La nuova disciplina della previdenza complementare

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ISSN 0391-3740
N. 3-4
Maggio - Agosto
RIVISTA BIMESTRALE
a cura di
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv.
in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano.
GIORGIO CIAN
ALBERTO MAFFEI ALBERTI
PIERO SCHLESINGER
LE NUOVE LEGGI CIVILI COMMENTATE - ANNO XXX - 2007 - N. 3-4
LE NUOVE
LEGGI CIVILI
COMMENTATE
Direzione:
P. AUTERI - C.M. BIANCA - E. BOCCHINI
G. CAIA - F. CIPRIANI - R. DE LUCA TAMAJO
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Comitato scientifico:
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M. Libertini - P. Marchetti - G. Minervini
M. Persiani - U. Pototschnig
P. Rescigno - T. Treu
Redattore capo:
Simonetta Baldi
D 66,00
ANNO XXX
2007
–La nuova disciplina
della previdenza complementare
(d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252)
I commentari
1) La nuova disciplina della previdenza complementare (d.lgs. 5
dicembre 2005, n. 252) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 537
LA NUOVA DISCIPLINA
DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE
(d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 « Disciplina delle forme pensionistiche complementari »,
in G.U. n. 289, s.o. n. 200, del 13 dicembre 2005)
Commentario sistematico a cura di
Armando Tursi, professore nella Università degli Studi di Milano
Con la collaborazione di: Andrea Bollani, prof. nell’Univ. di Pavia; Olivia Bonardi, prof. nell’Univ. di Milano; Raffaele Bruni, esperto e consulente; Matteo Corti, dell’Univ. Cattolica di
Milano; Vincenzo Ferrante, prof. nell’Univ. Cattolica di Piacenza; Lorenzo Frignati, esperto
e consulente; Donatello Garcea, funz. della dir. gen. INPS; Fabio Marchetti, prof. nell’Univ.
Luiss-Guido Carli di Roma; Ferdinando Montaldi, dirigente Enpals, ex dirigente COVIP; Antonella Occhino, prof. nell’Univ. Cattolica di Milano; Massimo Pallini, prof. nell’Univ. di Milano; Eugenio Ruggiero, prof. a contratto nelle Univ. Lumsa di Roma e Luiss-Guido Carli di Roma; Michele Squeglia, prof. a contratto nelle Univ. di Milano e Milano-Bicocca; Silvia Tozzoli, dottore di ricerca
Note introduttive: la terza riforma
della previdenza complementare
Sommario: 1. Presentazione del commentario. – 2.
L’obiettivo sistematico centrale della riforma: la costruzione di un regime unico, omogeneo e concorrenziale di « forme pensionistiche complementari ». – 3.
La collocazione costituzionale della previdenza complementare, tra « obbligatorietà » ed « effettività »
della tutela. – 4. Valorizzazione della libertà individuale e « mercato » della previdenza complementare:
le tracce (da cancellare) di un « pregiudizio eteronomo » nei confronti dell’autonomia collettiva. – 5.
L’adesione tramite « conferimento tacito » del t.f.r.:
una proposta ricostruttiva in termini strettamente negoziali. – 6. Equivoci, contraddizioni e soluzioni interpretative, nel nuovo assetto delle fonti istitutive. – 7.
Ancora equivoci, lacune e problemi interpretativi in
tema di « portabilità » del contributo datoriale. – 8.
Pensionamento anticipato e anticipazione della posizione individuale maturata. Il t.f.r. come cancello istituzionale per l’introduzione del « secondo pilastro »
previdenziale. – 9. I maggiori vincoli in tema di riscatti e trasferimenti. – 10. La « dimensione comunitaria »
del decreto.
1. – A distanza di 2 anni e mezzo dal varo della legge delega, ma con un anno di anticipo ri-
spetto alla data inizialmente prevista ( 1 ), entra
in vigore la « terza riforma » ( 2 ) della previdenza complementare, e con essa l’esperienza avviata nell’ormai lontano 1993 entra, almeno dal
punto di vista normativo, nella fase della « maturità ».
L’ultima fase di questo processo riformatore è
stata particolarmente concitata. Si è passati, nel
giro di poche settimane (quelle a ridosso dell’elaborazione e approvazione della legge finanziaria per il 2007 »), dalla prospettiva di un
tranquillizzante rodaggio operativo e di una meditata assimilazione culturale da parte dei lavoratori e delle imprese, all’avvio praticamente « a
freddo » della riforma: basti osservare che il se-
( 1 ) V. Squeglia, sub art. 23, comma 1o, in questo
Commentario.
( 2 ) V. Tursi, La terza riforma della previdenza
complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev.
ass. pubbl. priv., 2005, p. 513 ss.
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d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
mestre in cui era destinata a consumarsi la scelta, per i lavoratori in servizio, di conferire o meno il t.f.r. alle forme pensionistiche complementari, è iniziato a decorrere prima, e non dopo,
che si fosse potuto procedere all’adeguamento
« certificato » (dalla COVIP) alla nuova disciplina legislativa, sia da parte delle forme pensionistiche già istituite in conformità al d.lgs. n.
124/93, sia da parte delle forme pensionistiche
cdd. « preesistenti », ossia istituite alla data di
entrata in vigore della l. n. 421/92 ( 3 ).
Come se non bastasse, la l. n. 296/06 (cd.
« legge finanziaria per il 2007) », mentre anticipava di un anno l’entrata in vigore della riforma, vi apportava numerose modifiche, in più
punti, e istituiva, limitatamente ai datori di lavoro con almeno 50 addetti, uno specifico « fondo
per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto »,
evidentemente destinato a incrociare la disciplina del conferimento del t.f.r. alla previdenza
complementare ( 4 ).
Infine, l’anticipata entrata in vigore della riforma ha coinciso con il positivo esito di un’altra, parallela vicenda normativa, di radice comunitaria, cui quella principale – oggetto precipuo di questo commentario – ha fatto ombra
nel dibattito politico e dottrinale: si tratta dell’attuazione della dir. 2003/41/CE, relativa alle
attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali ( 5 ).
Di quest’ultimo provvedimento ( 6 ), pubblicato mentre il presente commentario veniva licenziato per la stampa – si è potuto tener conto solo in parte e con discontinua analiticità nei diversi contributi: maggiore e quasi esaustiva, con
riferimento all’impatto sulla disciplina dei mo( 3 ) V. Montaldi, sub art. 23, comma 3o ss., in
questo Commentario; Occhino, sub art. 20, comma
1o ss., in questo Commentario.
( 4 ) V., in proposito, Ferrante, sub art. 8, comma
7o, in questo Commentario; Garcea, sub art. 10,
comma 2o, in questo Commentario.
( 5 ) V., in dottrina, Loi, La direttiva sulle attività e
sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o
professionali, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, 55;
Sgroi, La trasferibilità della posizione previdenziale
individuale nel mercato comune, in La previdenza
complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 83 ss.
( 6 ) D.lgs. n. 28/07, pubbl. in G.U. n. 70, del 23
marzo 2007.
delli gestionali ( 7 ); episodica e non organica,
con riferimento all’attività transfrontaliera ( 8 ). I
profili sanzionatori, invece, che pure costituiscono uno specifico e corposo filone normativo
del decreto in parola ( 9 ), sono stati trattati con
approccio inusuale, ma utile quantomeno in
chiave pratico-operativa: confermando una
scelta ricorrente nei commentari di livello scientifico, si è infatti deciso di limitare l’analisi a due
soli blocchi disciplinari, quello lavoristico-previdenziale e quello tributario ( 10 ), tralasciando
le disposizioni di carattere sanzionatorio, in
specie quelle penali. Il notevole rilievo pratico
di tali norme, tuttavia, ha consigliato di includere nel commentario una sorta di sinossi destinata ad offrire al lettore (non specialista) un quadro essenzialmente descrittivo, privo di pretese
critico-ricostruttive, dell’apparato sanzionatorio, come innovato dal decreto attuativo della
cennata direttiva comunitaria.
Nonostante le richiamate limitazioni, questo
commentario ha un impianto organico e generale, quanto organico e di amplissimo raggio è il
provvedimento legislativo che ne costituisce
l’oggetto: un decreto legislativo – il d.lgs. n.
252/05 (d’ora in avanti: decreto) – al quale la
legge delega consegnava l’obiettivo generale di
« sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari », ma che nel contempo, senza per questo eccedere dai limiti della delega, ha trasfuso in un nuovo testo organico
la disciplina della previdenza complementare,
sostituendo il d.lgs. n. 124/93 ( 11 ).
Si trattava di innestare sull’esistente tronco
normativo le misure e i rimedi necessari per fare
del « secondo pilastro » del sistema previdenziale italiano, da realtà poco più che virtuale,
una presenza di assoluto rilievo non solo nel sistema previdenziale, ma anche nel mercato dei
capitali. A tal fine, a quell’obiettivo generale veniva asservito l’obiettivo più specifico e preciso,
( 7 ) V. Corti, sub artt. 6, 7, 7 bis, in questo Commentario.
( 8 ) Vedine cenni in Bollani, sub art. 4; Pallini,
sub art. 14; Montaldi, sub art. 19; nonché passim.
( 9 ) Si tratta dei nuovi artt. 19 bis, 19 ter e 19 quater
del d.lgs. n. 252/05.
( 10 ) Affidato a Marchetti, di cui v. i commenti ai
pertinenti commi degli artt. 8, 10, 11, 14, 17, 21, 23.
( 11 ) V. Occhino, sub art. 21, comma 8o, in questo
Commentario.
La nuova disciplina della previdenza complementare
di « incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari... ». Lo strumento a ciò deputato veniva individuato nel conferimento volontario, esplicito o
cd. « tacito », del trattamento di fine rapporto
(d’ora in avanti: t.f.r.) alla previdenza complementare, prefigurandosi così, sia pure in maniera non obbligatoria, quella « previdenzializzazione » del t.f.r. che da tempo si intravedeva come approdo ultimo dell’istituto ( 12 ).
Ma questo è solo il profilo politicamente più
rilevante della riforma.
Molti altri ve ne sono, di rilievo sistematico e
problematicità non certo minori. E molti altri
ancora avrebbero potuto, e forse dovuto, esservene.
Anzi, è il caso di osservare fin d’ora come la
centralità politica del tema del conferimento del
t.f.r. alla previdenza complementare abbia prodotto un effetto perverso: quello di monopolizzare l’attenzione del legislatore, il quale si è dimostrato assai poco avvertito che la previdenza
complementare è un terreno ancora da dissodare, la cui immaturità sul piano dell’elaborazione
teorico-sistematica e delle stesse basi costituzionali si riflette inesorabilmente sul piano esegetico e pratico-operativo. Di ciò è chiaro indizio la
rinuncia del legislatore delegato a dar seguito a
quella parte della delega ( 13 ) che gli chiedeva,
contraddittoriamente, di attribuire ai fondi pensione la « contitolarità con i propri iscritti del
diritto alla contribuzione », e la « legittimazione
dei fondi stessi... a rappresentare i propri iscritti
nelle controversie aventi ad oggetto i contributi
omessi... ». Non c’è da stupirsi dell’impasse: ché
quello della natura giuridica (e dunque della
stessa titolarità) dei contributi di previdenza
complementare, e della disciplina giuridica da
applicarsi conseguentemente, era e rimane, uno
dei problemi sostanzialmente ancora aperti in
materia ( 14 ).
Come pure, non meno insidioso era il tema
delle prestazioni: un tema che il legislatore ha
affrontato con riguardo pressoché esclusivo alla
( 12 ) Per tutti, Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova, 2006, p. 570.
( 13 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 8).
( 14 ) Se ne occupa, in questo Commentario, Ferrante, sub art. 8. Per i profili fiscali, trattati nei commi 4o, 5o e 6o di questo articolo, v., sempre sub art. 8,
il commento di Marchetti.
539
definizione tipologica e dei requisiti di maturazione dei diritti pensionistici e di quelli preliminari e propedeutici a questi ( 15 ), trascurando
quasi del tutto i profili di stretto regime giuridico della prestazione pensionistica, se non, in ossequio alla delega e non senza una certa superficialità, limitatamente a quelli della cedibilità, sequestrabilità, pignorabilità, da assimilarsi al regime delle prestazioni di base ( 16 ).
2. – Nonostante le lacune ricordate nella presentazione, i profili implicati nel disegno riformatore non si limitano certo al conferimento
del t.f.r.
Al medesimo obiettivo specifico di « incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle
forme pensionistiche complementari », di cui la
cennata « previdenzializzazione del t.f.r. » costituiva strumento principale, si riconducevano,
infatti, altre misure finalizzate alla realizzazione
della piena concorrenzialità tra tutte le forme
pensionistiche complementari, previa « eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare », e riconoscimento al lavoratore del diritto
di destinare alla forma pensionistica prescelta il
contributo posto, dalle fonti istitutive delle forme pensionistiche collettive, a carico del datore
di lavoro ( 17 ).
E anzi, i temi della concorrenza tra forme collettive e forme individuali, e della libertà individuale di adesione e circolazione all’interno del
« circuito allargato » della previdenza complementare, erano nella legge delega ( 18 ), e si sono
( 15 ) Si allude al regime, oltre che delle prestazioni
complementari propriamente intese (ivi incluse le
prestazioni pensionistiche anticipate), a quelle erogate in forma di capitale, e alle anticipazioni della posizione pensionistica maturata: materia, questa, disciplinata dall’art. 11, su cui v. il commento di Tozzoli.
In senso ancora più ampio (ma sicuramente atecnico), si possono poi ricondurre alla nozione di « prestazione » anche i riscatti, disciplinati dall’art. 14,
commi 2o e 3o (4o e 5o per i profili fiscali). Vedi, i
commenti, rispettivamente, di Pallini e Ruggiero,
entrambi sub art. 14, in questo Commentario.
( 16 ) V. il commento di Tozzoli, sub art. 11, comma 10o.
( 17 ) V. i nn. 3) e 4) della lett. e) del comma 2o, art.
1, l. n. 243/04 (d’ora in avanti, l.d.).
( 18 ) V., per tutti, Persiani, La previdenza comple-
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d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
confermati essere nel decreto attuativo, tra i più
critici, anche per la forti interconnessioni con la
dimensione comunitaria del problema.
È stato alfine realizzato quel programma di
riunificazione di tutte le forme pensionistiche
complementari, collettive e individuali, prefigurato dal d.lgs. n. 47/00: adesso è pacifico che tra
le « forme pensionistiche complementari » disciplinate ab origine dal d.lgs. n. 124/93, e le
« forme pensionistiche individuali » introdotte
dal d.lgs. n. 47/00, non si pone un rapporto di
complementarità, ma di continenza (delle seconde nelle prime).
È stato definitivamente spezzato l’equilibrio
sul quale si basava l’impianto originario della
nostrana previdenza complementare: un equilibrio che poggiava sulla distinzione funzionale
tra le « forme pensionistiche complementari »,
destinate esclusivamente a soggetti in condizione professionale, e le « forme pensionistiche individuali », destinate, invece, sia a soggetti in
condizione professionale ma privi della possibilità di aderire a forme collettive, sia a soggetti in
condizione non professionale ( 19 ). Si è in suo
luogo creato un mercato – imperfetto e asimmetrico – della previdenza complementare, che
opera su due arene: quella della gestione finanziaria dei capitali accumulati, in cui competono
ordinariamente i soli soggetti for profit a ciò abilitati ( 20 ); e quella in cui prendono corpo, con
modalità eterogenee (tramite aggregazione collettiva o tramite filiazione interna a soggetti for
profit), le forme e le strutture deputate a far da
tramite tra la prima arena e i destinatari della
previdenza complementare (i fondi pensione) ( 21 ): la zona, si direbbe, eminentemente (ma
mentare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario,
in Arg. dir. lav., 2001, pp. 715 ss.
( 19 ) Per questa ricostruzione, ancora sostenibile in
vigenza del d.lgs. n. 47/00, v. Tursi, La previdenza
pensionistica privata: forme complementari e forme individuali, in Riv. dir. sic. soc., n. 1/02, p. 111 ss.
( 20 ) V. gli artt. 6, 7, 7 bis del decreto, commentati
da Corti. La nuova disciplina di matrice comunitaria ha imposto tuttavia, su questo punto, una maggiore apertura verso la gestione diretta delle risorse da
parte dei fondi pensione. V. avanti, par. 10.
( 21 ) La forzatura insita nell’assimilazione tra le forme collettive e quelle individuali è palese nella pretesa di battezzare come « fondi pensione » anche le
forme pensionistiche complementari istituite me-
non più esclusivamente) « lavoristica » della
materia.
È proprio in questa nuova dislocazione sistematica della materia che risiede, a ben vedere, il
dato più qualificante della riforma: è da esso
che derivano, come corollari, la possibilità di
aderire a una forma individuale anche qualora
sia applicabile al rapporto di lavoro una fonte
istitutiva di una forma collettiva; il principio
della cd. « portabilità » del contributo datoriale
stabilito dalla fonte collettiva, in caso di adesione espressa o trasferimento a una forma pensionistica individuale ( 22 ); la omogeneizzazione
delle diverse forme pensionistiche in materia di
trasparenza e comparabilità; la razionalizzazione, in termini di unitarietà e omogeneità, del sistema di vigilanza sull’intero settore della previdenza complementare ( 23 ); in qualche misura, lo
stesso ridisegno della disciplina fiscale e (ma in
modo del tutto insufficiente, per questo aspetto) del sistema di governance.
3. – Le questioni esegetiche e i nodi problematici affrontati nel commentario sono innumerevoli, e non è certo possibile né utile ripercorrerli tutti in questo scritto introduttivo. È invece
utile tentare di isolare le questioni centrali, di
maggiore rilievo sistematico e anche costituzionale, che il decreto ha ereditato, in parte, dall’assetto normativo preesistente, e in parte dalla
legge delega.
La questione forse cruciale, com’è ampiamente noto, era e resta quella del fondamento costituzionale della previdenza complementare ( 24 ).
Non stupisca il lettore se, in questa sede, ci si limita ad una osservazione lapidaria, ma che ci
sembra riassumere lo stato dell’arte sia normativo che dottrinale sul punto: la questione, se impostata nei termini dicotomici della ascrizione
alternativa al 2o o al 5o comma dell’art. 38 Cost.,
col corollario altrettanto polarizzato della vo-
diante contratti di assicurazione sulla vita con finalità
previdenziale (v. artt. 1, comma 4o, e 13).
( 22 ) V., su questi profili, i commenti di Pallini,
sub artt. 12, 13 e 14.
( 23 ) V. Montaldi, sub art. 19, in questo Commentario.
( 24 ) V., da ult., anche per i riferimenti bibliografici, Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova,
2004.
La nuova disciplina della previdenza complementare
lontarietà o della obbligatorietà dell’adesione, è
semplicemente irrisolvibile; o forse meglio: mal
posta.
Ci sembra, insomma, che anche le analisi condotte in questo commentario finiscano per confermare – sia pure talvolta con una certa prevalenza di accenti critici o perplessi ( 25 ) – che la
domanda giusta da porre onde inquadrare correttamente e costruttivamente il problema della
rilevanza costituzionale della previdenza complementare non sia tanto « come conciliare la
necessità costituzionale della previdenza sociale
con la sua facoltatività, quanto « come rendere
effettivo un pilastro di previdenza “sociale-privata” » ( 26 ).
Questo è un approccio al tema, che si rivela
particolarmente fecondo: lo dimostrano, per
esempio, le conclusioni cui pervengono le analisi che evidenziano, per un verso, l’incompletezza (anche sotto il profilo istituzionale-normativo) del grado di copertura della previdenza
complementare a cospetto della frammentazione tipologica del mondo del lavoro ( 27 ), e per
l’altro, il persistente deficit di democrazia economica che caratterizza la previdenza complementare, sia sotto il profilo finanziario ( 28 ), che
sotto il profilo della governance ( 29 ).
Sotto un diverso profilo, un approccio alla rilevanza costituzionale della previdenza complementare declinato in termini di « effettività »
della tutela, consente di inquadrare correttamente i problemi di qualificazione e trattamento giuridico della prestazione complementare,
ponendone in rilievo la specificità e peculiarità
rispetto (non solo a quelli della retribuzione, ma
( 25 ) V. soprattutto Bonardi, sub art. 1; ma anche
Tozzoli, sub art. 11.
( 26 ) V., su tale linea di pensiero, Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in
Bessone e F. Carinci, La previdenza complementare, Torino, 2004, p. 3 ss.; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale,
Milano, 2001, cap. 1.
( 27 ) Bonardi, sub art. 2, in questo Commentario.
( 28 ) Corti, sub art. 6, in questo Commentario,
spec. § 7; ancora Bonardi, sub art. 1, par. 4, che critica, per es., la incondizionata e drastica limitazione
della possibilità per i fondi pensione di acquisire il
controllo su società rispetto alle quali non si configurino situazioni di conflitto d’interesse.
( 29 ) V. Bruni, sub art. 5, in questo Commentario.
541
anche) a quelli della contribuzione ( 30 ), in ragione della rilevanza diretta (e non mediata da
un’obbligazione lavoristicamente corrispettiva,
sia pur non retributiva) della finalità previdenziale ( 31 ): donde i coerenti corollari, per es., in
tema di (più stretto) raccordo con la tipologia e
i requisiti delle prestazioni di base ( 32 ), o di assimilazione al regime delle medesime prestazioni
di base in tema di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità ( 33 ).
D’altro canto, un siffatto approccio consente
anche di mettere a fuoco talune incongruenze
legislative ( 34 ), tra le quali spicca l’allentamento
dei vincoli, anche fiscali, per le prestazioni in
capitale ( 35 ), che si pone in rotta di collisione
perfino con la pur liberale impostazione comunitaria ( 36 ).
( 30 ) Sui quali v., invece, Ferrante, sub art. 8, in
questo Commentario, spec. par. 2.
( 31 ) V., per questa impostazione, v. Tursi, Il regime giuridico delle prestazioni di previdenza complementare, in Prev. ass. pubbl. priv., n. 2/04, p. 405 ss.
( 32 ) Un raccordo che il riformatore del 2005 ha voluto rafforzare anche con riferimento alla disciplina
dei riscatti, visto che l’art. 14, comma 2o del decreto
assoggetta il diritto al riscatto della posizione maturata a condizioni più restrittive rispetto a quanto previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 124/93. Sul punto, v. Pallini, sub art. 14, commi 1o ss., in questo Commentario, e, per il profilo fiscale, Ruggiero, sub art. 14,
commi 4o e 5o, in questo Commentario.
( 33 ) Un’assimilazione, peraltro, non priva di profili
problematici, soprattutto connessi alla distinzione,
operata da Corte cost. n. 506/02 – si badi – internamente alla prestazione obbligatoria di base, tra un regime di indisponibilità afferente ai « mezzi adeguati
alle esigenze di vita », e un regime di minor vincolo,
afferente al livello di tutela eccedente i « mezzi adeguati ». V., su tutti questi profili, Tozzoli, sub art.
11, in questo Commentario.
( 34 ) Una tra le più significative incongruenze, peraltro imputabile interamente alla l.d. ed estranea al
profilo della effettività, è quella della incompatibilità,
col diritto comunitario, della differenziata età pensionabile nella previdenza complementare, (re)introdotta dal legislatore italiano con l’art. 1, comma 6o, lett.
b), n. 1), l.d. V., sul punto, Bonardi, sub art. 2, e
Tozzoli, sub art. 11, citt.
( 35 ) V., rispettivamente, Tozzoli, op. cit., par. 9;
Marchetti, sub art. 11, comma 6o, in questo Commentario.
( 36 ) V., in particolare, il 13o « considerando » e
l’art. 6, lett. d) della dir. 2003/41/CE.
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d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
4. – I rilievi appena svolti, vanno peraltro calibrati tenendo conto di una seconda linea normativa, che pure emerge in maniera chiarissima
dalla riforma, e che si contrappone dialetticamente alla prima: la linea della valorizzazione
dell’autonomia e libertà individuale nelle scelte
attinenti alla previdenza complementare.
Si tratta di una linea a sua volta strettamente
collegata alla dimensione concorrenziale della
materia: la considerazione della previdenza
complementare sub specie di servizio contendibile sul mercato, che è notoriamente alla base
dell’impostazione comunitaria, sia in sede legislativa ( 37 ), sia in sede giurisprudenziale ( 38 ),
evoca infatti, con tutta evidenza, il profilo della
libertà di scelta del singolo. E anzi, tale profilo è
chiamato in causa perfino da chi, ponendosi in
posizione critica nei confronti della tendenza
egemonica della dimensione mercantile-concorrenziale a scapito di quella previdenziale-lavoristica, legge la valorizzazione della libertà individuale proprio in funzione della titolarità individuale del diritto a « mezzi adeguati alle esigenze
di vita », che non tollererebbe vincoli quanto alla scelta di destinare i propri risparmi a tutte,
indistintamente, le finalità previdenziali sancite
dall’art. 38 Cost. ( 39 ).
Ad ogni modo, quale che sia l’esatta collocazione valoriale e costituzionale della linea « individualistica », ad essa fanno certamente capo
alcune tra le innovazioni normative di maggior
rilievo della riforma, che si registrano soprattut-
( 37 ) Basti il semplice dato della base giuridica della
dir. 2003/41/CE: non l’art. 137, par. 1, lett. c), TCE,
relativo a « sicurezza sociale protezione sociale dei lavoratori » – che avrebbe imposto peraltro l’unanimità ai sensi del par. 2, lett. b), 2o periodo –; ma gli artt.
47, par. 2 (diritto di stabilimento), 55 (libera prestazione dei servizi) e 95, par. 1 (ravvicinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative..., che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune »).
( 38 ) La Corte di giustizia ha sviluppato un corposo
filone giurisprudenziale avente sostanzialmente a oggetto la compatibilità dei monopoli sindacali in materia di previdenza complementare, con il diritto comunitario della concorrenza: v., per tutti, Giubboni,
Fondi pensione e competition rules comunitarie, in La
previdenza complementare, a cura di F. Carinci, cit.,
p. 110 ss.
( 39 ) V. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, spec. par. 7.
to in tema di scelta della forma pensionistica
complementare e di mobilità all’interno del sistema di previdenza complementare. Meno univoco è il quadro che, sotto questo profilo, offre
invece la disciplina della contribuzione e delle
prestazioni, intese queste ultime in senso ampio
(comprensivo, cioè, dei diritti prodromici rispetto a quello pensionistico ( 40 )). Mente segnato da qualche fraintendimento teorico o pregiudizio ideologico appare il nuovo (ma è veramente tale?) assetto delle fonti istitutive, che della
problematica in parola costituisce la cartina di
tornasole.
5. – In tema di libertà di adesione, alla già ricordata libertà di scelta della forma pensionistica complementare cui aderire inizialmente, fa
quasi da controcanto la rimodulazione del principio di libertà individuale di adesione alla previdenza complementare, imposta dalla regola
del cd. « conferimento tacito » del t.f.r. In base
a tale regola, il t.f.r. « maturando » del lavoratore che, nel semestre dall’assunzione (se assunto
dopo il 31 dicembre 2007) o dall’entrata in vigore del decreto (se in servizio a quella data), né
sceglie espressamente di mantenerlo, né sceglie
espressamente di conferirlo ad una forma pensionistica complementare, viene automaticamente devoluto ad una delle forme pensionistiche complementari collettive stabilite dall’art. 1,
comma 2o, lett. e), n. 2, l.d.
A questo proposito, le analisi condotte ( 41 )
confermano, intanto, che la libertà di adesione
resta elemento costitutivo della previdenza
complementare italiana ( 42 ), configurandosi il
meccanismo del conferimento tacito, tutt’al più,
( 40 ) Per la distinzione tra aspettative non tutelate,
che riflettono la fattispecie a formazione progressiva
del diritto a pensione, e « il completamento dei requisiti di una fattispecie ad hoc, di origine legale o
convenzionale, produttiva di un’ulteriore ipotesi di
diritto acquisito », v. Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 540,
sulla scia di Persiani, Aspettative e diritti nella previdenza pubblica e privata, in Arg. dir. lav., 1998, p. 311
ss., spec. p. 342 ss.
( 41 ) Da Bollani, sub art. 3, comma 3o; e da Ferrante, sub art. 8, comma 7o.
( 42 ) V. art. 3, comma 3o, e il commento di Bollani, in questo Commentario.
La nuova disciplina della previdenza complementare
come una deroga meramente formale ( 43 ) e parziale ( 44 ).
Ma è probabile che nemmeno sia necessario
parlare di « deroga »: ché deroga al principio di
libertà individuale di adesione si configurerebbe solo se di questo principio si desse una interpretazione ostativa nei confronti di previsioni
dell’autonomia collettiva, che dispongano una
iscrizione sospensivamente condizionata al
mancato dissenso espresso del lavoratore soggetto al suo ambito di applicazione. Una interpretazione di quel principio, meno rigida di
quella di fatto affermatasi nella vigenza del d.lgs. n. 124/93, avrebbe già di per sé spianato la
strada alla cd. « adesione tacita » ai fondi pensione, con conseguente devoluzione integrale
del t.f.r., indipendentemente da una previsione
legislativa.
Invero, la contraria opinione che è prevalsa, è
essa stessa sintomo della diffusa propensione a
concepire l’autonomia collettiva come vincolo
(normativo) all’autonomia negoziale e non come espressione essa stessa di autonomia negoziale ( 45 ).
Questa considerazione conduce direttamente
( 43 ) Considerata l’idoneità del consenso informato, garantito da varie disposizioni del decreto, a realizzare una sostanziale equiparazione del « silenzio »
al « consenso esplicito » del lavoratore. Così, già
Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla
previdenza complementare, a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv.,
n. 2/06, p. 186 ss.
( 44 ) Perché non formulata in termini di obbligatorietà dell’adesione a una forma pensionistica complementare, pubblica o privata che sia (è il caso britannico, sui più recenti sviluppi del quale v., però, Pensions Commission, Implementing an integrated
package of pension reforms - The Final Report of the
Pensions Commission, in www.pensioncommission.org.uk: spec. il punto 3, dedicato alla proposta di un
« automatic enrolment at a national level »), ma piuttosto in termini di adesione collettivamente disposta,
ma condizionata al mancato dissenso individuale. E
parziale anche perché destinata a operare solo in caso
di adesione tramite conferimento del t.f.r.: non, per
esempio, in caso di adesione a una forma pensionistica complementare, da parte di un lavoratore che abbia a suo tempo optato per il « mantenimento » del
t.f.r. e non intenda revocare tale scelta.
( 45 ) V. Tursi, Autonomia contrattuale e contratto
collettivo di lavoro, Torino, 1996, p. 27 ss., p. 121 ss.,
e passim.
543
al tema delle fonti istitutive della previdenza
complementare: nella nuova disciplina della
materia, infatti, si riscontrano chiari indizi del
pregiudizio eteronomo sopra evocato.
6. – Senza pretesa di approfondire in questa
sede la tematica ( 46 ), ci limitiamo a evidenziare i
numerosi punti in cui quel pregiudizio è emerso, oppure ha, comunque, condizionato il dibattito de iure condendo, candidandosi conseguentemente a condizionare anche quello che
seguirà in sede interpretativa.
Conviene menzionare per primo, il punto più
strettamente collegato alla questione da ultimo
affrontata, della devoluzione tacita del t.f.r.
È da apprezzare la scelta legislativa di prevedere la devoluzione tacita del t.f.r. alla forma
pensionistica collettiva prevista dagli accordi o
contratti collettivi, anche territoriali, restando
così fedele all’impostazione dell’« Intesa Comune » tra le parti sociali del 17 febbraio 2005,
senza cedere all’impostazione favorevole a porre sullo stesso piano tutte le forme pensionistiche previste dall’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2,
l.d., in nome di un malinteso principio di libera
concorrenza tra tutte le forme pensionistiche
complementari.
È bene, intanto, chiarire che non si è trattato
di un cedimento al favor per la previdenza complementare di genesi collettivo-sindacale: si è
trattato semplicemente di rispettare l’autonomia negoziale di cui è espressione la fonte istitutiva collettiva applicabile al rapporto di lavoro,
per un verso, evitando di subordinarla a fonti
eteronome ( 47 ), e per l’altro, prendendo atto
che analogo meccanismo non potrebbe nemmeno logicamente concepirsi con riferimento alle
forme pensionistiche individuali, strutturalmente prive di canali di collegamento di stampo
rappresentativo con i destinatari della previdenza complementare.
È coerente con la scelta a favore dell’autonomia, anche la precisazione – invero superflua –
che fà salva la eventuale previsione di un « diverso accordo aziendale ». Il legislatore però
( 46 ) V., da ult., Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit. V. Bollani, sub art. 3,
in questo Commentario.
( 47 ) Quali le leggi regionali contemplate dall’art. 3,
comma 1o, lett. d) del decreto: v. avanti.
544
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
trova il modo di complicare il problema, prevedendo che detto accordo aziendale possa disporre « la destinazione del t.f.r. a una forma
collettiva tra quelle previste all’articolo 1, comma 2o, lett. e), n. 2), della legge 23 agosto 2004,
n. 243 » ( 48 ).
La norma è problematica, non solo sotto il
profilo della dubbia efficacia soggettiva di tale
accordo (v. avanti), ma anche e soprattutto perché è in contraddizione con la previsione immediatamente successiva (n. 2), ove si stabilisce
che « in caso di presenza di più forme pensionistiche di cui al n. 1), il t.f.r. maturando è trasferito » (sempre « salvo diverso accordo aziendale »), « a quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda ». La
contraddizione sta nel fatto che nel n. 1) si prevede che l’accordo aziendale possa derogare alla fonte istitutiva collettiva di livello superiore, o
comunque anteriore (prevedendo il conferimento del t.f.r. a una delle altre forme pensionistiche complementari contemplate dalla legge
delega), mentre nel n. 2) si pongono su un piede
di parità tutte le forme pensionistiche complementari di cui alla legge delega, e si individua,
come criterio di scelta, il sorprendente e problematico criterio del maggior numero di aderenti.
A siffatta barocca architettura, il legislatore è
stato indotto, appunto, dalla tendenza a concepire l’autonomia collettiva in termini non negoziali ma normativo-eteronomi, e, conseguentemente, il meccanismo del(l’adesione tramite) tacito conferimento (del t.f.r.) in termini, ancora
una volta, di applicazione di una fonte normativa, che prescinde dalla sussistenza di canali negoziali di collegamento alla volontà individuale.
Se avesse altrimenti ragionato, il legislatore
avrebbe semplicemente constatato che il t.f.r.
« inoptato » del lavoratore « silente » va conferito alla forma pensionistica istituita dalla fonte
negoziale che, in virtù di un meccanismo di
stampo rappresentativo, ha disposto l’adesione
del lavoratore medesimo, sia pure condizionandola sospensivamente alla mancata manifestazione del dissenso di quest’ultimo.
Così come, in caso di concorso-conflitto tra
una pluralità di fonti collettive, avrebbe constatato che nulla di nuovo tale problematica pre-
( 48 ) Così l’art. 8, comma 7o, lett. b), n. 1) del decreto.
senta rispetto all’ordinaria casistica del concorso-conflitto tra contratti collettivi (di uguale o
diverso livello) ( 49 ).
Nessun problema, infine, avrebbe posto la
eventuale presenza, tra tali fondi, di quelli « regionali ». Ma ciò evoca un ulteriore punto di
emersione della linea che qui si sta stigmatizzando, che merita una distinta riflessione.
Nella disposizione in tema di fonti istitutive si
riscontra, infatti, un singolare affastellamento,
in un unico elenco, di fonti istitutive in senso
proprio (quali i contratti collettivi, gli accordi
tra lavoratori, i regolamenti di enti o aziende ( 50 )), e di soggetti giuridici, privati ( 51 ) o
pubblici ( 52 ), che evidentemente fonti non sono.
Ammesso, poi, che il legislatore, quando menziona, poniamo, « le regioni » tra le « fonti istitutive », voglia alludere alle leggi regionali, c’è
allora da stigmatizzare la sua assenza di imbarazzo nell’assimilare fenomeni così diversi come, da un lato, gli atti d’autonomia negoziale,
collettiva o individuale, istitutivi di forme pensionistiche complementari collettive o individuali, e un atto normativo quale la legge regionale o il diverso provvedimento pubblicistico
col quale le regioni riterranno di dare seguito alla previsione legislativa.
Peraltro, il legislatore (ma, in questo caso, più
quello delegante che quello delegato) mostra
anche di ritenere che l’attribuzione alle regioni
di competenze legislative concorrenti con quelle dello Stato, in materia di « previdenza complementare e integrativa », operata dal nuovo
art. 117 della Costituzione « federalista » ( 53 ),
( 49 ) Bollani, sub art. 3, cit.; Ferrante, sub art. 8,
comma 7o, cit.
( 50 ) V., nell’art. 3, comma 1o, le lett. a), b), c) e f).
( 51 ) Come gli enti privati gestori di previdenza obbligatoria, di cui ai dd.llgs. n. 509/94 e n. 103/96; e,
con salto logico-sistematico, i soggetti finanziari abilitati alla istituzione, mediante delibera costitutiva di
un « patrimonio autonomo e separato » (che dunque
è, questa sì, la « fonte istitutiva »), di forme pensionistiche complementari individuali. V. le lett. g), h), i)
dell’art. 3, comma 1o.
( 52 ) Si tratta niente meno che delle « regioni », le
quali « disciplinano il funzionamento » delle « forme
pensionistiche complementari » da esse presumibilmente istituende, « con legge regionale ».
( 53 ) V. F. Carinci, Aspetti problematici e prospettive de iure condendo, in La previdenza complementare, cit., p. XXV ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
implichi una sorta di competenza all’istituzione,
anziché alla regolazione normativa, della forme
pensionistiche complementari.
Questo « equivoco della regionalizzazione »
della previdenza complementare, andrebbe respinto constatandosi, per un verso, l’assenza di
deleghe legislative in tema di riforma dell’assetto delle fonti istitutive della previdenza complementare, e per l’altro, che nella disposizione delegata non si legge (nonostante l’inclusione nell’articolo dedicato alle fonti istitutive) una attribuzione di competenze istitutive, ma solo di
competenze regolative: si stabilisce, infatti, che
« le regioni... disciplinano il funzionamento di
tali forme pensionistiche complementari con
legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia » ( 54 ); ma nulla si dice quanto
a modalità istitutive e costitutive di tali forme
pensionistiche. Sicché non sarebbe affatto peregrina, sul piano teorico, e sarebbe certamente
saggia sul piano pratico, la tesi secondo cui le
regioni potranno utilizzare, per l’istituzione di
tali fondi regionali, nulla più che gli strumenti
negoziali deputati alla creazione di forme collettive o individuali: per esempio, promuovendo
fondi negoziali, o partecipando ai soggetti istitutori di fondi aperti.
Né contraddice tale assunto l’istituzione, prevista direttamente dall’art. 9 del decreto ( 55 ), di
una « forma pensionistica complementare residuale presso l’INPS »: un fondo di default cui
vanno devolute le quote di t.f.r. maturando da
conferirsi tacitamente, nell’ipotesi in cui non
abbia potuto operare il tacito conferimento né a
fondi pensione istituiti da contratti collettivi, né
a fondi pensione aperti ad adesione collettiva,
né a fondi « regionali » ( 56 ). È vero, infatti, che
si prevede, in proposito, una modalità istitutiva
sicuramente non negoziale e pubblicistica; ma è
( 54 ) Quid, tra l’altro, ove si ritenesse che l’assetto
delle fonti istitutive, oltre ad essere materia estranea
alla delega, è anche afferente ai « principi fondamentali » della previdenza complementare, attratta pertanto nelle competenze statali esclusive?
( 55 ) V. pure l’art. 1, comma 765o, della l. n.
296/06, attuato dal decreto del Ministro del lavoro,
di concerto col Ministro dell’economia e delle finanze, del 30 gennaio 2007, che ha concretamente istituito e disciplinato, per quanto di competenza, FONDINPS.
( 56 ) Per esempio, a causa dell’inesistenza o inope-
545
anche vero che FONDINPS, nonostante la disposta applicazione « integrale » delle disposizioni del decreto, è un fondo largamente extrasistemico, di carattere eccezionale, con innegabili peculiarità anche operative, come dimostra
anche l’esclusione dall’elenco delle fonti istitutive (e dei soggetti) contenuto nell’art. 3 del decreto ( 57 ).
ratività di tali fondi, o di previsioni negoziali idonee a
rendere operativo il meccanismo del conferimento
tacito.
( 57 ) V., sul punto, Garcea, sub art. 9, in questo
Commentario. In verità, avevamo prospettato una diversa lettura della delega di cui all’art. 1, comma 2o,
lett. e), n. 7), l.d.: che, cioè, si prevedesse la costituzione di un fondo di previdenza obbligatoria integrativa, cui devolvere non semplicemente le quote di
t.f.r. « inoptate », ma quelle che il lavoratore avesse
espressamente deciso di non devolvere alla previdenza complementare, determinandosi, così, la necessitata « previdenzializzazione » del t.f.r. (v. Tursi, La
terza riforma, cit., p. 535, nt. 51): il che risultava compatibile con la lettera della norma, che alludeva a
« forme pensionistiche » costituite presso « enti di
previdenza obbligatoria », non qualificate come
« complementari ». Ciò avrebbe avvicinato il sistema
italiano a quello britannico, ove, appunto, opera un
regime di obbligatorietà della previdenza complementare, con possibilità, per il singolo, di optare (opting out) per l’adesione, anziché (o anche in aggiunta:
contracted in) allo schema pubblico della State Second
Pension (S2P), ad un fondo aziendale o ad un piano
pensionistico personale. V. Vianello, I fondi pensione nelle esperienze nazionali europee, in La previdenza
complementare, cit., pp. 181 ss. E tuttavia, a ben vedere, la prospettiva da noi evocata emerge in filigrana
dalla successiva istituzione del « fondo-tesoreria » di
cui al comma 755o dell’articolo unico della l. n. 296/
06: se è vero, infatti, che detto fondo è ben lungi, nella configurazione attuale, dal costituire una forma
pensionistica complementare, è anche vero che il
comma 760o del medesimo articolo unico della legge
finanziaria per il 2007 preannuncia, con tono vagamente minaccioso, la « costituzione di una eventuale
apposita gestione INPS, alimentata con il t.f.r., dei
trattamenti aggiuntivi a quelli della pensione obbligatoria definendo un apposito fondo di riserva ». La via
italiana alla definitiva previdenzializzazione del t.f.r.
è, così, già virtualmente tracciata: tutto dipenderà –
precisa il predetto comma 760o – da quanto attesteranno « i dati relativi alla costituzione e ai rendimenti
delle forme pensionistiche complementari di cui all’articolo 3 del d.lgs. n. 252/05 », nonché dalla « consistenza finanziaria e le modalità di utilizzo del Fondo di cui al comma 755o ».
546
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Sempre con riferimento alla disciplina delle
fonti istitutive, il basic misunderstatement nei
confronti dell’autonomia collettiva emerge anche nella precisazione, operata con riferimento
ai « contratti collettivi aziendali », che la loro efficacia di fonti istitutive operi « limitatamente ...
anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli
stessi ».
Questo inciso si fonda, a nostro avviso, su una
errata ricostruzione dell’efficacia del contratto
collettivo (anche) aziendale: esso presuppone,
infatti, che detto contratto goda istituzionalmente di efficacia erga omnes, quando invece la
sua normale applicazione di fatto a tutti i dipendenti del datore di lavoro si spiega iure communi con la normale portata migliorativa delle condizioni di lavoro, che induce i lavoratori ad accettarlo o a chiederne l’applicazione anche se
non affiliati ai sindacati stipulanti.
Ne discendono due equivoci.
Il primo equivoco sollevato (o meglio presupposto) dall’inciso di cui all’art. 3, comma 1o,
lett. a) del decreto, è che non v’è alcun bisogno
di riconoscere ai lavoratori eventualmente dissenzienti – che, beninteso, non siano vincolati al
contratto in virtù di affiliazione sindacale o rinvio (espresso o tacito) alla disciplina collettiva –,
una facoltà di opting out che il diritto comune
vigente non gli nega; il secondo, è che il problema immaginato dal legislatore, in realtà, non si
pone nemmeno in astratto, perché l’istituzione
di un fondo pensione attribuisce un diritto (di
aderire al fondo pensione), non un obbligo o un
vincolo.
Come tutti gli equivoci, poi, nemmeno questo
manca di produrre un effetto « perverso », consistente in una contraddizione sistemica con
un’altra previsione del decreto: quella dell’art.
8, comma 7o, che, nel disciplinare la modalità
tacita di conferimento del t.f.r., rimette ad un
« accordo aziendale » la possibilità di disporre
la destinazione del t.f.r. a una forma pensionistica collettiva diversa da quella negoziale operante in azienda, e da individuarsi tra quelle previste dall’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2) della legge delega. Qui si postula, al contrario, un’efficacia dell’accordo aziendale non già limitata ai soli
soggetti (o lavoratori) firmatari dell’accordo
medesimo (come previsto dall’art. 3, comma 1o,
lett. a), bensì estesa a tutti i lavoratori: proprio
per questa ragione, infatti, il datore di lavoro ha
l’onere di notificare l’accordo derogatorio ai la-
voratori, « in modo diretto e personale ». Ma
non si vede quale coerenza vi sia nel riconoscere
(iure communi) l’efficacia soggettivamente limitata dell’accordo aziendale istitutivo di un fondo pensione, e attribuire invece (in deroga al diritto comune dell’autonomia collettiva) efficacia
erga omnes all’accordo aziendale che deroga al
primo, destinando il t.f.r. a una forma pensionistica collettiva diversa da quella negoziale operante in azienda.
7. – Infine, la linea in parola emerge con riferimento a uno dei punti più caldi della riforma:
quello della cd. « portabilità » del contributo
contrattualmente imposto al datore di lavoro, in
caso di adesione o trasferimento a una forma individuale.
Accogliendo, ancora una volta, l’impostazione dell’« avviso comune » del luglio 2005 ( 58 ), il
legislatore delegato ha declinato il diritto alla
« portabilità » del contributo datoriale in termini di stretto condizionamento al volere della
fonte istitutiva collettiva: esso opera, infatti, solo « nei limiti e secondo le modalità stabilite dai
predetti contratti o accordi ». Così disponendo,
il legislatore delegato si è dimostrato più avveduto del delegante, avendo riconosciuto che
l’attribuzione all’autonomia collettiva del potere di allocare secondo le proprie preferenze e
convenienze le risorse contrattate con la parte
datoriale, lungi dal costituire un odioso privilegio anticoncorrenziale, null’altro è che un portato naturale (anzi, l’ubi consistam) della libertà
negoziale, garantita anche costituzionalmente
sub specie di libertà sindacale. Al contrario,
l’imposizione della libera circolazione del diritto al contributo, sradicato dalla sua fonte istitutiva, avrebbe implicato la riduzione della contrattazione collettiva a mera fattispecie di un effetto normativo, imputato ad essa direttamente
dalla legge.
I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega, che pure si pongono con riferi( 58 ) Impostazione che era stata, invece, sorprendentemente rovesciata nel Consiglio dei Ministri del
6 ottobre 2005, provocando il rinvio di 1 mese del varo del decreto. Su questa vicenda, v. il dibattito ospitato da La voce.info con articoli di Ichino e Tursi, e
interventi, tra gli altri, di Ferrante e Squeglia (in
www.lavoce.info, sezione « pensioni », articoli del 6
ottobre e del 7 novembre 2005).
La nuova disciplina della previdenza complementare
mento all’incondizionato disposto della l.d.,
possono poi forse ritenersi superati alla luce
della considerazione che tanto il decreto, quanto la stessa l.d., riferiscono la portabilità – quanto meno nell’ipotesi dell’adesione tramite conferimento del t.f.r. – al « contributo » cui il lavoratore abbia « diritto » ( 59 ): il che potrebbe
suggerire che la portabilità era destinata a operare solo in presenza di un « diritto » al contributo, che può considerarsi esistente solo se attribuito dalla fonte istitutiva, e alle condizioni
da questa stabilite ( 60 ).
Si pone tuttavia, a nostro avviso, qualche problema ulteriore con riferimento alla modalità
operativa della « portabilità » in caso di trasferimento e, ancor più, in caso di adesione a una
forma pensionistica complementare individuale.
Con riferimento alla fattispecie del trasferimento ad altra forma pensionistica complementare della posizione maturata, si deve registrare
l’omessa considerazione del trasferimento conseguente al venir meno dei requisiti di partecipazione (art. 14, comma 2o, lett. a) ( 61 ): ciò è un
effetto dell’analoga omissione della l.d., a suo
tempo da noi evidenziata ( 62 ); e ci pare lacuna
superabile solo in via analogica ( 63 ).
La disciplina delle forme pensionistiche complementari individuali solleva invece un problema ancora diverso, e a nostro avviso più delicato ( 64 ): l’omesso condizionamento, in questo caso, del diritto alla portabilità del contributo datoriale, ai « limiti » e alle « modalità stabilite dai
contratti... collettivi » ( 65 ).
( 59 ) V. l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 3) della l.d., e
l’art. 8, comma 10o del decreto.
( 60 ) Sulla questione, v. Pallini, sub art. 14, cit.
( 61 ) Il decreto si preoccupa di disciplinare, con
l’art. 14, comma 6o, il diritto alla portabilità, solo con
riferimento all’ipotesi del trasferimento « libero ».
( 62 ) Tursi, La terza riforma, cit., p. 540.
( 63 ) Estendendo, cioè, per analogia la norma delegante anche all’ipotesi omessa, e così legittimando la
corrispondente estensione analogica della norma delegata.
( 64 ) Meno pessimista, sul punto, la valutazione di
Pallini, sub art. 14 e sub artt. 12-13, in questo Commentario.
( 65 ) Nessun riferimento a tali limiti e modalità è infatti contenuto negli artt. 12, comma 1o, e 13, comma
4o. Per chiarezza, esplicitiamo l’ipotesi controversa
che potrebbe verificarsi: quella del lavoratore che abbia a suo tempo optato per il mantenimento del t.f.r.,
547
Non ci sembra scontato che si possa sanare
l’omissione facendo riferimento, anche in questo caso, alla previsione della l.d., secondo cui la
portabilità opera con riferimento al contributo
datoriale cui « il lavoratore abbia diritto » ( 66 ),
perché in questo caso non si tratterebbe di giustificare la positiva previsione, da parte del legislatore delegato, di un condizionamento non
espressamente previsto dalla legge delega, onde
escluderne l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega, ma di utilizzare direttamente la
previsione della legge delega per estendere il
condizionamento anche ad una ipotesi non prevista, e anzi diversamente disciplinata, dal decreto; naturalmente, con le immancabili conseguenze di illegittimità costituzionale per irragionevole disparità di trattamento tra situazioni
analoghe, che ne deriverebbero ( 67 ).
8. – Anche nella disciplina delle prestazioni
(intese in senso ampio) si rinvengono tracce di
un apparente favore per la libertà individuale,
da conciliare, peraltro, con la già segnalata restrizione dei requisiti pensionistici in termini di
accentuata funzionalizzazione rispetto alle prestazioni di base ( 68 ).
Si è già detto dell’allentamento dei vincoli alla
prestazione in capitale ( 69 ).
Una importante novità è costituita, però, anche dalla previsione ( 70 ) del diritto al pensionamento complementare anticipato (rispetto ai requisiti ordinari), in caso di « cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione
per un periodo di tempo superiore a 48 mesi »:
e che, dopo avere successivamente revocato tale scelta (come ammesso dall’art. 8, comma 7o, lett. a), 2o
periodo del decreto), decida di aderire a una forma
pensionistica complementare individuale. Non operando in questo caso la previsione di cui all’art. 8,
comma 10o – che è riferita all’ipotesi del conferimento tacito –, parrebbe operare, ai sensi dell’art. 12,
comma 1o, 2o periodo, e dell’art. 13, comma 4o, 2o
periodo, un regime di portabilità non condizionata a
« limiti » e modalità » imposte dalla contrattazione
collettiva!
( 66 ) Così invece, perentoriamente, Pallini, sub
art. 14, cit.
( 67 ) V. ancora, e questa volta del tutto condivisibilmente, Pallini, ibidem.
( 68 ) V. sopra, par. 3.
( 69 ) V. sopra, par. 3.
( 70 ) Di cui all’art. 11, comma 4o.
548
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
una previsione, peraltro, non priva di asperità
interpretative e di lacune ( 71 ).
Da non confondere con la nuova ipotesi del
pensionamento anticipato, è poi quella della
« anticipazione della posizione individuale maturata ».
Si tratta, in questo caso, della rimodulazione
di una figura già prevista dalla normativa previgente ( 72 ): una rimodulazione che si realizza, ancora una volta, nel segno di una complessivamente maggiore liberalità, sia rispetto al d.lgs.
n. 124/93 ( 73 ), sia, e soprattutto, rispetto a quella del t.f.r. ( 74 ).
( 71 ) Va segnalata, in particolare, l’omessa considerazione dell’ipotesi della « invalidità permanente che
comporti la riduzione della capacità di lavoro a meno
di un terzo », contemplata dall’art. 14, comma 2o,
lett. c), unitamente a quella di cui all’art. 11, comma
4o, come ipotesi di riscatto totale: riscatto tuttavia
inoperante nel quinquennio precedente la maturazione dei requisiti per il pensionamento, applicandosi,
in tal caso, proprio la previsione di cui all’art. 11,
comma 4o. L’imperfetto coordinamento tra le due
previsioni è risolvibile in via interpretativa, estendendo all’ipotesi dell’invalidità qualificata, il diritto al
pensionamento anticipato: v. Tozzoli, sub art. 11;
Pallini, sub art. 14.
( 72 ) Art. 7, comma 4o, del d.lgs. n. 124/93, su cui
v. le nostre considerazioni in Tursi, La previdenza
complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, p. 68 ss.
( 73 ) Per la causale « sanitaria » (invero qualificata
dalla ricorrenza di « gravissime situazioni » relative
agli stretti congiunti), mentre, da un lato, si pone il limite del 75% del montante accumulato, per l’altro
non è più richiesto un requisito di anzianità minima.
La restrizione quantitativa relativa alle altre causali
previste dall’art. 7, comma 4o del d.lgs. n. 124/93, è,
d’altro canto, compensata dalla previsione di una
causale sostanzialmente libera (« ulteriori esigenze
degli aderenti »), rimessa alla determinazione delle
fonti istitutive, nel limite del 30% del montante accumulato: v. Tozzoli, sub art. 11, cit. Per le causali « titolate », poi, vale il più favorevole regime fiscale introdotto dalla nuova normativa: v. Marchetti, sub
art. 11, comma 7o del decreto.
( 74 ) V. ancora Tozzoli, sub art. 11, cit.; Bonardi,
sub art. 1, cit. È da segnalare, anche a proposito di
questo istituto, l’ennesima dimenticanza del legislatore: non si trova traccia, nell’art. 11, comma 7o del decreto, della possibilità di conseguire un’anticipazione
della posizione maturata, per le spese da sostenere
durante i periodi di fruizione dei congedi formativi,
di cui agli artt. 5 e 6 della l. n. 53/00: possibilità che
l’art. 7, comma 2o di quella legge rimette agli « statuti
Le pur legittime perplessità che le segnalate
aperture suscitano in considerazione del possibile pregiudizio che esse implicherebbero nei
confronti della finalità previdenziale – e quindi
dell’effettività della tutela pensionistica complementare ( 75 ) –, non tengono adeguatamente
conto, a nostro avviso, del contesto storico e
istituzionale in cui è destinato a realizzarsi il decollo della previdenza complementare in Italia.
In questo contesto, gioca un ruolo imprescindibile la presenza di un istituto – il t.f.r. – che ha
costituito e costituisce, di per sé, una delle ragioni del mancato decollo della previdenza
complementare; ma che, nel contempo, costituisce una opportunità – un « cancello istituzionale », è stato efficacemente detto – per agevolare la creazione di un « funded pillar » che affianchi il pilastro a ripartizione ( 76 ).
Orbene, la presenza di un cancello è condizione necessaria, ma non sufficiente per entrare
– sia pure come ospite invitato e non come predatore – nella cittadella della previdenza a ripartizione: this gate must be actually opened ( 77 ).
Le apparenti concessioni all’autonomia individuale e alla logica del mercato finanziario ( 78 ),
che si sono passate in rassegna, allora, devono
leggersi (quanto meno anche) alla luce della necessità di « forzare il cancello del t.f.r. ».
Fuor di metafora, non era pensabile che si potesse allestire un programma di rilancio della
delle forme pensionistiche complementari ». Pur
considerando che la previsione in parola non è stata
espressamente abrogata dal comma 8o dell’art. 21
(che abroga, invece, il d.lgs. n. 124/93), resta la difficoltà di applicazione, derivante dal differenziato regime fiscale introdotto dal d.lgs. n. 252/05 in funzione
delle diverse causali di anticipazione. Ciò potrebbe
addirittura indurre a prospettare una abrogazione tacita per incompatibilità con la disciplina sopravvenuta.
( 75 ) V. sopra, par. 3.
( 76 ) V. Ferrera e Jessoula, Italy: a Narrow Gate
for Path-Shift, in Immergut, Anderson e Schulze
(eds.), The Handbook of West European Pension Politics, Oxford, 2007, p. 396 ss., spec. p. 441 ss.
( 77 ) Ferrera e Jessoula, Italy: a Narrow Gate,
cit., p. 449.
( 78 ) Sulle quali v., con accenti molto critici, Pessi,
La previdenza complementare tra funzione costituzionale e concorrenza, in Mass. giur. lav., 2005, p. 484 ss.,
in dialogo con Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit.
La nuova disciplina della previdenza complementare
previdenza complementare, largamente fondato
sulla devoluzione semi-automatica del t.f.r., senza rendere la previdenza complementare almeno altrettanto allettante, per i lavoratori ( 79 ), del
t.f.r.; almeno altrettanto capace, per esempio, di
svolgere funzioni anche diverse da quelle strettamente pensionistiche, e assimilabili a quelle di
un « ammortizzatore sociale » improprio » ( 80 ).
È in questa chiave che si spiegano, del resto,
anche altri interventi di riforma, talvolta di sapore ingenuamente dirigistico, quali l’imposizione, alle forme pensionistiche complementari
che si candidino a essere « tacite » destinatarie
del t.f.r., dell’obbligo di investire i relativi accantonamenti « nella linea a contenuto più prudenziale », garantendo nel contempo « la restituzione del capitale e rendimenti comparabili...
al tasso di rivalutazione del t.f.r. »; ovvero la
previsione di « linee di investimento che consentano di garantire rendimenti comparabili al
tasso di rivalutazione del t.f.r. » ( 81 ).
9. – Che questa – la preoccupazione, cioè, di
rendere la previdenza complementare concorrenziale rispetto al t.f.r. – sia una delle ragioni
principali dell’allentamento dei vincoli alla libertà individuale, è confermato da quella che,
altrimenti, dovrebbe considerarsi come una
contraddizione sistematica all’interno della riforma: il rafforzamento del nesso funzionale tra
requisiti e tipologia delle prestazioni complementari, e quelle di base.
Ciò si registra non solo – come s’è già osservato – con riferimento alla disciplina dei requisiti
delle prestazioni, ma in maniera forse ancor più
evidente, nel ridisegno delle opzioni spettanti al
lavoratore in caso di cessazione dei requisiti di
( 79 ) Senza trascurare i datori di lavoro, per i quali
si è reso necessario predisporre un pacchetto di « misure compensative » della mancata disponibilità di
quel capitale a buon mercato costituito dall’accantonamento del t.f.r. Sull’art. 10, v. i commenti di Frignati e Garcea, in questo Commentario.
( 80 ) Ma proprio questo dato, dovrebbe alleggerire
le preoccupazioni di chi lamenta un vincolo ingiustificato alla destinazione previdenziale del risparmio
dei lavoratori. V., sul punto, Bonardi, sub art. 1, cit.
( 81 ) Art. 8, comma 9o, e art. 6, comma 8o, lett. a),
del decreto. V. Corti, sub artt. 6 e 7, in questo Commentario, par. 4.2.1.
549
partecipazione alle forme pensionistiche complementari.
La nuova disciplina dei riscatti e dei trasferimenti nelle ipotesi in cui « vengano meno i requisiti di partecipazione », infatti, registra un
complessivo arretramento, sotto il profilo della
libertà individuale, rispetto a quella contenuta
nell’art. 10 del d.lgs. n. 124/93.
Innanzi tutto, la possibilità di domandare il
riscatto della posizione maturata è adesso limitata a due gruppi di casi tipicizzati, in uno solo
dei quali, peraltro, è ammesso il riscatto totale:
si tratta delle medesime ipotesi in cui è ammesso il pensionamento anticipato, fungendo il limite temporale del quinquennio di distanza dalla maturazione del requisito pensionistico, da
spartiacque tra i due istituti ( 82 ).
Nelle diverse ipotesi, invece, di disoccupazione di durata compresa tra 12 e 48 mesi, o di collocazione in mobilità o cassa integrazione guadagni ( 83 ), il riscatto è ammesso solo nella misura massima del 50%.
La possibilità di domandare il (o meglio, la
possibilità che le fonti istitutive e costitutive
prevedano ipotesi di) riscatto (totale o parziale)
anche al di fuori delle ipotesi tipicizzate, tuttavia, pare fatta salva da una previsione di portata
apparentemente solo fiscale, e che finisce, invece, per assumere un significato sistematico di
tutto rilievo: quella del comma 5o dell’art. 14,
dove si riserva un trattamento meno favorevole
all’ipotesi del « riscatto per cause diverse da
quelle di cui ai commi 2o e 3o » ( 84 ).
In secondo luogo, la modalità stessa di fruizione del diritto in parola risulta essere fortemente
disincentivante, ai limiti dell’impraticabilità, oltre che dell’irragionevolezza: ché il diritto al riscatto pare assoggettato, nei casi di disoccupazione, a una condicio iuris che ne ritarda (oltre a
renderne incerta) la fruizione in misura francamente incompatibile con la funzione di ammortizzatore sociale affidatale dal legislatore ( 85 ).
Infine, la facoltà di domandare il trasferimen( 82 ) V. sopra, par. 8.
( 83 ) Si noti, peraltro, che la collocazione in CIG
non comporta, di per sé, la cessazione dei requisiti di
partecipazione alla forma pensionistica.
( 84 ) V. Pallini, sub art. 14; Ruggiero, sub art. 14,
comma 5o.
( 85 ) Analogo rilievo svolge Tozzoli, sub art. 11, in
relazione al pensionamento complementare anticipato.
550
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
to ad altra forma pensionistica, che dovrebbe
offrire tutela in tutti i casi in cui il lavoratore
perda i requisiti di partecipazione alla forma
pensionistica per una causa diversa da quelle
che danno luogo al riscatto, non sembra coprire
tutti i casi possibili. Essa infatti opera solo nel
caso che il lavoratore « acceda » a una « nuova
attività » ( 86 ): parrebbe, cioè, letteralmente non
più contemplata l’ipotesi generale di cui al combinato disposto dell’art. 10, comma 1o, lett. b) e
dell’art. 9, comma 2o, del d.lgs. n. 124/93.
Anche in questo caso, forse con un certo ottimismo, si auspica una interpretazione logico-sistematica, o più probabilmente un’integrazione
analogica della disposizione lacunosa, anche per
escludere censure di costituzionalità per irragionevole disparità di trattamento ( 87 ).
10. – Un cenno, infine, alla dimensione « comunitaria » del decreto in commento, che, come s’è detto nella « presentazione », non ha potuto, se non in parte, formare oggetto di adeguata considerazione in questo commentario.
In verità, a questo aspetto della materia non
era dedicata alcuna attenzione nella legge delega. Esso vi ha fatto irruzione, in extremis, a seguito della l. n. 29/06 (« legge comunitaria
2005 »), il cui art. 18 ha conferito la delega per
il recepimento della dir. 2003/41/CE ( 88 ).
Non v’è traccia peraltro, in tutto ciò, della dir.
98/49/CE, sulla salvaguardia dei diritti a pen-
( 86 ) Art. 14, comma 2o, lett. a).
( 87 ) V. Pallini, sub art. 14, cit. Un altro delicato
problema pone poi il mancato coordinamento con
l’art. 8, comma 7o: quid in caso di riscatto totale e successiva riassunzione? Alla lettera, parrebbe non operare, in tal caso, il meccanismo di cui all’art. 8, comma
7o, lett. a) e b), che fà decorrere il termine semestrale
« dalla data di prima assunzione ». V., sul punto, Pallini, sub art. 14; Ferrante, sub art. 8, citt.
( 88 ) Ciò ha avuto attuazione mediante l’introduzione, nel corpo della l. n. 62/05 (« legge comunitaria
2005 »), di un apposito articolo (il 29 bis), che concedeva, per il recepimento, un termine di 18 mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore, non già della legge
in cui la norma era stata inserita, bensì « della presente
disposizione »: disposizione che, facendo legislativamente corpo con la l. n. 29/06, è entrata in vigore il 23
febbraio 2006. Il decreto attuativo, come s’è anticipato nella « presentazione », è stato alfine emanato: si tratta del d.lgs. n. 28/07, sul quale ci si riserva di intervenire in maniera analitica in un successivo commento.
sione complementare dei lavoratori subordinati
e dei lavoratori autonomi che si spostano all’interno della Comunità Europea » ( 89 ), il cui termine per il recepimento, pure, è scaduto da
quasi 6 anni. Di ciò non v’è tuttavia da stupirsi,
se si considera che dalla relazione della Commissione sull’attuazione di tale direttiva si desume che l’Italia, in numerosa compagnia, ha ritenuto essere il proprio ordinamento interno già
sostanzialmente adeguato alle prescrizioni in tema di parità di trattamento in caso di mobilità
transfrontaliera, garanzia di pagamenti transfrontalieri, iscrizione transfrontaliera dei lavoratori distaccati, informazione degli iscritti ( 90 ),
contenute nella direttiva.
Nel caso della dir. 2003/41/CE, invece, a venire in rilievo non era il principio di libertà di
circolazione dei lavoratori, bensì i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei
servizi, in linea di continuità con il « quadro di
azione per i servizi finanziari », di cui alla Comunicazione della Commissione dell’11 maggio
1999 ( 91 ): in breve, veniva in rilievo direttamente la dimensione concorrenziale e finanziaria
della previdenza complementare.
Si trattava, in estrema sintesi, di assicurare
due ordini di obiettivi: da un lato, quello della
« vigilanza prudenziale » ( 92 ) sugli enti pensionistici aziendali o professionali; dall’altro, quello di consentire a tali enti una « attività transfrontaliera ».
Il primo macro-obiettivo si traduce, nel decreto, in una disciplina delle attività d’investimento contrassegnata, nel complesso, da maggiore libertà e da maggiore trasparenza ( 93 ).
( 89 ) Per un ampio commento a tale direttiva, v.
Sgroi, La trasferibilità della posizione previdenziale,
cit., p. 83 ss.
( 90 ) V. la « relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico
e Sociale e al Comitato delle Regioni, sull’attuazione
della dir. 1998/49/CE » [COM (2006) 22 def.].
( 91 ) COM (1999) 232 def.: il Consiglio europeo di
Lisbona del 23 e 24 marzo 2000 ha fissato al 2005 il
termine per l’attuazione di detto piano.
( 92 ) Ispirata, cioè, dalla prudent man rule di matrice anglosassone.
( 93 ) V. i nuovi commi 5o bis, 5o ter e 5o quater dell’art. 6; la nuova lett. c bis aggiunta al comma 13o dell’art. 6; il periodo aggiunto al comma 3o dell’art. 6; i
nuovi commi 3o bis e 3 ter dell’art. 7; il nuovo art. 7
bis.
La nuova disciplina della previdenza complementare
Così, per un verso, si prevede che i limiti massimi d’investimento siano adesso solo « eventuali »,
« giustificati da un punto di vista prudenziale », e
non più vincolati a obiettivi di « finanziamento delle piccole e medie imprese e allo sviluppo locale »;
che la gestione diretta delle risorse sia ammessa,
previa autorizzazione della COVIP, « ove sussistano mezzi patrimoniali adeguati »; come pure si ammette l’erogazione diretta delle rendite, con larghezza ben maggiore rispetto a quanto previsto
dall’abrogato comma 4 dell’art. 6. Per l’altro, si fà
obbligo ai fondi pensione di documentare analiticamente e periodicamente obiettivi e criteri della propria politica di investimento, e darne informazione agli iscritti; di investire prevalentemente e normalmente su mercati regolamentati. Si dettano, infine, disposizioni più analitiche in materia
di garanzia di « mezzi patrimoniali adeguati », specie in caso di assunzione di rischi biometrici o di
rendimento minimo.
Quanto all’attività transfrontaliera, i nuovi
artt. 15 bis, 15 ter e 15 quater del decreto disegnano una sorta di mutuo riconoscimento della
libera operatività transfrontaliera dei fondi pensione, allestendo un complesso meccanismo che
prevede la reciproca possibilità, per i fondi stabiliti negli Stati membri, di « operare con riferimento ai datori di lavoro o ai lavoratori residenti » in un altro Stato membro, previa autorizzazione concessa dall’autorità competente dello
Stato membro di stabilimento. Una procedura
di scambio di informazioni tra le autorità competenti, garantisce la conoscenza da parte del
fondo pensione delle disposizioni in materia di
diritto di informazione degli iscritti, diritto della
sicurezza sociale e diritto del lavoro, vincolanti,
nello Stato in cui esso intende operare, per i
fondi transfrontalieri.
In particolare, per quanto riguarda i fondi
stabiliti in un Paese membro, autorizzati a operare in Italia, il decreto precisa che le disposizioni ad essi applicabili sono quelle in materia
di « destinatari, adesioni in forma collettiva, finanziamento, prestazioni, permanenza nella
forma pensionistica complementare, cessazione
dei requisiti di partecipazione, portabilità » (art.
15 ter, comma 4o); ferma restando la possibilità
di « individuare », tramite decreto ministeriale,
le eventuali altre disposizioni di diritto della sicurezza sociale e di diritto del lavoro », nonché
« i limiti agli investimenti che i fondi devono rispettare per la parte di attivi corrispondente alle
551
attività svolte sul territorio della Repubblica ».
I compiti tra le autorità di vigilanza sono così
compartiti: quella dello Stato di stabilimento,
autorizza l’attività transfrontaliera e vigila sul rispetto dei limiti agli investimenti previsti dalla
normativa dello Stato membro ospitante; quella
dello Stato ospitante, vigila sul rispetto delle disposizioni in materia di diritto di informazione
degli iscritti, diritto della sicurezza sociale e diritto del lavoro applicabili sul proprio territorio.
È prevista la sottoscrizione di appositi « protocolli » tra la COVIP e le altre sue omologhe
autorità degli Stati membri, per la regolamentazione della reciproca collaborazione e dei necessari scambi di informazione.
Per le forme pensionistiche complementari
con meno di 100 aderenti, infine, è prevista la
possibilità di escludere, con regolamento della
COVIP, l’applicazione di specifiche disposizioni del decreto o della normativa secondaria.
Anche alla luce degli importanti, e molto
« specialistici » compiti, che le disposizioni da
ultimo richiamate attribuiscono alla COVIP,
stupisce, una volta di più, la soppressione della
COVIP, prospettata nel d.d.l. sulla riforma delle authorities approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 2 febbraio.
Ci sia consentito chiudere questa quasi telegrafico resoconto della « dimensione comunitaria » della riforma, con uno spunto di riflessione
che consegniamo ad approfondimenti futuri.
La logica che ispira la dir. 2003/41/CE è
quella di un mercato unico della previdenza
complementare, che non contempla la distinzione tra fondo pensione e soggetto gestore delle risorse: ciò spiega l’attribuzione ai fondi pensione della capacità di gestire direttamente le risorse finanziarie e di erogare direttamente le
rendite, alla sola condizione che il fondo sia dotato di « mezzi patrimoniali adeguati ».
Nel sistema del d.lgs. n. 124/93, invece, assumeva rilievo sistematico centrale il dualismo tra il fondo pensione – soggetto no profit di natura normalmente associativa – e il soggetto imprenditoriale
abilitato a gestire le risorse accumulate investendole nel mercato finanziario ( 94 ): ed era, a ben vedere, corollario di questo dualismo, il rapporto
( 94 ) V. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, spec.
p. 311 ss., p. 391 ss.
552
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
non concorrenziale, ma di integrazione sussidiaria, tra fondi pensione « chiusi » ed aperti.
L’impressione è che il d.lgs. n. 252/05 sia rimasto, anche in questo caso, a metà del guado.
Vi è da chiedersi, per esempio, se abbia ancora senso veicolare il nuovo ruolo dei fondi pensione sulle gambe degli enti no profit (in specie,
l’associazione).
Più in generale, un supplemento di riflessione
sarebbe forse necessario, circa la problematicità
dell’innesto della logica comunitaria – largamente influenzata da esperienze di common law – nel
nostro sistema di previdenza complementare.
Armando Tursi
Art. 1.
(Ambito di applicazione e definizioni)
1. Il presente decreto legislativo disciplina le forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, ivi compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui al D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e al D.Lgs. 10 febbraio 1996, n.
103, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale.
2. L’adesione alle forme pensionistiche complementari disciplinate dal presente decreto è libera e volontaria.
3. Ai fini del presente decreto s’intendono per:
a) « forme pensionistiche complementari collettive »: le forme di cui agli articoli 3, comma 1,
lettere da a) a h), e 12, che hanno ottenuto l’autorizzazione all’esercizio dell’attività da parte
della COVIP, e di cui all’articolo 20, iscritte all’apposito albo, alle quali è possibile aderire collettivamente o individualmente e con l’apporto di quote del trattamento di fine rapporto;
b) « forme pensionistiche complementari individuali »: le forme di cui all’articolo 13, che
hanno ottenuto l’approvazione del regolamento da parte della COVIP alle quali è possibile destinare quote del trattamento di fine rapporto;
c) « COVIP »: la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, istituita ai sensi dell’articolo
18, di seguito denominata: « COVIP »;
d) « TFR »: il trattamento di fine rapporto;
e) « TUIR »: il testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
4. Le forme pensionistiche complementari sono attuate mediante la costituzione, ai sensi dell’articolo 4, di appositi fondi o di patrimoni separati, la cui denominazione deve contenere l’indicazione di « fondo pensione », la quale non può essere utilizzata da altri soggetti
Tassonomie, concetti e principi della previdenza complementare
Sommario (art. 1): 1. Premessa: i caratteri generali della
disciplina tra continuità e innovazione. – 2. La finalità
della previdenza complementare: la formulazione dell’art. 1, comma 1o, d.lgs. n. 252/05 e l’inquadramento
costituzionale della materia. – 3. Segue: le finalità implicite della previdenza complementare. – 4. Segue: le
finalità impedite: il fine previdenziale come fine esclusivo della previdenza complementare. – 5. L’equiparazione tra fondi chiusi e aperti tra ambiguità normative e ridimensionamento del ruolo sindacale. – 6. La
libertà di adesione ai fondi: la libertà di aderire e la libertà di scegliere a quale forma pensionistica aderire.
– 7. Segue: la libertà di adesione plurima e la libertà di
incrementare la propria posizione contributiva, complementare e pubblica. – 8. Segue: la libertà di uscire
dal sistema di previdenza complementare.
1. – Il d.lgs. n. 252/04 apporta rilevanti innovazioni alla disciplina della previdenza complementare. Il primo dubbio che si pone l’interprete è se
le novità della riforma abbiano alterato la fisionomia della materia in modo tale da modificarne i
connotati strutturali di fondo o se invece si tratti
La nuova disciplina della previdenza complementare
di modifiche settoriali che si innestano su di un assetto istituzionale già definito. La questione è complicata anche dalle particolarità della disciplina
della previdenza complementare, frutto di innumerevoli aggiustamenti in corso d’opera. A rendere ancora più complesso il quadro contribuisce
senz’altro il dibattito ancora aperto circa le finalità della previdenza complementare e la sua collocazione nell’ambito della previdenza sociale garantita dall’art. 38, comma 2o, Cost. o della previdenza privata libera, secondo il disposto del comma 5o del medesimo articolo. Il d.lgs. n. 252/05,
è utile sottolinearlo sin da ora, riproduce, modificandolo secondo le linee di riforma delineate nella l. n. 243/04 (d’ora in avanti: l.d.) la struttura del
suo antecedente legislativo, il d.lgs. n. 124/93, sicché ad una prima rapida lettura parrebbe che l’assetto di fondo della materia sia rimasto immutato. Ma si tratta, come accennato sopra, di una valutazione tutta da verificare alla luce delle rilevanti e discusse novità che investono la materia.
Milita a favore di una lettura continuista della
normativa la l.d., nella quale si enunciano le finalità della riforma. Queste sono, è bene rilevarlo sin
da ora, riconducibili al principale criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 1o, l.d.: « sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari » prevedendo a tal fine che siano adottate « misure finalizzate ad incrementare l’entità dei
flussi di finanziamento alle forme pensionistiche
complementari, collettive e individuali »; che sia
uniformato il sistema di vigilanza sull’intero settore della previdenza complementare e siano semplificare le procedure amministrative.
Considerate le limitate finalità della legge delega ( 1 ), pare corretto privilegiare l’interpreta( 1 ) Rileva Pandolfo, Prime osservazioni sulla
nuova legge sulla previdenza complementare a mò di
(parziale) commento del d.lgs. 252/05, in Prev. ass.
pubbl. priv., 2005, I, p. 145, che la delega contenuta
nel comma 50o dell’art. 1 l. n. 243/04, riguardante la
predisposizione di un testo unico in materia, non è richiamata nel preambolo del d.lgs. n. 252/05, onde
sussiste un rilevante dubbio di costituzionalità per
eccesso di delega circa la possibilità di apportare innovazioni ulteriori rispetto a quelle delineate nel
comma 1o dell’art. 1 della legge delega. Ciò anche
perché la delega per l’emanazione di un testo unico
non contiene principi e criteri direttivi ulteriori volti
ad innovare la materia, e sembrerebbe quindi fare riferimento ad un testo unico meramente compilativoricognitivo della disciplina vigente.
553
zione che si ponga in linea di maggiore continuità con la disciplina previgente, quanto meno
sugli aspetti non espressamente presi in considerazione dal legislatore delegante ( 2 ).
Peraltro, le innovazioni previste dalla legge
delega su alcuni aspetti fondanti della materia
sono in ogni caso tali da richiedere una attenta e
approfondita riflessione circa il suo inquadramento sistematico. Ci si chiede in particolare se
il « dato più qualificante » ( 3 ) della riforma, ossia l’equiparazione delle diverse forme pensionistiche – chiuse, aperte e individuali – e il conferimento tacito del t.f.r. impongano all’interprete di rimeditare il fondamento costituzionale
della previdenza complementare e la coerenza
della disciplina della materia con le garanzie di
cui all’art. 38 Cost.
Quello dell’equiparazione tra le varie forme
pensionistiche è certamente il nervo scoperto
dalla recente riforma: tratto caratterizzante dell’assetto istituzionale della materia è, o almeno è
stata, l’opzione legislativa a favore della mutualità e della solidarietà collettiva, ovvero la netta
scelta, operata sin dal primo intervento organico del 1993, ma poi in parte temperata già nel
corso degli anni ’90, di affidare il compito della
realizzazione della previdenza complementare
alle parti sociali mediante contratti e accordi
collettivi e di riconoscere ai soggetti normalmente operanti sui mercati finanziari – gestori
dei c.d. fondi aperti – un ruolo meramente suppletivo. In che modo e fino a che punto questa
scelta sia stata revocata dal più recente legislatore, se sia ravvisabile o no nella nuova normativa
un totale abbandono del precedente sostegno
promozionale alla « previdenza sindacale » ( 4 ),
se si debba parlare di un disconoscimento del
ruolo centrale della contrattazione collettiva, è
questione sulla quale, credo, si discuterà ancora
a lungo e su cui si tornerà diffusamente (V. par.
5 e i commenti di Bollani, sub art. 3, e Pallini, sub art. 14, in questo Commentario).
( 2 ) In questo senso v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 148.
( 3 ) L’espressione è di Tursi, La terza riforma della
previdenza complementare in itinere. Spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., n. 2/05, p. 513.
( 4 ) L’espressione è di Persiani, La previdenza
complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Aa.Vv., Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Padova, 2005, p. 775, spec. p. 778.
554
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Prima di analizzare nel dettaglio il contenuto
della norma che qui si commenta e di entrare
nel merito delle questioni sopra accennate, è
quindi utile riepilogare le linee di fondo del sistema della previdenza complementare, per verificare se esse siano rimaste immutate o se debbano essere riconsiderate. Già dall’analisi del
primo elemento fondante della materia – l’origine privata e negoziale della previdenza complementare ( 5 ) – emergono infatti alcune novità.
Come si vedrà in dettaglio (v. il commento all’art. 3), accanto agli ormai tradizionali fondi
pensione « chiusi » e aperti e alle forme pensionistiche complementari individuali realizzate
mediante contratti di assicurazione sulla vita,
già previsti dal d.lgs. n. 124/93, altre forme pensionsitiche possono essere istituite da enti diversi e ulteriori rispetto a quelli precedentemente
previsti dal legislatore. In particolare la legge attribuisce il ruolo di soggetto istitutore alle Regioni (art. 3, comma 1o, lett. d). La questione è
delicata: la l.d., all’art. 1, comma 2o, lett. e, n. 2)
indica i fondi da queste ultime istituiti o promossi come i primi destinatari del conferimento
tacito del t.f.r., e l’art. 3 del d.lgs. n. 252/05 le
include tra i soggetti che possono istituire le forme pensionistiche complementari. Rinviando
l’analisi approfondita della questione al commento all’art. 3, è opportuno fin d’ora stigmatizzare quello che è stato definito l’« equivoco
della regionalizzazione » ( 6 ), consistente nel fatto che il legislatore ha confuso la potestà legislativa (concorrente) riconosciuta dall’art. 117
Cost. in materia di « previdenza complementare
e integrativa », con l’attribuzione del diverso diritto da parte delle regioni di istituire propri
fondi pensione. In base al disposto costituzio-
( 5 ) Osservava Bessone, Previdenza complementare, Torino, 2001, p. 10 s., che « ogni “forma pensionistica complementare”, e perciò ogni e qualsiasi fondo pensione sono (...) iniziativa che origina da atti di
autonomia di soggetti privati, volta a volta contratti
collettivi o “accordi” di altro genere o atti regolamentari ma pur sempre atti di autonomia a carattere negoziale ». In argomento v. anche Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale. Fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001,
2, p. 2.
( 6 ) V. Tursi, La terza riforma della previdenza
complementare, cit., p. 425, nonché Bollani, sub art.
3, in questo Commentario.
nale le regioni, pur potendo legiferare sulla materia, devono comunque ritenersi soggette non
solo ai principi fondamentali stabiliti dal legislatore nazionale ( 7 ), ma anche alle regole nazionali riguardanti l’ordinamento civile, la tutela del
risparmio e i mercati finanziari ( 8 ) (V. Bollani,
sub art. 3, in questo Commentario). In ogni caso, e tralasciando le perplessità che derivano dal
fatto che la normativa sembrerebbe attribuire
alle regioni contemporaneamente il ruolo di
« coregolatore » della materia e di soggetto istitutore dei fondi pensione ( 9 ), secondo la disciplina del d.lgs. n. 252/05, le forme pensionistiche eventualmente istituite dalle regioni sono
soggette alla medesima disciplina normativa stabilita per i privati.
Alle Regioni si aggiungono gli enti previdenziali privatizzati menzionati nell’art. 1, e l’INPS,
il quale a norma dell’art. 9 deve istituire una
forma pensionistica complementare destinata a
operare in via residuale in caso di impossibilità
di destinare il trattamento di fine rapporto ad
altri fondi ( 10 ). La presenza di questi soggetti
pubblici non sembra alterare il dato strutturale
di fondo del carattere privato e negoziale della
previdenza complementare, perché il loro ruolo
è di carattere residuale e perché essi sono comunque vincolati a operare secondo le norme
del decreto.
Secondo tratto fondamentale della disciplina,
( 7 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 521 ss. v. anche Pandolfo, Una
prima interpretazione della nuova legge in tema di
pensioni complementari, con qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev. ass. pubbl.
priv., 2004, III, p. 1238, per il quale l’indicazione della legge, distinguendo tra istituzione e promozione
« dà l’impressione di andare ben oltre il nuovo testo
costituzionale »; in argomento v. anche Zampini, La
previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004, p. 43.
( 8 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p.
48 e p. 53.
( 9 ) V. ancora Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1241.
( 10 ) La possibilità di istituire e gestire forme pensionistiche complementari era peraltro già riconosciuta all’INPS dalla l. n. 88/89, in argomento v.
Garcea, sub art. 9, in questo Commentario; Cinelli,
sub art. 1, in Disciplina delle forme pensionistiche
complementari, a cura di Cinelli, in questa Rivista,
1995, p. 174.
La nuova disciplina della previdenza complementare
mantenuto e anzi rinvigorito dalla più recente
riforma e sul quale si tornerà diffusamente (v.
par. 6) è la libertà di adesione garantita ai singoli, che trova ora più ampia declinazione nella libertà di scelta della forma pensionistica cui aderire.
Terzo è l’opzione, manifestata sin dalla l. n.
421/92, verso i sistemi a capitalizzazione, che
escludono la possibilità di istituire nuove forme
pensionistiche complementari a ripartizione.
Tale limite risponde da un lato all’esigenza di
preservare l’equilibrio finanziario dei fondi pensionistici complementari e dall’altro a quella di
realizzare l’obiettivo economico di carattere generale di far transitare una quota delle prestazioni previdenziali dal sistema a ripartizione, insostenibile nel lungo periodo a causa dell’invecchiamento della popolazione, a quello a capitalizzazione. Il vincolo peraltro era esplicitato nel
d.lgs. n. 124/93, all’art. 7, comma 5o, in base al
quale l’entità delle prestazioni era determinata,
tra l’altro, in conformità al principio della capitalizzazione, previsione questa che non ricompare nel nuovo testo del d.lgs. n. 252/05. Ciononostante si deve ritenere che l’opzione a favore
dei sistemi a capitalizzazione permanga, sia perché prevista comunque dalla l. n. 421/92, sia
perché la nuova l.d. non prevede alcun criterio
direttivo in proposito, onde un’interpretazione
della nuova normativa che ritenesse superato tale vincolo potrebbe ritenersi incostituzionale
per eccesso di delega ( 11 ).
Quarto elemento costitutivo della materia e
strettamente connesso all’opzione per il sistema
a capitalizzazione è la scelta di riservare gli investimenti al mercato finanziario: ai fondi pensione non è concesso investire nel patrimonio immobiliare, che pure è stata la forma storica di
investimento degli enti previdenziali, né come si
vedrà meglio in prosieguo, di selezionare gli investimenti in ragione di scelte economiche, finanziarie o etiche diverse.
Quinto tratto caratterizzante la materia è la
tassativa indicazione contenuta nella legge delega n. 421/92, nel d.lgs. n. 124/93 e ribadita negli
artt. 1 e 11, d.lgs. n. 252/05 delle prestazioni
( 11 ) V. ancora Pandolfo, Prime osservazioni sulla
nuova legge, cit., p. 148.
555
che possono essere erogate ( 12 ) e il loro collegamento con il sistema pensionistico pubblico e
con l’età pensionabile da questa stabilita ( 13 ).
Fa da collante una normativa incompiuta,
che costruisce un sistema fondato su più fonti
regolatrici: alla legge si affiancano da un lato la
contrattazione collettiva e un complesso sistema di normazione secondaria che si caratterizza per la presenza di provvedimenti governativi, atti di indirizzo, e regolamenti di vario genere, nonché per il ruolo svolto dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione ( 14 ) (d’ora in
poi COVIP) ( 15 ). Ciò peraltro non ha affatto
impedito che il sistema regolativo assumesse un
carattere « fortemente dirigistic(o), contraddistint(o) da una serie di vincoli e autorizzazioni ». Carattere – questo – che contraddistingue
quella italiana dalle normative degli altri Paesi,
ove i margini di elasticità normativa sono superiori ( 16 ), e che richiede una adeguata giustificazione e fondamento costituzionale. Questa è,
a nostro avviso, la questione più interessante
da approfondire: l’inquadramento ormai indiscusso della previdenza complementare nell’alveo della garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita di cui all’art. 38, comma 2o, Cost.
(v. par. 2), non esime l’interprete dal verificare quale sia il grado di autonomia privata che
residua rispetto all’intervento legislativo ( 17 ),
non essendo possibile giustificare qualunque
intervento invocando « genericamente principi solidaristici ed egualitaristici » o « istanze
finanziarie o di bilancio di importanza preminente » ( 18 ): tali esigenze devono in ogni ca-
( 12 ) Pessi, La previdenza complementare, Padova,
1999, p. 152.
( 13 ) In argomento v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 195, il quale osserva come
il d.lgs. n. 252/05 accentui ulteriormente il legame
con la previdenza di base.
( 14 ) Sulla denominazione COVIP, v. infra, par. 4.
( 15 ) Sul sistema delle fonti v. per tutti Bessone,
Previdenza complementare, cit., p. 29 s.
( 16 ) Le citazioni sono di Ferraro, La problematica
giuridica dei fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro,
Milano, 2000, p. 3 e spec. p. 4. Rileva il carattere dirigistico della normativa anche Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 34.
( 17 ) Cfr. ancora Ferraro, La problematica giuridica dei fondi, cit., p. 6.
( 18 ) Cfr. ancora Ferraro, La problematica giuridi-
556
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
so contemperarsi con il carattere volontario e
autofinanziato della previdenza complementare.
2. – L’art. 1 del d.lgs. n. 252/05 si apre con
una norma definitoria, in base alla quale il decreto disciplina le « forme di previdenza per
l’erogazione di trattamenti pensionistici complemplementari del sistema obbligatorio, ivi
compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui al d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e al d.lgs. 10 febbraio 1996, n. 103, al fine di assicurare
più elevati livelli di copertura previdenziale ».
Tale formula, sia pure con l’aggiunta dell’inciso
riferito agli enti di previdenza privatizzati, ricalca esattamente la norma già contenuta nel d.lgs.
n. 124/93 e prima ancora nell’art. 3, lett. v), della l. n. 421/92. La formula era già stata definita
« troppo schematica e generica » ( 19 ) rispetto alla finalità di indicare quali sono le forme pensionistiche cui si riferisce. Ma il giudizio è stato
forse troppo severo: si tratta di una « norma di
scopo » ( 20 ), che ben riflette la mancanza di un
sufficiente assestamento della disciplina in materia, sia sul piano della regolazione del fenomeno, sia sul piano del suo inquadramento costituzionale. A ben guardare, e come si vedrà meglio
al par. 4, le tutele che la previdenza complementare è destinata a realizzare appaiono ben
delimitate dal carattere « pensionistico » ( 21 )
delle stesse e dal loro collegamento con il raggiungimento dell’età pensionabile, di modo che
la tutela è sostanzialmente incentrata sulla vecchiaia, mentre la protezione rispetto ad altri
eventi generatori di bisogno (l’invalidità per
esempio) è solo eventuale e in ogni caso sussidiaria.
La formula con cui si apre l’art. 1 pone anzitutto la questione teorica (ma dai considerevoli
risvolti pratici) dell’inquadramento costituzionale della fattispecie e dei suoi nessi con la previdenza sociale obbligatoria. Non è possibile ri-
ca dei fondi, cit., p. 8; nello stesso senso Tursi, La
previdenza complementare nel sistema, cit., p. 75.
( 19 ) Da Cinelli, sub art. 1, cit., p. 168.
( 20 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 7.
( 21 ) Cfr. Pessi, La collocazione funzionale delle recenti innovazioni legislative in materia di previdenza
complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in La previdenza complementare, a cura di Ferraro,
cit., p. 53.
percorrere in questa sede tutto il dibattito dottrinale in materia, che ha riguardato soprattutto
la collocazione della previdenza complementare
nell’ambito della previdenza sociale obbligatoria disciplinata dall’art. 38, comma 2o, Cost.,
oppure dell’assistenza libera di cui all’art. 38,
comma 5o, Cost., ma anche i suoi nessi con la libertà sindacale e con la tutela del risparmio. Né
è possibile dare conto di tutti i risvolti teorici e
pratici che discendono dalle diverse opzioni interpretative. Certo è che non si è trattato di una
disputa meramente teorica, dal momento che
dalla riferibilità della materia alla garanzia delle
prestazioni adeguate alle esigenze di vita (comma 2o) ovvero alla realizzazione di ulteriori bisogni giudicati non costituzionalmente necessitati (comma 5o), discende non solo la giustificazione delle numerose norme che vincolano e limitano in vario modo l’operato dei diversi soggetti coinvolti nella realizzazione delle forme
pensionistiche complementari ( 22 ): dall’inquadramento nel comma 2o o nel 5o dell’art. 38 discende anche la giustificazione della libertà di
adesione individuale ai fondi pensione (v. par.
6).
I nessi che legano la previdenza pubblica a
quella privata, e i limiti che quest’ultima può incontrare sono ancora oggetto di vivace discussione e in parte ancora da esplorare. Dovendosi
necessariamente sintetizzare i termini della questione, si può muovere dalla constatazione storica che la previdenza complementare è stata disciplinata in modo organico a partire dal 1993,
con il d.lgs. n. 124/93 (poi modificato innumerevoli volte alla ricerca dell’assetto ottimale della materia), in stretta connessione con l’avvio
delle riforme della previdenza sociale obbligatoria. È valutazione generalmente condivisa ( 23 )
( 22 ) Tra i quali ricordiamo, a titolo meramente
esemplificativo, la previsione che limita il diritto a
percepire il trattamento complementare al raggiungimento dell’età pensionabile; la natura retributiva,
corrispettiva in senso lato o previdenziale dei contributi; e la giustificazione dei regimi di vigilanza e dei
limiti agli investimenti dei fondi pensione.
( 23 ) Fra i molti v. Cinelli, sub art. 1, cit., p. 170;
De Luca, La disciplina dei fondi pensione, in Giorn.
dir. lav. rel. ind., 1994, p. 77; Treu, La previdenza
complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, cit., in Dir. lav. Commentario
diretto da Carinci, IV, Torino, 2004, p. 17; Pessi, La
La nuova disciplina della previdenza complementare
quella secondo cui ha giocato un ruolo fondamentale in questo processo l’esigenza di ridurre
la spesa pubblica e di superare, almeno in parte,
il sistema della gestione previdenziale a ripartizione, facendo transitare quote dei trattamenti
pensionistici verso fondi operanti a capitalizzazione (regime questo cui non per caso sono vincolati i fondi istituiti a seguito della prima riforma previdenziale). Si è trattato, in altri termini,
di una riduzione dei livelli delle prestazioni garantiti dalla previdenza sociale obbligatoria e
dell’affidamento a forme di solidarietà collettiva
(le forme pensionistiche individuali verranno
introdotte in seguito) della garanzia del mantenimento del tenore di vita raggiunto dai lavoratori durante la vita attiva. Proprio il nesso funzionale tra riduzione della previdenza pubblica
e sviluppo di quella complementare giustifica
l’originaria riserva della materia all’area del
mondo del lavoro (su cui v.il commento all’art.
2).
Nel corso degli anni ’90 e con maggiore convinzione a seguito della sentenza della Corte
cost. n. 393/00 il diritto vivente ha sostanzialmente inquadrato la previdenza complementare
nell’alveo del comma 2o dell’art. 38 Cost. Dopo
aver manifestato inizialmente prudenza ( 24 ), a
partire dal 1995 ( 25 ) la Corte costituzionale ha
affermato che « non può essere posta in dubbio
la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge
23 ottobre 1992, n. 421 e, via via, confermata
nei successivi interventi, di istituire (...) un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando
quest’ultima nel sistema dell’art. 38, comma 2o,
della Costituzione » ( 26 ). Alla posizione della
riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare. Principi ispiratori, novità, prospettive, in
Mass. giur. lav., 2006, p. 364 e spec. p. 366; Zampini,
La previdenza complementare, cit., p. 33; Vianello,
Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 19 ss.
( 24 ) L’espressione è di Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 119, riferita alla sentenza della
Corte cost. 3 ottobre 1990, n. 427, in Foro it., 1991, I,
c. 2005
( 25 ) Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421.
( 26 ) Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, la quale afferma altresì che nel rammentato contesto normativo,
in cui il nesso strutturale tra previdenza obbligatoria
e previdenza complementare è stato voluto dal legislatore quale momento essenziale della complessiva
557
Corte costituzionale si è praticamente, e sia pure con diversi distinguo, allineata tutta la dottrina, e può oggi considerarsi un dato acquisito
che la previdenza complementare concorre, con
quella obbligatoria alla realizzazione degli
obiettivi di cui al comma 2o dell’art. 38
Cost. ( 27 ).
A partire da questa osservazione comune si
sono però effettuate diverse valutazioni e si sono aperte differenti prospettive teoriche. Ancora con l’approssimazione che le esigenze di
estrema sintesi qui impongono, un primo orientamento ritiene che la disciplina previgente della previdenza sociale obbligatoria, basata sul
mantenimento di una consistente percentuale
della retribuzione percepita durante l’ultima fase della vita lavorativa avesse realizzato una tutela che andava oltre la garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita o comunque oltre
quanto finanziariamente sostenibile, per cui lo
Stato si sarebbe ritratto, lasciando alla libera
iniziativa collettiva (e in seguito individuale) la
realizzazione di quell’istanza ulteriore del mantenimento del livello di reddito precedentemente raggiunto ( 28 ). Si parla in questo senso di due
interessi diversi: quello al livello previdenziale
minimo e quello al mantenimento del tenore di
vita precedente ( 29 ). Questa lettura non comriforma della materia, la disciplina censurata (il collegamento tra acquisizione del diritto alla pensione
pubblica e quello alla pensione complementare) concorre ad assicurare funzionalità ed equilibrio all’intero sistema pensionistico, in corrispondenza dell’obiettivo perseguito dal legislatore di coniugare
l’entità della spesa pensionistica, da ricondurre a parametri sostenibili, con un più adeguato livello di copertura previdenziale.
( 27 ) Per una sintesi delle posizioni precedenti v.
Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit.,
p. 11 ss.; Zampini, La previdenza complementare.
Fondamento costituzionale e modelli organizzativi,
Padova, 2004, p. 27 ss.
( 28 ) V. in argomento Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 19, per il quale « l’evoluzione storica (...) ha visto la società civile in generale e il mondo del lavoro in particolare lasciarsi ingabbiare da un
sistema pubblico di previdenza tanto rassicurante per
il livello dei trattamenti garantiti e per la possibilità di
raggiungimento delle sue soglie d’accesso quanto
« onnivoro » (e quindi inibitore dell’iniziativa privata) a causa del notevole drenaggio di risorse richiesto
per la sua stessa sostenibilità ».
( 29 ) P. Sandulli, Welfare State, riforma pensioni-
558
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
porta l’inquadramento della materia nell’alveo
del solo comma 5o dell’art. 38 Cost.: si afferma
infatti che sussiste comunque un interesse riconosciuto dal comma 2o dell’art. 38 anche alla
realizzazione del secondo dei suddetti interessi
e che i due sistemi – obbligatorio e complementare – concorrono alla realizzazione del fine sociale della liberazione dal bisogno ( 30 ). A
questo punto si aprono però più problemi di
quanti se ne siano risolti: al di là della constatazione che in questo modo si deve necessariamente rinunciare alla tesi della necessaria riserva di monopolio pubblico della tutela previdenziale ( 31 ), si osserva che se la previdenza
complementare concorre con quella pubblica
alla realizzazione dei fini di cui all’art. 38, comma 2o, Cost., si deve spiegare come e perché
essa possa essere volontaria, ovvero come si
possa giustificare la mancanza di tutela di quei
lavoratori che per varie ragioni non possano o
liberamente decidano di non aderire ai fondi
privati ( 32 ).
Si è autorevolmente obiettato che la previdenza pubblica, anche a seguito delle riforme degli
anni ’90, ha mantenuto il suo « carattere di strumento necessario e sufficiente » per garantire
prestazioni adeguate imposte dall’art. 38, com-
stica e sviluppo della previdenza complementare, in La
previdenza complementare, a cura di Ferraro, cit., p.
47, che parla di « contaminazione » tra le modalità
pubbliche e le modalità private di soddisfazione del
bisogno e per il quale la previdenza complementare è
insieme a quella pubblica finalizzata alla liberazione
dal bisogno, ma persegue un interesse – definito privato sociale – diverso da quello perseguito con la previdenza sociale pubblica.
( 30 ) Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 10.
( 31 ) Cfr. Cinelli, Previdenza pubblica e previdenza
complementare nel sistema costituzionale, in La previdenza complementare, a cura di Ferraro, cit., p. 103;
sulla questione sia consentito rinviare inoltre a Bonardi, Solidarietà versus concorrenza: la Corte di giustizia si pronuncia a favore del monopolio Inail, in Riv.
it. dir. lav., 2002, II, p. 462 con ampi richiami di giurisprudenza, nazionale e comunitaria; v. anche Treu,
La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 5;
Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit.,
p. 65.
( 32 ) Cinelli, Previdenza pubblica e previdenza
complementare, cit., p. 108, Carinci, Aspetti problematici e prospettive de jure condendo, in La previdenza complementare, cit., p. XXVI.
ma 2o, e che dunque l’attinenza al comma 2o
dell’art. 38 si spiega in ragione della finalità sociale perseguita, ma non può considerarsi legata
all’adeguatezza delle prestazioni ( 33 ). Si è altresì
affermato che la previdenza complementare mira solo al mantenimento del tenore di vita precedentemente raggiunto, e che si tratta di una
« area residuale dei bisogni socialmente rilevanti che, per carenza di risorse e/o per opzione di
politica socio-economica, non possono nel momento attuale essere soddisfatti direttamente
dallo Stato » ( 34 ). Entrambe le prospettive giungono alla conclusione che la previdenza complementare sarebbe dunque privata, ma funzionalizzata alla realizzazione di un interesse pubblico: la vigilanza e i controlli a cui è soggetta si
giustificherebbero in ragione della necessità di
garantire effettività alla realizzazione di quegli
interessi ( 35 ).
Queste interpretazioni si scontrano con la
constatazione sempre più frequente della difficoltà se non addirittura dell’impossibilità che
molti lavoratori, soprattutto dai percorsi lavorativi atipici e non lineari, incontrano nell’accumulare un montante contributivo tale da consentire di acquisire il diritto a un trattamento
pensionistico che vada oltre la misura dell’assegno sociale garantito a tutti i cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito. Certo,
l’adeguatezza è un concetto indeterminato e
l’entità delle prestazioni non può che essere rimessa alla discrezionalità del legislatore e dipendere dalla situazione economica e sociale
complessiva del paese, ma sussiste un sufficiente consenso sulla constatazione che essa consiste in un quid pluris rispetto alle prestazioni di
assistenza garantite dal comma 1o dell’art. 38
Cost. ( 36 ).
( 33 ) Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 3 e spec. p. 10 ove l’a. rileva che « sostenere il contrario implicherebbe, per coerenza, una critica di sopravvenuta insufficienza costituzionale del sistema pubblico riformato, il che è palesemente assurdo, ovvero a configurare la obbligatorietà generale,
rectius necessarietà, della previdenza complementare,
il che per ora non è ».
( 34 ) Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 9.
( 35 ) Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 9
ss.; parla di funzionalizzazione anche Zampini, La
previdenza complementare, cit., p. 25.
( 36 ) Sulla nozione di adeguatezza v. Cinelli, Pre-
La nuova disciplina della previdenza complementare
559
Altri Autori sostengono di conseguenza che
l’unico modo per salvare la materia dal difetto
di costituzionalità per violazione del principio
di adeguatezza sarebbe l’introduzione dell’obbligo di adesione ai fondi di previdenza complementare, discutendosi poi se esso debba avvenire nella versione, per così dire, hard dell’adesione ai fondi di istituzione collettiva ( 37 ), o in
quella soft dell’imposizione del solo vincolo di
adesione, ferma restando la scelta del singolo
del fondo cui aderire ( 38 ). Si tratta, tuttavia di
una soluzione non soddisfacente, perché si deve
anche spiegare quale debba essere il corretto
rapporto tra tutela pubblica e privata: soltanto
ora il legislatore si è preoccupato di garantire –
tra l’altro solo in alcune limitate ipotesi – che le
prestazioni di previdenza complementare assicurino un rendimento almeno comparato a
quello del t.f.r. (art. 8, comma 9o, su cui v. Ferrante, in questo Commentario), ma ciò nulla
dice e nulla garantisce rispetto all’entità del trattamento complementare che il soggetto assicurato potrà raggiungere e, conseguentemente circa l’entità delle prestazioni pensionistiche complessive che potrà percepire. Non è stabilito, infatti, né nella disciplina previgente, né nel d.lgs.
n. 252/05 un rapporto reciprocamente condizionato dell’entità delle prestazioni pensionistiche obbligatorie e complementari ( 39 ). Non è
detto, di conseguenza, che una volta obbligati i
lavoratori a iscriversi a un fondo di previdenza
complementare, con questo essi possano raggiungere il livello adeguato alle esigenze di vita
cui hanno diritto ( 40 ). Coglie dunque nel segno
chi ci invita a non attribuire alla previdenza
complementare il dono di risolvere tutte le disfunzioni e i problemi in cui si dibatte quella
pubblica ( 41 ).
In conclusione la dottrina sembra arrestarsi di
fronte alla constatazione del carattere « ibrido », « ambiguo » e di « difficile collocazione » ( 42 ) della previdenza complementare, che
non riesce ad entrare a pieno titolo nel 2o comma dell’art. 38 perché non garantisce le prestazioni adeguate, e non può nemmeno considerarsi del tutto libera, perché in ogni caso funzionalizzata alla realizzazione del fine pubblico.
