERRARI, FIORATO; Giur. It., 2013, 2, 329 nota
di MAROTTI; Giur. It., 2012, 8-9, 1767 nota di CALEVI; Foro It., 2012, 10, 1, 2727 nota di ROMBOLI
2
Per un ampio chiarimento del significato normativo e programmatico della formula v. Corsanego, seduta del 30 ottobre
1946, in A.C., VI, 630; un contributo importante anche da Moro, seduta del 30 ottobre 1946, 634 s., il quale ricollega l’espressione alla garanzia fornita dall’art. 2 del progetto di Costituzione in favore sia dei diritti inviolabili dell’uomo sia delle formazioni sociali intermedie; in senso contrario circa l’adozione del principio di autonomia familiare v. Preti, seduta del 17
aprile 1947, in A.C., II, 950.
3
BANCA DATI DEA;
4
IVI;
5
IVI;
6
IVI;
7
IVI;
8
IVI;
9
IVI;
10
IVI;
11
IVI;
12
Giur. It., 1988, I,1, 1627 nota di TRABUCCHI; Giust. Civ., 1988, I, 1654; Riv. Giur. Edil., 1988, I, 506; Informazione Prev., 1988,
837; Rass. Equo Canone, 1988, 16; Leggi Civili, 1988, 515 nota di GIOVE; Impresa, 1988, 2045; Nomos, 1988, fasc.2, 197; Arch.
Locazioni, 1988, 286; Foro It., 1988, I, 2515 nota di PIOMBO
13
Foro It., 2010, 6, 1, 1721
14
Sito uff. Corte cost., 2004, Pres. cons. ministri c. Regione Toscana
15
Corte cost., 06-12-2004, n. 378 Presidente consiglio dei Ministri Sito uff. Corte cost., 2005
16
Famiglia e Diritto, 2012, 2, 125 nota di CALVO;
17
Massima redazionale, Banca Dati Dea, 2014;
18
Giur. It., 2014, I, 31 nota di AURELI;
19
Massima redazionale, Banca Dati Dea, 2013;
20
Giur. It., 2014, 2, 301 nota di AMENDOLAGINE;
21
Massima redazionale, Banca Dati Dea, 2013;
22
Famiglia e Diritto, 2007, 10, 938 nota di COSCO;
23
Corte Costituzionale 15-04-2010, n. 138;
24
Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 2010, 4, 979; Foro It., 2010, 5, 1, 1361 nota di ROMBOLI, DAL CANTO;
Foro It., 2010, 6, 1, 1701 nota di COSTANTINO; Giur. It., 2011, 3, 537 nota di BIANCHI; Fam. Pers. Succ., 2011, 3, 179 nota di
FANTETTI; Famiglia e Diritto, 2010, 7, 653 nota di GATTUSO;
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