Monastero di Bose - La chiesa è santa ma anche peccatrice

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La chiesa è santa ma anche peccatrice
La Stampa, 28 maggio 2006
A volte accade che la convinzione di conoscere bene i linguaggi e i contesti propri alla dimensione della fede cristiana
finisce per forzare le interpretazioni e per attribuire a personalità ecclesiali orientamenti solo auspicati o temuti. Per alcuni
commentatori, in numero crescente sia all’interno che all’esterno della chiesa, adusi a osannare Giovanni Paolo II da
vivo, pare ora diventato un vezzo criticarlo a favore del suo successore: fenomeno spiacevole cui già abbiamo assistito
dopo la scomparsa di Paolo VI. Così, nel corso del viaggio di Benedetto XVI in Polonia, un’ammonizione del pontefice
rivolta al clero polacco è stata interpretata da alcuni come una correzione di rotta se non addirittura una sconfessione
rispetto a uno dei gesti più significativi compiuti da Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato, una liturgia da lui
fortemente voluta al cuore del Giubileo del 2000: la richiesta a Dio del perdono per i peccati compiuti dai figli della chiesa
nel corso della storia.
Vale la pena riprendere il passaggio del discorso, perché il messaggio che ne emerge con forza ha una portata che va
oltre i suoi destinatari immediati e coinvolge la presenza e la testimonianza dei cristiani nella società: “Il Papa Giovanni
Paolo II – ha affermato il suo successore – in occasione del Grande Giubileo ha più volte esortato i cristiani a far
penitenza delle infedeltà passate. Crediamo che la Chiesa è santa, ma in essa vi sono uomini peccatori. Bisogna
respingere il desiderio di identificarsi soltanto con coloro che sono senza peccato. Come avrebbe potuto la Chiesa
escludere dalle sue file i peccatori? È per la loro salvezza che Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Occorre perciò
imparare a vivere con sincerità la penitenza cristiana. Praticandola, confessiamo i peccati individuali in unione con gli
altri, davanti a loro e a Dio. Conviene tuttavia guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle
generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in altre circostanze. Occorre umile sincerità per non negare i peccati del
passato, e tuttavia non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti pre-comprensioni di
allora. Inoltre la confessio peccati, per usare un’espressione di sant’Agostino, deve essere sempre accompagnata dalla
confessio laudis – dalla confessione della lode. Chiedendo perdono del male commesso nel passato dobbiamo anche
ricordare il bene compiuto con l’aiuto della grazia divina che, pur depositata in vasi di creta, ha portato frutti spesso
eccellenti”.
Ora, a me pare che l’aver rivolto questa esortazione ai presbiteri di una chiesa che ha conosciuto negli anni recenti della
cattività la dolorosa ferita di alcuni membri del clero divenuti collaboratori attivi del regime che opprimeva e anche
perseguitava i cristiani, non solo non smentisce né corregge l’intuizione evangelica di Giovanni Paolo II della confessione
dei peccati, ma la riprende e la sviluppa in un contesto che è paragonabile a quello conosciuto dalla chiesa dei primi
secoli al termine delle persecuzioni: allora si pose con forza il problema dei lapsi , cioè di quei credenti che di fronte
all’infuriare della persecuzione avevano rinnegato la loro fede per sfuggire alla morte o alle torture e, terminata la
tormenta, si erano pentiti e avevano chiesto di essere riammessi nella comunità cristiana. Anche allora vi era chi si
rifiutava con forza di perdonare il fratello e negava la possibilità che fosse accolto nuovamente nella comunione
ecclesiale, ma alla fine prevalse la visione di chi, consapevole che nessuno può dirsi “senza peccato” agli occhi del
Signore, voleva che la chiesa intera si facesse segno visibile dell’amore misericordioso del Padre che riabbraccia il figlio
perduto e ritrovato.
Al contrario di quanti – non certo “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” – vogliono cogliere rivincite o prese di
distanza del papa nei confronti del suo predecessore in merito a tematiche oggetto di “legittimo dissenso”, io vedo
nell’esortazione di Benedetto XVI una profonda continuità sia con l’intuizione di Giovanni Paolo II, sia con l’apporto
dell’allora cardinale Ratzinger alla riflessione sul significato della celebrazione giubilare della richiesta di perdono. Di
fronte a quei cristiani che concepiscono una chiesa solo santa o che propongono un perfettismo ecclesiologico, l’allora
prefetto della Congregazione della fede aveva ricordato che tutta la Scrittura e i padri della chiesa hanno avuto “la
capacità della testimonianza e della confessione del peccato”, e dunque del rimprovero profetico. La chiesa, infatti, fin
dall’epoca neotestamentaria non ha mai perso l’autocoscienza del peccato che la abita: essa è santa perché è corpo di
Cristo, ma è peccatrice nei suoi figli, sempre bisognosa di purificazione e di perdono. Certo negli ultimi secoli – finita la
cristianità compatta e iniziato il confronto e lo scontro tra chiesa e società – è apparsa l’autodifesa a oltranza da parte
della chiesa, l’apologia della società perfetta, e così l’atteggiamento di ammissione dei propri peccati si è affievolito e
talvolta è venuto meno: questo fa sì che alcuni cristiani continuino a temere gesti di confessione dei peccati commessi da
membri dell’unico corpo ecclesiale, non li colgano come atti legittimi, li ritengano inopportuni o addirittura li sviliscano
negando l’istanza evangelica che li suscita e scambiandola per preoccupazione di adeguarsi alla mentalità mondana.
Con buona pace di chi si ostina a non capire, nel confessare quelle colpe Giovanni Paolo II non giudicava i cristiani dei
tempi passati, né riversava sui cristiani di oggi la colpa di quegli atti storici. Solo Dio giudicherà le persone, ma le azioni
delle persone devono essere giudicate, e di fatto lo sono, hanno sempre continuato a esserlo, dal Vangelo eterno,
capace di essere giudizio di Dio ieri, oggi e domani. Nel volere fortemente quella liturgia penitenziale giubilare, il papa
non giudicava nessuno, né dimenticava le circostanze attenuanti: come ha appunto ricordato Benedetto XVI ai presbiteri
polacchi, lo spirito dominante, le culture del tempo, i condizionamenti ambientali hanno sempre influenza sugli attori dei
gesti peccaminosi. La chiesa è anche consapevole che alcuni cristiani, nel compiere tali azioni riprovevoli, agivano in
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buona fede, credevano di fare la volontà di Dio e di servire la verità. Ma questo non significa che determinati atti non
siano oggettivamente contraddittori del Vangelo, dunque peccati; e se sono peccati, frutto di tentazione ieri, possono
essere capaci di seduzione ancora oggi.
Certo, come ha ricordato Benedetto XVI, la presenza del peccato non deve far chiudere gli occhi davanti alla santità
nella chiesa: non solo a quella dei santi canonizzati, ma anche a quella degli umili, dei cristiani comuni che non
appaiono, non fanno notizia ma che nell’ininterrotta catena della storia della santità hanno sempre vissuto il
comandamento nuovo dell’amore, fino all’amore del nemico. Ma, come dicevano i padri del deserto, “chi conosce i propri
peccati è più grande di chi fa miracoli e risuscita i morti!”. La chiesa che canta il Magnificat per la sua santità, realizzata
in lei dal Signore, sa anche cantare il Miserere per i peccati commessi dai cristiani… E’ questa la confessio laudis cui
papa Benedetto XVI invita la chiesa.
Enzo Bianchi
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