Un tentativo di diverso inquadramento costituzionale della materia – forse quello che meglio tenta di conciliare il carattere privato e negoziale (oltre che l’origine collettiva, su cui v.
infra par. 5) della previdenza complementare
con il ruolo e i vincoli alla stessa attribuiti –
muove dalla lettura del sistema secondo il principio pluralistico di cui all’art. 2 Cost.: la previdenza complementare è qui considerata espressione della valorizzazione delle comunità intermedie, sulle quali graverebbe in primo luogo il
dovere di solidarietà e alle quali è riconosciuto
il diritto di provvedere autonomamente alla realizzazione del pieno sviluppo della persona
umana ( 43 ). Questa prospettiva – che muove da
una regolazione del rapporto pubblico-privato
fondata sul principio di sussidiarietà – ha il merito di superare l’idea della c.d. funzionalizzazione dell’iniziativa privata, che non è più strumentalizzata e vincolata alla realizzazione di un
fine pubblico, bensì valorizzata e promossa ( 44 ).
In altri termini, la previdenza privata si connota
del carattere della socialità e concorre alla realizzazione del fine della liberazione dal bisogno
in quanto autonomamente e volontariamente
decide di farsi carico delle finalità di cui all’art.
38, comma 2o, Cost. ( 45 ). La tesi ha il merito di
valorizzare pienamente, oltre che i profili di libertà, il carattere collettivo e di solidarietà mu-
videnza pubblica e previdenza complementare, cit., p.
98; per una diversa interpretazione del principio di
adeguatezza, letto in chiave di effettività di accesso
alla tutela v. però Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., pp. 85 ss.
( 37 ) In argomento v. Pessi, La riforma del sistema
pensionistico, cit., p. 366.
( 38 ) Cfr. Zampini, La previdenza complementare,
cit., p. 40.
( 39 ) Cinelli, sub art. 1, cit., p. 176.
( 40 ) Cinelli, sub art. 1, cit., p. 176.
( 41 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 2, il quale osserva che il fenomeno della
previdenza complementare risulta ora « caricato di
inusuali compiti salvifici e (...) invocato taumaturgicamente come rimedio alla crisi del sistema previdenziale pubblico ».
( 42 ) Cinelli, Previdenza pubblica e previdenza
complementare, cit., p. 109.
( 43 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 19 ss.; Ciocca, La libertà della previdenza
privata, Milano, 1998, p. 252.
( 44 ) Cfr. ancora Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 24 ss.
( 45 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 25.
560
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
tualistica del sistema della previdenza complementare, ma deve anch’essa misurarsi con la
questione dell’adeguatezza delle prestazioni. Si
è in proposito osservato che in un’ottica di sussidiarietà, spetta allo Stato garantire il raggiungimento del fine di cui all’art. 38 Cost. laddove
questo non sia realizzato dalle comunità intermedie o dai soggetti privati ( 46 ) e la realizzazione di quel fine può essere garantita in diversi
modi, anche attraverso un mix di prestazioni
diversificate sia in ordine ai soggetti che le realizzano (pubblici e privati), sia per quanto riguarda la loro tipologia: al sostegno economico
ben si possono affiancare misure di altro genere, quali servizi e beni essenziali per mantenere
un adeguato livello di vita, come potrebbero
essere servizi abitativi, di trasporto e di assistenza di vario tipo. Si prefigura in questo modo un quadro normativo in cui il soggetto appare decisamente più libero, in quanto ha la
possibilità di scegliere e di accedere a diverse
modalità di realizzazione della propria esigenza
di liberazione dal bisogno. Ma si tratta, ad avviso di chi scrive, di una prospettiva tanto suggestiva quanto poco attuale, in quanto presuppone l’esistenza di una rete integrata di servizi
tra cui scegliere che è ancora tutta da costruire.
Essa richiede infatti un forte impegno dello
Stato verso la realizzazione di ulteriori forme di
tutela e rimane soggetta, oltre che ai mutevoli
orientamenti politici, agli stringenti vincoli di
bilancio.
La questione appare a chi scrive, di conseguenza, ancora del tutto aperta e richiede un
più approfondito dibattito circa le modalità di
realizzazione della garanzia di adeguatezza dei
trattamenti previdenziali garantita dall’art. 38
Cost. Nell’attesa, tende a farsi strada, anche in
ambito dottrinale, l’idea che l’operazione compiuta, forse perché rimasta a metà del guado, sia
stata quella di una « privatizzazione » della previdenza, nella quale, tuttavia, il fine pubblico
non è stato realizzato attraverso il concorso dei
soggetti privati ( 47 ): più semplicemente, si è trattato dell’affidamento a questi ultimi della re( 46 ) Ed è per questo che anche nella prospettiva
qui tracciata non si può postulare il superamento della previdenza pubblica a favore dell’affidamento dell’intera tutela previdenziale alle categorie interessate.
( 47 ) Parla di privatizzazione in questo senso De
Luca, La disciplina dei fondi pensione, cit., p. 98.
sponsabilità della realizzazione dell’interesse
protetto ( 48 ), con il risultato, già autorevolmente
sottolineato, della configurazione di un sistema
di tutela riservato alle categorie più forti ( 49 ) e
con una conseguente quanto meno parziale abdicazione del fine pubblico della garanzia dei
mezzi adeguati alle esigenze di vita.
3. – Si è visto al par. 1 che la realizzazione di
trattamenti complementari è il fine dichiarato
della disciplina che qui si commenta, e si è rilevato al par. 2 che tale fine giustifica le limitazioni normative dell’autonomia privata e, in particolare l’esclusività delle prestazioni che le forme
di previdenza complementare possono erogare.
La previdenza complementare e la normativa
volta a incentivarne la diffusione perseguono
però anche un’ulteriore e fondamentale finalità,
non sempre espressamente dichiarata in ambito
nazionale: quella di alimentare con i risparmi
previdenziali dei lavoratori il mercato finanziario.
L’intento di coniugare la tutela previdenziale
con le esigenze del mercato finanziario è chiaramente esplicitato dalle istituzioni comunitarie,
anche in testi normativi di carattere vincolante e
ciò benché le competenze della Comunità europea in materia previdenziale siano assai limitate ( 50 ). Rilevano in particolare ai nostri fini due
provvedimenti comunitari: la dir. 1998/49/CE,
finalizzata alla salvaguardia dei diritti pensionistici dei lavoratori migranti ed espressione del
principio della libera circolazione dei lavoratori ( 51 ) e la dir. 2003/41/CE relativa alle attività e
alla supervisione degli enti pensionistici aziendali e professionali (Epap) ( 52 ), che invece mira
alla costituzione di uno stabile ed efficiente
mercato dei servizi finanziari assicurando l’uniformità dei trattamenti previdenziali. Si tratta
( 48 ) V., da ultimo, Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 83 ss.
( 49 ) Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 5, De Luca, La disciplina dei fondi pensione, cit., p. 78.
( 50 ) Per un breve riepilogo v. Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 65 ss. e Cinelli, Stato
sociale e ordinamento comunitario: principi generali,
in La previdenza complementare, cit., p. 41 ss.
( 51 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p.
70.
( 52 ) Attuata in Italia con il d.lgs. n. 28/07.
La nuova disciplina della previdenza complementare
quindi di una finalità chiaramente di tipo economico-finanziario, che viene esplicitamente dichiarata sia nella direttiva stessa, sia in numerosi
altri documenti comunitari, nei quali si rileva
come l’attività economica dei fondi pensione,
che rappresenta il 25% del Pil europeo, giochi
un ruolo fondamentale nello sviluppo del mercato finanziario europeo ( 53 ). Si tratta peraltro
di una opzione di politica economica che non
esclude finalità di carattere sociale; anzi, i documenti comunitari si caratterizzano per la chiara
volontà di coniugare l’obiettivo economico con
l’individuazione di una strategia per il mantenimento di pensioni adeguate e sostenibili, nell’ambito della quale la previdenza complementare assume un ruolo assai rilevante ( 54 ). Tuttavia, si tratta di un’opzione che affida alla (e confida nella) costruzione di condizioni di libero
mercato e concorrenza la realizzazione della finalità sociale della garanzia di pensioni adeguate: si ritiene infatti che lo sviluppo del mercato
europeo degli investimenti porti all’incremento
dei rendimenti dei fondi pensione e alla riduzione dei loro costi, aumentandone altresì indirettamente la competitività. La fiducia nel mercato
così manifestata, d’altra parte, non sembra tener
conto di tutti i complessi meccanismi che lo regolano e che possono portare a risultati assai diversi da quelli auspicati. È stato in proposito autorevolmente osservato che non necessariamente l’aumento del risparmio previdenziale individuale incide sul risparmio totale di un Paese, in
( 53 ) V. tra i molti documenti, la comunicazione
della Commissione al Parlamento dell’11 maggio
1999, Verso un mercato unico per i regimi pensionistici integrativi – Risultati della consultazione relativa al Libro verde sui regimi pensionistici integrativi;
la comunicazione della Commissione al Consiglio, al
Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Progetto
di una Relazione congiunta della Commissione e del
Consiglio in materia di pensioni adeguate e sostenibili, COM/2002/0373def.; nonché le conclusioni del
Consiglio del 20 ottobre 2003, Su un Coordinamento aperto per pensioni adeguate e sostenibili, 2003/
c260/02; per una dettagliata analisi delle politiche
comunitarie in materia v. Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, I,
p. 55.
( 54 ) Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione, cit., p. 56.
561
quanto non è detto che in assenza del sistema
previdenziale i singoli non avrebbero risparmiato una somma equivalente in qualche altro modo, così come non è affatto automatico che
l’ampliamento dei mercati e della concorrenza
porti a un aumento dei rendimenti ( 55 ). Per altro verso, si deve anche riconoscere che l’ispirazione liberista dell’intervento comunitario non
ha impedito che venissero adottate precise e
stringenti regole finalizzate alla tutela del risparmio dei lavoratori. Il principio di fondo che guida il legislatore comunitario in questa materia è
quello di consentire le limitazioni al libero operare dei fondi solo « nella misura in cui ciò sia
giustificato per motivi prudenziali » ( 56 ).
Anche il legislatore nazionale ha perseguito,
sin dalla prima riforma organica della previdenza complementare, finalità ulteriori rispetto
a quella di cui all’art. 38 Cost., senza che queste venissero mai esplicitate nei testi legislativi,
almeno fino al d.lgs. n. 252/05. È stato in proposito rilevato che tra gli intenti della prima disciplina della materia vi era quello del finanziamento e consolidamento del debito pubblico
attraverso il prelievo fiscale realizzato sui contributi previdenziali ( 57 ). Un’analoga finalità di
finanziamento pubblico è oggi contenuta nel
comma 755o ss. dell’art. 1 l. n. 296/06 (legge finanziaria 2007) che prevede l’utilizzo del t.f.r.
dei lavoratori che hanno scelto di non aderire a
fondi di previdenza complementare in misure
di stabilizzazione del bilancio pubblico e in investimenti in infrastrutture. A parte il miglioramento delle finanze pubbliche, che secondo la
disciplina vigente non avviene a stretto rigore
con la previdenza complementare in quanto
coinvolge solo chi ha optato per il mantenimento del t.f.r., ciò che qui interessa maggiormente è il ruolo attribuito dal legislatore alla
previdenza complementare sul mercato finanziario.
Il contributo che, in un’ottica prettamente
di politica macroeconomica, la previdenza
( 55 ) Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma delle
pensioni: dieci miti sui sistemi di previdenza sociale, in
Assistenza soc., 2000, p. 19.
( 56 ) Cfr. il 32o considerando della dir. 2003/41/
CE.
( 57 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p.
34 s., il quale in proposito parla di un prestito forzoso allo Stato.
562
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
complementare offre al sistema finanziario
è stato generalmente riconosciuto tra gli studiosi della materia ( 58 ) ed è desumibile dai limiti agli investimenti che sono posti in via generale dall’art. 6 e che vincolano la destinazione delle risorse dei fondi pensione al solo mercato finanziario escludendo così quello immobiliare ( 59 ).
Si tratta di vincoli alle possibilità di investimento dei fondi pensione sui quali occorre attentamente riflettere, in quanto appare evidente come con essi si sia realizzata una vera e
propria funzionalizzazione della previdenza
complementare a fini diversi da quelli previdenziali. Si deve conseguentemente valutare se
i limiti posti all’operato dei fondi e finalizzati a
scopi diversi da quelli previdenziali siano giustificati o se si concretino in una lesione della
libera iniziativa privata garantita dall’art. 41
Cost. Va detto che non toglie rilevanza alla
questione la considerazione che i fondi di previdenza complementare non sono imprese ma
soggetti che operano senza scopo di lucro e
pertanto rientranti nel settore non profit ( 60 ), in
quanto la legge ha comunque stabilito che tali
soggetti operano sul mercato finanziario secondo le norme che regolano questo settore, e che
proprio tale operato è finalizzato alla massimizzazione dei profitti in vista della realizzazione
del fine previdenziale ( 61 ). Il dubbio di legitti-
( 58 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
23; Treu, La previdenza complementare nel sistema,
cit., p. 10; Cinelli, sub art. 1, cit., p. 172, il quale rileva che la previdenza complementare può effettivamente concorrere al rilancio dell’attività produttiva
del Paese e dell’occupazione; v. anche Zampini, La
previdenza complementare, cit., p. 1.
( 59 ) Al quale si accede solo mediante l’acquisto di
quote delle società finanziarie che lo gestiscono, v.
Corti, sub art. 6, in questo Commentario.
( 60 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 314; Mazziotti, sub art. 2, in Disciplina
delle forme pensionistiche complementari, a cura di
Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 179; sulla natura
imprenditoriale delle forme pensionistiche complementari v. anche Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 52 ss.
( 61 ) Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393 ammette che
i fondi pensionistici possano rientrare nella tutela di
cui all’art. 41 Cost.; tuttavia, investita della questione
della legittimità delle limitazioni alla fruizione delle
prestazioni previdenziali complementari sotto il pro-
mità costituzionale potrebbe peraltro essere superato considerando la norma come attuazione
del 3o comma dell’art. 41 Cost., che ammette
l’indirizzo pubblico dell’iniziativa privata a fini
sociali. Ma ciò non significa dover concludere
che ogni limitazione possa considerarsi lecita.
Da un punto di vista giuridico, si deve ancora
valutare se le limitazioni così poste possano ritenersi proporzionate e coerenti con le finalità
perseguite, oltre che con le esigenze di tutela
del risparmio previdenziale, risolvendosi altrimenti in una ingiustificata compressione della
libertà di iniziativa economica. E in tale valutazione si deve anche a nostro avviso considerare
che un’analoga funzionalizzazione non è prevista a carico di nessun altro soggetto operante
sul mercato finanziario. Ove la limitazione all’operato dei fondi non sia giustificata dall’esigenza di tutela del fine previdenziale del risparmio, dunque occorrerà anche trovare una
ragionevole spiegazione al fatto che si affidi solo ad alcuni dei numerosi operatori finanziari
la responsabilità di contemperare i propri interessi con quelli pubblici. In ogni caso, pare opportuno che nel dibattito politico circa l’evoluzione normativa della materia e le prospettive
future sia riconosciuto il contributo determinante che il mondo del lavoro apporta anche in
questo modo allo sviluppo economico del Paese. In conclusione, a noi pare che il contributo
fornito dalla previdenza complementare allo
sviluppo dei mercati finanziari non sia stato
adeguatamente considerato, soprattutto tra gli
studiosi della materia, che pur avendo sempre
rilevato la sussistenza della finalità finanziaria
nella disciplina della previdenza complementare non ne hanno poi tratto le dovute conseguenze di carattere sistematico, in particolare
per quanto riguarda la definizione e la valutazione dei limiti che la libertà di assistenza può
subire.
4. – Il comma 4o dell’art. 1 stabilisce in modo tassativo che le forme previdenziali sono at-
filo qui in questione, la Corte fornisce una risposta sibillina, ritenendo al questione già assorbita dal quella
relativa alla violazione dell’art. 39 Cost. (con riferimento alla quale peraltro la Corte ha sostenuto la legittimità della compressione in vista delle finalità
pubbliche).
La nuova disciplina della previdenza complementare
tuate mediante la costituzione di fondi o di patrimoni separati la cui denominazione deve
contenere l’indicazione di fondo pensione, la
quale non può essere utilizzata da altri. La definizione ha la funzione di attribuire in via
esclusiva ai soli soggetti iscritti all’albo istituito
dalla COVIP la possibilità di costituire le forme pensionistiche complementari, al fine di assicurare la trasparenza e il controllo sul loro
operato. Soltanto i soggetti appositamente autorizzati dalla COVIP potranno gestire la previdenza complementare e soltanto questi potranno e dovranno avere nella loro denominazione il nome « fondo pensione » ( 62 ). Queste
previsioni, che costituiscono una novità soprattutto per le forme pensionistiche individuali
costituite mediante contratti di assicurazione
sulla vita, risponde all’esigenza sancita chiaramente nella legge delega di uniformazione della disciplina della materia e di definizione di un
quadro unico di controllo e vigilanza, affidato
per tutti i fondi alla sola COVIP. Si vogliono
in questo modo assicurare regole comuni in ordine alla comparabilità dei costi, alla trasparenza e « portabilità », nonché perfezionare l’omogeneità del sistema di vigilanza sull’intero settore, in modo tale che i fondi possano competere tra loro in un contesto omogeneo e che i
destinatari delle forme pensionistiche possano
liberamente e coscientemente valutare quale sia
la forma pensionistica più congeniale rispetto
alle loro esigenze.
Speculare a tale previsione è la tassatività delle prestazioni previdenziali che i fondi pensione
autorizzati possono offrire. Si è già visto che risulta chiaramente dalla definizione di cui al
comma 1o dell’art. 1, che le forme di previdenza
sono destinate all’erogazione di trattamenti
pensionistici complementari del sistema obbligatorio. A ciò si può ora aggiungere che non sono ammissibili altre prestazioni. Conferma della
( 62 ) È questa, ad avviso di chi scrive, anche la ragione per cui la COVIP, in origine istituita come
« Commissione di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari », con l’art. 2 del d.l. 13 novembre 2006, n. 279 non conv. in legge e poi con il comma 751o della l. 27 dicembre 2006, n. 296 ha cambiato denominazione in « Commissione di vigilanza sui
fondi pensione ». Sulle funzioni di vigilanza della
COVIP v. Montaldi, sub artt. 18 e 19, in questo
Commentario.
563
limitazione si ha nell’art. 11, comma 2o, che vincola il diritto alle prestazioni al raggiungimento
dell’età pensionabile pubblica, e nelle disposizioni che in vario modo configurano le prestazioni per invalidità e premorienza come accessorie ed eventuali rispetto ai trattamenti di vecchiaia. Il nesso esistente tra previdenza pubblica
e privata costituisce dunque anche il limite di
quest’ultima: come è stato sostenuto, sia pure
con riferimento alla disciplina previgente ( 63 ), le
forme previdenziali private che erogano prestazioni diverse da quelle pensionistiche esulano
dal campo di applicazione della normativa e la
ratio di tale limitazione è data dal vincolo di destinazione alla finalità previdenziale del risparmio realizzato ( 64 ).
Peraltro, il panorama europeo denota la presenza di forme previdenziali che coprono più
ampi rischi e anche la dir. 2003/41/CE contempla prestazioni complementari relative alla
morte, all’invalidità, alla cessazione del rapporto di lavoro, al sostegno finanziario e a servizi
in caso di malattia o stato di bisogno (art. 6,
lett. d). La stessa direttiva, pur non prevedendo
un obbligo in tal senso, riconosce agli Stati
membri la facoltà di consentire che le forme
pensionistiche garantiscano la copertura di situazioni di bisogno diverse, quali il rischio di
invalidità professionale o la reversibilità (art.
9). Se quest’ultima non rientra tra i bisogni
espressamente coperti dall’art. 38, comma
2o ( 65 ), vi rientrano certamente altre situazioni
rilevanti, quali la disoccupazione o la malattia.
Alla luce delle più recenti trasformazioni del
mercato del lavoro e della crescente esigenza di
realizzare forme di sostegno del reddito nelle
fasi di non lavoro o di riduzione dell’attività lavorativa, ci si deve conseguentemente domandare se la limitazione alla sola tutela della vecchiaia non costituisca una restrizione inopportuna o illegittima. Il criterio che dovrebbe guidare l’interprete, in questo come in altri casi,
dovrebbe essere quello del bilanciamento dei
( 63 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 52; nello stesso senso v. Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 35.
( 64 ) Ancora Tursi, La previdenza complementare
nel sistema, cit., p. 67.
( 65 ) Ma sulla non tassatività degli eventi protetti
dall’art. 38 Cost. v. Cinelli, Diritto della previdenza
sociale, Torino, 2005, p. 157.
564
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
diversi interessi in gioco e della proporzionalità
delle restrizioni alla libertà rispetto alla finalità
perseguita ( 66 ).
Una prima giustificazione alla limitazione
dell’attività dei fondi può essere fondata sull’osservazione che l’estensione degli eventi protetti determinerebbe un incremento dei costi e
quindi delle contribuzioni necessarie, o una dispersione delle risorse tale da impedire la realizzazione dell’obiettivo della garanzia della tutela della vecchiaia; ma si tratterebbe di una
considerazione che è smentita dalla presenza di
un maggior numero di eventi tutelati dalle forme pensionistiche di altri paesi. Una seconda
giustificazione, forse più soddisfacente, potrebbe probabilmente essere rinvenuta nel c.d.
principio di gradualità: in una situazione quale
quella italiana, in cui la previdenza complementare stenta a svilupparsi e in cui il panorama delle forme di tutela integrative dei diversi
eventi generatori di bisogno è a dir poco desolante, la restrizione potrebbe giustificarsi con
l’esigenza di convogliare i risparmi previdenziali su quella che è la forma di tutela ritenuta
più necessaria e richiedente un maggiore tempo di radicamento. Peraltro, una simile giustificazione può valere nel breve e medio periodo;
in una prospettiva di lungo termine essa meriterebbe di essere riconsiderata, in quanto potrebbe realizzare una illegittima limitazione
della libertà di assistenza privata garantita dall’art. 38, comma 5o, Cost.
Se la finalità previdenziale costituisce anche il
limite al campo di operatività della previdenza
complementare, ci si deve chiedere se si debba
altresì escludere che l’investimento dei risparmi
dei lavoratori nella previdenza complementare
possa costituire lo strumento per realizzare altri
fini. I fondi pensione in effetti potrebbero contribuire a realizzare due obiettivi diversi, ma
non necessariamente tra loro contrapposti. Innanzitutto essi potrebbero costituire il mezzo
per realizzare la partecipazione dei lavoratori al
governo delle imprese. Ma il legislatore italiano
in proposito ha chiaramente deciso di limitare
fortemente le possibilità di concentrazione di
capitali dei fondi pensioni e le loro capacità di
influenza sui mercati finanziari, relegandoli
sempre e comunque al ruolo di azionisti di minoranza. Così dispone infatti il comma 13o dell’art. 6, che vieta di acquisire una posizione dominante sulle imprese soggette alla contribuzione nei confronti del fondo medesimo o comunque di società i cui dipendenti siano destinatari
della tutela previdenziale apprestata dal fondo
stesso (lett. b e c) ( 67 ). Se si può comprendere
che la ragione per cui si impedisce a un fondo
pensione aziendale di diventare proprietario
dell’azienda che lo ha istituito è quella di evitare
commistioni improprie e conflitti di interesse
insolubili, non si comprende invece il senso della ulteriore limitazione di cui alla lett. a) del medesimo comma, in base al quale i fondi non possono investire le proprie risorse « in azioni o
quote con diritto di voto, emesse da una stessa
società, per un valore nominale superiore al cinque per cento del valore nominale complessivo
di tutte le azioni o quote con diritto di voto
emesse dalla società medesima se quotata, ovvero al dieci per cento se non quotata, né comunque, azioni o quote con diritto di voto per un
ammontare tale da determinare in via diretta
un’influenza dominante sulla società emittente »: in questo caso non vi è un rischio di conflitto di interessi e l’esigenza di tutelare il risparmio dei lavoratori non sembra rilevare. Un conto infatti è stabilire, come fa la direttiva comunitaria all’art. 18, comma 7o, lett. b), che l’ente
pensionistico non può investire più del 5% delle proprie attività in azioni, altri titoli equiparabili ad azioni, obbligazioni, titoli di debito e altri strumenti del mercato monetario e dei capitali emessi dalla stessa impresa e non più del
10% in azioni ed altri titoli equiparabili ad azioni, obbligazioni, titoli di debito e altri strumenti
del mercato monetario e dei capitali emessi da
imprese appartenenti a un unico gruppo » – regola questa chiaramente finalizzata alla diversificare gli investimenti per ridurre i rischi; altro
conto è vietare, come fa l’art. 6, comma 13o, d.lgs. n. 252/05, che i fondi pensioni acquisiscano
più del 5-10% delle quote di imprese tout court,
anche quindi ove quel 5-10% coprisse una quota modestissima e insignificante delle risorse
complessive del fondo. Si tratta di una disposizione che pone una ingiustificata limitazione
( 66 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 75.
( 67 ) Per una dettagliata analisi della materia v.
Corti, sub art. 6, in questo Commentario.
La nuova disciplina della previdenza complementare
dell’iniziativa economica dei fondi, probabilmente in contrasto con l’art. 41 e forse anche
con l’art. 46 Cost.
Sotto altro profilo, ci si chiede se i fondi pensione possano svolgere una funzione sociale, indirizzando le proprie risorse finanziarie al sostegno di determinati comparti dell’economia del
paese o in investimenti c.d. socialmente responsabili o etici. In proposito non pare affatto convincere l’affermazione che « qualsiasi distrazione della forma pensionistica complementare
dall’interesse previdenziale che ne costituisce
l’esclusiva ragion d’essere rischia di pregiudicare i risultati che gli iscritti al fondo pensione legittimamente si attendono » ( 68 ), perché si è visto che la normativa persegue anche altre finalità e, in particolare, si è rilevato che essa affianca
(sia pure senza contraddirla) a quella previdenziale la finalità di sostegno al sistema finanziario. Al di là di tale osservazione, si deve anche
rilevare che, così opinando, si definiscono a
priori in via esclusiva gli interessi degli iscritti,
mentre la libertà di scelta circa l’adesione o no
al programma di risparmio previdenziale dovrebbe presupporre anche la libertà di valutarne, oltre che i rendimenti, anche la compatibilità con i propri fondamenti etici. E ciò a maggior
ragione oggi che, come si vedrà al par. 6, la libertà di adesione è soprattutto libertà di scelta
della forma pensionistica cui aderire. Inoltre, la
scelta di investire in determinati comparti produttivi piuttosto che in altri o a determinate
condizioni etiche potrebbe costituire un modo
per arricchire la qualità degli investimenti e accrescere lo sviluppo del paese, con un sostanziale ritorno in termini di benefici proprio sulla finalità previdenziale perseguita (solo per fare un
esempio diretto e immediatamente percepibile,
anche se di scuola, non costituirebbe un vantaggio previdenziale diretto la scelta di investire solo su società che, oltre a garantire gli adeguati
rendimenti secondo i normali criteri e parametri di valutazione del mercato finanziario, assicurassero ai loro dipendenti una tutela previdenziale complementare?). La finalizzazione all’utile sociale o agli interessi del mondo del lavoro in generale non è insomma necessariamente incompatibile con la realizzazione del fine
previdenziale ed anzi tra le due si possono rea-
( 68 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 118.
565
lizzare utili sinergie. In ogni caso, non si vede
quale ragione possa giustificare la limitazione
della scelta degli investimenti ove questa avvenga a parità di rischio e di rendimento. Pertanto,
ferma restando la realizzazione dello scopo della previdenza complementare, l’interprete dovrebbe piuttosto chiedersi non se sia ammissibile la scelta di un determinato indirizzo economico delle risorse finanziarie, bensì a chi debba
spettare quella scelta e se e come questa sia stata
regolata nel d.lgs. n. 252/05. Quest’ultimo in argomento si limita a stabilire, all’art. 6, comma
14o, l’obbligo di esporre nel rendiconto annuale
e nelle comunicazioni agli iscritti, se e in quale
misura si siano presi in considerazione aspetti
sociali, etici ed ambientali ( 69 ). Si tratta di una
prima indicazione utile ad indicare la possibilità
di attivare un circolo virtuoso tra previdenza
complementare e investimenti socialmente responsabili, ma ancora riduttiva, soprattutto se si
considera che la disposizione si inserisce nel
quadro di una complessiva disciplina della materia che denota ancora una totale disattenzione
verso la questione. Anzi, per come è congegnata, la disciplina dei fondi pensione limita le possibilità di sviluppo di forme previdenziali ispirate ai criteri della responsabilità sociale. La gestione delle risorse dei fondi è infatti sempre affidata ai tradizionali operatori del mercato finanziario, con un sostanziale, ancorché non totale, divieto di gestione diretta. È stato rilevato
in studi specifici sull’argomento che questa
struttura, se non impedisce del tutto l’investimento socialmente responsabile, in ogni caso ne
aggrava considerevolmente il costo, in quanto
impone di contrattare le linee di investimento
con il soggetto gestore e di adottare regole di
trasparenza, centri di consulenza, di monitoraggio e di controllo ulteriori, in contrasto con il
criterio generale di contenimento delle spese di
gestione ( 70 ). Si può osservare che in ogni caso
si tratterebbe di costi che sono destinati a essere
più che ricompensati dai benefici attesi; resta
tuttavia la constatazione che il legislatore, lungi
dall’incentivare questo tipo di investimento,
( 69 ) Ma v. ora, in termini analoghi, anche il comma
5o quater dell’art. 6, introdotto dal d.lgs. n. 28/07.
( 70 ) Per questi aspetti v. il Quaderno Fondi pensione e investimenti socialmente responsabili, curato da
Avanzi RSI, Research e Mefop, del 18 dicembre
2002, spec. p. 40 ss.
566
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
non si è nemmeno posto il problema di non
ostacolarlo.
5. – Come si è visto, le novità della più recente riforma si inseriscono in un contesto in cui
l’inquadramento della disciplina della previdenza complementare nell’art. 38 Cost., alla luce
della finalità espressa di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale, non appare ancora del tutto sufficientemente assestato. E in
un tale quadro l’interprete è chiamato a ricondurre a sistema le più recenti innovazioni e, prima ancora a valutare se esse possano considerarsi coerenti con l’impianto costituzionale sopra delineato o se sia indispensabile un ripensamento dello stesso.
È utile muovere in quest’analisi dalla questione più controversa: l’equiparazione tra le diverse forme pensionistiche previste dal d.lgs. n.
252/05. Tale equiparazione emerge in primo
luogo dalle definizioni con cui si apre il comma
3o dell’art. 1: sono « forme pensionistiche complementari collettive » le forme di cui all’art. 3,
comma 1o, lett. da a ad h, cioè le forme istituite
mediante contratti o accordi collettivi, mediante
accordi tra lavoratori autonomi e tra soci di
cooperativa, accordi tra persone che svolgono
lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari, regolamenti aziendali, ovvero
dalle regioni o dagli enti previdenziali privatizzati, nonché le forme pensionistiche – c.d. fondi
pensione aperti – istituite e gestite dagli operatori finanziari legittimati a norma dell’art. 6. Accanto a queste, il decreto prevede la categoria
delle « forme pensionistiche complementari individuali », alle quali sono ricondotte l’adesione
individuale ai fondi aperti e i contratti di assicurazione sulla vita. Il decreto, come si nota agevolmente, considera « ugualmente collettive
forme abbastanza eterogenee quanto ad origine » ( 71 ), con una chiara « tendenza ad estendere l’attribuzione della qualifica di collettive » a
forme che tale caratteristica non hanno affatto,
come quelle istituite dalle regioni e soprattutto i
fondi aperti.
L’utilizzo del termine « collettive » è quindi
ambiguo, se non addirittura frutto di una indebita generalizzazione. Esso non può essere rife-
( 71 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 151.
rito alle modalità di istituzione delle forme pensionistiche, poiché riguarda, propriamente, le
modalità di adesione. Poiché l’iscrizione è libera
(v. infra par. 6), e poiché conseguentemente essa non può che essere individuale ( 72 ), si deve ritenere che il riferimento all’adesione collettiva
costituisca una « forma sincopata » della possibilità, già prevista nel d.lgs. n. 124/93, attribuita
alle fonti istitutive di prevedere, anziché la costituzione di un proprio fondo pensione, l’adesione su base contrattuale collettiva a un fondo
aperto ( 73 ). Si tratta in ogni caso di una riunificazione forzata delle due tipologie di forme
pensionistiche – chiuse e aperte – che risponde
a un preciso intento politico: l’idea di fondo che
sorregge tale opzione è quella che vede nel libero dispiegarsi della concorrenza tra le varie forme pensionistiche il presupposto per una migliore realizzazione del fine previdenziale. Ciò
trova conferma anche nella esplicita previsione,
contenuta in entrambe le definizioni, della destinazione del t.f.r. È stato osservato che la previsione è fuori luogo, in quanto collocata nella
parte relativa all’ambito di applicazione e alle
definizioni e non nella parte – che le sarebbe
propria – relativa alle modalità di finanziamento ( 74 ). Ma la presenza di tale riferimento nell’art. 1 è ancora una volta significativa della volontà del legislatore, da un lato, di porre in risalto la novità della previsione stessa rispetto alla
disciplina previgente e, dall’altro e soprattutto,
di evidenziare la volontà, tramite appunto tale
innovazione, di procedere all’equiparazione
delle diverse forme pensionistiche complementari ( 75 ). Si tratta, come è stato osservato, di una
sorta di « mitizzazione della concorrenza » ( 76 ),
frutto più di una di « estremizzazione ideologi-
( 72 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 516 che definisce la distinzione
« debole », rilevando che l’adesione collettiva a un
fondo aperto altro non è se non un « procedimento
collettivamente rafforzato di adesione individuale ».
( 73 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 151 s.
( 74 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 154.
( 75 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 154.
( 76 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 318, ove l’a. parla del « mito della concorrenza tra fondi ».
La nuova disciplina della previdenza complementare
ca ( 77 ) che di una soluzione coerente con il complessivo sistema della previdenza complementare.
L’equiparazione tra forme pensionistiche collettive e individuali effettuata nelle definizioni
di cui all’art. 1 appare alquanto discutibile sul
piano sistematico, perché oblitera completamente la differenza, ancora giuridicamente rilevante sotto diversi profili, tra i fondi costituiti
dalle parti sociali e i fondi costituiti dagli operatori del mercato finanziario. Rinviando la trattazione ai commenti ai singoli articoli del decreto,
è sufficiente rilevare qui che i fondi di origine
collettiva e quelli c.d. aperti mantengono tuttora, e inevitabilmente, un trattamento giuridico
differenziato non solo per quanto attiene alle
modalità di costituzione, alla forma giuridica e
alla disciplina finanziaria ( 78 ) (e ciò nonostante
l’equiparazione sotto il profilo della vigilanza ( 79 ) e del conferimento del t.f.r., su cui v.
Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario)
ma anche per quanto attiene alla definizione
delle possibilità di conferimento del contributo
del datore di lavoro (e dello stesso t.f.r., quando
questo avvenga in forma « tacita »).
Ma questo è in effetti il punto cardine della riforma e il nodo interpretativo più arduo che essa pone: ci si deve chiedere infatti se l’equiparazione tra le forme pensionistiche collettive e individuali abbia l’effetto di rendere evanescente
la distinzione tra secondo e terzo pilastro della
previdenza ( 80 ) e prima ancora di rendere evanescente il ruolo prioritario assegnato alla previ-
( 77 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 518, il quale rileva che la nuova
definizione delle forme pensionistiche collettive risponde al fine di stabilire in modo inequivocabile che
tra le due forme pensionistiche non vi è un rapporto
di complementarità bensì di continenza.
( 78 ) Secondo Lener, Prodotto finanziario, prodotto
assicurativo e prodotto « previdenziale », in Prev. ass.
pubbl. e priv., 2003, p. 1009, i fondi pensione negoziali chiusi devono ritenersi estranei alla disciplina
del mercato finanziario; aderisce a qs. tesi Vianello,
Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 324;
afferma l’incomparabilità dei fenomeni anche Tursi,
La previdenza complementare nel sistema, cit., pp. 324
ss.
( 79 ) Su cui v. Montaldi, sub artt. 18 e 19, in questo Commentario.
( 80 ) Ancora Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 518.
567
denza sindacale rispetto a quella individuale.
Premesso che anche la disciplina comunitaria
attribuisce alle parti sociali il ruolo di fonte privilegiata nella disciplina dei trattamenti di previdenza complementare ( 81 ), è da rilevare in effetti come già in passato la previsione della possibilità di iscrizione ai fondi aperti fosse stata
considerata « eversiva » rispetto alla dimensione collettiva della previdenza complementare ( 82 ). Nella disciplina previgente il carattere
collettivo della previdenza derivava da diverse
caratteristiche del sistema, tra le quali rilevavano anzitutto il carattere di complementarietà rispetto ai trattamenti obbligatori e la connessa
riserva della previdenza complementare ai produttori di reddito da lavoro e, soprattutto il sistema di gerarchia delle fonti istitutive, che prefigurava l’adesione ai fondi aperti solo in via
sussidiaria e solo ove non fossero operanti i fondi chiusi ( 83 ). Ancora, il ruolo centrale della
contrattazione collettiva si desumeva dalle regole riguardanti la c.d. « portabilità » del t.f.r. e
del contributo del datore di lavoro nel caso in
cui il lavoratore passasse da un fondo chiuso ad
uno aperto. L’esclusione di tale possibilità costituiva (e per quanto riguarda il contributo datoriale tuttora costituisce) un effetto del naturale
dispiegarsi dell’autonomia privata, che conferma, peraltro, come la materia non possa essere
regolata a prescindere dall’intervento delle parti
sociali.
Peraltro, già in seguito alle modifiche alla disciplina apportate a partire dalla l. n. 335/95 e
con più insistenza dopo l’emanazione del d.lgs.
n. 47/00, si rilevava la tendenza verso una sorta
di mutamento genetico della fattispecie. Mentre
una parte della dottrina osservava con più o meno velata preoccupazione come l’introduzione
di elementi di concorrenzialità tra fondi chiusi e
( 81 ) In questo senso v. Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione, cit., p. 78, la quale rinviene il
favor verso la contrattazione collettiva nelle previsioni della dir. 2003/41/CE che consentono alla contrattazione collettiva stessa una diversa tipizzazione dei
rischi a copertura dei quali può essere riconosciuto il
trattamento pensionistico.
( 82 ) Balandi, Principi e scelte normative della riforma previdenziale, in Lav. e dir., 1996, p. 101.
( 83 ) V. per tutti Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 192 ss. e Bollani, sub art. 3,
in questo Commentario.
568
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
aperti non fosse del tutto « sintonica » con le ragioni mutualistiche e solidaristiche della previdenza professionale ( 84 ), da un altro punto di vista si osservava come si fosse già pienamente
transitati in un « regime di concorrenza », che
avrebbe costituito un fattore positivo in termini
di estensione delle opportunità offerte ai destinatari della previdenza complementare ( 85 ).
Si era altresì autorevolmente osservato come
fosse in corso un « mutamento di prospettiva »
della previdenza complementare che si sarebbe
caratterizzato per la « attenuazione della funzione solidaristica » ( 86 ) e per la progressiva attrazione della previdenza complementare nel mercato finanziario. Elementi sintomatici della mutazione genetica sarebbero stati l’opzione a favore dei regimi a capitalizzazione e il superamento di quelli a ripartizione, l’apertura alle
forme pensionistiche individuali e il superamento della riserva della previdenza complementare
al solo mondo del lavoro nonché, infine, l’estensione dei benefici fiscali ai fondi aperti e alle
forme pensionistiche individuali ( 87 ). Anche
prima della riforma del 2005 sarebbe già stato
di conseguenza impossibile individuare una nozione unitaria di previdenza complementare, i
cui unici tratti comuni sarebbero rimasti la libertà di adesione e la destinazione dei risparmi
al mercato finanziario.
Inoltre, vigente la legge delega ma non ancora
attuato il d.lgs. n. 252/05 si è rilevato come
l’equiparazione tra fondi chiusi e aperti avesse
generato un vulnus nel sistema della contratta-
( 84 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 352; Ferraro, La problematica giuridica dei fondi, cit., p. 12; Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., pp. 103 ss.; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 36, per il quale la configurazione dell’autonomia collettiva quale fonte istitutiva assolutamente preminente era « indice » di una
politica « anacronistica » perché continuava a « riporre nell’organizzazione sindacale una forte speranza per la modernizzazione della società italiana sulla
rotta segnata dalla bussola di valori costituzionali forti, quali la solidarietà sociale e l’uguaglianza sostanziale ».
( 85 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
152.
( 86 ) Persiani, La previdenza complementare tra
iniziativa sindacale, cit., p. 781.
( 87 ) Persiani, La previdenza complementare tra
iniziativa sindacale, cit., p. 781 ss.
zione collettiva: ove il contratto collettivo fosse
soltanto una delle tante modalità di realizzazione del fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale, esso non realizzerebbe
più un interesse collettivo, bensì la somma di
tanti interessi individuali ( 88 ).
Conclusione non esplicitata di tali considerazioni dovrebbe dunque essere, se ben intendiamo, il ritorno – desiderato o aborrito – alla collocazione della previdenza complementare nel
solo 5o comma dell’art. 38 Cost. ( 89 ), o quanto
meno la presa d’atto della sussistenza nel sistema normativo di una confusione tra secondo e
terzo pilastro ( 90 ).
Ma già la dottrina più avveduta aveva rilevato
come l’inserimento di soggetti non lavoratori
nell’ambito della disciplina della previdenza
complementare non ne avesse alterato la natura
di fondo, in quanto il d.lgs. n. 47/00 si era limitato a riconoscere a questi soggetti la possibilità
di aderire al terzo pilastro. Si trattava quindi di
una disposizione mal collocata nell’ambito della
previdenza complementare, di un « intruso »,
ma non per questo tale da alterarne il connotato
professionale ( 91 ). Si era inoltre osservato come
nemmeno l’utilizzo del sistema a contribuzione
definita potesse contraddire il carattere solidale
della previdenza complementare, dovendo questo essere ravvisato nella finalità perseguita e
nelle modalità di organizzazione della stessa ( 92 ).
Il nodo teorico vero è dunque proprio quello
della equiparazione tra i fondi: se in passato esisteva un largo consenso circa la sussistenza di
uno stretto collegamento tra solidarietà collettiva, mutualità e previdenza complementare, altrettanto consenso sembra sussistere oggi sul
fatto che l’apertura del sistema alla concorrenza
tra fondi pensione impone un mutamento di
prospettiva.
( 88 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 348.
( 89 ) È questa la conclusione a cui sembra alludere
Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa
sindacale, cit., p. 775.
( 90 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 107.
( 91 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 99.
( 92 ) Cfr. Tursi, La previdenza complementare nel
sistema, cit., p. 183 ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
Al contrario, si è già rilevato che la disciplina
giuridica mantiene tuttora significative differenze; a ciò si può ora aggiungere che diverse
ragioni, anche se non tutte costituzionalmente
necessitate ( 93 ), giustificano il favor legislativo
verso la previdenza sindacale ( 94 ). Al di là di
considerazioni storiche, che vedono la previdenza sindacale all’origine del sistema previdenziale generale ( 95 ), la ragione più convincente muove dal principio di sussidiarietà, che
impone di affidare la competenza della materia
al soggetto che meglio è in grado di realizzarla.
Orbene, diversi motivi inducono a ritenere la
tutela possa essere garantita al meglio dai fondi
c.d. chiusi.
Primo tra tutti, e sempre in un’ottica di sussidiarietà, è il loro carattere partecipato, riconfermato dall’art. 5 del d.lgs. n. 252/05. Se la devoluzione ai soggetti privati della realizzazione del
fine previdenziale si giustifica in termini di promozione della capacità di autotutela delle categorie interessate, questa presuppone che le forme siano istituite e regolamentate dagli stessi.
Inoltre, la realizzazione della tutela mediante
fondi nei quali i diretti interessati partecipano
alla gestione assolve alla fondamentale esigenza
di controllo sull’operato dei fondi stessi ( 96 ). Da
questo punto di vista pare corretta l’osservazione di chi ha rilevato come la querelle, ormai superata, circa la struttura democratico-rappresentativa dei fondi e le difficoltà di conciliarla
con i requisiti di onorabilità e qualificazione
professionale richiesti ai componenti degli organi di amministrazione dei fondi sia stata più che
altro frutto di « antiche diffidenze » e di forme
di « pregiudizio classista » ( 97 ).
Strettamente connessa alle osservazioni appe-
( 93 ) In questo senso Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 108.
( 94 ) V. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario, il quale osserva che « il legislatore non sembra
avere del tutto abdicato, nemmeno oggi, a(lla) linea
di promozione dell’autonomia collettiva ».
( 95 ) V. Persiani, La previdenza complementare tra
iniziativa sindacale, cit., p. 100.
( 96 ) V. anche De Luca, La disciplina dei fondi pensione, cit., p. 87 il quale rileva che il modello partecipativo è funzionale alla tutela degli interessi coinvolti.
( 97 ) Ferraro, La problematica giuridica dei fondi,
cit., p. 16; sulla vicenda v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., 362.
569
na svolte è la correlazione esistente tra la tutela
previdenziale e il rapporto di lavoro, e, più in
particolare la diretta attinenza della materia della contribuzione previdenziale al costo del lavoro. Non è possibile in questa sede affrontare il
complesso rapporto tra previdenza complementare e autonomia collettiva, che è approfondito
nel commento all’art. 3 ( 98 ). È è in ogni caso innegabile che la negoziazione da parte sindacale
della previdenza complementare avviene nell’ambito di una valutazione e di uno scambio
complessivo in cui entrano in gioco numerosi
altri elementi. In particolare, e indipendentemente dal carattere retributivo o no dei contributi di previdenza complementare, è indubbio
che essi siano corrispettivo della prestazione lavorativa ( 99 ) e che in ogni caso siano oggetto di
contrattazione insieme alle altre condizioni di
lavoro. Se a ciò si aggiunge che, come si è già rilevato, sussiste un interesse collettivo alla regolamentazione e gestione della previdenza complementare e che di tale interesse unici arbitri
non possono che essere i lavoratori collettivamente considerati, ne consegue che solo la contrattazione collettiva può valutare se sia più
congeniale agli interessi della collettività dei lavoratori che i contributi a quella stessa collettività spettanti siano gestiti da determinati soggetti o se sia preferibile rimettere al singolo lavoratore la scelta del soggetto a cui affidarli.
La rilevanza sindacale della materia spiega
dunque perché nemmeno il legislatore più recente abbia potuto negare in radice la sussistenza dell’interesse collettivo alla gestione della
materia, e perché non avrebbe potuto farlo senza violare l’art. 39 Cost. ( 100 ). Benché la legge
delega avesse previsto « il riconoscimento al lavoratore dipendente che si trasferisca volontariamente da una forma pensionistica all’altra del
diritto al trasferimento del contributo del datore di lavoro in precedenza goduto, oltre alle
quote del trattamento di fine rapporto » (lett. e,
n. 4), l’art. 14, comma 1o, del d.lgs. n. 252/04
rinvia agli statuti e ai regolamenti dei fondi pensione la definizione delle modalità di partecipa( 98 ) Ma v. anche Pallini, sub art. 14, in questo
Commentario.
( 99 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 133.
( 100 ) V. nello stesso senso, ma in termini dubitativi,
Pallini, sub art. 14, in questo Commentario.
570
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
zione alle forme medesime, alla portabilità delle
posizioni individuali e della contribuzione ( 101 ).
Il legislatore, come detto, non avrebbe potuto
fare altrimenti, giacché sarebbe stata una inammissibile violazione della libertà sindacale, ma
prima ancora e più in generale dell’autonomia
privata, l’imposizione autoritativa alla contrattazione collettiva dell’obbligo di contrattare il
versamento di somme a soggetti ad essa estranei ( 102 ). In ogni caso, la dottrina sembra concorde nel ritenere che il riconoscimento all’autonomia collettiva della facoltà di escludere la
portabilità del contributo datoriale costituisca
una sorta di compromesso equilibrato ( 103 ).
Peraltro, si deve anche ricordare che la Corte
costituzionale ha affermato che « l’autonomia
collettiva può essere compressa o, addirittura
annullata nei suoi esiti concreti, non solo quando introduca un trattamento deteriore rispetto
a quanto previsto dalla legge, ma anche quando
sussista l’esigenza di salvaguardia di superiori
interessi generali » ( 104 ). Ma l’affermazione,
davvero tranchante, dovrebbe essere almeno in
parte temperata: come si è già rilevato, il criterio
che dovrebbe guidare l’interprete nella valutazione della legittimità delle limitazioni all’auto-
( 101 ) Ma v. Ichino, Parere pro veritate sulla portabilità del contributo datoriale, in www.lavoce.info, il
quale rileva che l’esclusione della libera portabilità
del contributo da parte del decreto delegato è incostituzionale per eccesso di delega; Pallini, sub art.
14, in questo Commentario, esclude invece il contrasto con la legge delega rilevando che è stato un episodio di mancato esercizio e non di eccesso di delega,
che dà luogo a responsabilità politica senza inficiare
la legittimità del decreto delegato.
( 102 ) Contra v. però Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 794, il quale
ritiene che negare al lavoratore il diritto al versamento da parte del datore di lavoro alla forma pensionistica, anche aperta o individuale, dal lavoratore stesso
prescelta degli stessi contributi e delle stesse quote di
t.f.r. che il datore di lavoro è obbligato a versare al
fondo previdenziale istituito su base sindacale si tradurrebbe in una inammissibile violazione della libertà individuale. Id., Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema di previdenza complementare, in Arg.
dir. lav., 2006, p. 1479.
( 103 ) Cinelli e Nicolini, Quale libertà di scelta
nella previdenza complementare?, in Riv. it. dir. lav.,
2006, III, p. 164; Pessi, La riforma del sistema pensionistico, cit., p. 368.
( 104 ) Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393.
nomia privata è quello della loro proporzionalità rispetto al fine perseguito. Quest’ultimo non
può che essere l’incremento delle adesioni ai
fondi di previdenza complementare e del loro
finanziamento, ma si può legittimamente dubitare che tale finalità possa essere realizzata attraverso gli strumenti predisposti dal legislatore, solo che si considerino alcuni « danni collaterali » che la liberalizzazione spinta del settore
può ingenerare. Si allude in particolare alla questione della coesistenza di più fondi e alla conseguente frammentazione del sistema. Non è
possibile qui esaminare tutte le complicatissime
questioni che la concorrenza tra forme pensionistiche comporta, ma è utile sottolineare subito
due rischi assai rilevanti. Vi è anzitutto il pericolo della dispersione delle risorse, che potrebbe
compromettere seriamente la realizzazione di
quelle economie di scala necessarie per assicurare al risparmio previdenziale un rendimento
adeguato ( 105 ). È stato infatti autorevolmente
osservato che la concorrenza « preclude soltanto gli utili eccessivi » mentre « non garantisce il
contenimento dei costi » che dipende invece
dalla struttura centralizzata della previdenza
complementare ( 106 ). Si è così altresì valutato
che tra perdita delle economie di scala, spese
pubblicitarie, costi derivanti dai passaggi da un
fondo all’altro, nei sistemi fortemente decentrati i costi assorbono buona parte dei rendimenti
del risparmio previdenziale.
In secondo luogo, in una prospettiva di libertà di scelta della forma pensionistica cui aderire,
vi è il rischio che una carente o inadeguata informazione ai destinatari porti a un fallimento
del mercato. La massimizzazione dell’utile del
singolo si gioca infatti sulla possibilità che questi ha di scegliere consapevolmente quale sia la
forma pensionistica a lui più congeniale. Vero è
( 105 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 527 afferma che « ammettere o addirittura incentivare forme di concorrenza o conflitto
tra fonti collettive in sede di implementazione di un
principio di delega diretto a massimizzare l’ammontare delle risorse destinate al finanziamento della previdenza complementare e il tasso di adesione ai fondi
pensione sarebbe obiettivo eccentrico rispetto al fine ».
( 106 ) V. Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma,
cit., p. 42; Pallini, sub art. 14, in questo Commentario.
La nuova disciplina della previdenza complementare
che il legislatore ha investito decisamente molto
sul punto, prevedendo specifici obblighi di informazione e attribuendo un rilevante compito
di vigilanza alla COVIP; ma come è stato giustamente osservato, il problema cruciale è chi
fornirà l’informazione, posto che ai singoli fondi si può chiedere di fornire informazioni sulla
propria forma pensionistica, ma non su quelle
proposte dai concorrenti ( 107 ), né sembra possibile pretendere dai datori di lavoro, su cui grava
il principale obbligo di informazione, che questo riguardi tutte le possibili offerte esistenti sul
mercato.
In conclusione, a parere di chi scrive, la recente riforma ha decisamente ridotto il ruolo
della previdenza sindacale e dell’autonomia collettiva nella istituzione e gestione delle forme
pensionistiche complementari, in una prospettiva assai discutibile sia sul piano costituzionale,
in relazione al rispetto del principio di sussidiarietà, sia dal punto di vista dell’opportunità dei
mezzi predisposti rispetto al fine perseguito.
Tuttavia, restano immutati alcuni tratti di fondo
della materia, tra i quali la finalità di risparmio
previdenziale e la funzione « ancillare » rispetto
al sistema pubblico. Le differenze normative tra
la previdenza sindacale e le altre forme pensionistiche peraltro rimangono e mantengono una
rilevante valenza discretiva, sebbene le contaminazioni tra secondo e terzo pilastro, che pure
restano distinti, sono considerevolmente aumentate, con il rischio di confusione e di scarsa
chiarezza.
Per altro verso parrebbe, almeno apparentemente, del tutto superato il problema dell’individuazione del fondo cui aderire nel caso di
coesistenza di diverse forme pensionistiche
aventi lo stesso ambito di applicazione. Vigente
il d.lgs. n. 124/93 la questione si era posta in
particolare con riferimento alla compresenza di
fondi nazionali di categoria e di fondi regionali
intercategoriali: e in proposito si sosteneva da
una parte che il problema dovesse essere risolto
( 107 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge, cit., p. 1251. I criteri di informazione sono stabiliti dalla COVIP, nella delibera del 28 giugno
2006, direttive generali alle forme pensionistiche
complementari, ai sensi dell’articolo 23, comma 3o,
del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/
Direttive%20covip.pdf.
571
individuando l’unica fonte istitutiva applicabile
sulla base delle regole vigenti in materia di rapporti tra contratti collettivi diversi ( 108 ) e dall’altra che il lavoratore fosse libero di scegliere a
quale fondo aderire ( 109 ). Questa è in effetti la
soluzione accolta oggi dal legislatore, che, come
si è visto, dà per scontato e anzi promuove la
concorrenza tra le forme pensionistiche, affidando proprio alla libera scelta dei singoli – alla
domanda di mercato – il successo del sistema.
La questione merita senz’altro approfondimento, a parere di chi scrive, peraltro, la libertà di
scelta non sembra risolvere tutte le questioni
che la coesistenza di più fondi solleva: si deve
quanto meno ancora fare i conti con le previsioni e le eventuali forme di coordinamento istituite in materia dalla contrattazione collettiva e
spiegare quale prevalga nel caso in cui queste si
pongano in conflitto con la scelta operata dal
singolo ( 110 ).
6. – Il comma 2o dell’art. 1, d.lgs. n. 252/04
stabilisce che « l’adesione alle forme pensionistiche complementari disciplinate dal presente
decreto è libera e volontaria » e nell’art. 3, al
comma 3o, si ribadisce che « le fonti istitutive
delle forme pensionistiche complementari stabiliscono le modalità di partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale ». Si riprende con queste norme un principio già sancito nel d.lgs. n. 124/93, all’art. 3, comma 4o;
nel nuovo testo però l’inserimento nell’art. 1, ha
chiaramente lo scopo di conferire alla libertà di
adesione il carattere – peraltro già ampiamente
riconosciutole in passato – di « principio costi-
( 108 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 230 ss.
( 109 ) Tosi, Contrattazione collettiva e previdenza
complementare, in Aa.Vv., Scritti in onore di Gino
Giugni, Bari, 1999, p. 1309; Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 190, per il quale
l’espressa previsione di criteri specifici di soluzione
della questione nel caso di adesione tacita conferma
« la non operatività di un criterio capace di condurre
alla individuazione del contratto applicabile in alternativa al/agli altro/i ».
( 110 ) In argomento v. anche Pandolfo, Una prima
interpretazione della nuova legge, cit., p. 1244, il quale
rileva che la riforma disincentiva l’autoregolamentazione in quanto accentua i tratti di concorrenzialità.
572
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
tutivo del sistema » ( 111 ), come del resto sottolineato dalla legge delega, ove si prevede « l’eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla
libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare » (lett. e, n. 4). La novità saliente della
riforma, è bene rilevarlo sin da ora, è data dalla
nuova declinazione del principio di libertà, che
in un sistema di concorrenza tra fondi quale
quello prefigurato dal legislatore (v. retro par.
5), viene inteso in senso molto più ampio rispetto al passato ( 112 ), come si vedrà non senza che
ciò determini alcune aporie e contraddizioni di
sistema.
È bene anzitutto avvertire che la previsione di
cui all’art. 1, comma 2o, si riferisce alla libertà di
adesione e non alla libertà della previdenza
complementare in senso generale: essa riguarda
quindi la scelta positiva e negativa del singolo di
optare per una tutela complementare a quella
obbligatoria pubblica, ma non la libertà di azione dei fondi, che è invece soggetta alla complessa disciplina legislativa e di cui si è detto nei
parr. 3 e 4.
La libertà di adesione è ricondotta alla garanzia della libertà di assistenza privata di cui all’art. 38, comma 5o, e si ritiene giustificata in
quanto la soggettiva valutazione del singolo
avrebbe valore sovraordinato rispetto a qualsiasi altro ( 113 ), trattandosi di una decisione che
ciascuno deve prendere « a misura del suo personale programma finanziario », in quanto
comportante « una valutazione dei flussi di reddito percepito o attesi in futuro e che viene assunta nell’interesse dell’intero nucleo familiare ( 114 ). Si obietta però che una simile visione
muove dal presupposto della sussistenza di
un’elevata tutela previdenziale pubblica, al di
sopra della quale devono legittimamente trova-
( 111 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
70.
( 112 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova
legge, cit., p. 185: « se all’inizio la libertà stava soprattutto a significare libertà di scegliere se aderire o meno, sulla base della nuova normativa a questa libertà
si aggiunge anche la libertà di scegliere fra vari sbocchi una volta che si scelga di aderire ».
( 113 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
71.
( 114 ) V. ancora Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 73 ss.
re spazio le scelte individuali; visione che appare in netto contrasto con la scelta c.d. di realpolitik di incremento della previdenza complementare in funzione della mitigazione degli effetti della riforma del sistema previdenziale
pubblico e della conseguente inerenza della tutela complementare alla garanzia di adeguatezza
di cui all’art. 38, comma 2o ( 115 ).
Nella disciplina previgente – in cui sussisteva
un rapporto di sussidiarietà tra fondi chiusi e
aperti e in cui di conseguenza il lavoratore tendenzialmente era libero soltanto di scegliere se
aderire o no alla forma pensionistica collettiva e
solo in mancanza (o su disposizione) di questa a
un fondo aperto – la libertà di adesione si configurava come una deroga al principio dell’inderogabilità del contratto collettivo, in mancanza
del quale la rinuncia all’adesione da parte del
singolo lavoratore sarebbe stata soggetta alle regole di cui all’art. 2113 c.c. ( 116 ). L’originaria
collocazione del principio nell’art. 3, comma 4o,
del d.lgs. n. 124/93 era dunque corretta, in
quanto la norma era proprio finalizzata a regolare i rapporti tra autonomia individuale e collettiva in modo diverso dalle regole generali vigenti in materia. Analogamente, la collocazione
nell’art. 1 del d.lgs. n. 252/05 ha chiaramente il
senso della maggiore portata attribuita a tale
principio, che viene ora declinato anche nella libertà di scelta e di cambiamento della forma
pensionistica cui aderire, mutamento di prospettiva che è frutto della scelta dell’equiparazione delle diverse forme pensionistiche ( 117 ),
oltre che « riflesso » di una attuazione « indivi-
( 115 ) Persiani, La previdenza complementare tra
iniziativa sindacale, cit., p. 790, il quale ritiene che la
valorizzazione della libertà di adesione « sia soprattutto funzionale alla promozione delle forme di previdenza complementari diverse da quelle sindacali e,
quindi, delle forme di investimento finanziario offerte dal mercato ».
( 116 ) V. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario; Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 788; Ciocca, La libertà della
previdenza privata, cit., p. 252.
( 117 ) Rileva Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 784, che la questione
della libertà di adesione si pone in termini diversi in
conseguenza del radicale mutamento di prospettiva
in atto, che determinerebbe il superamento della previdenza c.d. sindacale a favore di una previdenza centrata sulla dimensione privata-individuale.
La nuova disciplina della previdenza complementare
dualista » dei precetti di costituzione economica ( 118 ).
Prima di entrare nel merito dell’innovazione
legislativa, si deve ricordare che la libertà di
adesione è stata criticata sia perché potenzialmente in grado di compromettere o vanificare
l’azione sindacale in materia ( 119 ), sia perché in
contrasto con la finalizzazione della previdenza
complementare alla realizzazione della garanzia
dei mezzi adeguati alle esigenze di vita di cui all’art. 38, comma 2o, Cost.; garanzia che postulerebbe l’obbligatorietà dell’adesione alle forme
pensionistiche complementari ( 120 ). Si è già avuto modo di osservare come l’obbligatorietà della previdenza complementare non garantisca di
per sé la realizzazione della garanzia di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost.; è utile aggiungere
ancora che, almeno nel quadro previgente, l’impostazione della questione in termini di dissociabilità del singolo dalle acquisizioni della contrattazione collettiva in questa materia appariva
frutto di un « pregiudizio eteronomo », nel quale si considerava l’adesione realizzata tramite il
contratto collettivo una limitazione e non una
manifestazione della libertà dei singoli ( 121 ).
La finalità espressa di attribuire al principio
in questione anche la valenza di libertà di scelta
della forma pensionistica riproduce esattamente
quel pregiudizio e lo aggrava: non tanto per il
significato politico che assume la negazione dell’idea che quella sindacale sia la forma pensionistica più confacente alle esigenze dei lavoratori,
quanto perché collocata in un mercato concorrenziale, quella libertà, anziché esprimersi nella
forma che le è tradizionalmente propria – quella
della autotutela collettiva –, rischia di risolversi
in una « estensione delle opportunità » del tutto
( 118 ) Le espressioni sono di Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 34.
( 119 ) Persiani, La previdenza complementare tra
iniziativa sindacale, cit., p. 789; parlano di attentato
all’interesse collettivo Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 131 e Sandulli, Welfare State, riforma pensionistica, cit., p. 50; De Luca, La disciplina
dei fondi pensione, cit., p. 85, il quale esclude la violazione dell’art. 39 Cost.
( 120 ) Per un riepilogo del dibattito v. Persiani, La
previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit.,
p. 789.
( 121 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 522; Bollani, sub art. 3, in questo
Commentario.
573
fittizia. Come ha osservato uno dei più convinti
fautori di tale libertà, il suo limite sarà costituito
dal carattere necessariamente standard e di serie dei contratti unilateralmente predisposti dal
fondo pensione, « di modo che al destinatario
della proposta previdenziale altro non (sarà)
consentito se non manifestare il suo consenso
ad un certo regolamento di interessi o rinunciare alla conclusione del contratto » ( 122 ). Rischio,
questo, che è aggravato dal cruciale problema,
cui si è già accennato, della possibilità effettiva
per i lavoratori di accedere alle informazioni necessarie per tutelare adeguatamente i propri interessi ( 123 ).
Prima della riforma, la dottrina era sostanzialmente divisa tra chi riteneva che i meccanismi
dell’adesione o del conferimento tacito del t.f.r.
sarebbero stati in contrasto con la garanzia della
libertà di adesione ( 124 ) e chi affermava invece
che le due previsioni fossero compatibili ( 125 ) e
come senza la « mitizzazione » della libertà di
adesione non vi sarebbero state difficoltà ad
ammettere la legittimità dell’adesione disposta
dalla fonte istitutiva ( 126 ).
Esigenze di carattere logico e sistematico impongono ora di escludere che la previsione del
conferimento tacito del t.f.r. costituisca una limitazione della libertà di adesione, essendo entrambi espressamente stabiliti dal legislatore ( 127 ). Rinviando per l’approfondimento al
commento all’art. 8, ai fini che qui interesano è
sufficiente osservare che il lavoratore resta pur
sempre libero sia di rinunciare al conferimento,
( 122 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
152.
( 123 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge, cit., p. 1247.
( 124 ) Dondi, Prime note sulla recente disciplina
delle forme pensionistiche complementari, in Mass.
giur. lav., 1993, p. 705; Boer, La previdenza complementare, in Flessibilità e diritto del lavoro, a cura di
G. Santoro Passarelli, Torino, 1997, I, p. 305 e spec.
p. 310; Ciocca, La libertà della previdenza privata,
cit., p. 250 ss.
( 125 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge, cit., p. 1241.
( 126 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 522.
( 127 ) Ma v. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario, per il quale il conferimento tacito del t.f.r.
incrinerebbe fortemente il principio della libertà di
adesione.
574
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
sia di aderire a una forma pensionistica diversa ( 128 ). Anche in questo caso peraltro, affinché
la libertà del lavoratore sia effettiva e non meramente formale, è fondamentale che gli siano
fornite adeguate informazioni. Si osserva in
questo senso che ove ben effettuata, l’informazione renderebbe la modalità tacita assai « prossima ad essere una vera e propria manifestazione di volontà » ( 129 ).
7. – Si è già rilevato che a seguito dell’equiparazione tra fondi chiusi e aperti e della statuizione della garanzia della libertà di adesione e di
scelta della forma pensionistica cui aderire è
possibile che si creino situazioni di concorso/
conflitto tra più fondi pensione. Ci si deve ora
chiedere se la garanzia della libertà di adesione
comporti anche la possibilità di scelta del singolo di aderire a più fondi contemporaneamente o
di incrementare la propria posizione contributiva presso un solo fondo.
La possibilità di duplice o molteplice adesione era stata in passato esclusa dalla COVIP che
la considerava un evento « anomalo », dovendosi escludere che la volontà della fonti istitutive fosse quella di ammettere una partecipazione
plurima ( 130 ). L’organo di vigilanza riteneva pertanto che, in assenza di espressa previsione della
contrattazione collettiva, si dovesse presumere
l’alternatività dell’adesione. Prima dell’emanazione del d.lgs. n. 252/05 si era altresì rilevato
che osterebbe a tale possibilità la previsione dell’obbligo di conferimento di tutto il t.f.r. al fondo pensione, sicché, « la destinazione integrale
del trattamento di fine rapporto a un fondo
( 128 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova
legge, cit., p. 186; Id., Una prima interpretazione della
nuova legge, cit., p. 1241: « la « modalità tacita » non
è in radicale conflitto con la ripetuta conferma della
libertà/volontarietà della previdenza complementare ».
( 129 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova
legge, cit., p. 187.
( 130 ) V., la delibera COVIP del 12 novembre 2003,
« Coordinamento di forme pensionistiche collettive
aventi ambiti di destinatari parzialmente o totalmente
sovrapposti – Orientamenti », in http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/D031112_01.
PDF; ma si v. in argomento anche Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 412, per il
quale è sempre ammissibile il cumulo tra la previdenza di origine collettiva e quella individuale.
pensione consum(erebbe) la libertà di aderire a
forme pensionistiche diverse da quella a cui
quell’emolumento è stato conferito, salvo naturalmente farla rivivere nelle ipotesi di trasferimento » ( 131 ). Questa interpretazione sembrerebbe trovare ora conferma nell’art. 8, comma
2o, lett. b), n. 2, d.lgs. n. 252/05, in base al quale, in presenza di più forme pensionistiche il
t.f.r. è trasferito a quella alla quale abbia aderito
il maggior numero di lavoratori in azienda. Ma
la norma si riferisce solo al caso di mancata manifestazione di volontà da parte del lavoratore e
dunque non esclude necessariamente che questi
possa scegliere diversamente.
Nella delibera del 28 giugno 2006 anche la
COVIP sembra aver almeno in parte mutato
posizione, rilevando che il d.lgs. n. 252/06
« non esclude la possibilità di adesione contemporanea a più forme pensionistiche complementari ». L’affermazione è tuttavia temperata dalla successiva precisazione per cui si può
avere adesione plurima in presenza di « una
pluralità di rapporti di lavoro ». La questione
si pone oggi necessariamente in termini diversi,
in quanto, come si è visto, il legislatore auspica
e incentiva la coesistenza di più fondi, per cui
ci si deve chiedere se non sia priva di fondamento l’argomentazione che fa leva sulla volontà delle fonti istitutive di escludere l’alternatività dell’adesione o se invece il potere riconosciuto alla contrattazione collettiva di escludere
la portabilità dei contributi datoriali consenta
di risolvere anche il problema dell’adesione
plurima.
È invece stabilito a chiare lettere dal comma
2o dell’art. 8 (V. Ferrante, sub art. 8, in questo
Commentario) che la libertà riconosciuta al lavoratore comprende anche la libertà di aumentare l’entità della contribuzione a proprio carico
rispetto ai minimi stabiliti dalla contrattazione
collettiva ( 132 ).
( 131 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 296 ss. e spec. p. 305, ove si afferma
che con il conferimento del t.f.r. l’interesse previdenziale complementare del soggetto è stato integralmente ed esaustivamente soddisfatto, non residuando conseguentemente « più alcuna porzione di interesse suscettibile di essere soddisfatto ».
( 132 ) Delibera COVIP del 28 giugno 2006, cit., la
quale precisa altresì che invece la libertà di suddividere la contribuzione su diverse linee di investimento
La nuova disciplina della previdenza complementare
Per contro il lavoratore non è libero di incrementare la propria posizione contributiva nel
regime pensionistico obbligatorio, come criticamente rilevato nell’« Appello per la libertà di
scelta previdenziale e di utilizzo del t.f.r. » sottoscritto da diversi economisti ed esponenti del
mondo politico e sindacale ( 133 ). Il limite si potrebbe giustificare in ragione dell’opzione effettuata a favore dei regimi a capitalizzazione: consentire ai singoli di versare il proprio risparmio
previdenziale nel regime di previdenza obbligatoria significa mantenere le risorse nell’ambito
del sistema a ripartizione e impedire il passaggio a un sistema misto in cui almeno una parte
dei contributi è investito per realizzare più ampi
rendimenti. Non si tratta solo di una opzione
motivata da ragioni di politica economica generale, ovvero dalla finalità di incanalare ingenti
risorse sul mercato finanziario, di cui si è detto
sopra, ma di una questione ben più delicata, che
comporta la valutazione della sostenibilità del
sistema di previdenza pubblica a fronte dell’invecchiamento della popolazione. Peraltro, si deve anche considerare che per molti lavoratori
impiegati in modo discontinuo e atipico risulta
difficile non solo accumulare risparmio da destinare a finalità previdenziali, ma anche raggiungere un montante contributivo sufficiente
per maturare una pensione adeguata non al tenore di vita raggiunto durante la vita attiva, ma
anche al minimo vitale. Impedire alle persone
soggette a questo rischio di optare per il versamento delle eventuali somme disponibili a favore del sistema pubblico rischia quindi di tradursi in una negazione dello stesso diritto ad una
prestazione che vada oltre il minimo garantito ai
cittadini dall’assegno sociale e dunque, in una
violazione dell’art. 38, comma 2o, Cost. Se poi si
considera che una non irrilevante parte di lavoratori, secondo recenti indagini ( 134 ), decide di
non aderire alle forme pensionistiche complementari per sfiducia nei confronti del mercato
all’interno della stessa forma pensionistica è subordinata alle previsioni in proposito degli statuti e regolamenti delle forme pensionistiche.
( 133 ) Pubblicato su Il manifesto del 28 ottobre
2006 e in www.coordinamentorsu.it/altri2006/
2006_1028_appello.htm.
( 134 ) Fr. Luzi e Di Gialleonardo, Solo un lavoratore su quattro è pronto per i fondi pensione, in
Newsletter Mefop, n. 27, ottobre 2006, p. 2.
575
finanziario, si vede come possa risultare utile
consentire l’alternativa dell’incremento della
propria posizione presso gli enti previdenziali
obbligatori. Un ragionevole compromesso poteva essere in qualche modo costituito dalla previsione, contenuta nel n. 7, lett. e), dell’art. 1, l.d.,
il quale ha previsto la costituzione presso gli enti di previdenza obbligatoria di forme pensionistiche alle quali destinare le quote del t.f.r. non
devolute ai fondi pensione privati. Ma la previsione, che ha trovato attuazione nell’art. 8, comma 7o, lett. b) n. 3 e nel successivo d.m. 30 gennaio 2007, non costituisce affatto una possibilità
per il singolo di optare per l’incremento della
propria posizione assicurativa nel regime obbligatorio, sia perché ha carattere residuale ( 135 ),
operando solo in assenza di altri fondi, sia perché è destinata ad operare esclusivamente in assenza di diversa manifestazione delle volontà individuali. Non consente l’incremento della posizione previdenziale pubblica nemmeno la previsione di cui al comma 755o dell’art. 1 della l.
n. 296/06, che istituisce presso l’INPS un apposito fondo destinato a ricevere e ad erogare il
t.f.r. per le imprese con più di 49 addetti, in
quanto il t.f.r. versato all’ente previdenziale
mantiene la sua originaria caratteristica ( 136 ) e
non è finalizzato all’incremento dei trattamenti
pensionistici. Un timido accenno alla possibilità
di incrementare la propria posizione nel sistema
previdenziale obbligatorio è contenuto nel comma 760o dell’art. 1, l. n. 296/06, in base al quale
nella relazione riguardante i dati relativi alla costituzione e ai rendimenti delle forme pensionistiche complementari e alle adesioni alle stesse
che il Ministro del lavoro deve presentare annualmente al Parlamento sono anche indicate
« le condizioni tecnico-finanziarie necessarie
per la costituzione di una eventuale apposita gestione INPS, alimentata con il t.f.r., dei trattamenti aggiuntivi a quelli della pensione obbligatoria ». Con questa disposizione il legislatore
sembra dunque intenzionato a valutare le condizioni per consentire di utilizzare il t.f.r. per incrementare la propria posizione nel regime di
( 135 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge, cit., p. 1254.
( 136 ) Ragione per la quale non è nemmeno corretto
parlare di scippo, come avviene in alcune recenti rivendicazioni sindacali.
576
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
previdenza obbligatoria, ma si tratta per il momento di un’ipotesi ancora tutta da verificare. Altra è
la questione, che non può essere approfondita in
questa sede, se le forme pensionistiche istituite dagli enti pubblici debbano essere regolate secondo
la normativa propria del settore della previdenza
complementare, per la quale si rinvia a Garcea,
sub art. 9, in questo Commentario ( 137 ).
8. – In una prospettiva in cui la libertà di adesione viene elevata a fondamento del sistema e
in cui alla libertà di concorrenza vengono attribuite virtù quasi salvifiche, ci si deve domandare se e perché non sia parimenti garantita la libertà di uscita dalla tutela previdenziale complementare ( 138 ).
La limitazione di quest’ultima libertà si giustifica, secondo la lettura prevalente, con la finalità previdenziale e, più in specifico, con la funzionalizzazione della previdenza complementare alla realizzazione degli obiettivi di cui all’art.
38, comma 2o: il concorso della previdenza
complementare alla realizzazione di una prestazione pensionistica adeguata, in altre parole, fa
sì che l’opzione positiva di adesione e quella negativa non abbiano lo stesso valore. Ne è conseguito un pressoché generale consenso sull’esclusione della « indiscriminata libertà di rinunciare
al programma di previdenza complementare già
avviato » ( 139 ). Non sono mancati peraltro tentativi di temperamento rispetto ad una posizione così radicale, ammettendosi il recesso per
giusta causa in applicazione delle regole civilistiche generali ( 140 ); ma si tratterebbe di una so-
( 137 ) V. anche Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1254.
( 138 ) Si chiede infatti Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 185: « perché, nell’ambito
di un provvedimento legislativo che in primo luogo
afferma la libertà e la volontarietà del sistema complementare, non si riconosce la libertà di rinunciare
al conferimento del t.f.r. dopo che lo si è inizialmente
consentito? ».
( 139 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova
legge, cit., p. 185 per il quale « un parallelismo di soluzioni, per cui se è ammessa la libertà di entrare dovrebbe ammettersi anche la libertà di uscire, non sta
in piedi e caso mai, se c’è qualcosa da spiegare, è la libertà di entrata », p. 186; Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 125.
( 140 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
250.
luzione non adeguata, in quanto la giusta causa
deve riferirsi a situazioni attinenti al rapporto
giuridico sussistente tra l’aderente e il fondo
pensione e non tiene conto delle mutevoli esigenze del singolo che normalmente possono indurre a decidere di « uscire » dal fondo.
Si è altresì sostenuto che, sempre in applicazione delle regole civilistiche generali e in considerazione del carattere a tempo indeterminato
del rapporto instaurato, si dovrebbe sempre
ammettere la facoltà di recesso, ma resterebbe
esclusa la possibilità di recuperare le somme
versate ( 141 ). Anche in questo caso la soluzione
non appare del tutto appagante. Se la finalità è
l’adeguatezza delle prestazioni, logica conseguenza dovrebbe essere l’obbligatorietà dell’iscrizione al sistema di previdenza complementare; ma una volta che si sia esclusa tale
scelta e si sia optato invece per un sistema a libera adesione, solo il bilanciamento della libertà con altri diritti costituzionalmente rilevanti
può giustificarne la compressione, e a tale bilanciamento si deve procedere con riguardo a ogni
aspetto della disciplina della materia che comprime la libertà del singolo. Il dubbio circa la legittimità della limitazione della libertà individuale è peraltro aggravato dalla recente riforma,
nella quale, come si è visto, la libertà di adesione ha assunto una configurazione diversa rispetto al passato, non trattandosi più della sola libertà di entrare in un predeterminato programma di risparmio previdenziale, bensì di una più
complessa libertà di scelta circa le modalità di
realizzazione di tale finalità.
Una ragione che può contribuire a giustificare
la compressione della libertà del singolo è data
dalla necessità di impedire processi di « depauperamento dei fondi »: la facoltà attribuita al lavoratore di revocare la propria scelta potrebbe
in effetti incidere negativamente sulle aspettative di finanziamento del fondo pensione e sui
calcoli di investimento che questo può effettuare. Tuttavia l’art. 14, comma 6o, dispone che il
lavoratore ha la facoltà di trasferire la propria
posizione presso un’altra forma pensionistica
dopo che siano trascorsi due anni. Ciò avviene
inoltre in un contesto in cui il legislatore ha rinunciato quasi totalmente a mantenere mecca-
( 141 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 478 ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
nismi di controllo della concorrenza tra i fondi
necessari per impedire che la frammentazione
degli stessi possa vanificare la realizzazione di
quelle economie di scala necessarie per il buon
funzionamento dei fondi stessi. Dunque, rispetto al sistema delineato di libertà di adesione e di
concorrenza tra i fondi, i limiti e le penalizzazioni poste all’uscita dei singoli appaiono una contraddizione e comunque non giustificate ove
sussistano per il lavoratore valide ragioni per rinunciare al programma di previdenza complementare.
Si può invece fondatamente giustificare la limitazione della possibilità di uscita dal sistema
considerando che questa è posta nell’interesse
del singolo lavoratore, allo scopo di tutelarne i
risparmi in vista della realizzazione del fine previdenziale. Tuttavia, tale considerazione non
pare ancora sufficiente a fugare tutti i dubbi.
Una simile lettura individualistica della normativa si scontra infatti con la possibilità di ottenere buona parte della prestazione previdenziale
in forma di capitale, e in ogni caso appare sproporzionata qualora la decisione di recesso del
lavoratore sia motivata dall’esigenza di fare
fronte ad altri eventi generatori di bisogno (come potrebbero essere cure sanitarie o situazioni
di disoccupazione) o in ogni caso per fruire di
altri diritti o osservare altri doveri costituzionalmente riconosciuti (come potrebbe essere il
mantenimento dei figli). In casi di questo genere, si rischia che per garantire una tutela futura
si lasci cadere oggi la persona in una situazione
di esclusione sociale e di povertà dalla quale poi
è ben difficile uscire e che paradossalmente, impedendo l’ulteriore accumulo di risparmio, ri-
577
schia di compromettere anche la effettiva possibilità di fruire in futuro di una prestazione pensionistica adeguata. In altri termini, impedire
l’utilizzo del risparmio previdenziale a fronte di
bisogni socialmente rilevanti che si presentano
prima del raggiungimento dell’età pensionabile
sarebbe come chiudere le porte della stalla dopo che i buoi sono scappati. Il giudizio potrebbe essere temperato considerando che la normativa consente oggi diverse forme di riscatto e
di anticipazione, che in vario modo cercano di
contemperare l’esigenza di realizzazione della
tutela pensionistica con altri bisogni della persona (V. Pallini, sub art. 14, in questo Commentario). La valutazione circa la legittimità del
sostanziale divieto di uscire dal sistema previdenziale deve dunque essere effettuata tenendo
conto delle possibilità che la normativa in materia di riscatti e anticipazioni consente al singolo.
Non è questa la sede dove si possa effettuare
una compiuta analisi della questione, che sarà
trattata nei commenti agli artt. 11 e 14; basti qui
rilevare che ad avviso di chi scrive, le soluzioni
prefigurate in tali disposizioni appaiono ancora
parziali e subordinate al decorso di certi margini di tempo, sicché non sempre il bilanciamento
dei diritti in gioco sembra correttamente realizzato. Appare dunque quanto meno auspicabile
una revisione, nel senso di un ampliamento, delle possibilità di riscatto – totale o parziale – e di
anticipazione delle prestazioni, volta a tenere in
maggiore considerazione le situazioni di bisogno che si possono manifestare nel corso della
vita attiva della persona.
Olivia Bonardi
Art. 2.
(Ambito di applicazione e definizioni)
1. Alle forme pensionistiche complementari possono aderire in modo individuale o collettivo:
a) i lavoratori dipendenti, sia privati sia pubblici, anche secondo il criterio di appartenenza
alla medesima impresa, ente, gruppo di imprese, categoria, comparto o raggruppamento, anche
territorialmente delimitato, o diversa organizzazione di lavoro e produttiva, ivi compresi i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali previste dal decreto legislativo 10 settembre
2003, n. 276;
b) i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e per
territorio;
578
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
c) i soci lavoratori di cooperative, anche unitamente ai lavoratori dipendenti dalle cooperative interessate;
d) i soggetti destinatari del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565, anche se non iscritti al fondo ivi previsto.
2. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere istituite:
a) per i soggetti di cui al comma 1, lettere a), c) e d), esclusivamente forme pensionistiche
complementari in regime di contribuzione definita;
b) per i soggetti di cui al comma 1, lettera b), anche forme pensionistiche complementari in
regime di prestazioni definite, volte ad assicurare una prestazione determinata con riferimento
al livello del reddito ovvero a quello del trattamento pensionistico obbligatorio.
I destinatari della previdenza complementare
Sommario (art. 2): 1. I destinatari della previdenza
complementare e il riferimento al mondo del lavoro. –
2. Il genere dei destinatari: la discriminatorietà di una
disciplina apparentemente neutra. – 3. I lavoratori subordinati e i criteri di aggregazione. – 4. Segue: l’inclusione dei lavoratori assunti con le nuove « tipologie
contrattuali ». – 5. Segue: le ipotesi di legittima esclusione e la questione dei lavoratori assunti con le nuove
« tipologie contrattuali ». – 6. I soci di cooperativa. –
7. Il lavoro autonomo e i vincoli alla scelta tra regimi a
contribuzione o a prestazione definita.
1. – L’art. 2 del d.lgs. n. 252/05 definisce
l’ambito di applicazione soggettivo della nuova
disciplina della previdenza complementare riprendendo con qualche innovazione il contenuto del suo predecessore: l’art. 2 del d.lgs. n.
124/93. Cambia anzitutto la formulazione del
capoverso del comma 1o, in quanto la nuova
norma stabilisce in forma diretta quali sono i
soggetti che possono aderire, in modo individuale o collettivo ( 1 ), mentre il precedente art.
2, d.lgs. n. 124/93 stabiliva con una formulazione indiretta che le forme pensionistiche complementari potevano essere istituite per le categorie di destinatari elencate nel prosieguo. La variazione appare tuttavia solo semantica e non
sembra apportare modificazioni di sostanza alla
disciplina della materia.
I destinatari della previdenza complementare
restano in gran parte immutati rispetto al testo
precedente, il quale, peraltro, era già stato a più
riprese oggetto di diversi ampliamenti ( 2 ). Si
( 1 ) Sulle due diverse modalità di adesione v. retro,
il commento all’art. 1, par. 5.
( 2 ) Cfr. Vianello, Il nuovo campo di applicazione
delle forme pensionistiche complementari di cui al d.lg.
tratta di tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e
privati, indipendentemente dal tipo di contratto
con cui sono assunti (su cui v. infra par. 4); dei
lavoratori autonomi, dei soci lavoratori di cooperative e delle persone che svolgono lavori di
cura non retribuiti derivanti da responsabilità
familiari. In origine il d.lgs. n. 124/93 faceva riferimento a due sole categorie di destinatari: i
lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e i lavoratori autonomi; la l. n. 335/95 ha esteso la
tutela ai raggruppamenti di soci lavoratori di
cooperativa, anche unitamente ai dipendenti di
queste.
Solo in seguito il legislatore, con l’art. 17 d.lgs. n. 18 febbraio 2000, n. 47, ha aggiunto la
lett. b ter al comma 1o dell’art. 2, d.lgs. n. 124/
93, estendendo così la previdenza complementare alle persone che svolgono lavoro c.d. « casalingo ». In realtà, è bene rilevarlo sin da ora,
l’estensione è per un verso più ampia, in quanto
riguarda tutti i soggetti non lavoratori, e per
l’altro più limitata, perché questi, al pari di tutte
le persone non rientranti tra le categorie di destinatari di cui all’art. 2, in quanto non percettrici di reddito da lavoro, possono sì accedere
alle forme pensionistiche complementari, ma
soltanto a quelle individuali disciplinate dall’art.
13 e, in forza del rinvio contenuto nel comma 1o
del medesimo art. 13, ai fondi pensione aperti.
A parte quest’ultima categoria di soggetti, tutte le altre sono identificate in base alla loro appartenenza al mondo del lavoro e la delimitazio-
n. 124/93: i soggetti e le fonti, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cester, Torino, 1996, p.
406.
La nuova disciplina della previdenza complementare
ne così realizzata si spiega in ragione del carattere e della finalità della previdenza complementare: come chiaramente statuito all’art. 1 (v.
retro, Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario), lo scopo è quello di assicurare « l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari
del sistema obbligatorio », ciò che presuppone
necessariamente che il beneficiario della prestazione sia al contempo destinatario della previdenza obbligatoria e, in quanto tale, sia un lavoratore ( 3 ). È pacifico che l’ampliamento effettuato con la l. n. 335/95 ai soci di cooperativa ( 4 ) non aveva alterato il carattere occupazionale della previdenza complementare, mentre
più complessa è la questione a seguito dell’estensione alle persone non percettrici di reddito e quindi non necessariamente destinatarie
della previdenza obbligatoria. Con riferimento
alla disciplina precedente la risposta della dottrina era stata negativa, sulla base della considerazione che il d.lgs. n. 47/00 non aveva inteso
ampliare la platea dei destinatari della previdenza complementare introducendovi soggetti non
lavoratori, bensì soltanto consentire a questi ultimi di utilizzare i fondi pensione istituiti e disciplinati dal d.lgs. n. 124/93 per realizzare una
tutela previdenziale ( 5 ). Altra è la questione se
l’inserimento dei fondi aperti nell’ambito della
disciplina della previdenza complementare ne
abbia alterato il carattere sindacale, per la quale
si rinvia a Bonardi, sub art. 1, e Bollani, sub
art. 3, in questo Commentario ( 6 ). Per quanto
( 3 ) Cinelli, sub art. 1, in Disciplina delle forme
pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, in
questa Rivista, 1995, p. 169; Mazziotti, sub art. 2,
ibidem, p. 179, per il quale se la legge avesse previsto
la possibilità di un’estensione anche a soggetti per i
quali non è possibile la copertura previdenziale pubblica per la mancanza dei presupposti, la previdenza
in esame non avrebbe avuto una funzione integrativa
o complementare, ma diversa natura, anche sostitutiva della previdenza pubblica »; Tursi, La previdenza
complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale. Fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001, p.
100; Bessone, Previdenza complementare, Torino,
2001, p. 61.
( 4 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 100.
( 5 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 106.
( 6 ) V. anche Tursi, La previdenza complementare
nel sistema, cit., p. 10 ss.
579
qui interessa, basti rilevare che la nuova normativa, oltre a riconoscere ancora alla contrattazione collettiva un rilevante ruolo nella disciplina
della materia, non ne altera le finalità, che restano quelle di assicurare l’integrazione dei trattamenti pubblici (art. 1); essa inoltre mantiene e
conferma lo stretto collegamento tra previdenza
pubblica e privata, ancorando il diritto alle prestazioni complementari all’acquisizione di quelle pubbliche (v. art. 11, comma 2o). Il legislatore
del 2005, infine, non ha ampliato ulteriormente
la categoria dei destinatari della previdenza
complementare, sicché la previsione delle persone non appartenenti al mondo del lavoro tra i
possibili beneficiari della previdenza complementare continua ad avere un carattere marginale. In conclusione, ci pare si possa sostenere
che anche la nuova disciplina contenuta nel d.lgs. n. 252/05 mantenga il carattere occupazionale della previdenza complementare.
2. – La riforma attuata con il d.lgs. n. 252/05
si caratterizza, in negativo, per la totale assenza
di qualunque attenzione e riferimento alla pure
complessa questione della parità di trattamento
tra uomini e donne. La lacuna appare grave, e
colpevole, non solo alla luce della necessità di
rispettare i principi e le regole in questa materia
da tempo dettati dalla Comunità europea, ma
anche perché più che di mancata attuazione
della normativa comunitaria nel nostro caso si
deve parlare di una sua aperta violazione. In
proposito è utile ricordare anzitutto che la parità di trattamento è stata perseguita in ambito
comunitario anche sul piano previdenziale, in
particolare con le dir. 1979/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, e 1986/378/CEE del Consiglio
del 24 luglio 1986, relativa all’attuazione del
principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale. Quest’ultima è stata
poi modificata nel 1996 al fine di adeguarne i
contenuti alla ricca giurisprudenza della Corte
di giustizia in materia; giurisprudenza che, si
noti, è dettata in buona parte da controversie
promosse da uomini che si sono sentiti discriminati dalla previsione di requisiti di età per l’accesso al pensionamento superiori rispetto a
580
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
quelli stabiliti per le donne ( 7 ). Si tratta per vero
ancora del settore in cui il principio della parità
stenta maggiormente ad affermarsi, caratterizzandosi per la presenza di numerosi compromessi, tra i quali il mantenimento – almeno per
quanto riguarda il sistema pubblico – della differenza di età pensionabile tra uomini e donne,
e la legittimità dell’utilizzo di criteri di calcolo
attuariale diversi per la determinazione delle
prestazioni ( 8 ). Per quanto riguarda specificamente la previdenza complementare, la materia
è stata oggetto di un recente intervento normativo, attuato con la dir. 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio
2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento
fra uomini e donne in materia di occupazione e
impiego (rifusione) ( 9 ). Quest’ultima accorpa le
disposizioni fondamentali del diritto antidiscriminatorio di genere contenute nelle dir. 1975/
117/CEE, relativa all’applicazione del principio
della parità delle retribuzioni tra lavoratori e lavoratrici; 1976/207/CEE, riguardante l’attuazione del principio di parità di trattamento nell’accesso al lavoro, nella formazione e la promozione professionale e nelle condizioni di lavoro;
1986/378/CEE sulla parità di trattamento nei
regimi professionali di sicurezza sociale (già
modificata nel ’96) e 1997/80/CE, riguardante
l’onere della prova della discriminazione basata
sul sesso. La nuova direttiva apporta novità più
formali che sostanziali per quanto riguarda il
settore dei regimi professionali di sicurezza sociale. Dopo aver fatto salvo quanto previsto dall’art. 4, ovvero il principio della parità retributiva, essa riprende senza rilevanti innovazioni il
contenuto delle direttive precedenti, con tutti i
limiti di cui si è detto sopra ( 10 ).
( 7 ) In questo senso v. anche Izzi, I fondi pensione
e il principio di parità di trattamento nell’ordinamento
comunitario, in La previdenza complementare, a cura
di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 69.
( 8 ) Su cui v. Izzi, I fondi pensione e il principio di
parità, cit., p. 79.
( 9 ) Per un primo commento sia consentito rinviare
a Bonardi, Parità di trattamento in materia di occupazione e impiego: la nuova disciplina comunitaria, in
Note inf., 2006, n. 37, p. 37.
( 10 ) Le uniche novità sono l’inclusione nell’ambito
di applicazione dei regimi di sicurezza sociale dei dipendenti pubblici (ove le prestazioni siano collegate
Peraltro, nonostante i pur rilevanti limiti dell’intervento normativo, il settore dei regimi professionali di sicurezza sociale ha potuto fare
passi avanti nel campo della parità maggiori rispetto a quelli dei regimi legali di sicurezza sociale grazie alla statuizione, da parte della Corte
di giustizia, del carattere retributivo dei contributi e delle prestazioni erogate e della loro rilevanza ex art. 141 TCE. Senza poter entrare qui
nel merito della complessa evoluzione della normativa comunitaria, e dando per acquisito che i
regimi di previdenza complementare disciplinati dal d.lgs. n. 252/05 rientrano pienamente e
senza eccezioni nell’ambito di applicazione del
titolo II, capo 2, della dir. 2006/54/CE, relativa
ai regimi professionali di sicurezza sociale ( 11 ), è
utile ricordare che la normativa comunitaria impone anzitutto che non vi siano discriminazioni
di genere per quanto attiene al diritto di iscrizione ai fondi di previdenza complementare,
come del resto è stato espressamente sancito
dalla Corte di giustizia CE sin dalla sentenza Bilka ( 12 ), nella quale la Corte ha affermato che è
in contrasto con l’art. 119 (ora 141) TCE
l’esclusione dei dipendenti a orario ridotto dall’accesso a un regime pensionistico aziendale,
alla sussistenza del rapporto di lavoro e calcolate sulla base delle ultime retribuzioni percepite) e l’espressa definizione delle date di applicazione del principio
di irretroattività della regola di parità. Entrambe le
innovazioni recepiscono quanto da tempo già affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia
CE.
( 11 ) Sul rapporto di continenza tra la disciplina comunitaria antidiscriminatoria in materia di
previdenza complementare e l’ambito di applicazione della disciplina nazionale v. Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 67 e le sentenze
della Corte giust. CE 29 novembre 2001, C-366/99,
Griesmar; 23 ottobre 2003, C-4/02 e C-5/02
Schönheit.
( 12 ) Corte giust. CE 13 maggio 1986, C-170/84,
Bilka-Kaufhaus; 24 ottobre 1996, C-435/93, Dietz; 10
febbraio 2000, C-50/96, Deutsche Telekom AG c. Lilli Schoder; 10 febbraio 2000, C-271/97, Deusche Post
Ag c. Elisabeth Sievers; 28 settembre 1994, C-200/91,
Coloroll; 9 ottobre 2001, C-379/99, Pensionkasse fur
die Angestellten der Barmer Ersatzkasse, che affrontano anche i diversi e complicati risvolti della vicenda
relativi alla limitazione degli effetti retroattivi della
statuizione del principio di parità stabilendo che tale
principio non si applica alle limitazioni relative al diritto di iscrizione.
La nuova disciplina della previdenza complementare
ove tale esclusione colpisca in misura prevalente
le lavoratrici rispetto ai lavoratori, a meno che
non si provi che l’esclusione sia giustificata da
ragioni estranee a qualsiasi discriminazione. Si
tratta chiaramente dell’applicazione ai regimi
professionali privati di previdenza sociale del
divieto di discriminazioni indirette e si tratta di
un precedente particolarmente importante perché fornisce utili indicazioni e criteri interpretativi per affrontare lo spinoso tema dell’estensione ai lavoratori atipici della possibilità di accesso ai regimi di previdenza complementare effettuata con il d.lgs. n. 252/05 (v. par. 4).
Tornando alle regole comunitarie in materia,
è utile ricordare ancora come la Corte di giustizia abbia affermato che l’art. 119 TCE vieta le
discriminazioni per quanto riguarda l’entità dei
contributi da versare, che devono essere dello
stesso importo per lavoratori di sesso maschile e
di sesso femminile ( 13 ), anche se sono consentite
differenziazioni nei regimi a contribuzione definita, ove tali differenziazioni siano necessarie
per tenere conto della variazione dei fattori attuariali (art. 9, comma 1o, lett. h, dir. 2006/54/
CE) e salvo il caso in cui siano stabiliti contributi dei datori di lavoro differenti al fine di perequare o ravvicinare gli importi delle prestazioni
pensionistiche (art. 9, comma 1o, lett. i, dir.
2006/54/CE).
Ancora sono considerate discriminatorie le
disposizioni che fanno riferimento al genere o
allo stato di famiglia per definire se la partecipazione al regime pensionistico sia obbligatoria o
facoltativa, o che interrompono l’acquisizione o
il mantenimento dei diritti in relazione alla fruizione dei congedi di maternità o per la fruizione
delle pensioni di reversibilità ( 14 ).
Il nodo più problematico riguarda peraltro
l’applicazione del principio di parità di trattamento nella fissazione dei limiti di età per accedere ai trattamenti pensionistici. Si tratta in effetti di una delle questioni più delicate del diritto antidiscriminatorio, poiché la sua realizzazione comporta rilevanti oneri finanziari per gli
Stati membri e incide su una materia, la previ( 13 ) Corte giust. CE 22 dicembre 1993, C-152/91,
Neath; 6 ottobre 1993, C-109/91, Ten Oever.
( 14 ) Corte giust. CE 22 dicembre 1993, C-152/91,
Neath; 6 ottobre 1993, C-109/91, Ten Oever; in argomento v. anche Tursi, La previdenza complementare
nel sistema, cit., p. 150.
581
denza sociale, su cui la Comunità europea ha
avuto per lungo tempo competenze decisamente
limitate. La Corte di giustizia ha da tempo affermato che la definizione dei limiti di età per l’accesso al pensionamento di vecchiaia nei regimi
di previdenza direttamente disciplinati dalla legge non rientra nel campo di applicazione dell’art. 119 TCE ( 15 ), mentre vi rientra la definizione dei limiti di età per l’accesso ai trattamenti di
previdenza complementare ( 16 ). È stato inoltre
espressamente statuito dalla Corte di giustizia
che la differenziazione di età dei regimi professionali di previdenza è in contrasto con l’art. 119
TCE anche se la differenza di età è analoga a
quella stabilita dal regime legale nazionale ( 17 ).
Peraltro, la circostanza che l’affermazione del
principio di parità nella definizione dei limiti di
età per l’accesso alle prestazioni pensionistiche
complementari sia avvenuta prima in via giurisprudenziale e sia stata solo successivamente recepita nelle direttive comunitarie ha comportato
alcune limitazioni relative al campo di applicazione della regola di parità. In particolare, la diretta derivazione del principio in questione dall’art. 119 TCE ha consentito di stabilire nella direttiva comunitaria un regime differenziato per i
lavoratori autonomi. Per essi la fissazione di un
limite di età uguale per uomini e donne può essere posticipata fino alla data in cui la parità non
sia stabilita dal regime legale di sicurezza sociale
o sino all’adozione di una nuova direttiva in materia (art. 11 dir. 2006/54/CE). Analogamente
una differenziazione è ammessa per i lavoratori
autonomi per quanto riguarda l’accesso alle
pensioni di reversibilità ( 18 ) e all’uso di elementi
di calcolo attuariale diversi per uomini e donne ( 19 ) (art. 11 dir. 2006/54/CE).
( 15 ) Corte giust. CE 27 maggio 1971, C-80/70, Defrenne, v. anche Corte giust. CE 16 febbraio 1982,
C-19/81, Burton per la quale la definizione dei limiti
di età per il pensionamento anticipato rientra nel
campo di applicazione della dir. 1976/207/CE, relativa alle condizioni di lavoro.
( 16 ) Corte giust. CE 11 marzo 1981, C-69/80,
Worringham.
( 17 ) Corte giust. CE 17 maggio 1990, C-262/88,
Barber.
( 18 ) V. Izzi, I fondi pensione e il principio di parità,
cit., p. 76.
( 19 ) Corte giust. CE 28 settembre 1994, C-200/91,
Coloroll; 2 dicembre 1993, C-152/91 Neath.
582
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e poi codificato
nell’art. 12 della direttiva, ai lavoratori subordinati il principio di parità nei regimi professionali di sicurezza sociale si applica a partire dal 17
maggio 1990, data che coincide con quella della
sentenza Barber, con la quale per la prima volta
la Corte di giustizia ha affermato che sono discriminatori i regimi pensionistici non obbligatori differenziati in base all’età. In ragione dell’esigenza di garantire la certezza del diritto e di
evitare le ripercussioni negative che l’applicazione del principio di parità avrebbe comportato per l’equilibrio finanziario dei fondi pensione, in quella sentenza e nella giurisprudenza
successiva la Corte ha altresì stabilito chiaramente che l’applicazione di tale principio non
può avere effetto retroattivo ( 20 ). È da osservare
peraltro che se da un lato la Corte di giustizia si
è mostrata per un verso indulgente, dando preminenza alle esigenze di certezza del diritto (e
di equilibrio finanziario dei fondi pensione),
dall’altro essa è stata assai severa nel non concedere deroghe successivamente a tale data, sebbene gravando le lavoratrici del costo economico del ripristino delle condizioni di parità ( 21 ).
Si è già accennato a come il legislatore nazionale, nel riformare la disciplina della previdenza
complementare, si sia mostrato quanto meno
disattento rispetto all’esigenza di rispettare il
principio di parità tra uomini e donne; alla luce
della sia pur breve disamina della normativa comunitaria, si può ora constatare come la legge
delega n. 243/04 e il decreto di attuazione n.
252/05 si pongano in netto contrasto con tale
principio. L’art. 11, comma 2o, d.lgs. n. 252/05
stabilisce che « il diritto alla prestazione pensionistica si acquisisce al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza,
con almeno cinque anni di partecipazione alle
forme pensionistiche complementari ». La norma riprende quanto già stabilito in passato dal
( 20 ) Per chi avesse già iniziato prima del 17 maggio
1990 un’azione volta a far applicare il principio della
parità in questo campo, la data da cui si applica il
principio di irretroattività è l’8 aprile 1976, data della
sentenza Defrenne II, a partire dalla quale si applica il
principio dell’effetto diretto dell’art. 141 TCE.
( 21 ) V. Izzi, I fondi pensione e il principio di parità,
cit., p. 71.
d.lgs. n. 124/93 e come noto era stata considerata legittima, sotto il profilo del rispetto della libertà di assistenza, con la sentenza della Corte
costituzionale del 28 luglio 2000, n. 393 (su cui
v. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario).
Sotto il profilo che qui interessa, ovvero quello
del rispetto del principio di parità tra i generi,
l’illegittimità della disposizione contenuta nel
d.lgs. n. 124/93 poteva dirsi in via di superamento con la riforma del sistema previdenziale
pubblico attuata con l. n. 335/95. Quest’ultima,
pur mantenendo un regime transitorio considerevolmente lungo, istituiva la c.d. pensione di
vecchiaia unificata, che si caratterizzava, tra l’altro, per l’eliminazione della definizione di due
diverse età pensionabili per uomini e donne a
favore di una disciplina unica per i due generi e
flessibile, con possibilità di pensionamento tra i
57 e i 65 anni di età (ferma restando peraltro la
sussistenza di particolari requisiti assicurativi e
contributivi). Il rinvio contenuto nel d.lgs. n.
124/93 all’età pensionabile prevista dal sistema
pubblico dunque era, al pari della nuova età
pensionabile pubblica, neutro dal punto di vista
di genere e questo consentiva di affermare che,
almeno quando il nuovo sistema sarebbe entrato pienamente a regime, la legge italiana sarebbe stata conforme alla clausola di parità affermata prima dalla Corte di giustizia (sin dalla
sentenza Barber), ribadita dalla direttiva comunitaria 96/97, che ha modificato la dir. 1986/
378/CEE, e oggi ripresa nella dir. 2006/54/CE.
Ma con la l. n. 243/04 si compie un deciso
passo indietro. Una delle più salienti novità della nuova normativa, sia pure destinata a entrare
in vigore il 1o gennaio 2008 e probabilmente oggetto di prossime riforme legislative, riguarda
proprio il ripristino della precedente differenziazione di genere per il conseguimento del diritto a pensione: 60 anni per le donne e 65 per
gli uomini per le pensioni che saranno liquidate
con il sistema contributivo c.d. puro; ancora 60
e 65 anni per le pensioni di anzianità (liquidate
con il c.d. sistema misto), ma con la possibilità
per le donne di fruire dell’abbassamento a 57
anni a condizione di optare per il calcolo della
pensione con il solo metodo contributivo. Della
« retromarcia » così innestata, è stato affermato,
è difficile comprendere le ragioni se non ipotizzando che il legislatore abbia considerato eccessivo per le lavoratrici il passaggio immediato dai
La nuova disciplina della previdenza complementare
57 ai 65 anni ( 22 ). L’unica giustificazione che
ancora oggi rende costituzionalmente legittima
la diversità di età pensionabile resta la necessità
di compensare con lo sconto sull’età il doppio
ruolo svolto dalle donne nel mondo del lavoro e
nell’ambito della famiglia ( 23 ). Ma proprio il carattere compensativo della differenziazione impone altresì che la stessa possa essere considerata solo una opportunità concessa alle donne e
non un vincolo tale da impedire loro di continuare a lavorare, come è chiaramente sancito
dalla giurisprudenza costituzionale in materia ( 24 ).
La differenziazione di età per l’accesso ai trattamenti pensionistici di vecchiaia e anzianità così ripristinata, per quanto in controtendenza
con le linee di riforma europee ( 25 ), appare rispettosa del diritto comunitario, in quanto la
dir. 1979/7/CEE consente agli Stati membri di
escludere dall’applicazione del principio di parità, tra l’altro, la fissazione del limite di età della pensione di vecchiaia (art. 7, comma 1o); tuttavia alla medesima conclusione non si può più
giungere per le prestazioni di previdenza complementare dei lavoratori subordinati. L’art. 11
del d.lgs. n. 252/05, collegando l’accesso alle
prestazioni complementari all’età pensionabile
stabilita dal regime obbligatorio pubblico, reintroduce la differenziazione di età, in violazione
della normativa comunitaria, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, per i quali il principio di parità si applica sin dal 1990. Le conseguenze di tale violazione sono tra l’altro assai rilevanti poiché la Corte di giustizia ha affermato
che dopo il 17 maggio 1990 il rispetto del principio di parità può essere garantito in via giudi( 22 ) Izzi, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori
di rischio emergenti, Napoli, 2005, p. 123.
( 23 ) Izzi, Eguaglianza e differenze, cit., p. 118 e p.
124.
( 24 ) Corte cost. 18 giugno 1986, n. 137, in Foro it.,
1986, I, c. 1749; 27 aprile 1988, n. 498, in Foro it.,
1988, I, p. 1769, per le quali sono illegittime le disposizioni che prevedono un’età pensionabile inferiore
per le donne, ove interpretate nel senso che sia ad esse negato il diritto di continuare a svolgere la prestazione lavorativa fino allo stesso limite di età stabilito
per gli uomini; Izzi, Eguaglianza e differenze, cit., p.
116 ss.
( 25 ) V. ancora Izzi, I fondi pensione e il principio di
parità, cit., p. 73 ss.
583
ziale solo concedendo alle persone della categoria sfavorita gli stessi vantaggi di cui fruiscono le
persone della categoria privilegiata ( 26 ) e dunque riconoscendo la minore età pensionabile
prevista per le donne anche agli uomini, non
ammettendosi giustificazioni basate sull’impossibilità di sostenerne il costo finanziario. E si deve ricordare in proposito che la Corte di giustizia ha da tempo affermato che il principio di parità può essere fatto valere anche nei confronti
degli amministratori dei regimi pensionistici,
anche se estranei al rapporto di lavoro, in quanto soggetti comunque tenuti a fornire una prestazione che costituisce retribuzione a norma
dell’art. 119 TCE ( 27 ). Peraltro è utile rilevare
come il legislatore possa invece ristabilire la parità « al ribasso », cioè innalzando i requisiti di
età delle donne rispetto a quelli degli uomini ( 28 ).
3. – La prima categoria di destinatari della
previdenza complementare è costituita dai lavoratori dipendenti, pubblici e privati.
Il fatto che il legislatore abbia previsto congiuntamente le due categorie è frutto di una linea di politica del diritto – da tempo perseguita
e mai del tutto realizzata – della completa equiparazione delle due forme di impiego. Non è
tuttavia possibile in questa sede trattare diffusamente delle modifiche che hanno investito il
pubblico impiego: rinviando al commento agli
artt. 3 e 23 per una completa analisi della materia, basti qui rilevare che la disciplina della previdenza complementare si caratterizza comunque per la permanenza di ampi tratti di discontinuità del settore pubblico rispetto a quello
privato. I principali, a cui qui si può solamente
accennare, riguardano da un lato la diversa definizione delle aree contrattuali e la scelta a favore di un sistema fortemente centralizzato, or-
( 26 ) Corte giust. CE 28 settembre 1994, C-408/
92, Smith; 28 settembre 1994, C-200/91, Coloroll;
Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p.
74.
( 27 ) Corte giust. CE 24 ottobre 1996, C-435/93,
Dietz., cit.
( 28 ) In argomento v. le acute osservazioni di Izzi, I
fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 75, la
quale osserva che la parificazione all’età più bassa sarebbe in controtendenza rispetto alle politiche di innalzamento dell’età pensionabile.
584
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
ganizzato su pochi fondi di comparto o intercompartimentali ( 29 ), e dall’altro, la previsione,
contenuta nell’art. 23, comma 6o, dell’applicazione al settore del lavoro pubblico della disciplina previgente con un sostanziale posticipo
del conferimento del t.f.r.
La lett. a) del comma 1o dell’art. 2, relativa alla definizione dei lavoratori che possono aderire
alle forme pensionistiche complementari contiene alcune modifiche rispetto alla precedente
formulazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 124/93 ( 30 ),
indicando i possibili criteri di aggregazione dei
lavoratori. In generale, l’indicazione delle modalità di raggruppamento ricalca le possibili for( 29 ) Carinci, Aspetti problematici e prospettive de
jure condendo, in La previdenza complementare, cit.,
p. XXX.
( 30 ) Vi è una sorta di inversione gerarchica dei
possibili criteri di aggregazione dei lavoratori ai fini
dell’adesione alle forme pensionistiche complementari: l’art. 2 d.lgs. n. 124/93 prevedeva la categoria, il
comparto, il raggruppamento anche territorialmente
delimitato, la categoria contrattuale, l’impresa, l’ente,
il gruppo di imprese o una diversa organizzazione del
lavoro o produttiva; l’art. 2 del d.lgs. n. 252/05 inverte tale ordine, partendo dall’impresa per giungere,
elencando al contrario gli stessi possibili raggruppamenti, fino alla categoria. Quest’ultima inoltre nel
nuovo testo è indicata in modo generico, senza ulteriori specificazioni, mentre nel precedente art. 2 era
indicata sia in modo generico, sia seguita dall’attributo « contrattuale ». L’eliminazione del duplice riferimento non sembra tuttavia alterare l’indicazione normativa, anzi appare corretta sotto il profilo giuridico,
in quanto nel precedente art. 2 la categoria (generica)
era collocata accanto al comparto e indicava quindi le
categorie (merceologiche) nelle quali normalmente si
articola il livello nazionale della contrattazione collettiva, a cui corrispondeva l’espressione comparto, che
indicava lo stesso livello di contrattazione nell’ambito
del pubblico impiego, mente la categoria contrattuale, era collocata dopo le altre forme di raggruppamento e prima del livello di impresa e sembrava indicare le categorie professionali di cui all’art. 2095 c.c.
Peraltro si trattava di una imprecisione in quanto anche la « categoria » di livello nazionale non può che
essere una categoria contrattuale e non merceologica.
Sul significato da attribuire alle espressioni categoria
e categoria contrattuale nel d.lgs. n. 124/93, cfr.
Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 179. In ogni caso si deve ritenere che l’inversione dell’ordine dei criteri di
raggruppamento dall’impresa alla categoria non possa avere rilevanza giuridica ed essere intesa in senso
vincolante, riducendosi al contrario ad una mera variazione semantica.
me di associazionismo sindacale e si spiega in
considerazione del fatto che la legge, nonostante l’equiparazione tra fondi chiusi e aperti ( 31 ),
tuttora assegna al contratto collettivo il ruolo di
fonte privilegiata di istituzione delle forme pensionistiche complementari ( 32 ). Peraltro, in un
sistema fondato sulla libertà sindacale da un lato e sulla libertà dell’assistenza privata dall’altro
e nel quale, come si è visto (v. retro, sub art. 1),
la previdenza complementare pur concorrendo
alla realizzazione delle finalità di cui al comma
2o dell’art. 38 Cost., resta privata e libera, la
scelta delle modalità di aggregazione dei lavoratori non può che essere rimessa alla libera autodeterminazione di questi. Devono quindi ritenersi possibili raggruppamenti territoriali o misti, che includano lavoratori del settore pubblico con quelli del settore privato o lavoratori subordinati con quelli autonomi ( 33 ).
Più complessa è la questione della possibile
estensione della normativa a soggetti non compresi nell’elenco dei destinatari della normativa,
ovvero non espressamente menzionati nell’art.
2, di cui si tratta al par. 4.
4. – Una rilevante novità della lett. a), comma
1o, dell’art. 2 è la previsione tra i lavoratori subordinati di cui all’art. 2 dei « lavoratori assunti
( 31 ) Su cui v. Bonardi, sub art. 1, Bollani, sub
art. 3, e Pallini, sub art. 14, in questo Commentario.
( 32 ) Rilevava con riferimento al precedente art. 2
d.lgs. n. 124/93 che i criteri ricalcavano quelli dell’associazionismo sindacale perché il contratto collettivo
era la più importante tra le possibili fonti istitutive
Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 179. In argomento v.
anche Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
192, secondo il quale categoria, comparto o raggruppamento costituiscono soltanto le collettività di riferimento dell’iniziativa previdenziale: indicano la possibile estensione della forma pensionistica.
( 33 ) È peraltro a nostro avviso dubbia la possibilità
di ravvisare un ulteriore riscontro normativo a favore
dell’ammissibilità di fondi misti di lavoratori autonomi e subordinati nel comma 5o dell’art. 4, in base al
quale « i fondi pensione costituiti nell’àmbito di categorie, comparti o raggruppamenti, sia per lavoratori
subordinati sia per lavoratori autonomi, devono assumere forma di soggetto riconosciuto ai sensi del comma 1o, lett. b)... »: la norma infatti deve essere riferita
alle due categorie di lavoratori alternativamente e
non cumulativamente; essa dunque non conferma,
ma non esclude nemmeno il loro raggruppamento in
un’unica forma pensionistica.
La nuova disciplina della previdenza complementare
in base alle tipologie contrattuali previste dal
decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 ».
L’innovazione merita un’approfondita riflessione, per alcune importanti ragioni: in primo luogo essa pone un problema di carattere prettamente interpretativo riguardante la definizione
delle tipologie contrattuali a cui si riferisce la
norma; inoltre ci si deve chiedere se e in che misura siano legittime le previsioni dei fondi pensione volte ad ammettere o ad escludere dal
proprio ambito di applicazione i lavoratori
aventi determinati tipi di contratto o svolgenti
attività limitate nel tempo.
Prima di entrare nel merito di tali questioni, si
deve considerare che si tratta di lavoratori che
difficilmente o a fatica, a causa dei percorsi lavorativi non lineari, riusciranno a maturare il diritto alle prestazioni previdenziali del primo pilastro, e a maggior ragione a realizzare forme di
risparmio da destinare alla previdenza complementare. È stato osservato che una delle finalità
della legge delega era quella di perseguire la
« contestuale incentivazione di nuova occupazione con caratteri di stabilità ». Era stato di
conseguenza previsto nei criteri di delega l’abbattimento dell’aliquota contributiva della previdenza obbligatoria per le nuove assunzioni
con contratto a tempo indeterminato. La misura, inizialmente « persa per strada » ( 34 ) è stata
poi inserita nella legge finanziaria per il 2007 la
quale, con varie disposizioni, prevede riduzioni
della contribuzione e deduzioni dalla base imponibile Irap per i soli lavoratori assunti con
contratto a tempo indeterminato e ulteriori incentivi per la trasformazione dei contratti di
collaborazione coordinata e continuativa in
contratti di lavoro subordinato. Si inizia in questo modo ad affrontare una questione che non a
torto è stata considerata una delle più « urgenti
e gravi », cioè quella del « rapporto tra previdenza complementare e tendenze del mercato
del lavoro, che moltiplicano tipologie di lavoro
discontinuo » ( 35 ). Si tratta, peraltro, di misure
ancora modeste e parziali rispetto alla dimensione del problema. La situazione è tra l’altro
( 34 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge in tema di pensioni complementari, con
qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato,
in Prev. ass. pubbl. e priv., 2004, III, p. 1235.
( 35 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge, cit., p. 1265.
585
ancora più problematica per i lavoratori impiegati con contratti di lavoro a progetto o comunque di collaborazione coordinata e continuativa
i quali, oltre ad avere ancora contributi (e quindi poi pensioni) nettamente più bassi nel sistema previdenziale pubblico, non possono avvalersi del conferimento del t.f.r. per potenziare la
propria posizione di previdenza complementare.
Peraltro, la nuova normativa agevola la posizione dei lavoratori atipici mediante la previsione di misure volte ad ampliare la c.d. portabilità
e la salvaguardia della posizione previdenziale
del singolo. D’altro canto, e senza poter qui approfondire la questione, che sarà trattata diffusamente nei commenti agli artt. 11 e 14, si deve
anche osservare come, rispetto alla elevata mobilità dei lavoratori, potrebbe essere utile non
solo la possibilità di trasferimento della posizione previdenziale da un fondo all’altro senza perdite, ma anche l’opportunità opposta, consistente nella facoltà riconosciuta al lavoratore di
restare nel fondo al quale si è iscritto quando,
pur avendone perso i requisiti (e pur avendo
maturato quelli di adesione a un altro fondo), lo
stesso preveda o aspiri a riacquisirli in futuro. Si
tratta di una opportunità che il legislatore non
ha previsto, ma che è contenuta nelle direttive
generali alle forme pensionistiche complementari emanate dalla Covip ( 36 ), ove si stabilisce
che tutte le forme pensionistiche complementari dovranno prevedere, oltre al riscatto e al trasferimento, anche « il mantenimento della posizione individuale dell’aderente presso la forma
stessa che, salvo diverso avviso del lavoratore,
dovrà continuare ad essere gestita dalla forma
pensionistica ed essere incrementata dei rendimenti conseguiti », e che la regola del mantenimento si applichi anche nel caso in cui il lavoratore non abbia esercitato altre opzioni ( 37 ).
( 36 ) Deliberazione del 28 giugno 2006, « Direttive generali alle forme pensionistiche complementari, ai sensi dell’articolo 23, comma 3o, del decreto legislativo 5
dicembre 2005, n. 252 », in http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/Direttive%20covip.pdf.
( 37 ) Di un’analoga esigenza si è fatta almeno parzialmente carico anche la dir. 1998/49/CE del Consiglio del 29 giugno 1998, relativa alla salvaguardia dei
diritti a pensione complementare dei lavoratori subordinati e dei lavoratori autonomi che si spostano
all’interno della Comunità europea, che sia pure con
586
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Si è già osservato, in sede di commento all’art.
1, come le limitazioni alle possibilità di uscita
dal sistema di previdenza complementare non
siano più del tutto giustificate in un regime in
cui la libertà di adesione ai fondi viene declinata
in (quasi) tutte le sue possibili accezioni. In
quella sede si è altresì sostenuto che tali limitazioni appaiono giustificabili a fronte di bisogni
diversi da quelli previdenziali, mentre sembrano eccessive rispetto ad esigenze, quali la disoccupazione, che rientrano a pieno titolo negli
eventi che l’art. 38 Cost. considera meritevoli di
tutela. Ci si chiede ora se il vincolo di destinazione della tutela pensionistica della previdenza
complementare, limitando la possibilità di utilizzare i risparmi con essa realizzati in funzione
di sostegno del reddito per i periodi di non lavoro, la renda poco appetibile. Si rileva, in proposito, che per i lavoratori assunti con contratti
di lavoro flessibile e a termine il t.f.r. continua
ad essere preferibile, nonostante il suo minor
rendimento, perché consente una immediata liquidità, necessaria per affrontare le evenienze
connesse ai periodi di disoccupazione. Valutare
che cosa sia più conveniente è in realtà molto
più complicato di quanto appaia a prima vista e
presuppone una attenta analisi della disciplina
delle anticipazioni e dei riscatti. Quest’ultima,
oltretutto non è del tutto chiara e pone alcuni
rilevanti dubbi interpretativi ( 38 ), per i quali si
deve necessariamente rinviare ai commenti agli
artt. 11 e 14, che trattano la materia in modo approfondito. Sommariamente si può qui osservare come la disciplina legislativa presenti misure
sia più, sia meno vantaggiose rispetto al t.f.r.
Milita a sfavore della previdenza e rende quindi
più appetibile il t.f.r. la normativa relativa al riscatto, che per i periodi di disoccupazione è
consentito nella misura del 50% solo dopo 12
mesi dalla perdita del posto e del 100% dopo
48 mesi. Peraltro la legge consente il riscatto anche per cause diverse da quelle indicate dalla
legge e secondo l’interpretazione COVIP sono
legittime le clausole degli statuti che lo consenriferimento al diverso caso della mobilità transnazionale del lavoratore, all’art. 4 si preoccupa di statuire
precise norme volte a garantire il mantenimento dei
diritti acquisiti dai lavoratori che perdano i requisti
di partecipazione al fondo.
( 38 ) V. Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge, cit., p. 201.
tono al momento della cessazione del rapporto
di lavoro. Queste ultime dunque rendono
l’iscrizione al fondo di previdenza più conveniente, in ragione della immediata liquidità e
del maggior rendimento rispetto al t.f.r. Sennonché per tali ipotesi il comma 5o dell’art. 14
prevede una non irrilevante ritenuta a titolo
d’imposta. La normativa inoltre non considera
gli eventuali bisogni di liquidità che possono
derivare dal passaggio da un lavoro a tempo
pieno ad un altro lavoro ad orario ridotto. In
questo caso si potrebbe ricorrere ad eventuali
anticipazioni, ma anche queste non sono necessariamente più favorevoli rispetto al t.f.r. Da un
lato, le anticipazioni per spese derivanti da cure
sanitarie sono immediatamente disponibili,
mentre per quelle per l’acquisto della prima casa e per altre esigenze sono necessari otto anni
di iscrizione a regimi di previdenza complementare e non di permanenza nel singolo fondo previdenziale e, tanto meno nel singolo rapporto di
lavoro, come invece avviene per il t.f.r.; inoltre
la legge consente le anticipazioni anche « per altre cause ». D’altro canto quest’ultima possibilità, che consentirebbe di utilizzare il risparmio
previdenziale in funzione di sostegno del reddito durante i periodi di disoccupazione o sottoccupazione è limitata dal fatto che l’anticipo è
ammesso solo nella misura del 30%, e comunque anche in questo caso con una ritenuta a titolo d’imposta del 23%. La convenienza dunque appare riservata ai soli lavoratori con una
discreta anzianità di permanenza nel sistema
della previdenza complementare.
La lett. a) del comma 1o dell’art. 2 fa riferimento ai lavoratori assunti con le « tipologie
contrattuali previste dal decreto legislativo 10
settembre 2003, n. 276 ». Quest’ultimo disciplina i contratti di lavoro alle dipendenze delle
agenzie di somministrazione, intermittente, ripartito, a tempo parziale, di apprendistato, di
inserimento, a progetto, occasionale e accessorio. Il primo quesito è se rientrino nella lett. a)
tutti i lavoratori assunti con questi tipi contrattuali o soltanto quelli assunti con contratti di lavoro avente vincolo di subordinazione. Il dubbio più rilevante in proposito riguarda i lavoratori a progetto. La loro assimilazione ai lavoratori subordinati, già sostenuta in passato ( 39 ), ha
( 39 ) Da Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181.
La nuova disciplina della previdenza complementare
il vantaggio di realizzare una forma di tutela
unitaria dei lavoratori della medesima impresa
e di consentire al lavoratore il mantenimento
della propria posizione previdenziale all’interno dello stesso fondo sia in caso di successiva
assunzione con contratto di lavoro subordinato, sia nel caso di successione di assunzioni con
le diverse tipologie contrattuali. L’opzione a favore dell’assimilazione dei lavoratori a progetto
a quelli subordinati presenta però l’inconveniente della necessità di definire diverse modalità di finanziamento, non potendo questo essere realizzato mediante il conferimento del t.f.r.,
limite questo che può incidere negativamente
sulla realizzazione di una tutela previdenziale
adeguata. L’opzione contraria, ovvero a favore
dell’assimilazione ai lavoratori autonomi, ha il
vantaggio di consentire al lavoratore di optare
per una forma pensionistica a prestazione definita, che il comma 2o dell’art. 2 riserva ai soli
lavoratori di cui alla lett. b (v. infra par. 7), ma
che, come si vedrà, è assai poco diffusa e riservata alle categorie di lavoratori più forti sul
mercato perché molto onerosa. Sul piano strettamente giuridico, militano a favore dell’inquadramento dei lavoratori a progetto nella lett. b)
sia il carattere autonomo della prestazione di
lavoro, sia il tenore della lett. a) nella quale si
usa la formula « i lavoratori dipendenti (...) ivi
compresi i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali (...) ». L’espressione usata dal
legislatore sembrerebbe in effetti riferirsi alle
sole tipologie contrattuali di lavoro subordinato, ma la stessa norma potrebbe essere interpretata anche nel senso opposto, potendosi ritenere che il legislatore abbia invece inteso accorpare tutte le nuove forme di lavoro previste
dal d.lgs. n. 276/03 entro il più ampio genus
dei lavoratori economicamente dipendenti.
L’ambiguità della norma non può che essere risolta sulla base dei principi generali che regolano la materia e in primo luogo tenendo conto
della discrezionalità ( 40 ) che il legislatore ha lasciato alle fonti istitutive circa le definizione
dei criteri aggregativi dei lavoratori, affidando
sostanzialmente al contratto collettivo, accordo
( 40 ) Pessi, La previdenza complementare, Padova,
1999, p. 141.
587
o regolamento d’impresa il compito di delineare l’area dei destinatari ( 41 ).
In questo senso è utile ricordare che sussiste
un generale consenso sulla possibilità per le
fonti istitutive di prevedere anche destinatari
ulteriori rispetto agli appartenenti alla categoria a cui il contratto collettivo che ha istituito la
forma pensionistica si riferisce ( 42 ) e in proposito si noti come sinora i fondi si siano fatti carico di includere lavoratori di imprese appartenenti alla categoria merceologica di riferimento, ma a cui non si applica il contratto collettivo, o di imprese appartenenti ai settori affini,
ma pur sempre richiedendo la sussistenza di un
preventivo accordo sindacale ( 43 ). La COVIP,
tuttavia, ha affermato che la possibilità di includere altri soggetti presuppone la sussistenza
di alcune condizioni particolarmente rigorose e
complesse ( 44 ). Al di là della definizione delle
modalità con cui le fonti istitutive possono
estendere il loro raggio d’azione, si deve comunque ritenere che sia in generale possibile
l’inclusione dei lavoratori aventi rapporti di lavoro particolari tra i destinatari delle forme di
previdenza complementare.
Una risposta più articolata deve tuttavia essere
data al quesito se le fonti istitutive possano in-
( 41 ) In questo senso con riferimento al precedente
d.lgs. n. 124/93 v. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 187.
( 42 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 187;
v. anche l’elenco esemplificativo di fondi pensione aperti anche a soggetti non firmatari del contratto collettivo riportato da Vianello, Previdenza complementare
e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 263 ss.
( 43 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 265.
( 44 ) Si richiedeva infatti che almeno una delle parti
che ha sottoscritto il contratto istitutivo del fondo
pensione fosse anche firmataria del contratto collettivo di lavoro degli ulteriori destinatari e che sussistesse
una specifica fonte istitutiva che completasse quella
originaria, nonché una ulteriore specifica fonte di raccordo e di completamento della fonte istitutiva originaria. V. le delibere del 18 giugno 1997, « Orientamenti in materia statutaria », in http://www.covip.
it/documenti/html/provvedimenti/D970618_01.htm;
delibera del 26 gennaio 2001, « Area dei destinatari
dei fondi preesistenti; orientamenti interpretativi », in
http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/
D010126_01.pdf; in argomento v. anche Bessone,
Previdenza complementare, cit., p. 187, Vianello,
Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 265.
588
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
cludere tra i destinatari della tutela previdenziale complementare realizzata a favore dei dipendenti dell’utilizzatore anche i lavoratori impiegati da quest’ultimo mediante contratti di
somministrazione. La risposta deve a nostro
avviso essere tendenzialmente positiva, in
quanto, pur essendo questi lavoratori assunti
da un datore di lavoro diverso e pur essendo
essi soggetti a una diversa contrattazione collettiva, la disposizione che li include tra i destinatari della tutela previdenziale può considerarsi
disposizione a favore di terzi, di cui il lavoratore si avvale mediante l’adesione al fondo pensione. Se dunque non sembrano sussistere ostacoli nel ritenere che il lavoratore assunto dall’agenzia di somministrazione possa aderire al
fondo di previdenza complementare dell’utilizzatore ove la fonte istitutiva applicabile a quest’ultimo lo preveda, si deve tuttavia ancora valutare se il datore di lavoro somministratore sia
tenuto a conferire il t.f.r. e a versare gli eventuali contributi previsti dal contratto collettivo.
Poiché l’art. 8, comma 7o, lett. a) stabilisce che
« il lavoratore, può conferire l’intero importo
del t.f.r. maturando ad una forma di previdenza complementare dallo stesso prescelta », non
pare dubbio che il somministrante sia obbligato a versare il t.f.r. al fondo indicato dal lavoratore, mentre per quanto riguarda il versamento
di ulteriori contributi la questione appare più
complessa. Come si vedrà meglio, è assai dubbio che un simile vincolo possa essere desunto
dal comma 1o dell’art. 23, d.lgs. n. 276/03, in
base al quale il lavoratore ha diritto « a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di
pari livello dell’utilizzatore ». Tale norma infatti non garantisce l’estensione dello stesso trattamento spettante ai dipendenti dell’utilizzatore, ma solo che il lavoratore non percepisca un
trattamento inferiore a quello a cui avrebbe diritto se fosse assunto direttamente dal suo utilizzatore. Né si può fare riferimento a nostro
parere alla previsione di cui al comma 4o dell’art. 23, in base al quale il lavoratore ha diritto
« a fruire di tutti i servizi sociali e assistenziali
di cui godono i dipendenti dell’utilizzatore addetti alla stessa unità produttiva, esclusi quelli
il cui godimento sia condizionato alla iscrizione
ad associazioni o società cooperative o al conseguimento di una determinata anzianità di servizio ». Non si tratta infatti nel nostro caso né
di servizi sociali, né di assistenza e l’adesione
alla forma pensionistica complementare presuppone l’associazione al fondo pensione. In
conclusione, l’obbligo di versamento del contributo del datore di lavoro al fondo pensione
istituito per i dipendenti dell’utilizzatore potrà
sussistere in capo all’agenzia di somministrazione datrice di lavoro solo ove lo stesso sia
previsto dalla contrattazione collettiva che si
applica all’agenzia stessa.
5. – Molto più complessa è la questione opposta a quella sopra esaminata, ovvero se sia possibile per la fonte istitutiva escludere il diritto
di aderire al fondo per particolari soggetti. Può
essere utile muovere dall’osservazione della legittimità dell’esclusione di coloro ai quali non
si applica la fonte istitutiva e dalla constatazione che, anzi, il problema è proprio quello della
necessità di una clausola che conferisca al lavoratore il diritto di adesione ( 45 ). Il nodo interpretativo è dunque quello di stabilire se le fonti
istitutive possano espressamente escludere i lavoratori aventi particolari rapporti di lavoro, a
termine, a tempo parziale, ripartito o a chiamata, ma anche di lavoro somministrato, dall’ambito di applicazione della tutela previdenziale,
e se nel silenzio delle fonti istitutive i lavoratori
aventi tali tipi di rapporto abbiano o no diritto
di iscriversi ai fondi pensione.
Si è osservato in proposito che legittimamente
la forma previdenziale autodefinisce il proprio
ambito di applicazione, escludendo chi non fa
parte dello specifico gruppo preindividuato ( 46 ). In linea generale in effetti appare abbastanza scontato il riconoscimento della possibilità di delimitare la sfera dei destinatari delle
forme pensionistiche complementari in quanto
istituite sulla base di atti di autonomia privata
(v. retro, sub art. 1); tuttavia la questione è
molto più complicata e anche l’autonomia collettiva, e più in generale quella privata, incontrano alcuni limiti. In primo luogo un limite alle possibilità di esclusione di determinati soggetti deriva dai divieti di discriminazione, che
riguardano sia quelle dirette sia quelle indirette. 45E si è
( ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 242.
( 46 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mò di (parziale)
commento del d.lgs. 252/05, in Prev. ass. pubbl. e
priv., 2005, I, p. 153.
La nuova disciplina della previdenza complementare
già rilevato al par. 2 che la giurisprudenza della
Corte di giustizia ha da tempo affermato che
l’esclusione dei lavoratori a tempo parziale dal
diritto di adesione alle forme pensionistiche
complementari costituisce discriminazione indiretta di genere, e alla medesima conclusione si
può giungere con riferimento alle altre forme di
lavoro modulato e flessibile, tutte le volte che
queste siano svolte in misura maggiore da donne o da soggetti ai quali i d.lgs. n. 215 e n. 216
del 2003 hanno esteso la tutela antidiscriminatoria (sempre che non sussistano valide ragioni
giustificatrici delle differenze di trattamento).
Al di là di tale limite generale, ci si deve però
anche chiedere se il diritto all’iscrizione al fondo di previdenza complementare sussista a favore dei lavoratori assunti con le nuove tipologie di lavoro di cui al d.lgs. n. 276/03, compresi
quelli impiegati con contratti di somministrazione di lavoro e dei lavoratori a progetto, nonché a favore dei lavoratori assunti con contratto
a termine. Si può ritenere che, almeno per tutti i
lavoratori subordinati, il diritto di adesione sussista ove le fonti istitutive abbiano previsto il diritto all’iscrizione ai lavoratori dipendenti in
modo generico, senza subordinarlo a particolari
requisiti. Nel caso in cui invece siano previsti limiti relativi al tipo (o a determinate caratteristiche, per lo più temporali) di contratto, ci si deve
chiedere se il diritto del singolo all’iscrizione
possa essere desunto dai principi di non discriminazione o dalle garanzie di parità previsti dalla disciplina di ciascun contratto. Non è possibile in questa sede analizzare in modo dettagliato tutte le formule utilizzate dal legislatore, né
tutte le interpretazioni che ne sono state date.
La lettura che a nostro avviso appare più convincente è quella di chi ritiene che tali formule
siano una ulteriore espressione del principio di
parità, che assume una portata centrale e sistematica, che opera « quale metanorma che non
individua lo specifico contenuto della disciplina, ma ne detta il criterio di sviluppo » ( 47 ).
Non si afferma in questo modo la sussistenza di
un generale principio di parità di trattamento
tra lavoratori, ma si richiede, più riduttivamente, di ignorare una determinata differenza: se da
( 47 ) Chieco, Lavoratore comparabile e modello sociale nella legislazione sulla flessibilità del contratto e
dell’impresa, in Riv. giur. lav., 2002, p. 767.
589
un lato l’articolazione dei tipi contrattuali e la
flessibilizzazione nell’utilizzazione del fattore
lavoro – vista con relativo favore dal legislatore
in quanto possibile strumento in grado di rispondere alle mutevoli esigenze delle imprese –
esige necessariamente che differenziazioni di disciplina sussistano, dall’altro il principio di parità impone che queste siano solo ed esclusivamente quelle che attengono a tali articolazioni e
non al trattamento generale del rapporto di lavoro. Se questa pare l’interpretazione preferibile, ne consegue che le acquisizioni in un settore
della tutela antidiscriminatoria sono estensibili
agli altri, come è già avvenuto ad esempio con
l’estensione della tutela dal genere agli altri fattori di discriminazione ( 48 ). Alla stessa conclusione si dovrebbe quindi giungere con riferimento ai lavoratori impiegati con le nuove tipologie di lavoro, per i quali la legge garantisce, sia
pure con varie formulazioni, il diritto allo stesso
trattamento economico e normativo spettante
agli altri lavoratori: è infatti pacifico che i contributi di previdenza complementare sono corrispettivo della prestazione lavorativa. Militano
inoltre a favore del riconoscimento del diritto
del lavoratore a non essere discriminato nell’iscrizione ai fondi di previdenza complementare le direttive comunitarie 1997/81/CE del
Consiglio del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e
1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999
relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato, nelle quali in effetti il principio di
non discriminazione è stato formulato quale
specificazione del principio di parità e impone
che le differenziazioni di trattamento siano giustificate da ragioni obiettive.
Si tratta peraltro, di una conclusione fortemente discussa e non condivisa dalla dottrina
maggioritaria. Si è infatti sostenuto che i principi di parità stabiliti a favore dei lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile e il principio di non discriminazione sono due concetti
autonomi ( 49 ) e che sarebbe un « errore » con( 48 ) Ma v. Gottardi, Dalle discriminazioni di genere alle discriminazioni doppie o sovrapposte: le transizioni, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2003, p. 447 ss.
( 49 ) Alaimo, Principio di non discriminazione e criterio del riproporzionamento dei trattamenti, in Il lavoro a tempo parziale. D. lgs. n. 61/2000, a cura di
Brollo, Milano, 2001, p. 102; l’a. in ogni caso rileva
590
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
fonderli e assimilarli ( 50 ). Soprattutto si è osservato che il divieto di discriminazione dei lavoratori atipici appare formulato in modo più
« morbido » e che non necessariamente le « ragioni obiettive » che possono « giustificare » il
loro diverso trattamento coincidono con quelle
che sono state faticosamente elaborate per valutare la legittimità di trattamenti differenziati in
ragione del sesso dei lavoratori ( 51 ).
La questione dunque appare assai controversa e delicata, e spetterà ai giudici dare contenuto alla garanzia stabilita dalla legislazione nazionale e comunitaria a favore dei lavoratori impiegati con contratti di lavoro flessibile. Peraltro, la
formulazione del principio di non discriminazione contenuta nell’art. 6 del d.lgs. n. 368/01
in materia di contratto a termine appare sufficientemente ampia da includervi anche il diritto
all’iscrizione ai fondi di previdenza complementare. La suddetta norma sancisce infatti chiaramente che al lavoratore spettano, tra l’altro, « il
trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con
contratto a tempo indeterminato comparabili
(...) sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine. E
non si vede quali possano essere tali situazioni
di incompatibilità, se proprio il d.lgs. n. 252/05,
con il riferimento contenuto nella lett. a) del
comma 1o dell’art. 2 del d.lgs. n. 252/05 alle
nuove tipologie contrattuali, implicitamente
esclude che la durata del rapporto e/o la riduzione di orario possano costituire eventuali incompatibilità con l’adesione al fondo di previdenza complementare.
Il problema della possibilità effettiva di accesso alla previdenza complementare appare ancora più problematico per quelle categorie di lavoratori per le quali la legge non sancisce il diritto a percepire un trattamento uguale o quanto meno non inferiore a quello spettante agli altri lavoratori. Si allude in particolare ai lavorato-
come il principio di non discriminazione dei part-timers esprima anche la volontà di tutelare il lavoro
femminile.
( 50 ) Biagi e Salomone, Principio di non discriminazione, in Il lavoro a tempo parziale, a cura di Biagi,
Milano, 2000, p. 98.
( 51 ) De Simone, Eguaglianza e nuove differenze
nei lavori flessibili, fra diritto comunitario e diritto interno, in Lav. e dir., 2004, p. 544.
ri assunti con il contratto di apprendistato, per i
quali il legislatore nulla dispone, anche se
l’esclusione degli apprendisti, ove non sorretta
da adeguate giustificazioni, potrebbe costituire
una discriminazione indiretta per motivi di
età ( 52 ). A una diversa conclusione si potrebbe
invece giungere per il contratto di inserimento,
per il quale l’art. 58 d.lgs. n. 276/03 rinvia alla
disciplina del contratto a termine, e al quale
conseguentemente si applica ogni trattamento
in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (art. 6, d.lgs. n. 368/
01). Assai dubbia è la possibilità di riconoscere
al lavoratore operante in regime di somministrazione il diritto di iscrizione ai fondi istituiti per i
dipendenti dell’impresa utilizzatrice, sia perché
in relazione a questo tipo di rapporto non è sancito un principio di parità di trattamento ma è
stabilita solo una garanzia di un trattamento
« non inferiore », sia perché, come si è visto,
l’eventuale adesione al fondo di previdenza
complementare previsto per i dipendenti dell’utilizzatore incontra l’ulteriore ostacolo dell’impossibilità di vincolare in tal senso l’agenzia
di somministrazione titolare del rapporto di lavoro. Ancora più dubbia, infine, è la possibilità
di riconoscere il diritto di iscrizione al lavoratore assunto nella modalità del lavoro a progetto,
per il quale il legislatore non prevede alcuna
equiparazione con il trattamento economico e
normativo spettante ai lavoratori assunti con
contratto di lavoro subordinato.
6. – La lett. c) del comma 1o dell’art. 2 riproduce senza alcuna rilevante innovazione quanto
già previsto dalla lett. b bis) dell’art. 2, d.lgs. n.
124/93: i soci di cooperativa sono stati inclusi
tra i destinatari della previdenza complementare con la l. n. 335/95 con l’intento di armonizzare e avvicinare la disciplina del lavoro del socio
a quella del lavoro subordinato ( 53 ). Il decreto si
riferisce solo ai soci lavoratori e ai dipendenti di
cooperative, ma, come è già stato osservato con
riferimento all’analoga disposizione di cui al d.l( 52 ) V. in proposito Bonardi, Le discriminazioni
per età nel diritto del lavoro, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, a cura di Barbera, Milano, 2007 (in
corso di pubblicazione).
( 53 ) In argomento v. Candian, I fondi pensione,
Milano, 1998, p. 80; Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 99.
La nuova disciplina della previdenza complementare
gs. n. 124/93, la ratio impone di concludervi anche quelli dei consorzi e delle società consortili,
oltre che delle società da queste controllate ( 54 ).
Ci si deve peraltro oggi chiedere se la formulazione della lett. c) dell’art. 2, comma 1o, d.lgs.
n. 252/05 sia in sintonia con la nuova definizione e disciplina del rapporto di lavoro dei soci di
cooperativa introdotta con la l. n. 142/01 o se si
pongano al contrario problemi di coordinamento. L’art. 2 del d.lgs. n. 124/93 era infatti modellato sul tradizionale e oggi superato orientamento in base al quale l’attività del socio costituiva l’esplicazione e l’attuazione del fine sociale della cooperativa e non poteva, di conseguenza, essere considerata alla stregua dell’obbligazione di lavoro subordinato. La l. n. 142/01
invece ha stabilito, all’art. 1, comma 3o, che il
socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la
propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro », che può essere sia subordinato, sia autonomo, compreso il rapporto di collaborazione coordinata non occasionale, con il
quale egli contribuisce al raggiungimento della
finalità sociale.
Si è osservato, con riferimento al d.lgs. n.
124/93 che la scelta nel senso dell’aggregazione
dei soci e dei dipendenti della cooperativa non è
stata caducata dalla l. n. 142/01 perché questa
non afferma l’automatica costituzione di un
rapporto di lavoro subordinato, sicché la nuova
formulazione va intesa nel senso dell’ammissibilità di fondi pensione destinati al contempo ai
dipendenti delle cooperative e ai soci delle stesse, sia che questi ultimi siano autonomi, sia che
si tratti di lavoratori subordinati. Il combinato
disposto dell’art. 2, comma 1o, d.lgs. n. 252/05 e
dell’art. 1, comma 3o, l. n. 142/01 impone quindi di ritenere oggi superato il precedente orientamento che escludeva la possibilità di adesione
alle forme pensionistiche della cooperazione,
dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti legati alle cooperative da rapporti di collaborazione ( 55 ).
L’opzione del mondo della cooperazione è
stata quella della progettazione di fondi pensio-
( 54 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
131.
( 55 ) V. in argomento Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 130.
591
ne destinati sia ai soci, sia ai dipendenti ( 56 ). Peraltro, una delle conseguenze di tale opzione è
la limitazione delle possibilità di scelta dei soci
di cooperativa che siano lavoratori autonomi rispetto agli altri lavoratori autonomi, perché i
primi a differenza dei secondi non possono optare per un fondo che preveda un regime a prestazione definita ( 57 ). In questo caso, è stato osservato, le istanze di solidarietà categoriale hanno prevalso su quelle di libertà ( 58 ).
Sotto altro profilo è stato altresì rilevato che
la scelta del fondo unico pone qualche problema di adeguamento normativo che il legislatore
non ha preso in considerazione, sia per quanto
riguarda le modalità di definizione delle fonti
istitutive, che sono diverse per i lavoratori dipendenti e per quelli autonomi, sia per quanto
riguarda le modalità di partecipazione agli organi assembleari, sia, infine, per la definizione dei
contributi da versare, posto che solo per i soci
che siano legati alle cooperative anche da un
rapporto di lavoro subordinato è possibile il
conferimento del t.f.r. Si tratta peraltro di questioni che non possono essere approfondite in
questa sede e che in ogni caso sono già state
agevolmente risolte sul piano procedurale e
operativo ( 59 ).
7. – L’art. 2, comma 2o, stabilisce che per i lavoratori dipendenti, per i soci lavoratori di cooperative e per i soggetti svolgenti lavoro di cura
non retribuito derivante da responsabilità familiari, possono essere istituite esclusivamente forme pensionistiche a contribuzione definita,
mentre per i lavoratori autonomi e per i liberi
professionisti possono essere istituite anche forme pensionistiche in regime di prestazioni definite. La disposizione non costituisce affatto una
novità e riprende senza rilevanti modificazioni
quanto già stabilito dall’art. 2, comma 2o, del
d.lgs. n. 124/93. Si tratta di una « norma inderogabile sia per i soggetti promotori di fondi pensione chiusi che per le imprese di intermedia( 56 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
130.
( 57 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
130; Candian, I fondi pensione, cit., p. 80.
( 58 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
130.
( 59 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 100.
592
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
zione finanziaria attive sul fronte dell’offerta di
fondi pensione aperti » ( 60 ).
In linea generale si deve rilevare il carattere
marginale, anche per la loro onerosità, delle forme pensionistiche a prestazione definita ( 61 ),
non a caso da alcuni definite come una sorta di
« fantasma » ( 62 ). Si discute tuttavia se il divieto
di costituire forme pensionistiche a prestazione
definita stabilito per i lavoratori non autonomi
costituisca una ingiustificata limitazione della libertà di assistenza garantita dall’art. 38, comma
5o, Cost. La risposta a tale quesito presuppone
l’individuazione della ratio e dell’interesse protetto dalla norma, e la valutazione dell’adeguatezza del mezzo utilizzato (il divieto nel nostro
caso) rispetto al fine perseguito. Peraltro, su
quale sia l’interesse tutelato dalla norma sussistono interpretazioni assai divergenti.
La prima ragione che è stata individuata a sostegno della legittimità del divieto per i lavoratori subordinati di costituire regimi di tutela
previdenziale a prestazione definita consiste
nell’esigenza di conoscere preventivamente
l’entità dei contributi da versare; esigenza, questa, che si pone sia con riferimento al datore di
lavoro che concorre al finanziamento delle prestazioni dei propri dipendenti, sia per i lavoratori stessi. Si è però ritenuto che soltanto l’interesse di questi ultimi sarebbe determinante e in
ogni caso di rilevanza tale da giustificare la compressione della libertà di assistenza che il divieto realizza. Si osserva in questo senso che la predeterminazione dell’entità dei contributi costituisce un elemento che incide in modo decisivo
sulla scelta del singolo di aderire o no al fondo
di previdenza complementare. A sostegno della
legittimità del divieto si è poi addotta la necessità di sottrarre i lavoratori dipendenti a un rischio eccessivo, in considerazione del loro reddito, mediamente basso ( 63 ). Si è pertanto affer-
( 60 ) In questo senso con riferimento alla disciplina
di cui al d.lgs. n. 124/93 v. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 64.
( 61 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
160 ss.
( 62 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mò di (parziale)
commento del d.lgs. 252/05, in Prev. ass. pubbl. e
priv., 2005, I, p. 173, nello stesso senso v. Bessone,
Previdenza complementare, cit., p. 160 ss.
( 63 ) Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181.
mato che il divieto si applicherebbe anche ai lavoratori parasubordinati, sia perché l’art. 8 prevede che i contributi possano essere posti anche
a carico del committente ( 64 ), sia perché sussisterebbe per questi ultimi la medesima esigenza
di conoscibilità ( 65 ).
Secondo una diversa interpretazione, il divieto, altrimenti sospetto di incostituzionalità, sarebbe stato posto in considerazione delle esigenze di governabilità dei fondi e di equilibrio
finanziario delle gestioni, per evitare loro
l’esposizione al rischio di variazione degli oneri
contributivi ( 66 ). Si è infatti osservato ( 67 ) che i
sistemi a prestazione definita comportano rischi
a carico del soggetto erogatore; mentre nei programmi a contribuzione definita il rischio grava
sui singoli lavoratori e il trattamento è legato all’efficienza della gestione finanziaria dei contributi. Queste interpretazioni individuano quindi
quale primo destinatario e beneficiario del divieto il fondo pensione e non il lavoratore, la cui
tutela sarebbe solo riflessa. Ma si è obiettato che
anche per il fondo a prestazione definita il rischio non è totalmente a carico del fondo perché la contribuzione è, per definizione, variabile ( 68 ).
Da quanto rilevato sinora emerge a nostro avviso che gli interessi tutelati dalla norma possono essere diversi e fare capo ai diversi soggetti
coinvolti nella realizzazione dei programmi di
previdenza complementare; ma appare anche
impossibile individuare a priori come sia allocato il rischio tra di essi: gli elementi di rischiosità
derivano solo in parte dal meccanismo della
prestazione definita in sé e in buona parte di-
( 64 ) Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181.
( 65 ) Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181.
( 66 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
156; secondo l’a. inoltre (p. 149) il modello a contribuzione definita « situa l’iscritto alla forma pensionistica nella posizione del creditore di prestazioni derivanti da una altrui obbligazione di mezzi » mentre
nel modello a contribuzione variabile e a prestazione
definita il creditore è « garantito dall’altrui obbligo di
adempimento di una obbligazione di risultato. Sulla
rischiosità della forma a prestazione definita v. anche
De Luca, La disciplina dei fondi pensione, in Giorn.
dir. lav. rel. ind., 1994, p. 84).
( 67 ) Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma delle
pensioni: dieci miti sui sistemi di previdenza sociale, in
Assistenza soc., 2000, p. 11 e spec. p. 14.
( 68 ) Candian, I fondi pensione, cit., p. 82.
La nuova disciplina della previdenza complementare
pendono dalla disciplina e dalla forma che il sistema assume.
La questione merita peraltro ulteriore approfondimento, in quanto l’individuazione dell’interesse protetto dalla norma e, conseguentemente, la valutazione circa la proporzionalità e legittimità del divieto sembra dipendere dalla sussistenza o no di una effettiva diversa allocazione
del rischio tra i due sistemi, a contribuzione e a
prestazione definite. È da rilevare in effetti che i
fondi a prestazione definita sono nati su iniziativa dei datori di lavoro nell’ambito del lavoro dipendente e non di quello autonomo ed erano
giuridicamente qualificati quale « promessa »
fatta dal datore di lavoro ai lavoratori, avente ad
oggetto una prestazione previdenziale determinata ( 69 ). Sono infatti tuttora presenti fondi precedenti al 1993 di questo genere, nei quali le
prestazioni possono essere determinate prendendo a riferimento il livello di reddito del lavoratore o la prestazione pensionistica del regime
obbligatorio ( 70 ). Si è quindi sostenuto che il divieto in questione sarebbe posto a tutela dei datori di lavoro, che storicamente in queste forme
pensionistiche hanno assunto il ruolo ultimo garante ( 71 ).
Dal panorama internazionale emerge che la
distinzione tra le due forme pensionistiche in
questione non è così netta, perché un sistema a
prestazione definita può essere concepito « come un programma a contribuzione definita unito a un mix idoneo di opzioni per eliminare il rischio residuo per il lavoratore » e perché ibridi
tra programmi a prestazione e a contribuzione
( 69 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
155 s.
( 70 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
156.
( 71 ) Candian, I fondi pensione, cit., p. 83.
593
definita esistono e si vanno diffondendo nella
pratica ( 72 ), anche se si è rilevato che la tendenza europea è nel senso della trasformazione dei
regimi previdenziali complementari a prestazione definita in schemi a contribuzione definita
gestiti secondo il sistema tecnico-finanziario
della capitalizzazione, in ragione delle esigenze
di stabilità del sistema.
Stabilire quindi a priori quale sia l’interesse
protetto e se il divieto sia proporzionato al fine
perseguito dalla norma appare abbastanza arbitrario: molto dipende dalla concreta disciplina a
cui il regime a prestazione definita è soggetto.
Da questo punto di vista, il d.lgs. n. 124/93 è stato criticato, ma la critica ben può essere estesa al
d.lgs. n. 252/05 che come detto non innova sul
punto, per l’assoluta lacunosità della disciplina
giuridica dei fondi a prestazione definita ( 73 ).
Esso si limita a prevedere che nel caso in cui forme pensionistiche a prestazione definita siano
istituite da fondi chiusi, questi stipuleranno contratti di assicurazione in nome e per conto dei
loro iscritti; nel caso invece in cui la forma pensionistica sia promossa da un fondo aperto, questo potrà essere costituito solo da imprese di assicurazione; e sarà la stessa adesione al fondo a
costituire il rapporto assicurativo ( 74 ).
Olivia Bonardi
( 72 ) Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma delle
pensioni, cit., p. 11 e spec. p. 14; Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici
aziendali o professionali, in Prev. ass. pubb. e priv.,
2004, I, p. 55.
( 73 ) Candian, I fondi pensione, cit., p. 83.
( 74 ) V. in argomento Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 157, per il quale la limitazione della
gestione alle assicurazioni ha chiaramente la finalità
di impedire il rischio di underfunding.
Art. 3.
(Istituzione delle forme pensionistiche complementari)
1. Le forme pensionistiche complementari possono essere istituite da:
a) contratti e accordi collettivi, anche aziendali, limitatamente, per questi ultimi, anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi, ovvero, in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro; accordi, anche interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali na-
594
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
zionali rappresentative della categoria, membri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro;
b) accordi fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti, promossi da loro sindacati o da
associazioni di rilievo almeno regionale;
c) regolamenti di enti o aziende, i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o
accordi collettivi, anche aziendali;
d) le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia;
e) accordi fra soci lavoratori di cooperative, promossi da associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute;
f) accordi tra soggetti destinatari del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565, promossi
anche da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale;
g) gli enti di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio
1996, n. 103, con l’obbligo della gestione separata, sia direttamente sia secondo le disposizioni
di cui alle lettere a) e b);
h) i soggetti di cui all’articolo 6, comma 1, limitatamente ai fondi pensione aperti di cui all’articolo 12;
i) i soggetti di cui all’articolo 13, limitatamente alle forme pensionistiche complementari individuali.
2. Per il personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le forme pensionistiche complementari possono
essere istituite mediante i contratti collettivi di cui al titolo III del medesimo decreto legislativo. Per il personale dipendente di cui all’articolo 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo,
le forme pensionistiche complementari possono essere istituite secondo le norme dei rispettivi
ordinamenti ovvero, in mancanza, mediante accordi tra i dipendenti stessi promossi da loro associazioni.
3. Le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari stabiliscono le modalità di
partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale.
Fonti istitutive e autonomia collettiva nella riforma
della previdenza complementare
Sommario (art. 3): 1. Premessa. – 2. Il ruolo delle fonti
istitutive nel sistema italiano della previdenza complementare. – 3. La libertà di adesione individuale. – 4.
Le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari: a) i contratti collettivi, gli accordi tra lavoratori, i regolamenti aziendali. Problemi giuridici delle
fonti di matrice sindacale. – 5. Segue: b) il ruolo delle
regioni. – 6. Segue: c) previdenza complementare e lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. – 7. Segue: d) le altre fonti istitutive.
1. – Il cuore delle innovazioni legislative introdotte dal d.lgs. n. 252/05 risiede indubbiamente nella disciplina inerente la devoluzione
del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione. Non per nulla tale questione ha occupato il
centro del dibattito politico-sindacale ed anche
i primi contributi esegetici – compresi quelli im-
mediati ( 1 ), ma non per questo meno utili, che
precedono solitamente la più meditata elaborazione scientifica ( 2 ) – vi si sono soffermati, sia
dall’angolazione dell’analisi economica che da
quella dell’analisi giuridica.
È infatti fuori discussione che le modalità di
finanziamento dei fondi pensione risultino cruciali per lo sviluppo stesso del sistema di previdenza complementare, specie quando insistono
( 1 ) Cfr. l’ampio dibattito ospitato nelle pagine del
sito www.lavoce.info.
( 2 ) Per un primo intervento dottrinale di più ampio respiro, cfr. Pandolfo, Prime osservazioni sulla
nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di
(parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev.
ass. pubbl. priv., 2006, I, p. 145 ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
su masse di denaro sufficientemente significative, come avviene per il t.f.r., e soprattutto quando si avvalgono di tecniche normative che determinano, come nel caso del conferimento tacito, un’adesione che si potrebbe definire semiautomatica ( 3 ).
Meno vistose, se non altro ad una prima occhiata, potrebbero invece apparire le novità relative alla disciplina delle fonti istitutive, il cui
assetto, indubbiamente centrale nell’impianto
del sistema italiano di previdenza complementare, sembrerebbe rimanere ancora oggi, per lo
più, nel solco già tracciato dal legislatore del
1993.
I profili innovativi concernenti le fonti istitutive risultano infatti meno appariscenti, se non
altro perché il dettato dell’art. 3 del d.lgs. n.
252/05 è in larga parte testualmente identico a
quello dell’omologo art. 3 del d.lgs. n. 124/93.
Il che potrebbe dunque indurre a porre scarsa
enfasi su tale disposizione, specie nel contesto
di un contributo, come questo, che è concepito
come commento a singole norme e deve perciò
privilegiare l’analisi e l’esegesi del testo, più che
aspirare alla ricostruzione sistematica ( 4 ).
( 3 ) Bessone, Previdenza complementare, Torino,
2001, pp. 13-14, indica il nodo del t.f.r., unitamente
all’opportuna modulazione degli incentivi fiscali, come la leva determinante per un maggiore sviluppo
dei fondi pensione. Resta peraltro da dire che le ragioni dell’insufficiente sviluppo, ad oggi, della previdenza complementare (i dati diffusi dalla COVIP al
30 giugno 2006 segnalano un livello medio di adesione del 13,7% nel bacino potenziale dei lavoratori dipendenti, con punte in realtà più elevate – ed un livello medio del 43,4% – nel caso di fondi aziendali e
di gruppo) sono assai più articolate e non possono
esaurirsi nella sola disciplina inerente il conferimento
del t.f.r.; si tenga del resto conto del vincolo di indisponibilità, almeno temporaneo, che grava sulle somme destinate ad un fondo pensione, sì da dissuadere
buona parte della popolazione dall’accedervi.
( 4 ) Ed invero è la stessa materia della previdenza
complementare – ma il discorso può in larga parte essere riferito, a nostro avviso, anche alla previdenza
sociale obbligatoria – a rendere ardua la « sintesi nella forma congeniale alle teorie generali » (così Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 1). Di strutturale incompiutezza dell’ordinamento della previdenza complementare parla Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale,
Milano, 2001, p. 5, anche in considerazione dei poteri regolativi attribuiti alla COVIP, che rendono mu-
595
Eppure, non può sfuggire all’interprete che
l’art. 3, nel delineare il catalogo delle fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari, deve essere necessariamente letto in connessione con altre norme fondamentali del testo legislativo, dalle quali si ricava invece, superando
le apparenze, un incisivo mutamento dell’assetto complessivo del sistema. Ciò appare simbolicamente rappresentato soprattutto dall’attrazione dei promotori (e gestori) dei cd. fondi pensione aperti, nonché delle imprese assicurative
che concludono contratti di assicurazione sulla
vita, all’interno del perimetro dello stesso art. 3
(e, dunque, tra le « fonti istitutive »). Il che –
unitamente alla nuova contrapposizione delineata dall’art. 1, comma 3o, tra le « forme pensionistiche complementari collettive » e le « forme pensionistiche complementari individuali » ( 5 ) – determina, anche per effetto del venir
meno della previsione già contenuta nell’art. 9,
comma 2o, del d.lgs. n. 124/93 ( 6 ), il netto e detevole l’assetto complessivo della disciplina (che non
deriva, dunque, solo dalla fonte legale). Ciò ovviamente non sminuisce il valore di quegli apporti ricostruttivi che hanno avuto il merito di indagare, pur
con differenti sensibilità e retroterra culturali, il fenomeno giuridico della previdenza complementare: si
vedano, oltre agli autori appena citati, Zampini, La
previdenza complementare, Padova, 2004; Ciocca,
La libertà della previdenza privata, Milano, 1998; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005; Pessi, La previdenza complementare, Padova, 1999; Ferraro, La previdenza complementare nella riforma del welfare, Milano, 2000. Sennonché, ed è su questo che intende appuntarsi la nostra notazione, nemmeno i contributi in esame hanno
potuto categorizzare in modo univoco il fenomeno
della previdenza complementare, anche in ragione
delle molteplici intersezioni tra diverse branche del
diritto che incidono sul medesimo fenomeno e che
sono dominate da differenti categorie e logiche di micro-sistema.
( 5 ) Contrapposizione invero poco perspicua ed in
effetti già criticata: cfr. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare,
cit., pp. 151-153.
( 6 ) Il quale prevedeva che ai fondi cd. aperti potessero aderire i « destinatari delle disposizioni del
presente decreto legislativo per i quali non sussistano
o non operino le fonti istitutive di cui all’art. 3, comma 1o, ovvero si determinino le condizioni di cui all’art. 10, comma 1o, lett. b); ove non sussistano o non
operino diverse previsioni in merito alla costituzione
di fondi pensione ai sensi dei precedenti articoli, la
596
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
finitivo superamento di ogni rapporto di sussidiarietà tra fondi pensione di diversa natura, oggi posti su un paritario piano di concorrenza.
Il contenuto dell’art. 3, per altro verso, imprime, oggi come ieri, un segno che caratterizza la
fisionomia complessiva dell’intervento legislativo, non solo in ordine, come detto, al rapporto
tra le diverse forme pensionistiche complementari, ma anche in relazione ai rapporti tra autonomia collettiva ed autonomia individuale, tra
contrattazione collettiva ed intervento delle istituzioni, specie a livello regionale, facendo peraltro venire al pettine significativi nodi sistematici
del nostro sistema di diritto sindacale; nodi,
questi, che, come noto, travalicano ampiamente
i confini della previdenza complementare.
Inoltre, molti problemi interpretativi posti da
altre disposizioni del d.lgs. n. 252/05 (ma ciò
poteva dirsi già per la disciplina varata nel
1993) non possono essere affrontati e risolti
senza il necessario medium ermeneutico del
ruolo attribuito alle fonti istitutive ed ai relativi
poteri regolativi, che allungano pertanto la loro
ombra sull’intero tessuto normativo del decreto.
Per tale ragione, il discorso che si intende
svolgere non potrà essere limitato alla sola trattazione dei profili legali innovativi, essendo invece necessario riprendere il filo del dibattito,
che già si è palesato fecondo di idee ( 7 ), svilup-
facoltà di adesione ai fondi aperti può essere prevista
anche dalle fonti istitutive su base contrattuale collettiva ».
( 7 ) Per quanto riguarda le fonti istitutive, la letteratura formatasi durante la vigenza del d.lgs. n. 124/
93 ha messo in luce diversi problemi giuridici riferibili soprattutto alla previdenza complementare di
matrice sindacale: senza pretesa di completezza, si
può rinviare a Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Argomenti di diritto del lavoro, 2001, p. 715 ss.; Tursi,
La previdenza complementare nel sistema italiano di
sicurezza sociale, cit.; Id., Contrattazione collettiva e
previdenza complementare, in Riv. it. dir. lav., 2000, I,
p. 269 ss.; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit.; Tosi, Contrattazione collettiva
e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 1999, p.
357 ss.; Id., Le fonti istitutive dei fondi di previdenza
complementare, in Mass. giur. lav., 1996, p. 439 ss.;
Bessone, I fondi pensione chiusi. Fonti istitutive, regime delle autorizzazioni, disciplina di statuto della forma previdenziale, in Riv. giur. lav., 2002, I, 295 ss.;
patosi intorno ai problemi giuridici delle fonti
istitutive, vigenti le disposizioni del d.lgs. n.
124/93. Inoltre, saranno in questa prospettiva
inevitabili diverse intersezioni con il contenuto
di quelle norme che pongono questioni direttamente connesse a quelle scaturenti dall’art. 3: è
il caso, ad es., dell’art. 2, che individua i destinatari (id est, i potenziali aderenti) del sistema di
previdenza complementare; dell’art. 8, relativo
al finanziamento dei fondi pensione, con significativa incidenza dell’autonomia collettiva in ordine alla destinazione del t.f.r.; dell’art. 4, relativo alle fonti costitutive dei fondi pensione; dell’art. 1, comma 2o, che sancisce il principio di libertà di adesione individuale; dell’art. 12, nella
parte in cui regola l’adesione, anche collettiva,
ai fondi aperti.
2. – Non è qui il caso di affrontare funditus la
tematica dello stretto rapporto tra fonti istitutive e fonti costitutive. Ci si può limitare a sottolineare che i problemi delle seconde sono in
buona parte proiezione dei problemi delle prime, sicché il dettato dell’art. 3 assume, anche
per tale ragione, fondamentale importanza (cfr.
in ogni caso Bollani, sub art. 4, in questo Commentario).
Da un punto di vista generale, occorre innanzitutto chiedersi se sia confermata, con l’intervento legislativo del 2005, la centralità delle
fonti collettive nella istituzione delle forme pensionistiche complementari, anche al fine di rischiarare il significato ambiguo del genus, di
nuovo conio, delle « forme pensionistiche complementari collettive » di cui all’art. 1, comma
3o (cfr. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario), che esplicitamente vi ricomprende anche
i fondi aperti.
In effetti, diversi elementi sembrano indicare,
come in parte si è già anticipato, un’erosione
della centralità delle fonti istitutive di origine
Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35,
inserto, p. IX ss.; Alaimo, La previdenza complementare nella crisi del welfare state: autonomia individuale e nuove frontiere dell’azione sindacale, in Arg. dir.
lav., 2001, p. 201 ss.; Pessi, Conflitto o concorso tra
fonti legali e fonti contrattuali della previdenza pensionistica complementare nell’ordinamento italiano. Gli
spazi dell’autonomia individuale, in Mass. giur. lav.,
1998, p. 776 ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
sindacale, in ragione della tensione – che attraversa tutta la disciplina della previdenza complementare – tra le origini mutualistico-corporative di quest’ultima e le spinte concorrenziali
provenienti dal mercato finanziario ( 8 ). Al sostanziale mantenimento del tenore letterale di
larga parte delle disposizioni già cristallizzate
nell’art. 3 del d.lgs. n. 124/93, fa infatti da contraltare, come detto, l’eliminazione del vincolo
posto dal previgente art. 9, comma 2o, del d.lgs.
n. 124/93. Sicché tutte le forme pensionistiche
complementari sono liberamente accessibili, ad
iniziativa dei destinatari. La questione si lega
peraltro con quella della cd. portabilità del contributo datoriale, in ordine alla quale – pur essendo infine prevalsa, nella legislazione delegata, l’opzione tesa a conferire comunque all’autonomia collettiva il governo della materia ( 9 ) –
non può dirsi certamente raggiunta una soluzione definitiva, attesi anche i problemi di costituzionalità che derivano dal contrasto (a nostro
avviso, sussistente) tra legge delega e decreto
delegato ( 10 ).
( 8 ) Sulla tensione tra mercato e mutualità, cfr.
Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della
previdenza complementare, ne Il lavoro nella giurisprudenza, 2006, p. 249 ss.; Id., Legge, contratto collettivo e autonomia individuale nella nuova disciplina
della previdenza complementare, in corso di pubblicazione, in Riv. it. dir. lav., 2007.
( 9 ) V. il tenore dell’art. 12, comma 1o, del d.lgs. n.
252/05, a mente del quale ai fondi aperti possono liberamente aderire tutti i destinatari delle norme del
decreto legislativo, anche destinandovi « la contribuzione a carico del datore di lavoro a cui abbiano diritto, nonché le quote del t.f.r. ». La norma va tuttavia
coordinata con la previsione dell’art. 14, comma 6o,
in forza del quale compete alla contrattazione collettiva, anche aziendale, regolare limiti e modalità della
cd. portabilità (sul punto, di fondamentale rilievo
nell’impianto della riforma, v. Pallini, sub art. 14, in
questo Commentario).
( 10 ) Sul punto, cfr. gli interventi, a delega ancora
aperta, di Ichino, La « portabilità » tra diritto civile e
antitrust, e Tursi, I sindacati e le pensioni private, entrambi in www.lavoce.info, nonché le osservazioni di
Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova
legge in tema di pensioni complementari, con qualche
(utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev.
ass. pubbl. e priv., 2004, spec. pp. 1257 ss. È invero
difficile negare, a delega attuata, che l’art. 14, comma
6o, nella parte in cui consente ai contraenti collettivi
di limitare la portabilità del contributo datoriale, sal-
597
Si deve poi tenere conto della previsione, per
quanto ambigua essa sia, che riguarda l’istituzione di forme pensionistiche complementari
ad opera delle regioni, ai sensi dell’art. 3, lett.
d) ( 11 ), per mezzo del quale si aprono imprevedibili spazi all’intervento (invero non auspicabile, per le ragioni che saranno meglio esposte oltre) delle istituzioni locali, non solo in veste di
regolatrici, ma anche di promotrici di fondi
pensione.
Al contempo, però, nel testo dell’art. 3 l’istituzione di forme pensionistiche complementari
negoziali, basate sulla comune appartenenza ad
una categoria o comunità di lavoro, resta prevalentemente connotata, come detto, dalla matrice sindacale, perlomeno nel rapporto con le altre fonti negoziali plurilaterali o unilaterali che
possono preludere alla costituzione di fondi
pensione « professionali »; sicché il legislatore
non sembra avere del tutto abdicato, nemmeno
oggi, a quella linea di promozione dell’autonomia collettiva che, unitamente alla promozione
della previdenza complementare stessa, era già
stata segnalata come cifra caratterizzante della
legislazione in materia ( 12 ).
Sennonché, il sostegno alla contrattazione
collettiva ed alla matrice sindacale della previdenza complementare sembra ora rimanere circoscritto all’interno della sola famiglia dei fondi
negoziali (nel senso che, come meglio si vedrà, il
contratto collettivo gode di considerazione preferenziale rispetto ad altre fonti tese ad istituire
tal genere di fondi, i quali sono tuttavia pienamente esposti alla concorrenza degli altri fondi
pensione, di diversa matrice). Come detto, restano infatti residuali le forme pensionistiche
complementari istituibili, non già ad opera del
contratto collettivo, bensì in forza di iniziative
dei lavoratori subordinati ed autonomi (mediante accordi plurilaterali tra i medesimi) ovvero dei datori di lavoro (mediante regolamento
vaguardi, da un lato, le prerogative dell’autonomia
contrattuale collettiva, ma entri in rotta di collisione,
dall’altro, con l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 3, della
legge delega, là dove disponeva che il contributo datoriale potesse affluire « alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso o alla quale egli intenda
trasferirsi ».
( 11 ) Cfr. infra, par. 5.
( 12 ) Cfr. Tursi, La previdenza complementare nel
sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 187.
598
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
aziendale); mentre una via collettiva è pur sempre attivabile anche in caso di adesione ai fondi
aperti, alla luce della previsione dell’art. 12,
comma 2o, che conferma quanto già previsto
dalla disciplina previgente.
Infine, una significativa apertura di spazi in
favore dell’autonomia collettiva sembra ravvisabile nella disciplina del conferimento del t.f.r. e
nel meccanismo del tacito conferimento ( 13 ), nei
termini stabiliti dall’art. 8, comma 7o, lett. b),
nn. 1 e 2. Qui, senza debordare nell’esame specifico di un tema che esula dal presente commento (si veda, sul punto, Ferrante, sub art. 8,
in questo Commentario) deve ritenersi che
l’adesione semiautomatica derivante da tale
congegno normativo va pur sempre intesa come
un’opzione legislativa che presuppone il consenso individuale, ancorché tacito. Nemmeno
dall’introduzione di tale congegno normativo
sembra perciò possibile argomentare la validità
di eventuali clausole contrattual-collettive che
prevedano forme di adesione tacita ai fondi
pensione, anche mediante ricorso a previsioni
contrattuali di inscindibilità ( 14 ).
Nel d.lgs. n. 252/05 emerge, a ben vedere,
l’attribuzione all’autonomia collettiva di compiti che sono pur sempre di assoluto rilievo. Il legislatore, tuttavia, a differenza del passato, lungi
( 13 ) Appare qui opportuno evitare il ricorso alla
locuzione « silenzio-assenso », pure largamente ricorrente nel dibattito che accompagna il d.lgs. n.
252/05, in quanto evocativa del fenomeno pubblicistico-amministrativistico in base al quale un’autorizzazione si intende concessa in assenza di rigetto entro
un certo termine: cfr., ad es., nello stesso decreto, il
testo dell’art. 19, comma 2o, lett. b). Il fenomeno del
conferimento del t.f.r., al contrario, ha natura negozial-privatistica.
( 14 ) Clausole ritenute valide da Sandulli, Il decreto legislativo n. 124/93 nel sistema pensionistico riformato, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35, p. VI, nonché da
Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, cit., p. XI. L’opinione non ha
tuttavia avuto seguito nella prassi della contrattazione collettiva e si scontrava, del resto, con il dettato
dell’allora vigente art. 3, comma 4o, del d.lgs. n. 124/
93 (oggi riprodotto con il medesimo testo nell’art. 3,
comma 3o, del d.lgs. n. 252/05). Contra, Boer, La
previdenza complementare, in Flessibilità e diritto del
lavoro, a cura di G. Santoro Passarelli, Torino, 1997,
p. 310; G. Santoro Passarelli, Trattamento di fine
rapporto, previdenza complementare e mercato finanziario, in Riv. prev. pubbl. e priv., 2002, p. 178.
dal preconfezionare norme di natura protezionistica in favore dei fondi pensione a genesi sindacale – che vengono esposti, invece, alla concorrenza sul mercato finanziario –, lascia in misura significativa alla dinamica delle relazioni
contrattual-collettive, alla capacità di iniziativa
delle parti sociali ed anche, se si vuole, alla creatività dei negoziatori, la ricerca di un nuovo
punto di equilibrio nell’assetto delle fonti e nel
rapporto concorrenziale con le diverse forme di
previdenza complementare (specie, come è evidente, nella formulazione delle clausole contrattuali in materia di portabilità del contributo datoriale, nonché nella stipulazione degli accordi
aziendali inerenti la destinazione del t.f.r.).
Sta dunque ai contraenti collettivi elaborare
scelte negoziali di fondo, tenendo conto che
l’incidenza del prelievo contributivo da destinare alla previdenza complementare finisce inevitabilmente per riverberarsi sulla determinazione
complessiva del costo del lavoro ( 15 ), entrando
perciò a far parte di quel processo, unitario ed
inscindibile, che è costituito dalla definizione
del punto di equilibrio nell’assetto di interessi
sottostante alle relazioni industriali. Anche per
tale ragione la previdenza collettivo-sindacale
ben può rivendicare le proprie peculiarità, in
una partita nella quale sembra messa in discussione la stessa finalità, di mutualità collettiva ( 16 ), tipicamente riconducibile alla previden-
( 15 ) Il che spiega assai chiaramente perché il contratto collettivo sia tradizionalmente considerato, e
non per bieche ragioni anticoncorrenziali, come la
fonte istitutiva principe dei fondi pensione. Sul punto, cfr. Tosi, Contrattazione collettiva e previdenza
complementare, cit., p. 358; Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, cit.,
p. XI.
( 16 ) Cfr. le valutazioni critiche, a delega ancora
aperta, di Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 644, e di Pessi, La previdenza complementare tra funzione costituzionale e concorrenza, in Mass. giur. lav., 2005, p. 488. Anche Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, in La
previdenza complementare nella riforma del welfare, a
cura di Ferraro, Milano, 2000, I, p. 12, osservava che
le modifiche apportate nel corso del tempo all’impianto originario del d.lgs. n. 124/93 avevano determinato l’introduzione di « elementi di concorrenzialità commerciale che non sono del tutto coerenti con
le ragioni mutualistiche e solidaristiche di ordine professionale che dovrebbero contraddistinguere la pre-
La nuova disciplina della previdenza complementare
za privato-sociale, la quale non può essere ridotta a mera forma di investimento mobiliare e
sminuita, perciò, nel suo ubi consistam ( 17 ).
Pur non potendosi in questa sede affrontare
partitamente la questione, non sembra nemmeno, d’altro canto, che il diritto antitrust debba
necessariamente limitare l’azione dei contraenti
collettivi, anche quando essi istituiscono e disciplinano la previdenza pensionistica complementare. Da parte della stessa giurisprudenza
della Corte di giustizia ( 18 ) – per il caso in cui la
videnza complementare ». Ritiene peraltro Tursi, La
previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., pp. 109-110, che la rilevanza sociale
del bisogno previdenziale non postula necessariamente l’apporto della solidarietà collettiva, facendone semmai derivare il vincolo previdenziale, presente
anche nella previdenza individuale; il che è certamente esatto, anche se ciò non toglie che proprio la natura contrattata della previdenza a genesi sindacale
consente a quest’ultima di giovarsi del contributo dei
datori di lavoro e di legare gli aderenti ad un patto di
carattere solidaristico.
( 17 ) È noto che la finalità solidaristica ha storicamente caratterizzato, in Italia, il fenomeno della previdenza complementare (cfr. Treu, La previdenza
complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci,
Torino, 2004, p. 3 ss.) e che, anche per questo, il legislatore del 1993 aveva optato per una regolazione legale dalla marcata connotazione promozionale in favore dell’autonomia collettiva. La pur innegabile tendenza della previdenza complementare ad evolvere,
da mera forma di solidarietà mutualistica, verso un
ruolo di componente del mercato finanziario – come
rilevato già da Viscomi, La « facoltà di trasferimento » della posizione pensionistica complementare, in
Lav. e dir., 1997, p. 55 ss., e, più diffusamente, da
Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa
sindacale e mercato finanziario, cit., p. 722 – non può
tuttavia oscurarne la natura originaria ed il suo essere
strumento di completamento del sistema di sicurezza
sociale. Sulla compresenza delle due prospettive,
quella emergente dal mercato finanziario e quella della solidarietà, cfr. da ultimo le riflessioni di G. Santoro Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, in Mass. giur. lav., 2006, p. 976 ss.
( 18 ) È d’obbligo il rinvio a Corte giust. CE 21 settembre 1999, causa n. C-67/97, Albany International
BV, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, p. 209 ss., con nota di
Pallini, Il rapporto problematico tra diritto della concorrenza e autonomia collettiva; in tema, cfr. anche
Giubboni, La previdenza di base e complementare
nella giurisprudenza comunitaria in materia di concorrenza, in Rivista della previdenza pubblica e privata,
599
forma pensionistica abbia natura complementare, nel senso che essa assolve una funzione sociale integrativa di quella obbligatoria – è stata
riconosciuta un’esenzione dal campo di applicazione delle regole comunitarie in materia di tutela della concorrenza. Certo, anche i fondi pensione svolgono un’attività economica suscettibile di ricadere entro la nozione comunitaria di
impresa, così da doversi conformare, almeno in
prima battuta, alle regole del diritto della concorrenza ( 19 ); ma è vero anche che, pur ricordando la necessità di procedere ad un’attenta
valutazione caso per caso, la giurisprudenza comunitaria conferisce rilievo proprio alla sussistenza di profili solidaristici ( 20 ), quali elementi
idonei a giustificare talune deroghe al diritto antitrust.
3. – Un limite fondamentale imposto alle fonti
istitutive, allorché esse intendono stabilire le
modalità di partecipazione alle forme pensionistiche complementari, è ancora oggi costituito
dal principio di « libertà di adesione individuale », sancito dall’art. 3, comma 3o, in una con il
disposto dell’art. 1, comma 2o.
La previsione dell’art. 3, comma 3o, coerentemente con quanto si poteva già rilevare nel precedente assetto normativo, sembra dettata dal
fine di rafforzare – con specifico riferimento alle forme pensionistiche istituite ad iniziativa
collettiva e, dunque, con riferimento al problema dell’ambito e del tipo di efficacia del contratto collettivo – quanto già affermato dall’art.
1, comma 2o.
Si vuol dire, cioè, che l’art. 3, comma 3o opera
nel senso di impedire – mediante la previsione
di una necessaria e specifica dichiarazione di
volontà del lavoratore – che il contratto collettivo produca i suoi consueti effetti normativi, al-
2002, p. 685 ss.; Piccininno, La natura dei fondi
pensione alla luce degli orientamenti della Corte di
giustizia europea, in Arg. dir. lav., 2000, p. 277 ss.
( 19 ) Con riferimento alla natura di « impresa », nel
significato comunitario, rivestita dai fondi pensione
costituiti sulla base della legislazione italiana, cfr. le
osservazioni di Giubboni, Fondi pensione e competition rules comunitarie, in La previdenza complementare, cit., spec. p. 130 ss.
( 20 ) Sul tema, cfr. anche Alaimo, La previdenza
complementare nella crisi del welfare state, cit., spec.
pp. 212-213.
600
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
l’interno della cerchia di soggetti cui esso trova
applicazione ( 21 ).
Se infatti l’art. 1, comma 2o, si limita ad affermare che l’adesione « è libera e volontaria »,
l’art. 3, comma 3o, mira ad escludere che la mera stipulazione di un contratto collettivo istitutivo di una forma pensionistica complementare
possa essere considerata – nei confronti degli
iscritti alle associazioni stipulanti ovvero di coloro che avessero deciso di dare applicazione ai
contenuti della contrattazione collettiva – quale
espressione, appunto, di volontaria adesione.
Così, l’art. 3, comma 3o, aggiunge e puntualizza
che la libertà di adesione, che il legislatore intende garantire, è quella « individuale » e si realizza perciò in capo a ciascun soggetto singolarmente considerato, quand’anche ad esso si applichi iure communi il contratto collettivo concluso ai sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. a).
Se però si volge lo sguardo oltre il recinto del
solo art. 3, non si può fingere di ignorare che il
meccanismo di conferimento tacito del t.f.r. disciplinato dall’art. 8 – benché si debba necessariamente intenderlo, per ragioni di coerenza sistematica, come espressione, comunque, della
volontà individuale, ancorché implicita, del lavoratore ( 22 ) – è chiaramente idoneo ad incrinare significativamente l’effettività o, se non altro,
le ricadute pratiche derivanti dal principio di libertà di adesione individuale ( 23 ); senza contare
che esso collide in certa misura con la stessa essenza della nozione di negozio giuridico, tradizionalmente inteso come dichiarazione di volontà (qui solo forzatamente estrapolabile dal
( 21 ) Persiani, La previdenza complementare tra
iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit., p. 730,
il quale giustamente evidenzia come la questione discenda dalla specificità dell’autonomia collettiva, vero essendo che, nel diverso caso della conclusione di
accordi plurilaterali istitutivi delle forme pensionistiche complementari, ovvero nell’adesione ai fondi
aperti, « la libertà di adesione è ricompresa, e si confonde, nella libertà di partecipare, o no, a quegli accordi o in quella di aderire alle forme alternative a
quelle sindacali ovvero di promuoverne l’istituzione ».
( 22 ) Così anche le direttive generali della COVIP
adottate con deliberazione del 28 giugno 2006.
( 23 ) Di « strisciante attenuazione del principio di
libertà di adesione » parla ad es. Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p.
76.
comportamento inerte del lavoratore). La disciplina contenuta nell’art. 8, comma 7o, determina in fin dei conti un tortuoso percorso che
consente di aggirare il principio, pur mantenuto
formalmente in vigore ed anzi solennemente
enunciato, della libertà di adesione individuale ( 24 ); principio che viene dunque fortemente
incrinato ( 25 ) e non è probabilmente più qualificabile come « costitutivo del sistema » ( 26 ).
È noto che altri ordinamenti nazionali prevedono l’accesso obbligatorio alla previdenza
complementare ( 27 ). Ciò ovviamente non significa che il legislatore italiano si sarebbe dovuto
muovere in tale direzione ( 28 ); può però ben
( 24 ) In relazione alla disciplina di cui all’art. 8,
comma 7o, parla di « via italiana all’obbligatorietà »
Passalacqua, La previdenza complementare nel prisma della sussidiarietà tra disegno costituzionale e intervento del legislatore ordinario, in Riv. dir. sic. soc.,
2007, p. 57.
( 25 ) Contra, ritenendo che nell’impianto della riforma persista una centralità del principio di libertà
di adesione, cfr. Pandolfo, Prime osservazioni sulla
nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p.
188.
( 26 ) Come lo qualificava Bessone, Previdenza
complementare, cit., p. 70.
( 27 ) Cfr. Vianello, I fondi pensione nelle esperienze nazionali europee, in La previdenza complementare,
cit., p. 134 ss.; Bozzao, La previdenza complementare
in Italia ed in Europa, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35,
inserto, p. XXIX ss. D’interesse è altresì rilevare che
il Governo britannico ha recentemente presentato il
Libro bianco Security in retirement: towards a new
pension system, nel quale ipotizza l’estensione della
previdenza complementare tramite automatic enrolment into a private pension, salvo esplicita manifestazione di volontà contraria del lavoratore (con molte
assonanze, dunque, rispetto alla disciplina italiana
del conferimento tacito del t.f.r.): cfr. il testo del documento nel sito www.dwp.gov.uk.
( 28 ) Che pure viene auspicata in dottrina: cfr. ad
es. Pessi, La collocazione funzionale delle recenti innovazioni legislative in materia di previdenza complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in La
previdenza complementare nella riforma del welfare,
cit., a cura di Ferraro, I, p. 59; Zampini, La previdenza complementare, cit., pp. 325-326; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., pp.
637-638; contra, Treu, La previdenza complementare
nel sistema previdenziale, cit., p. 10, nonché, nel contesto di una ricostruzione tesa invece a valorizzare la
libertà individuale, Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., passim. Deve comunque ritenersi che
il legislatore consideri il fenomeno della previdenza
La nuova disciplina della previdenza complementare
dirsi che una soluzione più lineare di quella
adottata, e pienamente compatibile con i principi costituzionali, sarebbe potuta consistere, non
tanto nella configurazione della previdenza
complementare come obbligatoria, quanto nel
riconoscimento che il principio della volontarietà di adesione può essere del tutto soddisfatto
ad opera del contratto collettivo e delle sue previsioni, rimuovendosi perciò ogni impedimento
(ancora oggi rappresentato, invece, dall’art. 3,
comma 3o) al dispiegarsi della sua ordinaria efficacia nei confronti dei singoli.
Allo stato, sembra però qualificabile come
forzatura interpretativa la conclusione secondo
cui, de iure condito, si dovrebbe leggere il requisito della libertà di adesione, anche alla luce dell’intervento della giurisprudenza costituzionale ( 29 ), come requisito in certa misura già soddi-
complementare come espressione privato-sociale,
che perciò non va integralmente ristretta all’interno
della sola cornice delineata dall’art. 38, comma 2o,
Cost., riconoscendole invece un duplice referente costituzionale, rappresentato, oltre che dalla norma citata, anche dall’art. 38, comma 5o, nel quale si radica
un principio di libertà: cfr. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale,
cit., p. 67; adde, sulla « ispirazione contraddittoria irriducibile ad unità » del d.lgs. n. 124/93, Zampini,
La previdenza complementare, cit., p. 321 ss. La tesi
della funzionalizzazione della previdenza complementare al soddisfacimento dei bisogni già oggetto
della tutela dispensata dalla previdenza obbligatoria
di base è per vero largamente sostenuta in dottrina
(cfr., tra gli altri, Sandulli, voce Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm.,
1995, p. 253; Cinelli, Sulle funzioni della previdenza
complementare, in Riv. giur. lav., 2000, I, p. 523 ss.)
ed è avallata da Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, in
Mass. giur. lav., 2000, p. 965, con nota adesiva di
Pessi, Una lezione di etica politica: la Corte costituzionale e la previdenza complementare. Per la tesi secondo cui, invece, la previdenza complementare privata
troverebbe fondamento nell’art. 38, comma 5o, Cost.
cfr. Persiani, Previdenza pubblica e previdenza privata, in Aidlass, Il diritto del lavoro alla svolta del secolo, Atti del XIII Congresso nazionale di diritto del lavoro, (Ferrara 11-12-13 maggio 2000), Milano, 2002,
p. 23 ss., nonché Ciocca, La libertà della previdenza
privata, cit., spec. cap. I. Per una considerazione più
cauta delle ricadute del citato intervento della Corte
costituzionale, cfr. Proia, Aspetti irrisolti del problema dei rapporti tra previdenza pubblica e previdenza
complementare, in Arg. dir. lav., 2001, p. 619 ss.
( 29 ) Cfr. Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, cit.
601
sfatto, in capo ai singoli rappresentati, attraverso la conclusione del contratto collettivo ( 30 ).
Né, come detto, la disciplina relativa al conferimento del t.f.r., malgrado il suo meccanismo di
semiautomaticità, consente di ripensare criticamente la tesi – prevalente in dottrina e del resto
esatta, in vigenza del d.lgs. n. 124/93 – secondo
cui eventuali clausole di inscindibilità, inserite
nei contratti collettivi, che subordinassero la
fruizione di tutte le tutele contrattual-collettive
all’adesione al fondo pensione negoziale, sarebbero contrastanti con il principio della libertà di
adesione ( 31 ).
4. – Al pari dell’art. 3 del d.lgs. n. 124/93, anche l’art. 3 del decreto delegato è rubricato
« Istituzione delle forme pensionistiche complementari »; sicché esso contiene una disciplina
che è sostanzialmente attinente ad un’iniziativa
procedimentale, la cui titolarità viene rimessa
ad una determinata cerchia di soggetti, nel rispetto di certi limiti e modalità. Ciò spiega perché, con una sostanziale sfasatura concettuale,
si sia diffusa nel linguaggio corrente la tendenza
a personificare la nozione di « fonti istitutive » ( 32 ), identificandole con i soggetti indicati
dall’art. 3; tendenza, questa, che si è oggi viep-
( 30 ) Così, seppure con tono più ottativo che assertivo, Alaimo, La previdenza complementare nella crisi
del welfare state, cit., p. 231. Parimenti Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 127, auspica che
« l’opzione garantista compiuta in nome della libertà
[...] possa essere superata nel tempo dalla forza propulsiva già dimostrata in questo cinquantennio dall’autonomia collettiva »; ma tale auspicio non pare in
grado di superare il dato legale, che è chiaramente
connotato da un intento restrittivo degli effetti normativi normalmente prodotti dal contratto collettivo.
Non può essere pertanto condivisa l’opinione di Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione,
cit., p. 34, secondo cui gli accordi collettivi di cui all’art. 3 « possono stabilire forme di adesione implicita, connesse ad esempio all’iscrizione al sindacato ».
( 31 ) Così, tra gli altri, Mazziotti, sub art. 2, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a
cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 182.
( 32 ) Di « tendenza a sovrapporre il concetto di fonti
istitutive con le organizzazioni sindacali contraenti »
parla Sandulli, Le fonti costitutive di fronte alle sfide
della concorrenza, ne La previdenza complementare e la
concorrenza tra i fondi pensione, Atti del convegno del
Fondo pensioni del personale della BNL (3 maggio
2005), in Quaderni Mefop, 2005, p. 28.
602
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
più rafforzata ed è avallata dal legislatore, come
emerge in modo macroscopico nella disposizione di cui all’art. 4, comma 6o, a mente del quale
la COVIP è chiamata a disciplinare determinate
ipotesi di decadenza del fondo pensione dall’autorizzazione, « previa convocazione delle
fonti istitutive ».
Per quanto riguarda l’ambito del lavoro subordinato privato, fonti principali nell’istituzione delle forme pensionistiche complementari rimangono, come detto, i « contratti e accordi collettivi, anche aziendali » (art. 3, comma 1o, lett.
a). Natura residuale è infatti assunta dagli « accordi fra lavoratori » (art. 3, comma 1o, lett.
a) ( 33 ), nonché dai « regolamenti di enti o aziende » (art. 3, comma 1o, lett. c) ( 34 ).
Il legislatore specifica che i contratti aziendali
istitutivi delle forme pensionistiche complementari hanno efficacia limitata « ai soli soggetti
o lavoratori firmatari degli stessi ». In dottrina si
è già osservato ( 35 ) che la disposizione appare
sostanzialmente inutile, a meno di non ritenere
che il contratto collettivo aziendale sia dotato di
intrinseca efficacia erga omnes; efficacia, questa,
che esso tuttavia non possiede. Così, l’intervento legislativo in commento appare criticabile
proprio per l’indiretto avallo che esso fornisce
ad una distorta configurazione giuridica del
contratto collettivo ( 36 ). La norma, in effetti, denota la chiara volontà del legislatore di circoscrivere l’efficacia dei contratti aziendali nei
confronti dei soli aderenti alle associazioni firmatarie, sul presupposto (infondato, tuttavia,
alla stregua dei principi del diritto comune) che
( 33 ) Tali accordi possono istituire forme pensionistiche complementari « in mancanza » di contratti
collettivi applicabili. Sul rapporto tra la contrattazione collettiva e gli accordi « fra lavoratori », cfr. Ciocca, Fondi pensione e lavoro autonomo, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di
Ferraro, cit., spec. p. 701.
( 34 ) Tale fonte istitutiva può promanare dai soli
datori di lavoro, i rapporti alle dipendenze dei quali
« non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali ».
( 35 ) Tursi, I problemi giuridici delle fonti istitutive
nella riforma della previdenza complementare, in Osservatorio giuridico, n. 10, Suppl. alla Newsletter Mefop, n. 24, 2005, p. 4.
( 36 ) Cfr. sempre Tursi, ibidem; Id., Le fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, in
Newsletter Mefop, n. 25, 2006, p. 5
senza una siffatta norma il contratto stesso assumerebbe efficacia generalizzata ( 37 ).
È pur vero, d’altro canto, che la giurisprudenza, sebbene non senza ambiguità, si è sovente
spinta, nella ricostruzione dell’ambito soggettivo di efficacia del contratto aziendale, ben oltre
i confini consentiti dal diritto comune ( 38 ). Con
una punta di benevolenza potrebbe dunque ritenersi che l’inciso normativo in esame, certo
non inappuntabile sul piano della teoria del
contratto collettivo, intenda pragmaticamente
porsi in rapporto dialettico con il diritto vivente
di formazione giurisprudenziale, oltre che – va
pur detto – con certi orientamenti dottrinali ( 39 )
( 37 ) È solo il caso di notare che l’art. 8, comma 7o,
lett. b), n. 1), del decreto in commento prevede il
conferimento tacito del t.f.r. « alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, salvo sia intervenuto un diverso
accordo aziendale », senza preoccuparsi, in questo
caso, del problema dell’ambito soggettivo di efficacia
di tali accordi.
( 38 ) L’efficacia generalizzata del contratto aziendale è stata affermata in certi casi dalla giurisprudenza
(benché non si tratti di un filone consolidato né univoco) in ragione dell’indivisibilità degli interessi regolati, oltre che della « oggettiva funzione di regolamentazione uniforme » propria degli accordi aziendali (così Cass. 25 marzo 2002, n. 4218; cfr. anche
Cass. 15 giugno 1999, n. 5953). Per una ricognizione
degli orientamenti giurisprudenziali sia consentito
rinviare a Bollani, Il contratto collettivo aziendale è
efficace erga omnes?, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, p.
312, in nota critica a Cass. 28 maggio 2004, n. 10353,
che, in difetto del dissenso sindacale, ravvisa l’efficacia erga omnes argomentando anche (assai discutibilmente) sulla base dell’inscindibilità della disciplina
contrattuale.
( 39 ) L’efficacia erga omnes degli accordi aziendali è
stata variamente argomentata dalla dottrina, facendo
leva ora sull’indivisibilità degli interessi dedotti nel
regolamento contrattuale (Dell’Olio, L’organizzazione e l’azione sindacale, Padova, 1980, p. 170; Assanti, La coppia « collettivo-collettivo »: rappresentatività del sindacato ed « indivisibilità » delle posizioni
soggettive, in Aa.Vv., Diritto e giustizia del lavoro oggi, Milano, 1984, p. 109 ss.), ora sulla capacità rappresentativa dei sindacati stipulanti (sulla ritenuta efficacia generale dei contratti conclusi da sindacati
maggiormente rappresentativi, cfr. Ferraro, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di
tutela, Padova, 1981), ora sulla legittimazione democratica promanante dall’assemblea dei lavoratori dell’azienda (Caruso, Rappresentanza sindacale e consenso, Milano, 1992).
La nuova disciplina della previdenza complementare
tesi a sostenere l’efficacia erga omnes del contratto aziendale.
Il punto, però, è che nel caso della previdenza
complementare il problema del dissenso è di
fatto destinato a non porsi, essendo la questione
neutralizzata per mezzo dell’affermazione generale del principio di libertà di adesione individuale di cui all’art. 3, comma 3o, e non determinando il contratto collettivo alcun obbligo per i
lavoratori né alcuna revisione peggiorativa di un
pregresso trattamento. Con la conseguenza che
la limitazione introdotta dalla lett. a) dell’art. 3,
comma 1o, relativamente all’ambito di efficacia
del contratto aziendale, appare scarsamente
comprensibile. Né la volontà di limitare l’efficacia degli accordi aziendali ai soli « soggetti » firmatari acquisirebbe senso se riferita all’ipotesi
del dissenso collettivo ed alla stipulazione dei
cd. contratti separati, sia perché il problema è
destinato di fatto a non porsi nell’ambito della
previdenza complementare, per le ragioni già
esposte, sia perché anche la giurisprudenza sopra richiamata – una volta che nel caso concreto
si possa prendere atto di un dissenso collettivo e
non individuale – esclude la sussistenza di
un’efficacia generalizzata.
La formulazione dell’art. 3, comma 1o, lett. a)
contempla peraltro un’ulteriore e distinta fattispecie, là dove si riferisce ai « lavoratori » firmatari dei
menzionati contratti collettivi. Mentre il riferimento ai « soggetti » firmatari dei contratti aziendali
corre, evidentemente, alle organizzazioni sindacali, per « lavoratori firmatari » dovrebbero intendersi tutti quegli individui, parte di singoli contratti di lavoro, i quali abbiano concluso accordi individuali plurimi con il comune datore di lavoro ( 40 ). Non si è dunque in presenza, malgrado
l’impropria formulazione lessicale utilizzata dal legislatore, di « contratti e accordi collettivi aziendali », bensì di un fascio di atti negoziali individuali, posti in essere da una collettività non organizzata; così individuata la natura di tali accordi, è al-
( 40 ) Contra, seppur dubitativamente, Pandolfo,
Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza
complementare, cit., p. 156, secondo cui il legislatore
avrebbe qui voluto solo visualizzare e ribadire la rilevanza della volontà individuale, che deve seguire il
contratto collettivo ai fini dell’adesione alla forma
pensionistica complementare da quest’ultimo istituita. Ma, se così fosse, si tratterebbe di norma evidentemente inutile.
603
lora scontata (e, dunque, è anche qui pleonastico
che il legislatore si preoccupi di ribadirla) la loro
limitata efficacia soggettiva. Ed anche la Covip ( 41 )
ritiene che tali accordi non possano essere ricompresi tra quegli « accordi aziendali », contemplati dall’art. 8, comma 7o, lett. b), nn. 1 e 2, abilitati
dal decreto delegato a derogare, eventualmente,
alle norme legali ivi contenute in tema di devoluzione tacita del t.f.r. (su tali accordi aziendali, cfr.
Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario).
Per quanto invece concerne gli accordi fra lavoratori, essi hanno natura di accordi plurilaterali con
comunione di scopo, costituendo, ai fini dell’istituzione di forme pensionistiche complementari,
strumento ordinario, per così dire, per i lavoratori autonomi, ai sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. b),
nonché per i soci lavoratori di cooperative, ai sensi della lett. e), e residuale, invece, per i lavoratori
subordinati, ai sensi della lett. a).
Tali accordi, che segnano un’iniziativa promanante comunque da soggetti appartenenti ad una
comunità di lavoro di riferimento, debbono essere promossi, per quanto riguarda il lavoro autonomo ( 42 ), da « sindacati o da associazioni di rilievo
almeno regionale »; per i soci lavoratori di cooperative, da « associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute »; infine, per quel che concerne il lavoro subordinato, da « sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro ».
All’area del lavoro autonomo vanno peraltro
ascritti anche i collaboratori coordinati e continuativi ed in genere i cd. lavoratori parasubordinati, nei cui riguardi avrebbe in realtà senso
immaginare la stipulazione di veri e propri contratti collettivi.
Già nel regime normativo previgente si era
aperta una querelle inerente l’ammissibilità di
accordi collettivi, istitutivi di forme pensionisti-
( 41 ) Cfr. le direttive generali emanate dalla COVIP
il 28 giugno 2006.
( 42 ) Il testo della norma in commento parla di accordi « fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti ». L’uso della particella disgiuntiva « o » potrebbe lasciare intendere che i « liberi professionisti » siano soggetti diversi dai « lavoratori autonomi »; il che,
tuttavia, non è, dal momento che, come noto, anche a
voler considerare soltanto la disciplina contenuta negli artt. 2222 ss. c.c., la categoria del lavoro autonomo ricomprende chiaramente anche le cd. professioni intellettuali.
604
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
che complementari, per i cd. lavoratori parasubordinati ( 43 ). Pur avendo l’art. 3 del d.lgs. n.
124/93 apparentemente consegnato ai lavoratori autonomi il solo strumento dell’accordo plurilaterale, si era in realtà ritenuta possibile, con
interpretazione condivisibile, l’istituzione di
forme pensionistiche complementari per i cd.
parasubordinati attraverso contratti collettivi. A
tale conclusione si perveniva argomentando a
partire dall’art. 8 dello stesso decreto, il quale
prevedeva il finanziamento dei fondi pensione
anche attraverso contributi posti a carico dei
« committenti »; il che, evidentemente, presupponeva che gli stessi committenti potessero contrattualmente assumere tale obbligo nei confronti dei propri collaboratori ( 44 ).
Il legislatore del 2005 perpetua una certa confusione concettuale, se è vero che l’art. 8 sembra
distinguere tra le prestazioni di lavoro rese in favore di un « committente » (comma 1o, primo
periodo) ed il caso del lavoro autonomo (comma 1o, secondo periodo); mentre, come noto, le
prime rientrano a pieno titolo nel più ampio genus rappresentato dal secondo. In ogni caso, il
tenore del dettato legislativo, sostanzialmente
coincidente con quello previgente, consente di
pervenire alle stesse conclusioni già elaborate
sotto la vigenza del d.lgs. n. 124/93.
La disciplina introdotta nel 2005, al pari di
quella precedentemente in vigore, pone peraltro all’attenzione dell’interprete una serie di
questioni che riguardano la rappresentatività
degli agenti negoziali e la loro selezione ad opera del legislatore. Al pari del d.lgs. n. 124/93,
anche il decreto delegato del 2005 nulla prevede, infatti, in ordine alle qualità rappresentative
dei contraenti collettivi che stipulano i contratti
collettivi istitutivi delle forme pensionistiche
complementari ( 45 ). Tale silenzio non deve tut-
( 43 ) I quali, lo si ripete a scanso di equivoci, sono a
tutti gli effetti lavoratori autonomi, caratterizzandosi
i loro rapporti soltanto per l’applicabilità di determinate e specifiche tutele, in parte comuni a, ed in parte
mutuate da, quelle approntate dall’ordinamento per
il lavoro subordinato.
( 44 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 205; Zampini,
La previdenza complementare, cit., p. 77.
( 45 ) Con l’eccezione, già introdotta dalla l. n. 335/
95 nel corpus del d.lgs. n. 124/93, degli accordi per
gli appartenenti alla categoria legale dei quadri, le cui
tavia apparire distonico, se posto a confronto
con il prescritto carattere nazionale dei sindacati « promotori » di iniziative di previdenza complementare senza partecipazione (e contribuzione) dei datori di lavoro. In tal caso, la ratio del
requisito della nazionalità può essere infatti ravvisata nella comprensibile preoccupazione del
legislatore di garantire una proficua gestione
delle risorse raccolte dal fondo ad un livello accentrato ( 46 ), evitando micro-iniziative finanziariamente poco promettenti.
Non è invece richiesta alcuna speciale qualità
rappresentativa (conformemente a quanto già
previsto dal d.lgs. n. 124/93) in capo ai soggetti
che stipulano i contratti collettivi istitutivi di
una forma pensionistica complementare ai sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. a). In difetto di
specificazioni, deve allora ritenersi che, almeno
in astratto, qualsiasi contratto collettivo, sottoscritto da qualsivoglia associazione sindacale,
ed a qualsiasi livello, possa istituire una forma
pensionistica complementare. Sennonché è del
tutto evidente che in questa materia un’iniziativa sindacale può assumere valore solo se, nell’ambito di riferimento considerato (categoriale, territoriale o aziendale), essa non riguardi
un insieme circoscritto di lavoratori. Ed infatti
i fondi pensione noti ad oggi nell’esperienza
del nostro Paese sono sorti attraverso l’iniziativa delle principali associazioni sindacali, tanto
a livello di categoria quanto a livello aziendale.
A ciò si aggiunga che, anche in questa materia,
che comporta una diretta ed ulteriore incidenza sul livello complessivo del costo del lavoro, i
datori di lavoro hanno interesse a negoziare solo con sindacati adeguatamente rappresentativi.
Come si può notare, in sostanza il testo dell’art. 3, comma 1o, lett. a) – a cagione del fatto
che menziona puramente e semplicemente i
contratti collettivi, senza ulteriori specificazioni
– determina la riemersione di tutti i problemi,
organizzazioni sindacali, quando intendano concorrere all’istituzione di una forma pensionistica complementare, debbono possedere il requisito della nazionalità: cfr. sempre il testo dell’art. 3, comma 1o,
lett. a) del d.lgs. n. 252/05.
( 46 ) Così, a margine della disciplina introdotta nel
1993, Mastrangeli, sub art. 3, in Disciplina delle
forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli,
cit., p. 183.
La nuova disciplina della previdenza complementare
scandagliati da una pluridecennale elaborazione
dottrinale, propri del cd. contratto di diritto comune.
Ciò è quanto si può dire, innanzitutto, in ordine alla questione dell’efficacia soggettiva del
contratto collettivo « istitutivo », che attribuisce al lavoratore il diritto di aderire al fondo
pensione ed al datore l’obbligo della contribuzione, se ed in quanto il contratto collettivo risulti applicabile in forza dell’affiliazione sindacale ovvero del rinvio esplicito od implicito
operato dalle parti del contratto individuale ( 47 ).
Nemmeno la questione del possibile concorso
tra più contratti collettivi istitutivi di forme pensionistiche complementari (ad es., l’uno categoriale e l’altro territoriale) si presta ad essere risolta secondo criteri diversi da quelli rivenienti
dal diritto comune ed affermatisi nell’elaborazione gius-sindacale. Benché un filone dottrinale ritenga che, in presenza di più contratti collettivi astrattamente applicabili al rapporto di
lavoro, il lavoratore potrebbe indifferentemente
scegliere tra l’uno e l’altro fondo pensione, ciò
discendendo dal principio di libertà individuale
di adesione ( 48 ), il problema del conflitto tra
( 47 ) Contra, Tosi, Le fonti istitutive dei fondi di
previdenza complementare, cit., p. 440, secondo il
quale il principio di libertà di adesione individuale
postulerebbe la possibilità che il lavoratore scelga di
aderire ad un fondo negoziale indipendentemente
dall’applicabilità del contratto collettivo. Secondo
Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 111
ss., sarebbe auspicabile conferire « fondamento alla
realità degli effetti della contrattazione collettiva istitutiva » (p. 114), con preminenza delle fonti istitutive
di livello superiore; ma tale ragionamento oscilla in
modo non del tutto lineare tra opzioni, pur legittime,
di politica del diritto ed un’esegesi letterale del testo
di legge che lo stesso a. riconosce piuttosto fragile e
che è stata in effetti adeguatamente confutata da Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 279 ss.
( 48 ) Tosi, op. ult. cit., p. 441, anche in tal caso – oltre che in quello di contratti concorrenti perché sottoscritti da diversi soggetti – ritiene il lavoratore libero di
scegliere il fondo al quale aderire. In realtà la tesi in parola sembra muovere da un’errata configurazione del significato sotteso al principio di libertà di adesione, il
quale determina semmai una facoltà di opting out del lavoratore, nonostante la sua eventuale affiliazione sindacale, e non anche una sua facoltà di scelta tra diverse iniziative pensionistiche a genesi sindacale.
605
contratti va invece più correttamente impostato,
secondo una nota costruzione dottrinale ( 49 ),
come composizione di un’antinomia e come
scelta, quindi, dell’unico regolamento contrattuale applicabile al rapporto. Occorre, cioè, individuare il contratto applicabile, l’uno escludendo l’altro. Così, i lavoratori a cui si applica
la fonte istitutiva sono quelli a cui si applica il
contratto collettivo prevalente ( 50 ), alla stregua
dei noti principi di posteriorità nel tempo e di
specialità.
Certo, non si può negare che il legislatore del
2005, specie nella disciplina degli accordi aziendali di cui all’art. 3, comma 1o, lett. a), mostra di
intendere il contratto collettivo quale atto eteronomo con efficacia generalizzata; tanto che,
proprio perché si preoccupa nell’art. 8 di regolare il concorso tra fonti, per il caso di tacito
conferimento del t.f.r., sembrerebbe presupporre che tutti i contratti collettivi, eventualmente
di diverso livello, istitutivi di forme pensionistiche complementari, siano astrattamente ed al
contempo applicabili ( 51 ). Questo, tuttavia, non
deve esimere l’interprete dal rilevare le aporie
dell’intervento legislativo, proponendo l’opzione ermeneutica più consona ai principi dell’ordinamento.
Altro peculiare problema, che rimanda ancora una volta ad una controversa questione giussindacale (la quale tuttavia non può qui essere
sviluppata: sul punto cfr. Occhino, sub art. 15,
in questo Commentario), è poi quello del recesso ( 52 ) del datore di lavoro dal contratto collettivo istitutivo della forma pensionistica complementare e delle sue eventuali ricadute sulle po-
( 49 ) Grandi, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1981, p. 355 ss.
( 50 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 232 ss.
( 51 ) Così Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., pp. 191192.
( 52 ) Cfr. Maresca, Contratto collettivo e libertà di
recesso, in Arg. dir. lav., 1995, n. 2, p. 35 ss.; Rescigno, Contratto collettivo senza predeterminazione di
durata e libertà di recesso, in Mass. giur. lav., 1993, p.
576 ss.; Tursi, Contratto a tempo indeterminato e recesso ad nutum, in Riv. it. dir. lav., 1993, I, p. 448 ss.;
Sandulli, Disdettabilità degli accordi collettivi e prestazioni pensionistiche complementari, in Mass. giur.
lav., 1990, p. 388 ss.
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sizioni giuridiche soggettive ( 53 ) degli iscritti al
fondo.
5. – La lett. d) dell’art. 3, comma 1o, sembra
poggiare su un sostanziale equivoco ( 54 ), poiché
in esso si intrecciano e si confondono due questioni del tutto separate: da un lato, la ripartizione tra Stato e regioni delle competenze legislative in materia di previdenza complementare;
dall’altro, l’istituzione di forme pensionistiche
complementari direttamente ad iniziativa delle
regioni, vale a dire la configurazione di queste
ultime quali « fonti istitutive ».
Leggendo il testo della norma ( 55 ), e ponendolo a confronto con il disposto della legge delega ( 56 ), appare chiaro come in capo alle regioni si sovrappongano compiti consistenti al contempo nell’istituire le forme pensionistiche
complementari, da un lato, e nel disciplinarle,
in conformità alle previsioni dell’art. 117 Cost.
(che assegna la materia alla potestà legislativa
concorrente), dall’altro ( 57 ).
( 53 ) Cfr. Spagnuolo Vigorita, Obiettivi collettivi e strumenti contrattuali. I diritti acquisiti in tema di
pensione integrativa, in Arg. dir. lav., 1995, n. 2, p. 17
ss.; Persiani, Aspettative e diritti nella previdenza
pubblica e privata, in Arg. dir. lav., 1998, p. 311 ss.;
Tullini, Previdenza complementare e tutela delle posizioni soggettive, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996,
p. 1111 ss.
( 54 ) Così già Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, in
Prev. ass. pubbl. e priv., 2005, p. 524, ed anche Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p. 159.
( 55 ) « Le forme pensionistiche complementari possono essere istituite da [...] d) le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche
complementari con legge regionale nel rispetto della
normativa nazionale in materia ».
( 56 ) Cfr. l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2, della legge
n. 243/04, che delegava il Governo ad individuare
modalità tacite di conferimento del t.f.r. « ai fondi
istituiti o promossi dalle regioni, tramite loro strutture pubbliche o a partecipazione pubblica all’uopo
istituite, oppure in base ai contratti e accordi collettivi di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 3 ».
( 57 ) È solo il caso di precisare che la competenza
legislativa regionale (la cui ampiezza è tuttavia controversa, trattandosi di materia di competenza concorrente: cfr. infra, nel testo) riguarda l’intero fenomeno della previdenza complementare e non soltanto i fondi cd. regionali.
L’impostazione « federalista » della norma in
commento risente perciò di una sfocata valutazione della questione relativa al riparto di competenze legislative. La potestà normativa in materia di previdenza complementare, riconosciuta alle regioni dal titolo V della Costituzione,
nella versione emendata dalla l. cost. n. 3/01,
sembra avere determinato, in modo invero irrazionale, un effetto di trascinamento che ha fatto
debordare il ruolo delle regioni da quello di regolatore a quello di fonte istitutiva.
In questa sede non ci si soffermerà, se non nei
limiti essenziali allo svolgimento del discorso,
sui problemi costituzionali del riparto di competenze legislative tra Stato e regioni; problemi,
questi, che ruotano essenzialmente attorno alla
questione della controversa individuazione dei
« principi fondamentali » rimessi alla potestà legislativa dello Stato, oltre che attorno al contenuto della stessa nozione di « previdenza complementare e integrativa » ( 58 ) di cui all’art. 117,
comma 3o, Cost. Si vuole insomma contribuire,
per quanto possibile, ad una chiarificazione
concettuale, in modo che i problemi giuridici
delle fonti istitutive (ciò che costituisce principale oggetto di questo contributo) siano tenuti
distinti da quelli legati alle fonti della produzione legislativa.
Ebbene, il limite del « rispetto della normativa nazionale in materia » – imposto alle regioni
dall’art. 3, comma 1o, lett. d) del decreto delegato – sembra alludere ad un insieme di regole di
portata tanto ampia, da consentire di sostenere
ragionevolmente la tesi secondo la quale tutte le
disposizioni contenute nel d.lgs. n. 252/05 assurgerebbero al rango di principi fondamentali
in materia di previdenza complementare. In altre parole – dovendo le regioni legiferare, nelle
materie di competenza concorrente, entro la
cornice dei « principi fondamentali » fissati dal-
( 58 ) L’espressione « previdenza complementare e
integrativa » è generalmente intesa in senso alquanto
ampio e comprensivo: cfr. F. Carinci, Aspetti problematici e prospettive de iure condendo, in La previdenza complementare, a cura di Besson e F. Carinci,
cit., Torino, 2004, p. XXXIV; Magnani, Il lavoro nel
titolo V della Costituzione, in Arg. dir. lav., 2002, p.
645 ss. Per la tesi, invece, secondo cui tale locuzione
evocherebbe due distinti ambiti di intervento normativo, cfr. Ciocca, Il sistema previdenziale ed il federalismo, in Arg. dir. lav., 2003, p. 739 ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
le leggi dello Stato – le norme del d.lgs. n. 252/
05, in mancanza di più puntuali indicazioni legislative, sono idonee ad assurgere nella loro interezza alla stregua di limite per i legislatori regionali ( 59 ). Tale lettura estensiva pare preferibile,
proprio perché, come detto, trova il conforto
letterale della legge, che indica la « normativa
nazionale » quale limite. E, del resto, la lettura
che ritiene invece necessario estrapolare, all’interno della legislazione statale, i principi fondamentali, separandoli dalle norme prive di tale
natura ( 60 ), già costringeva l’interprete, anche
prima dell’emanazione del d.lgs. n. 252/05, ad
una faticosissima opera di bilanciamento di valori ed interessi, lasciando gli ipotizzati interventi legislativi regionali sempre esposti alla
spada di Damocle dell’incostituzionalità.
Sembra perciò che si possa immaginare una
legislazione regionale destinata a muoversi nel
solco del sistema, senza significative deviazioni.
Ma, come si è detto, l’aspetto di maggiore criticità e tensione interpretativa, almeno per quanto rileva ai fini dell’analisi giuridica dell’assetto
delle fonti istitutive, non risiede tanto nei problemi del riparto di competenza legislativa,
quanto nella pur ambigua apertura verso fondi
direttamente istituiti dalle regioni. Si tratta di
una decisa rottura, da questo punto di vista, con
il sistema previgente, che pure già ammetteva il
caso, tuttavia ben diverso, di una mera attività
promozionale svolta dalle regioni ai fini della
costituzione di fondi pensione connotati da un
fondamento territoriale.
Ad oggi, per verità, le regioni non sembrerebbero avere manifestato concreto interesse verso la
possibilità dischiusa dalla norma in commento ( 61 ),
se non nei limiti della possibile promozione di fondi pensione regionali per il personale degli enti locali ( 62 ). Sta di fatto, però, che l’assunzione di iniziative regionali non appare promettente né da un
( 59 ) Così anche Passalacqua, La previdenza complementare nel prisma della sussidiarietà tra disegno
costituzionale e intervento del legislatore ordinario,
cit., p. 71.
( 60 ) F. Carinci, Aspetti problematici e prospettive
de iure condendo, cit., p. XXXVI; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 42 ss.
( 61 ) V. però il caso della legge regionale del Lazio n.
2/04, segnalata da Passalacqua, op. ult. cit., p. 79 ss.
( 62 ) Iniziative, queste, tuttavia ancor oggi impedite
607
punto di vista squisitamente finanziario ( 63 ), né per
l’incidenza che essa potrebbe determinare sul piano della tutela della concorrenza ove i fondi si giovassero di forme di sostegno da parte delle istituzioni regionali ( 64 ).
Questo non significa negare che talune esperienze di intervento pubblico locale nell’ambito
della previdenza complementare abbiano guadagnato significativi meriti, anche per la loro capacità di coprire aree particolarmente critiche
della previdenza complementare (si pensi al cd.
lavoro atipico ovvero a soggetti in condizione
non lavorativa) ( 65 ). Ma altro, si ripete, sarebbe
ritenere che le regioni possano elevarsi, dal ruolo di meri coordinatori o promotori di iniziative
previdenziali altrimenti originate, a quello di
fonte istitutiva.
Non deve peraltro dubitarsi che la norma del
decreto delegato vada interpretata in coerenza
con la legge delega, là dove si delegava il Governo a prevedere che i fondi regionali fossero istituiti o promossi « tramite strutture pubbliche o
a partecipazione pubblica all’uopo istituite » ( 66 ); e che, altresì, debba ravvisarsi un limite
implicito, per i legislatori regionali, costituito
dal rispetto delle prerogative dell’autonomia
dalla situazione di stallo che riguarda la previdenza
complementare nel settore del lavoro pubblico: cfr.,
infra, par. 6.
( 63 ) Si allude al problema della possibile insufficienza delle masse di denaro così raccolte a raggiungere quella massa critica che può rendere più proficua la gestione del fondo: sul punto, cfr. Bessone,
Previdenza complementare, cit., p. 123.
( 64 ) Cfr. Brambilla, Capire i fondi pensione, Milano, 1997, p. 272; Sandulli, Le fonti costitutive di
fronte alle sfide della concorrenza, cit., p. 35.
( 65 ) Merita in tal senso una menzione il caso del
Trentino-Alto Adige, le norme di attuazione del cui
statuto speciale prevedono una rete residuale di protezione per i soggetti che non possono accedere a forme pensionistiche disciplinate dal d.lgs. n. 124/93,
oltre a forme di sostegno amministrativo-contabile ai
fondi negoziali, come previsto dalla legge regionale n.
3/97. Interessante è, in quel contesto territoriale,
l’esperienza del fondo Laborfonds. Sul tema, cfr.
Zampini, La previdenza complementare, cit., pp.
59-61; Francario, Principio di sussidiarietà e competenza regionale in materia di previdenza complementare, in La previdenza complementare, a cura di Bessone
e F. Carinci, cit., pp. 36-37.
( 66 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2), della l. n.
243/04.
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collettiva, garantite dall’art. 39 Cost. ( 67 ) ed oggetto di riserva di competenza legislativa statale.
Una lettura « minimalista » circa la istituzione
di fondi ad opera delle regioni – nel senso di ritenere che esse possano operare quali promotrici o coordinatrici di iniziative pensionistiche a
genesi negoziale e non anche come soggetti che
istituiscono direttamente il fondo pensione –
deve dunque imporsi, soprattutto perché appare l’unica in grado di garantire la coerenza sistematica dell’intervento legislativo, salvaguardando la centralità dell’autonomia negoziale (più
individuale, invero, che collettiva), già rilevata
in dottrina ( 68 ) come elemento caratterizzante
del decreto n. 124/93 e non rimossa, ma semmai
solo erosa, dalla riforma del 2005.
6. – Una notazione a parte merita l’istituzione di
forme pensionistiche complementari per i dipendenti della pubblica amministrazione. L’art. 3,
comma 2o, del d.lgs. n. 252/05 conferma infatti
l’impostazione già rinvenibile nel precedente assetto normativo, ribadendo la specialità della disciplina inerente il settore del lavoro pubblico.
Qui non solo sopravvive il sostegno alla contrattazione collettiva, ma addirittura i contratti
collettivi costituiscono, nell’ambito del cd. pubblico impiego privatizzato, canale esclusivo per
l’attuazione delle forme pensionistiche complementari; mentre, per quanto attiene ai rapporti
che fuoriescono dal campo si applicazione del
d.lgs. n. 165/01, il legislatore si limita a rinviare
ai rispettivi ordinamenti di stampo pubblicistico ovvero, in subordine, ad accordi plurilaterali
tra i lavoratori.
La norma – già criticata ( 69 ) allorché essa era
contenuta, con identica formulazione, nell’art. 3
del d.lgs. n. 124/93 – appare chiaramente influenzata dall’esigenza di controllare e contenere i flussi della spesa pubblica; sicché l’indicazione della
contrattazione collettiva come fonte istitutiva
( 67 ) Prerogative che sarebbero certamente violate, ad
esempio, nel caso in cui il legislatore regionale prevedesse, in ipotesi, l’istituzione ad opera della regione di forme pensionistiche complementari esclusive.
( 68 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
11; Alaimo, La previdenza complementare nella crisi
del welfare state, cit., p. 203.
( 69 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 218 ss.; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 104.
esclusiva non è, a ben vedere, il risultato di una reale opzione di sostegno legislativo, quanto, piuttosto, un effetto collaterale di un preminente obiettivo di controllo finanziario. Ed in tale direzione
muove, del resto, anche l’art. 8, comma 3o, in forza del quale, per il lavoro pubblico, « i contributi
alle forme pensionistiche [complementari] debbono essere definiti in sede di determinazione del
trattamento economico ».
Peraltro, lo sviluppo della previdenza complementare nel settore pubblico sconta l’handicap costituito dalla disciplina delle indennità di
fine rapporto, variamente denominate e non ancora rimpiazzate dal t.f.r. ( 70 ); indennità, quelle
ora menzionate, che generalmente non determinano un obbligo del datore di lavoro di provvedere ad accantonamenti, con la conseguenza
che manca uno stock monetario immediatamente riversabile nelle forme pensionistiche complementari (sulla disciplina del settore pubblico
e sulla sua lenta evoluzione verso il t.f.r., cfr.
Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario).
Consapevole delle specificità proprie del settore del lavoro pubblico, il Parlamento aveva
perciò delegato il Governo ad attuare i principi
e criteri direttivi della l. n. 243/04, nei confronti
del cd. pubblico impiego privatizzato, « tenendo conto » di detta specialità (art. 1, comma 2o,
lett. p). Ma il legislatore delegato, dal canto suo,
altro non ha fatto se non rinviare, per il lavoro
pubblico, alla disciplina previgente, in attesa
della « emanazione del decreto legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2o, lettera p) »
della legge delega ( 71 ).
7. – Nel tessuto dell’art. 3 sono altresì inclusi i
gestori dei fondi pensione ( 72 ) (limitatamente,
com’è ovvio, a quel che attiene alla costituzione
di fondi aperti, per i quali non sussiste la divaricazione tra promotori e gestori che caratterizza
invece i fondi negoziali), nonché le imprese assicurative ( 73 ) (per ciò che concerne i piani pensionistici individuali). A tale proposito vi è solo
da rilevare (rinviando, per il resto, a Pallini,
( 70 ) Cfr. la ricostruzione di Pugliese, La previdenza complementare nel settore del pubblico impiego: il quadro normativo, La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro, cit., II, p. 811 ss.
( 71 ) Così l’art. 23, comma 6o, del d.lgs. n. 252/05.
( 72 ) Art. 3, comma 1o, lett. h).
( 73 ) Art. 3, comma 1o, lett. i).
La nuova disciplina della previdenza complementare
sub artt. 12 e 13, in questo Commentario) che
l’esplicita menzione di tali soggetti, contenuta
all’interno dell’art. 3, appare una volta di più
come espressione della volontà legislativa di
equiparare sul piano funzionale tutte le forme
pensionistiche complementari, superando l’impostazione del d.lgs. n. 124/93 ( 74 ). E, come è
stato fatto notare ( 75 ), di non distinguere più i
fondi pensione a seconda che si rivolgano a destinatari i quali versino o meno in condizione lavorativa.
Nel catalogo delle fonti contenuto nell’art. 3,
è poi di interesse la previsione che attiene all’istituzione di forme pensionistiche complementari nell’ambito delle cd. casse privatizzate ( 76 ), per vero già anticipata, senza attendere
l’emanazione della legislazione delegata, dalla l.
n. 243/04, il cui art. 1, comma 35o, aveva novellato l’allora vigente d.lgs. n. 124/93, includendo, appunto, le cd. casse privatizzate nel novero
delle fonti istitutive ( 77 ).
L’art. 3, comma 1o, lett. g) del d.lgs. n. 252/05
riproduce ora testualmente quanto già previsto per
effetto della citata novella, abilitando gli enti previdenziali privatizzati – tra i quali un ruolo di spicco è rivestito dai soggetti che assicurano la tutela
previdenziale obbligatoria in favore di coloro « che
svolgono attività autonoma di libera professione
senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è
condizionato all’iscrizione in appositi albi o elenchi » ( 78 ) – ad istituire forme pensionistiche com-
( 74 ) Il cui art. 3, infatti, non menzionava i gestori
dei fondi né le imprese assicurative tra le « fonti istitutive », bensì ne regolava l’attività in altre disposizioni del decreto, quasi a sancire, anche da un punto
di vista topografico, la distinzione tra fondi chiusi ed
altre forme di previdenza complementare.
( 75 ) Tursi, I problemi giuridici delle fonti istitutive
nella riforma della previdenza complementare, cit., p. 4.
( 76 ) Va segnalato che da una serie di indagini empiriche emergerebbe un significativo interesse dei liberi professionisti verso la previdenza complementare, come rilevato da Inzerillo, Previdenza complementare: spazio alle casse privatizzate, in Newsletter
Mefop, n. 26, 2006, p. 4 ss. Va peraltro detto che tale
interesse si traduce però, soprattutto, in una propensione verso i fondi aperti e verso le forme previdenziali individuali.
( 77 ) Cfr. l’art. 1, comma 1o bis, del d.lgs. n. 124/93.
( 78 ) Così la definizione contenuta nell’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 103/96. Ma la norma in commento riguarda anche gli enti di cui al d.lgs. n. 509/94.
609
plementari, sia « direttamente » sia per mezzo degli atti negoziali contemplati dalle lett. a) e b) dello stesso art. 3, comma 1o. Si tratta di una previsione che ad oggi non sembra avere ricevuto l’attenzione che invece probabilmente merita, se è vero che da parte delle casse che gestiscono le forme
previdenziali obbligatorie dei liberi professionisti
vi è certamente un interesse concreto a darvi seguito, anche attraverso la costituzione di fondi intercategoriali ( 79 ).
Tra l’altro, l’esplicita previsione secondo cui
tali iniziative previdenziali possono essere intraprese « direttamente » da parte dei menzionati
enti lascia chiaramente intendere che il medium
degli accordi collettivi o plurilaterali non è qui
necessario ( 80 ). Così, sebbene anche in questo
caso possano sorgere, sul piano della politica
del diritto, le stesse perplessità già evidenziate
in ordine al ruolo assegnato alle regioni, la lettera del decreto delegato non consente stavolta di
escludere che gli enti previdenziali considerati
dall’art. 3, comma 1o, lett. g), siano abilitati ad
istituire (direttamente, appunto) forme pensionistiche complementari, anche nelle forme del
mero patrimonio di destinazione (cfr., sul punto, Bollani, sub art. 4, in questo Commentario).
La lett. f) dell’art. 3, comma 1o, contempla infine tra le fonti istitutive anche accordi che venissero conclusi, dietro input di sindacati o associazioni di rilievo almeno regionale, da soggetti a cui si applica il d.lgs. n. 565/96. Si tratta
degli iscritti al fondo INPS per le persone che
svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti
da responsabilità familiari (già gestione « mutualità pensioni » di cui alla legge 5 marzo 1963,
n. 389), fondo a cui afferiscono coloro che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori
non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta. Trattasi, in definitiva, di
copertura previdenziale del tutto residuale, già
classificata come « previdenza delle casalin( 79 ) A quanto consta, in tal senso si sta ad esempio
muovendo l’Adepp, unitamente alle casse previdenziali di avvocati, commercialisti, notai, farmacisti e
periti industriali.
( 80 ) Così anche Francario, Previdenza complementare per i liberi professionisti, ne La previdenza forense, 2005, p. 258.
610
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
ghe » ( 81 ), in ordine alla quale appare per verità
improbabile l’istituzione di forme pensionisti
che complementari, nei termini prefigurati dal
legislatore delegato.
Andrea Bollani
( 81 ) Vianello, La mutualità pensioni alle casalinghe, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di
Cester, Torino, 1996, p. 308 ss.; Tursi, La previdenza
complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 103.
Art. 4.
(Costituzione dei fondi pensione ed autorizzazione all’esercizio)
1. I fondi pensione sono costituiti:
a) come soggetti giuridici di natura associativa, ai sensi dell’articolo 36 del codice civile, distinti dai soggetti promotori dell’iniziativa;
b) come soggetti dotati di personalità giuridica; in tale caso, in deroga alle disposizioni del
decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, il riconoscimento della personalità giuridica consegue al provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività adottato dalla COVIP; per tali fondi pensione, la COVIP cura la tenuta del registro delle persone
giuridiche e provvede ai relativi adempimenti.
2. I fondi pensione istituiti ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettere g), h) e i), possono essere
costituiti altresì nell’ambito della singola società o del singolo ente attraverso la formazione,
con apposita deliberazione, di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito della medesima società od ente, con gli effetti di cui all’articolo 2117 del codice civile.
3. L’esercizio dell’attività dei fondi pensione di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a h),
è subordinato alla preventiva autorizzazione da parte della COVIP, la quale trasmette al Ministro del lavoro e delle politiche sociali e al Ministro dell’economia e delle finanze l’esito del
procedimento amministrativo relativo a ciascuna istanza di autorizzazione; i termini per il rilascio del provvedimento che concede o nega l’autorizzazione sono fissati in sessanta giorni dalla
data di ricevimento da parte della COVIP dell’istanza e della prescritta documentazione ovvero in trenta giorni dalla data di ricevimento dell’ulteriore documentazione eventualmente richiesta entro trenta giorni dalla data di ricevimento dell’istanza; la COVIP può determinare
con proprio regolamento le modalità di presentazione dell’istanza, i documenti da allegare alla
stessa ed eventuali diversi termini per il rilascio dell’autorizzazione comunque non superiori ad
ulteriori trenta giorni. Con uno o più decreti da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali determina:
a) i requisiti formali di costituzione, nonché gli elementi essenziali sia dello statuto sia dell’atto di destinazione del patrimonio, con particolare riferimento ai profili della trasparenza nei
rapporti con gli iscritti ed ai poteri degli organi collegiali;
b) i requisiti per l’esercizio dell’attività, con particolare riferimento all’onorabilità e professionalità dei componenti degli organi collegiali e, comunque, del responsabile della forma pensionistica complementare, facendo riferimento ai criteri definiti ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, da graduare sia in funzione delle modalità di gestione
del fondo stesso sia in funzione delle eventuali delimitazioni operative contenute negli statuti;
c) i contenuti e le modalità del protocollo di autonomia gestionale.
4. ( 1 )
( 1 ) Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
La nuova disciplina della previdenza complementare
611
5. I fondi pensione costituiti nell’ambito di categorie, comparti o raggruppamenti, sia per lavoratori subordinati sia per lavoratori autonomi, devono assumere forma di soggetto riconosciuto ai sensi del comma 1, lettera b), ed i relativi statuti devono prevedere modalità di raccolta delle adesioni compatibili con le disposizioni per la sollecitazione al pubblico risparmio.
6. La COVIP disciplina le ipotesi di decadenza dall’autorizzazione quando il fondo pensione
non abbia iniziato la propria attività ovvero quando non sia stata conseguita la base associativa
minima prevista dal fondo stesso, previa convocazione delle fonti istitutive.
L’assetto delle fonti costitutive
Sommario (art. 4): 1. Fonti istitutive e fonti costitutive
nel sistema italiano di previdenza complementare. – 2.
Numero chiuso delle fonti costitutive ed obbligo della
denominazione, nella prospettiva del vincolo previdenziale. – 3. Il fondo pensione come soggetto di diritto e come patrimonio di destinazione. – 4. Segue: il
fondo pensione come patrimonio di destinazione. – 5.
Segue: il fondo pensione come associazione non riconosciuta. – 6. Segue: il fondo pensione come persona
giuridica. – 7. Il procedimento di autorizzazione e le
fonti secondarie.
1. – Contrapporre il concetto di « fonte costitutiva » a quello di « fonte istitutiva » – secondo
un’impostazione oramai comunemente acquisita – postula evidentemente l’idea che l’iniziativa
descritta dall’art. 3, avente ad oggetto l’istituzione di una forma pensionistica complementare,
vada tenuta distinta (almeno concettualmente ( 2 )) dalla costituzione dei fondi che ai sensi
( 2 ) Con riferimento alle norme del d.lgs. n. 124/93
(ma il discorso è pienamente riferibile alle norme oggi
vigenti, attesane l’identità sostanziale), ritiene Tursi,
La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Torino, 2001, p. 197, che in realtà una
cesura netta tra fonti istitutive e fonti costitutive non
sia legalmente imposta, bastando la realizzazione di
una sequenza di atti (o, in ipotesi, un solo atto) che
soddisfi i requisiti imposti dagli artt. 3 (in punto di legittimazione soggettiva ad istituire forme pensionistiche complementari) e 4 (in punto di forme organizzative per la costituzione del fondo). Anche Ferraro,
La problematica giuridica dei fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro, Milano, 2000, I, p. 10, avverte che « la
linea divisoria tra queste due fasi non risulta sempre
nitidamente tracciata ». Si tratta di rilievi senz’altro
esatti, che tuttavia lasciano intatta l’efficacia euristica
della distinzione concettuale tra fonti istitutive e fonti
costitutive, quanto meno nella misura in cui essa evidenzia la duplicità di ambiti regolativi (la legittima-
dell’art. 4 sono idonei a realizzare concretamente il piano previdenziale.
Tale distinzione porta tuttavia con sé, nell’impianto del decreto delegato in commento (come
già, del resto, in quello del d.lgs. n. 124/93),
uno stretto rapporto tra i due tipi di « fonte »,
nel senso che, come è stato detto, gli atti di costituzione del fondo pensione si pongono in una
« posizione di precisa dipendenza funzionale » ( 3 ) rispetto alla forma pensionistica concepita ai sensi dell’art. 3; le fonti costitutive, dunque, organizzano (e, generalmente, configurano
soggettivamente) la forma pensionistica, rappresentando strumento di attuazione del disegno previdenziale portato dalle fonti istitutive ( 4 ).
Ed in effetti la fonte istitutiva, oltre a generare
l’obbligo di costituzione del fondo ( 5 ), rappresenta altresì un pregnante limite all’autonomia
negoziale che si esprime nella formulazione di
atto costitutivo, statuto e regolamento del fondo medesimo, dal momento che può condizionarne e vincolarne, al pari delle norme imperative di legge, i contenuti. Il che è stato del resto
sinteticamente esplicitato nella disciplina di carattere regolamentare introdotta dal d.m. 14
gennaio 1997, n. 211, là dove esso ha imposto
ad atti costitutivi e statuti di salvaguardare « le
competenze attribuite dal d.lgs. n. 124/93 alle
zione soggettiva, da un lato, e le forme giuridiche organizzative, dall’altro) presi in considerazione dal legislatore.
( 3 ) Bessone, Previdenza complementare, Torino,
2000, p. 50.
( 4 ) A.D. Candian, I fondi pensione, Milano, 1998,
p. 27.
( 5 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 196.
612
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
fonti istitutive » ( 6 ). A ciò si aggiunga che il regolamento COVIP del 22 maggio 2001 ( 7 ) ha
dettato ulteriori limiti, anche rilevanti, non circoscritti al mero incedere dell’iter procedurale.
Ancora, è la stessa COVIP ad adottare, con
propria deliberazione, schemi statutari-tipo ovvero regolamenti-tipo che conformano, perciò,
il dispiegarsi dell’autonomia negoziale privata ( 8 ).
È perciò indubbio che la matrice collettivosindacale, quando vi è, o quella eventualmente
diversa, comunque prevista e regolata dall’art. 3
del d.lgs. n. 252/05, continuino anche dopo la
riforma a proiettarsi sulle forme organizzative
dei fondi pensione, quanto meno da un duplice
punto di vista: da un lato, attraverso le indicazioni, gli obblighi e le prescrizioni liberamente
generate dall’autonomia negoziale nell’atto che
istituisce la forma pensionistica complementare ( 9 ); dall’altro, in conseguenza dei vincoli legali inderogabili che, nel combinato disposto degli
artt. 3 e 4, ricollegano necessariamente determinate fonti istitutive (nell’accezione ampia oggi
fatta propria dal legislatore, che vi include anche i promotori e gestori di fondi aperti, nonché
le imprese assicuratrici) a precise e tassative forme giuridiche per la costituzione del fondo.
In altre parole, la forma giuridica del fondo
pensione è indirettamente determinata, ed in
certi casi imposta, dalla scelta negoziale operata
dalla fonte istitutiva che prelude alla costituzione del fondo stesso ( 10 ), secondo un rapporto di
( 6 ) Così l’art. 2, comma 2o, del citato d.m. 14 gennaio 1997, n. 211.
( 7 ) Sulla considerazione e sulla disciplina che i poteri regolamentari del Ministro del lavoro e della COVIP ricevono oggi nell’art. 4, comma 3o, del d.lgs. n.
252/05, si tornerà comunque infra, par. 7.
( 8 ) Cfr. gli schemi statutari e regolamentari adottati dalla COVIP con deliberazione del 30 novembre
2006, allo scopo di conformare, appunto, statuti e regolamenti alle disposizioni del d.lgs. n. 252/05.
( 9 ) Si pensi, solo per fare alcuni esempi, a clausole
che prefigurino un’attività finanziaria limitata a determinate linee di investimento; che dettino criteri
inerenti la cerchia dei destinatari e le modalità di partecipazione; che regolino e definiscano la composizione degli organi del fondo; che disciplinino il regime di contribuzione, con particolare riferimento al
cd. contributo datoriale.
( 10 ) Il che era evidente anche nel quadro normativo previgente, come subito rilevato in dottrina: Ba-
sostanziale soggezione gerarchica delle fonti costitutive rispetto a quelle istitutive ( 11 ).
Va dunque ravvisato un continuum tra gli atti
negoziali, pur concettualmente separabili, che
danno infine vita al fondo pensione, fermo restando che dal punto di vista dell’ordinamento
ciò che rileva è il rispetto dei limiti di capacità
soggettiva posti dall’art. 3, da un lato, ed il conformarsi ai modelli giuridici eletti dall’art. 4 al
rango di forme idonee ad imprimere efficacemente il vincolo previdenziale, dall’altro.
2. – L’art. 1, comma 4o, del decreto in esame
conferma l’obbligo di marchiare la forma pensionistica complementare con una denominazione che contenga l’indicazione di « fondo
pensione »; indicazione il cui uso, peraltro, è
inibito a qualunque altro soggetto.
La medesima disposizione, per altro verso, sancisce il fondamentale principio della separazione
patrimoniale – addirittura sub specie di costituzione di un distinto soggetto di diritto o, quanto meno, sotto forma di patrimonio di destinazione – alla cui pratica realizzazione è poi finalizzata, a ben
vedere, l’intera trama dell’art. 4. L’art. 1, comma
4o, rappresenta cioè la premessa logica cui l’art. 4
dà poi svolgimento, concorrendo così tali norme
del d.lgs. n. 252/05 a radicare uno dei pilastri fondamentali su cui riposa la complessiva architettura dell’intervento legislativo; pilastro, questo, costituito dal vincolo di destinazione previdenziale
impresso alle risorse che affluiscono ai fondi pensione e dal divieto di loro confusione col patrimonio del datore di lavoro (per il caso dei preesistenti fondi cd. interni) ovvero del gestore finanziario
(per il caso dei fondi che, volendo per ora riferirci indistintamente a tutte le possibili tipologie, potremmo definire di « nuova » ( 12 ) istituzione).
Si può in effetti rilevare che – al di là dell’articolazione tipologica che attraversa il fenomeno
landi, Previdenza complementare e contratto collettivo, in Riv. giur. lav., 1993, I, p. 475.
( 11 ) A.D. Candian, I fondi pensione, cit., p. 92;
Zampini, La previdenza complementare, Padova,
2004, p. 155; Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p.
264; Tosi, Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 1999, p. 358.
( 12 ) Nel senso di successiva al 15 novembre 1992,
data di entrata in vigore della l. n. 421/92.
La nuova disciplina della previdenza complementare
della previdenza complementare, in ragione
della pluralità di fonti da cui, in apicibus, si origina l’iniziativa pensionistica e che si traduce,
poi, in una differenziazione di disciplina sul piano delle forme di costituzione e della loro configurazione soggettiva – è comune a tutte le forme contemplate e regolate dall’ordinamento la
chiara e fondamentale strumentalizzazione al fine previdenziale, per mezzo di speciali tutele e
di speciali garanzie, aventi anche rilievo pubblicistico, che mirano ad evitare la dispersione del
patrimonio a tale scopo impiegato, intervenendo innanzitutto sulla stessa configurazione giuridica dei fondi pensione, prima ancora che sul
loro funzionamento, sulla loro governance e sul
sistema dei controlli.
È in tale prospettiva che va spiegata la scelta
del legislatore di adottare la tecnica del numerus
clausus di forme organizzative (di natura essenzialmente, anche se non solo, associativa), che
dovrebbero coniugare, secondo la veduta corrente, non distribution constraint con tutela ed
aspettative dei pensionati e degli aderenti.
Va però qui segnalato che qualche voce dissonante ha messo in luce, non senza ragioni, che le
forme soggettive individuabili nel libro I del codice civile (associazione, con o senza personalità
giuridica, e fondazione) potrebbero denunciare
limiti di efficienza allorché siano utilizzate per la
gestione di un fondo pensione ( 13 ). E, si potrebbe aggiungere, tale potenziale deficit di efficienza, se si assume come pietra di paragone la disciplina delle società contenuta nel libro V del
codice, pare oggi accresciuto alla luce della riforma del diritto societario introdotta con il d.lgs. n. 6/03. Così, tralasciando qui di indagare la
praticabilità nel nostro ordinamento di schemi
giuridici atipici, quali il trust di ascendenza nordamericana ( 14 ), si tratta di interrogarsi intorno
( 13 ) Costi, I fondi pensione e l’organizzazione del
risparmio previdenziale, in Quad. dir. lav. rel. ind.,
1988, n. 3, p. 23; Bessone, Previdenza complementare, cit., spec. p. 143 ss.; Mastrangeli, La disciplina
dei fondi pensione nei decreti legislativi n. 124 e n.
585 del 1993, in Riv. it. dir. lav., 1994, I, p. 170 ss.;
contra, Ponzanelli, Forma giuridica e controlli in tema di fondi pensione, in Riv. giur. lav., 1993, I, pp.
493-494.
( 14 ) Cfr., sul tema, Ponzanelli, Forma giuridica e
controlli in tema di fondi pensione: la soluzione americana e il diritto italiano, cit., p. 483 ss.
613
alle ragioni per cui un fondo pensione non possa essere strutturato nella forma, oggi vietata,
della società di capitali. Ed invero non si può fare a meno di mettere in evidenza che il fondo
pensione, ancorché privo di carattere lucrativo
e pur connotato dalla sua precipua finalità di
solidarietà mutualistica, tende nondimeno alla
massimizzazione dei rendimenti come momento
intermedio assolutamente necessario alla realizzazione dello scopo finale.
Per tale ragione, colgono nel segno le osservazioni di chi ha sottoposto a serrata critica il « regime di vincolo fortemente costrittivo » ( 15 )
prescelto già dal legislatore del 1993 (ed oggi
confermato), che rimane, pur con non trascurabili elementi di specialità, all’interno della cornice generale tracciata dal libro I del codice civile. Tale modulo organizzativo viene generalmente correlato, come detto, alla natura nonprofit dei fondi pensione, che appunto postulerebbe l’opzione per le strutture previste dallo
stesso libro I, in luogo di quelle previste dal libro V per le attività lucrative ( 16 ).
Non pare tuttavia che sia stato dimostrato né
sufficientemente chiarito per quale motivo dovrebbe sussistere un nesso giusnaturalistico tra
struttura soggettiva e scopo perseguito. Tale correlazione, a ben vedere, non è affatto necessitata. Non sussistono infatti ragioni, in rerum natura, per le quali un soggetto che non persegue
scopo di lucro non possa avvalersi degli stessi
strumenti organizzativi e gestionali delle società
lucrative; tanto più quando esso, come è il caso
dei fondi pensione, mira comunque ad un
obiettivo intermedio (l’incremento di valore
della massa monetaria) che è tipicamente profitoriented e che è coessenziale al soddisfacimento
dello scopo finale.
Per quale ragione una data forma giuridica
(cioè la struttura) dovrebbe necessariamente
corrispondere ad oggetto e finalità (cioè alla
( 15 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
143.
( 16 ) Sulla ravvisata coerenza della struttura di tali
figure soggettive con le finalità previdenziali, cfr.
Ponzanelli, Forma giuridica e controlli in tema di
fondi pensione: la soluzione americana e il diritto italiano, cit., p. 492 ss.; Tursi, L’organizzazione dei fondi pensione in forma associativa: profili problematici,
in Riv. giur. lav., 1998, I, p. 468.
614
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
funzione) dell’iniziativa negoziale di carattere
associativo ?
In fin dei conti, de iure condendo, nulla impedirebbe che gli obblighi contenutistici legalmente imposti agli statuti ed ai regolamenti dei
fondi – per quanto concerne, ad esempio, la trasparenza nei rapporti tra fondo ed aderenti, anche in ordine ai costi ed alle spese posti a carico
degli iscritti, ovvero per quel che riguarda la
sorveglianza sul funzionamento organizzativo e
sull’amministrazione del fondo – siano applicati, in ipotesi, ad una società di capitali di diritto
speciale, se è vero che oramai anche la dottrina
giuscommercialistica tende a sottolineare l’articolazione e la pluralità di modelli societari rinvenibili anche al di fuori del codice.
3. – La disciplina posta dall’art. 4 del decreto
introduce dunque un vincolo conformativo inderogabile ( 17 ) all’organizzazione ed alla strutturazione soggettiva dei fondi pensione, imponendo l’adozione di determinate forme giuridiche.
Invero, già prima dell’entrata in vigore del
d.lgs. n. 124/93, le articolate forme di previdenza integrativa emergenti dalla prassi, e generalmente riconducibili allo schema dell’art. 2117
c.c., avevano posto agli interpreti il problema
della loro natura giuridica, con particolare riferimento alla loro configurazione soggettiva. Per
nulla peregrina, sul punto, appariva la tesi volta
a sostenere che anche lo schema descritto dall’art. 2117 c.c. potesse essere riportato al modello dell’associazione non riconosciuta di cui agli
artt. 36 ss. c.c. ( 18 ), piuttosto che alla mera costituzione di un patrimonio separato con vincolo
di destinazione. Di conseguenza, ad accogliere
quell’impostazione, si sarebbe potuto ritenere
che sul datore di lavoro gravasse soltanto l’obbligo di amministrare il fondo, non avendo invece egli la titolarità del medesimo ( 19 ).
Il d.lgs. n. 124/93 e, oggi, il d.lgs. n. 252/05
sembrano tuttavia avere chiaramente optato nel
senso di ritenere che i cd. fondi interni ( 20 ), co( 17 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 44.
( 18 ) Romagnoli, Natura giuridica dei fondi pensione (art. 2117 c.c.), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960,
p. 858 ss.
( 19 ) Romagnoli, op. ult. cit., spec. p. 864.
( 20 ) La stessa nozione di fondo interno è stata invero criticata, poiché equivoca, da Persiani, « Fondi
stituiti secondo il modello di cui all’art. 2117
c.c., abbiano natura di patrimonio di destinazione e siano privi di soggettività giuridica, come del resto è oramai riconosciuto in dottrina ( 21 ). Non si sarà forse in presenza delle famose tre parole del legislatore che cancellano
un’intera elaborazione, ma è chiaro che le norme vigenti sembrano perlomeno presupporre,
se non proprio affermare, che il fondo costituito
ai sensi dell’art. 2117 sia privo di soggettività
giuridica e vada invece ricollegato al fenomeno
della mera segregazione patrimoniale all’interno
dello stesso soggetto. O, più esattamente, dovrebbe dirsi che la costituzione di un fondo
« nell’ambito della singola società o del singolo
ente attraverso la formazione [...] di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo,
nell’ambito della medesima società od ente » ( 22 ), proprio perché avviene « con gli effetti
di cui all’articolo 2117 del c.c. » ( 23 ), presuppone che anche la fattispecie delineata dalla norma
del codice produca, appunto, effetti di mera segregazione patrimoniale. Con la conseguenza,
oggi unanimemente condivisa, che convivono,
nell’ordinamento, fondi soggettivizzati e fondi
non soggettivizzati: i primi costituiti ai sensi dell’art. 4, comma 1o, ed i secondi operanti, ai sensi
dell’art. 4, comma 2o, all’interno di società di
capitali dedite all’intermediazione finanziaria.
4. – La costituzione di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, è prevista dalla
legge quale strumentazione riservata ai soli
« fondi pensione istituiti ai sensi dell’articolo 3,
comma 1o, lett. g), h) e i) »; quindi, con limitato
riferimento ai fondi aperti, alle forme pensionistiche individuali ed a quelle istituite ad iniziativa degli enti previdenziali privatizzati ( 24 ).
interni » e libertà di iniziativa economica privata, in
Arg. dir. lav., 1997, p. 129.
( 21 ) Cfr., per tutti, Mantucci, sub art. 4, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura
di Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 190, ed ivi ulteriori riferimenti.
( 22 ) Così, testualmente, l’art. 4 in commento.
( 23 ) Così, ancora, la norma in esame.
( 24 ) Con specifico riferimento alle modalità tecniche di costituzione dei fondi da parte degli enti di cui
ai dd.lgs. n. 509/94 e n. 103/96, cfr. le considerazioni
di Scimia, Previdenza complementare dei liberi professionisti, ne La previdenza forense, 2004, p. 355 ss.,
La nuova disciplina della previdenza complementare
In tali ipotesi, il fondo pensione non acquista
perciò distinta soggettività e non è, dunque,
centro di autonoma imputazione di rapporti
giuridici. Semplicemente, si produrranno gli effetti di cui all’art. 2117 c.c., consistenti nella indistraibilità del patrimonio dal fine previdenziale e nella non assoggettabilità del medesimo ad
esecuzione da parte « dei creditori dell’imprenditore o del prestatore di lavoro ».
Come è stato rilevato in dottrina ( 25 ), la disciplina contenuta nell’art. 2117 c.c. trovava il proprio antecedente in una disposizione della cd.
legge sull’impiego privato del 1924 ( 26 ), che già
stabiliva un vincolo di destinazione in capo al
patrimonio delle istituzioni di previdenza, a favore dei dipendenti delle aziende private. La finalità essenziale di tale modello consiste nell’accordare speciale tutela ai lavoratori che debbono percepire le prestazioni erogate dal fondo e
che, eventualmente, abbiano contribuito ad alimentarlo.
Qui occorre però precisare che nel caso dei
fondi costituiti ai sensi dell’art. 4, comma 2o, del
d.lgs. n. 252/05 non si è in presenza di un patrimonio soggettivamente riconducibile ad un
« datore di lavoro », bensì ad un gestore professionale, la cui iniziativa ha determinato la costituzione di un fondo aperto ovvero di un fascio
di contratti di assicurazione sulla vita; il che
spiega anche perché il legislatore, lungi dall’identificare la costituzione di tali fondi con la
fattispecie codicistica dei « fondi speciali per la
previdenza e l’assistenza » di cui all’art. 2117
c.c., abbia soltanto richiamato « gli effetti » indicati da tale ultima disposizione ( 27 ). Si vuole
nonché quelle, pur svolte a margine del disegno di
legge delega, che sarebbe poi stato emendato, di
Corbello, La previdenza complementare e gli enti di
base privati: prime considerazioni in ordine alle problematiche scaturenti dall’art. 1, secondo comma, lett. g),
n. 1), del d.d.l. n. 2058 (atti Senato), in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, p. 357 ss.
( 25 ) Cfr., tra gli altri, Cinelli, sub art. 1, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, cit.,
pp. 173-174; Romagnoli, Natura giuridica dei fondi
pensione, cit., p. 859.
( 26 ) Cfr. l’art. 19 del r.d.l. 13 novembre 1924, n.
1825, il quale a sua volta trovava radice nell’art. 15
del d.lgs. 9 febbraio 1919, n. 112.
( 27 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale)
615
dire, cioè, che vi è una distinzione ontologica
tra la fattispecie considerata dall’art. 2117 c.c. e
quelle descritte dall’art. 4 del d.lgs. n. 252/05,
accomunate alla prima solo in ragione dell’applicazione della medesima disciplina in punto di
separazione patrimoniale.
Ed in effetti la costituzione di un patrimonio
di destinazione è addirittura ritenuto strumento
esclusivo per dare vita ai fondi aperti ed ai piani
pensionistici individuali ( 28 ); in tali ipotesi, del
resto, mancando una base negoziale ovvero una
comunità di lavoro di riferimento, da cui promani l’iniziativa previdenziale, risulterebbe oltremodo arduo immaginare la costituzione di
un soggetto di carattere associativo, dal momen-
commento del d.lgs. n. 252/05, in Prev. ass. pubbl.
priv., 2006, I, p. 165.
( 28 ) Cfr., in tal senso, le direttive generali adottate
dalla COVIP in data 28 giugno 2006. Il dettato normativo, nel suo tenore letterale, pone in realtà una
questione interpretativa dalla soluzione non scontata.
L’art. 4, comma 2o, prevede testualmente che « i fondi pensione istituiti ai sensi dell’articolo 3, comma 1o,
lett. g), h) e i), possono essere costituiti altresì [...] attraverso la formazione, con apposita deliberazione, di
un patrimonio di destinazione ». L’uso dell’avverbio
« altresì » lascerebbe perciò intendere che il ricorso
alla forma giuridica in esame non sia esclusivo o necessitato, bensì costituisca opportunità aggiuntiva rispetto ai moduli organizzativi soggettivizzati già descritti dall’art. 4, comma 1o. Appare tuttavia arduo
immaginare, ad esempio, la costituzione di un’associazione (tra chi?) allorché manchi, come in effetti
manca per fondi aperti e piani pensionistici individuali, una comunità di riferimento. Oltretutto l’art.
13, comma 3o, appare perentorio nella parte in cui afferma che le « risorse delle forme pensionistiche individuali costituiscono patrimonio autonomo e separato
con gli effetti di cui all’articolo 4, comma 2 ». Alla luce di quanto si è appena osservato, sembra di poter
concludere che l’inciso « altresì » – il quale non può
comunque essere totalmente deprivato di significato
– possa essere riferito solamente ai fondi pensione
istituiti ad iniziativa delle cd. casse privatizzate, pure
menzionati nell’art. 4, comma 2o, e sui quali si tornerà infra, nel testo. Sul piano pratico-operativo, più
che per i fondi aperti, la costituzione di un patrimonio separato costituisce impegno imposto ex novo dal
legislatore del 2005 ai gestori di piani individuali
pensionistici, i quali altresì dovranno adottare un regolamento conforme alle direttive dell’autorità di vigilanza e trasmettere alla stessa COVIP le condizioni
generali dei contratti di assicurazione sulla vita (cfr.,
ancora, l’art. 13, comma 3o).
616
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
to che tale matrice difetta in radice (stante l’iniziativa dei gestori e non, appunto, degli « associati ») ( 29 ).
Ciò detto, tutto filerebbe e manterrebbe piena coerenza, però, se solo il legislatore del 2005
avesse circoscritto l’adozione di un patrimonio
separato, come forma giuridica del fondo pensione, ai due casi appena citati. Ed invece anche
gli enti previdenziali di diritto privato rientrano
ora nel novero dei soggetti che possono costituire un fondo pensione nella mera forma del patrimonio di destinazione; e ciò pure nell’ipotesi
in cui tale iniziativa pensionistica tragga origine
da un atto negoziale plurilaterale degli iscritti ( 30 ).
Ciò dunque attenua o, se non altro, rende meno evidente e meno coerente sul piano sistematico la scelta legislativa di confinare la costituzione di fondi pensione non soggettivizzati ad
un ruolo sostanzialmente residuale, nel solco di
un percorso iniziato già con la l. n. 335/95 ( 31 ).
Tale sostanziale residualità dovrebbe essere
del resto letta anche in connessione con il contenuto, minimale, della tutela riveniente dal fenomeno giuridico della segregazione patrimoniale, il quale comporta, nell’impianto dell’art.
2117 c.c., la non aggredibilità del patrimonio
separato da parte dei creditori del datore di lavoro; cosicché esso finisce per arricchire, a favore dei lavoratori, la garanzia patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c.
( 29 ) Si tratta solo di aggiungere che la previsione
dell’art. 4, comma 2o, in commento – il quale diverge
dal tenore del previgente art. 4, comma 2o, del d.lgs.
n. 124/93 – consente di superare tutti i dubbi (avanzati nel vigore della precedente disciplina: cfr., sul
punto, Zampini, La previdenza complementare, cit.,
p. 158) circa la possibilità per i fondi aperti di continuare a ricorrere a tale forma giuridica, anche dopo
l’entrata in vigore dell’art. 5 della l. n. 335/95.
( 30 ) Lo rileva anche Pandolfo, Prime osservazioni
sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit.,
p. 172, il quale mette giustamente in evidenza che in
tal caso il legislatore avalla la costituzione di fondi
non soggettivizzati, anche se a monte vi è un accordo
tra lavoratori.
( 31 ) Cfr. l’art. 5 della l. n. 335/95, in forza del quale l’autorizzazione all’esercizio dell’attività, per i fondi chiusi, poteva essere rilasciata solo ai fondi soggettivizzati, residuando dunque la forma del patrimonio
di destinazione per i soli fondi aperti e per quelli
preesistenti.
Ma che tale tutela risulti, come detto, minimale nel caso dei fondi pensione costituiti in
forma di patrimonio separato, è reso evidente
proprio in ragione del fatto che tale forma può
essere adottata unicamente nelle ipotesi summenzionate di fondi che non vedono coinvolto
il datore di lavoro. Con la conseguenza che la
garanzia patrimoniale di cui possono giovarsi i
lavoratori aderenti rimane ristretta al solo patrimonio di destinazione e non si estende, invece,
all’intero patrimonio dei soggetti che erogano il
servizio di gestione del fondo ( 32 ).
Pertanto, il rinvio operato dall’art. 4, comma 2o,
agli « effetti » descritti dall’art. 2117 c.c. risulta alquanto attenuato per ciò che concerne il rafforzamento (qui assente) della garanzia patrimoniale generica e si riduce, in definitiva, al solo profilo della indistraibilità del patrimonio separato dal fine
previdenziale in vista del quale esso è stato costituito. Sennonché, come è noto e come è stato del
resto ampiamente ricordato anche con specifico
riferimento al caso dei fondi pensione ( 33 ), l’indistraibilità in parola è in grado di produrre unicamente effetti obbligatori e non reali, nel senso che
essa non impedisce al titolare del fondo di porre
in essere validi negozi dispositivi di quel patrimonio, salva ovviamente la sua responsabilità. Con
tutto ciò che ordinariamente vi consegue in caso
di insolvenza.
Per converso, vi è tuttavia da rilevare che il
d.lgs. n. 252/02 (al pari del suo antesignano del
1993) non si limita a richiamare gli effetti giuridici regolati dall’art. 2117 c.c., ma correda il
fondo pensione di ulteriori ed importanti profili
di disciplina ( 34 ), che trovano oggi sede nell’art.
4, comma 3o, e che sono da quest’ultimo rimessi
alla normativa secondaria. Lo si evince, in particolare, dalla previsione di un atto formale di
« destinazione del patrimonio, con particolare
( 32 ) Così anche Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p.
167.
( 33 ) Mantucci, sub art. 4, in Disciplina delle forme
pensionistiche complementari, cit., p. 190, il quale rileva anche l’assenza di una disciplina che dia evidenza al vincolo, attraverso la trascrizione, come previsto
invece per il fondo patrimoniale ex art. 2647 c.c.; nello stesso senso, Tursi, La configurazione soggettiva
delle forme pensionistiche, cit., p. 274.
( 34 ) Cfr. già Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 156.
La nuova disciplina della previdenza complementare
riferimento ai profili della trasparenza nei rapporti con gli iscritti ed ai poteri degli organi collegiali » ( 35 ) e dalla necessaria sottoscrizione di
un « protocollo di autonomia gestionale » ( 36 ),
senza poi trascurare la configurazione di un organismo di sorveglianza per i fondi aperti ai
sensi dell’art. 5, comma 4o.
Si tratta, nei termini appena descritti, di profili che si rivelano, in certi casi, particolarmente
delicati e di concreto e significativo impatto sul
funzionamento dei fondi medesimi ( 37 ).
5. – La costituzione di un distinto soggetto
giuridico rende invece superfluo, ovviamente,
ogni richiamo agli effetti disciplinati dall’art.
2117 c.c., dal momento che tale disposizione è
appunto volta a determinare un effetto di separazione patrimoniale altrimenti non ravvisabile
all’interno della sfera di un medesimo soggetto.
Pertanto, quando il fondo assurga al rango di
soggetto di diritto, ciò – unitamente all’obbligo
di perseguire uno scopo previdenziale « esclusi-
( 35 ) Art. 4, comma 3o, lett. a).
( 36 ) Art. 4, comma 3o, lett. c). A tale proposito deve rilevarsi che il contenuto del protocollo in questione comporta, ai sensi dell’art. 12, comma 3o, del d.m.
14 gennaio 1997, n. 211, che il datore di lavoro si impegni ad astenersi « da qualsiasi comportamento che
possa essere di ostacolo ad una gestione indipendente, sana e prudente del fondo pensione o che possa
indurre il fondo medesimo ad una condotta non coerente con i princìpi di cui al d.lgs. n. 124/93 ». Siffatta previsione ha attirato la critica di autorevole dottrina (Persiani, « Fondi interni » e libertà di iniziativa
economica privata, in Arg. dir. lav., 1997, p. 127 ss.),
secondo cui detto regolamento avrebbe in tal modo
travalicato i limiti del potere normativo ad esso delegato dal legislatore.
( 37 ) Al momento di licenziare le bozze del presente commentario, il d.lgs. n. 28/07, adottato in attuazione della direttiva comunitaria 2003/41/CE, ha novellato il d.lgs. n. 252/05. Tra l’altro, si disciplina il
fenomeno dell’attività transfrontaliera dei fondi pensione, precisandosi che la COVIP può autorizzare
l’operatività all’estero delle forme pensionistiche
complementari italiane soltanto qualora si tratti di
fondi soggettivizzati operanti a capitalizzazione (così
il novello art. 15 bis, comma 1o); il che, nell’introdurre dunque un’ulteriore limitazione all’ambito di operatività dei fondi non soggettivizzati, sembra rispondere ad una chiara ratio di minimizzazione del rischio
finanziario e di massimizzazione della garanzia di solvibilità del fondo medesimo.
617
vo » ( 38 ) – neutralizza in radice il problema della confusione patrimoniale.
La costituzione del fondo in forma di associazione non riconosciuta è consentita, alla luce
del combinato disposto dei commi 1o e 5o dell’art. 4 in commento, per quei fondi che non abbiano natura categoriale (che non siano cioè costituiti « nell’ambito di categorie, comparti o
raggruppamenti »), essendo invece imposta a
questi ultimi la forma della persona giuridica.
L’esperienza maturata nel vigore del d.lgs. n.
124/93 indica peraltro come i fondi chiusi siano
stati sempre costituiti, come meglio si dirà, in
forma di associazione riconosciuta; il che si è
verificato anche nel caso dei fondi a carattere
meramente aziendale, che pure non ne avevano
l’obbligo ( 39 ).
Le associazioni non riconosciute, come noto,
godono di un’autonomia patrimoniale imperfetta, secondo la disciplina dettata dagli artt. 36 ss.
c.c., che qui non è ovviamente il caso di ripercorrere. La sua scontata natura di soggetto di
diritto rende invero pleonastica l’espressa indicazione – contenuta nell’art. 4, comma 1o, lett.
a) del decreto delegato – per mezzo della quale
il legislatore si preoccupa di ribadire che si tratta di soggetti giuridici « distinti dai soggetti promotori dell’iniziativa ». Trattasi, all’evidenza di
un inciso sovrabbondante, anche prescindendo,
per quanto ci interessa, dall’esaminare la nota
costruzione dottrinale secondo cui alle associazioni non riconosciute potrebbero applicarsi
tutte quelle norme dettate dal codice per le associazioni riconosciute ( 40 ), quando esse non
( 38 ) Così l’art. 3, lett. d), del d.m. 14 gennaio 1997,
n. 211; sul punto, cfr. Tursi, L’organizzazione dei
fondi pensione in forma associativa: profili problematici, cit., p. 464.
( 39 ) L’autorità di vigilanza ha del resto sempre
esplicitato il proprio favor verso tale modulo organizzativo, esercitando una sostanziale moral suasion nei
confronti degli interessati, affinché dessero comunque vita a persone giuridiche, anche là dove ciò non
fosse legalmente imposto.
( 40 ) Galgano, Delle associazioni non riconosciute
e dei comitati, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, II ed., 1976, spec. pp. 47-48 e pp. 184185. Si tratta del resto di una questione con cui i giuslavoristi hanno una certa dimestichezza, essendosene occupati allo scopo di individuare lo statuto giuridico e la disciplina delle associazioni sindacali, essendosi chiesti ad es. se il provvedimento disciplinare di
618
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
presuppongano necessariamente l’attribuzione
della personalità giuridica.
Vero è, comunque, come si è già detto, che
anche ove si ritenesse che alle associazioni non
riconosciute siano applicabili talune norme contenute negli artt. 14-35 c.c., tale disciplina sarebbe in ogni caso inadeguata a regolare fenomeni di particolare complessità quale quello qui
considerato ( 41 ). Ed infatti la legislazione speciale qui esaminata è costretta a derogarvi sotto
vari profili.
Si pensi, in particolare, alle regole inerenti gli organi interni delle associazioni riconosciute, con
particolare riferimento al tema della responsabilità degli amministratori (artt. 18 e 22 c.c.), a quelle relative al recesso degli associati (art. 24 c.c.),
nonché alla disciplina della liquidazione (art. 30 ss.
c.c.). Allo stesso modo, per restare entro i confini
della sola disciplina delle associazioni non riconosciute, si pensi al disposto dell’art. 38 c.c. – là dove viene prevista, in favore dei « terzi », una responsabilità solidale del fondo comune e delle persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione – che costringe l’interprete ad affrontare qualche fatica per poter concludere che di tale garanzia rafforzata possano godere anche gli
associati ( 42 ).
Così, altro non si può fare se non rifugiarsi
nella sottolineatura della specialità della legislazione in materia di fondi pensione, con tutto il
suo carattere conformativo, rispetto alla disciplina generale contenuta nel libro I del codice,
onde supplire alle carenze obiettive di quest’ultima ( 43 ).
esclusione dell’associato dal sindacato possa essere
sottoposto a controllo giudiziale ai sensi dell’art. 24,
comma 3o, c.c.
( 41 ) Cfr. Bessone, Fondi pensione « chiusi ». Le regole di organizzazione e le attività degli amministratori, in Arg. dir. lav., 2001, p. 747.
( 42 ) Ci si è infatti a lungo chiesti se gli associati
possano essere considerati « terzi » rispetto all’associazione: la condivisibile risposta affermativa deve
passare per la preliminare sottolineatura (di cui si è
detto e che è ribadita enfaticamente dall’art. 4, comma 1o) della distinta soggettività di associati ed associazione. Sul punto, cfr. Mantucci, sub art. 4, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, cit.,
p. 188.
( 43 ) Cfr. ad es. le osservazioni di Pandolfo, La
nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35, inserto, p. XII, che
6. – La forma « soggetto dotato di personalità
giuridica » ricomprende sia le associazioni riconosciute sia le fondazioni. Queste ultime, tuttavia, non rappresentano un modello strutturale
concretamente adottato nella prassi del sistema
di previdenza complementare ( 44 ), soprattutto
per il loro intrinseco limite rappresentato dall’assenza di un organo assembleare; il che discenderebbe dalla prevalenza assegnata, in quel
modello organizzativo, al profilo patrimoniale
rispetto a quello personale ( 45 ).
L’acquisizione della personalità giuridica è
necessitata, come detto, per i fondi costituiti
« nell’ambito di categorie, comparti o raggruppamenti » del lavoro subordinato od autonomo.
Comparando il tenore letterale dell’art. 4,
comma 1o, del d.lgs. n. 124/93 con quello dell’art. 4, comma 1o, del d.lgs. n. 252/05, ci si
avvede che è stato espunto il riferimento all’art. 12 c.c. Ciò è ovviamente dovuto al fatto
che la norma del codice è stata nel frattempo abrogata, anche se per verità già nel vigore della precedente disciplina era ormai
chiaro che il legislatore vi rinviasse più che altro per ragioni di stile ( 46 ), essendosi affermata la tendenza a ritenere che le persone giuridiche di cui al d.lgs. n. 124/93 fossero caratterizzate da spiccata specialità ( 47 ) rispetto alla
giustamente afferma la prevalenza delle regole contenute nell’art. 5 del d.lgs. n. 124/93 a proposito della
composizione degli organi sociali (ma, allo stesso modo, ciò vale per la disciplina attuale) rispetto al principio di cui all’art. 36 c.c., che affida tale aspetto all’accordo degli associati.
( 44 ) Rileva Bessone, Fondi pensione « chiusi ». Le
regole di organizzazione e le attività degli amministratori, cit., p. 746, che « si tratta di una alternativa di
modello che ormai sembra interessare esclusivamente
gli studiosi di teoria generale », proprio a cagione del
suo inutilizzo nell’esperienza della previdenza complementare.
( 45 ) Cfr. Zampini, La previdenza complementare,
cit., p. 160.
( 46 ) Sandulli, Le fonti costitutive di fronte alle sfide della concorrenza, ne La previdenza complementare
e la concorrenza tra i fondi pensione, Atti del convegno del Fondo pensioni del personale della BNL (3
maggio 2005), in Quaderni Mefop, 2005, p. 33.
( 47 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p.
169, ritiene che gli artt. 24, comma 4o, e 37 c.c. siano
incompatibili con gli istituti del trasferimento e del
riscatto previsti nella disciplina legale della previden-
La nuova disciplina della previdenza complementare
cornice generale allora fornita dall’art. 12
c.c. ( 48 ).
7. – Il riconoscimento della personalità giuridica viene assoggettato dal legislatore del 2005
ad una disciplina semplificata, ai sensi dell’art.
4, comma 1o, lett. b), attribuendosi alla COVIP
il compito di provvedervi, curando altresì la tenuta del relativo registro, in deroga alle generali
previsioni del d.p.r. n. 361/00.
In capo alla COVIP sono dunque accorpate le competenze – all’esito di un procedimento unitario – relative al riconoscimento della personalità giuridica ed al rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività ( 49 ). Scompare l’intervento del Ministro del lavoro per
ciò che attiene il riconoscimento della personalità giuridica; ed anche per ciò che concerne i
fondi già operanti la COVIP provvederà ad
acquisire i registri prefettizi delle persone giuridiche.
Esce pertanto confermato il principio fondamentale secondo cui l’esercizio dell’attività dei
fondi pensione è consentito soltanto previa autorizzazione dell’autorità di vigilanza ( 50 ), non-
za complementare; contra Tursi, La configurazione
soggettiva delle forme pensionistiche, cit., p. 278, il
quale mette in evidenza che in tali ipotesi non si è di
fronte ad un recesso dal rapporto associativo, bensì
ad un fatto obiettivo quale la cessazione dei requisiti
di appartenenza al fondo (senza che dunque sia ravvisabile contraddizione con i principi affermati nelle
citate norme del codice).
( 48 ) Esplicita è ad es. la deroga introdotta dall’art.
20, comma 9o, del d.lgs. n. 252/05 nei confronti degli
artt. 20 e 21 c.c., prevedendosi la possibilità di adottare deliberazioni assembleari anche con il metodo
referendario.
( 49 ) Ai sensi dell’art. 4, comma 1o, il riconoscimento della personalità giuridica ora « consegue » al (e
dunque, si può ritenere, è automatica conseguenza
del) provvedimento di autorizzazione all’esercizio
dell’attività adottato dalla COVIP. Ciò consente di
superare i problemi relativi alla (incerta e discussa)
sussistenza di un rapporto di pregiudizialità tra attribuzione della personalità giuridica e autorizzazione
all’esercizio dell’attività: sul punto, cfr. Tursi, La
configurazione soggettiva delle forme pensionistiche,
cit., p. 266.
( 50 ) Il principio è ribadito anche dal d.lgs. n.
28/07, di cui si è già detto alla nt. 37, il cui art. 15 bis
subordina l’esercizio dell’attività all’estero ad una
specifica autorizzazione della COVIP, secondo pro-
619
ché, come già detto ampiamente, previa attribuzione di personalità giuridica privatistica nel caso di fondi negoziali categoriali ( 51 ). E tale principio continua a rimanere presidiato dalla previsione della rilevanza penale dell’esercizio abusivo dell’attività ( 52 ).
L’art. 4, comma 3o, del d.lgs. n. 252/05, allo
scopo di snellire lo svolgimento di una procedura la cui complessità è invero determinata anche, se non soprattutto, dalle norme introdotte
dalle fonti secondarie, riduce l’estensione dei
termini che nell’impianto del d.lgs. n. 124/93
regolavano l’iter della procedura autorizzativa ( 53 ).
L’importante devoluzione di potestà regolamentare in capo alla COVIP, per l’appunto in
cedure che la stessa autorità di vigilanza dovrà determinare. Al contempo, l’esercizio in Italia dell’attività
da parte di un fondo pensione comunitario è assoggettato, secondo l’art. 15 ter, alle disposizioni in materia di trasparenza emanate dalla COVIP per i fondi
di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 252/05.
( 51 ) V. però l’inciso ora presente nell’art. 4, comma 3o, secondo cui l’autorizzazione è necessaria per i
« fondi pensione di cui all’articolo 3, comma 1o, lett.
da a) ad h) » (con esclusione, quindi, delle forme
pensionistiche complementari individuali). Tale puntualizzazione è la naturale conseguenza dell’aver voluto includere i piani pensionistici individuali, con
una scelta di discutibile portata sistematica, all’interno del catalogo delle fonti istitutive.
( 52 ) Cfr. il delitto previsto e punito dall’art. 19
bis, del decreto delegato. La fattispecie incriminatrice, in realtà, desta qualche perplessità sotto il profilo della tecnica normativa adottata, se non sotto
quello del rispetto del principio di tassatività, se è
vero che essa configura il fatto tipico di esercizio
dell’attività « senza le prescritte autorizzazioni o approvazioni », mentre il previgente art. 18 bis del d.lgs. n. 124/93 faceva più puntualmente riferimento
al difetto di « autorizzazione del Ministro del lavoro ». Anche in questo caso la formulazione del 2005
risponde evidentemente allo scopo di abbracciare le
« approvazioni » di cui all’art. 13, comma 3o, relative al regolamento delle forme pensionistiche individuali e costituisce perciò ulteriore ricaduta della discutibile scelta sistematica trasfusa nel testo dell’art.
3.
( 53 ) Viene infatti ridotto da novanta a sessanta
giorni il termine assegnato alla COVIP per concedere
ovvero negare l’autorizzazione richiesta. Tale termine
è stato parimenti ridotto (da sessanta a trenta giorni)
nel caso di successiva richiesta di integrazione della
documentazione.
620
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
ordine alla disciplina della presentazione delle
istanze di autorizzazione, viene poi ribadita dallo stesso art. 4, comma 3o, confermandosi così
quel ruolo di « fonte » (in senso atecnico) di regole, che la COVIP ha sempre rivestito nel sistema italiano della previdenza complementare
e che è del resto comune ad altre authorities
previste dal nostro ordinamento giuridico.
Non privo di rilievo è anche il ruolo rivestito
dalla stessa autorità di vigilanza in ordine alla
disciplina delle ipotesi di decadenza dall’autorizzazione, per il caso in cui il fondo non inizi
ad operare ovvero non raccolga il livello minimo di adesioni previsto dallo statuto ( 54 ).
Tale potere « normativo », non disgiunto dall’intensa attività lato sensu di indirizzo che la Com( 54 ) Regole, queste, che evidenziano una « ulteriore segmentazione procedurale » (così Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, cit.,
p. 267) nella sequenza di atti che va dall’istituzione
delle forme pensionistiche complementari al concreto operare dei fondi pensione.
missione esercita anche mediante risposta a specifici quesiti ad essa sottoposti ( 55 ), si coniuga con
quello delegato al Ministro ai sensi dello stesso art.
4, comma 3o, in relazione a profili, di cui già si è
detto ( 56 ), quali « i requisiti di costituzione » dei
fondi, con speciale attenzione alla trasparenza nei
rapporti con gli iscritti ed ai poteri degli organi collegiali ( 57 ), ai « requisiti per l’esercizio dell’attività, con particolare riferimento all’onorabilità e professionalità dei componenti degli organi collegiali » ( 58 ), ai « contenuti e modalità del protocollo di
autonomia gestionale » ( 59 ).
Andrea Bollani
( 55 ) Cfr. l’interessante raccolta di documenti accessibile nel sito www.covip.it alla sezione « quesiti ».
( 56 ) Cfr. supra, par. 4.
( 57 ) Art. 4, comma 3o, lett. a).
( 58 ) Art. 4, comma 3o, lett. b), che rinvia ai criteri dettati dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al d.lgs. n. 58/98.
( 59 ) Art. 4, comma 3o, lett. c).
Art. 5.
(Partecipazione negli organi di amministrazione e di controllo e responsabilità)
1. La composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle forme pensionistiche
complementari, escluse quelle di cui agli articoli 12 e 13, deve rispettare il criterio della partecipazione paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Per quelle caratterizzate da contribuzione unilaterale a carico dei lavoratori, la composizione degli organi collegiali
risponde al criterio rappresentativo di partecipazione delle categorie e raggruppamenti interessati. I componenti dei primi organi collegiali sono nominati in sede di atto costitutivo.
Per la successiva individuazione dei rappresentanti dei lavoratori è previsto il metodo elettivo secondo modalità e criteri definiti dalle fonti costitutive.
2. Il consiglio di amministrazione di ciascuna forma pensionistica complementare nomina il
responsabile della forma stessa in possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità e per il
quale non sussistano le cause di incompatibilità e di decadenza così come previsto dal decreto
di cui all’articolo 4, comma 3, lettera b). Il responsabile della forma pensionistica svolge la propria attività in modo autonomo e indipendente, riportando direttamente all’organo amministrativo della forma pensionistica complementare relativamente ai risultati dell’attività svolta.
Per le forme pensionistiche di cui all’articolo 3, comma 1, lettere a), b), e) ed f), l’incarico di
responsabile della forma pensionistica può essere conferito anche al direttore generale, comunque denominato, ovvero ad uno degli amministratori della forma pensionistica. Per le forme
pensionistiche di cui agli articoli 12 e 13, l’incarico di responsabile della forma pensionistica
non può essere conferito ad uno degli amministratori o a un dipendente della forma stessa ed è
incompatibile con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato, di prestazione d’opera continuativa, presso i soggetti istitutori delle predette forme, ovvero presso le società da queste
controllate o che le controllano.
La nuova disciplina della previdenza complementare
621
3. Il responsabile della forma pensionistica verifica che la gestione della stessa sia svolta nell’esclusivo interesse degli aderenti, nonché nel rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei regolamenti e nei contratti; sulla base delle direttive emanate da COVIP
provvede all’invio di dati e notizie sull’attività complessiva del fondo richieste dalla stessa COVIP. Le medesime informazioni vengono inviate contemporaneamente anche all’organismo di
sorveglianza di cui ai commi 4 e 5. In particolare vigila sul rispetto dei limiti di investimento,
complessivamente e per ciascuna linea in cui si articola il fondo, sulle operazioni in conflitto di
interesse e sulle buone pratiche ai fini di garantire la maggiore tutela degli iscritti.
4. Ferma restando la possibilità per le forme pensionistiche complementari di cui all’articolo
12 di dotarsi di organismi di sorveglianza anche ai sensi di cui al comma 1, le medesime forme
prevedono comunque l’istituzione di un organismo di sorveglianza, composto da almeno due
membri, in possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità, per i quali non sussistano le
cause di incompatibilità e di decadenza previste dal decreto di cui all’articolo 4, comma 3. In
sede di prima applicazione, i predetti membri sono designati dai soggetti istitutori dei fondi
stessi, per un incarico non superiore al biennio. La partecipazione all’organismo di sorveglianza è incompatibile con la carica di amministratore o di componente di altri organi sociali, nonché con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato, di prestazione d’opera continuativa,
presso i soggetti istitutori dei fondi pensione aperti, ovvero presso le società da questi controllate o che li controllano. I componenti dell’organismo di sorveglianza non possono essere proprietari, usufruttuari o titolari di altri diritti, anche indirettamente o per conto terzi, relativamente a partecipazioni azionarie di soggetti istitutori di fondi pensione aperti, ovvero di società
da questi controllate o che li controllano. La sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla presente disposizione deve essere attestata dal candidato mediante apposita dichiarazione sottoscritta L’accertamento del mancato possesso anche di uno solo dei requisiti indicati determina la decadenza dall’ufficio dichiarata ai sensi del comma 9.
5. Successivamente alla fase di prima applicazione, i membri dell’organismo di sorveglianza
sono designati dai soggetti istitutori dei fondi stessi, individuati tra gli amministratori indipendenti iscritti all’albo istituito dalla Consob. Nel caso di adesione collettiva che comporti l’iscrizione di almeno 500 lavoratori appartenenti ad una singola azienda o a un medesimo gruppo,
l’organismo di sorveglianza è integrato da un rappresentante, designato dalla medesima azienda o gruppo e da un rappresentante dei lavoratori.
6. L’organismo di sorveglianza rappresenta gli interessi degli aderenti e verifica che l’amministrazione e la gestione complessiva del fondo avvenga nell’esclusivo interesse degli stessi, anche sulla base delle informazioni ricevute dal responsabile della forma pensionistica. L’organismo riferisce agli organi di amministrazione del fondo e alla COVIP delle eventuali irregolarità riscontrate.
7. Nei confronti dei componenti degli organi di cui al comma 1 e del responsabile della forma
pensionistica si applicano gli articoli 2392, 2393, 2394, 2394-bis, 2395 e 2396 del codice civile.
8. Nei confronti dei componenti degli organi di controllo di cui ai commi 1 e 4, si applica l’articolo 2407 del codice civile.
9. ( 1 ).
10. ( 2 ).
11. ( 3 ).
12. ( 4 ).
(1)
(2)
(3)
(4)
Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
622
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
La governance delle forme pensionistiche complementari
Sommario (art. 5): I) La governance dei fondi pensione:
i principi di pariteticità e rappresentatività. – 1. Le regole di governance della forma giuridica « fondo pensione ». – 2. Gli organi dei fondi pensione ad ambito
definito. – 2.1. Il principio della pariteticità. – 2.2. La
nomina dei componenti degli organi collegiali. – 3.
Altri organi. – II) Il responsabile della forma pensionistica complementare. – 4. Il responsabile della forma previdenziale come organo di tutela degli aderenti. – 5. L’individuzione del responsabile e sua collocazione nel funzionigramma dell’ente o dell’azienda. –
6. La terzietà. – 6.1. Il caso del responsabile delle forme previdenziali senza personalità giuridica. – 7. I
compiti. – III) L’organismo di sorveglianza. – 8. Il
ruolo dell’organismo di sorveglianza. – 9. Composizione. – 10. Requisiti dei partecipanti. – IV) Le responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione e controllo. – 11. Le responsabilità degli amministratori e dei sindaci di un fondo pensione. – 12. Configurazione della responsabilità. – 13. La responsabilità
dell’amministratore nei confronti del fondo pensioni.
– 14. Responsabilità nei confronti dei creditori del fondo. – 15. Responsabilità nei confronti degli associati
(iscritti). – 16. L’azione di responsabilità. – 17. Le responsabilità ex d.lgs. n. 231/01.
1. – L’articolo detta la cornice normativa entro la quale si inquadra l’architettura della governance delle forme previdenziali.
La norma introduce in questo senso elementi
specifici di distinzione rispetto alle fattispecie
giuridiche originarie che configurano le forme
previdenziali (associazione da una parte e patrimonio separato di destinazione dall’altra) facendo di questi istituti forme « terze » rispetto al
quadro normativo civilistico.
In particolare con riferimento al fondo pensione ad ambito definito, è possibile cogliere le
profonde differenze che esistono, in tema di disciplina legislativa, tra l’associazione tout court e
l’associazione – fondo pensione.
Infatti, se è vero che il legislatore ha indicato
la forma associativa come forma « tipica » degli
enti aventi lo scopo di erogare trattamenti di
previdenza complementare, questo riferimento
ha unicamente la valenza di un richiamo generale che deve necessariamente essere integrato
con la normativa speciale vigente in materia.
Questa distinzione risponde alla necessità di
dettare un quadro di riferimento normativo
coerente con la rilevante funzione di interes-
se pubblico svolta dagli enti previdenziali ( 5 ).
Gli strumenti previdenziali nell’attuare i propri fini istituzionali operano all’interno dei mercati finanziari in qualità di investitori istituzionali. Le previsioni sullo sviluppo delle masse
amministrate e il confronto con le esperienze internazionali già avviate, indicano come questi
intermediari siano destinati ad assumere una
posizione di crescente peso sui mercati finanziari. Coerentemente con questa posizione, alle
forme previdenziali devono essere richieste modalità organizzative ed operative in linea con le
best practice adottate dagli altri operatori nel rispetto della regolazione del mercato finanziario.
Allo stesso tempo la finalizzazione previdenziale e il perseguimento di un interesse pubblico
impongono la definizione di un sistema di tutela
che passa anche attraverso la individuazione di
peculiari architetture istituzionali (cfr. il responsabile del fondo pensione). In tal modo
viene rafforzato il sistema di tutela che il legislatore italiano ha scelto di adottare ispirandosi ad
un modello affidato all’efficacia dei controlli incrociati e degli strumenti di governo, piuttosto
che ad un sistema di riassicurazione delle posizioni previdenziali assunte dagli operatori previdenziali.
Inserite in questo più ampio contesto normativo le disposizioni contenute nell’art. 5 debbono pertanto essere necessariamente integrate
con una lettura coordinata delle parti della normativa attuativa emanata a livello ministeriale
oltre che della regolamentazione prodotta dal-
( 5 ) Le forme previdenziali disciplinate dal d.lgs. 5
dicembre 2005, n. 252 devono essere intese come i
soggetti che il legislatore ha inteso qualificare in
quanto titolati ad assumere il compito di realizzare le
forme di « assistenza privata » delineate dall’art. 38
della Costituzione. Per tutti: Cinelli, Diritto della
previdenza sociale, Torino, 2003, p. 65 ss. Ancor di
più le forme complementari hanno determinato
l’evoluzione del « nostro sistema previdenziale come
sistema binario o combinatorio, basato su due forme
tra loro connesse e, appunto, complementari »:
Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, a cura di
Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 9.
La nuova disciplina della previdenza complementare
l’autorità di vigilanza rientranti nel tema della
governance ( 6 ).
Il risultato di questo intreccio normativo è
una disciplina così particolare da legittimare
una interpretazione del fondo pensione una vera e propria figura giuridica terza distinta delle
associazioni o da qualunque altra forma tipizzata dal Codice.
2. – L’adeguamento del corpo applicativo alla
forma giuridica fondo pensione è realizzata sia
attraverso l’estensione dell’applicazione di norme afferenti altre forme (si veda ad esempio a
questo proposito l’applicazione delle previsioni
sull’obbligatorietà del collegio sindacale mutuato dalla disciplina sulle società di capitali), ovvero con specifiche previsioni coerenti con la finalizzazione che il fondo persegue.
Nel caso particolare degli organi statutari, delineati dal primo comma, la loro configurazione
trova, peraltro, ulteriore specificazione sia nelle
disposizioni attuative demandate al Ministro del
lavoro ( 7 ) che nella disciplina emanata dalla
( 6 ) Si vedano, ad esempio, a questo proposito la
deliberazione COVIP che detta le « Linee guida in
materia di organizzazione interna dei fondi pensione
negoziali » (delib. COVIP 4 dicembre 2003) o le sezioni attinenti gli organi dei fondi pensioni contenuti
nello schema di Statuto (delib. COVIP 31 ottobre
2006).
( 7 ) Il d.m. del Ministro del lavoro e della previdenza sociale n. 211 del 14 gennaio 1997 disciplina i
requisiti di onorabilità e di professionalità che devono sussistere in capo agli amministratori e ai sindaci,
nonché le specifiche attribuzioni deliberative riferibili ai componenti in possesso di requisiti di « più elevata » professionalità (ad esempio art. 3, comma 1o,
lett. h) riferito ai quorum deliberativi su materie attinenti gli aspetti della gestione finanziaria delle risorse). Peraltro proprio questa parte del decreto dovrebbe essere novellata sulla base di un testo il cui
iter normativo risulta essere in fase di completamento
al momento dell’estensione del presente scritto. La
novella dovrebbe consentire di superare le incongruenze derivanti dall’applicazione letterale delle disposizioni dettate dal previgente testo del d.lgs. 21
aprile 1993, n. 124 laddove si faceva esplicito riferimento ai requisiti fissati ex l. 2 gennaio 1991, n. 1,
che risultano essere ampiamente superati dalla successiva normativa nazionale e comunitaria.
Al di là dell’adeguamento formale, la nuova formulazione dei requisiti, qualora fosse confermata, consentirebbe una ridefinizione degli stessi sulla base di
623
COVIP. Tali previsioni introducono ulteriori
elementi di indirizzo rispetto alla qualificazione
e alla attribuzione di tali organi e dei loro componenti.
In primo luogo si rileva come la disciplina
preveda nel caso dei fondi ad ambito definito la
contestuale presenza di un organo amministrativo ed di un organo di controllo ( 8 ). Le specificazioni richiamate, come detto, definiscono quest’ultimo come un vero e proprio collegio sindacale.
La norma trova applicazione in modo integrale nei confronti di tutti i fondi ad ambito definito costituiti come forma giuridica autonoma. La
stessa non è pertanto derogata nei confronti dei
cosiddetti fondi previgenti.
È fatta salva l’esclusione delle previsioni contenute nel primo comma per le forme previdenziali interne per le quali gli organi di amministrazioni e di controllo coincidono con quelli
del soggetto istitutore. In ogni caso al fine di allineare per quanto possibile i principi della go-
una qualificazione sostanziale delle capacità professionali richieste all’amministratore dei fondi pensione che devono essere state maturate attraverso incarichi o attività professionali ovvero attraverso una accurata e qualificata attività di formazione erogata da
« Università, anche in collaborazione con enti operanti nel settore della previdenza complementare ».
In luogo del riconoscimento formale dello svolgimento di funzioni direttive all’interno di istituzioni
finanziarie e assicurative la verifica dei requisiti secondo la bozza di decreto proposta si sposterebbe
sulla effettiva esistenza di titoli professionali atti a
configurare una competenza specifica nella gestione
dell’ente previdenziale.
Il nuovo testo peraltro consentirebbe un allineamento dell’individuazione delle professionalità con
quelle richieste agli amministratori di altri operatori
finanziari (art. 1 del d.m. del Ministro dell’economia
n. 468 dell’11 novembre 1998 « Regolamento recante
norme per l’individuazione dei requisiti di professionalità e di onorabilità dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione o controllo presso Sim, società di gestione del risparmio e SICAV »).
( 8 ) « Il decreto fornisce indicazioni anche per
quanto riguarda l’organizzazione interna dei fondi.
Esso non solo, infatti, menziona gli organi di amministrazione e gli organi di controllo dei fondi, così vincolando a prevederli [...] » Pandolfo, La previdenza
complementare, in Diritto del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro pubblico e privato, a cura di F.
Santoro-Passarelli, 1998, p. 1372.
624
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
vernance a tutto il sistema della previdenza
complementare i commi successivi introducono
organi di controllo atti a garantire il rispetto
dell’interesse degli aderenti.
2.1. – Il principio ispiratore delle regole della
rappresentanza dei fondi pensione ad ambito
definito è quello della pariteticità. Esso si esprime nei confronti dei lavoratori aderenti e dei
datori di lavoro che partecipano alla istituzione
e alla contribuzione della forma previdenziale.
L’applicazione di tale principio introduce un
elemento di novità rispetto alla disciplina e alla
prassi operante nei confronti degli organi collegiali i quali prevedono un numero di componenti dispari al fine di realizzare la certezza della capacità deliberativa dell’organo.
La pariteticità trova applicazione nella formazione degli organi di amministrazione e di controllo. Non viene invece direttamente menzionata l’assemblea dei delegati ( 9 ). Il mancato riferimento all’organo assembleare non preclude la
possibilità che la fonte costitutiva disponga diversamente. Non è esclusa pertanto la possibilità di realizzare una forma assembleare unilaterale composta dai soli esponenti dei lavoratori
iscritti, fattispecie perseguita da alcuni fondi
pensione negoziali e come tale autorizzata da
COVIP ( 10 ). Questa soluzione che ha trovato
applicazione in alcuni fondi pensione negoziali
deve in ogni caso essere considerata alla luce
delle problematicità che si pongono ogni qualvolta la decisione assembleare coinvolga l’intero
corpo degli amministratori (ad esempio nel caso
dell’azione di responsabilità).
Resta inteso che nel caso in cui si proceda alla
( 9 ) Lo statuto dei fondi pensione negoziali prevede di norma la presenza di un’assemblea dei delegati
alla stregua di altre organizzazioni ed enti caratterizzati da una vasta base associativa. Con questa strutturazione si realizza una forma di democrazia indiretta
considerata in dottrina pienamente legittima in quanto non opera per le associazioni un vincolo all’adozione di forme di rappresentanza diretta (Commentario Scialoja-Branca, a cura di Galgano, p. 275 ss.).
( 10 ) Più in generale alcuni autori fanno notare come sia sul piano normativo letterale che su quello sostanziale la normativa non preveda espressamente
l’obbligo di pariteticità nella composizione assembleare. Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, in La previdenza complementare, a
cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 283 ss.
formazione di un’assemblea per delegati rappresentativi sia della componente aziendale che
di quella dei lavoratori la stessa debba prevedere una composizione paritetica.
La pariteticità trova applicazione generale nei
confronti dell’organo collegiale ma il principio
si intende applicabile anche nei confronti della
presidenza dello stesso. In questo caso in presenza di una carica individuale, la pariteticità ha
trovato pratica applicazione attraverso la definizione di un principio di rappresentanza incrociata tra le diverse componenti (presidenza del
consiglio di amministrazione e presidenza del
collegio sindacale) e di rotazione delle cariche
nel succedersi dei mandati.
L’applicazione del criterio della pariteticità
deve essere interpretato come uno degli elementi fondativi del modello di governance dei fondi
pensione e come tale non può essere derogato.
Proprio questa peculiarità non rende possibile di fatto la realizzazione di fondi pensione ad
ambito definito a partecipazione mista dei datori di lavoro e dei propri dipendenti attuabile ad
esempio in alcune situazione di « prossimità »
lavorativa dei soggetti come ad esempio avviene
nelle imprese artigiane o negli studi professionali. Al di là di ogni considerazione sulla praticabilità « politica » di questa soluzione la stessa
troverebbe ostacolo proprio nell’applicazione
delle norme che presiedono alla rappresentanza
negli organi statutari.
2.2. – Per quanto attiene le procedure di nomina dei componenti degli organi statutari la
norma prevede una distinzione tra quelle che
operano per la formazione della rappresentanza
dei lavoratori aderenti e quelle applicabili ai datori di lavoro.
Per i primi è stabilito che la rappresentanza
riguarda gli aderenti e non i soggetti che costituiscono le fonti istitutive. La norma già delineata nel d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 introduce
un cambiamento radicale rispetto alla situazione previgente che non fissava alcun vincolo alla
forma di rappresentanza adottata. A tale proposito va sottolineato come in alcuni casi, sebbene
limitati, si fossero configurate previsioni statutarie che lasciavano alle forme istitutive il compito
di nominare i componenti degli organi amministrativi.
Nel caso di specie è definito in modo tassativo
che la modalità di formazione della rappresen-
La nuova disciplina della previdenza complementare
tanza è affidata al metodo elettivo. Questa impostazione comporta una definizione dell’elettorato attivo e di quello passivo.
Per quanto riguarda l’elettorato attivo lo stesso è attribuito alla totalità degli aderenti alla forma previdenziale (soci). L’unica deroga prevista
dalla normativa riguarda il momento della fase
di partenza delle forme previdenziali nelle quali
la nomina degli amministratori e dei sindaci
spetta direttamente alle fonti istitutive.
Peraltro il riferimento al corpo associativo
non consente alle fonti istitutive di riservare regole limitative nei confronti di particolari categorie di associati (ad esempio i pensionati). In
questo senso tutti gli iscritti al fondo pensione
sono soci a tutti gli effetti portatori degli stessi
diritti e doveri. Allo stesso modo, però, la norma lascia alle fonti costitutive il compito di definire il regolamento elettorale e i criteri per la
formazione degli organi. Questo rimando implica la non sussistenza di alcun obbligo nel definire particolari riserve o seggi alle diverse espressioni delle componenti degli associati. Al contrario le modalità attraverso le quali si realizza la
rappresentanza di queste diverse componenti
sono affidate alle fonti istitutive. Al di là di ogni
valutazione rispetto alle diverse modalità che
consentano di attuare tale principio, il rispetto
delle regole di rappresentanza consente di ridurre il potenziale di contenzioso legato al conflitto di interesse che si potrebbe esprime ogni
qualvolta vengono assunte deliberazioni che
toccano in modo differenziato le diverse componenti della forma previdenziale.
La norma disciplina da ultimo anche i casi
che prevedono la costituzione di forme previdenziali che comprendono solo i lavoratori. Tale fattispecie può verificarsi in due casi. Il primo
rappresenta un caso più di scuola che di rilevanza pratica e riguarda la situazione di mancata
sottoscrizione della fonte istituitiva da parte dei
datori di lavoro. Il secondo attiene alle forme
previdenziali realizzate attraverso l’istituto del
fondo ad ambito definito rivolte a categorie di
lavoratori autonomi o liberi professionisti.
Per i casi caratterizzati da unilateralità della
rappresentanza non trova può trovare applicazione il principio della pariteticità. In ogni caso
la stessa è sottoposta all’applicazione del metodo elettivo che consente dagli aderenti di scegliere liberamente i propri rappresentanti all’interno degli organi statutari.
625
Per quanto riguarda l’elettorato passivo lo
stesso non è sottoposto a particolari vincoli di
adesione al fondo. L’amministratore, così come
il singolo può essere individuato anche al di
fuori del corpo associativo. L’unico vincolo
operante riguarda la sussistenza in capo al potenziale componente dell’organo amministrativo e di quello di controllo di particolari requisiti
di professionalità e di onorabilità fissati dalla disciplina.
Proprio la richiesta di requisiti professionali
suggerisce l’opportunità di non introdurre vincoli associativi rispetto alla definizione dell’elettorato passivo. Va da sé che l’assenza di ogni
vincolo ripropone anche nel campo dei fondi
pensione la problematica del cumulo delle cariche e conseguentemente della verifica delle condizioni di sussistenza oggettiva della possibilità
da parte del componente dell’organo statutario
di svolgere la propria attività secondo la necessaria diligenza e professionalità ( 11 ).
( 11 ) La questione è stata ad esempio affrontata dalla recente legge recante « Disposizioni per la tutela
del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari »
(l. 28 dicembre 2005, n. 262) che ha introdotto in primo luogo un obbligo di trasparenza e informazione al
mercato – seppure limitato alle società quotate – riferito alle cariche ricoperte dai sindaci e dagli amministratori (c.c. artt. 2400 e 2409 septiesdecies, ult. commi)
Nel caso dei sindaci, la novella apportata dalla legge di tutela del risparmio al d.lgs. 24 febbraio 1998,
n. 48 affida alla CONSOB il compito di disciplinare
il numero massimo di incarichi che possono essere
assunti dal sindaco superato il quale la CONSOB
stessa « dichiara la decadenza dagli incarichi assunti
dopo il raggiungimento del numero massimo » (art.
148 bis).
Nel caso dei fondi pensione non sussiste una norma che opera in termini restrittivi fissando un limite
alla assunzione degli incarichi. Ciò non toglie che esista un problema di tale natura riferito alla presenza
contemporanea degli stessi rappresentanti in più consigli di amministrazione (o in collegi sindacali), soprattutto nel caso in cui lo stesso componente assuma
compiti operativi all’interno dell’organo amministrativo o di controllo. La COVIP è, invece, intervenuta
su un altro aspetto della questione, riguardante la
pratica della rielezione dei medesimi componenti nello stesso organo per diversi mandati successivi. Nella
bozza standard di Statuto, emanato dall’Autorità di
vigilanza ai fini del recepimento delle nuove disposizioni, la COVIP ha previsto « Gli amministratori [...]
possono essere eletti per non più di... (fino ad un
626
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
3. – Un ulteriore rilievo suggerito dalla formulazione della norma riguarda l’introduzione
di un elemento di distinzione dell’operatività
del fondo rispetto al suo momento genetico nel
quale operano le fonti istitutive. Queste ultime
costituiscono i soli soggetti legittimati ad istituire e costituire il fondo pensione e a fissarne le
regole di funzionamento, almeno nella fase iniziale. Completata la fase istitutiva sono però gli
associati, e non i rappresentanti delle fonti istitutive, a regolare i momenti successivi sviluppo
del fondo pensione. Ciò si attua in primo luogo
proprio nella riserva che assegna ai primi la facoltà esclusiva di eleggere i componenti degli
organi statutari e in particolare del consiglio di
amministrazione istituzionalmente preposto alla
gestione della forma previdenziale.
In realtà anche l’attività degli organi è in qualche modo condizionata dall’azione delle fonti
istitutive che possono determinare attraverso la
contrattazione all’evoluzione del fondo (si pensi
ad esempio alla scelta di accorpare in uno stesso
fondo i cosiddetti settori affini o ancora alla determinazione del livello contributivo).
Si è posta quindi la necessità di trovare un
momento di sintesi dei diversi piani che incidono sulla vita del fondo. La soluzione è stata trovata nell’ambito della possibilità di strutturare
altri organi associativi purché questi siano funzionali all’attività del fondo e purché la loro
azione non interferisca con quella degli organi
« istituzionali ».
La maggior parte dei fondi pensione ad ambito definito prevede in questo senso la costituzione di una Consulta delle fonti istitutive. Questo organo è composto dai rappresentanti delle
fonti istitutive che con l’iniziativa contrattuale
hanno dato origine all’ente previdenziale. La
presenza della Consulta dovrebbe consentire il
raccordo tra l’autonomia del fondo e l’azione
delle fonti istitutive che mantengono attraverso
la contrattazione la potestà di determinare parti
importanti della evoluzione dell’istituto previdenziale.
La consulta non rappresenta un organo vero e
massimo di tre) mandati consecutivi. (delib. COVIP
31 ottobre 2006). Per quanto riguarda la durata in
carica degli amministratori la COVIP si è adeguata
alle previsioni dettate dal codice civile per le società
per azioni che prevedono un periodo massimo di tre
anni (art. 2383, comma 2o, c.c.).
proprio nel senso che non ha specifiche competenze gestionali. Al contrario va evidenziato come l’Autorità di vigilanza abbia inteso garantire
la piena autonomia del Consiglio di amministrazione escludendo la possibilità che la Consulta
sia dotata di funzioni e di poteri tali da interferire sull’attività e sulla funzione deliberativa
espressa dall’organo amministrativo.
4. – Il comma introduce l’obbligo per le forme previdenziali di dotarsi della figura del responsabile. Il legislatore ha scelto di attribuire
alla figura un ruolo rilevante nell’impianto del
sistema di tutela del risparmio previdenziale e
in considerazione di questo obiettivo ha optato
per estendere l’applicabilità della disposizione a
tutte le forme previdenziali (fondi ad ambito
definito, fondi aperti, piani previdenziali di natura assicurativa).
La norma ha anche fissato i termini per l’adattamento della funzione del responsabile alle distinte fattispecie, siano esse caratterizzate dalla
presenza di un ente previdenziale giuridicamente autonomo, ovvero da forme costituite come
patrimonio separato di destinazione (prodotti
previdenziali). Allo stesso modo l’obbligatorietà
opera anche nei confronti dei cosiddetti vecchi
fondi determinando l’abbandono, almeno in
questo ambito, del particolare regime derogatorio che consente modalità organizzative meno
stringenti per queste forme previdenziali ( 12 ).
In realtà già il disposto originario prevedeva
la figura del responsabile, ma allo stesso non
( 12 ) Si ricorda a questo proposito che le forme previgenti non sono destinatarie delle direttive emanate
dalla Autorità di vigilanza in merito all’organizzazione interna dei fondi. Va da sé che questa distinzione
è più formale che sostanziale in quanto se è vero che
la non applicazione di norme specifiche esistenti consente a queste forme previdenziali di prefigurare un
modello organizzativo in parte differente da quello tipizzato dalla disciplina del settore, nondimeno le
norme codicistiche generali impongono agli amministratori di individuare tale modello nel rispetto dei
principi generali di efficienza del sistema e di tutela
del risparmio affidato loro. A ciò si aggiunge come la
prassi e la stessa evoluzione normativa in atto (si veda
a questo proposito l’emanando decreto ministeriale
sulle procedure di adeguamento destinato alle forme
previdenziali previgenti in tema di modello gestionale) spingano verso una progressiva convergenza dei
modelli organizzativi delle diverse forme previden-
La nuova disciplina della previdenza complementare
erano associati compiti specifici e soprattutto
non era meglio delineato il ruolo di terzietà rispetto alla forma previdenziale.
5. – L’individuazione del responsabile della
forma previdenziale compete al consiglio di amministrazione dell’ente pensionistico (o della società istitutrice, nel caso di prodotto previdenziale) che deve assumere la deliberazione valutando le caratteristiche del candidato con riferimento ai contenuti di professionalità e di indipendenza. A questo proposito il legislatore ha
delineato tassonomicamente i requisiti soggettivi del responsabile.
Per quanto attiene la professionalità il responsabile della forma previdenziale deve essere individuato tra i soggetti che sono in possesso dei
requisiti assimilabili a quelli di previsti per i
componenti degli organi collegiali. In realtà il
consiglio di amministrazione deve più in generale valutare le competenze in funzione delle attribuzioni che il responsabile è chiamato ad assumere.
L’incarico di responsabile deve essere conferito ad una persona fisica. Infatti, a differenza di
quanto stabilito per la funzione del controllo interno o per quello contabile che può essere affidata in outsourcing anche ad una persona giuridica, la necessità di configurare in modo puntuale il profilo di responsabilità connesso alla
funzione determina l’obbligo di affidamento ad
un soggetto individuale. Per la stessa ragione la
funzione del responsabile non può essere attribuita ad un organo collegiale, né ad un comitato
costituito ad hoc. Ciò non impedisce, nelle realtà più complesse, che il responsabile si possa avvalere di una struttura operativa che risponda
direttamente allo stesso.
La norma fissa anche indirettamente il posizionamento della figura all’interno dell’architettura funzionale del fondo o della società istitutrice. Viene stabilito, infatti, che il responsabile
deve essere messo in condizione di operare in
modo indipendente e per tale ragione esso riziali soprattutto per quelle disposizioni che traggono
la loro giustificazione da un esigenza di maggior tutela degli aderenti.
Per una disamina della natura e della portata delle
deroghe vigenti si rimanda a Bessone, I fondi preesistenti al d.lgs. n. 124/1993, in La previdenza complementare, cit.
627
sponde direttamente all’organo amministrativo.
Viene cioè sancito il principio secondo il quale
il responsabile non deve avere una dipendenza
funzionale rispetto alla struttura gerarchica
operativa del fondo pensione. La relazione diretta con il consiglio pone infatti il responsabile
in staff allo stesso secondo il modello di buone
pratiche adottato per tutti gli organi o funzioni
ai quali sono attribuiti compiti di controllo costituiti soprattutto in ambito finanziario. Alla
luce di questa esigenza la configurazione delineata non apparirebbe derogabile non risultando pertanto legittime diverse strutturazioni di
dipendenza della figura all’interno dell’organigramma aziendale. La relazione diretta con il
consiglio deve quindi essere interpretata come
un elemento rafforzativo della indipendenza
della funzione.
Questa configurazione opera anche nel caso
delle forme previdenziali senza personalità giuridica. In questo caso il responsabile opera in
staff al consiglio per quanto attiene la specifica
funzione/prodotto considerata.
6. – Per i fondi negoziali il principio di terzietà della funzione è in qualche modo attenuato
in considerazione della previsione che consente
di affidare l’incarico di responsabile anche al direttore generale, ovvero ad uno degli amministratori.
Nelle indicazioni emanate dalla COVIP si
evince una sorta di preferenza per la soluzione
che porta ad estendere le prerogative del direttore generale rispetto all’ipotesi che prevede
l’affidamento dell’incarico ad un amministratore ( 13 ). La possibilità di affidare a soggetto diverso dal direttore generale potrà infatti essere
esaminata « eventualmente » dal consiglio di
amministrazione del fondo pensione.
In ogni caso il soggetto che ricopre questo incarico deve comunque operare in modo autonomo e indipendente in quanto destinatario
delle prerogative generali delineate per la funzione. Per questa ragione il direttore generale, o
l’amministratore, che assume la carica di responsabile ricopre, per quanto attiene l’eserci-
( 13 ) Delib. COVIP, 28 giugno 2006, « Direttive
generali alle forme pensionistiche complementari ai
sensi dell’art. 23, comma 3o del d.lgs. 5 dicembre
2005, n. 252 ».
628
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
zio di questo incarico, un ruolo distinto rispetto
a quello ricoperto nel sistema di governance del
fondo.
La particolare operatività del fondo ad ambito definito permette di attenuare l’apparente
contraddizione tra le rappresentate esigenze di
indipendenza e l’attribuzione delle competenze
di controllo attribuite ad un amministratore o al
direttore generale. Se per quanto riguarda la
prima soluzione la stessa trova degli esempi nella configurazione di altri organi che svolgono
funzioni di controllo (si veda ad esempio il comitato di controllo interno delineato dal codice
Preda per le società quotate) per quanto riguarda il direttore generale non possono non essere
ravvisate forme di potenziale conflitto in capo al
soggetto che istituzionalmente presiede alla gestione generale del fondo. Questo conflitto è in
parte attenuato dal fatto che per alcuni ambiti
(ad esempio la gestione finanziaria) il modello
operativo dei fondi pensione prevede un attribuzione di competenze a soggetti terzi. Proprio
in questo ambito la norma prescrive che il responsabile vigili « sul rispetto dei limiti di investimento, [...] sulle operazioni in conflitto di interesse e sulle buone pratiche ai fini di garantire
la maggiore tutela degli iscritti » e quindi risulti
ben delineato un compito di controllo su attività che vengono interamente svolte da terzi.
6.1. – Per le forme previdenziali costituite come patrimonio di destinazione la normativa fissa maggiori vincoli di autonomia e indipendenza del responsabile rispetto al soggetto istitutore. Questa previsione innova il precedente dettato normativo che laddove indicava la figura
del responsabile del fondo pensione aperto consentiva l’attribuzione di tale responsabilità anche ai dipendenti del soggetto istitutore.
Proprio però questo elemento di terzietà introduce allo stesso tempo un problema di individuare un raccordo operativo con la società
istitutrice in quanto l’attività del responsabile si
inserisce all’interno di un corpo organizzativo
nel quale già operano altre funzioni di controllo
(Internal Audit, collegio sindacale e, in taluni
casi, comitato per il controllo interno). A ciò
deve aggiungersi il fatto che il responsabile, in
quanto soggetto esterno all’ente non dispone di
un potere gerarchico sulla struttura operativa.
Al fine di rendere efficace l’azione del responsabile si rende, quindi, indispensabile l’adozione
di un regolamento che attribuisca al responsabilità la possibilità di disporre direttamente della
funzione dell’Internal Audit. Andrebbe anche
valutata la necessità di conferire un budget autonomo di spesa al responsabile al fine di rendere possibile il conferimento di particolari studi e
approfondimenti a soggetti terzi specializzati.
7. – Il comma 3o fissa i compiti del responsabile da cui si desume che lo stesso estende il suo
campo di controllo sia sull’attività generale del
fondo sia su singole attività o deliberazioni che
influiscono sulla strutturazione della forma previdenziale ( 14 ). Proprio il riferimento alla verifica « che la gestione della stessa sia svolta... rispetto della normativa vigente e delle previsioni
stabilite nei regolamenti e nei contratti » pone
comunque un problema di sovrapposizione con
le funzioni dell’organo sindacale, almeno come
esso risulta definito nella nuova configurazione
codicistica.
In gran parte il dettaglio delle aree che costituiscono area di competenza del responsabile
devono essere delineate dalla COVIP.
Per quanto attiene alle aree di intervento che
sono espressamente indicate risulta un compito
specifico inerente l’ambito di gestione delle risorse patrimoniali laddove il responsabile è
chiamato a verificare il rispetto delle indicazioni
sulle politiche di investimento e sulle operazioni
in conflitto di interessi. Questa attribuzione deve necessariamente intendersi come un obbligo
a una verifica indiretta sulla esistenza di adeguati strumenti e procedure di controllo, nonché,
in particolare, sull’adeguato modello di trattamento delle anomalie. Ciò in quanto la respon( 14 ) L’indicazione delle funzioni attribuite al responsabile consente di superare il limite contenuto
nel dettato del d.lgs. 21 aprile 2003, n. 124 che laddove introduceva la figura del responsabile del fondo,
seppur limitatamente alla fattispecie alla fattispecie
del fondo aperto, ne lasciava indefinita la funzione.
Tale indeterminatezza no aveva trovato soluzione
nemmeno in dottrina producendo di fatto una « marginalizzazione » della figura all’interno del sistema di
governance della forma previdenziale. Esso era, infatti, « figura di incerta qualificazione non essendo precisati né i contenuti né l’ambito operativo delle sue
attribuzioni e competenze ». Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le
garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale, cit., p. 404.
La nuova disciplina della previdenza complementare
sabilità prima della verifica del rispetto delle linee di investimento compete istituzionalmente
alla banca depositaria che, disponendo direttamente della piena visibilità dei flussi e delle disposizioni impartite, è in grado di compiere una
verifica puntuale sul comportamento dei gestori.
Peraltro la normativa stessa fa riferimento alle
buone pratiche tali da assicurare una modalità
operativa in linea con l’esigenza di rafforzare le
tutele nei confronti degli iscritti.
In ogni caso il punto di partenza per meglio
collocare questa figura va ricercato nella formulazione adottata dalla norma che fissa il primo
compito del responsabile nel l’obbligo di verificare « che la gestione della stessa sia svolta nell’esclusivo interesse degli aderenti ». Il presupposto dell’esigenza di richiamare l’attenzione
sull’esclusivo interesse degli aderenti rappresenta un indiretto riconoscimento del fatto che il
consiglio di amministrazione del fondo pensione (o della forma previdenziale) rappresenti un
organismo complesso all’interno del quale si
forma una mediazione delle esigenze dei vari
stockholders che interagiscano con esso. In questo senso la norma non fa che ricalcare il dibattito che interpreta il comportamento degli organi amministrativi alla luce della teoria dell’agenzia ( 15 ).
Il riconoscimento della funzione generale previdenziale svolta dal fondo pensione ha però richiamato l’esigenza di creare una sorta di punto
di accumulo nel quale convergessero gli elementi peculiari caratterizzanti il « punto di vista » degli aderenti.
Questa considerazione può valere in termini
più immediati nei confronti dei prodotti previdenziali il cui modello operativo deve rispondere a logiche di redditività ma trova applicazione
anche nel caso dei fondi negoziali nei quali agiscono geneticamente altre componenti (si veda
ad esempio il ruolo delle fonti istitutive e la loro
capacità di indirizzo attuata attraverso l’iniziativa contrattuale).
8. – La disposizione intende regolare la fatti-
( 15 ) Di Betta e Amenta, Gli incentivi nella corporate governance: il ruolo dell’autoregolazione e dell’autodisciplina, Paper ISTEI (Istituto di Economia
d’Impresa Università degli Studi di Milano - Bicocca).
629
specie dell’integrazione del sistema di governance nei fondi pensioni aperti. L’organismo di sorveglianza si affianca alla figura del responsabile
svolgendo un ruolo di verifica generale dell’adeguatezza dell’operato della forma previdenziale
rispetto alla tutela del risparmio conferito. A
differenza del responsabile a cui sono attribuite
specifiche e puntuali competenze di controllo,
l’attività dell’organismo è invece di carattere generale e si basa proprio sulle risultanze dell’operato del responsabile stesso, nonché sulle informazioni rilevanti su eventi che incidono sulla
redditività e sulle caratteristiche del fondo trasmesse dal soggetto istitutore.
La disposizione riguardante l’organismo di
sorveglianza trova applicazione trova applicazione nei confronti della generalità degli strumenti ex art. 12 del decreto, indipendentemente
dal fatto che gli stessi si rivolgano alle adesioni
individuali ovvero a quelle collettive. Proprio
questa generalizzazione dell’applicazione allo
strumento in sé produce una differenziazione di
trattamento dei fondi pensione aperti rispetto ai
piani individuali pensionistici, differenziazione
di cui è difficile rintracciare la ratio.
Come si vedrà l’unica distinzione tra i fondi
riferiti alle differenti destinazioni consiste in un
obbligo ad integrare la composizione dell’organismo in presenza di collettivi che raggiungono
determinate dimensioni di iscritti. La distinzione delineata afferisce, pertanto, alla composizione dell’organismo e non produce alcun effetto sulla funzione svolta e sui compiti ad esso attribuiti che sono fissati direttamente dalla normativa.
L’organismo svolge una funzione di controllo
che viene esercitata nell’interesse degli aderenti,
mentre è preclusa ad esso ogni attribuzione gestionale, nonché ogni competenza di indirizzo
che spetta in via esclusiva al soggetto istitutore.
L’organismo, nell’espletamento delle sue funzioni, si raccorda direttamente con il responsabile della forma previdenziale dal quale riceve
comunicazioni periodiche.
Anche se l’organismo richiama nella denominazione l’organo caratteristico del sistema dualistico, lo stesso non può essere integrato in tale fattispecie in quanto non ricorrono gli elementi tipici di tale articolazione giuridica. L’organismo, infatti, svolge una mera funzione di
controllo, atta a rafforzare il sistema di tutela,
non assumendo in alcun modo altre funzioni di
630
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
condivisione delle attribuzioni societarie ( 16 ).
9. – La norma stabilisce che i fondi pensione
aperti si dotino di un organismo di sorveglianza
sin dal momento della prima applicazione della
nuova disposizione. Tale organismo entra quindi a far parte in modo integrante del sistema di
governance della forma previdenziale. In ogni
caso è prevista una fase transitoria determinata
dalla necessità di assicurare la presenza dell’organismo anche nella fase in cui almeno per
quanto attiene i fondi ad adesione collettiva,
manca un’adeguata base di iscritti indispensabile per realizzare il sistema di rappresentanza
previsto. Per ovviare a tale situazione è previsto
che la designazione dei primi componenti dell’organismo sia affidata alla società istitutrice
stessa. La designazione diretta non consente però una deroga né un’attenuazione del principio
generale di indipendenza dei componenti che
viene semmai rafforzato con il divieto di revoca
degli stessi se non in presenza di una giusta causa ( 17 ). La durata della carica dei primi componenti dell’organismo non può comunque eccedere il biennio.
Successivamente l’organismo viene integrato
da rappresentanti degli aderenti e dei datori di
lavoro che partecipano alla contribuzione.
L’obbligo di integrazione scatta ogni qualvolta
aderisca una collettività di almeno 500 lavoratori. La previsione di legge va interpretata come
un obbligo a fare non essendo preclusa la possibilità di operare anche in presenza di un numero inferiore di aderenti. Peraltro tale possibilità
è prevista direttamente dalla norma. Va altresì
considerato che probabilmente il legislatore, nel
fissare un numero relativamente elevato di ade-
( 16 ) « Il sistema dualistico [...] consiste nella interposizione, fra l’assemblea e l’organo amministrativo,
[...] di un organo intermedio, di nomina assembleare,
il consiglio di sorveglianza che riunisce in se alcune
attribuzioni proprie nel sistema ordinario, dell’assemblea [...] e del collegio sindacale » Galgano, Il
nuovo diritto societario, Padova, 2003, pp. 300-301.
( 17 ) V. COVIP, Regolamento per l’istituzione e il
funzionamento dell’organismo di sorveglianza, Allegato 2 allo Schema di regolamento deliberato il 31 ottobre 2006. Il provvedimento di revoca può essere
assunto dal consiglio di amministrazione del soggetto
istituto solamente dopo aver acquisito il parere dell’organo di controllo della società.
sioni come requisito formale per l’integrazione
dell’organismo, ha voluto contemperare l’esigenza della rappresentanza con la necessità di
assicurare l’efficacia del funzionamento dell’organismo, attraverso il contenimento del numero
dei suoi componenti.
Salvo diversa previsione contenuta nel regolamento adottato, l’integrazione dell’organismo
può essere realizzata in qualsiasi momento dal
momento che la designazione del rappresentante spetta al collettivo individuato e non all’intero universo degli aderenti alla forma previdenziale.
Va segnalato, peraltro, che anche all’organismo di sorveglianza viene esteso il principio della pariteticità della rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro. In realtà in questo caso
siamo in presenza di un organismo tripartito essendo prevista la partecipazione di componenti
indipendenti la cui nomina spetta alla società
istitutrice.
Per quanto attiene alle modalità che dovranno essere adottate per calcolare la soglia delle
cinquecento adesioni, nonché le regole temporali di elezione dell’organismo le stesse devono
esser in gran parte definite dall’apposito regolamento. Per quanto riguarda il calcolo numerico
degli aderenti appare evidente che lo stesso
debba riferirsi ai soggetti che si sono effettivamente iscritti alla forma previdenziale e non ai
potenziali aderenti. L’ambito di riferimento delle adesioni dovrà inoltre tener conto della configurazione degli accordi di adesione. Nel caso in
cui gli stessi siano definiti a livello di gruppo la
quantificazione dovrà corrispondere alle somma dei partecipanti che fanno riferimento alle
aziende partecipanti. Allo stesso modo dovrà
essere stabilito il periodo di riferimento per la
determinazione delle adesioni utili ai fini del
calcolo della soglia. Non sembra comunque
operare la decadenza dalla carica nel caso in cui
il numero di aderenti scenda al di sotto della soglia dei cinquecento aderenti. Tale condizione
non rientra infatti tra le cause di decadenza indicate dalla normativa e riprese dalla COVIP
nello schema di regolamento tipo deliberato
nell’ottobre del 2006.
10. – Ai componenti dell’organismo di sorveglianza sono richiesti gli stessi requisiti di onorabilità e professionalità definiti per tutti i componenti degli organi delle forme pensionistiche
La nuova disciplina della previdenza complementare
complementari. In aggiunta è previsto come
presupposto soggettivo essenziale per l’assunzione della carica una condizione di indipendenza rispetto al soggetto istitutore.
Questa caratteristica deve essere accertata attraverso la non sussistenza di una incompatibilità derivante dall’esistenza di mandati, rapporti di lavoro o patrimoniali con la società istitutrice del fondo, ma deve essere verificata anche in termini più
generali alla luce di tutte le situazioni soggettive o
oggettive che possono attenuare l’indipendenza
del soggetto. A questo proposito occorre richiamare per analogia il dibattito sulla nozione di amministratore indipendente diventata comune anche nel nostro paese a seguito delle modifiche normative e dell’introduzione di codici e discipline di
autoregolamentazione dei mercati ( 18 ).
Per quanto attiene i rapporti patrimoniali la
norma può trovare immediata verifica per
quanto attiene l’assenza di specifici incarichi
professionali e di lavoro, mentre più ambigua
appare l’interpretazione riferita alla mancanza
di qualsivoglia partecipazione azionaria del soggetto istitutore, ovvero di società controllate o
controllanti.
La formulazione letterale della norma dovrebbe trovare applicazione in termini tassativi
indipendentemente dalla quota azionaria posseduta e in questa accezione il possesso di una
qualsivoglia quantità di titoli determinerebbe
la decadenza dall’incarico. In realtà appare più
rilevante una lettura più sostanziale del concetto di indipendenza che rimandi la valutazione
del legame economico alla « rilevanza dello
stesso » ( 19 ).
( 18 ) Un ruolo particolare nel nostro paese ha avuto
l’adozione del cosiddetto codice Preda « Codice di
autodisciplina delle società quotate in borsa », recentemente rivisto per tener conto della nuova disciplina
sulla tutela del risparmio (Versione - marzo 2006).
( 19 ) Ad esempio a questo proposito il Codice di
autodisciplina delle società quotate prevede che
« Per quanto riguarda le relazioni commerciali, finanziarie e professionali intrattenute, anche indirettamente, dall’amministratore con l’emittente o con
altri soggetti ad esso legati, il Comitato non ritiene
utile indicare precisi criteri quantitativi sulla base dei
quali debba essere giudicata la loro rilevanza. In ogni
caso, il consiglio di amministrazione dovrebbe valutare tali relazioni in base alla loro significatività, sia in
termini assoluti che con riferimento alla situazione
economico-finanziaria dell’interessato ».
631
In ogni caso proprio facendo riferimento al
dibattito prima richiamato appare evidente come la nozione di indipendenza ( 20 ) debba essere
formulata avendo come riferimento un più ampio spettro di condizioni che debbano necessariamente entrare nella valutazione ( 21 ). A questo
proposito uno dei punti deboli della costruzione, peraltro riferibile anche alla figura del responsabile attiene al meccanismo di selezione e
di nomina che in qualche modo subordina, almeno nel momento genetico, il componente
dell’organismo di sorveglianza con il soggetto
istitutore ( 22 ).
Seguendo lo schema applicato dal testo unico
sulla finanza ( 23 ) agli intermediari finanziari la
norma ha previsto che il meccanismo della decadenza dalla carica già previsto per i requisiti
di onorabilità e professionalità trovi applicazione anche in caso di difetto dei requisiti di indipendenza.
11. – I commi 7o e 8o dell’art. 5 delineano i
profili di responsabilità degli amministratori e
dei sindaci dei fondi pensione attraverso l’esten-
( 20 ) Si veda ad esempio la raccomandazione della
Commissione della Unione Europea n. 262 del 15
febbraio 2005, « sul ruolo degli amministratori senza
incarichi esecutivi o dei membri del consiglio di sorveglianza delle società quotate e sui comitati del consiglio d’amministrazione o di sorveglianza ».
( 21 ) L’Associazione italiana degli amministratori
indipendenti ha delineato gli aspetti rilevanti che
consentono di caratterizzare l’indipendenza di un
amministratore: a) la rilevanza delle « caratteristiche
personali »; b) la rilevanza dei legami; c) la rilevanza
della modalità di nomina.
Per analogia le stesse considerazioni possono essere svolte con riferimento alla fattispecie dei componenti dell’organismo di controllo non foss’altro per il
richiamo esplicito alla figura degli amministratori indipendenti operata dalla norma.
Nedcommunity (Non Executive Directors Community) L’amministratore indipendente, Working Paper, n. 1, 2004, p. 11 ss.
( 22 ) Può essere utile a questo proposito riferirsi alle best practice degli altri paesi che raccomandano
l’individuazioni dei soggetti indipendenti a terzi. Si
veda a questo proposito Iachino, La verifica e la certificazione della sussistenza del requisito di indipendenza, sia in fase di nomina sia nel corso del mandato,
in Aa.Vv., La responsabilità degli amministratori indipendenti, Nedcommunity Working Paper, 2006.
( 23 ) D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.
632
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
sione agli enti previdenziali delle norme del codice civile che trovano applicazione nei confronti delle società di capitale. La norma prevede, inoltre, l’applicazione della medesima disciplina anche nei confronti del direttore generale
(art. 2396 c.c.) e della nuova figura del responsabile del Fondo.
È evidente l’intento perseguito dal legislatore
di promuovere un rafforzamento del sistema di
governance delle forme previdenziali attraverso
l’esplicita attribuzione di responsabilità proprie
della funzione di amministratore (o di sindaco)
svolta in società commerciali ( 24 ). Questa attribuzione allontana ulteriormente il modello operativo a cui devono attenersi gli organi statutari
di una forma previdenziale ad ambito definito
rispetto a quello adottato da un ente associativo
generico.
In ogni caso l’estensione alle forme previdenziali di un insieme di disposizioni modellate su
una diversa fattispecie pone il problema della
loro concreta applicabilità ad alcuni casi specifici peculiari dell’attività del fondo pensione.
Questa necessità interpretativa si esplica sia con
riferimento alla singola norma, sia più in generale alla individuazione stessa del profilo di responsabilità dell’amministratore di un fondo
pensione.
12. – Proprio con riferimento agli enti previdenziali il problema interpretativo più rilevante
si pone rispetto all’inquadramento dei soggetti
ai quali può essere cagionato un danno ingiusto
attraverso il comportamento attivo o omissivo
degli amministratori ( 25 ).
( 24 ) Peraltro gli articoli del Codice richiamati dal
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 sono stati novellati
nell’ambito della revisione del diritto societario (d.lgs. 10 febbraio 2003, n. 6).
( 25 ) La condotta può essere sia attiva (l’amministratore ha compiuto una determinata azione), sia
omissiva (l’amministratore non ha compiuto una determinata azione da cui deriva il danno ovvero la cui
realizzazione avrebbe evitato il danno), ma deve comunque sussistere perché vi sia responsabilità. Affinché si configuri la fattispecie del danno è essenziale
che il comportamento dannoso (attivo od omissivo
che sia) sia stato compiuto con « dolo » o con « colpa ». Il soggetto che ha agito deve avere voluto arrecare il danno (nel caso del dolo) ovvero deve avere
agito in modo negligente o imprudente, ignorando
quelle regole di condotta che sarebbe stato tenuto ad
Si rammenta infatti che la fattispecie di responsabilità civile deve essere inquadrata alla
luce di quanto previsto dall’art. 2043 c.c., secondo cui « qualunque fatto doloso o colposo,
che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga
colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno ».
Al fine dell’individuazione dei potenziali soggetti ai quali può essere arrecato il danno si deve tener conto della particolare attività svolta
dall’ente in questione.
Una questione rilevante riguarda la risposta
alla domanda circa la qualificazione in capo al
fondo pensione ad ambito definito di un’attività
di carattere imprenditoriale ( 26 ). La particolare
complessità dell’attività svolta che implica la necessità di organizzare « fasi produttive » diverse
al fine di realizzare gli obiettivi istituzionali per
conto degli aderenti farebbe propendere per
l’inquadramento dell’attività del fondo come
impresa seppure con caratteristiche molto peculiari ( 27 ).
Nonostante questa configurazione, l’esame
della concreta attività concretamente svolta riduce la casistica di soggetti terzi ai quali il fondo
pensione può produrre un danno e ciò suggerisce come l’universo dei potenziali danneggiati
possa essere in gran parte limitato all’insieme
degli iscritti alla forma previdenziale. Occorre
comunque considerare le diverse fattispecie che
si possono configurare esaminando il danno che
può essere cagionato: a) nei confronti dello stesso fondo pensione; b) nei confronti dei creditori
osservare. Ai fini della responsabilità assume particolare rilievo il caso della configurazione della negligenza dell’amministratore la cui qualificazione deve essere provata alla luce del mancato rispetto della diligenza professionale e delle best practice del settore.
( 26 ) Peraltro la dottrina ha delineato la distinzione
degli enti disciplinati dal libro I c.c. non tanto in base
all’attività svolta quanto all’assenza di una distribuzione degli utili. Si veda ad esempio Marasà, Le società. Società in generale, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2000.
( 27 ) « In coerenza con la politica di riforma in materia di previdenza complementare [...] è venuta, infatti, man mano delineandosi un’attività di tipo imprenditoriale seppure particolarmente caratteristica
o per meglio dire connotata di specialità dato l’ambito marcatamente previdenziale degli interessi perseguiti », Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi
pensione chiusi, Milano, 2005, pp. 131-132.
La nuova disciplina della previdenza complementare
del fondo; c) nei confronti dei singoli associati.
Un modo produttivo per mettere a fuoco i
profili di responsabilità può essere quello procedere individuando le aree di maggior criticità
rispetto alla potenziale emersione di un rischio
operativo a fronte del quale può determinarsi
una situazione di procurato danno. Utilizzando
un termine comune del lessico dei sistema di
controllo e vigilanza si tratta di definire il cosiddetto risk assesment connesso all’attività dell’ente previdenziale.
La disamina delle aree di attività del fondo si
rende necessaria in considerazione della complessità dell’operatività del fondo che oltre a
protrarsi su un arco temporale particolarmente
esteso comprende attività eterogenee nonché il
concorso di soggetti esterni coinvolti, talvolta
per espressa previsione normativa, a svolgere
intere fasi del « ciclo produttivo » del fondo
pensione.
In questo senso le aree di maggiore criticità
che attengono alla responsabilità degli amministratori e dei sindaci di un fondo pensione riguardano: a) la gestione finanziaria dell’attivo
patrimoniale; b) la gestione amministrativa del
rapporto associativo.
Va comunque considerato come il richiamo
alle due aree appena indicate rappresenti una
pura indicazione sintetica che ricomprende un
insieme eterogeneo di attività che possono essere ricondotte ai principali segmenti nei quali si
caratterizza l’attività di una forma previdenziale. Proprio la complessità delle attività che ad
esse sono riconducibili pone in ogni caso il problema di dettagliare distinti profili di responsabilità anche nei confronti di soggetti diversi. Ad
esempio nell’area amministrativa rientrano sia
attività che vengono svolte nei confronti degli
iscritti sia operazioni che il fondo svolge in qualità di sostituto d’imposta.
Le due aree di attività in realtà sono in realtà
caratterizzate da un profilo operativo differenziato. La prima prevede l’obbligo del fondo
pensione di affidare la gestione finanziaria del
patrimonio degli iscritti in fase di accumulo,
nonché la gestione delle riserve dei pensionati a
soggetti esterni qualificati dalla legge ( 28 ).
( 28 ) I soggetti abilitati alla gestione dei fondi pensione sono elencati dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. 5
dicembre 2005, n. 252, mentre la gestione delle riser-
633
Per quanto attiene l’area amministrativa la
scelta di procedere ad una esternalizzazione
dell’intera funzione o di parte di essa discende,
al contrario, dalla decisione di adottare modello
operativo più efficiente e non da una cogente
disposizione normativa ( 29 ).
13. – La responsabilità dell’amministratore
nei confronti dell’ente presso il quale svolge il
proprio mandato è disciplinata dall’art. 2392
c.c., espressamente richiamato dal legislatore.
La posizione dell’amministratore deve essere
valutata alla luce della novella realizzata con
l’introduzione del cosiddetto nuovo diritto societario.
Essa prevede una diversa configurazione della
diligenza richiesta all’amministratore che non
risulta essere più genericamente delineata secondo la « diligenza del mandatario » ma comporta che « gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze ».
Il comma 8o definisce il profilo di responsabilità dei sindaci del fondo pensione, nonché ai
componenti dell’organismo di sorveglianza istituito per i fondi pensione aperti che prevedono
le adesioni collettive. Anche in questo caso il riferimento del codice civile impone ai componenti dell’organo di controllo comportamenti
adeguati alla « professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico ».
L’innovazione introdotta dal nuovo diritto societario che implica una ben più pregante as-
ve dei pensionati compete agli stessi soggetti, nel caso
di gestione diretta ex art. 6, comma 4o, ovvero ad una
compagnia assicurativa nel caso in cui il fondo opti
per procedere secondo il modello tipizzato dall’art. 6,
comma 3o, del medesimo decreto.
A ciò si devono aggiungere le disposizioni sulla
banca depositaria definite dall’art. 7.
( 29 ) A tal proposito la COVIP ha rappresentato ai
fondi pensione che hanno optato per un modello organizzativo basato sull’outsorcing della funzione amministrativa « la doverosità, per gli esponenti del fondo di garantire un elevato grado di efficacia al sistema dei controlli esercitati sulla qualità dei servizi amministrativi esternalizzati ». Ciò in quanto « le indicate attività amministrative, ancorché rese oggetto di
outsourcing, restano comunque ascritte alla complessiva sfera di competenza del soggetto fondo » (COVIP, lett. circ. del 22 novembre 2001).
634
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
sunzione di responsabilità dell’amministratore e
dei componenti l’organo di controllo, assume
rilievo nel particolare contesto associativo dei
fondi pensione. Esso, infatti, introduce un elemento di rottura in un modello di governance
che premia in modo particolare gli elementi della rappresentanza. La stessa formulazione vigente dei requisiti di professionalità rispetta il
disegno originario del legislatore che a fianco
dei più tradizionali elementi distintivi legati alle
competenze maturate in campo finanziario prevede uno specifico riconoscimento degli elementi di partecipazione alle strutture associative delle fonti istitutive.
In termini generali la configurazione di una
responsabilità che impone comportamenti tipici
di un mandato professionale costituisce il principio ispiratore per la valutazione dell’azione
dell’amministratore nell’assolvi – mento del
proprio mandato. Essa pertanto costituisce elemento dirimente nei confronti del rispetto delle
regole che attengono l’organizzazione del fondo.
Una domanda interessante da porsi riguarda
il fatto se la valutazione della responsabilità possa essere « individualizzata » anche in base ai
diversi requisiti di professionalità posseduti dagli amministratori.
Il d.m. 14 gennaio 1997, n. 211 opera, infatti,
una distinzione tra i soggetti che si trovano nelle
condizioni delineate all’art. 4, comma 2o, lett. a)
e b), rispetto quanti sono in possesso dei restanti requisiti. Peraltro la lettura coordinata del
provvedimento esprime una distinzione che vale nei confronti dei componenti degli organi afferenti alle diverse qualificazioni professionali.
La domanda dovrebbe però essere risolta in
senso negativo. In primo luogo il decreto del
Ministro del lavoro indica i casi in cui è esplicitamente richiesto l’intervento dei componenti
con il requisito di professionalità « rafforzato » ( 30 ). Tale norma dovrebbe essere interpre-
( 30 ) L’art. 2, comma 3o, lett. h) del d.m. 14 gennaio
1997, n. 211 stabilisce infatti l’obbligo di definire nello statuto il « numero di consiglieri aventi i requisiti
di professionalità di cui alle lett. a) e b) del comma 2o
dell’articolo medesimo che devono essere presenti
nelle riunioni dello organo amministrativo convocate
per deliberare su materie concernenti l’at-tuazione
degli articoli 6 e 6 bis del decreto legislativo n. 124
del 1993 ».
tata in quanto esprime la volontà del legislatore
di assicurare che nei casi in cui si deve formare
la volontà collegiale dell’organo amministrativo
su materie per le quali è richiesta una adeguata
professionalità sia assicurato l’apporto delle
competenze specifiche presenti nel corpo consigliare. Proprio la partecipazione di questi amministratori assicura che la deliberazione consigliare venga assunta sulla base di un processo
decisionale adeguato, formatosi sull’esame di
tutti gli aspetti rilevante della materia in esame.
In ogni caso, vale comunque il richiamo circa la
indispensabilità della assunzione di comportamenti di diligenza professionale da parte di tutti
i componenti del consiglio. Queste due considerazioni sono sufficienti per escludere la possibilità di sostenere la liceità dell’ipotesi della riduzione del grado di responsabilità di alcuni
amministratori – salvo che per i casi espressamente disciplinati dal codice civile (ad manifestazione di espressione contraria alla deliberazione consiliare).
Seguendo lo schema prima proposto deve essere ripresa la domanda relativa all’individuazione delle circostanze entro le quali si configura la responsabilità dell’amministratore nei confronti del fondo pensione.
Al di là del richiamo generale all’art. 2392 c.c.
e quindi all’interpretazione dei comportamenti
dell’amministratore nello svolgimento dell’attività gestionale del fondo, ad ogni amministratore competono specifici obblighi derivanti dall’applicazione di disposizioni legislative o regolamentari ( 31 ).
In realtà la mancata osservanza di tali disposizioni è sanzionata direttamente con altri strumenti, pertanto la responsabilità per danno deve essere espressamente valutata caso per caso
al fine di rintracciare eventuali comportamenti
lesivi per il fondo che abbiano allo stesso causato un danno.
14. – Ancora più circoscritto è il caso della responsabilità degli amministratori nei confronti
dei creditori (art. 2394 c.c.).
A differenza della responsabilità nei confronti
del fondo che ha origine contrattuale e trova il
( 31 ) Ad esempio il d.m. 14 gennaio 1997, n. 211
fissa (art. 3) l’elenco delle attribuzioni del consiglio di
amministrazione.
La nuova disciplina della previdenza complementare
suo fondamento in un’inosservanza degli amministratori dei doveri ad essi spettanti in base al
rapporto instaurato con l’ente, siamo qui di
fronte a una responsabilità di natura extracontrattuale.
Nello specifico la responsabilità degli amministratori sorge nella misura in cui essi mettano
in atto comportamenti tali da incidere sulla
« conservazione dell’integrità del patrimonio
sociale » e quindi sia divenuto insufficiente per
il soddisfacimento dei creditori dell’ente.
Nel caso del fondo pensione occorre premettere che la sfera dei rapporti con i creditori risulta essere potenzialmente circoscritta per il
fatto stesso che, non svolgendo il fondo un’attività economica in senso stretto (ed essendo di
regola la gestione delle risorse conferita a soggetti esterni), anche le obbligazioni gravanti su
di esso risultano essere abbastanza circoscritte
(remunerazione delle prestazioni dei fornitori
quali i gestori, la banca depositaria, ecc. nonché
della struttura necessaria allo svolgimento della
propria attività istituzionale). Peraltro il soddisfacimento delle pretese dei creditori di alcuni
particolari servizi (ad esempio quello della gestione) prevede meccanismi di remunerazione
imputabili direttamente al patrimonio amministrato (commissione di gestione) e avviene secondo modalità direttamente regolate da soggetti terzi (storno della banca depositaria sui
conti indicati dei gestori). A ciò deve aggiungersi il fatto che le ipotesi di distrazione del patrimonio sono circoscritte anche dalla non disponibilità diretta delle risorse da parte del fondo
di una operatività che è mediata attraverso l’intervento di un soggetto terzo, la banca depositaria.
Da ultimo va sottolineato che le disponibilità
del fondo sono allocate in due sezioni contabili
distinte. La prima rappresenta l’attivo destinato
alle prestazioni previdenziali e corrisponde alla
somma delle posizioni individuali dei singoli
aderenti per le quali opera un vincolo di destinazione. La seconda riguarda la parte delle risorse corrispondente alle quote associative utilizzate dal fondo per far fronte alle spese derivanti dalla propria attività operativa. Su questa
seconda parte si può esercitare la rivalsa dei creditori.
Così circoscritto, l’unico caso in cui teoricamente si potrebbe configurare l’ipotesi di distrazione del patrimonio può riguardare la di-
635
stribuzione delle eccedenze di fine periodo della sezione amministrativa sulle posizioni individuali che potrebbe sottrarre le disponibilità necessarie a far fronte agli impegni assunti nei
confronti dei creditori. Va detto comunque che
nella quasi totalità dei casi, proprio l’obbligo di
riversare le eccedenze sulle posizioni personali,
non consente di configurare questa posta di bilancio come una componente dello stato patrimoniale quanto come un appostamento del
conto economico. A tale scopo essa viene periodicamente ricostituita attraverso il prelievo delle quote associative previste dallo statuto. Va da
ultimo segnalato che, in ottemperanza alle disposizioni dell’autorità di vigilanza, ogni statuto
determina un tetto di spesa, espresso in percentuale delle contribuzioni, determinata direttamente dallo statuto. Semmai la violazione di
questo tetto di spesa, potrebbe in alcuni casi costituire presupposto di un danno procurato dagli amministratori anche se in questo caso gli
stessi potrebbero in primo luogo essere chiamati in causa dagli associati in virtù dell’assunzione
di una o più deliberazioni eccedenti (sul piano
quantitativo) il mandato assunto.
15. – Il richiamo all’art. 2395 c.c. consente di
affermare che l’azione di responsabilità che
spetta alla società non preclude il diritto del singolo socio o del terzo al risarcimento del danno
provocato da atti colposi o dolosi degli amministratori.
Questa è la fattispecie più rilevante ai fini della responsabilità dell’amministratore in quanto
afferisce direttamente al rapporto che si istaura
con l’iscritto che conferisce le proprie risorse al
fondo pensione. Tecnicamente infatti il fondo
pensione, alla stregua di altri strumenti del risparmio gestito, non è altro che la sommatoria
delle posizioni individuali dei singoli iscritti.
Ogni comportamento dannoso dal punto di vista economico ha un impatto immediato nei
confronti del singolo aderente.
Proprio per questo motivo le casistiche che
possono dar luogo ad un danno sulla singola
posizione sono molteplici e vanno dalla situazione generale di atti che riguardano la gestione
finanziaria delle risorse a fatti specifici che riguardano il singolo socio (ad esempio mancata
od errata liquidazione della posizione, errato
contabilizzatone delle contribuzioni, ecc.)
In ogni caso affinché un iscritto possa far va-
636
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
lere la sua pretesa nei confronti degli amministratori deve sussistere il presupposto dell’esistenza di una lesione di un diritto individuale
del socio (che non sia un mero riflesso del pregiudizio subito dal fondo ( 32 )).
Peraltro la possibilità di rilevare direttamente
il danno sono molto diversificate. Se nei casi
specifici il danno è immediatamente accertabile
come ad esempio nel caso di un errore nella liquidazione della posizione ovvero il mancato
assolvimento di una richiesta di trasferimento
della posizione tra due comparti, in altre situazioni di carattere più generale. Si pensi ad esempio a fatti che riguardano le scelte operate in
campo gestionale per le quali non esiste, salvo i
casi più gravi, la possibilità di una ricostruzione
certa di quanto si sarebbe potuto verificare con
un comportamento differente degli amministratori.
16. – Se il socio può in ogni caso far valere i
propri diritti patrimoniali nei confronti dei soggetti che hanno determinato un danno che incida sulla consistenza della propria posizione previdenziale ovvero sulla disponibilità della stessa,
il richiamo all’art. 2393 del c.c. consente all’associato al fondo pensione – ovvero al delegato,
nel caso in cui sia prevista l’assemblea dei delegati – di promuovere in sede assembleare e per
le specifiche fattispecie configurabili, un’azione
di responsabilità nei confronti degli amministratori, dei sindaci e del direttore generale. Il
dettato della previsione consente di estendere la
praticabilità di un’azione di responsabilità anche nei confronti del responsabile del fondo
pensioni.
Nel caso ricorrano i presupposti della violazione dell’obbligo degli amministratori di
adempiere con la dovuta diligenza al proprio
mandato ovvero quando ricorra la fattispecie
del danno cagionato al fondo pensione dall’inosservanza di tale obbligo di comportamenti
l’assemblea degli iscritti del fondo pensione (o
dei loro delegati) può deliberare la promozione
di un’azione di responsabilità nei confronti de-
( 32 ) Non sembra possibile, pertanto, che l’aderente al fondo pensione agisca direttamente contro gli
amministratori per far valere un danno riflesso, ossia
la conseguenza negativa sul suo patrimonio del danno che gli amministratori hanno cagionato al fondo.
gli amministratori di fronte al Tribunale competente (sede del fondo) ( 33 ).
Dal momento che la responsabilità degli amministratori ha carattere contrattuale, derivante
dall’inosservanza del « patto » che essi hanno
implicitamente sottoscritto con l’accettazione
dell’incarico, il fondo dovrà semplicemente
provare la circostanza riferita all’inadempimento dei propri doveri da parte degli amministratori. Ricade sui chiamati in causa l’onere di dover provare i fatti che valgano a escludere o ad
attenuare la loro responsabilità ( 34 ).
Una situazione particolarmente delicata si
configura nel caso di fondi pensione che si siano
strutturati sulla base della previsione di un’assemblea dei delegati che non contempli la partecipazione di rappresentanti dei datori di lavoro. In questo caso l’avvio dell’azione di responsabilità sarebbe assunta da una componente che
è responsabile della nomina di solo una parte
del consiglio di amministrazione ma avrebbe effetto nei confronti di tutti i componenti. Sebbene questa fattispecie presenti profili di forte criticità non sembrerebbero sussistere dubbi circa
la possibilità dell’assemblea di agire nei confronti di tutti gli amministratori in quanto componenti di un organo collegiale di cui ogni singolo membro risponde in solido con tutti gli altri. Ciò vale soprattutto nei casi in cui l’oggetto
dell’azione di responsabilità riguardi deliberazioni del consiglio che in quanto tali rappresentano l’espressione di una volontà collegiale, salvo che per i consiglieri che abbiamo espresso un
voto contrario alla deliberazione.
Dovrebbe risultare altrettanto legittima la delibera assembleare con cui contestualmente all’azione di responsabilità approvasse un provvedimento di revoca degli amministratori ( 35 ). In
( 33 ) Nel caso in cui il fondo sia in amministrazione
straordinaria la promozione dell’azione di responsabilità spetta al commissario straordinario (art. 2394
bis c.c.)
( 34 ) Nel caso in cui l’azione di responsabilità fosse
fondata sul principio generale dell’art. 2043 c.c. assumendo in questo modo carattere extracontrattuale
l’onere della prova spetterebbe a chi agisce in giudizio.
( 35 ) La disciplina delle società per azioni prevede
che la revoca sia automatica qualora la delibera sia assunta con il voto favorevole di almeno un quinto del
capitale sociale. Nel caso dei fondi pensione per i
La nuova disciplina della previdenza complementare
questo caso anche se la decisione assembleare
avrebbe efficacia anche nei confronti di amministratori per i non compete la nomina la stessa
sarebbe giustificata ai fini di rimuovere le situazioni di pregiudizio che hanno portato ad assumere la decisione stessa di promuovere l’azione
di responsabilità.
17. – Un ultimo aspetto che deve essere indagato in tema di responsabilità riguarda i profili
rientanti nell’ambito di applicazione del d.lgs. 8
giugno 2001, n. 231 in tema di responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche.
Il riferimento alla responsabilità del fondo in
quanto persona giuridica consente infatti di
chiarire in che termini tale normativa trova applicazione nei confronti dell’ente fondo pensioni e allo stesso tempo di completare le considerazioni generali sulle responsabilità degli amministratori in particolari ambiti definiti dal decreto.
Per quanto attiene al primo punto occorre
considerare come il decreto del 2001 abbia introdotto nuove responsabilità per gli enti in
conseguenza di comportamenti tenuti dall’ente
stesso e dal proprio personale anche in posizione apicale.
Il riconoscimento di una eventuale responsabilità configurata ai sensi del decreto al di là
delle sanzioni pecuniarie potrebbe arrivare nei
casi più gravi alla revoca all’autorizzazione ad
operare, con tutta la catena di conseguenze che
in entrambi i casi dovrebbero essere verificate.
In realtà va considerato che la responsabilità
dell’ente si configura con riferimento a reati che
siano stati commessi allo scopo di procurare un
vantaggio all’ente stesso (in questo caso il fondo
pensione). La combinazione di questi due elementi, il reato e il procurato vantaggio illecito,
riduce enormemente l’ambito di applicazione
della fattispecie delineata dal decreto agli enti
della previdenza complementare. Semmai alcune situazioni (operatività diretta in campo immobiliare) possono rilevare nei confronti delle
quali l’assemblea non rappresenta l’espressione dei
portatori del capitale sociale quanto genericamente
degli associati, la norma dovrebbe essere intesa con
riferimento al numero dei componenti all’assemblea.
637
forme previdenziali previgenti, per effetto della
disciplina derogatoria vigente ( 36 ).
Quello che comunque è interessante rilevare
al fine di mettere a fuoco il secondo aspetto prima indicato attiene alle modalità attraverso le
quali l’ente può sostenere legittimamente
l’esclusione da ogni responsabilità.
Secondo la disciplina sulla responsabilità degli enti giuridici tale responsabilità non ricorre
nei casi in cui l’ente si sia dotato di un modello
organizzativo atto ad evitare la possibilità che i
reati contemplati possano essere compiuti e che
lo stesso sia stato individuato sulla base di
un’analisi delle aree di maggiore criticità ( 37 ).
I riferimenti posti dalla norma impongono in
primo luogo all’amministratore di monitorare
l’eventuale sussistenza di aree di potenziale criticità in quanto ciò rientra nei compiti propri
dell’organo di amministrazione. Allo stesso
tempo il richiamo alla necessità di adottare un
modello organizzativo adeguato costituisce un
indicazione generale che va ben al di là dello
stretto ambito di applicazione del decreto. Il
modello organizzativo ex d.lgs. n. 231/01 non
può essere infatti concepito come un sistema segregato rispetto al complessivo modello operativo e dei controlli del fondo. Le regole dettate
nello specifico per la costruzione del modello ex
d.lgs. n. 231/01 ( 38 ) possono, infatti, costituire il
punto di partenza per l’integrazione dell’operatività del fondo con un sistema adeguato di controlli sufficiente a dimostrare l’assunzione da
parte degli amministratori di un comportamento « professionalmente » adeguato in tema di
organizzazione e controlli.
Raffaele Bruni
( 36 ) Per una disamina dell’applicabilità del d.lgs. 8
giugno 2001, n. 231 alle forme previdenziali previgenti si rimanda a Assoprevidenza (2004), d.lgs. n.
231/01: responsabilità amministrativa degli enti. Informativa, circolare n. 12 del 24 febbraio 2004.
( 37 ) Per la trattazione delle problematiche della
costruzione del modello organizzativo ex 231 in un
caso particolare del mondo finanziario (Banca) si veda ad esempio Aa.Vv., I controlli interni nelle banche. Evoluzione, metodi e casi pratici, Roma, 2003.
( 38 ) Si veda l’art. 6, comma 2o.
638
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Art. 6.
(Regime delle prestazioni e modelli gestionali)
1. I fondi pensione di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a h), gestiscono le risorse mediante:
a) convenzioni con soggetti autorizzati all’esercizio dell’attività di cui all’articolo 1, comma 5,
lettera d), del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, ovvero con soggetti che svolgono la
medesima attività, con sede statutaria in uno dei Paesi aderenti all’Unione europea, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento;
b) convenzioni con imprese assicurative di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, mediante ricorso alle gestioni di cui al ramo VI dei rami vita, ovvero con imprese svolgenti la medesima attività, con sede in uno dei Paesi aderenti all’Unione europea,
che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento;
c) convenzioni con società di gestione del risparmio, di cui al decreto legislativo 24 febbraio
1998, n. 58 e successive modificazioni, ovvero con imprese svolgenti la medesima attività, con
sede in uno dei Paesi aderenti all’Unione europea, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento;
d) sottoscrizione o acquisizione di azioni o quote di società immobiliari nelle quali il fondo
pensione può detenere partecipazioni anche superiori ai limiti di cui al comma 13, lettera a),
nonché di quote di fondi comuni di investimento immobiliare chiusi nei limiti di cui alla lettera e);
e) sottoscrizione e acquisizione di quote di fondi comuni di investimento mobiliare chiusi secondo le disposizioni contenute nel decreto di cui al comma 11, ma comunque non superiori al
20 per cento del proprio patrimonio e al 25 per cento del capitale del fondo chiuso.
2. Gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie, sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, possono stipulare con i fondi pensione convenzioni per l’utilizzazione
del servizio di raccolta dei contributi da versare ai fondi pensione e di erogazione delle prestazioni e delle attività connesse e strumentali anche attraverso la costituzione di società di capitali di cui debbono conservare in ogni caso la maggioranza del capitale sociale; detto servizio
deve essere organizzato secondo criteri di separatezza contabile dalle attività istituzionali del
medesimo ente.
3. ( 1 ) Alle prestazioni di cui all’articolo 11 erogate sotto forma di rendita i fondi pensione
provvedono mediante convenzioni con una o più imprese assicurative di cui all’articolo 2 del
decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, ovvero direttamente, ove sussistano mezzi patrimoniali adeguati, in conformità con le disposizioni di cui all’art. 7-bis. I fondi pensione sono
autorizzati dalla COVIP all’erogazione diretta delle rendite, avuto riguardo all’adeguatezza dei
mezzi patrimoniali costituiti e alla dimensione del fondo per numero di iscritti.
4. ( 2 ).
5. Per le forme pensionistiche in regime di prestazione definita e per le eventuali prestazioni
per invalidità e premorienza, sono in ogni caso stipulate apposite convenzioni con imprese assicurative. Nell’esecuzione di tali convenzioni non si applica l’articolo 7.
5-bis. ( 3 ) Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro
del lavoro e della previdenza sociale, sentita la COVIP, sono individuati:
a) le attività nelle quali i fondi pensione possono investire le proprie disponibilità, avendo
( 1 ) Comma modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 28/07.
( 2 ) Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
( 3 ) Comma introdotto dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
La nuova disciplina della previdenza complementare
639
presente il perseguimento dell’interesse degli iscritti, eventualmente fissando limiti massimi di
investimento qualora siano giustificati da un punto di vista prudenziale;
b) i criteri di investimento nelle varie categorie di valori mobiliari;
c) le regole da osservare in materia di conflitti di interesse tenendo conto delle specificità dei
fondi pensione e dei principi di cui alla direttiva 2004/39/CE, alla normativa comunitaria di
esecuzione e a quella nazionale di recepimento.
5-ter. ( 4 ) I fondi pensione definiscono gli obiettivi e i criteri della propria politica di investimento, anche in riferimento ai singoli comparti eventualmente previsti, e provvedono periodicamente, almeno con cadenza triennale, alla verifica della rispondenza degli stessi agli interessi
degli iscritti.
5-quater. ( 5 ) Secondo modalità definite dalla COVIP, i fondi pensione danno informativa
agli iscritti delle scelte di investimento e predispongono apposito documento sugli obiettivi e
sui criteri della propria politica di investimento, illustrando anche i metodi di misurazione e le
tecniche di gestione del rischio di investimento utilizzate e la ripartizione strategica delle attività in relazione alla natura e alla durata delle prestazioni pensionistiche dovute. Il documento
è riesaminato almeno ogni tre anni ed è messo a disposizione degli aderenti e dei beneficiari
del fondo pensione o dei loro rappresentanti che lo richiedano.
6. Per la stipula delle convenzioni di cui ai commi 1, 3 e 5, e all’articolo 7, i competenti organismi di amministrazione dei fondi, individuati ai sensi dell’articolo 5, comma 1, richiedono
offerte contrattuali, per ogni tipologia di servizio offerto, attraverso la forma della pubblicità
notizia su almeno due quotidiani fra quelli a maggiore diffusione nazionale o internazionale, a
soggetti abilitati che non appartengono ad identici gruppi societari e comunque non sono legati, direttamente o indirettamente, da rapporti di controllo. Le offerte contrattuali rivolte ai fondi sono formulate per singolo prodotto in maniera da consentire il raffronto dell’insieme delle
condizioni contrattuali con riferimento alle diverse tipologie di servizio offerte.
7. Con deliberazione delle rispettive autorità di vigilanza sui soggetti gestori, che conservano
tutti i poteri di controllo su di essi, sono determinati i requisiti patrimoniali minimi, differenziati per tipologia di prestazione offerta, richiesti ai soggetti di cui al comma 1 ai fini della stipula delle convenzioni previste nel presente articolo.
8. Il processo di selezione dei gestori deve essere condotto secondo le istruzioni adottate dalla
COVIP e comunque in modo da garantire la trasparenza del procedimento e la coerenza tra
obiettivi e modalità gestionali, decisi preventivamente dagli amministratori, e i criteri di scelta
dei gestori. Le convenzioni possono essere stipulate, nell’ambito dei rispettivi regimi, anche
congiuntamente fra loro e devono in ogni caso:
a) contenere le linee di indirizzo dell’attività dei soggetti convenzionati nell’ambito dei criteri di individuazione e di ripartizione del rischio di cui al comma 11 e le modalità con le quali
possono essere modificate le linee di indirizzo medesime; nel definire le linee di indirizzo della
gestione, i fondi pensione possono prevedere linee di investimento che consentano di garantire
rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del TFR;
b) prevedere i termini e le modalità attraverso cui i fondi pensione esercitano la facoltà di recesso, contemplando anche la possibilità per il fondo pensione di rientrare in possesso del proprio patrimonio attraverso la restituzione delle attività finanziarie nelle quali risultano investite le risorse del fondo all’atto della comunicazione al gestore della volontà di recesso dalla convenzione;
c) prevedere l’attribuzione in ogni caso al fondo pensione della titolarità dei diritti di voto
inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le disponibilità del fondo medesimo.
( 4 ) Comma introdotto dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
( 5 ) Comma introdotto dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07.
640
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
9. I fondi pensione sono titolari dei valori e delle disponibilità conferiti in gestione, restando
peraltro in facoltà degli stessi di concludere, in tema di titolarità, diversi accordi con i gestori a
ciò abilitati nel caso di gestione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale.
I valori e le disponibilità affidati ai gestori di cui al comma 1 secondo le modalità ed i criteri
stabiliti nelle convenzioni costituiscono in ogni caso patrimonio separato ed autonomo, devono
essere contabilizzati a valori correnti e non possono essere distratti dal fine al quale sono stati
destinati, né formare oggetto di esecuzione sia da parte dei creditori dei soggetti gestori, sia da
parte di rappresentanti dei creditori stessi, né possono essere coinvolti nelle procedure concorsuali che riguardano il gestore. Il fondo pensione è legittimato a proporre la domanda di rivendicazione di cui all’articolo 103 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Possono essere rivendicati tutti i valori conferiti in gestione, anche se non individualmente determinati o individuati ed anche se depositati presso terzi, diversi dal soggetto gestore. Per l’accertamento dei valori oggetto della domanda è ammessa ogni prova documentale, ivi compresi i rendiconti redatti dal gestore o dai terzi depositari.
10. Con delibera della COVIP, assunta previo parere dell’autorità di vigilanza sui soggetti
convenzionati, sono fissati criteri e modalità omogenee per la comunicazione ai fondi dei risultati conseguiti nell’esecuzione delle convenzioni in modo da assicurare la piena comparabilità
delle diverse convenzioni.
11. ( 6 ).
12. I fondi pensione, costituiti nell’ambito delle autorità di vigilanza sui soggetti gestori a favore dei dipendenti delle stesse, possono gestire direttamente le proprie risorse.
13. ( 7 ) I fondi non possono comunque assumere o concedere prestiti, prestare garanzie in favore di terzi né investire le disponibilità di competenza:
a) in azioni o quote con diritto di voto, emesse da una stessa società, per un valore nominale
superiore al cinque per cento del valore nominale complessivo di tutte le azioni o quote con diritto di voto emesse dalla società medesima se quotata, ovvero al dieci per cento se non quotata,
né comunque, azioni o quote con diritto di voto per un ammontare tale da determinare in via
diretta un’influenza dominante sulla società emittente;
b) in azioni o quote emesse da soggetti tenuti alla contribuzione o da questi controllati direttamente o indirettamente, per interposta persona o tramite società fiduciaria, o agli stessi legati
da rapporti di controllo ai sensi dell’articolo 23 del decreto legislativo 1o settembre 1993, n.
385, in misura complessiva superiore al venti per cento delle risorse del fondo e, se trattasi di
fondo pensione di categoria, in misura complessiva superiore al trenta per cento;
c) fermi restando i limiti generali indicati alla lettera b), i fondi pensione aventi come destinatari i lavoratori di una determinata impresa non possono investire le proprie disponibilità in
strumenti finanziari emessi dalla predetta impresa, o, allorché l’impresa appartenga a un gruppo, dalle imprese appartenenti al gruppo medesimo, in misura complessivamente superiore, rispettivamente, al cinque e al dieci per cento del patrimonio complessivo del fondo.
Per la nozione di gruppo si fa riferimento all’articolo 23 del decreto legislativo 1o settembre
1993, n. 385;
c-bis). ( 8 ) Il patrimonio del fondo pensione deve essere investito in misura predominante su
mercati regolamentati. Gli investimenti in attività che non sono ammesse allo scambio in un
mercato regolamentato devono in ogni caso essere mantenute a livelli prudenziali.
14. Le forme pensionistiche complementari sono tenute ad esporre nel rendiconto annuale e,
sinteticamente, nelle comunicazioni periodiche agli iscritti, se ed in quale misura nella gestione
( 6 ) Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o del d.lgs. n. 28/07.
( 7 ) Comma modificato dall’art. 1, comma 5o, del d.lgs. n. 28/07.
( 8 ) Lettera introdotta dall’art. 1, comma 2o, del d.lgs. n. 28/07.
La nuova disciplina della previdenza complementare
641
delle risorse e nelle linee seguite nell’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei valori in
portafoglio si siano presi in considerazione aspetti sociali, etici ed ambientali.
Art. 7.
(Banca depositaria)
1. Le risorse dei fondi, affidate in gestione, sono depositate presso una banca distinta dal gestore che presenti i requisiti di cui all’articolo 38 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58.
2. ( 9 ) La banca depositaria esegue le istruzioni impartite dal soggetto gestore del patrimonio
del fondo, se non siano contrarie alla legge, allo statuto del fondo stesso e ai criteri stabiliti nel
decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di cui all’articolo 6, comma 5-bis.
3. Si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni di cui al citato articolo 38 del decreto
n. 58 del 1998. Gli amministratori e i sindaci della banca depositaria riferiscono senza ritardo
alla COVIP sulle irregolarità riscontrate nella gestione dei fondi pensione.
3-bis. ( 10 ) Fermo restando quanto previsto dai commi 1, 2, e 3, quale banca depositaria può
anche essere nominata una banca stabilita in un altro Stato membro, debitamente autorizzata a
norma della direttiva 93/22/CEE o della direttiva 2000/12/CE, ovvero operante come depositaria ai fini della direttiva 85/611/CEE.
3-ter. ( 11 ) La Banca d’Italia può vietare la libera disponibilità degli attivi, depositati presso
una banca avente sede legale in Italia, di un fondo pensione avente sede in uno Stato membro.
La Banca d’Italia provvede su richiesta della COVIP, anche previa conforme iniziativa dell’Autorità competente dello Stato membro di origine del fondo pensione quando trattasi di forme
pensionistiche comunitarie di cui all’articolo 15-ter.
Art. 7 bis ( 12 ).
(Mezzi patrimoniali)
1. I fondi pensione che coprono rischi biometrici, che garantiscono un rendimento degli investimenti o un determinato livello di prestazioni devono dotarsi, nel rispetto dei criteri di cui
al successivo comma 2, di mezzi patrimoniali adeguati in relazione al complesso degli impegni
finanziari esistenti, salvo che detti impegni finanziari siano assunti da soggetti gestori già sottoposti a vigilanza prudenziale a ciò abilitati, i quali operano in conformità alle norme che li
disciplinano.
2. Con regolamento del Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la COVIP, la Banca
d’Italia e l’ISVAP, sono definiti i principi per la determinazione dei mezzi patrimoniali adeguati in conformità con quanto previsto dalle disposizioni comunitarie e dall’articolo 29-bis,
comma 3, lettera a), numero 3), della legge 18 aprile 2005, n. 62. Nel regolamento sono, inoltre, definite le condizioni alle quali una forma pensionistica può, per un periodo limitato, detenere attività insufficienti.
3. La COVIP può, nei confronti delle forme di cui al comma 1, limitare o vietare la disponibilità dell’attivo qualora non siano stati costituiti i mezzi patrimoniali adeguati in conformità
al regolamento di cui al comma 2. Restano ferme le competenze delle autorità di vigilanza sui
soggetti gestori.
( 9 ) Comma modificato dall’art. 1, comma 3o, del d.lgs. n. 28/07.
( 10 ) Comma introdotto dall’art. 3 del d.lgs. n. 28/07.
( 11 ) Comma introdotto dall’art. 3 del d.lgs. n. 28/07.
( 12 ) Articolo introdotto dall’art. 4 del d.lgs. n. 28/07.
642
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
La gestione delle risorse dei fondi pensione chiusi
Sommario (artt. 6, 7, 7 bis): 1. Introduzione: la gestione
delle risorse dei fondi pensione dal d.lgs. n. 124/93 al
d.lgs. n. 252/05. – 2. L’ambito di applicazione delle
disposizioni dell’art. 6, d.lgs. n. 252/05 relative alla
gestione dei fondi pensione. – 3. La gestione delle risorse nelle forme pensionistiche complementari a prestazione definita. – 4. La gestione delle risorse nelle
forme pensionistiche complementari a contribuzione
definita: il favor del legislatore per la gestione indiretta delle risorse. – 4.1. La gestione diretta. – 4.2. La gestione indiretta (o convenzionata). – 4.2.1. Le convenzioni di gestione. – 4.2.2. Il regime del patrimonio
conferito in gestione. – 4.2.3. I criteri di impiego delle
risorse dei fondi pensione e i limiti agli investimenti. –
4.2.4. Le regole sul conflitto di interessi. – 4.2.5. La
responsabilità sociale d’impresa nella gestione dei
fondi pensione. – 4.2.6. Le convenzioni per i servizi
accessori. – 5. L’erogazione delle prestazioni. – 6. La
banca depositaria ex art. 7 d.lgs. n. 252. – 7. Conclusioni: la via interrotta della democrazia economica.
1. – La riforma della previdenza complementare attuata con il d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
(di seguito anche: il decreto) non apporta consistenti modifiche alle disposizioni riguardanti la
gestione delle risorse dei fondi pensione ( 13 ),
per lo più concentrate negli artt. 6 del decreto qui commentato ( 14 ), e rispettivamente 6 ( 15 ),
( 13 ) Il rilievo della prima dottrina che si è cimentata nell’esegesi dell’art. 6 d.lgs. n. 252/05 (v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2006, pp. 6-7 e 38) è autorevolmente condiviso dalla COVIP (v. la deliberazione
28 giugno 2006 contenente « Direttive generali alle
forme pensionistiche complementari, ai sensi dell’art. 23, comma 3o, del d.lgs. 5 dicembre 2005, n.
252 », sub « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». Per un primo commento di questa deliberazione v. Mastantuono e Pellegrini, E la riforma va avanti, in Newsletter Mefop,
2006, 26, pp. 2-3).
( 14 ) Sul quale v. Gheido e Casotti, Le principali
novità, in Aa.Vv., La riforma della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., 2006, ins. n. 3, p. IV; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, ibid.,
p. XII ss.; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.
( 15 ) Tra i numerosi autori che hanno commentato
questo articolo v. Mastrangeli, La disciplina dei
fondi pensione nei decreti legislativi n. 124 e n. 585
del 1993, in Riv. it. dir. lav., 1994, I, pp. 161-163;
Mantucci, Art. 6 – Regime delle prestazioni e mo-
6 ter del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124.
Le novità erano prefigurate nell’art. 1, comma
2o della legge di delega 23 agosto 2004, n. 243, e
in linea di massima l’art. 6, d.lgs. n. 252/05 si è
mantenuto nei confini da esso tracciati. Così,
l’art. 6, comma 8o, lett. a), ult. periodo, d.lgs. n.
delli gestionali, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari (D.lgs. 21 aprile 1993, n. 124), a
cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, pp. 193-195;
Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, in
Bancaria, 1996, 10, pp. 2 ss.; Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio
tra i gestori, in Contr. e impr., 1996, p. 1103 ss.; Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi
pensione, in La riforma del sistema pensionistico, a
cura di Cinelli, Torino, 1996, p. 416 ss.; Brambilla,
Capire i fondi pensione, Milano, 1997, p. 13 ss.;
Candian, I fondi pensione, Milano, 1998, p. 42 ss. e
112 ss.; Ciocca, La libertà della previdenza privata,
Milano, 1998, p. 152 ss.; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina,
in Banca impr. soc., 1999, p. 193 ss.; Bessone, Previdenza complementare, Torino, 2000, p. 263 ss.; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di Ferraro, I, Milano, 2000, p. 167 ss.; Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, Milano, 2002, p.
74 ss.; Salerno, La gestione finanziaria delle risorse
dei fondi pensione, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I,
p. 363 ss.; Bessone, Fondo pensione e discipline di
contratto. Le convenzioni per la gestione finanziaria,
in Dir. lav., 2002, I, p. 39 ss.; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza,
Milano, 2002, p. 101 ss.; Id., La gestione assicurativa
delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle prestazioni complementari,
in Assicurazioni, 2003, p. 508 ss.; Bessone, Fondi
pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità
previdenziale. Sezione I. L’ordinamento delle attività
dei fondi pensione negoziali e « chiusi », in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci,
Diritto del lavoro. Commentario, diretto da F. Carinci, IV, Torino, 2004, p. 340 ss.; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e
modelli organizzativi, Padova, 2004, p. 245 ss.; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione
chiusi, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2005, p. 131 ss.; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.
La nuova disciplina della previdenza complementare
252/05 attua l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 10), l.
n. 243/04 prevedendo la possibilità che i fondi
inseriscano nelle convenzioni di gestione clausole relative a linee di investimento che consentano di garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del t.f.r.; l’art. 6, comma 14o,
d.lgs. n. 252/05 dà seguito alla delega ex art. 1,
comma 2o, lett. l), l. n. 243/04 disponendo per i
fondi l’obbligo di menzionare nel rendiconto
annuale e nelle comunicazioni periodiche agli
iscritti se ed in quale misura la gestione delle risorse e l’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei valori sia stata improntata ai principi
della responsabilità sociale d’impresa. Non è
contenuta nell’art. 6 del decreto, ma riguarda
comunque la gestione delle risorse dei fondi, la
previsione in base alla quale le convenzioni di
gestione non sono più soggette all’autorizzazione preventiva della Commissione di vigilanza
sui fondi pensione (di seguito: COVIP) ( 16 ): in
questo caso è l’art. 19, comma 2o, lett. d)-e), d.lgs. n. 252/05 che dà attuazione a quanto prescritto nell’art. 1, comma 2o, lett. h), n. 3), l. n.
243/04.
Salvo qualche sporadica eccezione l’art. 6,
d.lgs. n. 252 riordina mantenendosi fedele al
testo originario il materiale contenuto negli
artt. 6 e 6 ter, d.lgs. n. 124. Con riferimento a
questo articolo sono dunque meno pressanti i
dubbi di eccesso di delega sollevati da attenta
dottrina ( 17 ) con riferimento ad altre parti del
decreto, nelle quali il legislatore delegato si è
esercitato in maniera meno aderente al testo
del d.lgs. n. 124 e all’art. 1, comma 1o, lett. c)
( 16 ) L’art. 1, comma 3o, lett. c), d.lgs. n. 252 aveva
mutato la denominazione della COVIP in « Commissione di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari »; il successivo d.l. 13 novembre 2006, n. 279
è ritornato al nome originale (art. 2), e la modifica è
stata confermata dalla legge finanziaria per il 2007
(art. 1, comma 751o, l. 27 dicembre 2006, n. 296). Peraltro, il d.d.l. in materia di funzioni, organizzazione
e attività delle Autorità indipendenti di regolazione,
vigilanza e garanzia dei mercati, approvato dal Consiglio dei ministri del 2 febbraio 2007, prevede la soppressione della COVIP e la ripartizione delle funzioni da essa esercitate tra la Banca d’Italia e la CONSOB.
( 17 ) V. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova
legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, I, pp. 146-148.
643
e comma 2o, lett. e), h), i), l), e v), l. n. 243/04.
Com’è noto, infatti, il d.lgs. n. 252/05 dà attuazione soltanto all’art. 1, comma 1o, lett. c) e
comma 2o, lett. e), h), i), l), e v) della l. n. 243/
04, e precisamente alla parte che prevede la riforma della disciplina vigente dettando puntuali criteri direttivi; il decreto non richiama
invece l’art. 1, comma 50o, che incarica il Governo di apprestare uno o più testi unici in
materia di previdenza obbligatoria e di previdenza complementare, consentendo al legislatore delegato una maggiore autonomia anche a
fini di semplificazione e coordinamento ( 18 ).
Per questo motivo, qualsiasi formulazione innovativa del decreto che non trovi puntuale riscontro nell’art. 1, comma 2o, l. n. 243/04 potrebbe rivelarsi incostituzionale sotto il profilo
dell’eccesso di delega. È pertanto da condividere l’indicazione metodologica che si pone
l’obiettivo di salvaguardare la legittimità costituzionale del decreto, favorendo per quanto
possibile un’interpretazione dello stesso che si
ponga in continuità con il d.lgs. n. 124/93 nei
punti in cui le innovazioni non trovino copertura nella delega ex art. 1, comma 2o, l. n. 243/
04 ( 19 ) (condivide questo approccio interpretativo Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 1).
Il quadro di sostanziale continuità tra l’art.
6, d.lgs. n. 252 e gli artt. 6 e 6 ter, d.lgs. n.
124/93 è stato solo marginalmente inciso dal
decreto legislativo n. 28, approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 2 febbraio
2007. Il d.lgs. n. 28/07 reca disposizioni di
« attuazione della dir. 2003/41/CE in tema di
attività e di supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali » in esecuzione della delega conferita al Governo dall’art. 29 bis
della legge comunitaria 18 aprile 2005, n. 62,
introdotto dall’art. 18 della legge 25 gennaio
( 18 ) Peraltro si sono espressi fondati dubbi sul
fatto che questa disposizione sia sufficiente per
« dare copertura oltre certi limiti a misure del tutto
innovative »: così Pandolfo, Prime osservazioni
sulla nuova legge sulla previdenza complementare a
mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005,
cit., p. 147.
( 19 ) V. in questo senso Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005,
cit., p. 148.
644
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
2006, n. 29. L’art. 1, d.lgs. n. 28/07 inserisce
nell’art. 6, d.lgs. n. 252/05 i commi 5o bis, 5o
ter e 5o quater, mentre l’art. 7, comma 1o, lett.
c), d.lgs. n. 28/07 abroga contestualmente il
comma 11o dell’art. 6, d.lgs. n. 252. La nuova
disciplina si caratterizza in particolare per l’imposizione a carico dei fondi pensione di più
penetranti obblighi di trasparenza nei confronti degli iscritti sulle proprie scelte di investimento. L’art. 1, comma 2o, d.lgs. n. 28/07 aggiunge invece al comma 13o dell’art. 6, d.lgs.
n. 252 una lett. c bis): l’obiettivo è quello di indirizzare gli investimenti dei fondi pensione in
modo predominante verso i mercati regolamentati. Si tratta senza dubbio di modifiche
importanti: tuttavia, come si vedrà nei luoghi
opportuni, esse non alterano i tratti essenziali
che la disciplina della gestione delle risorse dei
fondi pensione ex d.lgs. n. 252 ha ereditato dal
d.lgs. n. 124/93.
La continuità del d.lgs. n. 252 rispetto alla
disciplina previgente in materia di gestione
delle risorse dei fondi pensione si spiega anche
con la circostanza che, dopo il varo del d.lgs.
n. 124/93, i necessari aggiustamenti erano già
stati operati dalla l. n. 335/95 ( 20 ). In particolare, la direzione intrapresa era stata, da un lato,
quella di un incremento della competizione tra
i gestori al fine di un più redditizio impiego
delle risorse dei fondi; dall’altro lato, quella di
una maggiore tutela del patrimonio dei fondi
stessi nell’ottica di una più efficace protezione
del risparmio previdenziale; dall’altro lato ancora, quella del potenziamento della democrazia azionaria mediante un più diretto coinvolgimento dei fondi pensione nelle dinamiche
delle società in cui risultava investito il loro
patrimonio. Per un verso, le disposizioni introdotte incrementavano il numero degli intermediari finanziari abilitati alla gestione delle risorse dei fondi, aggiungendo le società di gestione del risparmio; eliminavano invece dal
novero dei soggetti abilitati gli enti gestori di
( 20 ) In particolare dall’art. 3, comma 26o, che aveva abbondantemente novellato l’originario art. 6 del
d.lgs. n. 124/93. Su queste modifiche v. diffusamente
Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione,
gestione e vigilanza, cit., p. 124 ss.; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 37 ss.
forme di previdenza obbligatoria ( 21 ); introducevano un procedimento di evidenza pubblica
per la stipulazione delle convenzioni di gestione. Per altro verso, le nuove disposizioni chiarivano la natura separata e autonoma del patrimonio dei fondi pensione conferito in gestione
agli intermediari. Per altro verso ancora, affermavano espressamente il principio della titolarità in capo ai fondi dei diritti di voto inerenti
ai valori mobiliari nei quali risultavano investite le risorse. Successivamente l’art. 71, comma
3o, lett. c), l. n. 144/99 aggiungeva al d.lgs. n.
124 un nuovo art. 6 ter, che estendeva la particolare procedura di evidenza pubblica anche
alle convenzioni diverse da quelle di gestione.
2. – L’art. 6 d.lgs. n. 252/05 presenta un ambito di applicazione più ampio rispetto a quello
del corrispondente articolo del d.lgs. n. 124/93.
Quest’ultima disposizione era ritenuta pacificamente applicabile nella sua interezza soltanto ai
fondi chiusi di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 124 ( 22 ).
Ora però l’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 richiama tutte le forme pensionistiche complementari
che il nuovo art. 1, comma 3o definisce « collettive » ( 23 ): esso infatti si riferisce ai « fondi pen-
( 21 ) I primi commentatori avevano messo in evidenza i rischi che avrebbe potuto rappresentare la
presenza degli enti gestori di forme obbligatorie di
previdenza per il nascente mercato della gestione delle risorse di fondi pensione. Da un lato, enti a capillare diffusione sul territorio come l’INPS avrebbero
potuto costituire una concorrenza insormontabile
per gli altri soggetti desiderosi di entrare in questo
ricco business. Dall’altro lato, la situazione non particolarmente florida di enti pubblici come l’INPS ne
sconsigliava il coinvolgimento nel secondo pilastro
del sistema pensionistico. Cfr. Mantucci, Art. 6 –
Regime delle prestazioni e modelli gestionali, cit., p.
194, anche alla nt. 7; Gai, I fondi pensione. Il loro
contributo allo sviluppo dei mercati finanziari e all’avvento della democrazia economica, Torino, 1996, pp.
87-88.
( 22 ) V. Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, in
Banca, borsa, tit. cred., 1996, I, pp. 335-336.
( 23 ) Sulle criticità di questa nuova definizione, v.
Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla
previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., pp. 151-154, per il
quale « una caratteristica comune delle forme collettive è, forse, da individuare nella destinazione delle
stesse ad aree di (potenziali) aderenti più o meno am-
La nuova disciplina della previdenza complementare
sione di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a)
a h) ». Così in particolare rientrano nell’ambito
di applicazione dell’art. 6 anche le forme pensionistiche istituite dalle regioni e disciplinate
secondo loro leggi regionali [art. 3, comma 1o,
lett. d), d.lgs. n. 252] ( 24 ); quelle istituite dalle
Casse professionali, direttamente o a seguito di
contratto collettivo o accordo tra liberi professionisti [art. 3, comma 1o, lett. g), d.lgs. n.
252] ( 25 ); nonché i fondi pensione aperti (si deve ritenere soltanto con riferimento all’adesione
su base collettiva ex art. 12, comma 2o, d.lgs. n.
252) ( 26 ) [art. 3, comma 1o, lett. h), d.lgs. n.
252].
L’applicazione dell’art. 6 a queste nuove ipotesi crea qualche problema di compatibilità.
Pare certo opportuno che i fondi pensione isti-
pie, ma comunque in qualche modo circoscritte nell’ambito dei potenziali destinatari della previdenza
complementare » (p. 152) (sembra condividere implicitamente questa interpretazione anche la Deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione
« Definizioni »); Tursi, Le fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, in Newsletter
Mefop, 2006, 25, p. 5; Bonardi, sub art. 1, in questo
Commentario, par. 5.
( 24 ) In questo senso anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione
delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». Sui problemi interpretativi posti dall’inclusione di questa nuova forma pensionistica complementare (che non vale a fugare i dubbi che il d.lgs. n. 252
solleva non soltanto in riferimento ad un eventuale
eccesso di delega, ma anche alla violazione della competenza legislativa concorrente che spetta alle Regioni ex art. 117, comma 3o, Cost. in materia di previdenza complementare) v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005,
cit., pp. 156-159; Bollani, sub art. 3, in questo Commentario, par. 5; Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 1.
( 25 ) In questo senso anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione
delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». L’introduzione di questa nuova fonte istitutiva ha anticipato l’entrata in vigore della riforma
complessiva: l’art. 1, comma 35o, l. n. 243/04 aveva
infatti già modificato in questa direzione l’art. 3, d.lgs. n. 124/93, prevedendo un nuovo comma 1o bis,
in tutto analogo all’art. 3, comma 1o, lett. g), d.lgs.
n. 252.
( 26 ) Cfr. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006,
cit., nella sezione « Definizioni ».
645
tuiti dalle Regioni affidino la gestione dei contributi raccolti ad un gestore professionale ex
art. 6, comma 1o, e rispettino le altre disposizioni dell’art. 6 in materia di convenzioni di gestione, limiti agli investimenti, conflitti di interesse e responsabilità sociale d’impresa. È tuttavia dubbio che la disciplina tracciata dall’art.
6, anche per come completata dalle disposizioni di natura regolamentare adottate in attuazione di essa, si limiti ai « principi fondamentali »
come richiesto dall’art. 117, comma 3o, ult.
cpv., Cost. nelle materie di legislazione concorrente, cui anche la previdenza complementare,
com’è noto, appartiene ( 27 ). Sembra poi curioso che le Casse professionali possano istituire
fondi di previdenza complementare per i propri iscritti senza essere abilitate alla gestione diretta delle risorse al di fuori dei limiti tracciati
per tutti i fondi pensione chiusi dall’art. 6,
comma 1o, d.lgs. n. 252. Ha probabilmente pesato un po’ di sfiducia del legislatore per questi
enti privatizzati alla metà degli anni ’90, la cui
esperienza di gestione diretta di risorse pensionistiche non va al di là di quella resa possibile
dal metodo della ripartizione e, più recentemente, di quello a capitalizzazione « virtuale »
ex lege n. 335/95 ( 28 ).
L’estensione della disciplina ex art. 6, comma
1o, ai fondi pensione aperti, anche eventualmente soltanto nel caso di adesione su base collettiva, è invece del tutto irrazionale. Da un lato
l’art. 6, comma 1o, richiamando i fondi pensione aperti, limita fortemente il ricorso alla gestione diretta delle risorse. Dall’altro lato, l’art. 12,
comma 1o, risolvendo testualmente un dubbio
che l’imperfetta formulazione del precedente
art. 9 d.lgs. n. 124/93 lasciava astrattamente sus-
( 27 ) Sull’equivoco in cui è caduto il legislatore nella stesura di questa previsione del d.lgs. n. 252 v.
Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla
previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., pp. 156-159; Tursi,
Le fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, cit., p. 5.
( 28 ) Perplessità analoghe avevano condotto nel
1995 all’eliminazione degli enti gestori di forme di
previdenza obbligatoria dal novero dei soggetti abilitati alla gestione delle risorse dei fondi pensione: cfr.
Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1105, nt. 7.
646
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
sistere ( 29 ), stabilisce che banche, società di investimento mobiliare, assicurazioni, società di
gestione del risparmio « possono istituire e gestire direttamente forme pensionistiche complementari mediante la costituzione di appositi
fondi [...] aperti ». Si è evidentemente in presenza di un difettoso coordinamento tra gli artt.
3, comma 1o, 6, comma 1o e 12 del d.lgs. n. 252/
05. Infatti, non ha davvero alcun senso imporre
a gestori professionali in gran parte coincidenti ( 30 ) con quelli abilitati alla gestione delle risorse dei fondi chiusi ex art. 6, comma 1o, d.lgs.
n. 252 di ricorrere ad un concorrente per inve-
29
( ) Cfr. Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti,
cit., p. 335.
( 30 ) La versione originaria dell’art. 12, comma 1o,
d.lgs. n. 252 richiamava espressamente tutti i soggetti
abilitati alla gestione delle risorse dei fondi pensione
chiusi ex art. 6, comma 1o. L’art. 12, comma 1o è stato però recentemente novellato dall’art. 1, comma 6o,
d.lgs. n. 28/07, che ha sostituito questo richiamo generico con uno più specifico alle SIM e alle SGR nazionali, alle banche e alle assicurazioni autorizzate all’esercizio dell’attività in Italia. Il campo di applicazione dell’art. 12, comma 1o ne esce al tempo stesso
in parte più ampio e in parte più ristretto: le SIM e le
SGR estere non risultano più autorizzate ad istituire
e gestire fondi pensione aperti, nemmeno se stabilite
in Paesi che hanno ottenuto il mutuo riconoscimento, mentre, stando alla lettera della novella, d’ora innanzi anche le assicurazioni diverse da quelle appartenenenti al ramo VI dei rami vita potrebbero istituire e gestire fondi pensione aperti. La ratio della novella non appare agevolmente comprensibile. La riserva di attività per SIM e SGR italiane si giustifica
forse con l’accesso diretto al mercato del nostro Paese di cui ora godono i fondi pensione degli altri Stati
dell’Unione europea grazie al nuovo art. 15 ter, d.lgs.
n. 252/05 (introdotto dall’art. 5, comma 1o, d.lgs. n.
28/07). Quanto al riferimento generico a tutte le imprese assicuratrici, sembra consigliabile un’esegesi in
continuità con il dato normativo previgente, che riservava l’istituzione e gestione dei fondi aperti alle
sole assicurazioni di ramo VI dei rami vita. In questo
senso sembrano comunque deporre gli argomenti di
carattere sistematico desumibili dagli artt. 6, comma
1o, d.lgs. n. 252 e 2, comma 1o, d.lgs. 7 settembre
2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private – di
seguito: c.a.p.): infatti, tra le imprese assicurative dei
rami vita soltanto quelle del ramo VI svolgono un’attività di gestione puramente finanziaria, senza alcun
contenuto assicurativo. V. infra anche alle nt. 51 e
114. Su tutte queste problematiche v. più diffusamente Pallini, sub art. 12, in questo Commentario.
stire in strumenti finanziari ( 31 ) le risorse del
fondo aperto che essi hanno costituito! In questo caso l’interpretazione in continuità con
quella affermatasi nella vigenza del d.lgs. n.
124/93 ( 32 ) si giustifica anche in relazione alla
scarsa copertura che la legge di delega offrirebbe ad una innovazione di questo tipo ( 33 ). Si deve dunque concludere per l’inapplicabilità dell’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252/05 ai fondi pensione aperti: questi ultimi saranno pertanto costituiti nella forma del patrimonio di destinazione ad opera dei soggetti di cui all’art. 12, comma 1o, d.lgs. n. 252 ( 34 ) (come modificato ad
( 31 ) Diversi dalle azioni o quote di società immobiliari e dalle quote di fondi comuni di investimento
mobiliare o immobiliare chiusi: cfr. l’art. 6, comma
1o, d.lgs. n. 252/05.
( 32 ) Nel senso della continuità sembrerebbe deporre anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006,
cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme
pensionistiche complementari », quando afferma che
in punto di gestione « il decreto sostanzialmente conferma l’attuale disciplina ».
( 33 ) V. retro il par. 1.
( 34 ) Secondo la COVIP la forma del patrimonio di
destinazione è l’unica utilizzabile per la costituzione
di fondi pensione aperti: v. la deliberazione COVIP
28 giugno 2006, cit., nella sezione « Costituzione dei
fondi pensione e autorizzazione all’esercizio ». L’art.
4, d.lgs. n. 252 sembrerebbe ammettere anche la costituzione come associazione riconosciuta o non riconosciuta, ovvero come fondazione. Questa disposizione, infatti, dopo aver stabilito in via generale al
comma 1o che i fondi pensione sono costituiti come
associazione riconosciuta o non riconosciuta, ovvero
come fondazione, aggiunge al comma 2o che i fondi
aperti « possono essere costituiti altresì nell’ambito
della singola società [...] attraverso la formazione [...]
di un patrimonio di destinazione ». Questa apparente
facoltà di scelta, che è evidentemente priva di senso
per i fondi aperti, è prontamente smentita dall’art.
12, comma 1o, d.lgs. n. 252, che fa riferimento esclusivamente alla forma del patrimonio di destinazione
rinviando al solo comma 2o dell’art. 4. La formulazione difettosa dell’art. 4 è dimostrata anche dalla lettura combinata degli artt. 4, commi 1o e 2o, e 9, comma
1o, d.lgs. n. 124/93, che non davano invece adito ad
alcun equivoco e stabilivano la sola forma del patrimonio di destinazione per i fondi aperti [in dottrina
v. per tutti Candian, Linee ricostruttive in materia di
fondi pensione, in I fondi di previdenza e di assistenza
complementare, a cura di Iudica, Padova, 1998, p.
119; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario.
Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione II – Fondi
La nuova disciplina della previdenza complementare
opera dell’art. 1, comma 6o, d.lgs. n. 28/07), e
tali soggetti gestiranno direttamente ( 35 ) le risorse raccolte nel rispetto della specifica disciplina di settore ad essi applicabile in materia di
limiti di investimento e conflitti di interesse ( 36 ).
Tuttavia, le disposizioni dell’art. 6 in materia di
limiti all’investimento e conflitti di interesse
(art. 6, commi 5o bis e 13o, d.lgs. n. 252, come
modificato dal d.lgs. n. 28/07), nonché di responsabilità sociale d’impresa (art. 6, comma
14o) si applicheranno, per quanto possibile e alla stregua di lex specialis, anche ai fondi pensione aperti ( 37 ): infatti, queste disposizioni sono
pensione aperti. L’offerta di mercato e le regole di gestione del portafoglio previdenziale, in La previdenza
complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit.,
pp. 396-397]. È questo dunque un caso eclatante in
cui è necessario utilizzare il criterio interpretativo
della continuità con la disciplina previgente, menzionato retro al par. 1.
( 35 ) Ciò non toglie ovviamente che il soggetto
promotore del fondo pensione aperto possa ricorrere ad un’altra società di cui all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 per l’esecuzione di specifici incarichi di
investimento: cfr. in questo senso la deliberazione
COVIP 16 settembre 1997, recante « Orientamenti
in materia regolamentare: Fondi pensione aperti in
regime di contribuzione definita »; Bessone, Fondi
pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità
previdenziale. Sezione II – Fondi pensione aperti.
L’offerta di mercato e le regole di gestione del portafoglio previdenziale, cit., p. 406; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 250. Se lo desiderano, pur
non essendovi vincolati, come si è sottolineato nel
testo, i soggetti promotori del fondo pensione aperto potranno inoltre applicare « la ripartizione tra
istituzione e gestione », affidando ad altri soggetti
abilitati la gestione dell’intero patrimonio del fondo:
così Miola, La gestione collettiva del risparmio nel
T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 331; analogamente Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p.
250.
( 36 ) Significativamente, del resto, l’art. 12, comma
3o, d.lgs. n. 252 richiama per i fondi pensione aperti
le norme del decreto legislativo in tema « finanziamento, prestazioni e trattamento tributario », ma non
di gestione. La maggior parte delle disposizioni dell’art. 6 presuppongono infatti il rapporto fondo-gestore: cfr. Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti,
cit., pp. 335-336.
( 37 ) Contra però, con riferimento alle corrispondenti disposizioni dell’art. 6 d.lgs. n. 124/93, Volpe
647
ispirate a ragioni di tutela del risparmio previdenziale e rispettivamente di promozione di una
cultura d’impresa socialmente responsabile che
si giustificano pienamente anche nell’ottica dei
fondi pensione aperti.
L’art. 6 d.lgs. n. 252/05 è sicuramente inapplicabile alle forme pensionistiche complementari individuali attuate tramite contratti di assicurazione sulla vita: a tacere del mancato richiamo da parte dell’art. 6, comma 1o, l’art.
13, comma 3o stabilisce che la gestione delle
risorse di tali forme pensionistiche « avviene
secondo le regole d’investimento di cui al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 » (il Codice della
assicurazione private – di seguito: c.a.p.). Secondo l’art. 13, comma 3o (come modificato
dall’art. 1, comma 4o, d.lgs. n. 28/07) le assicurazioni dovranno comunque rispettare i « principi di cui all’art. 6, comma 5o bis, lett. c) »,
ovvero le disposizioni in materia di conflitto di
interessi stabilite dalla normativa regolamentare ( 38 ). Si deve ritenere applicabile alle forme
pensionistiche complementari individuali attuate tramite contratti di assicurazione sulla vita anche la disposizione in materia di responsabilità sociale d’impresa (art. 6, comma
14o) ( 39 ): l’obbligo di comunicazione in essa
contenuto risulta di applicazione generale (« le
forme pensionistiche complementari sono tenute »), come conferma anche la legge delega ( 40 ), e non sorgono particolari problemi nell’estenderlo alle forme pensionistiche attuate
dalle assicurazioni ( 41 ).
Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., pp. 335-336;
Miola, La gestione collettiva del risparmio nel
T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 332. Nivarra,
Conflitto di interessi e fondi pensione, in Riv. dir. impr., 1999, p. 295, nota che, in materia di conflitto di
interessi, « il discorso riguarda essenzialmente i fondi pensione chiusi – ove la istituzionale separatezza
tra il momento della raccolta e il momento della gestione prelude a quella proliferazione di soggetti che
[...] rappresenta il brodo di coltura del conflitto di
interessi ».
( 38 ) Sulla quale v. infra il par. 4.2.4.
( 39 ) Sulla quale v. infra il par. 4.2.5.
( 40 ) Cfr. l’art. 1, comma 2o, lett. l), l. n. 243/04:
« prevedere che tutte le forme pensionistiche complementari siano tenute ».
( 41 ) In questo senso anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione
delle risorse delle forme pensionistiche complemen-
648
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
L’art. 6 d.lgs. n. 252 si applica poi integralmente alla forma pensionistica complementare
residuale costituita presso l’INPS, denominata
FONDINPS ( 42 ), che raccoglie ex art. 8, comma 7o, n. 3) il t.f.r. maturando inoptato che non
venga destinato automaticamente ex art. 8,
comma 7o, nn. 2) e 3) ad altre forme pensionistiche complementari. In questo senso dispone
l’art. 9, comma 1o, ult. periodo, d.lgs. n. 252, secondo il quale « tale forma pensionistica è integralmente disciplinata dalle norme del presente
decreto ». L’applicazione integrale dell’art. 6 a
FONDINPS trova conferma anche nel d.i. 30
gennaio 2007 (decreto del Ministro del lavoro e
della previdenza sociale e del Ministro dell’economia e finanze), che è intervenuto ad attuare
(anche) l’art. 9 d.lgs. n. 252. L’art. 5, comma 1o
del capo II del d.i. richiama espressamente l’art.
6, comma 3o, d.lgs. n. 252 in materia di erogazione delle prestazioni ( 43 ). Per la gestione dei
servizi amministrativi e contabili di FONDINPS, nonché per le modalità di raccolta dei
contributi e di erogazione delle prestazioni l’art.
5, d.i. impone a FONDINPS la stipulazione di
una apposita convenzione con l’INPS al fine di
« garantire la separatezza patrimoniale, amministrativa e contabile »: in questo modo si adatta
alle peculiarità di FONDINPS la disposizione
dettata per la generalità dei fondi pensione negoziali dall’art. 6, comma 2o, d.lgs. n. 252. In
questo quadro, il silenzio del d.i. in punto di
modalità di gestione delle risorse di FONDINPS rafforza l’ipotesi dell’applicabilità del
regime generale ex art. 6. L’imposizione anche
all’INPS del ricorso ad uno o più gestori professionali al di fuori dei casi marginali di gestione
diretta consentiti dall’art. 6, comma 1o sembra
da ricondurre non soltanto ad una certa sfiducia
nella gestione diretta dell’istituto ( 44 ), ma anche
tari »: « l’obbligo farà carico a tutte le forme pensionistiche complementari, collettive e individuali ».
( 42 ) V. l’art. 2, comma 1o, del capo II del d.i. 30
gennaio 2007.
( 43 ) Sulle quali v. infra il par. 5.
( 44 ) Già in sede di primo commento all’originario
art. 6 d.lgs. n. 124/93, che contemplava la possibilità
dei fondi di ricorrere alla gestione convenzionata anche con enti gestori di forme di previdenza obbligatoria (tra cui l’INPS – v. infra il par. 4.2.6), si metteva
in dubbio « la disponibilità da parte degli istituti previdenziali delle professionalità necessarie per il con-
e soprattutto all’intento del legislatore di garantire a tutte le forme pensionistiche complementari, compresa quella residuale, uguali condizioni di gestione del patrimonio da parte di operatori professionali ( 45 ).
Alle forme pensionistiche complementari
preesistenti non si applicano le disposizioni dell’art. 6 in materia di modelli gestionali e di relative convenzioni (art. 20, comma 1o, d.lgs. n.
252), né quelle sui limiti di investimento e sui
conflitti di interesse ( 46 ). Peraltro, l’art. 20, com-
seguimento degli obbiettivi che dovrebbero caratterizzare i fondi integrativi, finanziati con il sistema della capitalizzazione anziché con quello, proprio della
previdenza pubblica, della ripartizione » (così Mantucci, sub art. 6 – Regime delle prestazioni e modelli
gestionali, cit., p. 195).
( 45 ) Contra, però, Garcea, sub art. 9, in questo
Commentario, par. 5, secondo il quale l’INPS potrebbe gestire anche direttamente le risorse di FONDINPS, senza essere tenuto a ricorrere allo strumento delle convenzioni di gestione con i soggetti di cui
all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 (sulle quali v. infra
il par. 4.2.1).
( 46 ) Con riferimento al quadro normativo risultante dal d.lgs. n. 124 cfr. Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 267-269; Casillo, La gestione del
patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., p. 181; Bessone, I fondi pensione « preesistenti ». Le forme organizzative, la gestione finanziaria e le
disposizioni di principio dell’art. 18, d.lg. n. 124 del
1993, in Giur. merito, 2003, IV, p. 2648. Per quanto
riguarda l’art. 6 d.lgs. n. 124/93 l’art. 18, comma 1o,
d.lgs. n. 124/93 escludeva tout court l’applicazione ai
fondi preesistenti delle disposizioni in materia di modelli gestionali, mentre l’art. 18, comma 2o prevedeva
l’emanazione di specifiche disposizioni regolamentari
attuative delle norme sui limiti di investimento e sui
conflitti di interesse, la cui applicazione sarebbe rimasta nel frattempo sospesa. L’art. 20 d.lgs. n. 252,
da un lato ribadisce l’inapplicabilità delle disposizioni in materia di modelli gestionali, ma soltanto fino
all’emanazione di uno o più appositi decreti (comma
1o); dall’altro lato, stabilisce in via generale che i fondi preesistenti « devono adeguarsi alle disposizioni »
del decreto n. 252 « secondo i criteri, le modalità e i
tempi stabiliti [...] con uno o più decreti » interministeriali (comma 2o). Poiché le apposite disposizioni
regolamentari di cui all’art. 18, comma 2o, d.lgs. n.
124 non sono mai state emanate, sembra corretto ritenere che le norme dell’art. 6 in materia di limiti agli
investimenti e conflitti di interesse non trovino applicazione per i fondi preesistenti fino all’emanazione
del decreto interministeriale ex art. 20, comma 2o,
d.lgs. n. 252. V. per spunti in questo senso Mastan-
La nuova disciplina della previdenza complementare
ma 2o prevede un progressivo adeguamento al
d.lgs. n. 252, i cui ritmi e modalità sono stabiliti
da uno o più decreti interministeriali adottati
dal Ministero dell’economia e delle finanze di
concerto con il Ministro del lavoro ( 47 ) (sulla
complessa interpretazione del regime intertemporale riguardante i fondi preesistenti v. Occhino, sub art. 20, commi 1o e 2o, in questo
Commentario). Tuttavia, sembra di poter ritenere di immediata applicabilità quanto meno la disposizione in materia di responsabilità sociale
d’impresa.
L’art. 6 d.lgs. n. 252 non si applica alle forme
pensionistiche complementari per i lavoratori
del pubblico impiego, per le quali resta integralmente in vigore il d.lgs. n. 124/93 fino all’emanazione del d.lgs. di attuazione dell’art. 1, comma 2o, lett. p), l. n. 243/2004 ( 48 ).
3. – L’art. 6 d.lgs. n. 252/05 conferma il diverso regime gestionale per i fondi pensione a contribuzione definita e per quelli a prestazione definita.
A questi secondi il legislatore continua a dedicare un’attenzione fuggevole ( 49 ): forse anche
per questo motivo la prassi si è sostanzialmente
tuono, Fondi pensione preesistenti: è il momento della riforma, in Newsletter Mefop, 2006, 27, p. 11.
( 47 ) Per quanto riguarda l’art. 6 d.lgs. n. 252, l’art.
5 della bozza di decreto del Ministro dell’economia e
delle finanze di concerto con il Ministro del lavoro e
della previdenza sociale prevede un adeguamento
progressivo entro un lasso di tempo che va dai 3 ai 5
anni. Il decreto mantiene peraltro per i fondi pensione preesistenti una disciplina derogatoria per larghi
tratti da quella comune: tra l’altro essi potranno continuare a gestire direttamente le proprie risorse, ad
effettuare direttamente investimenti immobiliari, a
concedere e ad assumere prestiti, benché a determinate condizioni (art. 5, comma 2o).
( 48 ) A quanto consta non ancora emanato: v. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione
« Ambito di applicazione del decreto n. 252/2005:
obblighi di adeguamento ».
( 49 ) Con riferimento alla disciplina pregressa il rilievo è comune: v. Candian, Linee ricostruttive in
materia di fondi pensione, cit., p. 127; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 124; Bessone, Fondi pensione e mercato
finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di
tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione
I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 344.
649
disinteressata di essi ( 50 ). L’art. 6, comma 5o si
limita a ribadire che nel caso di forme pensionistiche in regime di prestazione definita, come
anche nel caso in cui il fondo offra prestazioni
per invalidità e premorienza, è obbligatorio il ricorso alla stipulazione di apposite convenzioni
con imprese assicurative. In questi casi, infatti,
la prestazione del fondo si sostanzia nel pagamento del « capitale » o di « una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana »,
ex art. 1882 c.c. ( 51 ): ne consegue necessaria-
( 50 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei
fondi di previdenza complementare, cit., p. 170, nt. 9;
Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla
previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 200. Soltanto una
minoranza dei fondi pensione preesistenti al d.lgs. n.
124/93 opera in regime di prestazione definita, mentre ad oggi la totalità dei fondi pensione costituiti ai
sensi di questo decreto funziona in regime di contribuzione definita: cfr. COVIP, Relazione per l’anno
2005, consultabile sul sito www.covip.it, p. 24.
( 51 ) V. anche l’art. 2, comma 1o, c.a.p., con riferimento ai rami I (assicurazioni sulla durata della vita
umana) e IV (assicurazione per il rischio di invalidità)
della classificazione delle assicurazioni dei rami vita:
sono dunque soltanto le assicurazioni appartenenti a
questi due rami quelle autorizzate alla stipulazione
delle convenzioni (v. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 40). Cfr. nel senso che soltanto le imprese assicurative del ramo I dei rami vita possono
stipulare le convenzioni con i fondi pensione che
operano in regime di prestazione definita v. Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e
par condicio tra i gestori, cit., pp. 1112-1113; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza
complementare, cit., p. 199; Spolidoro, sub art. 2, in
La nuova disciplina dell’impresa di assicurazione sulla
vita in attuazione della terza direttiva. Commentario
del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174, a cura di Partesotti e
Ricolfi, Padova, 2000, p. 67. Poco condivisibili le argomentazioni secondo le quali sarebbero abilitate alla stipulazione di queste convenzioni invece soltanto
le imprese assicurative del ramo VI (che svolgono
operazioni di gestione di fondi collettivi costituiti per
l’erogazione di prestazioni in caso di morte, in caso di
vita o in caso di cessazione o riduzione dell’attività lavorativa), in analogia con quanto previsto dall’art. 6,
comma 1o, lett. b), che richiama soltanto questo ramo
tra quelli vita per la stipulazione delle convenzioni di
gestione del patrimonio dei fondi pensione chiusi.
Secondo il parere della seconda sezione del Consiglio
di Stato del 29 settembre 1999, condiviso dalla COVIP, ma non dall’ISVAP (che ritiene abilitate solo le
650
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
mente la riserva di attività in favore delle imprese assicuratrici (art. 1883 c.c. ( 52 )). La dottrina
ha opportunamente rilevato che la corresponsione di una prestazione di importo predefinito,
o per invalidità o premorienza richiede l’assunzione del rischio demografico-statistico, o comunque l’utilizzo di strumenti tecnico-attuariali
assicurazioni del ramo I), « “forme a prestazione definita e forme a contribuzione definita” » non sarebbero caratterizzate da « “una differenza di alea” e
“degli altri elementi” costitutivi della fattispecie tali
da “giustificare un diverso regime” »: il parere è citato da Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
278, che sembra condividerne il contenuto (pp. 277279). Qui basta ricordare che la gestione del patrimonio dei fondi pensione in regime di contribuzione definita ha carattere puramente finanziario, mentre, come si è ricordato nel testo, nella gestione delle forme
di previdenza complementare a prestazione definita
l’assunzione del rischio demografico è un momento
centrale dell’attività. La pretesa analogia tra le due
forme di previdenza ha davvero fragile fondamento,
quanto meno in punto di gestione. Per conseguenza,
sembra davvero inopportuna una riserva di attività in
favore delle imprese assicurative del ramo VI dei rami vita, che non compiono istituzionalmente operazioni nelle quali assumono il rischio demografico. Infatti, la gestione del patrimonio dei fondi pensione
chiusi da esse operata riveste carattere puramente finanziario e le sue caratteristiche non si distaccano da
quelle della gestione effettuata dagli intermediari finanziari citati all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 (cfr.
in questo senso Volpe Putzolu, Fondi di previdenza
e assicurazione, in Aa.Vv., La previdenza integrativa,
Quad. dir. lav. rel. ind., 1988, 3, pp. 105-107; Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e
par condicio tra i gestori, cit., pp. 1108-1109; Farenga, Diritto delle assicurazioni private, Torino, 2006,
pp. 30 e 244). L’interpretazione qui non condivisa riceve però ulteriore conforto dall’art. 2, comma 2o,
c.a.p. Questa disposizione consente all’impresa « che
ha ottenuto l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di cui al ramo VI » dei rami vita di garantire in
via complementare ai relativi contratti « prestazioni
di invalidità e premorienza secondo quanto previsto
nella normativa sulle forme pensionistiche complementari ». Si tratta di una norma di difficile comprensione, ma sembra accennare alla possibilità di includere prestazioni di invalidità e premorienza nell’ambito di convenzioni per la gestione di forme di
previdenza complementare in regime di prestazione
definita (lettura combinata degli artt. 2, comma 2o,
ult. periodo, c.a.p. e 6, comma 5o, d.lgs. n. 252).
( 52 ) Analogamente dispone anche l’art. 11, comma
o
1 , c.a.p.
per i quali soltanto le imprese assicurative sono
adeguatamente attrezzate ( 53 ).
L’art. 6, comma 5o, decreto rivela inoltre che
nelle forme pensionistiche complementari a
prestazione definita, come anche nel caso in cui
siano offerte prestazioni per invalidità e premorienza, le tre fasi del ciclo della previdenza complementare ( 54 ) – fase di fase di accumulazione/
raccolta dei contributi, fase di gestione finanziaria/investimento delle contribuzioni raccolte,
fase di gestione assicurativa/di erogazione delle
prestazioni – sono ridotte a due, poiché la fase
di gestione finanziaria e quella di gestione assicurativa vengono a coincidere in capo al medesimo soggetto senza soluzione di continuità ( 55 ).
( 53 ) V. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 194 ss.; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio
con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento
delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi »,
cit., pp. 343-344.
( 54 ) Sulle quali v. Costi, I fondi pensione nella prospettiva dei mercati finanziari e della finanza d’impresa, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., p. 76; Casillo, La gestione
del patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., p. 168; Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 101-102.
( 55 ) V. Volpe Putzolu, L’erogazione delle prestazioni assistenziali, I fondi di previdenza e di assistenza
complementare, a cura di Iudica, cit., p. 86; Casillo,
La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza
complementare, cit., pp. 196-197.
Questa circostanza spiega tra l’altro anche l’inapplicabilità alle forme pensionistiche complementari a
prestazione definita della maggior parte delle restanti
disposizioni dell’art. 6 d.lgs. n. 252, pensate prevalentemente per forme pensionistiche complementari che
operano in regime di contribuzione definita e separano di conseguenza la fase della gestione delle risorse
da quella dell’erogazione delle prestazioni. I commi
dell’art. 6 che risultano applicabili anche ai fondi che
operano in regime di prestazione definita sono il
comma 6o e il primo periodo del comma 8o in materia di procedura per la stipulazione delle convenzioni; il comma 7o in materia di requisiti patrimoniali
minimi per la stipulazione delle convenzioni; il comma 14o in materia di responsabilità sociale d’impresa.
Cfr. in questo senso, con riferimento agli analoghi
commi dell’art. 6 d.lgs. n. 124 (tranne il comma in
materia di responsabilità sociale d’impresa, introdotto ex novo dal d.lgs. n. 252), Costi, La gestione delle
risorse dei fondi pensione, cit., p. 3; Palmisano, La
La nuova disciplina della previdenza complementare
In buona sostanza i fondi si limitano a stipulare
polizze assicurative collettive in favore degli
aderenti e a versare i relativi premi ( 56 ). Proprio
l’assenza della cesura tra la fase della gestione
del patrimonio del fondo e quella dell’erogazione spiega la regola dettata nell’ultimo periodo
dell’art. 6, comma 5o: le risorse dei fondi non
devono essere depositate presso una banca distinta dal gestore poiché l’impresa assicurativa
incamera tali risorse in esecuzione della convenzione ( 57 ) e garantisce direttamente l’erogazione
delle prestazioni ( 58 ).
4. – Per le forme pensionistiche complementari a contribuzione definita l’art. 6 conferma il
favore per la gestione indiretta delle risorse, at-
gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1113-1115. Nel senso che la
disciplina dettata dall’art. 6 per la gestione del patrimonio delle forme pensionistiche complementari a
contribuzione definita si applicherebbe invece in linea di massima nella sua quasi totalità anche alla gestione delle forme di previdenza complementare a
prestazione definita v., seppur dubitativamente e
problematicamente, Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 279-280 e 354-355; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei
fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 389 ss.
( 56 ) Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi
di previdenza complementare, cit., pp. 198-199.
( 57 ) Com’è noto, le imprese assicuratrici che esercitano i rami vita devono costituire riserve tecniche,
comprese le riserve matematiche, « sufficienti a garantire le obbligazioni assunte e le spese future » (art.
36, comma 1o, c.a.p.), e coperte con « attivi di proprietà dell’impresa » (art. 38, comma 1o, c.a.p.).
( 58 ) Il contratto di assicurazione, peraltro, intercorre soltanto tra l’impresa assicurativa e il fondo, il
quale rimane unico soggetto obbligato di fronte all’aderente per il versamento della prestazione di carattere previdenziale: infatti, la finalità dei fondi pensione è pur sempre quella di erogare trattamenti pensionistici (cfr., con riferimento ai soli fondi pensione
chiusi, Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit.,
p. 332). Contra però, nel senso che il lavoratore acquisirà un credito alla prestazione direttamente nei confronti dell’assicurazione, Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 2; nel senso che l’aderente al fondo può essere beneficiario della prestazione assicurativa sia direttamente che per il tramite del
fondo Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra
pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1114.
651
tuata tramite operatori professionali specializzati nell’intermediazione di strumenti finanziari:
le ipotesi consentite di gestione diretta sono residuali ( 59 ).
Come è stato correttamente notato in dottrina, questa soluzione, già adottata nell’art. 6 del
d.lgs. n. 124/93, non era affatto necessitata né
dalla legge di delega n. 421/92 di cui quel decreto era attuazione, né dal progetto di direttiva
comunitaria sui fondi pensione allora in gestazione ( 60 ). La dir. 2003/41/CE relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici
aziendali o professionali ( 61 ), varata il 3 giugno
2003, ribadisce la legittimità sia della gestione
diretta che di quella indiretta ( 62 ), e consente
agli Stati membri di imporre quest’ultima ai
fondi pensione stabiliti sul loro territorio ( 63 );
tuttavia, il legislatore comunitario sembra consi-
( 59 ) In questo senso con riferimento all’art. 6 d.lgs.
n. 124/93 Vianello, Modelli di gestione delle risorse
dei fondi pensione, cit., p. 417; Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., pp. 105107; Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
265; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 121; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 340-341.
( 60 ) V. in questo senso Mantucci, Art. 6 – Regime delle prestazioni e modelli gestionali, cit., p. 194;
Candian, I fondi pensione, cit., p. 114; Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., p. 153; Casillo,
La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza
complementare, cit., p. 174.
( 61 ) Per un commento v. P. Loi, La direttiva sulle
attività e sulla supervisione degli enti pensionistici
aziendali o professionali, in Prev. ass. pubbl. e priv.,
2004, p. 55 ss.; Tomassini, Direttiva europea sui fondi pensione e normativa italiana sulla previdenza complementare, in Assicurazioni, 2004, p. 31 ss.
( 62 ) Cfr. l’art. 19, par. 1, dir. 2003/41/CE, secondo
il quale « gli Stati membri non limitano il potere degli
enti pensionistici di nominare, per la gestione del
portafoglio d’investimento, gestori degli investimenti
aventi sede in un altro Stato membro e debitamente
autorizzati all’esercizio di tale attività ».
( 63 ) Questo sembra il significato da attribuire all’art. 9, par. 4, dir. 2003/41/CE, per la verità di formulazione piuttosto oscura: « uno Stato membro può
consentire o richiedere agli enti pensionistici aventi
sede nel suo territorio di affidare la gestione di tali
652
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
derare la gestione indiretta piuttosto un’eccezione che non la regola ( 64 ). Secondo alcuni la
scelta del nostro Paese sarebbe dettata dalla
preoccupazione che gli organi paritetici di amministrazione e controllo dei fondi non siano in
grado di esprimere professionalità adeguate per
una gestione diretta ( 65 ): si tratta di organismi
composti da rappresentanti dei lavoratori e dei
datori di lavoro e forse il legislatore ha temuto
la prevalenza del momento politico-sindacale su
quello tecnico. Questa spiegazione non convince appieno: infatti, anche i membri degli organi
sopra menzionati devono possedere determinati
requisiti di professionalità ( 66 ) e indipendenza ( 67 ). Sembra allora più plausibile l’opinione
secondo la quale la parziale limitazione del
« potere dispositivo dei fondi pensione » ha
« l’intento di mobilitare al massimo tutte le
competenze utilizzabili per la sana e prudente
gestione »; ciò attiverebbe in particolare le
« competenze di più soggetti qualificati – gli intermediari, ma anche i fondi pensione » ( 68 ). Ad
enti, in tutto o in parte, ad altre entità che operano
per conto dei suddetti enti ».
( 64 ) Del resto, la soluzione italiana risulta eccentrica nel panorama comparato: v. Casillo, La gestione
del patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., p. 174.
( 65 ) Enriques, La gestione delle risorse dei fondi
pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 200; Casillo,
La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza
complementare, cit., p. 174; Iocca, Imprenditorialità
e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 135.
( 66 ) V. in proposito l’art. 4, comma 3o, lett. b), d.lgs. n. 252 che, nel delegare la specificazione dei requisiti di professionalità dei componenti degli organi
collegiali al Ministro del lavoro, gli impone di fare riferimento a quelli previsti dalla normativa regolamentare per gli amministratori di SIM, SGR e SICAV. V. anche l’art. 4, comma 2o del decreto del Ministro del lavoro 14 gennaio 1997, n. 211, nonché
l’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro 20 giugno
2003. V. Carniol, La gestione dei fondi pensione: la
visione degli operatori finanziari, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica,
cit., p. 168.
( 67 ) V. infra il par. 4.2.4.
( 68 ) Così Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito
sulla « corporate governance »), in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1999, pp. 860-861; analogamente Miola,
La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili
ogni modo, una volta che il legislatore aveva optato per l’esile trama normativa delle persone
giuridiche regolate dal libro primo del codice
civile per integrare la disciplina della struttura,
degli organi e del funzionamento dei fondi pensione ( 69 ), la scelta di privilegiare la gestione indiretta appariva necessitata e addirittura indispensabile a fini di adeguata tutela del risparmio previdenziale degli aderenti ai fondi pensione ( 70 ).
organizzativi, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p.
329. Nel senso che per i fondi pensione « una gestione di portafoglio attivata da imprese professionalmente attrezzate alle operazioni di mercato finanziario » sia « la cosa migliore » Bessone, Previdenza
complementare, cit., pp. 268-269; analogamente Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi
pensione, cit., p. 74. Mettono in evidenza la funzione
di garanzia per gli aderenti insita nella separazione
delle funzioni di indirizzo, gestione e controllo (quest’ultimo in capo alla banca depositaria – v. infra il
par. 6) Enriques, La gestione delle risorse dei fondi
pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 200-201;
Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 174; Salerno, Fondi
pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 121. Non è mancato chi ha sottolineato
che nella platea già ampia degli organismi di investimento collettivo l’inserimento di un’autonoma categoria « fondi pensione » avrebbe cagionato probabilmente una proliferazione eccessiva: in questo senso
Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1104. Vi è
tuttavia del vero anche nelle considerazioni di chi riconduce almeno in parte il favor per la gestione indiretta alle pressioni esercitate dalle lobbies degli intermediari finanziari e delle assicurazioni volte ad ottenere una fetta dell’abbondante torta che sembrava
aprirsi con il varo della previdenza complementare:
cfr. Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit.,
pp. 153-154.
( 69 ) Cfr. criticamente su questa scelta del legislatore nazionale Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 3; Id., I fondi pensione nella prospettiva dei mercati finanziari e della finanza d’impresa,
cit., pp. 76-78, che suggeriva invece le forme della società cooperativa o di quella per azioni; Bessone,
Previdenza complementare, cit., p. 264.
( 70 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., pp. 3-4; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 264; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p.
176; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 212.
La nuova disciplina della previdenza complementare
Il favor per la gestione indiretta non sminuisce peraltro affatto il ruolo delle fonti istitutive
e degli amministratori dei fondi pensione. Infatti, l’art. 6 d.lgs. n. 252 (come già prima l’art. 6
d.lgs. n. 124) tende a configurare il rapporto
fondo pensione/gestore professionale ex art. 6,
comma 1o come una relazione principal/agent
dove le linee strategiche dell’attività del secondo sono determinate dal primo ( 71 ), cosicché si
può ben dire che il successo della forma pensionistica complementare in termini di generose
prestazioni future dipende in modo determinante dall’abilità e dalle competenze degli amministratori del fondo pensione ( 72 ).
Secondo la prima versione dell’art. 6 d.lgs. n.
252, che sul punto riprendeva fedelmente l’art.
6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124/93, gli statuti dei fondi dovevano indicare i « criteri di individuazione e di ripartizione del rischio nella
( 71 ) Per la configurazione del rapporto tra fondo
pensione e gestori abilitati come relazione di principal
e agent v. tra gli altri Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione
definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p.
195; Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
270; Tursi, La previdenza complementare nel sistema
italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, p. 309;
Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e
« chiusi », cit., p. 345.
( 72 ) In questo senso tra gli altri Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., pp. 168-169; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina,
cit., p. 202; Casillo, La gestione del patrimonio dei
fondi di previdenza complementare, cit., pp. 183-184,
secondo la quale alla luce di queste considerazioni
anche « la portata negativa del divieto di gestione diretta delle risorse, posto al fondo, va ridimensionata » (p. 183); Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 330; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 148-149; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p.
160; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 221 e 359-360.
Secondo Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
270, tuttavia, « la logica di rapporto da principal ad
agent » operante nella disciplina dei fondi pensione
assegna « al gestore agent [...] con ogni evidenza il
ruolo protagonista ».
653
scelta degli investimenti »: in questo senso disponeva il comma 11o, primo periodo, dell’art.
6. Il d.lgs. n. 28/07 ha provveduto ad abrogare
l’art. 6, comma 11o, d.lgs. n. 252 ( 73 ) e ad aggiungere un comma 5o ter all’art. 6. Peraltro,
l’obbligo di indicare negli statuti i criteri di individuazione e ripartizione del rischio nella
scelta degli investimenti, benché non compaia
più nel d.lgs. n. 252, deve ritenersi tuttora in vigore in virtù di quanto disposto dall’art. 3, comma 1o, lett. p), d.m. n. 211/97. Ciò significa in
particolare che già negli statuti devono essere
evidenziati i profili di rischio della popolazione
di riferimento ed effettuate le scelte strategiche
fondamentali di investimento per farvi fronte ( 74 ). Il fine sarà sempre quello di massimizzare il rendimento del risparmio previdenziale
contenendo il più possibile i rischi: tuttavia, la
scelta di investimento potrà essere ben diversa
se, ad esempio, la popolazione di riferimento è
giovane e a reddito medio-alto ( 75 ), oppure già
( 73 ) V. l’art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07.
( 74 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei
fondi di previdenza complementare, cit., p. 182; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 149-150; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 214-215.
( 75 ) Ad es., gli analisti dei mercati finanziari avvertono che un investimento normalmente rischioso come quello azionario è comunque il più redditizio sul
lungo periodo [cfr. Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del
dibattito sulla « corporate governance »), cit., pp. 860861; Bessone, Previdenza complementare, cit., p.
362; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi
pensione chiusi, cit., p. 41; introduce però un importante distinguo Porta, Effetti macroeconomici dei
fondi pensione, in I fondi di previdenza e di assistenza
complementare, a cura di Iudica, cit., pp. 16-19, che
sottolinea come ciò sia vero nei Paesi anglosassoni,
ma non nel nostro Paese, dove tradizionalmente « i
rendimenti reali degli investimenti azionari si sono
collocati su livelli tendenzialmente inferiori a quelli
conseguibili investendo nel comparto del reddito fisso » (p. 18); considerazioni analoghe sono svolte anche da Fornero, L’economia dei fondi pensione. Potenzialità e limiti della previdenza privata in Italia, Bologna, 1999, pp. 89 ss.]; inoltre, su periodi di tempo
molto lunghi anche il livello di rischio diminuisce notevolmente. Per questo motivo, un fondo pensione
che prevede una linea di investimento a forte componente azionaria potrebbe essere particolarmente raccomandabile per lavoratori giovani, ma non per quel-
654
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
di età piuttosto avanzata e a reddito basso. I
fondi possono prevedere anche più linee di investimento secondo le diverse caratteristiche
dei lavoratori cui si rivolgono: ai lavoratori deve
sempre essere attribuita la facoltà di spostare la
propria posizione da una linea all’altra, ed anche di suddividere i propri contributi tra più linee ( 76 ). Si tratta dei cd. fondi multicomparto ( 77 ). La loro legittimità è ora espressamente
sancita non soltanto dall’art. 8, comma 13o, d.lgs. n. 252, secondo il quale « gli statuti e i regolamenti disciplinano [...] le modalità in base alle
quali l’aderente può suddividere i flussi contributivi anche su linee diverse di investimento all’interno della forma pensionistica [...], nonché
le modalità attraverso le quali può trasferire
l’intera posizione individuale a una o più linee », ma anche dal più recente comma 5o ter
dell’art. 6, d.lgs. n. 252 (come modificato dal
d.lgs. 28/07), secondo il quale « i fondi pensione definiscono gli obiettivi e i criteri della propria politica di investimento » anche « in riferimento ai singoli comparti eventualmente previsti ».
Le indicazioni sui criteri di individuazione e
ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti contenute negli statuti vengono poi precisate dagli organi di amministrazione del fondo
in apposite linee di indirizzo dell’attività dei gestori ( 78 ), che vengono inserite nelle convenzio-
li di età già piuttosto avanzata. V. per alcune esemplificazioni Pandolfo, Fondi pensione e investimento
delle risorse (considerazioni a margine del dibattito
sulla « corporate governance »), cit., p. 857, nt. 11; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 151-152.
( 76 ) Cfr. in questo senso ora espressamente l’art.
8, comma 13o, d.lgs. n. 252; ma già prima l’art. 3,
comma 4o, d.m. tesoro 21 novembre 1996, n. 703.
V. anche Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 224-225.
Si esprime invece in termini di « inedito principio
della frazionabilità della posizione individuale »
Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione,
cit., p. XVI.
( 77 ) Sui quali v. Candian, I fondi pensione, cit.,
pp. 53-56; Bessone, Previdenza complementare, cit.,
pp. 336-337; Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 152-153.
( 78 ) Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi
di previdenza complementare, cit., pp. 182-183; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attivi-
ni stipulate con i soggetti di cui all’art. 6, comma 1o per la gestione delle risorse dei fondi pensione tramite il loro investimento in strumenti
finanziari [art. 6, comma 8o, lett. a), d.lgs. n.
252]. Le linee di indirizzo ( 79 ), sempre liberamente modificabili dagli organismi di amministrazione dei fondi ( 80 ), indicano la tipologia di
strumenti finanziari nei quali devono essere investite le risorse del fondo: queste linee possono
essere anche piuttosto dettagliate ( 81 ), ma devono comunque limitarsi all’indicazione della cd.
asset allocation, e non anche dei singoli valori
tà di investimento, le garanzie di tutela del risparmio
con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento
delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi »,
cit., pp. 375-376; Righini, La gestione « finanziaria »
del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 215216.
( 79 ) Queste linee di indirizzo sono vincolanti per il
gestore alla stessa stregua dei criteri di individuazione e ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti contenuti negli statuti: la discrezionalità del gestore si eserciterà invece nella tempistica degli investimenti e disinvestimenti e nell’individuazione dei
singoli strumenti finanziari su cui convogliare le risorse del fondo. V. in questo senso Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 218-219; anche se non expressis verbis, Miola, La gestione collettiva del risparmio nel
T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 330; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi,
cit., pp. 189-190; Righini, La gestione « finanziaria »
del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 213
ss. Contra nel senso che il potere di indirizzo del fondo non è vincolante per il gestore Salerno, Fondi
pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 172.
( 80 ) Cfr. gli « Schemi di convenzione per la gestione delle risorse » contenuti nella deliberazione COVIP 7 gennaio 1998.
( 81 ) Con riferimento alle convenzioni di gestione
accompagnate da garanzia (sulle quali v. infra il par.
4.2.1) è stato opportunamente notato che le linee di
indirizzo dovranno lasciare particolare autonomia ai
gestori, ai quali dovrebbe essere rimessa anche la decisione sulla asset allocation ottimale per il raggiungimento del risultato di gestione che essi si sono impegnati a garantire: v. in questo senso Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., p. 170; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 275; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p.
229; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi
pensione chiusi, cit., p. 165; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XIV.
La nuova disciplina della previdenza complementare
mobiliari ( 82 ). La scelta tra questi e la tempistica
degli investimenti e disinvestimenti deve essere
lasciata alla discrezionalità del gestore, pena la
violazione del divieto di gestione diretta di strumenti finanziari diversi da quelli ex art. 6, comma 1o, lett. d)-e), d.lgs. n. 252 ( 83 ). Una parte
della dottrina ammette la possibilità per il fondo di rivolgere istruzioni puntuali al gestore in
analogia con quanto previsto per le gestioni di
portafogli di investimento ex art. 24, comma 1o,
lett. b), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (testo
unico dell’intermediazione finanziaria – di seguito: t.u.f.) ( 84 ), ma in genere si nega che esse
possano rivestire carattere vincolante ( 85 ). I
( 82 ) Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla
« corporate governance »), cit., pp. 859-860; Casillo,
La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza
complementare, cit., p. 183; Procopio, La disciplina
giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p. 77; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 150.
( 83 ) In questo senso Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., p.
168.
( 84 ) In questo senso v. in particolare Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi,
cit., p. 188 ss.; Righini, La gestione « finanziaria »
del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 210211, la quale sottolinea condivisibilmente che « il
mancato esercizio » del « potere di ingerenza, sotto il
profilo di un continuo monitoraggio dell’attività del
gestore, che potrebbe giungere fino al punto di indicare ad esso l’opportunità di compiere specifiche
operazioni, potrebbe comportare per gli organi di
amministrazione e controllo del fondo pensione l’incorrere in responsabilità ai sensi [...] dell’art. 5, commi 7o e 8o, d. legisl. n. 252/2005 ». Contra però, nel
senso che « agli amministratori del fondo pensione
sarà preclusa qualsiasi possibilità di impartire direttive o di esercitare poteri di interferenza nelle attività
gestorie », Bessone, Previdenza complementare, cit.,
p. 270; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le
attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e
« chiusi », cit., p. 348.
( 85 ) V. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 8; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione
definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit.,
p. 205; Miola, La gestione collettiva del risparmio
nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 331; Righini,
La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi
pensione chiusi, cit., pp. 212-213. Nel senso che la
655
nuovi commi 5o ter e 5o quater dell’art. 6 d.lgs.
n. 252/05, introdotti dal d.lgs. 28/07, hanno
provveduto a rafforzare la trasparenza delle politiche di investimento dei fondi. Sulla scorta
del recepimento dell’art. 12 dir. 2003/41/CE, i
fondi dovranno definire gli obiettivi e i criteri
della propria politica di investimento, anche in
riferimento ai singoli comparti eventualmente
previsti, e dovranno provvedere con cadenza almeno triennale alla verifica della persistente
corrispondenza agli interessi degli aderenti. Di
tali scelte di investimento essi saranno tenuti ad
informare gli aderenti secondo le modalità stabilite dalla COVIP.
L’opera del gestore professionale dovrà essere
attentamente monitorata dal fondo pensione ( 86 ), il quale rimane l’unico soggetto direttamente responsabile nei confronti degli aderenti
per le performances del fondo ( 87 ). Sul punto
l’art. 6, comma 10o, d.lgs. n. 252, riprende alla
lettera l’art. 6, comma 4o quater, d.lgs. n. 124, e
incarica la COVIP, assunto previamente il parere delle autorità di vigilanza sui gestori, di fissare « criteri e modalità omogenee per la comunicazione ai fondi dei risultati conseguiti nell’esecuzione delle convenzioni in modo da assicurare la piena comparabilità delle diverse convenzioni ». La COVIP è intervenuta con la deliberazione 30 dicembre 1998, recante « Disposizioni in materia di parametri oggettivi di riferimento per la verifica dei risultati della gestio-
convenzione di gestione potrebbe attribuire al fondo
anche il potere di impartire istruzioni vincolanti v.,
seppur problematicamente, Iocca, Imprenditorialità
e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 194196.
( 86 ) Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla
« corporate governance », cit., p. 860, nt. 20.
( 87 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 6, secondo il quale è « pacifico » che
gli aderenti « sono legati da un rapporto contrattuale
(“rapporto previdenziale”) con il fondo, ma non hanno alcun vincolo contrattuale né con il gestore, né
con la banca depositaria »; Casillo, La gestione del
patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., pp. 214-215; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 269-270; Miola, La gestione collettiva del
risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 331;
Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione,
gestione e vigilanza, cit., pp. 153-154 e 184.
656
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
ne dei fondi pensione » ( 88 ). La deliberazione
prevede che i fondi debbano inserire obbligatoriamente nelle convenzioni di gestione « parametri oggettivi e confrontabili definiti facendo
riferimento a indicatori finanziari di comune
utilizzo »: sono i cd. benchmarks ( 89 ). Essi devono essere costruiti in modo tale da consentire
un’affidabile e rapida valutazione dell’opera di
investimento svolta dal gestore. Anche i fondi
pensione aperti devono stabilire dei benchmarks ( 90 ). Il fondo pensione provvederà poi all’informazione degli iscritti con cadenza annuale e con la massima trasparenza in merito all’andamento della gestione complessiva ( 91 ).
Il fondo pensione è sempre titolare dei « diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali
risultano investite le disponibilità del fondo medesimo » [art. 6, comma 8o, lett. c), d.lgs. n.
252] ( 92 ): in questo modo, come è stato notato,
al fondo spetta il diritto di voice nelle assem-
( 88 ) Sulla quale v. Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 323-324; Zampini, La previdenza
complementare. Fondamento costituzionale e modelli
organizzativi, cit., p. 259, nt. 22.
( 89 ) Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del
risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e
« chiusi », cit., p. 376; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 169-172.
( 90 ) Che saranno comunicati alla COVIP nel corso
della procedura di approvazione del regolamento o,
al più tardi, subito dopo aver ricevuto l’autorizzazione all’istituzione: cfr. la deliberazione 30 dicembre
1998, cit. nel testo.
( 91 ) Cfr. l’art. 19, comma 2o, lett. g), d.lgs. n. 252/
2005, nonché la deliberazione COVIP 10 febbraio
1999 contenente « Disposizioni in materia di trasparenza dei fondi pensione nei rapporti con gli iscritti ». Quest’ultima in particolare regola le modalità e i
contenuti della comunicazione periodica agli iscritti
che i fondi pensione devono effettuare con cadenza
annuale. Sul punto v. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp.
156-157; Zampini, La previdenza complementare.
Fondamento costituzionale e modelli organizzativi,
cit., pp. 262-263, anche alla nt. 27.
( 92 ) È pacifico in dottrina che il diritto di voto
continui a spettare al fondo anche nel caso di gestione con garanzia accompagnata da trasferimento della
titolarità delle risorse in capo al gestore (sulla quale v.
infra il par. 4.2.1): v. per tutti Vianello, La struttura
delle convenzioni, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cinelli, cit., p. 459.
blee, e al gestore quello di exit dalla compagine
azionaria delle società partecipate ( 93 ). Questo
disegno del legislatore di separare le due prerogative connesse al possesso di valori mobiliari
comporta che la delega del diritto di voto sia
ammissibile soltanto per singola assemblea e secondo le istruzioni vincolanti impartite dal fondo stesso ( 94 ). La riserva della titolarità dei diritti di voto sempre in capo al fondo è stata perfezionata con la riforma del 1995. Gli obiettivi
principali sembrano tre, strettamente collegati.
Anzitutto, si intende migliorare i meccanismi di
democrazia azionaria delle società italiane, inserendo nelle assemblee delle società di capitali
minoranze qualificate ( 95 ) in grado di esercitare
benefiche pressioni sugli azionisti di maggioranza nell’interesse generale della sana conduzione
( 93 ) V. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 8; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p.
219, il quale si sofferma sui problemi di coordinamento che possono sorgere tra i due soggetti cui sono
attribuiti questi diversi diritti; Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a
margine del dibattito sulla « corporate governance »),
cit., pp. 866 e 871; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 356-357 e 360; Id., Fondi pensione e
mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi
pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 385-386; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei
fondi pensione chiusi, cit., p. 232.
( 94 ) In questo senso gli « Schemi di convenzione
per la gestione delle risorse » contenuti nella deliberazione COVIP 7 gennaio 1998, cit.. V. anche Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 215; Bessone, Previdenza
complementare, cit., pp. 358-359; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione
chiusi, cit., p. 231 ss. Peraltro Costi, La gestione delle
risorse dei fondi pensione, cit., p. 7 e Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 358 fanno notare che le
limitazioni riguardano soltanto il diritto di voto,
mentre sarebbero liberamente delegabili i diritti amministrativi che accedono ai valori mobiliari che fanno parte del patrimonio del fondo pensione.
( 95 ) Come si vedrà infra al par. 4.2.3 gli investimenti del fondo pensione nelle azioni o quote con diritto di voto di una società non possono mai raggiungere un livello tale da determinare il controllo della
società medesima.
La nuova disciplina della previdenza complementare
dell’impresa societaria ( 96 ). In secondo luogo, si
vuole aumentare l’influenza del punto di vista
delle parti sociali, ed in particolare dei lavoratori, sui processi decisionali delle società in un’ottica di democrazia economica ( 97 ) (cfr. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 4). È
infine possibile anche riscontrare un effetto di
pungolo per le società ad abbracciare un’ottica
di long-termism ( 98 ), a bilanciamento dell’azione
dei gestori che potrebbe invece avere l’effetto di
far inclinare le direzioni aziendali verso l’adozione di strategie di massimizzazione dei rendimenti azionari nel breve periodo.
4.1. – La gestione diretta delle contribuzioni
raccolte dai fondi pensione è consentita soltanto in quattro casi.
In primo luogo, tutti i fondi pensione ex art.
6, comma 1o, d.lgs. n. 252 possono sottoscrivere
o acquistare azioni o quote di società immobiliari, ovvero quote di fondi comuni di investimento immobiliare chiusi [art. 6, comma 1o,
lett. d), d.lgs. n. 252]. Le due disposizioni da un
lato suppliscono al divieto di acquisto diretto di
immobili da parte dei fondi pensione ( 99 ), dall’altro lato vorrebbero facilitare il flusso di risorse significative dei fondi a sostegno del mercato immobiliare ( 100 ). L’investimento diretto
( 96 ) V. Pandolfo, Fondi pensione e investimento
delle risorse (considerazioni a margine del dibattito
sulla « corporate governance »), cit., in particolare pp.
866-867 e 885-886; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 245 ss. Questi autori mettono in evidenza le sinergie che si sono create tra la disciplina
della previdenza complementare e quella del t.u.f. in
materia di valorizzazione del ruolo delle minoranze
in un’ottica di potenziamento della democrazia azionaria.
( 97 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi,
cit., p. 233.
( 98 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi,
cit., p. 233, anche alla nt. 156.
( 99 ) Com’è noto, l’acquisto di immobili è una modalità classica di investimento delle proprie risorse da
parte degli enti pensionistici pubblici e privati.
( 100 ) Treu, Osservazioni generali in tema di normativa sui fondi pensione, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., pp. 6061; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di
previdenza complementare, cit., p. 177; Salerno,
657
del fondo in azioni o quote di società immobiliari non incontra i limiti fissati in via generale
dall’art. 6, comma 13o, lett. a), per evitare che i
fondi acquisiscano un’influenza dominante sulle società al cui capitale partecipano ( 101 ): in linea puramente teorica i fondi potrebbero assumere il controllo anche dell’intero pacchetto
azionario o acquistare tutte le quote di una società immobiliare ( 102 ). La norma è stata oggetto
di critiche vibranti perché sembra esporre a rischi ingiustificati il risparmio previdenziale degli aderenti ( 103 ). Va tuttavia sottolineato che
anche per gli investimenti nelle società immobiliari valgono i limiti percentuali sul totale del
patrimonio del fondo pensione stabiliti dall’art.
4, comma 1o del decreto del Ministro del tesoro
21 novembre 1996, n. 703 ( 104 ). Anche l’investimento diretto in fondi comuni di investimento
immobiliare chiusi è limitato: i fondi pensione
non possono acquisire quote di fondi comuni di
investimento immobiliare chiusi in misura superiore a quella stabilita dal d.m. n. 703/96, e comunque in misura superiore al 20% del proprio
patrimonio e al 25% del capitale del fondo immobiliare chiuso.
In secondo luogo, tutti i fondi pensione ex
art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 possono sotto-
Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e
vigilanza, cit., pp. 193-194.
( 101 ) V. infra il par. 4.2.3.
( 102 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei
fondi di previdenza complementare, cit., pp. 176-177;
Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione,
gestione e vigilanza, cit., p. 193; Righini, La gestione
« finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 128-129.
( 103 ) V. Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 211; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 266; Casillo,
La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza
complementare, cit., p. 177; Salerno, Fondi pensione
« negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p.
193; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 128-129.
( 104 ) In questo senso Enriques, La gestione delle
risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione
definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p.
200, nt. 24; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi
pensione, cit., p. XIII, nt. 18; Righini, La gestione
« finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 129-130. Sui limiti di investimento ex d.m.
n. 703/96 v. infra il par. 4.2.3.
658
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
scrivere e acquistare direttamente quote di fondi comuni di investimento mobiliare chiusi [art.
6, comma 1o, lett. e)]. Essi tuttavia incontreranno i limiti del 20% sul patrimonio del fondo
pensione e rispettivamente del 25% sul capitale
del fondo comune stabiliti dall’art. 4, comma
1o, lett. b), d.m. n. 703/96 e dall’art. 6, comma
1o, lett. e), d.lgs. n. 252. La disposizione ha l’evidente finalità di favorire l’utilizzo delle risorse
dei fondi pensione a sostegno delle piccole e
medie imprese, che sono l’oggetto privilegiato
dell’investimento dei fondi chiusi ( 105 ). Da un
lato, le piccole e medie imprese costituiscono
un segmento importantissimo dell’economia del
nostro Paese; dall’altro lato, esse patiscono in
modo particolare il progressivo venir meno dell’importantissima fonte di autofinanziamento
costituita dal t.f.r. ( 106 ). Peraltro, anche questa
ipotesi di gestione diretta è stata oggetto, e a ragione, di forti critiche in dottrina. Infatti, l’investimento in fondi di investimento mobiliare
chiusi è caratterizzato per un verso dalla particolare rischiosità, per l’altro da notevoli difficoltà di smobilizzazione: proprio per questa tipologia di investimenti sarebbero state dunque necessarie le garanzie offerte dalla gestione di un
intermediario professionale ( 107 ).
In terzo luogo, la gestione diretta delle risorse
del fondo deve ritenersi eccezionalmente consentita anche nelle more della stipulazione delle
convenzioni di gestione. In proposito gli orientamenti COVIP raccomandano una sollecita
conclusione delle convenzioni e suggeriscono
l’utilizzo delle liquidità disponibili in operazioni
di pronti contro termine effettuate su titoli del
debito pubblico di Paesi aderenti all’Unione
monetaria europea, con l’obiettivo di ridurre al
minimo gli elementi di rischio ( 108 ).
( 105 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei
fondi di previdenza complementare, cit., p. 178; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 137; Righini, La gestione
« finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 134.
( 106 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei
fondi di previdenza complementare, cit., p. 178.
( 107 ) Cfr. in questo senso Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., pp. 430433.
( 108 ) V. la comunicazione COVIP 1 febbraio 1999
contenente « Orientamenti in tema di impiego della
Infine, la gestione diretta è consentita ai fondi pensione « costituiti nell’ambito delle autorità di vigilanza sui soggetti gestori a favore dei
dipendenti delle stesse » [art. 6, comma 12o,
d.lgs. n. 252]: si tratta dei fondi pensione costituiti nell’ambito della Banca d’Italia, della
CONSOB, dell’ISVAP ( 109 ). La ratio della disposizione è quella di evitare il peculiare conflitto di interessi che sorgerebbe nel momento
in cui i fondi pensione costituiti nell’ambito
dei soggetti cui è attribuita la sorveglianza sui
gestori si trovassero a dover ricorrere ai servigi
dei soggetti sorvegliati per la gestione delle
proprie risorse ( 110 ). Secondo un’opinione la
peculiare posizione della COVIP giustificherebbe l’applicazione della norma anche ai fondi costituiti nel suo ambito, quanto meno in
via analogica ( 111 ).
4.2. – La gestione indiretta (o convenzionata)
delle risorse dei fondi pensione avviene mediante la stipulazione di convenzioni con i soggetti
abilitati ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 ( 112 ).
Questi ultimi sono i soggetti autorizzati alla
« gestione su base individuale di portafogli di
investimento per conto terzi » [art. 1, comma
5o, lett. d), t.u.f.], e precisamente le banche, le
società di intermediazione mobiliare e le società
fiduciarie di gestione ( 113 ), ovvero con i soggetti
liquidità del fondo nelle more della stipula delle convenzioni di gestione ». Su di essa v. l’ampio commento di Bessone, Previdenza complementare, cit., pp.
343-345.
( 109 ) Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei
fondi pensione, cit., p. 434; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 267; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 181.
( 110 ) Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei
fondi pensione, cit., pp. 433-434; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 267; Casillo, La gestione
del patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., p. 181.
( 111 ) Cfr. in questo senso Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 434; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 181-182.
( 112 ) Sui soggetti abilitati e sui requisiti per essi fissati dalle autorità di vigilanza ex art. 6, comma 4o, d.lgs. n. 124/93 (ora art. 6, comma 7o, d.lgs. n. 252 – v.
infra il par. 4.2.1) v. diffusamente Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 282 ss.
( 113 ) Art. 18 t.u.f. V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
La nuova disciplina della previdenza complementare
stabiliti in uno Stato membro dell’Unione europea che svolgono la medesima attività e hanno
ottenuto il mutuo riconoscimento [art. 6, comma 1o, lett. a)]; con le imprese assicurative di
cui al ramo VI dei rami vita ( 114 ), ovvero con le
imprese stabilite in uno Stato membro dell’Unione europea che svolgono la medesima attività e hanno ottenuto il mutuo riconoscimento
[art. 6, comma 1o, lett. b)]; con le società di gestione del risparmio, ovvero con le imprese stabilite in uno Stato membro dell’Unione europea
che svolgono la medesima attività e hanno ottenuto il mutuo riconoscimento. Nell’effettuazione delle operazioni di gestione del patrimonio
dei fondi i gestori di cui all’art.6, comma 1o, d.lgs. n. 252 rimangono soggetti alla specifica disciplina per essi dettata dal t.u.f. e dal c.a.p., anche di natura regolamentare ( 115 ), salvo che sul
punto non disponga la disciplina specificamente applicabile ai fondi pensione (di rango primario o secondario), che quindi prevarrà alla
pp. 46-48. Sull’inclusione delle società fiduciarie di
gestione dubitativamente invece Casillo, La gestione
del patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., pp. 187-188; propende per la soluzione negativa
Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 421.
( 114 ) Secondo l’art. 2, comma 1o, c.a.p. le assicurazione del ramo VI dei rami vita sono autorizzate a
svolgere « le operazioni di gestione di fondi collettivi
costituiti per l’erogazione di prestazioni in caso di
morte, in caso di vita o in caso cessazione o riduzione
dell’attività lavorativa ». È stato correttamente sottolineato che l’attività contemplata è di gestione puramente finanziaria, senza alcun contenuto assicurativo.
Per conseguenza, le imprese assicurative del ramo VI
non dovranno costituire riserve tecniche ex art. 36,
comma 1o, c.a.p., per la gestione del patrimonio dei
fondi pensione, poiché, salvo il caso della convenzione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale (sulla quale v. infra il paragrafo seguente) non
assumono alcuna obbligazione che con tali riserve dovrebbero garantire: infatti, il rischio della gestione
grava integralmente sul fondo pensione. V. in questo
senso Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di
previdenza complementare, cit., pp. 188-193, la quale
sottolinea che anche la predisposizione del margine
minimo di solvibilità ex art. 44, c.a.p. con riferimento
alla gestione del patrimonio del fondo dipende in misura determinante dalla circostanza che l’impresa assicuratrice assuma obbligazioni con garanzia di restituzione del capitale o rendimento minimo (p. 189).
( 115 ) Pernice, La gestione finanziaria dei fondi
pensione, cit., p. XII.
659
stregua di lex specialis ( 116 ). La vigilanza sui gestori rimane affidata alle rispettive autorità
(Banca d’Italia, CONSOB, ISVAP) ( 117 ), come
confermano anche gli incisi dell’art. 19, comma
2o ( 118 ) e dell’art. 6, comma 7o, d.lgs. n.
252 ( 119 ).
4.2.1. – I commi da 6o a 10o dell’art. 6, d.lgs.
n. 252 tracciano la disciplina delle convenzioni
di gestione, che rappresentano l’unico strumento contrattuale utilizzabile dai fondi per la gestione indiretta delle proprie risorse. La dottrina è abbastanza concorde nel considerare questa figura un contratto tipico, la cui regolazione
è contenuta nel d.lgs. n. 252 e nella normativa
di carattere secondario della COVIP (art. 6,
commi 8o e 10o) ( 120 ) e delle autorità di vigilanza
sui gestori (art. 6, comma 7o). La dottrina è incerta se si tratti di un sottotipo riconducibile a
qualche altra figura contrattuale, come il man-
( 116 ) In questo senso condivisibilmente Candian,
Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., p.
130; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 122; Righini, La
gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 57-59.
( 117 ) In questo senso con riferimento alla disciplina previgente Candian, Linee ricostruttive in materia
di fondi pensione, cit., p. 129; Bessone, Previdenza
complementare, cit., p. 283; Id., Fondi pensione e
mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi
pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 347.
( 118 ) L’art. 19, comma 2o, d.lgs. n. 252 conferisce
la vigilanza su tutte le forme pensionistiche complementari alla COVIP, facendo però salva « la vigilanza
di stabilità » in capo alle « rispettive autorità di controllo sui soggetti abilitati di cui all’articolo 6, comma
1 ».
( 119 ) L’art. 6, comma 7o, stabilisce che la determinazione dei requisiti patrimoniali minimi richiesti ai
soggetti gestori per essere abilitati alla stipulazione
delle convenzioni di gestione è effettuata dalle rispettive autorità di vigilanza, « che conservano tutti i poteri di controllo » sui gestori stessi.
( 120 ) Deliberazione COVIP 7 gennaio 1998, cit.,
contenente « Schemi di convenzione per la gestione
delle risorse »; deliberazione COVIP 30 dicembre
1998 contenente « Disposizioni in materia di parametri oggettivi di riferimento per la verifica dei risultati della gestione dei fondi pensione »; delibera COVIP 9 dicembre 1999 in materia di « Selezione dei
gestori ».
660
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
dato ( 121 ) o il contratto di gestione individuale
di patrimoni ( 122 ), oppure se si tratti di un tipo a
sé stante ( 123 ). Posto che la figura presenta una
fortissima somiglianza con il contratto di gestione individuale di patrimoni ( 124 ), non sembra vi
siano ostacoli ad applicare in via analogica, nel
caso di lacune, disposizioni dettate per quest’ul( 121 ) Secondo Palmisano, La gestione dei fondi
pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori,
cit., p. 1110 la disciplina contrattuale delle convenzioni di gestione è « conformata sul modello del mandato »; anche Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., pp. 419-420, riconduce
la convezione di gestione al mandato con rappresentanza, seppur avvertendo che alcune peculiarità della
prima sconsigliano un’applicazione indiscriminata
della disciplina codicistica dettata per il secondo; similmente anche Iocca, Imprenditorialità e mutualità
dei fondi pensione chiusi, cit., p. 201.
( 122 ) Secondo Righini, La gestione « finanziaria »
del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 178,
« dal punto di vista sistematico [...] la gestione del
patrimonio dei fondi pensione non si distacca dal genus della gestione individuale di patrimoni, di cui costituisce una particolare specificazione ».
( 123 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 4, per il quale « la tipizzazione legislativa rende inutile ogni tentativo di rintracciare nel
rapporto di gestione dei fondi i caratteri essenziali di
qualche altro schema contrattuale tipico »; Candian,
I fondi pensione, cit., p. 131; Enriques, La gestione
delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 204; Bessone, Previdenza complementare,
cit., pp. 273 e 312-314; Miola, La gestione collettiva
del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., pp.
330-331; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 162; Bessone,
Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 359.
( 124 ) La dottrina pressoché unanime concorda che
la convenzione configuri un contratto di gestione di
tipo individuale, e non in monte: v. Costi, La gestione
delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 10; Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., p. 335; Pandolfo,
Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., p. 862; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp.
134-135 e 167-168; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 137-140; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p.
XIII; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 80.
timo contratto ( 125 ) o addirittura per il mandato ( 126 ).
Il d.lgs. n. 252 ha apportato due importanti
modifiche alla previgente disciplina delle convenzioni di gestione: esse, tuttavia, non si collocano nell’art. 6. L’art. 17, comma 2o, lett. e) ed
f), d.lgs. n. 124 contemplava l’autorizzazione
preventiva della COVIP per la stipulazione delle convenzioni di gestione, che dovevano essere
redatte conformemente a schemi-tipo di contratti fra i fondi e i gestori, definiti d’intesa tra la
COVIP e le autorità di vigilanza sui gestori stessi ( 127 ). L’art. 19, comma 2o, lett. d) ed e), d.lgs.
n. 252/05 non contempla più l’autorizzazione
preventiva alla stipulazione delle convenzioni di
gestione, bensì incarica la COVIP di verificare
le linee di indirizzo della gestione e di vigilare
sulla corrispondenza delle convenzioni a criteri
di redazione delle convenzioni appositamente
stabiliti dalla COVIP, sentite le autorità di vigi-
( 125 ) Il d.lgs. n. 252, unito alla normativa di carattere secondario costituita dai decreti ministeriali e
dalle delibere della COVIP, presenta una disciplina
esauriente delle convenzioni di gestione, cosicché le
integrazioni non saranno particolarmente numerose.
Tuttavia, tra le disposizioni del t.u.f. riguardanti (anche) la gestione individuale di portafogli di investimento è opportuno segnalare l’art. 23, comma 6o: in
base a questa norma « nei giudizi di risarcimento dei
danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento [...] spetta ai soggetti abilitati
l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta ». L’applicazione analogica di questa
disposizione alla convenzione di gestione comporta
un notevole rafforzamento della posizione probatoria
del fondo nell’ambito delle azioni di risarcimento dei
danni derivanti dall’attività del gestore. Cfr. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 183-184.
( 126 ) Che, del resto, « ha da sempre costituito il paradigma di ogni forma di cooperazione gestoria cui si
sono costantemente rapportate le varie ipotesi di esecuzione di incarichi per conto altrui »: così Iocca,
Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 201. Cfr. anche Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit.,
p. 334, che, in materia di responsabilità del gestore,
richiama in particolare le disposizioni sulla responsabilità del mandatario; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p.
173.
( 127 ) V. la deliberazione COVIP 7 gennaio 1998
contenente « Schemi di convenzione per la gestione
delle risorse ».
La nuova disciplina della previdenza complementare
lanza sui gestori ( 128 ). La disposizione è entrata
in vigore anticipatamente rispetto alla riforma
complessiva, e precisamente il 14 dicembre
2005. Da un lato, essa si colloca in un’ottica di
semplificazione degli adempimenti e di valorizzazione dell’autonomia contrattuale che dovrebbe velocizzare le procedure di stipulazione
delle convenzioni, stimolando in questo modo
anche la concorrenza tra i gestori ( 129 ). Dall’altro lato, ha l’obiettivo di superare il controllo
meramente formale delle convenzioni per favorire un controllo più sostanziale sulla coerenza
delle convenzioni con la politica di investimento
dei fondi pensione e con i criteri di redazione
delle convenzioni stabiliti dalla COVIP ( 130 ).
I commi 6o e 8o dell’art. 6, d.lgs. n. 252 prescrivono una particolare procedura per la stipulazione delle convenzioni. Ad una prima fase di
evidenza pubblica per la raccolta delle offerte
contrattuali ne segue una seconda in cui la selezione dei gestori è improntata a trasparenza,
strettamente regolamentata nello svolgimento
(tramite le istruzioni della COVIP ( 131 )) e finalizzata nel risultato, che deve in ogni caso garan-
( 128 ) A questo fine i fondi pensione negoziali devono trasmettere alla COVIP, entro venti giorni dalla
stipulazione delle convenzioni, una relazione dell’organo di amministrazione sulla propria politica di investimento e sulle caratteristiche delle convenzioni; il
testo di ciascuna convenzione; una relazione illustrativa dello svolgimento della procedura di selezione
dei gestori. V. la comunicazione COVIP 23 febbraio
2006 ai fondi pensione negoziali, dal titolo « Convenzioni per la gestione delle risorse dei fondi pensione
negoziali – Novità introdotte dal decreto n. 252 del 5
dicembre 2005, disposizioni applicative »; la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione
« Convenzioni per la gestione delle risorse dei fondi
pensione negoziali ».
( 129 ) È stato segnalato in dottrina che proprio la
macchinosità delle procedure di stipulazione delle
convenzioni avrebbe favorito il rinnovo degli incarichi ai medesimi gestori, in quanto avrebbe reso « particolarmente onerosa la conclusione di nuove convenzioni »: così Enriques, La gestione delle risorse
dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 203204.
( 130 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi,
cit., pp. 19-20 e 137-138.
( 131 ) Contenute nella delibera COVIP 9 dicembre
1999, cit.
661
tire « la coerenza tra obiettivi e modalità gestionali, decisi preventivamente dagli amministratori, e i criteri di scelta dei gestori » [art. 6, comma 8o]. Vista l’importanza degli interessi anche
pubblici in gioco nella previdenza complementare, il legislatore ha dettato regole che disegnano un vero e proprio procedimento in senso
tecnico ( 132 ), in spiccata analogia con la disciplina che nel settore pubblico presiede alla formazione della volontà negoziale delle pubbliche
amministrazioni ( 133 ). Gli obiettivi perseguiti sono quelli di stimolare una reale concorrenza tra
i gestori e di spingere i fondi ad una scelta più
consapevole, nell’interesse del miglior rendimento del risparmio previdenziale ( 134 ).
Ai sensi dell’art. 6, comma 6o, d.lgs. n. 252 la
procedura si apre con la richiesta di offerte contrattuali da parte dei competenti organi di amministrazione dei fondi, effettuata con la forma
della pubblicità notizia su almeno due quotidiani fra quelli a maggiore diffusione nazionale o
internazionale. Rispetto alla disciplina previgente, ora l’avvio della procedura è consentito non
soltanto agli organi di amministrazione a regime, ma anche a quelli nominati inizialmente in
sede di atto costitutivo. Le offerte contrattuali
devono essere formulate « per singolo prodotto
in maniera da consentire il raffronto dell’insieme delle condizioni contrattuali con riferimento
alle diverse tipologie di servizio offerte » [art. 6,
comma 6o, ult. periodo]. Quanto ai destinatari,
essi non debbono appartenere ad identici gruppi societari e comunque non essere legati neanche indirettamente da rapporti di controllo ( 135 ). Per poter procedere alla stipulazione
( 132 ) In questo senso Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 296; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I
– L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 360.
( 133 ) V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 141.
( 134 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
p. 141.
( 135 ) Per la nozione di controllo è da condividere
l’opinione che la ravvisa in quella ex art. 2359 c.c.: si
tratta della nozione a carattere più generale tra quelle
sparse nel nostro ordinamento, e pare dunque opportuno ricorrere ad essa. Analogamente si dovrà
procedere per la nozione di gruppo, ravvisabile in
662
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
delle convenzioni, e quindi a fortiori anche per
partecipare alla selezione, i potenziali gestori
dovranno possedere requisiti patrimoniali minimi, differenziati per tipologia di prestazione offerta, determinati con deliberazione delle rispettive autorità di vigilanza ( 136 ) [art. 6, comma
7o, d.lgs. n. 252].
Secondo la delibera COVIP 9 dicembre
1999 ( 137 ) il fondo dovrà pubblicare un vero e
proprio bando di richiesta di offerte per la gestione delle risorse, corredato di un questionario per la raccolta degli elementi utili alla selezione. Sulla base dell’esame dei questionari il
fondo provvederà ad identificare i potenziali gequella ex art. 2497 c.c. V. in questo senso Righini,
La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi
pensione chiusi, cit., pp. 153-154.
( 136 ) Per quanto riguarda le assicurazioni v. il
provvedimento ISVAP 14 novembre 1997, n. 719,
dal titolo « Requisiti patrimoniali minimi per le imprese di assicurazione che intendono stipulare convenzioni con i fondi pensione », pubblicato in G.U.,
25 novembre 1998, n. 275. Per le banche v. il regolamento della Banca d’Italia dal titolo « Gestione dei
fondi pensione e istituzione di fondi pensione aperti
da parte di banche », contenuto nella circolare 29
marzo 1998, n. 4, pubblicato in Banca d’Italia, Bollettino di vigilanza, 1998, 11. Per quanto riguarda le
SIM v. la circolare Banca d’Italia 25 giugno 1992, n.
164, come modificata dal 20o aggiornamento del 14
agosto 1997: fascicolo « Intermediari del Mercato
Mobiliare. Regolamento applicativo emanato dalla
Banca d’Italia e Istruzioni di Vigilanza »; gestione del
patrimonio dei fondi pensione da parte di SIM. Per
le SGR v. la circolare Banca d’Italia 21 ottobre 1993,
n. 188, come modificata dal 7o aggiornamento del 14
agosto 1997: fascicolo « Istruzioni di Vigilanza per gli
Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio »; gestione del patrimonio dei fondi pensione.
Le circolari della Banca d’Italia relative a SIM e SGR
sono state consultate in Codice della previdenza complementare, a cura di Candian, Milano, 2003, pp. 297
ss. Per un quadro riassuntivo dei requisiti patrimoniali richiesti v. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 130131, nt. 80.
( 137 ) Sulla quale v. diffusamente Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 297 ss.; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 159, nt. 145; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento,
le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei
fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 360363.
stori cui richiedere un’offerta contrattuale. La
scelta definitiva del gestore dovrà essere deliberata dall’organo amministrativo del fondo tenendo conto non soltanto del prezzo, ma anche
della qualità del servizio offerto. La convenzione non sarà più oggetto di approvazione ex ante
da parte della COVIP ( 138 ), ma di obblighi di
comunicazione ex post: questi ultimi devono
permettere all’autorità di apprezzare non soltanto la regolarità della procedura, ma anche la
congruenza tra le scelte del fondo e la sua politica di investimento, nonché la corrispondenza
delle convenzioni ai criteri di redazione stabiliti
dalla COVIP stessa ( 139 ).
Mentre nel regime previgente il grave vizio di
procedura comportava il diniego dell’autorizzazione della COVIP e la conseguente inefficacia
della convenzione ( 140 ), la questione appare più
complicata dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 252. A parte le eventuali sanzioni per gli
amministratori ex art. 19 quater, commi 2o e 3o,
d.lgs. n. 252 ( 141 ), in dottrina si suggerisce la
possibilità per gli amministratori dissenzienti,
l’organo di controllo o i soci, se lesi nei loro diritti, di impugnare la delibera di scelta del gestore per ottenerne l’annullamento in applicazione analogica di quanto stabilito per le società
per azioni dalla lettura coordinata degli artt.
2388, comma 4o, e 2377-78 c.c. ( 142 ). Tuttavia,
la medesima dottrina avverte correttamente che
l’invalidità non potrebbe travolgere la convenzione quando il gestore fosse in buona fede: e
infatti l’art. 2388, comma 5o, c.c. fa salvi i diritti
acquistati in buona fede dai terzi sulla base degli atti compiuti in esecuzione della deliberazione invalida ( 143 ). I vitali interessi pubblici in gioco suggerirebbero conseguenze più gravi per la
( 138 ) V. retro questo stesso paragrafo.
( 139 ) Cfr. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006,
cit., nella sezione « Convenzioni per la gestione delle
risorse dei fondi pensione negoziali ».
( 140 ) Cfr. Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 164-165;
Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio
dei fondi pensione chiusi, cit., p. 145.
( 141 ) Anche queste disposizioni sono frutto della
novella apportata dal d.lgs. 28/07 (v. l’art. 6).
( 142 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
pp. 148-149.
( 143 ) Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 148-149.
La nuova disciplina della previdenza complementare
convenzione stipulata in aperta violazione degli
oneri procedurali imposti ai fondi pensione per
la selezione dei gestori. Tuttavia, appare davvero complesso configurare de iure condito la nullità della convenzione di gestione conclusa senza rispettare l’art. 6, commi 6o e 8o, d.lgs. n.
252. Infatti, le norme sul procedimento di stipulazione rientrano nel genus delle norme ordinative o di configurazione, ovvero di quelle che
« stabiliscono le condizioni in presenza delle
quali il contratto può validamente produrre i
suoi effetti », piuttosto che comandi o divieti ( 144 ): non si tratta dunque delle norme imperative alla cui violazione l’art. 1418, comma 1o,
c.c. ricollega senz’altro la sanzione radicale della
nullità.
La convenzione di gestione deve essere redatta per iscritto a pena di nullità; nonostante che
la previsione non sia contenuta espressamente
nel d.lgs. n. 252, è convincente la tesi che richiama la forma scritta ad substantiam a pena di nullità ( 145 ) sulla scorta della lettura combinata degli artt. 23, comma 1o e 24, comma 1o, lett. a),
t.u.f., che prevedono il medesimo requisito per i
contratti di gestione del risparmio ( 146 ). I fondi
possono stipulare anche più convenzioni con
soggetti abilitati diversi per la gestione del proprio patrimonio, come si evince dal secondo periodo dell’art. 6, comma 8o, d.lgs. n. 252, secondo il quale « le convenzioni possono essere stipulate, nell’ambito dei rispettivi regimi, anche
congiuntamente fra loro » ( 147 ). Le diverse convenzioni possono riguardare sia la gestione
( 144 ) Così Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, pp. 206 e
212. Su questa tipologia di norme v., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, Albanese, op. ult. cit.,
p. 203 ss.
( 145 ) Si tratta di nullità relativa: l’azione di accertamento o l’eccezione spettano dunque soltanto al
cliente-fondo pensione.
( 146 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi,
cit., p. 175. Tuttavia, come segnala la medesima autrice, la possibilità che il contratto non sia redatto per
iscritto è praticamente virtuale, stante il controllo
della COVIP. Nel senso che la legge richieda implicitamente la forma scritta Salerno, Fondi pensione
« negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p.
167.
( 147 ) Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi
di previdenza complementare, cit., p. 211.
663
complessiva di una frazione del patrimonio, sia
l’effettuazione di uno o più tipi di attività di investimento dell’intero patrimonio ( 148 ). La precisazione che le convenzioni congiunte devono
rimanere confinate all’interno dei rispettivi regimi sembra indicare l’esigenza, per la verità
scontata ( 149 ), che non vi siano commistioni tra
la gestione del patrimonio dei fondi a prestazione definita e di quello dei fondi a contribuzione
definita ( 150 ). La possibilità di ricorrere a più gestori riconosciuta dall’art. 6, comma 8o, secondo periodo ha la duplice finalità di favorire la
concorrenza fra i soggetti abilitati e di permettere al fondo di utilizzare al meglio le competenze
e le esperienze possedute dai diversi gestori ( 151 ).
La seconda parte dell’art. 6, comma 8o, d.lgs.
n. 252 elenca alcune clausole che devono trovare necessariamente posto nella convenzione di
gestione: le linee di indirizzo dell’attività dei gestori, nell’ambito dei criteri di individuazione e
ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti indicati nello statuto del fondo [art. 6,
comma 8o, lett. a)]; le modalità con le quali tali
linee di indirizzo possono essere modificate
[art. 6, comma 8o, lett. a)]; la previsione dei termini e delle modalità del recesso del fondo pensione ( 152 ), che devono anche contemplare la
possibilità per il fondo di entrare in possesso
delle attività finanziarie nelle quali risultano in-
( 148 ) Cfr. l’art. 3, comma 2o, delibera COVIP 9 dicembre 1999, cit.
( 149 ) Infatti, come si è visto retro (par. 3) la gestione del patrimonio delle forme pensionistiche complementari in regime di prestazione definita ha contenuto assicurativo, mentre la gestione delle risorse dei
fondi a contribuzione definita è di carattere eminentemente finanziario.
( 150 ) Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 171-172.
( 151 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
p. 171.
( 152 ) Il recesso unilaterale è previsto come facoltà
del solo fondo pensione. Tale facoltà deve tuttavia
considerarsi preclusa nel caso di convenzioni con
contenuto assicurativo (convenzioni di gestione per
regimi di prestazione definita, per l’erogazione delle
prestazioni e per invalidità e premorienza): v. in questo senso condivisibilmente Casillo, La gestione del
patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., pp. 212-213.
664
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
vestite le sue risorse [art. 6, comma 8o, lett. b)];
l’attribuzione in ogni caso al fondo della titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari
nei quali risultano investite le sue disponibilità
[art. 6, comma 8o, lett. c)]. Gli schemi di convenzione predisposti dalla COVIP sono estremamente dettagliati, e specificano ulteriormente il contenuto vincolante delle convenzioni ( 153 ). Essi precisano tra l’altro che il fondo
pensione modifica le linee di indirizzo previo
adeguato periodo di preavviso al gestore; tale
preavviso non è tuttavia necessario nel caso di
modifica degli indirizzi riferiti alla disciplina del
conflitto di interessi. Gli schemi COVIP stabiliscono inoltre che il recesso del fondo deve essere sempre consentito anche ante tempus con il
rispetto di un termine di preavviso ( 154 ); il recesso ante tempus del gestore, invece, è consentito
in caso di modifica delle linee di indirizzo della
gestione. A seguito delle modifiche della disciplina intervenute con l’art. 19, comma 2o, lett.
d) ed e), d.lgs. n. 252/05 ( 155 ), gli schemi-tipo
non dovrebbero essere più totalmente vincolanti, in quanto la COVIP definisce soltanto « i criteri di redazione delle convenzioni per la gestio-
( 153 ) V. la deliberazione COVIP 7 gennaio 1998
contenente « Schemi di convenzione per la gestione
delle risorse ». Su questi schemi v. diffusamente Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 314 ss.; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 163; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le
garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi
pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 369 ss.
( 154 ) Il libero recesso del fondo dalla convenzione
di gestione deve essere considerato un principio inderogabile della disciplina della previdenza complementare. Il fondo rimane il responsabile esclusivo
dell’andamento della gestione di fronte agli aderenti,
e le disposizioni in materia di responsabilità degli
amministratori ex art. 5, commi 7o e 8o, d.lgs. n. 252/
05 si comprendono anche in ragione della libera recedibilità del fondo che non ritenga più opportuna la
continuazione della gestione del patrimonio ad opera
di un determinato soggetto abilitato. In questo senso
v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio
dei fondi pensione chiusi, cit., p. 280. Del resto, la libertà di recesso è un principio cardine sia dell’investimento nei fondi comuni di investimento mobiliare,
sia della gestione patrimoniale: cfr. Vianello, La
struttura delle convenzioni, cit., p. 457.
( 155 ) V. retro questo stesso paragrafo.
ne delle risorse, cui devono attenersi » i fondi
pensione « e i gestori nella stipula dei relativi
contratti ». Per conseguenza, ora gli schemi-tipo dovrebbero essere letti soltanto come « criteri di redazione », dalla cui normativa dettagliata è dunque possibile, entro certi limiti, discostarsi ( 156 ). La COVIP tuttavia sembra andare di diverso avviso ( 157 ). Nel caso di mancanza
di una delle clausole essenziali (ad es. le linee di
indirizzo) la convenzione dovrà ritenersi nulla
per vizio della forma scritta prevista ad substantiam ( 158 ); nel caso di clausola difforme (che attribuisce ad es. i diritti di voto relativi ai valori
mobiliari del fondo al gestore) interverrà invece
la nullità relativa con integrazione automatica
del contratto ex art. 1419, comma 2o, c.c. ( 159 ).
( 156 ) In questo senso v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp.
163-164, secondo la quale « le convenzioni di nuova stipulazione potranno forse distaccarsi, ora, dalla formulazione letterale degli schemi-tipo, ma non potranno comunque disattenderne il contenuto e la sostanza ».
( 157 ) V. infatti la deliberazione COVIP 28 giugno
2006, cit., nella sezione « Convenzioni per la gestione
delle risorse dei fondi pensione negoziali »: « al momento le convenzioni si dovranno, comunque, conformare
agli schemi-tipo di convenzione attualmente vigenti ».
( 158 ) V. supra questo stesso paragrafo.
( 159 ) Secondo la giurisprudenza la sostituzione automatica delle clausole ex art. 1419, comma 2o, c.c.
avviene soltanto quando « un’espressa disposizione
di legge [...] oltre a comminare la nullità di una determinata clausola, ne imponga anche la sostituzione
con una normativa legale, mentre la predetta inserzione non è attuabile qualora il legislatore, nello stabilire la nullità di una clausola o di una pattuizione,
non ne abbia espressamente prevista la sostituzione
con una specifica norma », nel qual caso si rifluirà
nella fattispecie ex art. 1419, comma 1o, c.c. (cfr. per
tutte Cass. 28 giugno 2000, n. 8794, in Arch. civ.,
2000, p. 977). Con riferimento alle convenzioni di gestione la nullità della clausola difforme e la volontà
del legislatore nel senso della sostituzione si desumono dalla formulazione stessa dell’art. 6, comma 8o
(« le convenzioni [...] devono in ogni caso [...] prevedere »), nonché dai rilevanti interessi pubblici in gioco, che non consentono il ricorso alla regola dell’art.
1419, comma 1o, c.c. Quest’ultima, infatti, richiama
la volontà, seppur presunta, delle parti stipulanti alla
conclusione del contratto benché privo della clausola
nulla: ma il fondo e il gestore non sono liberi nella
scelta del contenuto della convenzione di gestione,
che risulta strettamente funzionalizzato a fini di tutela del risparmio previdenziale.
La nuova disciplina della previdenza complementare
I commi 8o e 9o dell’art. 6 d.lgs. n. 252 indicano anche due clausole che possono essere inserite facoltativamente nelle convenzioni di gestione: si tratta della previsione di una garanzia
di restituzione del capitale e della clausola, che
ad essa si può accompagnare, del trasferimento
della titolarità delle risorse del fondo pensione
in capo al gestore.
Ai sensi del comma 9o « i fondi pensione sono
titolari dei valori e delle disponibilità conferiti
in gestione, restando peraltro in facoltà degli
stessi di concludere, in tema di titolarità, diversi
accordi con i gestori a ciò abilitati nel caso di
gestione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale ». La disposizione segnala che
il tipo « convenzione di gestione » conosce un
sottotipo, caratterizzato dalla presenza di una
clausola di garanzia di restituzione del capitale ( 160 ). Ai sensi dell’art. 6, comma 7o, soltanto i
gestori aventi determinati requisiti patrimoniali
(aggiuntivi) potranno stipulare convenzioni di
questo genere: tali requisiti sono stabiliti dalle
autorità di vigilanza sui gestori ( 161 ). Si ritiene
consentita non soltanto la previsione di una garanzia di restituzione del capitale, ma anche di
una garanzia di rendimento minimo ( 162 ). La
( 160 ) Cfr. la deliberazione COVIP 7 gennaio 1998,
cit., contenente uno « Schema di convenzione per la
gestione delle risorse » e uno « Schema di convenzione per la gestione delle risorse con garanzia di restituzione del capitale o corresponsione di un interesse
minimo ».
( 161 ) L’art. 6, comma 7o, infatti, si esprime in termini di « requisiti patrimoniali minimi, differenziati
per tipologia di prestazione offerta ». Le autorità di
vigilanza, tuttavia, non hanno provveduto a determinare particolari requisiti per i gestori abilitati a stipulare la garanzia di restituzione del capitale: cfr. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei
fondi pensione chiusi, cit., p. 342. In ogni modo, i gestori sono sottoposti a regole prudenziali particolari
in caso di stipulazione di convenzione con garanzia.
Per le assicurazioni dispone in particolare la specifica
disciplina in materia di riserve tecniche: esse dovranno costituire « riserve tecniche [...] sufficienti a garantire le obbligazioni assunte e le spese future » (art.
36, comma 1o, c.a.p.). Con soluzione analoga, le SIM,
le SGR e le banche dovranno « disporre di un patrimonio libero almeno pari all’ammontare delle riserve
necessarie per fare fronte all’impegno assunto in relazione alla garanzia prestata »: v. le normative della
Banca d’Italia citate retro alla nt. 136.
( 162 ) In questo senso v. Candian, Linee ricostrutti-
665
presenza della garanzia non trasforma la convenzione in un contratto di assicurazione ( 163 ): il
gestore rimane obbligato ad una gestione individuale a carattere finanziario del patrimonio del
fondo, ma a questa obbligazione se ne affianca
un’altra ai sensi della quale il gestore è tenuto al
pagamento di una somma quando il risultato
della gestione abbia condotto ad una perdita rispetto al capitale iniziale, o non abbia conseguito gli incrementi pattuiti ( 164 ). In particolare,
dunque, l’attività di gestione delle risorse del
fondo di gestione postulata dalle convenzioni
con garanzia non implica né l’assunzione di rive in materia di fondi pensione, cit., p. 128; Id., I fondi pensione, cit., p. 121; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit.,
pp. 221-222, che distingue opportunamente tra garanzia di restituzione del valore nominale del capitale
(alla quale si riferisce propriamente l’art. 6, comma
9o), garanzia di restituzione del valore reale (che
comprende una somma pari al valore nominale dei
contributi versati capitalizzati ad un tasso di interesse
pari almeno al tasso inflazionistico) e garanzia di corresponsione di un interesse minimo (dove la somma
dovuta è comprensiva del valore nominale del capitale conferito e di un interesse minimo concordato tra
le parti) (p. 221); Bessone, Fondi pensione e mercato
finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di
tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione
I. L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 358-360; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 287-289. Del resto dispone espressamente in questo senso lo « Schema di convenzione
per la gestione delle risorse con garanzia di restituzione del capitale o corresponsione di un interesse minimo », contenuto nella Deliberazione COVIP 7 gennaio 1998, cit.. Contra, nel senso che potrebbero essere inserite soltanto garanzie limitate alla sola restituzione del capitale nominale, v. invece Vianello,
L’esecuzione delle convenzioni, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cinelli, cit., p. 461; Brambilla, Capire i fondi pensione, cit., p. 13; Carniol,
La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., pp. 169-170.
( 163 ) Candian, Linee ricostruttive in materia di
fondi pensione, cit., p. 135; Id., I fondi pensione, cit.,
p. 51; Pitacco, Gestione di fondi previdenziali con
garanzie di minimo. Aspetti tecnico-attuariali, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura
di Iudica, cit., p. 151.
( 164 ) Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra
pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1121;
Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio
dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 283-284.
666
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
schio demografico, né la necessità di ricorrere a
tecniche statistico-attuariali ( 165 ). Per conseguenza, tale clausola potrà essere inserita nelle
convenzioni stipulate con tutti i soggetti gestori
di cui all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 (banche,
SIM, SGR, società fiduciarie di gestione), e non
soltanto con le assicurazioni ( 166 ). La possibilità
di concludere, contestualmente alla stipulazione
della garanzia, accordi che consentono il passaggio in capo al gestore della titolarità delle risorse conferite dal fondo sembra essere stata inserita soprattutto per rispettare l’obbligo delle
assicurazioni di coprire con attivi propri le riserve tecniche dei rami vita (artt. 36, comma 1o
e 38, comma 1o, c.a.p.) ( 167 ). Secondo la dottri-
( 165 ) V. in questo senso Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 10; Palmisano, La
gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1121-1123; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 224; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp.
168-170; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 283-284 e
291 ss. Contra però, nel senso che soltanto alle assicurazioni sarebbe consentito stipulare una convenzione
con garanzia, Vianello, L’esecuzione delle convenzioni, cit., p. 461.
( 166 ) In questo senso Palmisano, La gestione dei
fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1123; Paci, La gestione finanziaria con
garanzia dei fondi pensione: metodologie e regolamentazione, in Iudica (a cura di), I fondi di previdenza e
di assistenza complementare, cit., p. 158; Casillo, La
gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 224-225; Righini, La gestione
« finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 296-301.
( 167 ) In questo senso Candian, I fondi pensione,
cit., p. 125; Bessone, Previdenza complementare, cit.,
pp. 353-354; Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 175-176;
anche se non espressamente, Zampini, La previdenza
complementare. Fondamento costituzionale e modelli
organizzativi, cit., p. 252. Non si ritiene condivisibile
invece, anche alla luce delle considerazioni riportate
infra alla nt. 169, l’opinione di Casillo, La gestione
del patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., pp. 225-227, secondo la quale « per nessuna » delle tipologie di garanzia « né tecnicamente, né legislativamente, vi è obbligo di costituzione di riserve da attrarre necessariamente nella titolarità del gestore, quand’anche questo sia una compagnia di assicurazione ».
na prevalente ( 168 ) l’accordo ex art. 6, comma 9o
consentirebbe soltanto l’attribuzione della titolarità formale del patrimonio, e non di quella
sostanziale ( 169 ). In favore di un passaggio di titolarità meramente formale depongono dati testuali dell’art. 6 ( 170 ), ma anche lo schema-tipo
( 168 ) V. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., pp. 10-11; Carniol, La gestione dei
fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, in
I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a
cura di Iudica, cit., p. 67 ss.; Casillo, La gestione del
patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., pp. 227-228; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 256 (seppur implicitamente); Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi
pensione chiusi, cit., p. 340; contra però, nel senso che
con l’accordo ex art. 6, comma 9o, d.lgs. n. 252 si
avrebbe il passaggio sia della titolarità formale che di
quella sostanziale, Candian, I fondi pensione, cit.,
1998, p. 124; Bessone, Previdenza complementare,
cit., pp. 353-354 (quando si tratti di convenzione con
garanzia di restituzione del capitale stipulata con impresa assicuratrice).
( 169 ) Il passaggio della titolarità soltanto formale
non comporta tuttavia la conseguenza, paventata da
alcuni, che tali risorse non potrebbero essere considerate valide a coprire le riserve tecniche delle assicurazioni dei rami vita, rendendo così eccessivamente
difficile per questi ultimi operatori la stipulazione di
convenzioni con garanzia. Infatti, un’attenta interpretazione della disciplina delle riserve tecniche delle
assicurazioni chiarisce che, in caso di convenzione
con garanzia, la titolarità sostanziale degli attivi è necessaria soltanto con riferimento alle riserve tecniche
aggiuntive (v. Righini, La gestione « finanziaria » del
patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 320 ss.).
Queste ultime, tuttavia, non devono affatto corrispondere alla totalità dei valori conferiti in gestione
(nel senso qui criticato, invece, Bessone, Previdenza
complementare, cit., pp. 276 e 353-354): la compagnia
di assicurazioni sarà tenuta a « costituire solo quelle
riserve tecniche aggiuntive proporzionali al rischio finanziario effettivamente assunto » con la stipulazione
della garanzia, tenuto conto in particolare del complesso delle riserve tecniche costituite anche dall’insieme del patrimonio gestito in nome proprio, ma per
conto del fondo pensione (così Righini, La gestione
« finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 337).
( 170 ) Anche in caso di convenzione con garanzia e
accordo sul passaggio di titolarità le risorse del fondo
costituiscono patrimonio separato e autonomo, devono essere contabilizzate a valori correnti, non possono essere fatte oggetto di esecuzione da parte dei creditori del gestore [art. 6, comma 9o]; inoltre, la titola-
La nuova disciplina della previdenza complementare
della COVIP ( 171 ). L’attribuzione di titolarità
meramente formale ha conseguenze non indifferenti per il fondo: gli eventuali accrescimenti
del patrimonio ulteriori rispetto alla garanzia
spetteranno ad esso, e non al gestore ( 172 ).
Il d.lgs. n. 252 ha posto le fondamenta per
una notevole diffusione delle convenzioni di gestione con garanzia. L’art. 8, comma 9o, stabilisce che « gli statuti e i regolamenti delle forme
pensionistiche complementari prevedono, in caso di conferimento tacito del t.f.r., l’investimento di tali somme nella linea a contenuto più prudenziale tale da garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili [...] al tasso di
rivalutazione del t.f.r. » ( 173 ). L’art. 6, comma
8o, lett. a), secondo periodo, d.lgs. n. 252 aggiunge che le linee di indirizzo inserite nella
convenzione possono « prevedere linee di investimento che consentano di garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del
t.f.r. ». La mancata introduzione di una linea di
investimento con queste caratteristiche comporta conseguenze pesanti per i fondi: e precisamente l’impossibilità di fruire del meccanismo di devoluzione tacita del t.f.r. ( 174 ). Sebbene a rigore la predisposizione di una linea di investimento di questo tipo non comporti necessariamente la stipulazione di una convenzione
di gestione con garanzia ( 175 ), di fatto questo sarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari rimane in capo al fondo [art. 6, comma 8o, lett. c)]. Ma
prima ancora il passaggio della titolarità sostanziale
delle risorse del fondo al gestore contraddirebbe la
nozione di « gestione », che è il contenuto essenziale
anche di questa fattispecie di convenzione: cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p.
11; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 305.
( 171 ) V. in proposito l’accurata analisi di Righini,
La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi
pensione chiusi, cit., pp. 341-342.
( 172 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 11; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p.
228; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 304-305.
( 173 ) Su questa disposizione v. Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., pp. XV-XVI.
( 174 ) In questo senso v. la deliberazione COVIP 28
giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari ».
( 175 ) La COVIP sembra però di diverso avviso.
Nella comunicazione 8 febbraio 2007 ai fondi pen-
667
rà lo strumento più semplice per conseguire il
risultato della restituzione del capitale e di rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del
t.f.r. ( 176 ). Tra l’altro, la COVIP, con distinzione
a dire il vero non facilmente comprensibile, ritiene che la restituzione integrale del capitale
debba essere assicurata « con certezza », mentre
il rendimento minimo dovrà essere conseguito
« con elevata probabilità » ( 177 ). Lo strumento
più usato per ottenere questi risultati sarà verosimilmente una convenzione di gestione con
clausola di garanzia che comprende non soltanto la restituzione del capitale, ma anche un rendimento comparabile a quello del t.f.r. ( 178 ). La
previsione espressa nel d.lgs. n. 252 di una linea
sione negoziali, dal titolo « Comunicazione ai fondi
pensione negoziali in merito al comparto garantito
destinato ad accogliere il t.f.r. conferito tacitamente », l’autorità di vigilanza sembra indicare che la stipulazione di una convenzione con clausola di garanzia di restituzione del capitale costituisce strumento
imprescindibile per il corretto adeguamento a quanto
prescritto dagli artt. 6, comma 8o, lett. a), secondo
periodo e 8, comma 9o, d.lgs. n. 252/05. In questo
senso anche Righini, La gestione « finanziaria » del
patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 288.
( 176 ) E precisamente pari ad « un tasso costituito
dall’1,5 per cento in misura fissa e dal 75 per cento
dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo per le
famiglie di operai ed impiegati, accertato dall’ISTAT » nell’anno (art. 2120, comma 4o, c.c.).
( 177 ) Così la deliberazione COVIP 28 giugno 2006,
cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme
pensionistiche complementari ». Analogamente anche la comunicazione COVIP 8 febbraio 2007 ai fondi pensione negoziali, dal titolo « Comunicazione ai
fondi pensione negoziali in merito al comparto garantito destinato ad accogliere il t.f.r. conferito tacitamente », cit. In quest’ultimo documento la COVIP
precisa anche che la nozione di capitale garantito deve comprendere « la somma dei contributi versati al
fondo [...], decurtata dei costi eventualmente posti
direttamente a carico degli aderenti [...], ossia di
quelle somme che non sono affidate in gestione »,
mentre « non devono [...] intaccare il capitale minimo garantito le commissioni da corrispondere ai gestori finanziari per la gestione delle risorse [...] e per
la prestazione della garanzia, nonché gli oneri di negoziazione finanziaria ». Nel senso che i fondi dovrebbero garantire un rendimento pari almeno ad
una certa percentuale di quello assicurato dal t.f.r.
Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione,
cit., p. XIV.
( 178 ) Cfr. Righini, La gestione « finanziaria » del
patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 288, se-
668
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
di investimento che implica quasi necessariamente la stipulazione di una clausola di garanzia
di rendimento toglie ogni dubbio residuo all’ammissibilità in via generale della negoziazione di tale tipo di clausole nell’ambito delle convenzioni ( 179 ).
4.2.2. – L’art. 6, comma 9o, d.lgs. n. 252 descrive gli effetti legali che conseguono alla stipulazione della convenzione di gestione. La maggior parte sono inderogabili: soltanto al principio della titolarità delle disponibilità e dei valori
conferiti in capo al fondo gestione si può derogare, come si è visto ( 180 ), in caso di convenzione accompagnata da garanzia di restituzione del
capitale.
I fondi pensione sono dunque titolari del patrimonio conferito in gestione: è evidente la ratio di tutela degli interessi patrimoniali degli
aderenti sottesa a questa disposizione ( 181 ). Esso costituisce in ogni caso (anche in quello in
cui sia stato concordato il passaggio della titolarità al gestore) ( 182 ) patrimonio separato e autonomo con gli effetti già riconosciuti dall’art.
2117 c.c. ai fondi destinati dal datore di lavoro
alla previdenza integrativa dei dipendenti: esso
è astretto dal vincolo di destinazione, e non
può formare oggetto di esecuzione da parte
dei creditori dei soggetti gestori, né da loro
rappresentanti, né essere coinvolto in procedure concorsuali che riguardano il gestore ( 183 ).
Questa disciplina della separazione patrimo-
condo la quale la stipulazione di una convenzione di
questo tipo è addirittura imposta ai fondi pensione.
( 179 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
p. 288.
( 180 ) V. retro il paragrafo precedente.
( 181 ) Come nota Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p.
215, « qualora il patrimonio del fondo venisse fuso
con quello del gestore, eventuali crisi finanziarie di
quest’ultimo finirebbero per avere effetti pregiudizievoli in capo agli iscritti ».
( 182 ) In questo senso espressamente Vianello,
L’esecuzione delle convenzioni, cit., pp. 463 e 465466.
( 183 ) Vianello, L’esecuzione delle convenzioni,
cit., pp. 462-463; Casillo, La gestione del patrimonio
dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 216;
Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., pp. 307 ss.
niale è analoga ( 184 ) a quella dettata dall’art.
22, comma 1o, t.u.f. con riferimento alle somme di denaro e agli strumenti finanziari che
formano oggetto (anche) del servizio di gestione di portafogli di investimento ex art. 24,
t.u.f.: ne esce così confermata l’opinione che
riconduce le convenzioni di gestione ai contratti di gestione patrimoniale di cui al t.u.f., di
cui costituirebbero un sottotipo ( 185 ).
In caso di procedura concorsuale a carico del
gestore, il fondo pensione è legittimato a proporre l’azione di rivendicazione ex art. 103, r.d.
16 marzo 1942, n. 267 (di seguito: l. fall.) per ritornare il possesso del proprio patrimonio [art.
6, comma 9o, terzo periodo, d.lgs. n. 252] ( 186 ).
Il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 ha riscritto ampiamente la l. fall., ed in particolare anche l’art.
( 184 ) In realtà la disciplina ex art. 22, commi 1o e
2 , t.u.f. appresta una tutela ancora maggiore al cliente: essa infatti non consente agli eventuali depositari
o sub-depositari, o a loro creditori, azioni sul patrimonio distinto, né l’operare in loro favore della compensazione legale o giudiziale, né la possibilità di pattuire la compensazione convenzionale rispetto ai crediti da loro vantati nei confronti dell’intermediario (o
del depositario nel caso del sub-depositario). Secondo condivisibile dottrina queste disposizioni di maggior tutela sarebbero applicabili anche al cliente fondo pensione, per il quale rivestono un particolare interesse per via dell’esistenza di un depositario imposto ex lege: la banca depositaria di cui all’art. 7 d.lgs.
n. 252. V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi,
cit., pp. 187-189.
( 185 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
p. 179.
( 186 ) Sui problemi di coordinamento tra questa disposizione e la disciplina delle procedure concorsuali
degli intermediari finanziari v. Righini, La gestione
« finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 180-181, nt. 76. In particolare, secondo
questa autrice l’art. 103 l. fall. non si applicherebbe
più a banche, SIM e SGR, e la disciplina della rivendicazione e restituzione (anche) dei patrimoni dei
fondi pensione si dovrebbe rinvenire nell’art. 91, d.lgs. 1o settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi
in materia bancaria e creditizia – di seguito: TUB).
Nel caso dei fondi pensione, tuttavia, il richiamo
espresso dell’art. 103, l. fall. potrebbe costituire lex
specialis derogatoria della disciplina applicabile alle
rivendicazioni e restituzioni azionate dalla generalità
dei clienti degli intermediari finanziari sottoposti a
procedura concorsuale.
o
La nuova disciplina della previdenza complementare
103. Tuttavia, poiché l’art. 103 continua a regolare, sebbene in modo parzialmente diverso, la
materia della rivendicazione e restituzione, non
sorgono problemi a ritenere applicabili le nuove
disposizioni. La rivendicazione potrà avere ad
oggetto « tutti i valori conferiti in gestione, anche se non individualmente determinati o individuati ed anche se depositati presso terzi, diversi dal soggetto gestore » [art. 6, comma 9o,
penultimo periodo, d.lgs. n. 252]: i terzi diversi
dal gestore cui si fa riferimento sono anzitutto la
banca depositaria ex art. 7, d.lgs. n. 252 ( 187 ).
Qualora il patrimonio non sia stato acquisito, in
tutto o in parte, all’attivo della procedura, il
fondo potrà modificare la propria domanda anche nel corso dell’udienza fissata per l’esame
dello stato passivo e chiedere l’ammissione al
passivo per il valore del patrimonio o della parte di esso alla data di apertura della procedura
concorsuale (art. 103, secondo periodo, l. fall.).
Se invece il curatore perde il possesso di una
parte o di tutti gli strumenti finanziari e le disponibilità del fondo dopo averli acquisiti, il
fondo pensione potrà chiedere che il relativo
valore sia corrisposto in prededuzione (art. 103,
secondo periodo, l. fall.).
Per la determinazione del patrimonio del
fondo oggetto di rivendicazione l’ultimo periodo dell’art. 6, comma 9o pone particolari agevolazioni probatorie: è infatti ammessa « ogni
prova documentale, ivi compresi i rendiconti
redatti dal gestore o dai terzi depositari », ovvero dalla banca depositaria ex art. 7, d.lgs. n.
252. La riforma della l. fall. ha ulteriormente
alleggerito il carico probatorio del fondo: il
nuovo art. 103, primo periodo, l. fall. richiama
infatti l’art. 621 c.p.c. Dalla lettura congiunta
delle due norme si deduce che la prova per testimoni sui beni mobili oggetto di rivendicazione e in possesso del debitore sottoposto alla
procedura concorsuale può essere esperita soltanto quando « l’esistenza del diritto stesso »
di proprietà « sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo o
dal debitore » (art. 621 c.p.c.). Non sussistono
dubbi che questa via sia sempre percorribile
dal fondo pensione sulla scorta delle caratteristiche di professionalità proprie e del gestore;
( 187 ) Sulla quale v. infra amplius il par. 6 di questo
commento.
669
rimane invece più dubbia la concreta utilità ( 188 ).
4.2.3. – I commi 5o bis e 13o dell’art. 6, d.lgs.
n. 252 (come modificato dal d.lgs. n. 28/07)
stabiliscono i criteri di investimento che i fondi
pensione devono seguire e i limiti che essi devono rispettare nell’impiego delle proprie risorse. L’ultima parte del comma 5o bis si occupa anche di conflitti di interesse. Su queste materie il testo originario del d.lgs. n. 252 aveva
ripreso fedelmente quanto stabilito dall’art. 6,
commi 4o quinquies e 5o, d.lgs. n. 124/93, aggiungendo però una lett. c) al contenuto del
vecchio art. 6, comma 5o [art. 6, comma 13o,
lett. c), d.lgs. n. 252]: si tratta di una disposizione volta ad adeguare (parzialmente) il nostro ordinamento alla dir. 2003/41/CE ( 189 ).
Tuttavia, un completo adeguamento delle norme dell’art. 6 relative agli investimenti a quanto
prescritto dall’art. 18, dir. 2003/41/CE richiedeva modifiche più consistenti: il d.lgs. 28/07
di recepimento della direttiva ha dunque preferito percorrere la via dell’abrogazione integrale
del comma 11o dell’art. 6, d.lgs. n. 252 ( 190 ) e
della sua sostituzione con il nuovo comma 5o
bis; l’art. 1, comma 2o, d.lgs. 28/07 ha inoltre
aggiunto una nuova lett. c bis) al comma 13o
dell’art. 6.
Nella propria attività di asset allocation il fondo pensione deve innanzitutto rispettare i limiti
di cui all’art. 6, comma 13o, d.lgs. n. 252 ( 191 ). I
( 188 ) Infatti, il patrimonio del fondo non è composto di « beni materiali fisicamente identificabili »:
così Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 186-187,
nt. 86.
( 189 ) Essa infatti riprende pressoché alla lettera
quanto stabilito dall’art. 18, par. 1, lett. f), dir. 2003/
41/CE.
( 190 ) Cfr. l’art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07.
( 191 ) Qualora non rispettino i limiti di investimento previsti nell’art. 6, comma 13o, d.lgs. n. 252, a parte la responsabilità per mala gestio secondo le regole
generali, i componenti degli organi collegiali dei fondi e il responsabile della forma pensionistica possono
essere puniti con le sanzioni amministrative di cui all’art. 19 quater, comma 2o, lett. c) d.lgs. n. 252/05
(come modificato dal d.lgs. 28/07) e, nei casi più gravi, anche dichiarati decaduti ai sensi dell’art. 19 quater, commi 2o, lett. c) e 3o, d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.lgs. n. 28/07).
670
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
medesimi limiti devono essere rispettati anche
dai gestori abilitati che operano con le risorse
del fondo pensione: infatti, la relativa disciplina
si impone loro come lex specialis derogatoria
delle regole generali esistenti in materia di investimenti nell’ambito dell’attività di intermediazione finanziaria o assicurativa ( 192 ). Le limitazioni ex art. 6, comma 13o, infine, vincolano anche la banca depositaria di cui all’art. 7, d.lgs. n.
252 ( 193 ), la quale è tenuta a non eseguire le
istruzioni impartite dal gestore qualora esse siano contrarie alla legge (e dunque anche quando
esse siano contrarie alle indicazioni ex art. 6,
comma 13o).
L’art. 6, comma 13o si apre vietando ai fondi, per intuibili motivi prudenziali, di assumere o concedere prestiti, nonché prestare garanzie in favore di terzi ( 194 ). La lett. a) del comma 13o stabilisce poi che i fondi pensione non
possono acquisire tramite le proprie risorse più del 5% del valore nominale complessivo di tutte le azioni o quote con diritto di voto emesse da una società quotata, percentuale che diventa il 10% se la società non è quotata; la disposizione si chiude vietando comunque l’acquisizione di una percentuale anche
inferiore, se questa sia in grado di determinare in via diretta un’influenza dominante sulla
società ( 195 ). La ratio di questo divieto è quella di impedire che, attraverso l’acquisizione
( 192 ) In questo senso con riferimento ai limiti ex
d.m. n. 703/96 (ma l’argomento vale con riferimento
a tutti i limiti agli investimenti posti dalla disciplina
sui fondi pensione) v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
p. 130, nt. 20. Nel senso invece che i limiti di investimento ex d.m. n. 703/96 non si applicherebbero ai
gestori, che sarebbero tenuti soltanto al rispetto delle
disciplina in materia di investimenti propria della loro attività istituzionale, v. Volpe Putzolu, I fondi
pensione aperti, cit., pp. 335-336, secondo la quale
« un eventuale conflitto di norme (ad es. sui limiti degli investimenti) » potrebbe « essere risolto mediante
il ricorso da parte del fondo ad una pluralità di convenzioni » (p. 336).
( 193 ) Sulla quale v. amplius, infra al par. 6.
( 194 ) Il divieto di « prestare garanzie in favore di
terzi » è stato opportunamente introdotto dall’art. 1,
comma 5o, d.lgs. n. 28/07: l’assenza di questa precisazione finiva per vanificare di fatto il divieto di concedere prestiti.
( 195 ) È stato notato però che la disposizione non
vieta l’acquisizione di un’influenza indiretta sulla so-
del controllo, considerazioni inerenti la gestione diretta di una società finiscano in qualche
modo per distogliere il fondo dal suo obiettivo prioritario, che è quello della massimizzazione del risparmio previdenziale degli aderenti ( 196 ).
Un obiettivo diverso è sotteso agli altri due
divieti contenuti nell’art. 6, comma 13o, lett. b)
e c): qui si vuole evitare che il fondo si esponga
eccessivamente nei confronti delle imprese tenute alla contribuzione. Infatti, soprattutto nel
caso dei fondi negoziali, le parti sociali potrebbero cercare di concentrare la maggior parte
degli investimenti nel settore o nell’impresa di
appartenenza con il rischio di pregiudicare pesantemente la finalità dell’accrescimento del risparmio previdenziale degli aderenti ( 197 ).
L’art. 6, comma 13o, lett. b) fa dunque divieto
ai fondi pensione di acquisire azioni o quote di
soggetti tenuti alla contribuzione, o da questi
controllati direttamente o indirettamente, per
interposta persona o tramite società fiduciaria,
o agli stessi legati da rapporti di controllo ( 198 ),
cietà: v. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit.,
p. 256.
( 196 ) Cfr. in questo senso Enriques, La gestione
delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 211-212; Bessone, Fondi pensione e
mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi
pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 348; Righini,
La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi
pensione chiusi, cit., pp. 256-257. V. però le diverse
considerazioni di Bonardi, sub art. 1, in questo
Commentario, par. 4: secondo questa autrice i limiti
di investimento del 5 e del 10% calcolati sul valore
nominale complessivo di tutte le azioni o quote con
diritto di voto emesse da una società non si giustificherebbero con la finalità di tutela del risparmio
previdenziale degli aderenti al fondo, e costituirebbero dunque una inammissibile limitazione dell’iniziativa economica dei fondi, « probabilmente in contrasto con l’art. 41 e forse anche con l’art. 46
Cost. ».
( 197 ) Cfr. Enriques, La gestione delle risorse dei
fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita:
finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 212213; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 258-260.
( 198 ) Per la nozione di controllo l’art. 6, comma
La nuova disciplina della previdenza complementare
per un ammontare superiore al 20% delle risorse del fondo, che diviene il 30% per i fondi
pensione di categoria. L’art. 6, comma 13o,
lett. c), fermi i limiti generali di cui alla lett. b),
riduce le percentuali appena viste al 5 e al 10%
del patrimonio complessivo del fondo quando
si tratti di fondi pensione aventi come destinatari i lavoratori di una determinata impresa e
l’investimento riguardi strumenti finanziari
emessi da tale impresa e rispettivamente da imprese appartenenti al gruppo ( 199 ) di cui l’impresa fa parte.
I limiti di investimento previsti dalla lett. c) risultano più rigorosi di quelli della lett. b). Il divieto in quest’ultimo caso riguarda soltanto l’acquisto di azioni o quote e non di altri strumenti
finanziari emessi dalle società ( 200 ), come ad es.
le obbligazioni o gli strumenti finanziari partecipativi ex art. 2346, comma 6o, c.c. o 2447 ter,
comma 1o, lett. e), c.c., considerati evidentemente meno rischiosi per la stabilità dei fondi
pensione; la percentuale di azioni o quote acquisibili è poi piuttosto elevata poiché l’investimento concerne una pluralità di società, e questa circostanza consente comunque di diluire il
rischio. La fattispecie ex lett. c) riguarda invece
l’investimento in un’unica società o gruppo, e
sembra pensata per ricomprendere in particolare i fondi pensione aziendali: il divieto riguarda
tutti gli strumenti finanziari emessi dall’impresa
i cui lavoratori aderiscono al fondo pensione,
con possibilità di acquisto davvero ridotte. La
preoccupazione principale del legislatore, anche comunitario, è la salvaguardia del risparmio
previdenziale dei lavoratori nel caso in cui l’impresa si trovi ad attraversare momenti di crisi ( 201 ).
13o, lett. b) e c) rimanda a quella, molto ampia, contenuta nell’art. 23 t.u.b.
( 199 ) Per la nozione di gruppo il riferimento dell’art. 6, comma 13o, lett. c) è alle imprese legate da
rapporti di controllo ex art. 23 t.u.b.
( 200 ) Inoltre, stando alla lettera della norma, il divieto non si applica ai fondi con contribuzione esclusiva a carico dei lavoratori. La fattispecie ex lett. c) ricomprende invece anche questa tipologia di fondi. V.
Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio
dei fondi pensione chiusi, cit., p. 261.
( 201 ) Non può non venire alla mente il notissimo
caso Enron, dove alla sventura della perdita dei propri posti di lavoro, per i dipendenti si sommò la beffa
671
In attuazione dell’art. 18, par. 1, lett. c), dir.
2003/41/CE l’art. 1, comma 2o, d.lgs. n. 28/07
ha aggiunto all’art. 6, comma 13o, un’ulteriore
lett. c bis), nella quale si precisa che il patrimonio dei fondi pensione deve essere investito in
misura predominante sui mercati regolamentati,
mantenendo a livelli prudenziali gli impieghi in
attività non ammesse in tali mercati. Questa disposizione rimedia opportunamente ad una lacuna del nostro ordinamento: il d.m. n. 703/96
non prevede alcun limite specifico per gli investimenti dei fondi pensione in titoli non ammessi allo scambio in mercati regolamentati ( 202 ). È
di tutta evidenza che l’investimento delle risorse
dei fondi pensione nei mercati regolamentati offre maggiori garanzie per il risparmio previdenziale rispetto a quello in titoli non negoziati in
tali mercati. Nella disciplina previgente la novella ex d.lgs. n. 28/07 l’assenza di un chiaro limite agli investimenti dei fondi in titoli non ammessi allo scambio in mercati regolamentati si
spiegava anche con il favor che l’art. 6, comma
11o, lett. a) riservava al finanziamento delle piccole e medie imprese, i cui titoli difficilmente
vengono negoziati in tali mercati. Del tutto coerentemente, perciò, il nuovo art. 6, comma 5o
bis, d.lgs. n. 252 non ripropone l’inciso secondo
il quale nella gestione delle proprie risorse i fondi pensione devono avere « particolare attenzione per il finanziamento delle piccole e medie
imprese ».
Il vecchio art. 6, comma 11o, lett. a) e b), d.lgs. n. 252, sulla scorta di quanto già faceva l’art.
6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124, incaricava
il Ministero dell’economia e delle finanze di definire con decreto, sentita la COVIP, le attività
del dissesto dei propri risparmi previdenziali. Nel
piano pensionistico aziendale a contribuzione definita di Enron [piano 401(K)] ben il 63% del patrimonio risultava investito in titoli dell’impresa stessa. Cfr.
per ulteriori dettagli sulla vicenda Mangiatordi e
Giacomel, Il dissesto dei piani pensionistici della società Enron: alcune riflessioni sul sistema dei fondi
pensione negli Stati Uniti e in Italia, in Quaderni tematici COVIP, 2002, 1, p. 40 ss., consultabile sul sito
www.covip.it.
( 202 ) Per la verità limiti indiretti si possono trarre
dai commi 1o, lett. c) e 2o dell’art. 4, la cui ratio principale è tuttavia quella di arginare gli investimenti dei
fondi pensione in titoli negoziati al di fuori dei Paesi
dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e
del Giappone.
672
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
nelle quali i fondi pensione possono investire le
proprie risorse e i relativi limiti massimi di investimento, nonché i criteri di investimento nelle
varie categorie di valori mobiliari; il decreto doveva anche porre particolare attenzione alle esigenze di finanziamento delle piccole e medie
imprese e allo sviluppo locale. Il nuovo comma
5o bis dell’art. 6 d.lgs. n. 252 interviene a sostituire l’abrogato comma 11o ( 203 ) con una normativa maggiormente in linea con quanto disposto dall’art. 18 dir. 2003/41/CE ( 204 ). Il decreto diventa interministeriale, in quanto il
comma 5o bis stabilisce che il « Ministro dell’economia e delle finanze » provveda « di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale ». Tuttavia, il contenuto del decreto non ne esce rivoluzionato, prevedendosi
pur sempre che esso stabilisca le attività nelle
quali i fondi pensione possono investire le proprie risorse, nonché i criteri di investimento nelle varie categorie di valori mobiliari ( 205 ). Si accentua però il carattere liberale della regolazione: i limiti massimi di investimento sono previsti
soltanto come eventualità giustificata « da un
punto di vista prudenziale »; scompare ogni
traccia di funzionalizzazione degli investimenti
dei fondi alle esigenze delle p.m.i. e, al contra( 203 ) Cfr. l’art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07.
( 204 ) Cfr. l’art. 18, parr. 1, lett. a), 5 e 6, dir. 2003/
41/CE.
( 205 ) Secondo l’art. 15 ter, comma 6o, d.lgs. n. 28/
07 il decreto dovrà anche definire i limiti agli investimenti che i fondi pensione istituiti in altri Stati dell’Unione europea, rientranti nel campo di applicazione della dir. 2003/41/CE e debitamente autorizzati
dall’Autorità competente del proprio Stato membro
di origine, dovranno eventualmente rispettare per la
parte di attivi corrispondenti alle attività svolte sul
territorio italiano. La dir. 2003/41/CE liberalizza l’attività transfrontaliera delle forme pensionistiche
complementari (cfr. l’art. 20, nonché infra il par. 5).
In linea di principio la gestione delle risorse si svolge
secondo le regole dello Stato di stabilimento, in
quanto esse risultano ampiamente armonizzate a livello comunitario ad opera dell’art. 18 della direttiva.
Tuttavia, l’art. 18, par. 7, dir. 2003/41/CE consente
ad uno Stato membro di imporre ai fondi pensione
stranieri che esercitano in esso l’attività transfrontaliera il rispetto di regole di investimento conformi a
quelle delineate nel medesimo art. 18, par. 7, ma soltanto per la parte di attivi corrispondenti alle attività
svolte nel Paese ospite e purché tali regole si applichino anche alle imprese ivi stabilite.
rio, si ribadisce che l’attività del fondo deve perseguire l’esclusivo « interesse degli iscritti ».
Il Ministero ha provveduto con il decreto
del Ministero del tesoro 21 novembre 1996, n.
703 ( 206 ). Di fatto, l’opera del Ministro si è
concretizzata nell’identificazione di criteri di
gestione piuttosto generici, nonché di nuovi limiti all’investimento delle risorse dei fondi
pensione, che si intrecciano con quelli ex art.
6, comma 13o, d.lgs. n. 252. Anche questi limiti non si impongono soltanto ai fondi pensione ( 207 ), ma anche ai gestori abilitati e alla banca depositaria ( 208 ). Non sembrano sussistere
poi dubbi che il d.m. n. 703/96 continui ad
applicarsi anche con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 252 e della novella operata dall’art. 1,
comma 1o, d.lgs. n. 28/07, benché esso sia stato approvato sulla scorta della delega ex art. 6,
comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124. L’abrogazione è sempre una questione di interpretazione della volontà del legislatore. In questo caso,
la sostanziale affinità contenutistica che lega
l’art. 6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124 ai
commi 11o e 5o bis dell’art. 6, d.lgs. n. 252
conferma la persistente vigenza del d.m., quanto meno nelle parti non incompatibili con le
modifiche intervenute nel passaggio dall’abrogato comma 11o al nuovo comma 5o bis dell’art. 6 ( 209 ).
( 206 ) Per un’accurata analisi v. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 319 ss.; Salerno, Fondi
pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 135 ss.; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale.
Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 349-352.
( 207 ) Anche in questo caso, il mancato rispetto dei
limiti di investimento contenuti nel decreto può
comportare per i componenti degli organi collegiali
dei fondi e il responsabile della forma pensionistica
complementare, a parte la responsabilità per mala
gestio secondo le regole generali, le sanzioni amministrative di cui all’art. 19 quater, comma 2o, lett. c)
d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.lgs. n.
28/07) nonché, nei casi nei casi più gravi, la decadenza ai sensi dell’art. 19 quater, commi 2o, lett. c) e
3o, d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.lgs. n.
28/07).
( 208 ) V. retro questo stesso paragrafo.
( 209 ) Cfr. Righini, La gestione « finanziaria » del
patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 85-86,
nt. 42, secondo la quale « l’art. 21, ultimo comma,
La nuova disciplina della previdenza complementare
Ai sensi dell’art. 2 d.m. n. 703/96 la gestione
delle risorse del fondo pensione deve avvenire
« in maniera sana e prudente », e deve avere per
obiettivi la « diversificazione degli investimenti »; l’« efficiente gestione del portafoglio »; la
« diversificazione dei rischi, anche di controparte »; il « contenimento dei costi di transazione, gestione e funzionamento del fondo »; e la
« massimizzazione dei rendimenti netti ». Il
d.m. raccomanda ai fondi di tener conto « delle
esigenze di finanziamento delle piccole e medie
imprese » (art. 2, comma 4o). Già prima dell’abrogazione del comma 11o dell’art. 6, che invitava il decreto ministeriale a porre « particolare attenzione per il finanziamento delle piccole
e medie imprese » [art. 6, comma 11o, lett. a),
d.lgs. n. 252], la dottrina riteneva che si trattasse per lo più di un’indicazione non vincolante ( 210 ): del resto, qualsiasi funzionalizzazione
dell’attività dei fondi pensione a scopi estranei a
quello di fornire un’adeguata copertura previdenziale complementare ai propri aderenti appariva scarsamente coerente con il fondamento
costituzionale del secondo pilastro ( 211 ). Tuttavia, secondo attenta dottrina ( 212 ), la norma poteva anche non risultare completamente indolore: non era infatti da escludere che il perseguimento delle esigenze di finanziamento delle
p.m.i. venisse in rilievo nell’ambito dei giudizi
di responsabilità degli amministratori del fondo
del d. legisl. n. 252/05 prevede l’abrogazione del solo
d. legisl. n. 124/93, non delle relative norme di attuazione, che sembrano pertanto conservare la loro validità, almeno fintanto che non siano espressamente
abrogate da una fonte di grado superiore o almeno
analogo, tranne che non si verifichi una situazione di
incompatibilità con le norme sopravvenute ».
( 210 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi
pensione, cit., p. 8; Vianello, L’esecuzione delle convenzioni, cit., p. 469; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 272; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp.
137-138.
( 211 ) Radicato, come è stato ribadito in note sentenze del giudice delle leggi, nell’art. 38, comma 2o,
Cost.: v. Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421, in
Giust. civ., 1995, I, p. 2885; ancora più chiaramente
Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, in Giur. cost.,
2000, p. 2757.
( 212 ) Cfr. Enriques, La gestione delle risorse dei
fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita:
finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 209.
673
e dei gestori, con l’effetto di attenuarla o addirittura escluderla. Il nuovo comma 5o bis dell’art. 6 elimina qualsiasi riferimento alle p.m.i., e
ribadisce invece la centralità del « perseguimento dell’interesse degli iscritti » nell’attività di investimento delle risorse del fondo pensioni. Per
conseguenza, l’art. 2, comma 4o, d.m. n. 703/96
deve ora ritenersi tacitamente abrogato per incompatibilità con il quadro legislativo superveniens che conferisce il potere regolamentare
esercitato attraverso l’emanazione del d.m. stesso.
Il fondo pensione può investire le proprie disponibilità in titoli di debito, titoli di capitale,
parti di OICVM (organismi di investimento collettivo in valori mobiliari), quote di fondi chiusi,
nonché effettuare operazioni di pronti contro
termine e in contratti derivati ( 213 ), e detenere liquidità (art. 3 d.m. n. 703/96).
L’art. 4 d.m. stabilisce i limiti di investimento,
espressi in percentuale del patrimonio del fondo pensione. Anzitutto, poiché la gestione è finalizzata all’incremento e alla valorizzazione
delle risorse del fondo, l’art. 4, comma 1o, lett.
a) sancisce il limite del 20% alle liquidità che i
fondi pensione possono detenere ( 214 ). Esigenze
di contenimento dei rischi valutari spingono poi
la normativa regolamentare a stabilire che « gli
investimenti del fondo pensione devono essere
denominati per almeno un terzo in una valuta
congruente con quella nella quale devono essere erogate le prestazioni del fondo » stesso (art.
4, comma 5o). Gli altri limiti riguardano in particolare le quote di fondi chiusi, nonché i titoli
di debito e di capitale non negoziati in mercati
regolamentati dei Paesi dell’Unione europea,
degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone
(con un trattamento di miglior favore per i titoli
di debito e di capitale emessi da Paesi aderenti
all’OCSE o da soggetti lì residenti). L’art. 4,
comma 2o, d.m. n. 703/96 vieta inoltre al fondo
pensione di investire più del 15% del proprio
patrimonio in strumenti finanziari emessi da
( 213 ) Questi ultimi con i limiti illustrati all’art. 5,
d.m. n. 703/96.
( 214 ) L’art. 1, comma 1o, lett. f), d.m. n. 703/96 definisce come liquidità i « titoli del mercato monetario
ovvero altri titoli di debito con vita residua non superiore a sei mesi, aventi requisiti di trasferibilità ed
esatta valutabilità, ivi compresi i depositi bancari a
breve ».
674
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
uno stesso emittente o da soggetti facenti parte
di un medesimo gruppo ( 215 ). Il divieto ha un
campo di applicazione solo parzialmente coincidente con quello ex art. 6, comma 13o, lett. c),
d.lgs. n. 252: a tacer d’altro, nella fattispecie appena delineata non si richiede che i lavoratori
dell’emittente aderiscano al fondo pensione, né
che l’emittente sia una società (in ipotesi potrebbe essere anche uno Stato).
La disciplina del d.m. n. 703/96 è stata ritenuta dalla dottrina particolarmente liberale ( 216 ): i
limiti da essa stabiliti lasciano una notevole libertà d’azione ai fondi pensione, e non a caso
risultano in massima parte compatibili con la regolazione degli investimenti contenuta nell’art.
18 dir. 2003/41/CE, altrettanto improntata ad
un moderato laissez-faire.
4.2.4. – Il vecchio art. 6, comma 11o, lett. c),
d.lgs. n. 252, come già l’art. 6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124, incaricava il decreto del Ministro dell’economia di individuare anche « le
regole da osservare in materia di conflitti di interesse », in particolare (ma non solo) quando i
soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive partecipano ai gestori abilitati ex art. 6, comma
1o ( 217 ). Il nuovo art. 6, comma 5o bis conferma
( 215 ) Il limite scende al 5% del patrimonio del fondo se si tratti di strumenti finanziari non negoziati in
mercati regolamentati dei Paesi dell’Unione europea,
degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone (salvo
che si tratti di titoli di debito emessi da Stati aderenti
all’OCSE) (art. 4, comma 2o, d.m. n. 703/96).
( 216 ) In questo senso v. Candian, I fondi pensione,
cit., p. 130; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 208-209; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 272; Salerno,
Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 136 e 138; Bessone, Fondi pensione e
mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 350-351; Zampini, La
previdenza complementare. Fondamento costituzionale
e modelli organizzativi, cit., pp. 255-256.
( 217 ) Secondo Russo, Gli amministratori dei Fondi
Pensione. Natura dell’incarico ed ipotesi di conflitto di
interessi, in Dir. banca e merc. fin., 1998, I, p. 184,
quest’ultima fattispecie di conflitto di interessi si verifica in due sole ipotesi: « quando gli amministratori
sono designati direttamente dal datore di lavoro che
ha sottoscritto il contratto collettivo o il regolamento
il conferimento del potere regolamentare di disporre in materia di conflitto di interessi. Il nuovo comma contempla una lett. c), secondo la
quale il decreto interministeriale con cui vengono stabiliti criteri e limiti per gli investimenti dei
fondi pensione si occuperà anche di tale materia. Le nuove regole dovranno tener conto della
specificità dei fondi pensione, nonché dei principi di cui alla dir. 2004/39/CE, alla normativa
comunitaria di esecuzione e a quella nazionale
di recepimento ( 218 ).
Nella dir. 21 aprile 2004, n. 2004/39/CE relativa ai mercati degli strumenti finanziari la materia dei conflitti di interesse è trattata nell’art.
18. Ai sensi di questa disposizione gli Stati
membri devono anzitutto richiedere alle imprese di investimento di adottare ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse
ed assicurare, con ragionevole certezza, che sia
evitato il rischio di nuocere ai clienti (art. 18,
parr. 1 e 2). Qualora sia impossibile evitare questo rischio, l’impresa di investimento dovrà informare chiaramente i clienti della natura e delle fonti del conflitto di interesse prima di agire
per loro conto. Infine, l’art. 18, par. 3, incarica
la Commissione europea di adottare misure di
esecuzione in particolare per stabilire i criteri di
individuazione dei conflitti di interesse potenzialmente lesivi degli interessi dei clienti. Questa disciplina del conflitto di interessi si basa essenzialmente sul binomio costituito dalla riduzione per quanto possibile al minimo dei rischi
aziendale istitutivo del fondo e questi possiede la partecipazione al capitale del soggetto gestore prevista
dalla norma; e quando l’amministratore è legato ad
uno dei soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive da
rapporti di dipendenza o collaborazione ».
( 218 ) La delega per il recepimento della dir. 2004/
39/CE è stata da ultimo conferita al Governo dall’art.
10 della l. 6 febbraio 2007, n. 13 (legge comunitaria
2006), che ha inserito nella l. n. 62/05 un nuovo art. 9
bis. Tra i principi e criteri direttivi specifici stabiliti
per il legislatore delegato vi è anche l’attribuzione alla CONSOB del potere « di disciplinare con regolamento, in conformità alla direttiva e alle relative misure di esecuzione adottate dalla Commissione europea » le materie relative alle misure e agli strumenti
« per idenficare, prevenire, gestire e rendere trasparenti i conflitti di interesse, inclusi i principi che devono essere seguiti dalle imprese nell’adottare misure
organizzative e politiche di gestione dei conflitti »
[art. 9 bis, comma 1o, lett. h), n. 1), l. n. 62/05].
La nuova disciplina della previdenza complementare
per i clienti e dagli obblighi di comunicazione
quando tali rischi non siano evitabili. Anche
l’attuale disciplina sul conflitto di interessi dettata dal d.m. n. 703/96 è imperniata su principi
analoghi. Ne conseguono due importanti corollari: da un lato, la parte del d.m. n. 703/96 che si
occupa di conflitti di interesse deve ritenersi
tuttora vigente, sulla base dei principi già enunciati retro al par. 4.2.3.; dall’altro lato, il futuro
nuovo decreto interministeriale non dovrebbe
contenere novità rivoluzionarie rispetto a quanto stabilito oggi dal d.m. n. 703/96.
Il d.m. n. 703/96 si occupa dei conflitti di interesse negli artt. 7 e 8: non sono previsti divieti
espressi, bensì penetranti obblighi di trasparenza ( 219 ). L’art. 7 riguarda i casi in cui il gestore
compia operazioni nelle quali abbia un interesse
in conflitto, direttamente o indirettamente e anche in relazione a rapporti di gruppo ( 220 ). Secondo questa disposizione un interesse in conflitto sussiste anche quando il gestore compia
investimenti in titoli emessi dai sottoscrittori
delle fonti istitutive, dai datori di lavoro tenuti
alla contribuzione, dalla banca depositaria o da
imprese dei rispettivi gruppi, e anche quando il
gestore compia operazioni con i medesimi soggetti. In tutti questi casi il gestore è tenuto ad
indicare specificamente le operazioni in conflitto, nonché la natura di tale conflitto, nella documentazione periodica dovuta al fondo pensione ( 221 ). Il legale rappresentante del fondo, o il
responsabile del fondo nei fondi pensione aperti, sono tenuti a dare notizia alla COVIP delle
fattispecie di conflitto di interessi che siano sta-
( 219 ) Nel senso che in linea di principio il conflitto
di interessi non incide sulla possibilità di compiere
l’operazione v. Candian, I fondi pensione, cit., p. 67;
Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit.,
p. 300; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 143-144; Enriques e Pomelli, Gli organi di amministrazione e di
controllo dei fondi pensione negoziali: conflitto d’interessi e responsabilità alla luce della riforma del diritto
societario, in Dir. banca e merc. fin., 2004, I, p. 536;
Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio
dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 265-266.
( 220 ) Per la nozione di controllo rilevante ai sensi
del d.m. 703/96 l’art. 7, comma 3o, rimanda all’art.
23 t.u.b.
( 221 ) V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 265.
675
te comunicate loro dai gestori ai sensi dell’art. 7
d.m. n. 703/96.
Il conflitto di interessi ex art. 8 d.m. n. 703/96
riceve un trattamento più rigoroso, seppur nell’ambito di obblighi di trasparenza. Infatti, a
differenza di quello ex art. 7, il conflitto di interessi ex art. 8 ha carattere statico e non dinamico: esso permane a lungo ed ha un carattere più
pervasivo poiché non riguarda singole operazioni, bensì caratteristiche del gestore stesso o dell’attività da esso svolta ( 222 ). L’art. 8, comma 1o,
d.m. n. 703/96 considera rilevante il conflitto di
interessi che emerge quando sussistano rapporti
di controllo tra il gestore e la banca depositaria
o tra i soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive
e il gestore; quando la gestione delle risorse del
fondo sia funzionale ad interessi dei soggetti
sottoscrittori delle fonti istitutive, dei datori di
lavoro tenuti alla contribuzione, del gestore o di
imprese dei loro gruppi; quando sussista ogni
altra situazione soggettiva o relazione di affari
che possa influenzare la corretta gestione del
fondo e riguardi il fondo pensione, il gestore, la
banca depositaria, i sottoscrittori delle fonti istitutive o i datori di lavoro tenuti alla contribuzione. In quest’ultima fattispecie l’art. 8, comma
4o, d.m. n. 703/96 precisa che la situazione soggettiva o relazione di affari che genera il conflitto si estende anche alle singole persone fisiche
che compongono gli organi di amministrazione
e controllo del fondo pensione. Il gestore, la
banca depositaria, i sottoscrittori delle fonti istitutive e i datori di lavoro tenuti alla contribuzione devono informare il fondo pensione quando
ricorre una delle situazioni di conflitto di interessi ex art. 8, comma 1o. Il legale rappresentante del fondo o, nei fondi pensione aperti, il responsabile del fondo sono a loro volta tenuti ad
informare la COVIP della situazione di conflitto di interessi comunicando altresì l’insussistenza di condizioni che possono generare distorsioni nella gestione efficiente delle risorse o una
( 222 ) V. Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit., p. 298; Enriques e Pomelli, Gli organi di
amministrazione e di controllo dei fondi pensione negoziali: conflitto d’interessi e responsabilità alla luce
della riforma del diritto societario, cit., pp. 536 e 538;
Zampini, La previdenza complementare. Fondamento
costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 264; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei
fondi pensione chiusi, cit., p. 266.
676
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
gestione non conforme all’esclusivo interesse
degli iscritti ( 223 ) (art. 8, comma 3o, d.m. n. 703/
96). Qualora la COVIP ritenga rilevante il conflitto di interessi, potrà richiedere al fondo di
informare gli aderenti. Obblighi di trasparenza
ancora più rinforzati sono previsti nel caso in
cui il gestore sia controllato da uno dei soggetti
sottoscrittori delle fonti istitutive: in questo caso il fondo pensione è obbligato a informare
ciascun aderente; il gestore deve presentare al
fondo rendicontazione delle operazioni effettuate con cadenza almeno quindicinale; il legale
rappresentante del fondo o, nei fondi pensione
aperti, il responsabile del fondo devono trasmettere alla COVIP una relazione con cadenza
almeno semestrale sull’andamento e sui risultati
della gestione (art. 8, comma 7o). L’art. 8 si
chiude stabilendo una serie di incompatibilità ( 224 ).
( 223 ) Nel caso in cui sia omessa questa comunicazione, l’eventuale ignoranza del legale rappresentante del fondo o del responsabile del fondo in merito
alle fattispecie di conflitto di interessi non sarà opponibile alla COVIP (art. 8, comma 5o). La disposizione, che troverà applicazione nell’ambito dei procedimenti sanzionatori della COVIP, è piuttosto singolare. Infatti, se interpretata nel senso che la mancata comunicazione rilevi anche nel caso in cui il legale rappresentante o il responsabile del fondo erano all’oscuro della fattispecie di conflitto, essa
risulta illogica e singolarmente contrastante con il
principio nulla poena sine culpa, che vale anche nell’ambito delle sanzioni amministrative. Cfr. in questo senso Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 213214. Se interpretata diversamente, tuttavia, è assai
difficile ritagliarle un ambito pur ristretto di applicazione.
( 224 ) In particolare, le funzioni di membro di organi di amministrazione, direzione e controllo del
gestore sono incompatibili con quelle di membro
dei corrispondenti organi del fondo pensione; queste ultime funzioni infine sono incompatibili con
quelle di direzione dei soggetti sottoscrittori (art. 8,
comma 8o, d.m. 703/96). Quest’ultima previsione
può riguardare da vicino anche il sindacato: in particolare, non potranno essere eletti negli organi di amministrazione e controllo del fondo pensioni soggetti
che rivestano cariche direttive all’interno dei sindacati che hanno sottoscritto le fonti istitutive. La semplice iscrizione al sindacato stesso non avrà, invece,
di norma alcuna rilevanza. V. in questo senso Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit.,
La circostanza che il d.m. n. 703/96 non vieti
espressamente le operazioni o le situazioni di
conflitto di interessi non significa affatto che il
conflitto stesso sia giuridicamente irrilevante a
parte gli obblighi di trasparenza nei confronti
della COVIP e, talora, degli aderenti. Infatti, i
fondi sono comunque tenuti ad una sana e prudente gestione, che implica il perseguimento
esclusivo degli interessi degli aderenti e la massimizzazione del risparmio previdenziale [art. 2,
comma 1o, d.m. n. 703/96; art. 6, comma 5o bis,
lett. a), d.lgs. n. 252/05]. A tali principi i fondi
si devono conformare anche quando si verifichino situazioni o operazioni in conflitto di interessi. In altri termini, se tale conflitto finisce
per ostacolare una sana e prudente gestione, ed
in particolare il perseguimento dell’interesse
esclusivo degli aderenti, i componenti degli organi collegiali dei fondi e i responsabili dei fondi si devono immediatamente attivare con tutti
gli strumenti a loro disposizione per evitare che
la situazione perduri o le operazioni in conflitto
si ripetano ( 225 ). Diversamente essi potranno es-
pp. 302-303; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi,
cit., p. 266, nt. 32. Peraltro, la deliberazione COVIP
23 aprile 1998 contenente « Orientamenti in ordine
alla disciplina delle incompatibilità ed ai requisiti di
professionalità » ha precisato che l’effetto di incompatibilità si verifica soltanto con riferimento al medesimo livello della struttura sindacale: così se la
fonte istitutiva è un contratto nazionale, soltanto i
membri di organi direttivi nazionali saranno ineleggibili; se il contratto è regionale, soltanto i componenti di organi direttivi regionali, e così via. Su questa deliberazione v. Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 266, nt. 32. A livello aziendale si dovrà ritenere che l’incompatibilità riguardi sia i componenti delle rappresentanze sindacali unitarie che i
componenti degli organi direttivi della struttura territoriale del sindacato.
( 225 ) In particolare, gli amministratori dei fondi
potranno recedere dalla convenzione di gestione o
agire per l’annullamento del contratto stipulato dal
gestore in conflitto di interessi secondo le regole dettate in via generale dall’art. 1394 c.c. per i contratti
stipulati dal rappresentante in conflitto di interessi
con il rappresentato. In questo senso v. Salerno,
Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e
vigilanza, cit., p. 148, anche alla nt. 115. Nel senso
che la disciplina codicistica in materia di conflitto di
interessi si affianca a quella procedurale stabilita dal
La nuova disciplina della previdenza complementare
sere tenuti a risarcire l’eventuale danno che sia
derivato al fondo pensione o agli aderenti dalla
loro inattività in sede di giudizio di responsabilità ( 226 ). Chiaramente, una loro mancata attivazione su specifica richiesta della COVIP potrà
comportare le conseguenze previste dall’art. 19
quater, commi 2o e 3o, d.lgs. n. 252 (come modificato dall’art. 6 d.lgs. n. 28/07), che vanno da
una sanzione amministrativa fino alla decadenza
dall’incarico. La sanzione della decadenza dall’incarico è prevista anche nel caso in cui non
siano rispettati gli obblighi previsti dal d.m. n.
703/96 ( 227 ).
Gli artt. 7-8 d.m. n. 703/96 prevedono obblighi anche a carico dei gestori abilitati: sul loro
rispetto vigileranno le rispettive autorità di vigi-
d.m. 703/96 v. anche Russo, Gli amministratori dei
Fondi Pensione. Natura dell’incarico ed ipotesi di conflitto di interessi, cit., pp. 185-186; Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit., pp. 300-302; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., pp. 267-268:
questi autori optano in particolare per l’applicazione
anche ai fondi pensione dell’art. 2391 c.c., che impone agli amministratori delle s.p.a. obblighi di comunicazione del conflitto di interessi e di astensione dalle relative operazioni (quando si tratti di amministratore delegato o unico), pena l’annullabilità delle deliberazioni che possano recare danno alla società,
adottate con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi. Dubitano che si possa ancora percorrere la via del richiamo all’art. 2391 c.c.
dopo la riforma Vietti del diritto societario Enriques e Pomelli, Gli organi di amministrazione e di
controllo dei fondi pensione negoziali: conflitto d’interessi e responsabilità alla luce della riforma del diritto
societario, cit., pp. 543-544. L’applicabilità dell’art.
2391 c.c. agli organi di amministrazione dei fondi
pensione è ora autorevolmente confermata dal nuovo
art. 2629 bis c.c. (sul quale v. infra in questo paragrafo).
( 226 ) L’art. 5, comma 7o, d.lgs. n. 252 estende la disciplina della responsabilità degli amministratori di
s.p.a. ai componenti degli organi di amministrazione
e al responsabile della forma pensionistica complementare (artt. 2392-2396 c.c., tranne il 2393 bis).
L’art. 5, comma 8o estende invece la disciplina della
responsabilità dei sindaci di s.p.a. agli organi di controllo dei fondi pensione (art. 2407 c.c.). Su queste
disposizioni v. retro Bruni, sub art. 5, in questo Commentario.
( 227 ) Cfr. in questo senso l’art. 19 quater, comma
2o, lett. b), d.lgs. n. 252, che fa riferimento tra l’altro
al caso in cui siano violate le disposizioni dell’art. 6.
677
lanza (CONSOB e ISVAP) ( 228 ). Dal punto di
vista sostanziale, poi, non va dimenticato che,
quanto meno gli intermediari finanziari ex art.
6, comma 1o, d.lgs. n. 252, sono tenuti nella
prestazione dei servizi di investimento (tra i
quali rientra anche la gestione dei patrimoni dei
fondi pensione) a « comportarsi con diligenza,
correttezza e trasparenza, nell’interesse dei
clienti », a « organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse » e
a « svolgere una gestione indipendente, sana e
prudente » [art. 21, comma 1o, lett. a), c), e),
t.u.f.] ( 229 ).
La regolazione della materia del conflitto di
interessi è un punto particolarmente delicato
della disciplina non soltanto della previdenza
complementare, ma dell’attività di intermediazione finanziaria e assicurativa in generale. Il legislatore è intervenuto su di essa alla fine del
2005 con la legge di delega del 28 dicembre, n.
262 ( 230 ). L’art. 9 prevede in particolare una delega per la fissazione di limiti quantitativi agli
investimenti (anche) dei patrimoni dei fondi
pensione nei prodotti finanziari emessi o collocati dal gestore o da società appartenenti al suo
gruppo, ovvero da società appartenenti a gruppi legati da significativi rapporti di finanziamento con il gestore o il suo gruppo; il medesimo
articolo contempla anche una delega per limitare il ricorso dei gestori ad intermediari appartenenti al medesimo gruppo. A tutt’oggi, però,
queste deleghe non sono state attuate. L’art. 31
l. n. 262/05 ha invece introdotto da subito un
nuovo art. 2629 bis c.c., che stabilisce il reato di
omessa comunicazione del conflitto di interessi
(anche) a carico dell’amministratore del fondo
pensione che viola gli obblighi ex art. 2391,
comma 1o, c.c. ( 231 ).
( 228 ) Cfr. l’art. 6, comma 7o, d.lgs. n. 252, il quale
rileva per inciso che le « rispettive autorità di vigilanza [...] conservano tutti i poteri di controllo » sui
« soggetti gestori ».
( 229 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi,
cit., p. 271.
( 230 ) Su di essa v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp.
274-276.
( 231 ) Si tratta dell’obbligo di comunicare agli altri
amministratori e all’organo di controllo ogni interesse che l’amministratore abbia, per conto proprio o di
678
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
4.2.5. – In attuazione dell’art. 1, comma 2o,
lett. l), l. n. 243/04 l’art. 6, comma 14o, d.lgs. n.
252 fa obbligo a tutte le forme pensionistiche
complementari, individuali e collettive ( 232 ), di
« esporre nel rendiconto annuale e, sinteticamente nelle comunicazioni periodiche agli
iscritti, se ed in quale misura nella gestione delle
risorse e nelle linee seguite nell’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei valori in portafoglio si siano presi in considerazione aspetti sociali, etici e ambientali ». Spetta alla COVIP definire le modalità di queste comunicazioni [art.
19, comma 2o, lett. h), d.lgs. n. 252]. Queste disposizioni si inseriscono nel quadro delle iniziative comunitarie e nazionali che dall’inizio del
nuovo secolo si sono poste l’obiettivo di favorire la diffusione della responsabilità sociale d’impresa. Finora l’approccio del legislatore nazionale a questa tematica è stato molto cauto: è stata costituita un’apposita fondazione con il fine
di generalizzarne la conoscenza e di supportare
lo sviluppo di buone prassi in questo ambito ( 233 ). Si sta ancora discutendo se sia opportuno predisporre appositi incentivi, anche di carattere economico, per spingere le imprese ad
imboccare più decisamente la via della responsabilità sociale d’impresa ( 234 ); non vi è invece
alcun dubbio che l’adozione di comportamenti
socialmente responsabili da parte delle imprese
terzi, in una determinata operazione del fondo, precisando le caratteristiche di tale interesse; qualora si
tratti di amministratore delegato, egli deve anche
astenersi dal compiere l’operazione, investendo della
stessa l’organo collegiale (arg. ex art. 2391, comma
1o, c.c.).
( 232 ) V. retro il par. 2, anche alla nt. 23.
( 233 ) Si tratta della Fondazione per la diffusione
della responsabilità sociale delle imprese. Il centro è
formalmente indipendente, ma tra i fondatori promotori compaiono il Ministero del lavoro, l’INAIL e
Unioncamere, accanto all’Università Bocconi. Per ulteriori informazioni sulla struttura e l’attività di questo organismo si veda il sito www.i-csr.org.
( 234 ) V. Ferrante, La responsabilità sociale delle
imprese nel Libro Bianco e nelle più recenti iniziative
ministeriali, in La responsabilità sociale delle imprese,
a cura di Napoli, Milano, 2005, pp. 38-39; Tullini,
Prassi socialmente responsabili nella gestione del mercato del lavoro, in Lavoro e responsabilità sociale dell’impresa, a cura di Montuschi e Tullini, Bologna,
2006, p. 69.
non possa che essere un fenomeno volontario ( 235 ).
Anche nel quadro di estrema cautela che connota l’atteggiamento del nostro Paese in materia, l’art. 6, comma 14o si mostra piuttosto anodino: per il fondo pensione non si tratta nemmeno di tener conto degli aspetti etici, sociali ed
ambientali nell’ambito della propria attività, ma
soltanto di comunicare se ed in quale misura tali
aspetti siano stati considerati ( 236 ). Con riferimento alla gestione delle risorse, l’effetto della
disposizione appare davvero piuttosto debole.
Il legislatore avrebbe potuto agire anche in modo più coraggioso. Infatti, per un verso e in
punto di diritto, il fondamento costituzionale
( 235 ) Cfr. Tursi, Responsabilità sociale dell’impresa, « etica d’impresa » e diritto del lavoro, in Lav. e
dir., 2006, pp. 68-69. Com’è noto, nel Libro Verde
della Commissione europea del 18 luglio 2001 la responsabilità sociale delle imprese è descritta come
« l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni
commerciali e nei rapporti con le parti interessate »
[punto 20 del Libro Verde dal titolo « Promuovere
un quadro europeo per la responsabilità sociale delle
imprese », COM (2001) 366 def.]. Peraltro, nel commentare il Libro Verde, Tursi ammonisce che quella
in chiave volontaria è soltanto una delle possibili declinazioni della responsabilità sociale d’impresa [v.
Tursi, La responsabilità sociale delle imprese e la Comunità europea, in La responsabilità sociale delle imprese, a cura di Napoli, cit., pp. 3-4]. I giuristi del lavoro, pur riconoscendo la volontarietà degli impegni
di responsabilità sociale assunti dalle imprese [v. per
tutti F. Carinci, Normatività ed esperienze applicative della responsabilità sociale d’impresa, in Lavoro e
responsabilità sociale dell’impresa, a cura di Montuschi e Tullini, cit., pp. 239-234], non si rassegnano a
predicarne il valore di meri gentlemen’s agreements,
ma tendono a riconoscere in essi una certa dose di
vincolatività applicando diversi strumenti giuridici,
che vanno dall’integrazione di tali impegni nei contratti individuali al riconoscimento della loro natura
di contratti collettivi o di usi aziendali: v. per la prima
soluzione Ferrante, La responsabilità sociale delle
imprese nel Libro Bianco e nelle più recenti iniziative
ministeriali, cit., pp. 47-48; per la seconda Tullini,
Prassi socialmente responsabili nella gestione del mercato del lavoro, cit., p. 65.
( 236 ) V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 240-241.
Un obbligo analogo è stato introdotto con il Trustee
Act del 2000 anche per i fondi pensione britannici: v.
Tursi, La responsabilità sociale delle imprese e la Comunità europea, cit., p. 11.
La nuova disciplina della previdenza complementare
della previdenza complementare non impedisce
al legislatore di contemperare l’obiettivo della
massimizzazione del risparmio previdenziale
con altri fondamentali diritti sanciti nella Costituzione, attraverso l’incoraggiamento o anche
l’imposizione di comportamenti di investimento
socialmente responsabili. Per altro verso e in linea di fatto, tra i cultori delle scienze economiche non è per niente assodato che gli investimenti rispettosi degli aspetti etici, sociali ed ambientali offrano ritorni inferiori a quelli delle altre tipologie di investimento: anzi, le evidenze
empiriche più recenti sembrano testimoniare
una sostanziale equivalenza ( 237 ).
Sotto diverso profilo, tuttavia, l’art. 6, comma
14o, appare significativo. Si tratta infatti di una
delle prime disposizioni del nostro ordinamento
che impongono la redazione di un bilancio sociale ( 238 ). Con la norma che qui si commenta il
legislatore vuole probabilmente anche rafforzare l’identità del fondo pensione come investitore sui generis, portato ad operare in un’ottica
non soltanto di long-termism, ma anche socialmente ed eticamente responsabile ( 239 ).
( 237 ) Cfr. ad es. Bauer, Koedijk e Otten, International evidence on ethical mutual fund performance
and investment style, in Journal of Bancking & Finance, 2005, p. 1751 ss.; Gray, Power e Sinclair, Evaluating the Performance of Ethical and Non-ethical
Funds: A Matched Pair Analysis, in Journal of Business Finance & Accounting, 2005, p. 1465 ss.; Greig,
The financial Performance of a Socially Responsible
Investment Over Time and a Possibile Link with Social Responsibility, in Journal of Business Ethics, 2006,
2, p. 131 ss. La questione tuttavia rimane sostanzialmente aperta.
( 238 ) Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 241. Per un altro esempio v. l’art. 10, comma 2o, del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155. Per un primo commento a questo
decreto legislativo v. Corti, Il caso della Società europea. La via italiana alla partecipazione di fronte alle
sfide europee. Commento al Decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 188 di attuazione della direttiva 2001/86/
CE che completa lo statuto della società europea per
quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori, in
questa Rivista, 2006, pp. 1508-1510.
( 239 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi,
cit., p. 237 ss. Sull’esperienza dei fondi etici e degli
investimenti socialmente responsabili v. Vandone, Il
mercato italiano dei fondi di investimento socialmente
responsabili, in Banca impr. soc., 2004, p. 147 ss.; Dal
679
4.2.6. – Tra gli strumenti di semplificazione
dell’attività dei fondi pensione, introdotti nel
d.lgs. n. 252 sulla scorta del criterio direttivo ex
art. 1, comma 2o, lett. h), n. 3), l. n. 243/04 ( 240 ),
vi è la mancata riproposizione dell’inciso sulla
« stipula di convenzioni aventi ad oggetto la
prestazione di servizi amministrativi » contenuto nell’art. 6 ter, d.lgs. n. 124/93. Era sulla base
di tale inciso che veniva estesa anche ai contratti
per i servizi amministrativi dei fondi la procedura di evidenza pubblica stabilita per le convenzioni di gestione ( 241 ). Ora la stipulazione di
questi contratti rientra nella piena discrezionalità dei fondi, che potranno effettuare una selezione, percorrere la via di una trattativa privata,
o anche gestire direttamente il servizio ( 242 ).
Per quanto riguarda i servizi di raccolta dei
contributi da versare ai fondi pensione e di ero-
Maso, La CSR nell’attività di gestione finanziaria: il
caso degli investimenti socialmente responsabili, in
Guida critica alla responsabilità sociale e al governo
d’impresa, a cura di Sacconi, Roma, 2005, p. 709 ss.;
Tursi, La responsabilità sociale delle imprese e la Comunità europea, cit., p. 80, nt. 10, ove anche ulteriori
riferimenti bibliografici in particolare riguardanti la
più evoluta esperienza anglosassone. L’esperienza dei
fondi etici e della finanza socialmente responsabile riceve il comprensibile sostegno anche della Chiesa
cattolica: v. Ufficio nazionale della CEI per i
problemi sociali e il lavoro, Etica, sviluppo e finanza. Per i 40 anni dell’enciclica Populorum Progressio. Contributo alla riflessione, Bologna, 2006, p. 44
ss.
( 240 ) In realtà questa disposizione contempla soltanto la « semplificazione [...] delle convenzioni per
la gestione delle risorse », cosicché residua qualche
sospetto di eccesso di delega.
( 241 ) V. retro il par. 4.2.1.
( 242 ) La COVIP sottolinea però che la scelta del
gestore del service amministrativo dovrà comunque
rispondere ai criteri generali di sana e prudente gestione cui deve essere improntata l’azione dei fondi
(art. 2, d.m. 703/96): per conseguenza la selezione
dovrà avvenire « sulla base di criteri oggettivi e adeguati, così da individuare il soggetto che meglio risponde alle esigenze del fondo e della platea di riferimento ». Così la deliberazione 28 giugno 2006, cit.,
nella sezione « Service amministrativo ». Sul difficile
equilibrio tra esternalizzazione ed internalizzazione
(anche) di queste attività dei fondi pensione chiusi v.
Francario, La ridefinizione della governance nei fondi pensione con pluralità di forme previdenziali, in La
previdenza complementare in Italia, a cura di Messori,
Bologna, 2006, pp. 357-361.
680
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
gazione delle prestazioni ( 243 ), nonché le attività
connesse e strumentali, l’art. 6, comma 2o, d.lgs.
n. 252 riprende le disposizioni di cui all’art. 6,
commi 1o bis e 1o ter, d.lgs. n. 124. Per l’espletamento di tali servizi i fondi possono, oltre che
gestire direttamente o tramite contratto con un
operatore qualsiasi del mercato, anche ricorrere
ad altre due possibilità: la stipulazione di una
convenzione con gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie (principalmente si tratterà dell’INPS o dell’INPDAP), sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di
seguito: AGCM); la costituzione di una società
di capitali con i summenzionati enti, sempre
sentita l’AGCM ( 244 ); in tale società gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie devono comunque conservare la maggioranza del capitale sociale. La ratio dell’art. 6, comma 2o è
quella di consentire ai fondi pensione di risparmiare sui costi di gestione dei servizi di raccolta
dei contributi ed erogazione delle prestazioni
approfittando delle economie di scala e delle sinergie derivanti dalle convenzioni con gli enti
gestori di forme pensionistiche obbligatorie, i
quali dispongono di una capillare distribuzione
sul territorio nazionale e di una gestione di servizi di questo tipo già ben rodata ( 245 ). La funzione della consultazione preventiva dell’AGCM sembra soprattutto quella di permettere all’autorità di arginare più agevolmente
( 243 ) Nell’ambito dell’art. 6, comma 2o, d.lgs. n.
252 per « erogazione delle prestazioni » si intende
soltanto il servizio amministrativo di attribuzione materiale della prestazione in denaro al beneficiario, tramite accredito sul conto corrente, consegna diretta, o
in altro modo: cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p.
205. Infatti, la fase di erogazione delle prestazioni
sotto forma di rendita, intesa come fase di gestione
assicurativa del montante contributivo maturato dall’aderente, è regolata specificamente dall’art. 6, commi 3o e 4o, d.lgs. n. 252. V. infra il par. 5.
( 244 ) Il servizio di raccolta dei contributi ai fondi
pensione e di erogazione delle prestazioni dei medesimi deve essere « organizzato secondo criteri di separatezza contabile dalle attività istituzionali del medesimo ente » gestore di forme pensionistiche obbligatorie: così l’art. 6, comma 2o, ultimo periodo, d.lgs.
n. 252.
( 245 ) Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit.,
pp. 253-254.
l’eventuale sfruttamento della posizione dominante di cui godono gli enti gestori di forme di
previdenza obbligatoria nell’ambito dei servizi
descritti nell’art. 6, comma 2o ( 246 ). Poiché nel
mercato relativo alla fornitura di questi servizi
ai fondi pensione gli enti gestori di forme di
previdenza obbligatoria non godono di alcun
diritto esclusivo, deve ritenersi che l’AGCM
possa utilizzare tutte le proprie prerogative ex l.
n. 287/90 per reprimere le eventuali condotte
anticoncorrenziali.
Nel d.lgs. n. 252 non vi è più traccia della disposizione ex art. 6, comma 1o bis, d.lgs. n. 124,
che consentiva agli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie di partecipare alla gestione
delle risorse raccolte dai fondi pensione mediante l’acquisizione di partecipazioni nei soggetti abilitati ex art. 6, comma 1o. Con l’eliminazione di questa previsione si chiude il cerchio
iniziato con la l. n. 335/95, che aveva fortemente limitato in questo senso l’originaria possibilità che questi enti gestissero tramite convenzione
le risorse dei fondi pensione, alla stregua degli
altri soggetti ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 124/
93 ( 247 ). Questa ulteriore modifica sembra da ricollegare all’introduzione nel d.lgs. n. 252 della
nuova forma pensionistica complementare residuale ex art. 9 (FONDINPS), che è incardinata
presso l’INPS (sulla quale v. infra amplius Garcea, sub art. 9, in questo Commentario). A seguito della creazione presso l’INPS di questa
forma pensionistica complementare non è sembrato più opportuno, probabilmente per ragioni di carattere concorrenziale, prevedere la possibilità per gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie (tra cui il più importante è senza dubbio l’INPS) di partecipare alla gestione
delle risorse di altre forme pensionistiche complementari.
5. – Per quanto riguarda il regime dell’erogazione delle prestazioni, i commi 3o, 4o e 5o dell’art. 6 d.lgs. n. 252/05 riprendevano senza variazioni di rilievo i commi 2o, 2o bis e 3o del( 246 ) Si veda il parere indirizzato dall’AGCM all’INPS, citato da Vianello, Modelli di gestione delle
risorse dei fondi pensione, cit., p. 445.
( 247 ) Sulle preoccupazioni di ordine concorrenziale e di opportunità che hanno spinto alla modifica
dell’originaria previsione dell’art. 6, comma 1o, d.lgs.
n. 124, v. retro il par. 1, nt. 21.
La nuova disciplina della previdenza complementare
l’art. 6 d.lgs. n. 124/93. Il più volte menzionato
d.lgs. n. 28/07 ha però provveduto ad abrogare
il comma 4o dell’art. 6 [art. 7, comma 1o, lett.
c)] e ad aggiungere un ulteriore periodo al
comma 3o: ne è risultata una lodevole razionalizzazione della disciplina dell’erogazione diretta delle rendite da parte dei fondi pensione,
materia che in precedenza era regolata in modo contraddittorio ed eccessivamente complicato.
Nell’ambito delle forme pensionistiche complementari a contribuzione definita, l’erogazione delle prestazioni costituisce la terza fase,
quella finale, del ciclo della previdenza complementare ( 248 ). Il montante individuale, formato
dai contributi accumulati nel corso degli anni e
dagli accrescimenti ottenuti tramite la gestione
professionale degli stessi, deve essere trasformato in una prestazione, che potrà essere erogata
in forma di capitale o di rendita ( 249 ). Qualora
l’erogazione venga effettuata sotto quest’ultima
forma, si tratta di un’attività di carattere eminentemente assicurativo, che implica l’assunzione del rischio demografico della sopravvivenza
oltre la media e comporta l’utilizzo di strumenti
statistico-attuariali ( 250 ). Per conseguenza non
stupisce la scelta dell’art. 6, comma 3o, d.lgs. n.
252 di riservare la relativa attività alle « imprese
assicurative di cui all’articolo 2 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 » ( 251 ). Anche in ragione di
( 248 ) V. Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 101-103.
( 249 ) L’erogazione sotto forma di capitale subisce
però limiti consistenti, in quanto mal si attaglia con le
finalità previdenziali sottese a tutta la disciplina ex
d.lgs. n. 252/05: cfr. l’art. 11, commi 3o e 4o. Su queste disposizioni v. infra Tozzoli, sub art. 11, in questo Commentario.
( 250 ) Cfr. Salerno, La gestione assicurativa delle
risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di
erogazione delle prestazioni complementari, cit., p.
511.
( 251 ) L’art. 2 c.a.p. fa riferimento sia alle assicurazioni dei rami vita che a quelle dei rami danni (commi 1o e rispettivamente 3o). Tuttavia, si deve ritenere che l’ambito di applicazione dell’art. 6, comma
3o, sia limitato alle imprese assicurative che assumono il rischio demografico, ovvero quelle di cui al ramo I (assicurazioni sulla durata della vita umana)
dei rami vita. Cfr. nel senso che soltanto le assicurazioni del ramo I dei rami vita possono stipulare le
convenzioni per l’erogazione delle prestazioni Pal-
681
questa riserva, bisogna ritenere che l’obbligo di
ricorrere alla copertura assicurativa per l’erogazione delle prestazioni abbracci tutte le forme
pensionistiche complementari ex d.lgs. n. 252/
2005 ( 252 ), salvo, naturalmente, quelle individuali attuate tramite assicurazioni sulla vita e
quelle a prestazione definita, dove, come si è visto ( 253 ), la fase di gestione e di erogazione sono
inscindibili e postulano in ogni caso l’intervento
dell’impresa assicurativa ( 254 ). I fondi pensione
concluderanno dunque apposite convenzioni
misano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1116; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 202; Spolidoro, sub art.
2, cit., pp. 67-68; Procopio, La disciplina giuridica e
tributaria dei fondi pensione, cit., p. 75; contra, nel
senso che tutte imprese assicuratrici dei rami vita
possono stipulare questo tipo di convenzioni, Vianello, Le convenzioni in materia di erogazione delle
prestazioni, in La riforma del sistema pensionistico, a
cura di Cinelli, cit., p. 447; Zampini, La previdenza
complementare. Fondamento costituzionale e modelli
organizzativi, cit., p. 269. V. anche il n. 3 delle premesse nello Schema di convenzione per l’erogazione
di una rendita vitalizia immediata, elaborato della
COVIP il 28 maggio 1999, consultabile in Codice
della previdenza complementare, cit., pp. 482-484,
nel quale si menziona una compagnia di assicurazioni « autorizzata all’esercizio dell’attività di assicurazione sulla durata della vita umana ».
( 252 ) Compresi i fondi preesistenti, i quali potranno continuare ad erogare direttamente le rendite
soltanto alle condizioni previste per la generalità dei
fondi dall’art. 6, comma 3o, d.lgs. n. 252/05: v. l’art.
5, comma 6o, della bozza di decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale sui fondi
preesistenti, ai sensi del quale « i fondi preesistenti
che già erogano direttamente le rendite possono
continuare l’erogazione diretta delle prestazioni salvo verifica da parte della COVIP dei requisiti previsti dalla legge ». Neanche la forma pensionistica residuale costituita presso l’INPS (FONDINPS) sembra sfuggire al campo di applicazione dell’art. 6,
comma 3o, del resto espressamente richiamato dall’art. 5, comma 1o, del capo II del d.i. 30 gennaio
2007: v. retro il par. 2.
( 253 ) V. retro al par. 3.
( 254 ) In particolare, anche nel caso di ricorso del
fondo pensione ad un’impresa assicurativa per la gestione delle risorse ex art. 6, comma 1o, lett. b), d.lgs.
n. 252/05, sarà poi necessaria un’apposita convenzione assicurativa per l’erogazione delle prestazioni di
quel medesimo fondo.
682
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
con una o più imprese assicurative nel rispetto
della procedura di evidenza pubblica stabilita
per la stipulazione delle convenzioni di gestione (art. 6, comma 6o, d.lgs. n. 252) ( 255 ). La
convenzione intercorre tra il fondo pensione e
l’impresa assicuratrice ( 256 ), cosicché sarà sempre il fondo il soggetto obbligato all’erogazione della rendita nei confronti degli aderenti ( 257 ).
L’art. 6, comma 2o bis, d.lgs. n. 124/93 e il
vecchio testo dell’art. 6, comma 4o, d.lgs. n. 252
prevedevano che la COVIP potesse autorizzare
i fondi pensione ad erogare direttamente le rendite: tuttavia la disciplina disegnata da queste
disposizioni era estremamente complicata, e
contemplava comunque nello snodo essenziale
( 255 ) Sul regime di queste convenzioni, alle quali in
particolare non si applicano le disposizioni ex art. 6,
d.lgs. n. 252 in materia di linee di indirizzo, titolarità
delle risorse conferite, titolarità dei diritti di voto, separazione del patrimonio, azione di rivendicazione ex
art. 103 l. fall., ma soltanto le regole proprie della gestione assicurativa, in base alle quali le risorse conferite entrano a far parte a pieno titolo del patrimonio
della compagnia di assicurazioni, con tutte le conseguenze che da ciò derivano, v. Casillo, La gestione
del patrimonio dei fondi di previdenza complementare,
cit., pp. 231-233; Salerno, La gestione assicurativa
delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle prestazioni complementari, cit.,
pp. 511-512.
( 256 ) V. l’art. 2, comma 1o, dello Schema di convenzione per l’erogazione di una rendita vitalizia immediata, cit., secondo il quale « la compagnia » di assicurazioni « si impegna a corrispondere al fondo
pensione le rendite oggetto della presente convenzione a fronte del pagamento di un premio unico per
ciascuna rendita assicurata ». In questo senso anche
Volpe Putzolu, L’erogazione delle prestazioni assistenziali, cit., p. 86, secondo la quale « le convenzioni
assicurative devono essere stipulate dal fondo in nome e per conto proprio non in nome e per conto degli iscritti ».
( 257 ) In questo senso Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., p. 332; Id., L’erogazione delle prestazioni assistenziali, cit., pp. 85-86; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 230; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 216217; Id., La gestione assicurativa delle risorse dei fondi
pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle
prestazioni complementari, cit., pp. 509-510; Iocca,
Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 211-212.
l’intervento di un’impresa assicuratrice ( 258 ). Il
fondo poteva essere ammesso ad erogare direttamente le rendite, ma doveva comunque affidare la gestione finanziaria dei montanti maturati ai gestori abilitati ex art. 6, comma 1o, d.lgs.
n. 252 mediante apposite convenzioni. Inoltre,
esso doveva garantirsi una copertura assicurativa contro il rischio di sopravvivenza in relazione
alla speranza di vita oltre la media. L’autorizzazione della COVIP sarebbe stata concessa soltanto in presenza di una serie di requisiti che
dovevano essere stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze ( 259 ), sentita la
COVIP: in particolare, il decreto avrebbe precisato la dimensione minima dei fondi per numero di iscritti; la costituzione e la composizione
delle riserve tecniche; le basi demografiche e finanziarie da utilizzare per la conversione dei
montanti contributivi in rendita. I fondi autorizzati avrebbero dovuto presentare alla COVIP, « con cadenza almeno triennale, un bilancio tecnico contenente proiezioni riferite ad un
arco temporale non inferiore a quindici anni »
(art. 6, comma 4o, ultimo periodo, d.lgs. n. 252,
ora abrogato).
Nell’ambito dell’adeguamento del d.lgs. n.
252 alla dir. n. 2003/41/CE il d.lgs. n. 28/07
ha provveduto ad abrogare il comma 4o dell’art. 6 ( 260 ), e ad operare una breve aggiunta
in coda all’art. 6, comma 3o, d.lgs. n. 252 ( 261 ).
Si tratta di un’apprezzabile semplificazione del
farraginoso meccanismo disegnato dall’art. 6,
comma 4o ( 262 ). Ai sensi della nuova disposi-
( 258 ) Cfr. Vianello, Le convenzioni in materia di
erogazione delle prestazioni, cit., p. 448; Casillo, La
gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 180, secondo la quale « l’obbligo
al fondo » della convenzione con un’impresa assicuratrice (v. infra questo stesso paragrafo) « svuota
quasi completamente di contenuto la facoltà di erogazione diretta delle rendite, limitandola alla sola materiale corresponsione delle stesse »; Salerno, Fondi
pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 216; Id., La gestione assicurativa delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di
erogazione delle prestazioni complementari, cit., p.
509.
( 259 ) Questo decreto, a quanto consta, è mai stato
emanato.
( 260 ) Art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07.
( 261 ) Art. 2, d.lgs. n. 28/07.
( 262 ) Sulle incongruenze del meccanismo disegna-
La nuova disciplina della previdenza complementare
zione l’erogazione diretta della rendita da parte dei fondi pensione è consentita, previa autorizzazione della COVIP, quando essi dispongano di mezzi patrimoniali adeguati e di una
dimensione sufficiente per numero di iscritti.
Quanto ai principi per la determinazione dei
mezzi patrimoniali adeguati, l’art. 4, d.lgs. n.
28/07 introduce nel d.lgs. n. 252/05 un nuovo
art. 7 bis, che rimanda ad un regolamento del
Ministro dell’economia e delle finanze, emanato sentita la COVIP, la Banca d’Italia e
l’ISVAP.
L’obiettivo principale della dir. 2003/41/CE
è la liberalizzazione del mercato europeo delle
prestazioni pensionistiche complementari, pur
nel rispetto delle peculiarità nazionali in materia di sicurezza sociale, lavoro e organizzazione
dei sistemi pensionistici ( 263 ). In particolare,
l’art. 20 della direttiva regola l’attività transfrontaliera, ovvero la possibilità per i fondi
pensione nazionali di offrire i propri servizi oltre frontiera e di accogliere l’adesione di imprese di altri Paesi dell’Unione europea ( 264 ).
Al fine di attuare questa disposizione il d.lgs.
n. 28/07 introduce nel d.lgs. n. 252 gli articoli
da 15 bis a 15 quinquies. In particolare, nel caso di operatività all’estero delle forme pensionistiche complementari l’art. 15 bis considera
la possibilità che l’ordinamento straniero consenta ai fondi pensione l’erogazione diretta delle prestazioni con presa in carico di rischi bio-
to dall’art. 6, comma 2o bis, d.lgs. n. 124/93 (poi diventato art. 6, comma 4o, d.lgs. n. 252, e ora abrogato
dal d.lgs. n. 28/07) v. diffusamente Palmisano, La
gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1116-1119; Volpe Putzolu,
L’erogazione delle prestazioni assistenziali, cit., pp.
86-88.
( 263 ) Cfr. i considerando 6, 8, 35-37 della dir.
2003/41/CE.
( 264 ) L’art. 19 della dir. 2003/41/CE liberalizza invece l’attività dei gestori e della banca depositaria: gli
Stati membri non possono limitare la facoltà dei fondi pensione nazionali di servirsi per la gestione e per
il deposito delle proprie risorse degli operatori di altri Stati membri abilitati ai sensi delle direttive comunitarie di armonizzazione delle attività di intermediazione mobiliare e rispettivamente bancaria. Per quanto riguarda i gestori delle risorse il nostro ordinamento è già conforme alle regole europee: v. retro il par.
4.2. Per quanto riguarda la banca depositaria, v. infra
il par. 6.
683
metrici, garanzia di rendimento degli investimenti o di un determinato livello delle prestazioni (art. 15 bis, comma 11o). In questi casi
l’art. 15 bis prescrive ai fondi pensione di dotarsi di mezzi adeguati ai sensi del nuovo art. 7
bis, che si è menzionato poco più sopra. Opportunamente l’art. 7 bis aggiunge che l’obbligo di dotarsi di mezzi patrimoniali adeguati in
relazione al complesso degli impegni finanziari
esistenti non sussiste quando tali impegni « siano assunti da soggetti gestori già sottoposti a
vigilanza prudenziale a ciò abilitati », ovvero
quando il fondo ricorra a convenzioni assicurative per l’erogazione delle prestazioni (nel caso
di assunzione di rischi biometrici o garanzia di
un determinato livello delle prestazioni) o anche alla convenzione di gestione con garanzia
(con riferimento alla garanzia di rendimento
degli investimenti).
I fondi pensione possono erogare anche prestazioni per invalidità e premorienza: l’art. 6,
comma 5o, d.lgs. n. 252 rende obbligatorio in
questo caso il ricorso alla stipulazione di apposite convenzioni con imprese assicurative ( 265 )
(v. amplius retro il par. 4.2.1.), nel rispetto della procedura di evidenza pubblica valevole per
la conclusione delle convenzioni per la gestione delle risorse. L’art. 6, comma 5o è particolarmente importante perché chiarisce indirettamente la tipologia di prestazioni che possono
essere offerte dal fondo agli aderenti: in questo
senso esso completa l’art. 11, d.lgs. n. 252 ( 266 ).
I fondi sono dunque tenuti ad offrire prestazioni pensionistiche complementari del regime
obbligatorio; hanno invece la facoltà di contemplare anche prestazioni per invalidità e
premorienza ( 267 ), nonché, ai sensi dell’art. 11,
( 265 ) V. lo Schema di convenzione per l’assicurazione delle prestazioni in caso di premorienza e
invalidità degli aderenti e lo Schema di convenzione per l’assicurazione delle prestazioni in caso di
invalidità degli aderenti, elaborati della COVIP il
28 maggio 1999, consultabili in Codice della previdenza complementare, a cura di Candian, cit., pp.
476-481.
( 266 ) V. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova
legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 194.
( 267 ) Cfr. da ultimo l’art. 13 bis dello Schema di
statuto dei fondi pensione negoziali, l’art. 15 dello
Schema di regolamento dei fondi pensione aperti,
684
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
comma 5o, d.lgs. n. 252, prestazioni di reversibilità ( 268 ) (sull’art. 11, comma 5o, v. Tozzoli,
sub art. 11, in questo Commentario).
6. – La versione originaria dell’art. 7 d.lgs. n.
252 aveva ripreso con una sola modifica, peraltro più di forma che di sostanza, l’art. 6 bis, d.lgs. n. 124/93 ( 269 ). Il d.lgs. n. 28/07 ha aggiunto
in coda all’art. 7 due nuovi commi, il 3o bis e il
3o ter, necessari per recepire alcune disposizioni
della dir. 2003/41/CE che estendono il principio della libera circolazione anche ai servizi collaterali al mercato dei fondi pensione [art. 3,
d.lgs. n. 28/07].
L’art. 7 si occupa dell’istituto della banca del’art. 14 dello Schema di regolamento dei piani individuali pensionistici, tutti contenuti nella deliberazione COVIP del 31 ottobre 2006. V. Salerno, Fondi
pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 207.
( 268 ) L’art. 11, comma 5o, d.lgs. n. 252 prevede
che, in caso di morte del titolare della prestazione
pensionistica, il fondo possa offrire ai beneficiari da
lui indicati la restituzione del montante residuo o, in
alternativa l’erogazione di una rendita su di esso calcolata. Per questo secondo caso l’articolo « autorizza
la stipula di contratti assicurativi collaterali contro i
rischi di morte o di sopravvivenza oltre la vita media ». Nella parte in cui la disposizione sembra lasciare la scelta della stipulazione del contratto assicurativo alla discrezionalità del fondo, essa contiene un’incomprensibile incoerenza con le disposizioni dell’art.
6, commi 3o e 5o, d.lgs. n. 252, che circondano di
particolari garanzie l’erogazione delle prestazioni in
forma di rendita. Pare perciò opportuna una lettura
correttiva: il fondo potrà erogare direttamente la prestazione soltanto se sia stato autorizzato dalla COVIP
ex art. 6, comma 3o (come risultante a seguito delle
modifiche apportate dall’art. 2, d.lgs. n. 28/07); diversamente sarà tenuto ad acquisire una copertura
assicurativa.
( 269 ) Sul quale v. diffusamente Vianello, La banca depositaria, in La riforma del sistema pensionistico,
a cura di Cinelli, cit., p. 471 ss.; Candian, I fondi
pensione, cit., pp. 56 ss. e 137 ss.; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 289 ss., ove anche in
dettaglio i requisiti necessari perché la banca possa
assumere l’incarico di banca depositaria per conto
del fondo; Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., pp. 79-80; Bessone,
Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di
investimento, le garanzie di tutela del risparmio con
finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle
attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit.,
p. 352 ss.
positaria, introdotto nel d.lgs. n. 124 con le modifiche apportate dall’art. 7 l. n. 335/95. L’art.
7, comma 1o, dispone anzitutto che le risorse
dei fondi affidate in gestione devono essere depositate presso una banca distinta dal gestore ( 270 ). Si tratta dunque di un obbligo che abbraccia tutti i fondi tenuti a valersi della gestione professionale, nella misura in cui si valgano
effettivamente di tale gestione. Per conseguenza, l’obbligo di deposito non sussiste per le forme pensionistiche a prestazione definita e per le
eventuali prestazioni per invalidità e premorienza ( 271 ), per le forme pensionistiche complementari individuali, per i fondi pensione aperti
e per i fondi pensione preesistenti, nella misura
in cui non ricorrano alla gestione indiretta ( 272 ).
L’obbligo di deposito delle risorse del fondo
presso la banca depositaria non sussiste nemmeno nei limitati casi in cui al fondo è consentito di ricorrere alla gestione diretta ex art. 6,
comma 1o ( 273 ).
Per la stipulazione della convenzione tra la
banca e il fondo pensione è necessario seguire la
procedura di evidenza pubblica ex art. 6, comma 6o, d.lgs. n. 252 ( 274 ). La banca depositaria
deve possedere i requisiti di cui all’art. 38, comma 3o, t.u.f. ( 275 ) (art. 7, comma 1o, d.lgs. n.
252), ed in generale alla convenzione si applica( 270 ) In particolare, dunque, tra la banca depositaria e il gestore non devono intercorrere rapporti né di
controllo né di influenza dominante. L’espressione
« distinta dal gestore » è interpretata in questa ampia
accezione condivisibilmente da Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p.
79.
( 271 ) V. espressamente in questo senso l’art. 6,
comma 5o, d.lgs. n. 252.
( 272 ) V. retro il par. 2, anche alla nt. 35. V. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 267.
( 273 ) V. retro il par. 4.1. Contra, sulla base della ratio di tutela del risparmio previdenziale che ispira la
disposizione, Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 196-197.
Tuttavia, la formulazione letterale della norma pare
insuperabile.
( 274 ) Sulla quale v. retro il par. 4.2.1.
( 275 ) L’art. 38, comma 3o, t.u.f., a sua volta rimanda la determinazione delle condizioni per l’assunzione dell’incarico di banca depositaria e delle modalità
di eventuale sub-deposito dei beni ad una deliberazione della Banca d’Italia, che decide sentita la COVIP: v. ora il provvedimento Banca d’Italia 14 aprile
2005.
La nuova disciplina della previdenza complementare
no, per quanto compatibili, le disposizioni che
il medesimo articolo detta con riferimento alla
banca depositaria delle risorse dei fondi comuni
di investimento mobiliare (art. 7, comma 3o,
primo periodo, d.lgs. n. 252). L’art. 3, d.lgs. n.
28/07, in attuazione dell’art. 19, parr. 1 e 2, dir.
2003/41/CE, aggiunge un comma 3o bis all’art.
7 d.lgs. n. 252: come banca depositaria potrà essere scelta anche quella stabilita in un altro Stato membro, purché debitamente autorizzata ai
sensi delle dir. 93/22/CE (relativa ai servizi di
investimento nel settore dei valori mobiliari) o
2000/12/CE (relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi ed al suo esercizio), ovvero operante come banca depositaria ai fini della dir.
85/611/CEE (concernente il coordinamento
delle disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative in materia di taluni organismi di
investimento collettivo in valori mobiliari). Il
comma 3o ter, anch’esso introdotto nell’art. 7
d.lgs. n. 252 dall’art. 3 d.lgs. n. 28/07, consente
alla Banca d’Italia, su richiesta della COVIP, di
vietare la disponibilità degli attivi, depositati
presso una banca avente sede legale in Italia, di
un fondo pensione avente sede in uno Stato
membro; l’iniziativa della COVIP può anche far
seguito ad una previa conforme iniziativa dell’Autorità competente dello Stato membro in
questione. Questa disposizione traspone nel nostro ordinamento l’art. 19, par. 3, dir. 2003/41/
CE.
Si ritiene per lo più che la convenzione stipulata tra la banca e il fondo pensione sia un sottotipo rientrante nel genus dei contratti di deposito bancari ( 276 ), alla disciplina dei quali si
potrà ricorrere nel caso di lacune, per la verità
piuttosto improbabili visti anche i rimandi dell’art. 7, comma 3o, all’art. 38 t.u.f. Sicco-
( 276 ) In questo senso v. in particolare Vianello,
La banca depositaria, cit., pp. 475-477; Candian, I
fondi pensione, cit., p. 137; Bessone, Previdenza
complementare, cit., pp. 290 e 292; Salerno, Fondi
pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 204-206. Si esprime in termini di
« rapporto di deposito » Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 6; Bessone, Fondi
pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità
previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp.
352-353.
685
me la convenzione è pur sempre un contratto per un servizio accessorio ex art. 1, comma
6o, t.u.f., essa dovrà essere redatta per iscritto
a pena di nullità ex art. 23, comma 1o,
t.u.f. ( 277 ).
L’art. 7, comma 2o, d.lgs. n. 252 stabilisce
l’obbligo della banca depositaria di eseguire le
istruzioni impartite dal gestore del patrimonio
del fondo, purché esse non siano contrarie alla
legge, allo statuto del fondo o ai criteri stabiliti
dal decreto interministeriale di cui all’art. 6,
comma 5o bis, d.lgs. n. 252, (ovvero, allo stato,
ai criteri fissati dal d.m. n. 703/96). In particolare, dunque, la banca depositaria non dovrà
dar seguito nemmeno alle istruzioni del gestore
che confliggano con i limiti di investimento stabiliti all’art. 6, comma 13o. Dall’art. 38, comma
1o, lett. c), t.u.f. si desume che la banca depositaria non deve eseguire nemmeno le istruzioni
del gestore contrarie « alle prescrizioni degli
organi di vigilanza », ovvero della COVIP e
degli organi di vigilanza sui singoli gestori
(Banca d’Italia, CONSOB, ISVAP). La banca
depositaria è tenuta ad un controllo di mera legittimità dell’operato del gestore, esclusa qualsiasi valutazione del merito delle scelte di gestione ( 278 ). L’art. 7, comma 2o, esclude anche
qualsiasi controllo della corrispondenza dell’attività del gestore alle linee di indirizzo dell’attività di investimento stabilite nella convenzione
di gestione, mentre la banca è tenuta a controllare la corrispondenza degli ordini ricevuti alle
politiche generali di investimento fissate nello
statuto ex art. 3, comma 1o, lett. p), d.m. n.
211/97.
L’art. 38, comma 2o, t.u.f. stabilisce che « la
banca depositaria è responsabile nei confronti
( 277 ) La nullità è tuttavia relativa e può essere fatta
valere soltanto dal cliente, ovvero dal fondo (art. 23,
comma 3o, t.u.f.).
( 278 ) In questo senso Vianello, La banca depositaria, cit., p. 477; Candian, Linee ricostruttive in
materia di fondi pensione, cit., p. 137; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 295; Procopio, La
disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione,
cit., p. 80; Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 200; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività
di investimento, le garanzie di tutela del risparmio
con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento
delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi »,
cit., p. 355.
686
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
della società di gestione del risparmio e dei partecipanti del fondo » comune di investimento
« di ogni pregiudizio da essi subito in conseguenza dell’inadempimento dei propri obblighi » ( 279 ). La medesima regola si applicherà
dunque nei confronti del fondo pensione e del
soggetto gestore, ma non degli aderenti. Infatti,
nel caso dei fondi pensione la gestione delle risorse è individuale, e avviene in nome e per conto dei fondi pensione (e non degli aderenti),
mentre nei fondi comuni la gestione è in monte
e avviene nell’interesse dei partecipanti al fondo
stesso ( 280 ). Per conseguenza, l’adattamento di
questa disposizione alla fattispecie del deposito
delle risorse dei fondi pensione presso la banca
depositaria suggerisce di limitare ai fondi pensione e ai gestori la possibilità di agire per la responsabilità della banca depositaria ex art. 38,
comma 2o, t.u.f. ( 281 ), escludendo invece che gli
aderenti al fondo pensione possano agire sulla
base della medesima norma ( 282 ).
Il comma 3o dell’art. 7 d.lgs. n. 252 aggiunge
( 279 ) Anche alla convenzione tra fondo pensione e
banca depositaria si applicherà l’art. 23, comma 6o,
t.u.f. che alleggerisce il carico probatorio del cliente
nell’ambito delle azioni di risarcimento dei danni derivanti dall’attività degli intermediari finanziari: in
base a questa norma spetterà dunque alla banca depositaria l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta quando dalla sua attività siano derivati danni per il fondo pensione.
( 280 ) Cfr. l’art. 36, comma 5o, t.u.f., secondo il quale nei fondi comuni di investimento « la società promotrice e il gestore assumono solidalmente verso i
partecipanti al fondo gli obblighi e le responsabilità
del mandatario ».
( 281 ) In questo senso Vianello, La banca depositaria, cit., p. 478.
( 282 ) In questo senso v. Salerno, Fondi pensione
« negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit.,
pp. 200-201. Sottolinea l’assenza di responsabilità
contrattuale della banca nei confronti degli aderenti
Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione,
cit., p. 6. Rimane certo aperta per gli aderenti la possibilità di agire comunque in via aquiliana nei confronti della banca: v. in questo senso Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 293-294; Id., Fondi
pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità
previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività
dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 354.
Applica invece alla lettera la disposizione dettata per
i fondi comuni di investimento anche ai fondi pensione, estendendo la relativa responsabilità della banca
un secondo periodo al vecchio comma 3o dell’art. 6 bis d.lgs. n. 124/93: esso fa obbligo agli
amministratori e sindaci della banca depositaria
di riferire senza ritardo alla COVIP in merito
alle irregolarità riscontrate nella gestione dei
fondi pensione. La disposizione non rappresenta tuttavia una novità rispetto alla disciplina
previgente, poiché quest’obbligo si poteva già
ricavare dall’art. 2 bis della l. n. 77/83, richiamato dall’art. 6 bis, comma 3o, d.lgs. n. 124 e in
tutto corrispondente all’art. 38 t.u.f. ( 283 ).
La ratio dell’istituto della banca depositaria si
colloca nell’alveo delle disposizioni di tutela del
risparmio previdenziale ( 284 ). Da un lato, l’obbligo di gestire le risorse del fondo pensione attraverso la banca depositaria rafforza l’autonomia e la separatezza del patrimonio del fondo,
impedendo anche fisicamente al gestore di operare commistioni improprie con il proprio attivo. Dall’altro lato, il legislatore aggiunge un ulteriore soggetto, particolarmente qualificato dal
punto di vista professionale, a quelli che partecipano all’elaborazione finanziaria delle risorse
del fondo. Ne esce particolarmente rafforzata la
vigilanza sulla corretta gestione delle risorse del
fondo pensione: al controllo globale effettuato
dal fondo pensione e rafforzato dalla sua possibilità di recesso senza limiti dalla convenzione
di gestione ( 285 ) si accompagna il controllo di legittimità garantito dalla banca depositaria.
7. – Con la disciplina della previdenza complementare il legislatore persegue principalmente quattro obiettivi, dei quali uno sicuramente prevalente e con il quale gli altri tre si devono necessariamente armonizzare. Lo scopo
fondamentale campeggia già negli artt. 1 dei d.lgs. nn. 124/93 e 252/05 ed è il conseguimento
anche nei confronti degli aderenti, Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit.,
p. 80.
( 283 ) In particolare l’art. 38, comma 4o, t.u.f. stabilisce che « gli amministratori e i sindaci della banca
depositaria riferiscono senza ritardo alla Banca d’Italia e alla CONSOB, ciascuna per le proprie competenze, sulle irregolarità riscontrate nell’amministrazione della società di gestione del risparmio e nella
gestione dei fondi comuni ».
( 284 ) V. Salerno, Fondi pensione « negoziali ».
Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 195-196.
( 285 ) V. retro il par. 4.2.1.
La nuova disciplina della previdenza complementare
di « più elevati livelli di copertura previdenziale » tramite « l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio » ( 286 ). Il d.lgs. n. 124 nasce a seguito della
crisi del sistema pensionistico pubblico che si
palesa in tutta la sua evidenza agli inizi degli anni ’90: le riforme del ’92 e del ’95 hanno introdotto una riduzione strutturale e consistente
delle prestazioni pensionistiche del sistema obbligatorio, con la conseguenza che la previdenza complementare è stata inserita a pieno titolo
tra gli strumenti dell’ordinamento che contribuiscono ad assicurare ai lavoratori « mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso » di
« vecchiaia » ex art. 38, comma 2o, Cost. ( 287 ).
( 286 ) Che l’obiettivo previdenziale debba essere assolutamente prevalente sembrerebbe scontato, quanto meno nella dottrina giuslavoristica: v. expressis verbis Cinelli, Sulle funzioni della previdenza complementare, in Riv. giur. lav., 2000, I, pp. 523-524. Tuttavia, per altre discipline questa gerarchia non sembra completamente acquisita: cfr. Gai, I fondi pensione. Il loro contributo allo sviluppo dei mercati
finanziari e all’avvento della democrazia economica,
cit., in particolare p. 168.
( 287 ) V. espressamente in questo senso i punti 5 e
6.1 di Corte cost., 8 settembre 1995, n. 421, cit.; ancora più chiaramente il punto 3 di Corte cost., 28 luglio 2000, n. 393, cit., dove si afferma expressis verbis
che il legislatore ha inteso « istituire [...] un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nell’art. 38, secondo comma, della Costituzione ». In
dottrina si discute, anche con toni critici, sul grado di
funzionalizzazione della previdenza complementare
agli scopi di cui all’art. 38, comma 2o, Cost., ma difficilmente la si nega. Per la tesi probabilmente maggioritaria secondo la quale il fondamento costituzionale
della previdenza complementare sarebbe da riscontrarsi nell’art. 38, comma 2o, Cost. v. Sandulli, voce
Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc.
priv., Sez. comm., Torino, 1993, p. 249; Mastrangeli, La disciplina dei fondi pensione nei decreti legislativi n. 124 e n. 585 del 1993, cit., p. 146; Olivelli,
voce Previdenza complementare, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, p. 4; G. Ferraro, Dai fondi pensione
alla democrazia economica, in Riv. giur. lav., 2000, I,
pp. 190-191; Mazziotti, Le posizioni soggettive nella
pensione complementare, in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di Ferraro,
cit., pp. 73-74; Rossi, La previdenza sociale, Enciclopedia giuridica del lavoro fondata da Mazzoni, diretta
da Suppiej, vol. 9, Padova, 2000, pp. 74-75; Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della previ-
687
Questa direttrice di funzionalizzazione della
previdenza complementare al mantenimento di
un tenore di vita adeguato anche nella fase del
pensionamento è uscita sicuramente rafforzata
con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 252 ( 288 ), che
denza complementare, in Lav. e giur., 2006, p. 249;
Pessi, La nozione costituzionalmente necessitata di
previdenza complementare: un commento, in La previdenza complementare in Italia, a cura di Messori, cit.,
p. 325 ss.; Id., La riforma del sistema pensionistico
obbligatorio e complementare: principi ispiratori,
novità, prospettive, in Mass. giur. lav., 2006, p. 366;
più dubitativamente in La previdenza complementare
tra funzione costituzionale e concorrenza, in Mass.
giur. lav., 2005, pp. 486-488. Per la posizione opposta, secondo la quale la previdenza complementare si
caratterizzerebbe per essere il frutto della libera scelta dell’autonomia individuale e/o collettiva, e dunque
troverebbe fondamento nell’art. 38, comma 5o, Cost.,
v. Persiani, Il campo di applicazione del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, in Aa.Vv., La previdenza complementare per le banche: problemi e prospettive, Collana di
questioni sindacali e contrattuali, Assicredito, vol. n.
15, Roma, 1994, p. 34; Cecconi, La previdenza complementare e le sue vicende, in Riv. it. dir. lav., 1996,
I, p. 199; Ciocca, La libertà della previdenza privata,
cit., specialmente pp. 104-106; Bessone, Previdenza
complementare, cit., soprattutto pp. 31-32; Id., Previdenza privata e fondi pensione. Il sistema delle fonti
normative di un nuovo ordinamento di settore, in La
previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 202-203. Gli autori che si inquadrano
in questa posizione criticano con varie sfumature gli
aspetti di funzionalizzazione della previdenza complementare realizzati dal legislatore a partire dal d.lgs. n. 124/93. Per la posizione intermedia che cerca
di conciliare libertà e funzionalizzazione v. Cinelli,
sub art. 1, in Disciplina delle forme pensionistiche
complementari, a cura di Cinelli, cit., pp. 175-177;
Bozzao, La previdenza complementare, in La riforma
del sistema previdenziale, a cura di Pessi, Padova,
1995, p. 382; Cinelli, Sulle funzioni della previdenza
complementare, cit., p. 533; Tursi, La previdenza
complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., specialmente p. 67; Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza
complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., p.
10; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., pp.
338 ss.; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 83 ss. Per una recente disamina delle principali posizioni dottrinali v.
Olivelli e Ciocca, voce Previdenza complementare.
I) Diritto del lavoro, in Enc. giur. Treccani, Roma,
2001, pp. 4-5.
( 288 ) In questo senso Giubboni, Individuale e col-
688
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
agevola in ogni modo la destinazione del t.f.r.
alle forme di previdenza complementare regolate dal medesimo decreto ( 289 ) (per un’ampia
analisi delle relative disposizioni v. Ferrante,
sub art. 8, in questo Commentario).
Soprattutto nelle pieghe delle disposizioni in
materia di amministrazione dei fondi pensione
« chiusi » e di gestione delle loro risorse si riscontrano gli altri tre obiettivi perseguiti dai d.lgs. nn. 124/93 e 252/05: l’irrobustimento dei
mercati finanziari del nostro Paese mediante
l’iniezione di capitali rappresentata dalle risorse
dei fondi pensione ( 290 ); il potenziamento della
democrazia economica attraverso l’investimento del risparmio previdenziale dei lavoratori nel
capitale delle imprese ( 291 ); il rafforzamento della democrazia azionaria e dell’ottica di lungo
periodo nella governance delle società di capitali
tramite l’inclusione nelle loro compagini proprietarie di investitori istituzionali le cui politiche di investimento valorizzano il cd. long-termism ( 292 ). Questi obiettivi sono perseguiti limi-
lettivo nella riforma della previdenza complementare,
cit., p. 252. Per spunti in questa direzione cfr. anche
Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio
dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 11-12.
( 289 ) Sui meccanismi mediante i quali avviene questa destinazione, compreso in particolare l’assenso tacito, v. amplius Pandolfo, Prime osservazioni sulla
nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di
(parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 176
ss.
( 290 ) Cfr. Gai, I fondi pensione. Il loro contributo
allo sviluppo dei mercati finanziari e all’avvento della
democrazia economica, cit., p. 105 ss.; Porta, Effetti
macroeconomici dei fondi pensione, cit., p. 15 ss.; Cinelli, Sulle funzioni della previdenza complementare,
cit., p. 523; G. Ferraro, Dai fondi pensione alla democrazia economica, cit., p. 206; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., pp. 3839; G. Santoro Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, in Mass. giur. lav., 2006,
p. 977; Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario,
par. 3. V. anche i rilievi critici di questa autrice, secondo la quale la disciplina degli investimenti dei
fondi pensione perseguirebbe prevalentemente questa finalità, a tutto discapito degli obiettivi di democrazia economica e perfino dell’interesse previdenziale degli aderenti.
( 291 ) G. Ferraro, Dai fondi pensione alla democrazia economica, cit., p. 207.
( 292 ) Cfr. in questo senso Salerno, Fondi pensione
« negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit.,
tando agli strumenti finanziari le possibilità di
investimento delle risorse dei fondi (salvo che
per i fondi preesistenti, è esclusa la possibilità di
investire direttamente in immobili ( 293 ) – art. 6
d.lgs. n. 252 e d.m. n. 703/96); includendo i
rappresentanti dei lavoratori aderenti ai fondi
pensione negoziali negli organi di amministra-
pp. 26-29 e 102-103; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale.
Sezione I. L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 385-386; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi
pensione chiusi, cit., pp. 1-2 e 232-233. V. anche retro
le osservazioni di Bonardi, sub art. 1, in questo
Commentario, par. 4: questa autrice si interroga sulla
coerenza degli strumenti apprestati per il raggiungimento degli obiettivi di democrazia economica, con
particolare accento critico sulle disposizioni che limitano la possibilità dei fondi pensione di assumere il
controllo o anche di esercitare soltanto un’influenza
dominante sulle società partecipate. Nell’ambito del
dibattito che precedette il varo del d.lgs. n. 124/93
era ben presente la doppia anima dei fondi pensione:
indispensabile strumento di copertura previdenziale
aggiuntiva per i lavoratori da un lato, ma anche fondamentale strumento di democrazia economica dall’altro. Già allora si prospettava il dilemma « fra una
destinazione » dei contributi raccolti « che consideri
solo la remunerazione del risparmio e la garanzia di
sicurezza contro il bisogno e un utilizzo che tenda a
combinare simile destinazione (essenziale) con l’uso
delle risorse per investimenti qualificati sul piano dell’occupazione e dell’innovazione produttiva »: così
Treu, La partecipazione dei lavoratori all’economia
delle imprese, in Giur. comm., 1988, I, pp. 813-814.
Questo autore richiama opportunamente le comuni
radici di democrazia economica esistenti tra la previdenza complementare governata dall’autonomia collettiva e il Fondo di solidarietà (cd. Fondo 0,50, che
aveva il compito di raccogliere una quota di salario
pari allo 0,50 e destinarla ad investimenti produttivi),
partecipato dai sindacati e sostenuto veementemente
dalla CISL, che vide una realizzazione soltanto effimera nel 1980.
( 293 ) V. in questo senso Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 271-272; Id., Fondi pensione e
mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi
pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 341; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 142; Righini, La gestione « finanziaria »
del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 123
ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
zione e controllo in misura paritetica rispetto ai
rappresentanti dei datori di lavoro, o addirittura totalitaria quando la contribuzione sia totalmente a carico dei lavoratori (art. 5, comma 1o,
d.lgs. n. 252); attribuendo ai fondi pensione la
titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investiti gli attivi del
fondo stesso anche quando la gestione avvenga
attraverso un intermediario finanziario abilitato
[art. 6, comma 8o, lett. c), d.lgs. n. 252]. L’armonizzazione di questi obiettivi con quello prevalente della tutela ed incremento del risparmio
previdenziale degli aderenti avviene imponendo
il ricorso ad un gestore professionale, salvi i pochi casi in cui è consentita la gestione diretta
(art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252), nonché ad una
banca depositaria (art. 7 d.lgs. n. 252); ponendo
vari limiti all’allocazione degli investimenti (art.
6, commi 5o bis e 13o, d.lgs. n. 252, e d.m. n.
703/96), ed in particolare vietando ai fondi pensione di categoria di investire più del 30% delle
risorse in azioni o quote emesse dalle imprese
tenute alla contribuzione in quanto appartenenti alla categoria [art. 6, comma 13o, lett. b), d.lgs. n. 252]; stabilendo criteri di gestione dei
fondi improntati alla diversificazione degli investimenti e alla massimizzazione dei rendimenti
netti (art. 2, comma 1o, d.m. n. 703/96).
Il susseguirsi delle riforme della disciplina
della previdenza complementare, pur non rivoluzionando l’impianto dell’amministrazione dei
fondi pensione chiusi e della gestione delle loro
risorse, ha inciso profondamente su di esso dall’esterno. Il d.lgs. n. 252 ha portato a compimento la progressiva « equiparazione tra forme
pensionistiche », in un’ottica di « eliminazione
degli ostacoli che si frappongono alla libera
adesione e circolazione dei lavoratori all’interno
del sistema della previdenza complementare »
[art. 1, comma 2o, lett. e), n. 4), l. n. 243/04],
ma il processo era già stato avviato fin dalla l. n.
335/95 ( 294 ). In questo modo si è creato un mercato della previdenza complementare all’interno del quale sono poste in competizione forme
pensionistiche individuali e collettive, fondi
( 294 ) Cfr. in questo senso Volpe Putzolu, I fondi
pensione aperti, cit., pp. 338-340; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p.
123 ss.
689
pensione chiusi e fondi pensione aperti ( 295 )
(cfr. Pallini, sub art. 14, commi 1o, 2o, 3o, 6o e
8o, in questo Commentario, par. 1). Permangono elementi di favor per i fondi pensione « chiusi », soprattutto con riferimento alla devoluzione tacita del t.f.r. e alla portabilità della contribuzione datoriale, che le fonti istitutive collettive possono modellare o anche escludere ( 296 )
[artt. 8, comma 7o, n. 1) e 14, comma 6o, ult. periodo, d.lgs. n. 252], ma l’accesso alle forme
( 295 ) In questo senso Tursi, La terza riforma della
previdenza complementare in itinere. Spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, pp. 536-537;
Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della
previdenza complementare, cit., p. 252; Messori, La
previdenza complementare in Italia: un quadro introduttivo, in La previdenza complementare in Italia, a
cura di Messori, cit., pp. 34-36 e 81; Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza
complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs.
n. 252/2005, cit., in particolare p. 201; G. SantoroPassarelli, La previdenza complementare tra rischio
e bisogno, cit., pp. 978-979; Sandulli, Forme pensionistiche ed equiparazione nel decreto 252/2005: obiettivi e limiti, in Newsletter Mefop, 2007, 28, p. 4.
( 296 ) Una parte consistente (e forse maggioritaria)
della dottrina esclude che l’affidamento alle fonti collettive della disciplina della portabilità della contribuzione datoriale costituisca un privilegio. Al contrario, proprio questa riserva di regolazione renderebbe
il disposto normativo rispettoso dell’autonomia collettiva costituzionalmente tutelata: cfr. in questo senso Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere. Spunti di riflessione, cit., pp. 537538, secondo il quale si prospettavano rischi di violazione delle prerogative dell’autonomia collettiva costituzionalmente tutelate con riferimento all’art. 1,
comma 2o, lett. e), l. n. 243/04, che non sembrava lasciare alcuno spazio alle fonti collettive per la regolazione della portabilità del contributo datoriale; Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema della previdenza complementare, in Arg. dir. lav.,
2006, p. 1491 ss.; Bonardi, sub art. 1, in questo
Commentario, par. 5. Rileva invece come la soluzione
cui è giunto il d.lgs. n. 252 sia incompatibile con i criteri direttivi stabiliti sul punto dalla l. n. 243/04
Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della
previdenza complementare, cit., in particolare p. 254.
Sul vivace dibattito dottrinale e politico-sindacale
che ha accompagnato la stesura dell’art. 14, comma
6o, ult. inciso, d.lgs. n. 252/05, nonché per un’esauriente disamina delle questioni di compatibilità comunitaria e costituzionale sollevate durante tale accesa discussione, v. Pallini, sub art. 14, commi 1o, 2o,
3o, 6o e 8o, in questo Commentario, parr. 3-5.
690
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
pensionistiche complementari è liberalizzato e
la permanenza obbligatoria nella forma prescelta è ridotta a due anni (art. 14, comma 6o, d.lgs.
n. 252) (v. amplius Pallini, sub art. 14, commi
1o, 2o, 3o, 6o e 8o, in questo Commentario, parr.
1 e 2).
In un quadro di questo tipo le conseguenze
sulla gestione delle risorse dei fondi sembrano
di un certo rilievo: in particolare, l’impatto sugli
ultimi due obiettivi di politica economica perseguiti in origine dal legislatore del d.lgs. n. 124
appare consistente. La facilità di circolazione
dei lavoratori all’interno del sistema di previdenza complementare spingerà verosimilmente
i fondi pensione a privilegiare investimenti con
ritorni rapidi, incidendo sensibilmente sull’ottica di long-termism di questi investitori istituzionali ( 297 ) (analogamente Pallini, sub art. 14,
( 297 ) Nel senso che nemmeno la più restrittiva disciplina del trasferimento della propria posizione
previdenziale di cui all’art. 10, comma 3o bis, d.lgs. n.
124/93 (obbligo di permanenza nel fondo chiuso per
cinque anni nei primi cinque anni di vita del fondo, e
successivamente per tre anni) fosse di per sé sufficiente a favorire l’adozione di un’ottica di long-termism da parte dei gestori v. Gai, I fondi pensione. Il loro
contributo allo sviluppo dei mercati finanziari e all’avvento della democrazia economica, cit., p. 163 ss.; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione
« negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e
limiti della disciplina, cit., p. 199. Cfr. anche Fornero, L’economia dei fondi pensione. Potenzialità e limiti della previdenza privata in Italia, cit., pp. 42-43, la
quale ricollega opportunamente la « caratteristica di
lungo termine delle attività previdenziali » alla circostanza che « i piani pensionistici » comportino
« stretti vincoli di permanenza » che normalmente
esonerano « i gestori dalla preoccupazione di una
massimizzazione a breve termine dei rendimenti
(short-termism) ». Sulla circostanza che, nell’ambito
degli investitori istituzionali, « il rischio di riscatto
delle quote da parte dei partecipanti sia fattore in
grado di indurre comportamenti propensi a privilegiare la liquidità rispetto alla sorveglianza attiva » v.
Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., p. 859, nt. 15. Sembrano invece piuttosto acriticamente convinti che « il fondo
pensione » sia « investitore istituzionale che guarda
al lungo periodo » a prescindere dai condizionamenti
del sistema normativo in cui opera Bessone, Previdenza complementare, cit., in particolare pp. 324 e
360-361; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi
pensione, cit., p. XIII.
commi 1o, 2o, 3o, 6o e 8o, in questo Commentario, par. 1). La pressione concorrenziale si trasmetterà ai gestori, le cui convenzioni possono
essere anche di durata piuttosto breve ( 298 ): un
esercizio frequente del diritto loro attribuito di
smobilizzo dei valori in cui sono investite le risorse del fondo pensione toglierà probabilmente molto del suo significato al diritto di voto di
cui dispone invece il fondo. L’incrementata
concorrenza sul breve periodo indurrà i fondi
di categoria a concentrarsi sui titoli che garantiscono ritorni rapidi e a ridurre il flusso di risorse indirizzato agli strumenti finanziari emessi
dalle imprese rientranti nella categoria, qualora
essi non presentino tali caratteristiche. Questi
sviluppi non saranno immediati: a tacer d’altro,
le fonti istitutive dei fondi pensione negoziali
godono ancora di un vantaggio competitivo importante rappresentato dalla possibilità di prevedere e regolare il contributo datoriale ( 299 ).
Nel lungo termine, però, un’evoluzione del tipo
appena prospettato appare probabile.
Nel corso degli anni il legislatore italiano ha
progressivamente perso di vista le ragioni di peculiarità delle forme di previdenza complementare istituite e regolate dall’autonomia collettiva ( 300 ). Da un lato, sotto la spinta della necessi-
( 298 ) La COVIP si limita a consigliare una durata
non inferiore ai tre anni; si ricordi comunque che ai
sensi degli Schemi di convenzione della COVIP il
fondo pensione è sempre libero di recedere, purché
nel rispetto del prescritto periodo di preavviso: cfr.
gli artt. 10 e 11 degli Schemi di convenzione della
COVIP per la gestione delle risorse dei fondi pensione in regime di contribuzione definita, rispettivamente senza e con garanzia di restituzione del capitale,
contenuti nella deliberazione 7 gennaio 1998, cit.
( 299 ) G. Santoro-Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, cit., p. 979.
( 300 ) In questo senso con toni critici Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit.; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza
sociale, cit., in particolare p. 75 ss.; Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Diritto del lavoro, Padova, 2004,
p. 1116 ss. (già in Arg. dir. lav., 2001, p. 715 ss.); Id.,
Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema della
previdenza complementare, cit., pp. 1486-1487;
Proia, Sussidiarietà e previdenza, in Arg. dir. lav.,
2006, p. 1574. L’omologazione della previdenza
complementare, anche di matrice collettiva, agli altri
strumenti di investimento del risparmio si va arricchendo di un ulteriore tassello con la progettata eli-
La nuova disciplina della previdenza complementare
tà di potenziare la copertura pensionistica, la
normativa ha progressivamente imbrigliato
l’azione delle parti sociali funzionalizzandola
strettamente agli obiettivi di cui all’art. 38, comma 2o, Cost. Dall’altro lato, anche sotto l’impulso della legislazione ( 301 ) e delle decisioni giudiziali ( 302 ) provenienti dalle istituzioni della Comunità europea, ha iniettato dosi massicce di
concorrenza nel sistema della previdenza complementare ( 303 ), completando la sua trasforma-
minazione della COVIP, le cui funzioni verrebbero
ripartite tra la Banca d’Italia e la CONSOB (v. il
d.d.l. in materia di funzioni, organizzazione e attività
delle Autorità indipendenti di regolazione, vigilanza
e garanzia dei mercati, approvato dal Consiglio dei
ministri del 2 febbraio 2007).
( 301 ) Ci si riferisce in particolare alla già più volte
menzionata dir. 2003/41/CE.
( 302 ) Sin dal notissimo caso Albany [Corte giust.
CE 21 settembre 1999, C-67/97, in Riv. it. dir. lav.,
2000, II, p. 209 ss., con nota di Pallini, Il rapporto
problematico tra diritto della concorrenza e autonomia
collettiva nell’ordinamento comunitario e nazionale;
tra i commenti a questa importante decisione v., senza pretesa di completezza, Andreoni, Contratto collettivo, fondo complementare e diritto della concorrenza: le virtù maieutiche della Corte di giustizia (riflessioni sul caso Albany), in Riv. giur. lav., 2000, I, p.
981 ss.; F. Ferraro, Obbligatorietà dell’iscrizione ad
un fondo pensione e regole comunitarie (il caso Albany), in La previdenza complementare nella riforma
del Welfare, a cura di Ferraro, cit., tomo II, p. 913
ss.] la Corte di giustizia ha chiarito che i fondi di previdenza complementare sono in linea di principio
soggetti alle regole del diritto comunitario della concorrenza, salvo che gli eventuali diritti speciali ad essi
attribuiti non siano giustificati da particolari connotati solidaristici che verrebbero meno in assenza di
tali diritti speciali. Sui pur limitati elementi di solidarietà che connotano il modello di previdenza complementare ex d.lgs. nn. 124/93 e 252/05 v. Persiani,
Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema della
previdenza complementare, cit., pp. 1483-1484. Sulla
curiosa « iper-conformazione » del sistema italiano
della previdenza complementare alle regole del diritto comunitario della concorrenza v. Giubboni, Fondi pensione e competition rules comunitarie, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 130-134; anche secondo Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., pp.
146-150 la disciplina comunitaria della concorrenza
non impedirebbe al legislatore italiano di prevedere
condizioni di miglior favore per le forme pensionistiche complementari a genesi contrattuale collettiva.
( 303 ) Sugli elementi di « pluralismo concorrenzia-
691
zione in un mercato competitivo. È possibile
che queste trasformazioni agevolino il raggiungimento dell’obiettivo ex art. 38, comma 2o,
Cost. ( 304 ). È tuttavia altresì probabile che
l’obiettivo del potenziamento della democrazia
economica in gran parte sfumerà proprio nel
le » introdotti nel d.lgs. n. 124/93 dalle novelle di cui
alla l. n. 335/95 e al d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 v.
Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 400 ss.; Persiani, La
previdenza complementare tra iniziativa sindacale e
mercato finanziario, cit., pp. 1118-1121; Zampini, La
previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 34 ss., in particolare
pp. 40-42; Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della previdenza complementare, cit., pp. 250252.
( 304 ) Non è così scontato che il raggiungimento dei
più alti livelli di copertura previdenziale passi attraverso un sistema di previdenza complementare che
concede agli aderenti la più ampia libertà di circolazione tra diverse forme pensionistiche. Vanno ad
esempio in senso contrario le riflessioni ed i suggerimenti che la Pensions Commission ha elaborato per la
riforma della previdenza integrativa in Gran Bretagna. La Commissione segnala i costi aggiuntivi derivanti dai movimenti di posizioni previdenziali tra diversi soggetti attuatori, e per conseguenza esprime la
propria preferenza per un’unica forma pensionistica
(il National Pension Savings Scheme), che offra
un’ampia gamma di fondi di investimento (tra i quali
gli aderenti potrebbero scegliere liberamente) ed affidi la loro gestione agli investitori istituzionali più capaci, scelti attraverso apposite procedure selettive. V.
Pensions Commission, Implementing an integrated
package of pension reforms. The Final Report of the
Pensions Commission, 2006, consultabile sul sito
www.pensionscommission.org.uk, in particolare p. 28
ss. Sugli aumenti di costi che la proliferazione di forme pensionistiche può comportare, a tutto discapito
dell’obiettivo di massimizzazione della copertura
previdenziale, v. anche Bonardi, sub art. 1, in questo
Commentario, par. 5; Pallini, sub art. 14, commi 1o,
2o, 3o, 6o e 8o, ibidem, par. 1.
La strategia che il legislatore del d.lgs. n. 252 porta
alle estreme conseguenze non convince nemmeno
una parte della dottrina italiana, secondo la quale il
rafforzamento delle caratteristiche di previdenza
pubblica della previdenza complementare si porrebbe in netto contrasto con l’accentuazione della sua
funzione servente al potenziamento del mercato finanziario: v. in questo senso R. Pessi, La previdenza
complementare tra funzione costituzionale e concorrenza, cit., pp. 486-488; G. Santoro Passarelli, La
previdenza complementare tra rischio e bisogno, cit., p.
976 ss.
692
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
momento in cui, con la destinazione agevolata
del t.f.r. al finanziamento delle forme di previdenza complementare, esso avrebbe potuto essere più agevolmente conseguito: il risparmio
previdenziale a disposizione dell’autonomia collettiva aumenta, ma i vincoli di sistema impediscono alle parti sociali di perseguire, pur nel rispetto della destinazione previdenziale di tali risorse, una qualsiasi politica industriale per mezzo di esse.
È dunque necessario finalizzare anche nel
nostro Paese la profonda riflessione già avviata
da qualche tempo sull’opportunità di aprire
nuove strade alla democrazia economica, segnatamente attraverso il rafforzamento della
partecipazione finanziaria dei lavoratori sub
specie di azionariato dei dipendenti e retribuzione incentivante ( 305 ). Gli argomenti già ampiamente dibattuti in sede comunitaria e in altre esperienze europee segnalano l’indispensa( 305 ) Sulla partecipazione economica, storicamente poco sviluppata nel nostro Paese, v. per tutti
Treu, La partecipazione dei lavoratori alla economia
delle imprese, cit., p. 785 ss.; Alaimo, La partecipazione azionaria dei lavoratori: retribuzione, rischio e
controllo, Milano, 1998; Ferrante, Forme e finalità
dell’azionariato dei dipendenti nell’ordinamento italiano e nell’esperienza comparata, in Jus, 2000, p.
243 ss.; Guaglianone, Individuale e collettivo nell’azionariato dei dipendenti, Torino, 2003; Ferrante, Tradizione e novità nella disciplina della parteci-
bilità di questi strumenti nell’attuale fase di
globalizzazione economica ( 306 ): da un lato, la
contrattazione collettiva si dimostra sempre
meno in grado di coniugare adeguata crescita
salariale e competitività delle imprese; dall’altro lato, la consistente presenza dei lavoratori
nella compagine azionaria delle società sembra
sempre più indispensabile per favorire una gestione improntata ad un’ottica di crescita di
lungo periodo ed un prezioso antidoto ai tentativi di scalate ostili.
Matteo Corti
pazione dei lavoratori: Francia e Italia a confronto, in
Riv. giur. lav., 2003, I, p. 139 ss.; La partecipazione
azionaria dei dipendenti, a cura di Izar, Torino,
2003. Per un’efficace sintesi del dibattito socio-politico in argomento v. Baglioni, Democrazia impossibile? I modelli collaborativi nell’impresa: il difficile
cammino della partecipazione tra democrazia ed efficienza, Bologna, 1995, in particolare p. 191 ss.
( 306 ) Cfr. da ultimo Commissione della Comunità europea, Communication from the Commission
to the Council, the European Parliament, the Economic and Social Committee and the Committee of the
Regions. On a framework for the promotion of employee financial participation, COM (2002) 364 final;
la Decisione del 20o Congresso della CDU tedesca
dal titolo « Soziale Kapitalpartnerschaft – für mehr
Arbeitnehmerbeteiligung an Gewinn und Kapital »,
adottata nel novembre 2006, consultabile sul sito
www.cdu.de.
Art. 8.
(Finanziamento)
1. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere attuato mediante il
versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente e attraverso il conferimento del TFR maturando. Nel caso di lavoratori autonomi e di liberi professionisti il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è attuato mediante contribuzioni a carico dei soggetti stessi. Nel caso di soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o
d’impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, il finanziamento alle citate forme è attuato
dagli stessi o dai soggetti nei confronti dei quali sono a carico.
2. Ferma restando la facoltà per tutti i lavoratori di determinare liberamente l’entità della
contribuzione a proprio carico, relativamente ai lavoratori dipendenti che aderiscono ai fondi
di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a g) e di cui all’articolo 12, con adesione su base
collettiva, le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del
lavoratore stesso possono essere fissati dai contratti e dagli accordi collettivi, anche aziendali;
gli accordi fra soli lavoratori determinano il livello minimo della contribuzione a carico degli
La nuova disciplina della previdenza complementare
693
stessi. Il contributo da destinare alle forme pensionistiche complementari è stabilito in cifra fissa oppure: per i lavoratori dipendenti, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo
del TFR o con riferimento ad elementi particolari della retribuzione stessa; per i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, in percentuale del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF, relativo al periodo d’imposta precedente; per i soci lavoratori di società
cooperative, secondo la tipologia del rapporto di lavoro, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR ovvero degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori ovvero in percentuale del reddito di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF
relativo al periodo d’imposta precedente.
3. Nel caso di forme pensionistiche complementari di cui siano destinatari i dipendenti della
pubblica amministrazione, i contributi alle forme pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure coerenti alla natura del
rapporto.
4. ( 1 ) I contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro o committente, sia volontari sia
dovuti in base a contratti o accordi collettivi, anche aziendali, alle forme di previdenza complementare, sono deducibili, ai sensi dell’articolo 10 del TUIR, dal reddito complessivo per un importo non superiore ad euro 5.164,57; i contributi versati dal datore di lavoro usufruiscono altresì delle medesime agevolazioni contributive di cui all’articolo 16; ai fini del computo del predetto limite di euro 5.164,57 si tiene conto anche delle quote accantonate dal datore di lavoro
ai fondi di previdenza di cui all’articolo 105, comma 1, del citato TUIR. Per la parte dei contributi versati che non hanno fruito della deduzione, compresi quelli eccedenti il suddetto ammontare, il contribuente comunica alla forma pensionistica complementare, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è stato effettuato il versamento, ovvero, se antecedente,
alla data in cui sorge il diritto alla prestazione, l’importo non dedotto o che non sarà dedotto
nella dichiarazione dei redditi.
5. ( 2 ) Per i contributi versati nell’interesse delle persone indicate nell’articolo 12 del TUIR,
che si trovino nelle condizioni ivi previste, spetta al soggetto nei confronti del quale dette persone sono a carico la deduzione per l’ammontare non dedotto dalle persone stesse, fermo restando l’importo complessivamente stabilito nel comma 4.
6. ( 3 ) Ai lavoratori di prima occupazione successiva alla data di entrata in vigore del presente
decreto e, limitatamente ai primi cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari, è consentito, nei venti anni successivi al quinto anno di partecipazione a tali forme,
dedurre dal reddito complessivo contributi eccedenti il limite di 5.164,57 euro pari alla differenza positiva tra l’importo di 25.822,85 euro e i contributi effettivamente versati nei primi
cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche e comunque per un importo non superiore a 2.582,29 euro annui.
7. Il conferimento del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari comporta
l’adesione alle forme stesse e avviene, con cadenza almeno annuale, secondo:
a) modalità esplicite: entro sei mesi dalla data di prima assunzione il lavoratore, può conferire l’intero importo del TFR maturando ad una forma di previdenza complementare dallo
stesso prescelta; qualora, in alternativa, il lavoratore decida, nel predetto periodo di tempo, di
mantenere il TFR maturando presso il proprio datore di lavoro, tale scelta può essere successi-
( 1 ) Per il commento al comma 4o, v. Marchetti, La deducibilità fiscale dei contributi alla previdenza complementare, in questo Commentario.
( 2 ) Per il commento al comma 5o, v. Marchetti, La deducibilità fiscale dei contributi versati nell’interesse delle persone fiscalmente a carico, in questo Commentario.
( 3 ) Per il commento al comma 6o, v. Marchetti, La deducibilità fiscale agevolata dei contributi per i lavoratori
di prima occupazione successiva al 1.1.2007, in questo Commentario.
694
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
vamente revocata e il lavoratore può conferire il TFR maturando ad una forma pensionistica
complementare dallo stesso prescelta;
b) modalità tacite: nel caso in cui il lavoratore nel periodo di tempo indicato alla lettera a)
non esprima alcuna volontà, a decorrere dal mese successivo alla scadenza dei sei mesi ivi previsti:
1) il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando dei dipendenti alla forma pensionistica
collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, salvo sia intervenuto un
diverso accordo aziendale che preveda la destinazione del TFR a una forma collettiva tra quelle
previste all’articolo 1, comma 2, lettera e), n. 2), della legge 23 agosto 2004, n. 243;
tale accordo deve essere notificato dal datore di lavoro al lavoratore, in modo diretto e personale;
2) in caso di presenza di più forme pensionistiche di cui al n. 1), il TFR maturando è trasferito, salvo diverso accordo aziendale, a quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda;
3) qualora non siano applicabili le disposizioni di cui ai numeri 1) e 2), il datore di lavoro
trasferisce il TFR maturando alla forma pensionistica complementare istituita presso l’INPS;
c) con riferimento ai lavoratori di prima iscrizione alla previdenza obbligatoria in data antecedente al 29 aprile 1993:
1) fermo restando quanto previsto all’articolo 20, qualora risultino iscritti, alla data di entrata in vigore del presente decreto, a forme pensionistiche complementari in regime di contribuzione definita, è consentito scegliere, entro sei mesi dalla predetta data o dalla data di nuova
assunzione, se successiva, se mantenere il residuo TFR maturando presso il proprio datore di
lavoro, ovvero conferirlo, anche nel caso in cui non esprimano alcuna volontà, alla forma complementare collettiva alla quale gli stessi abbiano già aderito;
2) qualora non risultino iscritti, alla data di entrata in vigore del presente decreto, a forme
pensionistiche complementari, è consentito scegliere, entro sei mesi dalla predetta data, se
mantenere il TFR maturando presso il proprio datore di lavoro, ovvero conferirlo, nella misura
già fissata dagli accordi o contratti collettivi, ovvero, qualora detti accordi non prevedano il versamento del TFR, nella misura non inferiore al 50 per cento, con possibilità di incrementi successivi, ad una forma pensionistica complementare; nel caso in cui non esprimano alcuna volontà, si applica quanto previsto alla lettera b).
8. Prima dell’avvio del periodo di sei mesi previsto dal comma 7, il datore di lavoro deve fornire al lavoratore adeguate informazioni sulle diverse scelte disponibili. Trenta giorni prima
della scadenza dei sei mesi utili ai fini del conferimento del TFR maturando, il lavoratore che
non abbia ancora manifestato alcuna volontà deve ricevere dal datore di lavoro le necessarie informazioni relative alla forma pensionistica complementare verso la quale il TFR maturando è
destinato alla scadenza del semestre.
9. Gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche complementari prevedono, in caso di
conferimento tacito del TFR, l’investimento di tali somme nella linea a contenuto più prudenziale tali da garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili, nei limiti previsti
dalla normativa statale e comunitaria, al tasso di rivalutazione del TFR.
10. L’adesione a una forma pensionistica realizzata tramite il solo conferimento esplicito o
tacito del TFR non comporta l’obbligo della contribuzione a carico del lavoratore e del datore
di lavoro. Il lavoratore può decidere, tuttavia, di destinare una parte della retribuzione alla forma pensionistica prescelta in modo autonomo ed anche in assenza di accordi collettivi; in tale
caso comunica al datore di lavoro l’entità del contributo e il fondo di destinazione. Il datore
può a sua volta decidere, pur in assenza di accordi collettivi, anche aziendali, di contribuire alla
forma pensionistica alla quale il lavoratore ha già aderito, ovvero a quella prescelta in base al
citato accordo. Nel caso in cui il lavoratore intenda contribuire alla forma pensionistica com-
La nuova disciplina della previdenza complementare
695
plementare e qualora abbia diritto ad un contributo del datore di lavoro in base ad accordi collettivi, anche aziendali, detto contributo affluisce alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai predetti contratti o accordi.
11. La contribuzione alle forme pensionistiche complementari può proseguire volontariamente oltre il raggiungimento dell’età pensionabile prevista dal regime obbligatorio di appartenenza, a condizione che l’aderente, alla data del pensionamento, possa far valere almeno un
anno di contribuzione a favore delle forme di previdenza complementare. È fatta salva la facoltà del soggetto che decida di proseguire volontariamente la contribuzione, di determinare autonomamente il momento di fruizione delle prestazioni pensionistiche.
12. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere altresì attuato
delegando il centro servizi o l’azienda emittente la carta di credito o di debito al versamento
con cadenza trimestrale alla forma pensionistica complementare dell’importo corrispondente
agli abbuoni accantonati a seguito di acquisti effettuati tramite moneta elettronica o altro
mezzo di pagamento presso i centri vendita convenzionati. Per la regolarizzazione di dette
operazioni deve ravvisarsi la coincidenza tra il soggetto che conferisce la delega al centro convenzionato con il titolare della posizione aperta presso la forma pensionistica complementare
medesima.
13. Gli statuti e i regolamenti disciplinano, secondo i criteri stabiliti dalla COVIP, le modalità in base alle quali l’aderente può suddividere i flussi contributivi anche su diverse linee di
investimento all’interno della forma pensionistica medesima, nonché le modalità attraverso le
quali può trasferire l’intera posizione individuale a una o più linee.
Art. 23.
(Entrata in vigore e norme transitorie)
1. ( 4 )
2. Le norme di cui all’articolo 8, comma 7, relative alle modalità tacite di conferimento del
TFR alle forme pensionistiche complementari, non si applicano ai lavoratori le cui aziende non
sono in possesso dei requisiti di accesso al Fondo di garanzia di cui all’articolo 10, comma 3,
limitatamente al periodo in cui sussista tale situazione e comunque non oltre un anno dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo; i lavoratori delle medesime aziende possono tuttavia conferire il TFR secondo le modalità esplicite di cui all’articolo 8, comma 7, e in questo
caso l’azienda beneficia delle agevolazioni previste al predetto articolo 10, con esclusione dell’accesso al predetto Fondo di garanzia.
3. ... 4. bis ( 5 )
5. ( 6 )
6. ( 7 )
7. ( 8 )
( 4 ) Per il commento al comma 1o, v. Squeglia, L’anticipata entrata in vigore del d.lgs. n. 252/2005, in questo
Commentario.
( 5 ) Per il commento ai commi 3o, 3o bis, 4o, 4o bis, v. Montaldi, La transizione verso la nuova disciplina, in
questo Commentario.
( 6 ) Per il commento al comma 5o, v. Marchetti, La disciplina fiscale transitoria per i lavoratori iscritti a forme
pensionistiche complementari alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 252/2005, in questo Commentario.
( 7 ) Per il commento al comma 6o, v. Squeglia, L’esclusione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dalla riforma della previdenza complementare, in questo Commentario.
( 8 ) Per il commento al comma 7o, v. Marchetti, La disciplina fiscale dei contributi e delle prestazioni per i
« vecchi iscritti » ai « fondi preesistenti« , in questo Commentario.
696
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
8. Ai lavoratori assunti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo si
applicano, per quanto riguarda le modalità di conferimento del TFR, le disposizioni di cui all’articolo 8, comma 7, e il termine di sei mesi ivi previsto decorre dal 1o gennaio 2007.
Finanziamento della previdenza complementare
e devoluzione tacita del tfr
Sommario (art. 8, commi 1o-3o, 7o-13o e art. 23, commi
2o e 8o): 1. Premessa. – 2. Il significato del termine
« contributi ». – 3. I soggetti destinatari delle disposizioni in tema di finanziamento. La disciplina del t.f.r.
nel settore pubblico. – 4. La libertà di determinare
l’entità della contribuzione e l’entità della stessa. – 5.
Rapporto fra autonomia negoziale e previsioni di legge. – 6. Il t.f.r. come fonte di finanziamento della previdenza complementare, nelle vicende legislative antecedenti il d.lgs. n. 252. – 7. Il finanziamento da parte
di soggetti già pensionati (comma 11o). – 8. Il t.f.r. come mezzo di finanziamento: sintesi delle possibili opzioni. – 9. La devoluzione del t.f.r. ai fondi pensione
attraverso il meccanismo del « conferimento tacito »:
antecedenti storici e problemi sistematici. – 10. Il conferimento tacito nella disciplina di legge: i vizi della
comunicazione preventiva all’esercizio dell’opzione. –
11. La questione del coordinamento fra la volontà individuale e collettiva. – 12. La sorte dell’obbligazione
contributiva a carico del datore nel caso di esercizio
della libertà di scelta del fondo cui devolvere espressamente il t.f.r. – 13. I criteri che presiedono alla individuazione del fondo destinato a raccogliere le quote.
– 14. La applicazione del meccanismo del conferimento tacito ai lavoratori dipendenti da pubbliche
amministrazioni.
1. – L’articolo in commento, riprendendo,
spesso alla lettera, il contenuto dell’art. 8 del
d.lgs. n. 124/93 ( 9 ), detta disposizioni relative al
( 9 ) Parimenti intitolato al « finanziamento » dei
fondi pensione. Sul primo provvedimento normativo
di disciplina della previdenza complementare, v. De
Luca, La disciplina dei fondi pensione, in Giorn. dir.
lav. rel. ind., 1994, p. 77; Pessi, La previdenza complementare, Padova, 1999; Olivelli, voce Previdenza
complementare, in Enc. giur. Treccani, Agg., Roma,
1995; Cinelli (a cura di), Disciplina delle forme pensionistiche complementari, in questa Rivista, 1995, p.
1 (ed ivi in particolare il commento di Mastrangeli,
all’art. 8); P. Sandulli, voce Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm., XI, Torino, 1995; Cester (a cura di), La riforma del sistema
pensionistico, Torino, 1996, ed ivi in particolare Vianello, Il finanziamento dei fondi pensione, p. 479 ss.;
Ferraro (a cura di), La previdenza complementare
nella riforma del welfare, Napoli, 2000; Bessone, Pre-
finanziamento delle forme pensionistiche complementari, con l’evidente intento di fare del
trattamento di fine rapporto il principale strumento di alimentazione e sostegno dei fondi
stessi, attraverso il meccanismo definito dal legislatore di « conferimento tacito ».
Si tratta di una previsione per certi versi non
nuova, posto che già il d.lgs. n. 124/93 incoraggiava il ricorso all’elemento retributivo di cui all’art. 2120 c.c. per finanziare la previdenza complementare, prevedendo, anzi, per i lavoratori
di prima assunzione successiva all’entrata in vigore di quel provvedimento normativo, « l’integrale destinazione ai fondi pensione degli accantonamenti annuali al t.f.r. » (art. 8, comma
3o). Mentre, però, l’art. 18, comma 7o, del d.lgs.
n. 124 ribadiva l’esclusione degli iscritti alle forme c. dd. preesistenti dalla applicazione delle
disposizioni introdotte dall’art. 8 dello stesso
provvedimento legislativo, le previsioni della riforma del 2005 in tema di finanziamento si
estendono a tutti i lavoratori ( 10 ), seppure con
videnza complementare, Torino, 2000 (in particolare
p. 84 ss.); Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale: fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001; Olivelli e Ciocca, voce
Previdenza complementare. Diritto del lavoro, in Enc.
giur. Treccani, XXIV, Roma, 2001; Zampini, La previdenza complementare, Milano, 2002; Bessone e F.
Carinci, La previdenza complementare, in F. Carinci (diretto da), Diritto del lavoro, Commentario, Torino, 2004 (ed ivi in particolare il saggio di G. Zampini,
sul finanziamento, che riproduce un capitolo della
monografia prima citata); Vianello, Autonomia collettiva e previdenza complementare, Padova, 2006.
( 10 ) In alcuni casi le disposizioni dell’art. 8 non
trovano applicazione: così per i lavoratori del settore
pubblico (conformemente alla generale eccezione di
cui al comma 6o dell’art. 23, che li esclude dalla riforma) nonché per gli iscritti a forme pensionistiche preesistenti, « gestite in via prevalente secondo il sistema
tecnico-finanziario della ripartizione... che siano già
state destinatarie del decreto del Ministro del lavoro
La nuova disciplina della previdenza complementare
forme parzialmente diverse, in relazione alla data di prima iscrizione alle forme di previdenza
obbligatoria.
Il legislatore sembra prendere atto che il livello della retribuzione individuale lascia, in molti
casi, poca parte del reddito non consumata per
le ordinarie necessità della vita, di modo che vede nel t.f.r. una somma che, in quanto sottratta
alla disponibilità dei singoli lavoratori, può essere utilmente destinata a finanziamento della
previdenza privata, nella speranza che una simile destinazione sia in grado di raggiungere due
risultati virtuosi, quali l’incremento del trattamento finale di cui complessivamente beneficerà il lavoratore e, ad un tempo, lo sviluppo dei
mercati finanziari, immettendo nel sistema un
notevole e costante flusso di liquidità ( 11 ).
Il meccanismo originariamente previsto nella
disposizione in commento lasciava al singolo lavoratore, che avesse manifestato espressamente
una volontà in tal senso, la possibilità di conservare assolutamente inalterata la situazione antecedente la legge, mantenendo gli accantonamenti annuali del t.f.r. presso il datore e, così,
evitando la loro destinazione a finanziamento
dei fondi di previdenza complementare. Anche
per evitare il rischio che la riforma si riducesse
ad una sorta di gigantesco plebiscito negativo,
la scelta originaria del legislatore delegato è stae delle politiche sociali con il quale è stata accertata
una situazione di squilibrio finanziario » (giusta le
previsioni dell’art. 20, comma 7o, d.lgs. n. 252). Il
comma 2o dell’art. 23 d.lgs. n. 252 continua a prevedere una esclusione anche per i lavoratori le cui
aziende non siano in possesso dei requisiti di accesso
al Fondo di garanzia di cui all’art. 10 del decreto stesso. Tale Fondo è stato però abrogato dal comma
764o della legge finanziaria per il 2007, senza che il
legislatore si ricordasse di eliminare tale previsione,
che rimane quindi priva di effetto.
( 11 ) Il collegamento fra previdenza complementare e la riforma del mercato mobiliare italiano è testimoniato dall’enfasi che si attribuisce alla presenza di
investitori « istituzionali », capaci di operare in senso
anticiclico, stabilizzando le oscillazioni di mercato e
garantendo un flusso costante di acquisiti: a riguardo,
tralasciando ogni altra considerazione, si vuole qui
sottolineare solo come la destinazione al mercato mobiliare interno delle somme raccolte dai fondi non sia
affatto scontata, almeno fin tanto che continueranno
a sussistere dubbi circa la effettiva capacità della legislazione italiana di assicurare trasparenza agli investimenti.
697
ta perciò indirettamente rafforzata da un successivo intervento, in parte anticipato dal d.l. 13
novembre 2006, n. 279 ed ora contenuto nella
legge finanziaria per il 2007 (l. 27 dicembre
2006, n. 296) ( 12 ).
A seguito delle disposizioni del primo provvedimento, che, omettendosi volontariamente
la conversione in legge, ha trovato poi recepimento sostanziale nei commi 749o-752o dell’articolo unico della l. n. 296/06, il termine di entrata in vigore delle disposizioni di legge di cui
all’art. 23 è stato anticipato di un anno; in secondo luogo il meccanismo di devoluzione tacita è stato profondamente modificato, seppure in via indiretta e per le sole imprese di maggiori dimensioni, poiché i commi 755o e 756o
della legge ora citata hanno previsto che, nel
caso in cui il lavoratore rifiuti di convogliare le
quote di t.f.r. maturate annualmente verso la
previdenza privata, il datore sia comunque obbligato al versamento di tali somme presso un
fondo, appositamente costituito presso la Te-
( 12 ) I commenti alla riforma si sono spesso incrociati con le numerose anticipazioni: a riguardo v. almeno A. Tursi, La terza riforma della previdenza
complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev.
ass. pubbl. priv., 2005, p. 513 ss.; Ciocca, Il sistema
pensionistico nell’evoluzione del welfare, in Olivelli
e Mezzanzanica (a cura di), A qualunque costo? Lavoro e pensioni: tra incertezza e sicurezza, Milano,
2005; G. Santoro-Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, in Mass. giur. lav.,
2006, p. 976 ss.; Pandolfo, Prime osservazioni sulla
nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di
(parziale) commento del d.lgs. 252/2005, in Prev. ass.
pubbl. priv., 2006, p. 189 ss.; dello stesso A. già Una
prima interpretazione della nuova legge in tema di
pensioni complementari, con qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev. ass. pubbl.
priv., 2004, III, p. 1238; Persiani, Osservazioni sulla
libera circolazione nel sistema della previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2006, p. 1479; P. Sandulli, Il conferimento, tacito e non, del tfr al sistema
di previdenza complementare: riflessioni critiche, in
Messori (a cura di), La previdenza complementare in
Italia, Bologna, 2006; nella manualistica v. la XV
ediz. del volume di Persiani, Diritto della previdenza
sociale, Padova, 2006, che inserisce un apposito capitolo; nonché la IV ediz. del volume curato da G.
Santoro-Passarelli, Diritto del lavoro e della previdenza sociale, Milano, 2006; ed anche Tranquillo e
Ferrante, Nozioni di diritto della previdenza sociale 2, Milano, 2006.
698
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
soreria generale dello stato, e gestito dall’INPS.
Il timore di un successivo eventuale intervento pubblico di modifica della disciplina delle
quote di t.f.r. devolute all’INPS finirà così, nelle
previsioni dei più, per giocare un ruolo rilevante nelle opzioni che i lavoratori sono chiamati
ad esercitare entro il termine del 30 giugno
2007, inducendo una certa parte di questi a valutare con maggiore attenzione la possibilità di
convogliare i flussi del t.f.r. a finanziamento dei
fondi di previdenza complementare ( 13 ). D’altro
canto, la trasformazione del t.f.r. da un accantonamento contabile a flusso finanziario effettivo
potrà indurre le imprese di più grandi dimensioni ad impegnarsi maggiormente nella promozione di forme di previdenza complementare ( 14 ).
La norma in commento rappresenta, dunque,
il momento centrale della riforma attuata nel
2005, poiché è ad essa che spetta, nelle intenzioni del legislatore, il compito di imprimere una
forza espansiva alla raccolta dei flussi finanziari
destinati a finanziare i fondi, incrementando così lo sviluppo della previdenza complementare.
Occorre segnalare ancora, per altro verso, come il decreto in esame contenga alcune previsioni nelle quali l’intervento eteronomo del legislatore giunge a modificare profondamente
l’impianto che promanava dalla lettera originaria del d.lgs. n. 124, pur a fronte dei numerosi
rimaneggiamenti subiti nel corso degli anni.
Ed infatti, mentre in precedenza si manteneva
la previdenza complementare nell’alveo di un
fenomeno frutto dell’autonomia collettiva, lasciando alle forme individuali un ruolo residuale, per le ipotesi in cui il lavoratore venisse a
perdere i requisiti di iscrizione al fondo categoriale o per i casi di mancanza di un fondo siffatto, il meccanismo di devoluzione del t.f.r. ora
previsto dal decreto di riforma giunge, per questo aspetto, a cancellare la distinzione fra secon-
( 13 ) In tal senso, ad es., Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione, cit., nonché G. Santoro-Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, cit., p. 977.
( 14 ) Pammolli e Salerno, Non si sottragga il TFR
allo sviluppo del sistema pensionistico multipilastro,
CERM, nt. 1/07.
do e terzo pilastro previdenziale ( 15 ), parificando le diverse forme, individuali e collettive, della previdenza privata.
Almeno tre elementi normativi possono richiamarsi a riguardo, disegnando una sorta di climax
della promozione dell’autonomia individuale: il
venir meno degli ostacoli prima previsti per l’adesione a quelle che il legislatore ora definisce come
forme individuali (cfr. abrog. art. 9, comma 2o, d.lgs. n. 124), nonché per l’adesione su base contrattuale collettiva a fondi pensione aperti (che, nella
terminologia e nella sistematica del d.lgs. n. 252/
05 sono considerate come forme pensionistiche
« collettive »: v. Bonardi, sub art. 1, in questo
Commentario); l’utilizzo del t.f.r. a finanziamento dei fondi, pur in assenza di un accordo collettivo che sancisca l’assenso del datore a cedere la
disponibilità delle somme (art. 8, comma 7o, d.lgs. ult. cit.); il riconoscimento della libertà del singolo lavoratore di individuare il fondo cui destinare il proprio t.f.r. « maturando » (art. 8, comma
7o, lett. a, d.lgs. n. 252).
Si finisce così per modificare la configurazione della previdenza complementare, senza lasciare spazio alcuno a diverse valutazioni dei
fondi di categoria e delle parti collettive che ad
essi hanno dato vita: il legislatore sembra dunque abbandonare il ruolo di promozione dell’autonomia collettiva, che aveva svolto in precedenza, per assumere la veste di regolatore della previdenza complementare, inserendo i fondi
germinati dall’iniziativa sindacale in un sistema
unico e competitivo, più direttamente disciplinato dall’autorità statale.
Snodo centrale di questa operazione, insieme
alle previsioni in materia di finanziamento dei
fondi, è il rafforzamento dei poteri della COVIP: in numerosi casi, infatti, le norme emanate
prendono come destinatari non già i soggetti
privati, ma piuttosto l’autorità di vigilanza, cui
viene demandata una attività solo apparentemente di tipo regolamentare, ma sostanzialmente di tipo normativo, attraverso la predisposizione di atti amministrativi generali, che, nella misura in cui condizionano l’operatività dei fondi,
finiscono per dettare una dettagliata serie di
norme di tipo imperativo.
( 15 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, cit., p. 513
ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
2. – Il comma 1o della disposizione in commento prescrive che il finanziamento delle forme pensionistiche complementari si attui, innanzi tutto, mediante il versamento di « contributi », che vengono posti « a carico del lavoratore, del datore o del committente ».
Dietro questa scelta linguistica adottata dal
legislatore non può non intravedersi l’ombra di
una questione, insorta in passato, circa la natura, retributiva o previdenziale, da attribuire a tali importi, che aveva profondamente diviso al
loro interno sia la giurisprudenza che la dottrina.
Sul presupposto che le somme destinate al finanziamento dei fondi pensione entrassero a far
parte del complessivo trattamento retributivo
ottenuto dal lavoratore a compenso della sua
prestazione, l’Istituto assicuratore pubblico aveva iniziato, da un certo momento in poi, ad assoggettare a contribuzione anche tali importi,
trovando conforto in alcune decisioni della giurisprudenza. Nel senso della loro esclusione
dalla base imponibile, si era sostenuta, al contrario, la natura contributiva di tali somme, facendola derivare dalla collocazione costituzionale della previdenza privata, quale strumento
di integrazione della previdenza pubblica, a
mente del disposto del commi 2o e 5o dell’art.
38 Cost.
A fronte di una oscillante giurisprudenza ( 16 ),
( 16 ) Da ultimo v. ancora Cass. 7 novembre 2005, n.
21473, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, p. 115, con nota di Fraioli, Natura delle contribuzioni versate dai
datori di lavoro ai fondi di previdenza complementare,
che, richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale
di cui alla nt. 18, qualifica i versamenti dei datori ai
fondi come « contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile ». La questione si è posta altresì in relazione all’incidenza di tali somme su altri istituti retributivi,
senza trovare ancora appagante soluzione: a riguardo, da ultimo, v. Cass., sez. lav., 17 gennaio 2006, n.
783, nel senso della natura retributiva dei versamenti
e Trib. Perugia 31 gennaio 2006, in senso opposto,
entrambe in Riv. it. dir. lav., 2006, II, p. 701 con
commento di Tursi, La questione ancora aperta della
computabilità ai fini del t.f.r. del contributo del datore
di lavoro a Fondi di previdenza complementare. Aderiscono a quest’ultimo orientamento anche Trib. Roma
17 marzo 2005, in Notiz. giur. lav., 2005, p. 246 e
Trib. Bologna, 10 febbraio 2005, ivi, 2005, p. 536.
Sul punto v. altresì, ma in senso contrario, Cass. 17
699
fu il legislatore ad intervenire con soluzione salomonica ( 17 ), escludendo dalla base della contribuzione di cui all’art. 12 della l. n. 153/69 le
somme in questione, ma assoggettandole ad un
contributo « di solidarietà », in misura percentuale pari al 10% degli importi corrisposti, prevedendo tuttavia che tali contributi non potessero avere rilievo nella definizione del complessivo trattamento pensionistico dovuto al lavoratore dall’Istituto pubblico ( 18 ).
Al termine « contributi » ora ripreso dal legislatore, non può tuttavia riconnettersi un preciso significato sul piano della produzione degli
effetti giuridici, giacché, nell’ambito della autonomia dei privati, non esiste una contrapposizione fra retribuzione e contribuzione che conduca alla definizione di un regime tipico per tale seconda nozione.
In altri termini, dalla definizione delle somme
destinate al finanziamento come « contributi »,
non sembra discendere alcun apporto alla definizione dei numerosi problemi che la giurispru-
gennaio 2006, n. 783, in Arg. dir. lav., 2006, p. 610
con nota critica di Gambacciani.
( 17 ) V. l’art. 9 bis della l. 1 giugno 1991, n. 166.
( 18 ) Si deve peraltro ricordare come la soluzione
adottata dal legislatore fu valutata negativamente dalla Corte costituzionale là dove il legislatore aveva
proceduto ad un improprio consolidamento delle situazioni pregresse, disponendo il divieto di ripetizione, per quanti avessero pagato in misura maggiore rispetto al 10%, e l’esonero dal versamento, per quanti
avessero omesso il pagamento. La Corte, al termine
di un procedimento di scrutinio particolarmente
complesso, si pronunziò estendendo l’obbligo contributivo anche nei confronti dei datori esonerati e confermando l’esclusione della ripetizione (sent. 8 sett.
1995, n. 421, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, p. 7 con nota di Pera, in Giust. civ., 1996, I, p. 663 con nota di
Giubboni e in Giur. it., 1996, I, c. 288 con nota di
Bozzao e in Lav. e giur., 1997, p. 233 ss., con nota di
Tranquillo); di qui il successivo intervento del legislatore (l. n. 662/96, art. 1, commi 193o e 194o) che,
per un verso, confermava l’importo del contributo di
solidarietà per il periodo successivo al 1o luglio 1991,
e, per un altro, imponeva il versamento di un ulteriore contributo, a carico dei datori inadempienti, in misura pari al 15%, a sanatoria del periodo pregresso.
Tale soluzione è stata successivamente confermata
dalla Corte cost. nelle sentt. 8 giugno 2000, n. 178, in
Notiz. giur. lav., 2000, p. 504; 28 luglio 2000, n. 393,
ivi, 2000, p. 794; 16 aprile 2002, n. 121, ivi, 2002, p.
402.
700
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
denza ha dovuto affrontare in relazione, ad es.,
alla spettanza di tali somme ai lavoratori che
non abbiano aderito ad alcuna forma di previdenza privata, o alla loro computabilità ai fini
della definizione del rateo annuo del t.f.r.; alla
disciplina da applicarsi in relazione al termine
di prescrizione o all’ipotesi di rinunzie e transazioni o alla rivalutazione automatica in caso di
adempimento tardivo.
A riguardo, pare, innanzi tutto, potersi escludere una piena assimilazione fra contribuzione disposta dalle norme imperative che disciplinano il sistema della previdenza pubblica e i contributi destinati alla previdenza privata. Le norme che istituiscono i contributi obbligatori devono considerarsi, infatti, come norme di diritto pubblico che
impongono oneri insuscettibili di essere assoggettati ad atti di disposizione delle parti del rapporto, sia nel senso del venir meno dell’obbligo contributivo (art. 2115, ult. comma, c.c.), sia nel senso opposto, di una estensione di quella disciplina
ad ipotesi non espressamente previste dal legislatore ( 19 ).
Parimenti, non pare appagante la tesi che ricostruisce i contributi come forma di retribuzione, con « funzione previdenziale »: ed infatti
una tale espressione finendo per confermare la
natura comunque retributiva di tali somme si
pone in contrasto con un orientamento, più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale,
che qualifica i versamenti posti a carico del datore a finanziamento della previdenza privata
come « contributi di natura previdenziale » ( 20 ).
In tal senso si è proposto in dottrina di rico-
( 19 ) Il punto è trattato soprattutto da Tursi, La
previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, p. 127 ss., nonché in, La
natura giuridica e la disciplina legale dell’obbligazione
contributiva nelle forme pensionistiche complementari, in Riv. prev. pubbl. e priv., 2002, p. 89 ss. (nonché
in Studi in onore di M. Persiani, Padova, 2005). Per
una ampia rassegna delle diverse opinioni, da ultimo,
v. Mastantuono, La contribuzione del datore di lavoro alle forme pensionistiche complementari, in
Quad. Mefop, n. 10, 2006, spec. p. 50 ss.
( 20 ) Già Corte cost. n. 421/95, qualificava i versamenti dei datori di lavoro a finanziamento delle forme di previdenza integrativa come « contributi di natura previdenziale », aggiungendo altresì che il contributo di solidarietà non poteva considerarsi tale
« in senso tecnico ». Nello stesso senso le già richiamate pronunzie di Corte cost. n. 178/00 e 393/00.
noscere al debito per il versamento dei contributi di cui all’articolo in commento natura di
obbligazione corrispettiva, di natura non retributiva ( 21 ). In altri termini, nell’ambito della
ampia nozione di crediti da lavoro si può distinguere fra una obbligazione retributiva (o corrispettiva in senso stretto, secondo le indicazioni
della giurisprudenza), cui trovano applicazione
i principi costituzionali di cui all’art. 36, e una
obbligazione corrispettiva in senso allargato (o,
semplicemente, corrispettiva), regolata dalle ordinarie disposizioni del codice civile in tema di
contratti sinallagamatici, ma in relazione alla
quale non troverebbero applicazione le speciali
disposizioni che caratterizzano il debito retributivo (con riguardo, ad es., alla sua diretta proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro
prestato, alla rivalutazione automatica di cui all’art. 429, comma 3o, c.p.c. o alla definizione
della base di calcolo del t.f.r.).
In questa prospettiva, dunque, i contributi
avrebbero una disciplina legale diversa da quella di cui alla retribuzione, che ne determinerebbe, ad es., l’esclusione dalla base di calcolo del
t.f.r. ( 22 ). Su tali aspetti il legislatore delegato tace, limitandosi a mantenere comunque in vita,
all’art. 16, comma 1o (v. Garcea, sub art. 16, in
questo Commentario), la disposizione legislativa
che risolse l’intricato problema, escludendo dalla base imponibile di cui all’art. 12 della l. n.
153/69 i contributi alla previdenza privata. In
questo senso, non sarebbe apparso contrario all’intenzione di razionalizzazione del sistema,
che tutto il decreto persegue, un allargamento
dei confini della delega legislativa nel senso della chiarificazione normativa di tali aspetti.
( 21 ) A riguardo, v. Tursi, La natura giuridica e la
disciplina legale dell’obbligazione contributiva nelle
forme pensionistiche complementari, cit., p. 89 ss., che
utilizza una terminologia in parte differente rispetto a
quella proposta nel testo.
( 22 ) Si potrebbe, tuttavia, ritenere che l’utilizzo dei
ratei del t.f.r. a finanziamento della previdenza complementare sia un indice della omogeneità funzionale
fra i contributi trattenuti sulla retribuzione e il t.f.r.
stesso; da tale considerazione deriverebbe, dunque,
un ulteriore indice che depone nel senso della esclusione dei contributi dalla base di calcolo del t.f.r.
stesso. In tal senso, v. ora Tursi, La questione ancora
aperta della computabilità ai fini del t.f.r. del contributo del datore di lavoro a Fondi di previdenza complementare, cit., p. 711.
La nuova disciplina della previdenza complementare
3. – La disposizione in commento si rispecchia in quella di cui all’art. 2, che, nell’individuare analiticamente i destinatari delle previsioni del d.lgs. n. 252, menziona i « lavoratori dipendenti, sia privati che pubblici » (lett. a), i
« lavoratori autonomi e i liberi professionisti »
(lett. b), nonché « i soci lavoratori di cooperative » e, da ultimo, i soggetti privi di reddito, che
hanno titolo per l’iscrizione al c.d. « fondo casalinghe » costituito nell’ambito del sistema di
previdenza obbligatoria.
Invece di procedere con eguale analiticità, la
disposizione ora in commento riprende la formulazione letterale più antica e confonde insieme le varie categorie di soggetti, richiamando
congiuntamente in una sola sintetica espressione: « lavoratori, datori, committenti » e il « t.f.r.
maturando ». Il riferimento al « committente »
costituisce un inequivoco segno linguistico che
vale a chiarire che le disposizioni del decreto
possono trovare applicazione anche a forme di
lavoro non intellettuale (art. 2229 c.c.), di modo
che nell’elenco dei destinatari contenuto nell’art. 2, comma 1o, il riferimento ai « lavoratori
autonomi » deve intendersi nel senso più ampio, e cioè comprensivo delle forme di lavoro
c.d. parasubordinato.
Il legislatore delegato sembra aver perso così
una occasione per disciplinare le altre ipotesi di
attività alle quali si è, negli ultimi anni, esteso
l’obbligo contributivo a favore della previdenza
obbligatoria (in primis l’associazione in partecipazione di cui all’art. 2549 c.c. e il lavoro autonomo occasionale) ( 23 ). Eppure, a fronte di disposizioni che consentono l’accesso alla previdenza complementare anche a soggetti che non
producono alcun reddito (v. subito infra), non
sarebbe stato illogico prevedere uno speciale sistema di finanziamento diretto a dare continuità
contributiva ad attività saltuarie o discontinue.
Ed anzi, non sarebbe apparso inopportuno,
de jure condito, se, nei casi di maggiore precarietà dell’attività, si fosse delineata una disciplina
del tutto particolare, utilizzando, per es., il fondo « residuale » di cui all’art. 9, istituito presso
l’INPS, per consentire, ad integrazione della
( 23 ) Sulla previdenza dei lavoratori non standard
v., da ultimo, Bozzao, La tutela previdenziale del lavoro discontinuo, Torino, 2005; Renga, La tutela sociale dei lavori, Torino, 2006.
701
prestazione contributiva prevista dal sistema
pubblico, la raccolta dei finanziamenti destinati
alla previdenza complementare presso un unico
soggetto, anche in deroga alle norme in tema di
« portabilità » ( 24 ).
Il comma continua dettando norme relative
alle altre categorie di soggetti destinatari delle
disposizioni sulla previdenza complementare,
prevedendo che i lavoratori autonomi e liberi
professionisti provvedano al finanziamento mediante contribuzione a loro carico.
Per i soci lavoratori di società cooperative, invece, si prevede che il finanziamento avvenga
« secondo la tipologia del rapporto di lavoro, in
percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del t.f.r. ovvero degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori
ovvero in percentuale del reddito di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF relativo al periodo d’imposta precedente ».
La norma si riferisce, con tutta evidenza, alla
pluralità di forme che il rapporto di lavoro può
assumere nell’ambito delle cooperative, secondo la tripartizione introdotta dalla l. n. 142/
01 ( 25 ), senza tuttavia dare una precisa indicazione circa le tipologie cui riferire i tre diversi
criteri di calcolo.
Come chiarisce il comma 3o della disposizione in commento, le previsioni della riforma interessano anche i dipendenti della pubblica am( 24 ) Peraltro, non sembra possibile che tale fondo
(ora denominato « FONDINPS ») possa raccogliere
altra contribuzione, che quella che proviene dalla devoluzione tacita di cui al successivo comma 7o della
disposizione in commento.
( 25 ) Si può aggiungere peraltro che l’art. 3, comma
1o, della legge, allude anche a forme del tutto atipiche di lavoro là dove, al termine della elencazione
delle fattispecie ammesse, si riferisce a « qualsiasi altra forma » (a riguardo v. Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lav., 2001, n. 45, p. 12 ss.). Sulla portata riformatrice della legge del 2001 v. Nogler,
Tremolada e Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in questa Rivista, 2002, p. 339 ss., ed ivi l’intervento di Vergari,
La tutela previdenziale del socio lavoratore, p. 425 ss.;
nonché Montuschi e Tullini, Le cooperative e il
socio lavoratore. La nuova disciplina, Torino, 2004
(con appendice di aggiorn.); in merito agli aspetti
previdenziali v. altresì Mastinu, La previdenza sociale nella disciplina del lavoro del socio di cooperativa, in
Prev. ass. pubbl. priv., 2005, p. 83 ss.
702
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
ministrazione, là dove si stabilisce che « i contributi alle forme pensionistiche debbono essere
definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure coerenti
alla natura del rapporto » ( 26 ).
Il riferimento deve intendersi al fatto che, come è noto, la gran parte dei rapporti di lavoro
pubblico sono stati fatti oggetto, già grazie al disposto del d.lgs. n. 29/93, di una disciplina particolare che fa luogo alla applicazione delle ordinarie regole privatistiche (c.d. « diritto comune »), salvo che per alcuni profili, che rimangono disciplinati da norme speciali (ora contenute
nel d.lgs. n. 165/01).
In questo senso il richiamo alle fonti di definizione del trattamento economico va riferito alla
contrattazione collettiva, per tutti i rapporti, per
l’appunto, privatizzati, mentre deve intendersi
come rivolto alle fonti di legge, per i rapporti
che sono stati esclusi da tale riforma ( 27 ).
La disciplina è opportunamente contenuta in
un comma separato, in quanto, in relazione a tali rapporti, non si può fare riferimento alla disciplina del t.f.r. quanto alla base da tenere in
considerazione ai fini della determinazione dell’importo della contribuzione alle forme complementari. Infatti, per la gran parte dei dipendenti pubblici non si è ancora attuato, a vantaggio della applicazione del t.f.r., l’abbandono
delle antiche forme di indennità di fine servizio
ed anzi rimane ancora marcata la differenza fra i
due istituti.
Al pari che per l’indennità originariamente
prevista dall’art. 2120 c.c., il trattamento di fine
servizio è costituito dal prodotto del numero
degli anni di servizio del lavoratore per una parte percentuale della sua ultima retribuzione: ad
esso si è soliti attribuire natura previdenziale,
poiché il trattamento viene erogato da un istituto assicuratore (ora l’INPDAP a seguito della
confluenza in esso dell’ENPAS e degli altri enti
( 26 ) Si è detto più sopra di come l’art. 23, comma
6o, escluda i dipendenti del settore pubblico dalla riforma: l’apparente contraddizione con il comma ora
in commento si spiega con il fatto che esso riproduce
alla lettera la disposizione del d.lgs. n. 124, lasciata in
vigore dall’art. 23.
( 27 ) V. ora l’art. 3 del d.lgs. n. 165, su cui Tursi,
Le categorie escluse, in F. Carinci e Zoppoli (a cura
di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino,
p. 151 ss.
di settore) e il lavoratore partecipa alla relativa
contribuzione ( 28 ).
Già il d.lgs. n. 29/93 aveva lasciato in vigore la
disciplina previgente, « in attesa di una nuova regolamentazione contrattuale della materia » (art.
72, comma 3o). A fronte delle difficoltà incontrate nella prima tornata nazionale di contrattazione
collettiva successiva alla riforma, la l. n. 335/95
previde (art. 2, comma 5o), ma senza nessun esito
pratico, che il t.f.r. si applicasse ai dipendenti pubblici nella ipotesi in cui questi fossero stati assunti dopo la data del 1o gennaio 1996.
Intervenne successivamente l’art. 59, comma
56o, della l. n. 449/97, che stabiliva la possibilità
anche per quanti fossero già stati assunti in servizio di optare per l’applicazione del t.f.r, rinviando ad un successivo accordo nazionale quadro l’attuazione della riforma. L’accordo nazionale quadro del 29 luglio 1999 aveva rinviato ad
un successivo d.p.c.m. emanato in data 20 dicembre 1999, l’individuazione del momento ultimo per l’esercizio dell’opzione. Successivamente un d.p.c.m. del 2 marzo 2001, ha finalmente fissato per i lavoratori neoassunti tale termine al 31 dicembre 2000 ( 29 ).
In tal modo i lavoratori già occupati alla data
da ultimo richiamata hanno tempo fino al 31 dicembre 2010, secondo quanto successivamente
previsto dall’ANQ del 18 dicembre 2001 e dall’accordo del 2 marzo 2006, per esercitare la
propria scelta per il passaggio al t.f.r., così da
produrre per espressa disposizione legislativa
l’automatica adesione al fondo pensione di
comparto (art. 59, comma 56o, l. n. 449/97). I
lavoratori assunti a far data dal 1 gennaio 2001,
invece, hanno diritto al t.f.r. e possono scegliere
se aderire ai fondi di comparto.
Solo per questi soggetti, tuttavia, il versamen-
( 28 ) A riguardo per un attento ed analitico esame
v. Garilli, Il trattamento di fine rapporto nel lavoro
pubblico e privato, Milano, 1983; più sinteticamente
v. F. Carinci et aa., Diritto del lavoro, 2, Il rapporto
di lavoro subordinato 2, Torino, 1990.
( 29 ) Mattarolo, La nuova disciplina del trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici, in Cester, La riforma del sistema pensionistico, cit., p. 220
ss.; Alaimo, La previdenza complementare dei dipendenti pubblici, in Riv. dir. sic. soc., 2002, p. 139; Cazzola, Il trattamento previdenziale, in F. Carinci e
Zoppoli (a cura di), Il pubblico impiego, Commentario sistematico, cit., p. 1958 ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
to dei contributi segue il sistema privatistico,
poiché per gli altri è ancora mancato un provvedimento di adeguamento, anche a fronte del fatto che non sono stati costituiti i fondi di previdenza complementare, se non quello relativo al
comparto della scuola ( 30 ) ( 31 ).
Il sistema di finanziamento di tale fondo (denominato « Espero ») è particolarmente complesso: in conformità a quanto previsto dalla l.
n. 449/97 al fondo sono effettivamente devolute
solo le quote versate dal datore e dal lavoratore.
Il versamento del t.f.r. e di un ulteriore contributo pari all’1,5% della base di calcolo del t.f.s.
è invece virtuale, in quanto tali quote saranno
solo successivamente corrisposte dall’INPDAP,
che le rivaluterà secondo un indice inizialmente
dato dalla media di rendimento di alcuni dei
fondi pensione ( 32 ), successivamente sostituito
dalla media dei rendimenti dei fondi pensione
del solo settore pubblico.
Quanto alle altre categorie di destinatari delle
disposizioni del decreto in commento, al comma 2o si prevede altresì che « nel caso di soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o d’impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, il
finanziamento alle citate forme è attuato dagli
stessi o dai soggetti nei confronti dei quali sono
a carico ». Anche in questo caso la scelta linguistica tradisce il fatto che l’attenzione dell’estensore del decreto sia stata mirata all’aspetto fiscale: già l’art. 2, comma 2o, lett d), d.lgs. n. 252,
nell’individuare le categorie cui, in ultimo, si
estendono le previsioni della riforma, utilizza
una locuzione che mal si presta ad una piana
lettura, richiamando, al pari che il testo pre-vigente, « i soggetti destinatari [delle previsioni]
del d.lgs. 16 settembre 1996, n. 565, anche se
non iscritti al fondo ivi previsto ».
( 30 ) Sulla questione, da ultimo, v. INPDAP, La
previdenza complementare per i dipendenti pubblici,
Milano, 2006.
( 31 ) In data 6 marzo 2007, l’ARAN ha sottoscritto
un protocollo che prevede l’istituzione di un fondo
comune a più comparti di contrattazione (autonomie
locali, sanità e settori con attività affini).
( 32 ) I fondi pensione più consistenti sono stati individuati con decreto del Ministero del tesoro in
G.U. del 24 gennaio 2006 e sono: Alifond; Arco; Cometa; Cooperlavoro; Fon-chim; Fondenergia; Fopen;
Laborfonds; Pegaso; Previambiente; Previcooper;
Solidarietà Veneto; Quadri e Capi Fiat.
703
Basta poco per rendersi conto che dietro questa formula, tralaticiamente conservata, si nascondono coloro che « svolgono, senza vincolo
di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta » ( 33 ). In verità, non sembra che i requisiti di
adesione a tale speciale forma di previdenza siano oggetto di controllo da parte del legislatore,
se non attraverso un requisito negativo, quale
quello della assenza di altri redditi (da lavoro o
da pensione diretta). In tal senso il richiamo alla
categoria dei soggetti che hanno titolo alla iscrizione al fondo pubblico anzidetto appare del
tutto generico e vale ad identificare, per l’appunto, i soggetti (sostanzialmente) privi di redditi autonomi, che vivono a carico altrui.
L’intervento di riforma (comma 12o) mantiene in vigore, per tali ipotesi, le speciali modalità
di finanziamento già previste dal d.lgs. n. 47/00
e successivamente modificate dall’art. 78, comma 14o, della l. n. 388 dello stesso anno, consentendo l’accredito di contributi su base trimestrale anche da parte di imprese che emettono
carte di credito o di debito.
4. – Nella passata esperienza, sebbene fosse
ammesso in certi casi il versamento di contributi di importo fisso ( 34 ), le disposizioni di legge
(art. 8.2 d.lgs. n. 124/93) prevedevano che le
fonti istitutive fissassero il contributo complessivo in via percentuale sulla retribuzione assunta, dalla contrattazione collettiva o direttamente
dalla legge stessa (ai sensi del disposto dell’art.
2120 c.c.), a base del trattamento di fine rap( 33 ) Così l’art. 1 del d.lgs. cit.; a tale fondo, in verità, potevano altresì iscriversi al momento della sua
costituzione (nel 1963), giusta le previsioni di cui all’art. 85, n. 4, del r.d.l. n. 1827/35, « le donne maritate che attendono alle cure domestiche ed il cui marito
sia compreso in una delle precedenti categorie »,
nonché « le donne che, con altro vincolo di parentela, accudiscono alle cure domestiche presso persone
comprese nelle precedenti categorie, quando risulti
che non hanno redditi di alcuna specie per i quali paghino annualmente allo Stato, per imposte dirette,
una somma superiore a L. 120 ». Come è evidente,
però, appare difficile ipotizzare che si tratti di una categoria ancora significativamente numerosa.
( 34 ) Cfr., ad es., art. 3, comma 25o, l. n. 335/95, in
relazione ai fondi preesistenti.
704
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
porto (t.f.r.). La determinazione dell’ammontare delle somme destinate a finanziamento del
fondo era stabilita, dunque, dalle fonti istitutive, seppure talora nell’ambito di tetti variabili,
di modo che era lasciata alla discrezione del lavoratore l’individuazione dell’esatto importo
mensilmente dovuto ( 35 ).
Si prevedeva altresì la destinazione al fondo
anche di elementi particolari della retribuzione
stessa (come tipicamente avviene per i premi di
produttività collegati al raggiungimento di un
certo obiettivo economico). Queste somme in
altri ordinamenti hanno un ruolo rilevante nel
determinare il finanziamento della previdenza
integrativa o comunque di altre forme lato sensu
previdenziali di integrazione del reddito da lavoro, venendo a costituire un elemento retributivo per il quale si dispone una forma di risparmio forzoso ( 36 ).
Scarso è stato però l’utilizzo di tali elementi
nel sistema italiano, pur a fronte delle numerose
indicazioni in tal senso, contenute nei documenti prodotti al tavolo della concertazione: a
riguardo merita di essere qui richiamata la previsione di cui all’art. 2 d.l. 2 marzo 1997, n. 67,
conv. nella l. 3 maggio 1997, n. 135, che stabilisce una parziale decontribuzione delle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali
« delle quali sono incerti la corresponsione o
l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal
contratto collettivo medesimo alla misurazione
di incrementi di produttività, qualità ed altri
elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei
suoi risultati ».
Tali erogazioni sono assoggettate ad un contributo di solidarietà del 10% a carico del datore di lavoro, a condizione che i contratti aziendali istitutivi dei premi siano depositati presso
le direzioni provinciali del lavoro e nei limiti,
comunque, di un importo pari al tre per cento
della retribuzione contrattuale percepita (giusta
ora le previsioni dell’art. 60 l. n. 144/99). Que-
st’ultimo onere viene invece meno nella ipotesi
in cui le somme siano destinate al finanziamento
delle forme pensionistiche complementari, a testimonianza della vocazione degli elementi retributivi in esame ad integrare non già il reddito
del lavoratore, ma piuttosto il suo trattamento
pensionistico ( 37 ). Ed infatti l’incertezza della
loro corresponsione li colloca necessariamente
al di fuori del perimetro della retribuzione proporzionata e sufficiente, di cui al precetto costituzionale, essendo inammissibile che quanto sia
necessario alle ordinarie esigenze di vita del lavoratore abbia natura aleatoria.
Il d.lgs. n. 252 all’art. 8, comma 2o, mantiene
sostanzialmente inalterate le previsioni precedenti, ammettendo una contribuzione di importo fisso solo per i lavoratori autonomi e prevedendo che « le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore e del lavoratore possono essere fissati dai contratti e dagli
accordi collettivi ».
Viene introdotto contestualmente un principio, in forza del quale « per tutti i lavoratori »
l’entità della contribuzione viene « liberamente » determinata dal singolo. Del tutto assente è
nella lettera della legge un coordinamento fra le
due previsioni contenute in tale comma, che appaiono semplicemente giustapposte, di modo
che questo viene lasciato all’interprete.
Il principio della libera determinazione degli
importi destinati a finanziamento delle forme
complementari, espressamente ribadito nelle disposizioni relative alle forme pensionistiche individuali (art. 13, comma 4o, d.lgs. cit.), viene
formulato attraverso una ambigua « salvezza »
di effetti, che sembrerebbe descrivere una illimitata area di applicazione, ma, soprattutto,
senza che ne sia chiarita la portata in relazione
al contenuto delle fonti istitutive.
Seppure la norma possa essere interpretata
nel senso che la libertà sarebbe limitata alla sola
definizione iniziale dell’importo da corrispondere periodicamente ( 38 ), appare logico, nella
( 35 ) Per es. il fondo Previndai, dei dirigenti delle
aziende industriali, lascia ai singoli contratti di comparto l’individuazione degli importi della contribuzione.
( 36 ) In merito all’utilizzo di particolari elementi retributivi nell’esperienza francese v. V. Ferrante,
Tradizione e novità nella disciplina della partecipazione dei lavoratori: Francia e Italia a confronto, in Riv.
giur. lav., 2003, I, p. 139 ss.
( 37 ) Per qualche accenno a riguardo v. Zampini, Il
finanziamento, in Bessone e F. Carinci (a cura di),
La previdenza complementare, cit., p. 330; sulla retribuzione di risultato v. L. Zoppoli (a cura di), Retribuzione incentivate e rapporti di lavoro, Milano, 1994;
Gragnoli, Retribuzione ad incentivo e principi costituzionali, in Arg. dir. lav., 1996, p. 266.
( 38 ) Pare abbastanza evidente che il significato del
La nuova disciplina della previdenza complementare
prospettiva dei fondi individuali, ritenere che
un tale principio importi una modifica anche in
relazione alle singole contribuzioni, di modo
che il singolo lavoratore potrebbe variare mensilmente l’importo dei propri versamenti, fino al
punto di omettere in certi casi ogni finanziamento ( 39 ).
Dal riconoscimento di una tale libertà discendono numerosi problemi: non si tratta tanto di
valutare se la soglia massima, indicata dalle disposizioni del d.lgs. n. 252 a carattere tributario
si ponga come tetto comunque invalicabile, o
se, al contrario, limiti semplicemente i benefici
fiscali ( 40 ), ma piuttosto di stabilire, fermo restando il principio della libera variabilità della
contribuzione alle forme individuali, se le soglie, attualmente previste dagli statuti delle forme complementari negoziali, siano travolte dalla disposizione legislativa, o se, al contrario, esse
continuino a porre dei limiti del tutto legittimi
alla autonomia individuale.
La COVIP, nelle sue indicazioni operative indirizzate ai fondi già istituiti ( 41 ), si limita a riportare la clausola di legge senza null’altro aggiungere
e, dunque, senza preoccuparsi del coordinamento con le disposizioni presenti negli statuti, che in
generale individuano, come si è ricordato, una percentuale fissa, ovvero un massimo e un minimo. Interpretando le norme formulate dal legislatore deprecetto non possa ridursi semplicemente ad alludere
al fatto che, in aggiunta ai versamenti disposti in applicazione delle fonti istitutive, si fa luogo ora al versamento dei ratei annui del t.f.r.: una esplicita disciplina in tal senso è, infatti, contenuta nel comma 10o
della disposizione ora in commento. Peraltro la libertà di determinazione non riguarda l’importo del rateo
del t.f.r., che viene conferito per intero per quanti
siano stati assunti in data successiva alla entrata in vigore del d.lgs. n. 124.
( 39 ) Il comma 1o bis dell’abrogato art. 8 stabiliva,
con maggiore chiarezza, che nel caso di finanziamento dei fondi riservati ai soggetti che svolgono attività
di cura « sono consentite contribuzioni saltuarie e
non fisse ».
( 40 ) A un tale quesito, infatti, si era già risposto nel
vigore della disciplina precedente in senso negativo,
riconoscendo la legittimità di disposizioni che consentissero il versamento di somme ulteriori rispetto al
tetto fissato dalla normativa tributaria di volta in volta vigente: v. Mastrangeli, Finanziamento, cit., p.
202: A riguardo si rinvia altresì all’intervento di Marchetti, in questo Commentario.
( 41 ) V. deliberaz. COVIP del 30 novembre 2006.
705
legato come una indicazione diretta all’autorità di
vigilanza, si potrebbe giungere a ritenere che la
norma abbia come obiettivo quello di determinare la regola di comportamento che deve essere rispettata nell’autorizzazione delle modifiche dei
fondi già esistenti. Si potrebbe quindi ipotizzare
che il decreto n. 252 abbia inteso provvedere ad
una sorta di modifica unilaterale del contenuto degli statuti, che si attui non attraverso una sostituzione delle clausole ad opera delle previsioni di legge, ma per il tramite della autorizzazione della
Commissione, che sarebbe condizionata all’inserzione della clausola siffatta nel corpo degli statuti.
Una simile soluzione, se bene si attaglia alle
necessità delle forme individuali di previdenza
complementare che ripetono dalla sollecitazione alla raccolta del pubblico risparmio le loro
forme organizzative, non sempre appare congruente con le necessità attuariali di fondi, in
genere negoziali, di minori dimensioni. Non si
deve dimenticare, infatti, che anche nell’ambito
dei sistema di finanziamento a capitalizzazione,
sussiste una necessità di prevedere i flussi di
cassa, poiché solo una certa parte delle risorse
viene effettivamente investita, mentre una quota
parte viene utilizzata per far fronte all’erogazione dei trattamenti di pensione.
In questo senso, sembra evidente come la previsione degli statuti di un limite minimo appaia
del tutto conforme alla natura previdenziale del
fenomeno, garantendo continuità di contribuzione; parimenti anche la fissazione di un limite
massimo non appare illogica, poiché essa può
valere ad evitare squilibri in tutti quei fondi che
ancora siano regolati secondo sistemi che determinano l’entità delle prestazioni in relazione alla media delle ultime retribuzioni percepite.
Una interpretazione diretta a far prevalere la
libertà individuale sulle disposizioni degli statuti dei fondi negoziali non può essere, dunque,
pacificamente accettata, poiché il legislatore ha
dimenticato di prevedere quali siano le sanzioni
per il caso che si ponga in essere una violazione
dei suoi comandi (per es., prevedendo la nullità
delle clausole statutarie difformi). Verrebbe da
dire, quindi, che la norma ha valore dispositivo,
producendo i suoi effetti solo in assenza di una
specifica volizione delle parti collettive, che disciplinino in maniera diversa la materia, attraverso gli accordi che costituiscono fonti istitutive delle forme collettive.
706
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Si noti che la distinzione fra norme imperative
e dispositive, del tutto comune in seno alle disposizioni del codice civile, è sostanzialmente
sconosciuta al diritto del lavoro, dove al contrario la tradizionale connotazione delle norme è la
inderogabilità, che vale ad ammettere ad opera
della autonomia individuale solo quelle modifiche che siano migliorative della condizione del
lavoratore ( 42 ).
Nella materia della previdenza complementare, invece, la distinzione può trovare applicazione, posto che la legge disciplina rapporti in relazione ai quali il criterio della inderogabilità non
può maneggiarsi con la stessa precisione concettuale che si dà per la disciplina del rapporto di
lavoro. In assenza di soglie o limiti manca, infatti, lo spazio per un giudizio comparativo che
non si fondi sulle preferenze individuali, ma che
sia oggettivato dal riferimento ad entità suscettibili di valutazione quantitativa. Né peraltro il
principio di libertà che viene spesso richiamato
dal legislatore, in relazione ad esempio alla adesione o alla misura del finanziamento, riesce ad
acquisire un precisa veste precettiva, posto che
è proprio della libertà individuale l’obbligarsi
attraverso manifestazioni di volontà negoziale.
In questo senso non appare illogico ritenere
che, al pari che per ogni altro rapporto associativo o, più genericamente, negoziale, le fonti
istitutive possano limitare la misura della contribuzione massima, ed anche minima, in relazione ad un importo percentuale o anche ad una
cifra fissa. Diversamente, per le forme individuali deve riconoscersi la possibilità di successive variazioni dell’importo dei contributi versati,
sia per l’assenza delle ragioni sistematiche che si
sono qui esposte, sia in conseguenza della diversa formulazione letterale della norma (posto che
l’art. 13, comma 4o, non fa riferimento ad una
« facoltà », ma direttamente sembra riconoscere
il diritto alla modifica unilaterale).
Peraltro, un ulteriore argomento sembra rafforzare la legittimità dei vincoli posti dalla autonomia dei privati, se solo si esamini il fenomeno
della previdenza privata nel suo collegamento
con le manifestazioni dell’autonomia collettiva.
5. – La interpretazione, ora proposta, della di-
( 42 ) Sulla inderogabilità v. da ultimo Magnani, Il
diritto del lavoro e le sue categorie, Padova, 2006.
sposizione che sancisce la libertà individuale di
commisurazione dei finanziamenti destinati ai
fondi di previdenza, può trovare, per un altro
verso, ulteriore conforto alla luce della soluzione da attribuire alla questione, che da lungo agita la dottrina, circa la posizione costituzionale
da attribuire al fenomeno della previdenza complementare.
Noti sono i termini della questione ( 43 ): una
prima opinione colloca la previdenza complementare nell’ambito delle previsioni di cui al
comma quinto della disposizione costituzionale,
attribuendo alle prestazioni erogate dai fondi
natura affine a quella del trattamento di fine
rapporto, in relazione sia alle finalità che il legislatore conferisce ai fondi (v. art. 1 d.lgs. n. 252/
05, e già art. 1 d.lgs. n. 124/93), sia alla volontarietà della partecipazione alle forme complementari (art. 3, comma 4o, d.lgs. n. 124/93 e 1,
comma 2o, d.lgs. n. 252/05). In questa prospettiva, si mette in luce come non possa assurgere a
finalità pubblica l’interesse a più elevati livelli di
copertura previdenziale, a fronte delle previsioni contenute nel comma 2o dell’art. 38 Cost.,
che limitano l’intervento statuale al fine di assicurare « mezzi adeguati » alle esigenze di vita ( 44 ).
Una seconda opinione ritiene, al contrario,
che già nel testo costituzionale sia possibile rintracciare un disegno unitario che racchiuda le
forme pubbliche e private nell’ambito di un
unico sistema integrato, riconoscendo così anche alla previdenza privata il compito di concorrere a garantire un trattamento complessivamente idoneo al raggiungimento dei livelli di
adeguatezza individuati dal legislatore costituente ( 45 ).
( 43 ) V. riepilogati, da ultimo, da Olivelli e Ciocca, voce Previdenza complementare, cit., par. 3; nonché in Vianello, Autonomia collettiva e previdenza,
cit., p. 56.
( 44 ) È la nota posizione espressa da Persiani, già
nel Commento all’art. 38 Cost. (curato da G. Branca,
Bologna-Roma, 1979) e da ultimo ribadita in La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Arg. dir. lav., 2001, n. 3, p. 716; tale tesi è stata ora ripresa, con un richiamo delle disposizioni del comma 4o della disposizione costituzionale, da Ciocca, La libertà della previdenza privata, Milano, 1998.
( 45 ) In questo senso, soprattutto, Pessi, La previ-
La nuova disciplina della previdenza complementare
In entrambe le prospettive, tuttavia, basta poco per giungere ad esiti che mettono in dubbio
la legittimità della presenza del sindacato quale
soggetto privilegiato nello svolgimento di attività di gestione del risparmio. Infatti, sia che si
enfatizzi la natura pubblica dell’interesse, perseguito dalla previdenza complementare, a più
elevati livelli di copertura previdenziale, sia che
– al contrario – se ne riconduca, sulla scorta della libertà dell’adesione, il fondamento alla soddisfazione di un interesse soggettivo, ogni intromissione da parte di soggetti intermedi rischia
di appare illecita, almeno ove a questi non si applichino condizioni di parità, quanto a ruolo e
disciplina dei fondi, rispetto a quelle previste
per i soggetti diversi.
Di qui la tendenza a cancellare ogni ostacolo
circa la portabilità delle posizioni individuali e
l’aspirazione a una piena omogeneizzazione
della disciplina, ritenendo che ogni vincolo di
derivazione negoziale alla circolazione delle
posizioni previdenziali si configuri come lesione, non tanto della libertà di concorrenza, ma
del diritto individuale a guadagnare dalla competizione fra diversi fondi il maggior rendimento possibile.
Tuttavia, non sembra possibile disancorare il
fenomeno della previdenza complementare dalle previsioni contenute nel comma 5o dell’art.
38 Cost., ove si tenga presente che la libertà della previdenza privata non è strutturalmente diversa da quella di cui al comma 1o del successivo art. 39 Cost.
Anche la previdenza complementare si presentava all’esperienza storica del legislatore costituente come una manifestazione di una attività di organizzazione degli interessi individuali in
forma collettiva ( 46 ). L’esame del dibattito svol-
denza complementare, Padova, 1999 (e già in La nozione di previdenza integrativa, in Quad. dir. lav. rel.
ind., 1988, 69 ss.) nonché P. Sandulli, voce Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc. priv.,
Sez. comm., XI, 1995, p. 243 ss. A riguardo v. altresì
Proia, Aspetti irrisolti del problema dei rapporti fra
previdenza pubblica e previdenza complementare, in
Arg. dir. lav., 2001, p. 619 ss.
( 46 ) Sul ruolo del momento organizzativo nella definizione del fenomeno sindacale v. Napoli, voce
Sindacato, in Lavoro, diritto, mutamento sociale, Torino, 2002, p. 217 ss. (già in Digesto IV ed., Disc. priv.,
Sez. comm., XVI, Torino, 1999).
707
tosi in sede costituente dimostra chiaramente
come il riconoscimento della libertà della assistenza privata rinvii alla esperienza delle mutue
e sia diretto ad approntare, quindi, una protezione del tutto omogenea rispetto al fenomeno
disciplinato dall’art. 39 Cost. ( 47 ).
La contiguità fra le organizzazioni di mutuo
soccorso e le associazioni sindacali, infatti, non
può sfuggire né allo studioso dell’evoluzione del
sistema della previdenza sociale né al giurista
positivo, che è consapevole della incompletezza
della copertura previdenziale ed assistenziale
dei lavoratori al momento della promulgazione
della Costituzione. Lo spazio di libertà che si
volle riconoscere alla previdenza organizzata su
base collettiva vale a garantire, quindi, che
l’esercizio di tali attività si possa svolgere senza
il rischio di ingerenze da parte dello Stato, se
non per quegli aspetti che attengono alla regolamentazione generale e alla garanzia di una gestione corretta ed equilibrata.
Da questo accostamento fra l’attività organizzata al fine di definire le condizioni di disciplina del rapporto di lavoro e quella intesa alla
instaurazione di un sistema rivolto a garantire
un reddito nel momento del ritiro dalla vita attiva, deriva, dunque, il riconoscimento del ruolo del sindacato quale soggetto protagonista
della disciplina della previdenza complementare, chiamato a definire condizioni di accesso,
( 47 ) V. La Costituzione della Rep. nei lavori preparatori dell’Ass. costituente, 1970, vol. II, 1582, sed.
pom. del 10 maggio 1947, p. 1579 ss. Il dibattito si
incentrò, in tal senso, in relazione alla previsioni di
cui all’attuale comma 4o, poiché l’esperienza del periodo dittatoriale aveva condotto ad una distrazione
dei fondi raccolti con finalità previdenziali a beneficio di un investimento (poi rivelatosi fallimentare a
fronte della eccezionale svalutazione del dopoguerra) in titoli di stato (v. p. 1588). In tal senso il dibattito poté registrare una posizione comune solo
grazie al collegamento con le previsioni di cui all’attuale comma 5o, a garanzia del fatto che allo stato
sarebbe toccato un intervento fattivo nella erezione
del sistema previdenziale, così come delineato nei
primi tre commi dell’art. 38, rimanendo invece libera e garantita l’iniziativa privata indirizzata a finalità
previdenziali. (v. interventi di Laconi e Di Vittorio).
Sui lavori della Costituente, nonché sull’ampio dibattito che si accese nell’immediato dopo-guerra,
nell’ambito della c.d. « Commissione D’Aragona »
v. Ciocca, La libertà nella previdenza privata, cit., p.
17 ss.
708
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
modalità di organizzazione dei fondi e criteri
di investimento dei capitali accumulati, che
rappresentano non tanto una proiezione di un
diritto soggettivo, incondizionatamente riconosciuto al lavoratore, ma piuttosto un completamento delle pattuizioni salariali raggiunte al tavolo della negoziazione collettiva ( 48 ).
E, del resto, l’esperienza insegna come gli statuti e i regolamenti stessi dei fondi negoziali siano pattuiti nell’ambito dei rinnovi periodici dei
contratti collettivi di categoria, come momenti
di definizione sinallagmatica delle condizioni di
scambio.
Dal carattere sindacale che connota la pattuizione contenuta nelle fonti istitutive discende
che le forme di vincolo che siano state definite
in sede collettiva, in relazione (ma non solo) alla misura dei contributi di cui all’articolo ora in
commento, si presentano come munite di una
speciale protezione che eleva le ordinarie manifestazioni della autonomia negoziale, trasponendole su un piano costituzionalmente protetto.
In questo senso, l’animato dibattito che ha
tentato di accomunare quanto a prospettive e
finalità la previdenza privata e quella pubblica,
essenzialmente nella prospettiva di una esclusione dagli oneri contributivi obbligatori del finanziamento datoriale alle forme preesistenti di
previdenza complementare ( 49 ), non dovrebbe
far dimenticare la protezione che nell’ambito
del nostro ordinamento viene garantita ai frutti
della autonomia collettiva, consentendo, quindi, di poter attribuire alla norma legislativa in
commento, anche per questo verso, un semplice significato dispositivo, suscettibile di modifica ad opera di una diversa pattuizione collettiva.
6. – Uno dei motivi del mancato sviluppo dei
fondi complementari si rinviene, concordemente, nella presenza nel nostro ordinamento di un
( 48 ) In questo senso, seppur con argomentazioni in
parte diverse, v. Tursi, La previdenza complementare
nel sistema italiano, cit., p. 183, nonché, da ultimo, in
La previdenza pensionistica privata: forme complementari e forme individuali, in Riv. dir. sic. soc., 2002, n.
1, p. 110 ss.
( 49 ) V. Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in Bessone e F. Carinci, La
previdenza complementare, cit., p. 9 ss.
elemento retributivo obbligatorio, quale il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c.,
che si presenta come una formidabile alternativa alle forme di previdenza complementare, in
quanto rivolto a sopperire a esigenze del lavoratore, in buona misura analoghe a quelle cui intende rispondere la costituzione dei fondi complementari.
Come è noto, le originarie previsioni del codice civile stabilivano il diritto al pagamento, al
momento della risoluzione del rapporto, di una
indennità di anzianità, a condizione che il rapporto non si fosse interrotto per giusta causa,
determinando l’importo di tale elemento attraverso un meccanismo « moltiplicativo » che
prendeva a base l’ultima retribuzione corrisposta al lavoratore in costanza di rapporto. Una
volta che la l. 29 maggio 1982, n. 297 ne ha
modificato la disciplina, introducendo la denominazione oggi in uso, e ne ha garantito la corresponsione in ogni caso di interruzione del
rapporto, tale attribuzione patrimoniale risponde a finalità di tipo previdenziale, perché consente di far fronte alle esigenze di continuità di
reddito conseguenti al venir meno della retribuzione periodica, sia nel caso in cui il soggetto non rinvenga in tempi brevi altra occupazione e non abbia ancora maturato i requisiti necessari per accedere al trattamento pensionistico, sia nell’ipotesi in cui alla interruzione del
rapporto corrisponda, invece, il termine della
vita lavorativa, attribuendo così al lavoratore
una somma a integrazione della sua pensione ( 50 ).
In tal senso, proprio in ragione della sua funzione, l’art. 12 della l. n. 153/69, nella formulazione oggi vigente in conseguenza del riordino
da ultimo disposto con il d.lgs. n. 314/97,
esclude il trattamento di fine rapporto dalla
( 50 ) Sul t.f.r. restano ancora attuali gli studi successivi alla sua introduzione: Ghera e SantoroPassarelli, Il nuovo trattamento di fine rapporto,
Milano, 1982; De Luca Tamajo, Il trattamento di fine rapporto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1982, p. 429
ss. nonché Giugni, De Luca Tamajo e Ferraro, Il
nuovo trattamento di fine rapporto, in questa Rivista,
1983, p. 257 ss.; di recente, v. G. Santoro-Passarelli, Il trattamento di fine rapporto, Torino, 1995.
Dello stesso A., v. altresì Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, in Arg. dir. lav.,
2000, p. 93 ss.
La nuova disciplina della previdenza complementare
base imponibile ai fini della determinazione dei
contributi dovuti alla previdenza obbligatoria ( 51 ).
Del resto, un primo intreccio fra i trattamenti
collegati alla risoluzione del rapporto e la previdenza complementare si poteva rinvenire già
nel codice civile, all’art. 2123 c.c., là dove si stabilisce che il datore che abbia compiuto volontariamente « atti di previdenza » può scomputare da quanto dovuto in relazione alla cessazione
del rapporto (nonché in caso di malattia) le
somme che il lavoratore abbia « diritto di percepire per effetto degli atti medesimi » ( 52 ). Peraltro, l’alternativa fra l’erogazione, al momento
della cessazione del rapporto, di una somma in
unica soluzione o di una rendita ha attraversato
la storia normativa di entrambi gli istituti fino
allo stesso decreto di riforma della previdenza
complementare ora in commento, che all’art.
11, comma 3o, consente il pagamento di una
parte dell’intero trattamento in forma di capitale, « fino ad un massimo del 50 per cento del
montante finale », nonché in misura integrale
ove la prestazione pensionistica risulti di importo ridotto.
La assimilazione, tuttavia, si manifesta solo
sul piano funzionale, poiché, dal punto di vista
della natura delle prestazioni attribuite al lavoratore ( 53 ) e della disciplina positiva, numerose
( 51 ) A riguardo, oltre alle opere di carattere generale, v. Persiani, Problematiche generali relative all’obbligo contributivo, in Informaz. prev., 2002, p.
1355 ss. (anche in Arg. dir. lav., 2003, p. 1 ss.).
( 52 ) Sulla interpretazione di tale norma v. Tursi,
La previdenza complementare nel sistema italiano, cit.,
p. 480; Ichino, Il contratto di lavoro, II, Milano,
2003, p. 217; nonché Dondi in Grandi e Pera,
Commentario alle leggi sul lavoro 3, Padova, 2001, sub
art. 2123 c.c.
( 53 ) Sull’argomento, in generale, v. G. SantoroPassarelli, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 67
ss. I due istituti mantengono natura diversa, come si
evince dall’art. 4 della l. n. 297/82, che diede vita al
t.f.r., novellando l’art. 2120 c.c.: tale diposizione, infatti, nell’uniformare tutti i sistemi di calcolo fino a
quel momento esistenti (comma 4o) e nel comminare
la nullità di tutte le disposizioni negoziali difformi
(comma 10o), precisò al suo comma quinto che: « restano salve le indennità corrisposte alla cessazione
del rapporto aventi natura e funzione diverse ». Di
qui, secondo l’opinione della giurisprudenza (in tal
senso v. Trib. Torino 9 maggio 2006, in Notiz. giur.
lav., 2006, p. 224), la differente natura delle due di-
709
sono le differenze fra i due istituti: il t.f.r., costituisce un accantonamento solo contabile, e
dunque un credito che diviene esigibile solo alla
fine del rapporto o in presenza delle condizioni
previste per legge; esso dà garanzia di rendimenti certi sulla scorta di un tasso in parte determinato legislativamente in cifra fissa e in parte collegato all’andamento dell’inflazione ( 54 );
infine, a seguito della entrata in vigore del d.lgs.
n. 80/92, il credito del lavoratore al t.f.r. è garantito attraverso una assicurazione apposita,
gestita dall’INPS e finanziata da un contributo
individuale ( 55 ).
Al contrario, i trattamenti erogati dalle forme
pensionistiche complementari sono alimentati
da versamenti di somme che costituiscono una
diminuzione patrimoniale immediata per l’impresa, in tutti i casi, almeno, in cui il fondo abbia autonoma soggettività e non sia costituito
nella forma di un patrimonio separato nell’ambito del capitale sociale, secondo l’uso più antico, registrato dal codice civile all’art. 2117 c.c.,
ma ora vietato dalle disposizioni del decreto in
commento (cfr. già art. 18 d.lgs. n. 124/93). Il
sistema della previdenza complementare, peraltro, non assicura garanzia di rendimento certo,
essendo questo conseguente alle decisioni di investimento collettivamente assunte dagli organi
di gestione del fondo e ai risultati concretamente raggiunti dai soggetti di cui all’art. 6 d.lgs. n.
252/05.
L’incertezza della misura del credito che sarà
riconosciuto al singolo, in conseguenza della
sommatoria fra il montante accantonato e gli incrementi che si ritraggono dalle scelte finanziarie di investimento, infine, determina l’assenza
di una garanzia circa la effettiva corresponsione
stinte attribuzioni patrimoniali, posto che i fondi già
istituiti alla data del 1982 non hanno cessato di esistere.
( 54 ) Il tasso è pari ad un valore composto da una
percentuale (75%) della variazione dell’indice
ISTAT dei prezzi al consumo (che misura l’andamento dell’inflazione) nonché da un importo in cifra
fissa (1,5%), di modo che il rendimento sarà comunque superiore al valore dell’inflazione, ogni volta che questa si mantenga al di sotto della percentuale del 6%.
( 55 ) A riguardo v. la recentissima circ. INPS n. 53
del 7 marzo 2007, per un riepilogo delle modalità di
funzionamento del fondo.
710
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
della prestazione integrativa, restando, al contrario, assicurato, in forza delle previsioni dell’art. 5 del d.lgs. n. 80/92, solo il rischio di un
« omesso o insufficiente versamento » dei contributi non ancora prescritti ( 56 ).
La tendenziale sovrapposizione fra i due istituti ha ripetutamente sollecitato il legislatore
ad individuare una forma di coordinamento:
già le norme del 1993 miravano ad utilizzare il
t.f.r. quale principale strumento di finanziamento della previdenza complementare, disponendo a certe condizioni la destinazione del
t.f.r. a finanziamento dei fondi. Occorreva distinguere a seconda che i destinatari dei fondi
fossero, o meno, lavoratori di prima occupazione successiva all’entrata in vigore del decreto
(29 aprile 1993): nel primo caso la legge imponeva alle fonti istitutive di prevedere la integrale destinazione ai fondi pensione degli accantonamenti annuali al t.f.r. (art. 8, comma 3o, d.lgs. n. 124) ( 57 ).
Nel secondo caso, invece, era semplice facoltà delle parti collettive destinare anche una
semplice quota del t.f.r. al fondo, determinando « la misura della riduzione della quota degli
accantonamenti annuali futuri al t.f.r. ». Qualora si fosse verificata questa ultima eventualità,
il lavoratore avrebbe visto accantonarsi una
prima quota a titolo di t.f.r., regolata secondo
quanto previsto dall’art. 2120 c.c., ed una seconda quota nel fondo complementare, disciplinata secondo le regole proprie dello statuto
del fondo ( 58 ).
( 56 ) Malgrado le previsioni del comma 5o della disposizione ora citata nel testo, non si è mai proceduto
alla emanazione dei decreti necessari alla istituzione
di tale speciale fondo di garanzia, sebbene il contributo di solidarietà, già introdotto dalla l. n. 166/91,
sia ora vincolato al finanziamento di tale fondo (v.
art. 16 d. in commento e già art. 12 d.lgs. n. 124/93).
( 57 ) Il vantaggio che potrebbe derivare dal trasferimento degli accantonamenti a titolo di t.f.r. al fondo
pensione consiste nella possibilità che, attraverso una
migliore gestione dei risparmi per mezzo di investimenti operati da soggetti qualificati (art. 6), la rivalutazione dei capitali così impiegati risulti maggiore di
quella assicurata, in tema di t.f.r., dall’art. 2120, comma 4o c.c.
( 58 ) L’art. 8, comma 2o, della l. n. 335/95, peraltro,
sospendeva per un periodo di quattro anni la destinazione obbligatoria del t.f.r., per i neo-assunti, nelle
imprese con meno di 25 dipendenti.
Ovviamente, per i lavoratori di nuova assunzione l’intero importo del t.f.r. doveva essere
destinato a finanziamento della previdenza
complementare, posto che non sussistevano accantonamenti previi, essendo l’assunzione posteriore alla momento di entrata in vigore della
legge. La previsione della intera devoluzione ai
fondi per i lavoratori di nuova assunzione, sebbene si configurasse come un vero e proprio obbligo, era tuttavia condizionata all’iscrizione del
lavoratore al fondo, che rimaneva libera: per
eludere la pratica applicazione della regola,
quindi, era sufficiente che il lavoratore omettesse di iscriversi ad un fondo, determinando così
il mancato sorgere dell’obbligo ( 59 ).
Per rendere meno gravosa ai lavoratori la rinunzia al t.f.r., il legislatore previde che a quanti
avessero operato il totale o parziale accantonamento a favore del fondo del trattamento maturato venisse comunque riconosciuto il diritto ad
ottenere anticipazioni nei casi contemplati all’art. 7, comma 4o, del citato d.lgs. n. 124/93,
con disposizioni in buona parte analoghe a
quelle di cui al vigente art. 11, comma 7o, d.lgs.
n. 252 (a riguardo v. Tozzoli, sub art. 11, in
questo Commentario).
In verità gli ostacoli all’utilizzo del t.f.r. come
strumento di finanziamento della previdenza
complementare non sono derivati esclusivamente dalla scarsa propensione che i lavoratori
hanno fino ad ora dimostrato verso le forme di
previdenza privata, ma altresì dal fatto che, in
tutti i casi in cui si realizzi concretamente la
devoluzione del t.f.r. ai fondi, gli imprenditori
sono obbligati alla corresponsione effettiva delle somme maturate annualmente dal prestatore, di modo che, perdendo la disponibilità di
tali importi, essi vedono scomparire una sorta
di finanziamento a basso costo (dovendo altrimenti, per ottenere una disponibilità analoga a
quella degli accantonamenti annuali, rivolgersi
al sistema del credito che offre, generalmente,
tassi più elevati di quelli riconosciuti per legge
ai lavoratori). In tal senso non deve stupire
che, per agevolare l’operazione di devoluzione,
il legislatore abbia previsto, all’art. 10 del d.lgs.
in commento, misure « compensative » per le
imprese.
( 59 ) Cfr. Tursi, La previdenza complementare nel
sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 223.
La nuova disciplina della previdenza complementare
In passato, con il d.lgs. 17 agosto 1999, n.
299, si era tentata la strada di trasformare in titoli azionari il t.f.r., al fine di consentire il conferimento di quest’ultimo ai fondi pensione senza intaccare la liquidità dell’impresa (ed anzi incrementandone il capitale sociale). Il sistema
della cartolarizzazione, spesso utilizzato in altri
ordinamenti, serve ad anticipare la disponibilità
di capitali collegati a crediti non ancora esigibili, consentone la circolazione sulla base di operazioni di « sconto » non dissimili, in buona sostanza, da quelle proprie dei titoli cambiari (da
cui il nome dell’istituto). La scarsa familiarità
delle imprese italiane con gli strumenti finanziari più progrediti e il ridotto numero di imprese
quotate in borsa hanno però determinato il
pressoché totale fallimento di quella esperienza,
tanto che il legislatore delegato non ha inteso riproporla ( 60 ).
Il d.lgs. n. 252 tenta, dunque, un diverso approccio per incentivare il ricorso all’utilizzo del
t.f.r. come fonte di finanziamento della previdenza privata, secondo una precisa indicazione
che proviene dalla legge delega (art. 1.2, lett. e,
n. 2, l. n. 243/04). Attraverso il meccanismo del
« conferimento tacito » (v. infra, § 8) il legislatore tenta un approccio in certa misura morbido,
perché lascia, in ultima analisi, alla scelta al lavoratore se devolvere i futuri ratei ai fondi, evitando un conferimento obbligatorio del t.f.r. alla previdenza privata, come pure si era talora
prospettato nel dibattito politico che ha accompagnato la riforma.
In tal senso, nel mantenere in vita la distinzione fra lavoratori già attivi prima della data di entrata in vigore del d.lgs. n. 124 e lavoratori successivamente assunti, il decreto di riforma rinunzia ad intaccare le quote di t.f.r. già accantonate e a questi ultimi spettanti, disponendo solo
per il « t.f.r. maturando » (e dunque in relazione ai soli ratei corrispondenti al periodo successivo alla entrata in vigore del decreto). Eppure
non sarebbe apparso illogico estendere, nel caso
di lavoratori assunti successivamente all’aprile
1993, anche a tali somme la devoluzione tacita,
( 60 ) Cfr. a riguardo Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 84; G. Leone, Le modifiche in tema
di revidenza complementare e t.f.r., in Dir. prat. lav.,
1999, p. 2935; L. Casalino, Trasformazione in titoli
del t.f.r.e devoluzione ai fondi pensione, in Ferraro,
La previdenza complementare, I, cit., p. 123 ss.
711
posto che la previsione di legge del 1993 aveva
finito per imprimere alle somme annualmente
accantonate dal lavoratore una destinazione che
avrebbe potuto far venir meno ogni pretesa del
datore a conservare nell’ambito del patrimonio
aziendale tali importi.
7. – Il meccanismo di conferimento tacito viene esteso anche a soggetti che si trovino prossimi alla pensione e che dunque non avrebbero
apparentemente alcun interesse alla attivazione
di un secondo pilastro previdenziale, a fronte
sia del fatto che beneficeranno del più generoso
sistema retributivo per il calcolo della pensione
pubblica, sia del fatto che la modestia dei contributi versati ai fondi pensione non potrà assicurare loro alcun serio trattamento integrativo,
ma anzi probabilmente imporrà che la prestazione sia erogata dai fondi sotto forma di una
corresponsione una tantum in denaro, a mente
delle disposizioni di cui all’art. 11, comma 3o,
d.lgs. n. 252/05.
Coerentemente con tale profonda modifica,
l’art. 11 d.lgs. n. 252, muta le condizioni di accesso ai trattamenti pensionistici complementari, già previste dall’art. 7 d.lgs. n. 124, e il
comma 11o della disposizione ora in commento consente che il finanziamento del fondo
possa « proseguire volontariamente oltre il raggiungimento dell’età pensionabile prevista dal
regime obbligatorio di appartenenza, a condizione che l’aderente, alla data del pensionamento, possa far valere almeno un anno di
contribuzione a favore delle forme di previdenza complementare ». A tali lavoratori, secondo quanto previsto dalla disposizione ora
richiamata, spetta di « determinare autonomamente il momento di fruizione delle prestazioni pensionistiche ».
Si tratta di una deviazione abbastanza rilevante dalle previsioni prima contenute nel d.lgs. n.
124 che collegavano strettamente i requisiti per
l’accesso alla pensione pubblica a quelli previsti
dai fondi privati per il godimento dei trattamenti complementari (art. 7, commi 2o e 3o, nonché
art. 18, comma 8o quinquies). Ed in effetti viene
da chiedersi in che modo possa assimilarsi al fenomeno previdenziale, quale visualizzato dal
dettato costituzionale, una tutela attivata da un
soggetto che già abbia terminato la vita attiva e
che, dunque, si trovi a consumare il reddito, che
dovrebbe essere adeguato alle sue esigenze di
712
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
vita, per finanziare un ulteriore strumento di
protezione, con la garanzia di un vantaggio fiscale.
Nessuna possibile integrazione fra forme distinte di tutela previdenziale può legittimare
un simile risultato, cosicché dovrà dirsi che la
disposizione testimonia pienamente non tanto
la complessità dell’odierno sistema previdenziale, e il suo progressivo distaccarsi dalla più
lineare logica che animava le previsioni dei costituenti, quanto le finalità di incentivazione
del mercato del risparmio privato, prima richiamate. Ed in effetti, a fronte della progressiva liberalizzazione del cumulo fra trattamenti
pensionistici e redditi da lavoro (autonomo e
dipendente), promossa dai numerosi provvedimenti legislativi che si sono succeduti nel recente passato e vieppiù incoraggiata dalla stessa legge delega n. 243, ben si comprende come
i pensionati possano essere dotati di più elevati
redditi da destinare a forme di risparmio a
lungo termine.
Il risultato determinato da una simile previsione di legge, tuttavia, può essere paradossale,
poiché la previdenza complementare potrebbe
risolversi in un fenomeno dal quale rimarrebbero esclusi, per l’esiguità del reddito, i soggetti di
prima occupazione, a fronte invece di un massiccio afflusso di capitali da parte dei soggetti
pensionati, allettati dalla assenza di un vincolo
sulla durata minima degli investimenti.
Ed in effetti l’aspetto che più appare lontano
dalla logica costituzionale è l’assenza di un vincolo di durata quanto all’obbligo della contribuzione, mentre non apparirebbe contrario ai
principi di cui all’art. 38 la creazione di un sistema di trattamenti supplementari, che provveda
ad erogare una prestazione aggiuntiva, in vista
dei disagi della c.d. « quarta età » ( 61 ). Il progressivo rilevante allungarsi della vita media, infatti, giustificherebbe la creazione di un sistema
supplementare, a finanziamento agevolato, rivolto ad integrare i redditi che il pensionato ritrae dal sistema pubblico, a fronte della necessità di poter godere di un livello di reddito più
( 61 ) Una misura di integrazione del reddito dei
soggetti più vecchi è stata prevista dalla legge finanziaria per il 2002 attraverso l’incremento dei minimi
dell’assegno e della pensione sociale per gli anziani
ultrasettantenni.
elevato nel momento in cui l’età più avanzata
renda insufficiente, per le esigenze mediche o di
assistenza quotidiana, le somme che, nella piena
autosufficienza fisica, erano bastevoli a garantire il raggiungimento degli standards di cui al
comma secondo della disposizione costituzionale prima richiamata ( 62 ).
8. – Dopo l’ampia parentesi costituita dai
commi da 4o a 6o, che recano disposizioni tributarie, i commi da 7o a 10o della disposizione
in commento definiscono un meccanismo (impropriamente indicato come « silenzio-assenso » nella terminologia corrente, ma individuato dal legislatore come « modalità di conferimento tacita ») ( 63 ), in forza del quale, ove i lavoratori omettano di manifestare una volontà
di segno contrario, le quote maturande del
t.f.r. verranno destinate, da una certa data in
poi, a finanziamento della previdenza complementare (art. 8, comma 7o, d.lgs. n. 252). Una
simile previsione si applica a tutti i lavoratori
subordinati del settore privato, con l’ovvia
esclusione di quanti abbiano già integralmente
conferito il proprio t.f.r. ai fondi di previdenza
complementare ( 64 ).
La data di entrata in vigore del meccanismo,
originariamente fissata al 1o gennaio 2008 dall’art. 23 del d.lgs. n. 252, è stata anticipata di un
anno dal d.l. 13 novembre 2006, n. 279, con una
determinazione poi confermata ( 65 ) dalle disposizioni di cui ai commi 749o-752o dell’art. 1 della l. n. 296/06 (legge finanziaria per il 2007). In
( 62 ) Scarsi sono attualmente gli studi sulle esigenze
previdenziali della quarta età: per tutti v. E. Fornero e C. Monticone, Il pensionamento flessibile in
Europa, in Quad. europei del nuovo welfare, n. 7/07.
( 63 ) In senso fortemente contrario all’utilizzo della
espressione corrente, v. P. Sandulli, Il conferimento, tacito e non, del tfr al sistema di previdenza complementare: riflessioni critiche, in M. Messori (a cura
di), La previdenza complementare in Italia, Bologna,
2006, p. 157.
( 64 ) Sono esclusi altresì i lavoratori domestici, giusta la previsione del d.m. 30 gennaio 2007, art. 1,
comma 4o, FONDINPS.
( 65 ) Non si tratta propriamente di una « conversione » ai sensi dell’art. 77 Cost., poiché si è rinunziato ad avviare le procedure relative; il secondo provvedimento, che ha comunque contenuto pressoché analogo al primo, ha fatto salvi gli effetti prodotti dal d.l.
n. 279/06 (v. comma 752o).
La nuova disciplina della previdenza complementare
conseguenza di tale modifica, i lavoratori hanno
sei mesi di tempo a decorrere dal 1o gennaio
2007 (o dalla loro assunzione, se posteriore),
per decidere se conferire il t.f.r. maturando a
una forma pensionistica, individuale o collettiva, oppure mantenerlo nella disponibilità dell’impresa, in conformità alla disciplina di cui all’art. 2120 c.c. Solo tale ultima opzione, però,
può essere successivamente revocata, mediante
una manifestazione di volontà espressa indirizzata ad un conferimento, per così dire « tardivo » del t.f.r., perché una volta che il lavoratore
abbia deciso di destinare a finanziamento della
previdenza complementare il proprio t.f.r. non
potrà tornare indietro sui suoi passi, quand’anche si trovi ad instaurare un nuovo rapporto di
lavoro con un diverso datore ( 66 ).
Il legislatore, nel delineare il meccanismo del
conferimento, sia tacito sia espresso, mantiene
in vigore la distinzione originariamente introdotta al comma 3o dell’art. 8 del d.lgs. n. 124,
così da definire due distinte discipline, in ragione della data di prima iscrizione del lavoratore
al sistema della previdenza obbligatoria. In tal
modo alle lett. a) e b) del comma 7o si detta una
disciplina per i lavoratori che, per la prima volta, sono stati assunti dopo la data di entrata in
vigore del d.lgs. n. 124 (29 aprile 1993), ed una
separata disciplina è dettata dalla lett. c), dello
stesso comma per i lavoratori che a quella data
già avevano iniziato la contribuzione al sistema
dell’a.g.o.
A questa seconda categoria di lavoratori viene
consentito, nel rispetto dell’antico disposto del
d.lgs. n. 124, dianzi citato, di far luogo ad un
conferimento solo parziale del t.f.r., nella misura stabilita dalla contrattazione collettiva, oppure in mancanza di previsione, nella misura individualmente determinata, e comunque non in-
( 66 ) Questa interpretazione ha trovato conforto
nel decreto del 30 gennaio 2007 (FONDINPS), art.
1, comma 4o, nonché nelle dettagliate indicazioni
operative emanate dalla COVIP con deliberazione
del 21 marzo 2007, che esclude solo i lavoratori che
abbiano provveduto all’integrale riscatto della posizione individuale. Appare evidente, a fronte della destinazione al « fondo Tesoreria » di tali somme (almeno nelle imprese di maggiori dimensioni), come la
revoca abbia efficacia dal momento in cui essa è manifestata. Più che di una revoca, quindi, dovrebbe parlarsi di una opzione sopraggiunta.
713
feriore al 50% (comma 7o, lett. c); al contrario,
il conferimento sarà integrale per coloro che siano stati assunti per la prima volta in un momento successivo alla data di entrata in vigore della
riforma del 1993. In ogni caso, tutti i lavoratori
già occupati alla data del 1o gennaio 2007 non
potranno che conferire il solo t.f.r. « maturando », con esclusione – quindi – di quello già accantonato nei precedenti anni di lavoro (v. supra, par. 6).
Mentre la scelta effettuata attraverso modalità « tacite » si perfeziona solo a beneficio dei
fondi individuati dalla contrattazione collettiva,
il lavoratore, attraverso la scelta « espressa » di
cui alla lett. a del comma 7o (ovviamente, ove
questa ricada sulla opzione dell’utilizzo del
t.f.r. a finanziamento di una delle forme di previdenza complementare e non sul mantenimento della disciplina contenuta nel codice civile),
ha il diritto di individuare la forma cui, in concreto, destinare il t.f.r., anche in difformità dalle indicazioni provenienti dagli accordi collettivi applicati presso la sede dell’impresa da cui
dipende (c.dd. « modalità esplicite » di conferimento del t.f.r. di cui alla lett. a, del comma
7o).
Tale libertà, tuttavia, viene riconosciuta soltanto ai soggetti non ancora iscritti ad alcuna
f.p.c.; viceversa nel caso in cui il lavoratore risulti già iscritto ad un fondo, ma non conferisca
il trattamento di cui all’art. 2120 c.c. (o ne conferisca solo una quota parte), le disposizioni
della riforma (art. 8, comma 7o, lett. c), n. 1, d.lgs. n. 252) non riconoscono alcuna libertà di
scelta al lavoratore, riducendo il novero delle
opzioni a due soltanto: conferimento delle quote « residue » del t.f.r. alla f.p.c. cui già il lavoratore aderisce, o, in alternativa, il permanere della situazione antecedente (attraverso una manifestazione esplicita, in tal senso).
Qualora non intervenga una espressa manifestazione di volontà da parte del lavoratore nel
termine semestrale, si farà applicazione, come
già più volte si è anticipato, delle c.dd. « modalità tacite » di conferimento (lett. b del comma
7o), che parificano la mancata manifestazione di
volontà (il « silenzio ») del lavoratore, al suo
consenso all’utilizzo del t.f.r. a finanziamento di
una forma complementare.
Una complessa serie di regole stabilisce quale
sia la forma di previdenza complementare beneficiaria del conferimento tacito: innanzi tutto
714
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
vengono in rilievo le forme istituite o individuate dalla contrattazione collettiva, anche di
livello territoriale; tali forme tuttavia cedono alle eventuali indicazioni contenute in un accordo aziendale, quando questo sia stato notificato individualmente ai singoli lavoratori (art. 8,
comma 7o, lett. b, n. 1) (le parti collettive, rimangono libere in tale contesto di indicare come beneficiaria una qualsiasi delle forme di cui
all’art. 1, comma 2o, lett. e, n. 2, della l. n. 243/
04); qualora l’azienda abbia aderito a più forme di previdenza (a riguardo si rinvia a Bollani, sub art. 2, in questo Commentario, anche
per i necessari riff. bibliografici), il conferimento andrà effettuato alla forma che ha raccolto
più adesioni tra i lavoratori (art. 8, comma 7o,
lett. b, n. 2); in mancanza di forma collettiva o
di accordo aziendale trova spazio il conferimento presso il fondo c.d. residuale, istituito
dall’art. 9 dello stesso d.lgs. n. 252, nell’ambito
delle gestioni dell’INPS (art. 8, comma 7o, lett.
b, n. 3).
Quest’ultima destinazione, tuttavia, appare
come provvisoria, poiché l’art. 9, comma 3o, d.lgs. n. 252 prevede, che successivamente, su indicazione del singolo, la posizione fino a quel
momento maturata possa essere trasferita ad altra forma pensionistica: all’INPS spetta, dunque, di custodire le quote versate ( 67 ), in attesa
della individuazione del fondo cui destinare gli
accantonamenti effettuati.
Come si è dianzi segnalato, la libertà di individuare il fondo conferitario viene riconosciuta
soltanto ai lavoratori che già non siano iscritti
ad una forma di previdenza complementare,
poiché, in quest’ultimo caso, il legislatore riduce i termini della opzione alla scelta fra conferire il residuo del t.f.r. non ancora destinato a finanziamento della previdenza complementare o
il permanere nell’ambito della disciplina di cui
all’art. 2120 c.c.
Come si evince dal quadro complessivo, quindi, le forme individuali potranno beneficiare del
conferimento del t.f.r. solo in caso di opzione
espressa del lavoratore; in caso di silenzio, invece, i ratei saranno devoluti ai fondi, di categoria
( 67 ) In relazione a tale Fondo, da non confondersi
con quello ora istituito dal comma 755o della l. n.
296/06 (c.d. « fondo tesoreria »), v. Garcea, sub art.
9, in questo Commentario.
o aziendali (ovvero a quelli territoriali nell’ipotesi in cui sussista una espressa previsione collettiva in tal senso), o, infine, verranno a confluire, in carenza di ogni tipo di accordo, al fondo residuale di cui all’art. 9 del decreto in esame.
Nell’ambito delle originarie disposizioni del
d.lgs. n. 252, il complesso meccanismo posto in
essere dal legislatore delegato non impediva che
a fronte di una serie di manifestazioni di segno
negativo, non si apportasse alcuna rilevante modifica allo status quo ante. In altre parole, malgrado già la legislazione precedente avesse imposto ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 124 la destinazione del t.f.r. a
finanziamento dei fondi, il legislatore del 2005
non si spingeva sino ad imporre una devoluzione forzosa, di modo che i lavoratori che avessero impedito il perfezionarsi del tacito conferimento, manifestando una volontà contraria,
avrebbero continuato a godere del t.f.r. in
quanto tale, secondo le disposizioni di cui all’art. 2120 c.c.
Da qui il successivo intervento correttivo del
2006 che, nell’anticipare il termine di esercizio
dell’opzione di cui al comma 7o (comma 749o, l.
n. 296/06), ha altresì previsto che le quote di
t.f.r. cc.dd. « inoptate » non rimanessero nella
disponibilità del datore di lavoro ma fossero
versate ad un apposito « Fondo », gestito dall’INPS su apposito conto corrente aperto presso la Tesoreria dello Stato, secondo le previsioni
di cui all’art. 1, comma 755o, l. n. 296/06, ora
completate attraverso l’emanazione del regolamento di attuazione di cui al comma 757o della
disposizione ora citata ( 68 ).
Tale Fondo è destinato a raccogliere soltanto
i ratei relativi a rapporti di lavoro instaurati con
datori privati che abbiano alle proprie dipendenze più di 49 lavoratori ( 69 ). Per i lavoratori
( 68 ) Tale soluzione è stata definita nell’ambito del
negoziato con le parti sociali per la revisione della l.
n. 243/03, correggendo l’iniziale soluzione ventilata
dal governo che avrebbe avuto riguardo a tutte le imprese, ma per una quota percentuale del t.f.r. pari alla
metà. Il decreto, emanato dal Ministero del lavoro di
concerto con quello dell’economia, reca la data del
30 gennaio 2007 (si legge in G.U., n. 26, del 1o febbraio 2007).
( 69 ) La disciplina circa le modalità di calcolo di
tale soglia è contenuta nel decreto emanato dal Mi-
La nuova disciplina della previdenza complementare
delle imprese di minori dimensioni, dunque, rimane immutata la possibilità di manifestare un
esplicito dissenso al conferimento tacito, che
vale a sottrarli ad ogni innovazione nella disciplina del t.f.r.
Il Fondo (c.d. « Fondo-Tesoreria ») provvederà al pagamento della quota del trattamento,
relativa agli anni successivi al 2007, di modo che
il datore perderà comunque la disponibilità delle quote maturande, dovendole apportare mensilmente al Fondo ( 70 ). A differenza di quanto
un tempo previsto per gli enti previdenziali
ENPAS e INADEL del settore pubblico, però,
il lavoratore non avrà alcun rapporto con il
Fondo, poiché il datore provvederà direttamente alla liquidazione anche della quota posta a carico di questo, procedendo successivamente alla
compensazione con quanto dovuto a titolo di
contribuzione, non diversamente da quanto avviene, ad es., con riguardo alla indennità di malattia.
Il meccanismo delineato dal legislatore lascia
aperte una serie di questioni: in primo luogo si
tratta di verificare a quali condizioni possa ritenersi legittimo il conferimento tacito dei ratei
maturandi del t.f.r. alle forme complementari,
quando sorga il dubbio di un vizio della volontà
manifestata (par. 10); in secondo luogo si dovranno esaminare le conseguenze, quanto ai
contributi dovuti dal datore, nel caso dell’opzione espressa di cui alla lett. a del comma 7o
nistero in data 30 gennaio 2007 più volte cit. nel
testo: si prevede che si faccia riferimento alla media degli addetti dell’anno 2006, per le imprese già
costituite alla data dell’entrata in vigore della riforma; per le imprese costituite successivamente, invece, il limite dimensionale è riferito alla media dei lavoratori impiegati nel primo anno di attività; i lavoratori a tempo parziale vengono computati in proporzione alla durata del loro impegno lavorativo;
quelli a termine solo ove il rapporto abbia durata
superiore ai tre mesi e a condizione che il contratto
non sia stato stipulato per la sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Devono considerarsi esclusi dalle previsioni i lavoratori che già, per disposizione collettiva, apportano il t.f.r. ad un soggetto terzo (come la « cassa
edile »), e quanti ricevono annualmente in contanti
il trattamento (come nel rapporto di lavoro nautico).
( 70 ) Le misure compensative sono state riviste dall’art. 1, comma 764o, l. cit.
715
per la libera scelta della forma previdenziale cui
conferire il t.f.r. (par. 12); successivamente si
tratterà di analizzare i criteri che presiedono alla
individuazione del fondo destinato a raccogliere
le quote dei lavoratori che non abbiano manifestato una espressa opposizione alla devoluzione
tacita (par. 13). Prima di procedere all’esame di
tali questioni, tuttavia, si dovranno approfondire i problemi sistematici che il meccanismo stesso solleva (par. 9), anche con riguardo alla disciplina riservata alla contrattazione collettiva
(par. 11).
9. – Il criterio del conferimento tacito era
stato già in passato praticato dalla contrattazione collettiva ( 71 ), trovando appoggio anche
nella dottrina ( 72 ), nella prospettiva di rendere
più agevole l’iscrizione dei singoli alle forme di
previdenza collettiva, senza tuttavia menomare
la libertà di adesione individuale del lavoratore, che costituiva uno dei più importanti principi su cui si basava l’impianto del d.lgs. n.
124/93. In questa prospettiva, dunque, l’adesione tacita era voluta dalle parti soprattutto
come mezzo per una diffusione quanto più
ampia possibile delle iscrizioni al fondo, consentendo la creazione di una sorta di piano inclinato che conduceva a considerare come
concludenti i comportamenti meramente omissivi.
A riguardo si deve peraltro sottolineare come
sussista un interesse all’incremento del numero
degli iscritti ai fondi sotto più aspetti: sia al fi-
( 71 ) Interessante, a riguardo, è notare come un tale
meccanismo sia stato sperimentato anche nell’ambito
di fondi di assistenza sanitaria integrativa (come nel
caso del fondo del settore chimico: Faschim) con una
disposizione pattizia che, tuttavia, è stata recentemente eliminata, a conferma della perdurante incertezza della legittimità di tali clausole (o comunque
della inopportunità di manifestazioni tacite del consenso).
( 72 ) In tal senso, inizialmente A. Pandolfo, La
nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., inserto, 1993, XI; analogamente R. Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova, 2000, p. 370 nonché Tursi, La
previdenza complementare nel sistema italiano, cit.,
p. 244; G. Ferraro, La problematica giuridica dei
fondi pensione, in Ferraro (a cura di), La previdenza complementare nella riforma del welfare, cit., p.
34.
716
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
ne di poter ottenere costi ridotti di amministrazione e di intermediazione nelle scelte di investimento, sia perché la legge dei grandi numeri
rende più agevole e stabile il governo di fondi
con un elevato numero di iscritti, giacché
quanto più ampio è il campione dei soggetti,
tanto maggiore sarà l’accuratezza delle previsioni ( 73 ).
Seppure non possa escludersi che un ostacolo
alla diffusione per via negoziale di pattuizioni di
tal tipo derivasse da una sotterranea ostilità degli imprenditori, timorosi di dover rinunziare al
flusso di auto-finanziamento costituito dal
t.f.r. ( 74 ), si può ipotizzare che le parti nutrissero comunque un dubbio circa la legittimità di
disposizioni di contratto collettivo che prevedessero meccanismi di adesione tacita, tanto
che esse, invece che ottenere per via negoziale la
diffusione di tali clausole, hanno preferito attendere l’introduzione di una norma espressa
da parte del legislatore ( 75 ). Ricostruire i possibili argomenti che hanno giocato in senso contrario ad una ampia diffusione per via negoziale
delle clausole di conferimento tacito, tuttavia,
può servire a meglio valutare la soluzione adottata dal legislatore.
Un primo aspetto, recentemente riproposto
in dottrina con riguardo ai precetti di cui al d.lgs. n. 252/05, riguarda il consueto problema
dell’ambito di efficacia dei contratti collettivi,
affermandosi che il meccanismo ora previsto
dal legislatore sarebbe inteso a sorreggere, attraverso una pluralità di pattuizioni individuali, la
incerta efficacia di questi, rilevandosi, per altro
verso, come mancherebbe un criterio capace di
( 73 ) G. Proia, Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione. Efficacia. Dissenso, Milano,
1994, p. 208, nt. 131.
( 74 ) Ma non può mancarsi di sottolineare come,
nel vigore della precedente disciplina di legge, ove si
fossero diffuse clausole negoziali di conferimento tacito, i soli a poterne beneficiare sarebbero stati i fondi negoziali, offrendosi ai lavoratori una duplice opzione (mancato conferimento o destinazione ai fondi
di categoria) senza che si riconoscesse una libertà di
scelta circa il fondo cui destinare il proprio contributo.
( 75 ) Così M. Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit.,
p. 735. Non è inutile ricordare che una versione preliminare del d.lgs. n. 252 ha formato oggetto di un
confronto bilaterale con le oo.ss.
risolvere un eventuale conflitto fra più fonti collettive ( 76 ). Si avrà modo di ritornare più avanti
su questo aspetto, qui merita però di essere esaminata una diversa debolezza che sembrerebbe
caratterizzare la natura collettiva delle clausole
di conferimento tacito. In senso contrario alla
legittimità di tali clausole sembra giocare, infatti, la già richiamata concezione della previdenza
complementare come proiezione di un diritto
individuale, estraneo alle finalità di cui all’art.
38 Cost., di talché, attraverso una pattuizione
collettiva, il lavoratore verrebbe gravato di oneri non legislativamente previsti, vedendo così ridotto il suo complessivo trattamento retributivo.
Per altro verso, il richiamo alla libertà di adesione al fondo (art. 3, comma 4o, d.lgs. n. 124)
sembrava confermare come la contrattazione
collettiva non potesse disporre unilateralmente
di quella parte di retribuzione che grava in capo al lavoratore, destinandola a finanziamento
dei fondi, affermandosi che il diritto individuale alla retribuzione, una volta venuto ad esistenza, si incorpori nella sfera patrimoniale del
singolo, di modo che ogni successivo accordo,
seppur collettivo, che ne restringa gli ambiti sarebbe illegittimo per l’inammissibilità di transazioni collettive. Un tale risultato, infatti, appare
precluso alla contrattazione collettiva, sulla
scorta della dottrina dominante che ritiene,
quasi unanimemente, che alla autonomia sindacale non possa riconoscersi un potere dispositivo ( 77 ).
In questa prospettiva, è lecito ritenere che le
parti collettive paventassero che il meccanismo
del « silenzio-assenso » venisse equiparato ad
un vero e proprio atto di disposizione ex art.
2113 c.c. di una quota parte delle competenze
( 76 ) Secondo P. Sandulli, Il conferimento, tacito
e non, del tfr al sistema di previdenza complementare: riflessioni critiche, cit., p. 176, « il conferimento
tacito finisce per risultare l’effetto di una, più o meno forzata, estensione dell’efficacia delle fonti istitutive ».
( 77 ) Per una ricostruzione del dibattito su questo
aspetto v., più di recente, Occhino, L’aspettativa di
diritto nei rapporti di lavoro e previdenziali, Torino,
2004. Nel senso di ammettere la legittimità di atti di
disposizione collettivi v., tuttavia, Tursi, Autonomia
contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Torino,
1996.
La nuova disciplina della previdenza complementare
individuali, da considerarsi vietato per quanto si
è appena esposto ( 78 ).
In verità, l’argomento che nega la legittimità
di rinunzie effettuate collettivamente, non appare del tutto convincente, non appena lo si applichi, non già a diritti individuali riconosciuti
dal legislatore (in tema, ad es., di ferie), ma ai
diritti di credito retributivo definiti dalla contrattazione collettiva. Nel caso in cui la clausola
negoziale interessi un diritto patrimoniale, conseguente ad una disposizione contenuta nell’ambito di una pattuizione collettiva, si tratterebbe non già di operare una rinunzia ad una
elemento retributivo, ma piuttosto di conformare le modalità con cui il diritto di credito viene
ad esistenza.
In quest’ambito la pretesa alla applicazione
del contratto collettivo da parte del singolo lavoratore non può che comportare l’applicazione di tutta la disciplina negoziale pattuita (e
dunque anche dell’obbligo di pronunziarsi),
senza che il principio della retribuzione sufficiente di cui alle previsioni costituzionali possa
agire in senso opposto, dato che sarebbe la
stessa contrattazione collettiva nazionale ad
espungere quell’attribuzione patrimoniale dal
perimetro delle somme necessarie a garantire
al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa ( 79 ).
( 78 ) Prospetta questa soluzione Proia, Questioni
sulla contrattazione collettiva. Legittimazione. Efficacia. Dissenso, cit., p. 208, che esclude, tuttavia, in
concreto una violazione della norma, argomentando
dalla sostanziale inscindibilità del trattamento contrattuale, che impedisce al lavoratore una volta invocata la « fonte-fatto » di poter rifiutare una parte del
regolamento collettivamente disposto; un accenno
indiretto anche in Id., Tutela previdenziale pubblica,
consenso del soggetto protetto e previdenza complementare (note in margine di un recente convegno), in
Arg. dir. lav., 2000, p. 115 ss.
( 79 ) In questo senso può qui richiamarsi la distinzione più sopra tratteggiata fra obbligazioni retributive e meramente corrispettive, di cui a Cass., sez.
un., n. 974/97, in Dir. lav., 1997, II, con nota di
Bozzao: per ulteriori approfondimenti v. nt. 16.
Peraltro si deve ricordare come la rinunzia ad una
parte della retribuzione appaia legittima a quella
parte della dottrina e della giurisprudenza che ricostruisce i rapporti fra contratti collettivi di diverso
livello, in termini di piena derogabilità della fonte
collettiva ad opera di quella posteriore e dotata di
717
Peraltro verso, poi, si deve notare come la decisione relativa alla destinazione del t.f.r. non si
configura certo come atto abdicativo di un diritto retributivo o di una parte di esso, ma piuttosto vale quale atto di disposizione di una parte
del patrimonio del lavoratore, esercitato in anticipo rispetto al momento nel quale il credito sarebbe divenuto esigibile. Infatti, ove così non
fosse, dovrebbero considerarsi assoggettate al
disposto dell’art. 2113 c.c. anche le ipotesi di
cessione del credito retributivo o dello stesso
t.f.r.
La conseguenze negative che da questo atto
potrebbero derivare sull’ammontare complessivo del trattamento (a causa, ad es., di una non
felice scelta di investimento) non sono, insomma, in alcun modo riconducibili ad una volontà
dismissiva (ed anzi, in tal senso, è facile osservare come il lavoratore attraverso una diversa destinazione del t.f.r. intenda incrementarne l’importo e non certo ridurlo).
Né, in senso contrario a queste conclusioni,
vale richiamare una antica opinione che, sulla
scia delle preoccupazioni di limitare la « spirale
inflazionistica » che mossero il legislatore del
1982, afferma la assoluta inderogabilità del disposto dell’art. 2120, in forza delle previsioni di
cui all’art. 4 della l. n. 297/82, che fulminano
con la nullità ogni previsione in contrasto con le
disposizioni di legge, anche ove proveniente
dalla contrattazione collettiva: in questa prospettiva, la disciplina del t.f.r. si configurerebbe
come una previsione imperativa che non ammette deroghe, su base individuale o anche collettiva, in quanto preordinata a realizzare forme
di risparmio coattivo ( 80 ).
Alla stregua di tale opinione, infatti, dovrebbero risultare vietate anche le forme di anticipazione non espressamente ammesse dal legislatore, in contrasto con la prassi che si è invece radicata in occasione di operazioni di privatizza-
maggiore vicinanza agli interessi regolati, giusta il
canone della specialità.
( 80 ) Così già Ghera e Santoro-Passarelli, Il
nuovo trattamento di fine rapporto, Milano, 1982; ed
ancora di recente G. Santoro-Passarelli, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 75, secondo il quale tale principio troverebbe conferma nell’art. 8 d.lgs. n.
123, che avrebbe natura di ulteriore ipotesi di anticipazione, rispetto a quelle individuate dalla disposizione del codice civile.
718
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
zione di società a capitale pubblico, che hanno
visto un largo ricorso all’acquisto di titoli azionari attraverso, per l’appunto, l’impiego di una
parte degli accantonamenti del trattamento (o
del suo intero ammontare) sino a quel momento
realizzati, attraverso l’invocazione delle disposizioni di cui al comma 11o dell’art. 2120 c.c. che
prevede condizioni di miglior favore collettivamente disposte.
Tale argomento, peraltro, perde ogni valore
nel caso in questione ove si noti che già il d.lgs.
n. 124 prevedeva la possibilità di utilizzare il
t.f.r. a finanziamento dei fondi, così incrementando le ipotesi di anticipo legislativamente previste ( 81 ), né sembra che ad una manifestazione
di volontà tacita possa riconoscersi latitudine
dispositiva inferiore rispetto ad una semplice
manifestazione espressa, ove non sia richiesta
una forma solenne.
In conclusione, quindi, ad una analisi retrograda, non sembrerebbe che sussistessero seri motivi che potessero impedire la diffusione per via negoziale delle clausole vulgo dictae di « silenzio-assenso », se non la scarsa fiducia che la dottrina nutre nella sussistenza di un potere dispositivo collettivo e la eccessiva valorizzazine della libertà di
adesione. Parimenti non dovrebbero sussistere
motivi per dubitare della legittimità della soluzione ora adottata in via legislativa, alla stregua di valutazioni di tipo meta-giuridico.
D’altronde deve apparire del tutto legittimo
un accordo collettivo diretto a qualificare in
un certo modo lo spazio giuridico entro cui
l’inattività del lavoratore si venga a collocare,
al fine di attribuire a quella omissione uno
speciale valore negoziale. Ed infatti, secondo i
canoni della civilistica tradizionale, anche attraverso un comportamento omissivo un soggetto può manifestare liberamente la sua volontà, purché da un simile silenzio si possa incontestabilmente ricavare una manifestazione
negoziale univoca.
Il silenzio, in questa prospettiva, può considerarsi come manifestazione di volontà solo quando sia « circostanziato », in quanto il suo significato sia reso univoco dalle circostanze di fatto
o dalla sussistenza di un dovere di manifestare
una opposizione. In tal senso l’inattività del lavoratore per potere essere considerata come
( 81 ) G. Santoro-Passarelli, ibidem.
manifestazione di volontà deve essere tale per
cui l’offerta di adesione, inserendosi nell’ambito
delle condizioni di contratto che regolano il
rapporto, faccia sorgere nel lavoratore un dovere di parlare, al fine di escludere l’adesione alla
previdenza complementare mediante il silenzio ( 82 ).
10. – Giova, innanzi tutto, rilevare come il
meccanismo del « conferimento tacito » non
faccia venir meno la volontarietà dell’adesione
individuale alla forma pensionistica complementare: resta aperta, infatti, la possibilità che il
lavoratore, manifestando la sua opposizione nel
termine semestrale di cui al comma 7o, mantenga (nelle imprese con meno di 50 dipendenti)
gli accantonamenti del t.f.r. presso il datore, ovvero (nelle imprese di maggiori dimensioni) impedisca comunque la devoluzione dei ratei futuri alle forme di previdenza complementare.
Il meccanismo, peraltro, non è estraneo ad altre riforme che hanno profondamente inciso sulle condizioni della vita materiale: così
al momento della entrata in vigore della riforma
del diritto di famiglia, con l’art. 228 della l. n.
151/75, il legislatore stabilì che il regime della comunione legale dei beni trovasse applicazione tacita a quanti non avessero manifestato una volontà contraria, entro il termine di
due anni dalla entrata in vigore di quella legge.
L’origine legale del meccanismo e la conseguente qualificazione della situazione nella quale si colloca il silenzio del destinatario, rendono
di incerta applicazione le cautele che nella tradizione civilistica circondano la qualificazione del
silenzio. Ed infatti, nella prospettiva del dogma
della volontà, perché si possa attribuire ad un
comportamento meramente omissivo di un soggetto un valore negoziale appare necessario che
questi sia reso edotto delle conseguenze del suo
( 82 ) Circa la necessità che il silenzio sia inserito in
una cornice che ne qualifichi inoppugnabilmente il
significato, v., ad es., A. La Torre, voce Silenzio (dir.
priv.), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. 543 ss.; A.
Falzea, voce Manifestazione (teorie gen.), ivi, XXV,
Milano, 1975, p. 442 ss.; V. Scalisi, Manifestazione
in senso stretto, ibid., p. 476 ss., secondo cui « è opinione decisamente prevalente che il valore espressivo
del silenzio si determini in funzione di un supposto
dovere di parlare o di agire, incombente sul soggetto
e rimasto inosservato » (così a p. 491).
La nuova disciplina della previdenza complementare
silenzio, di modo che queste possano correttamente considerarsi come volute, così attribuendo alla inattività un significato univoco.
In questa prospettiva ci si deve chiedere se la
dichiarazione da rendere nel termine di sei mesi
debba possedere particolari requisiti formali affinché possa essere idonea ad impedire l’operatività del conferimento tacito ( 83 ).
Non si rinvengono indicazioni utili nella delega e neppure nel decreto attuativo, ma non si
tratta di problemi di poca rilevanza, se si considera come da questi requisiti possa dipendere la
invalidità della protestatio con il conseguente effetto di una diversa destinazione del t.f.r. Dietro
alla definizione dei requisiti formali e della
eventuale annullabilità per vizi del consenso, infatti, si possono celare, da una parte, indici che
rafforzano una sorta di obbligatorietà del conferimento e, dall’altra, strumenti di abuso da parte del datore (o anche del lavoratore) volti a frodare gli stessi fondi.
Non dovrebbero in verità sussistere incertezze circa il significato della inattività del lavoratore, posto che il comma 8o delle disposizione
ora in commento prevede che il datore di lavoro
debba fornire al lavoratore « adeguate informazioni sulle diverse scelte disponibili » ( 84 ).
( 83 ) Pare certo, per la sua natura, che l’atto con il
quale il lavoratore manifesta la sua opposizione alla
devoluzione tacita (o parimenti la sua scelta per la destinazione ad un fondo diverso da quello che, altrimenti, sulla scorta del meccanismo del conferimento
tacito beneficerebbe del finanziamento) abbia natura
recettizia; esso doveva peraltro considerarsi a forma
libera, almeno sino all’emanazione del decreto del
gennaio 2007 più volte cit. nel testo, che ha, invece,
imposto che le manifestazioni dei lavoratori si esplicitassero attraverso la compilazione di un modulo appositamente predisposto, obbligando quanti avessero
già effettuato la scelta in forma libera a confermarla
attraverso la compilazione del modulo, denominato
TFR1 (art. 1, comma 6o, d.m. FONDINPS).
( 84 ) Il prototipo di rapporto di lavoro visualizzato
dal legislatore della riforma è quello tradizionale, di
modo che non sussistono indicazioni circa il soggetto
obbligato a rendere le informazioni quando non via
sia coincidenza, nel semestre entro il quale l’opzione
deve esercitarsi, fra il soggetto che procede al pagamento della retribuzione e quello che ha stipulato il
contratto di lavoro, come, tipicamente, nel caso di
cessione del dipendente nell’ambito di un gruppo di
imprese, o nel caso di temporaneo distacco presso altro imprenditore.
719
La disposizione ora citata, in verità, riferisce questo obbligo al periodo antecedente « l’avvio del periodo di sei mesi previsto dal comma 7o »; la conseguenza, a fronte della anticipazione dell’entrata in vigore della legge conseguente al d.l. n. 279/
06 che inter alias ha modificando il termine di cui
all’art. 23, comma 8o, sarebbe che l’attività di informazione si sarebbe dovuta concentrare nei mesi di novembre e di dicembre del 2006.
Il mancato rispetto di tale diposizione, peraltro,
può apparire irrilevante ove si consideri che l’oggetto della informazione (le « diverse scelte » possibili) costituisce oggetto di una specifica campagna informativa, in relazione alla quale l’art. 22 del
decreto in commento predispone un apposito finanziamento, e che, in ogni caso, il clamore conseguente alla promulgazione del d.lgs. n. 252 dovrebbe valere quale comunicazione utile, per la
stessa totalità dei lavoratori subordinati.
Il fatto che il meccanismo si fondi su una precisa disposizione di legge, sembra impedire una
applicazione delle norme che tutelano la genuinità della manifestazione di volontà nella conclusione dei contratti. Pare di poter dire, dunque, che la fattispecie si realizzi indipendentemente dalla prova di una effettiva conoscenza
circa gli effetti del silenzio: in altri termini il lavoratore non è autorizzato ad invocare un errore circa il significato della sua omissione per poter vedere ribaltato l’effetto devolutivo al fondo,
poiché deve presumersi juris et de jure la conoscenza delle condizioni che presiedono alla devoluzione tacita e, soprattutto, il novero delle
scelte possibili.
Più importante (e, per certi versi, assorbente)
appare, peraltro, il rispetto della ulteriore previsione contenuta nel comma 8o dell’art. 8, là
dove si stabilisce che: « trenta giorni prima della scadenza dei sei mesi utili ai fini del conferimento del t.f.r. maturando, il lavoratore che
non abbia ancora manifestato alcuna volontà
deve ricevere dal datore di lavoro le necessarie
informazioni relative alla forma pensionistica
complementare verso la quale il t.f.r. maturando è destinato alla scadenza del semestre ». In
questa seconda ipotesi, dunque, l’informazione
trasmessa non è generica (e dunque suscettibile
di una azione sostitutiva ad opera di una campagna pubblicitaria pubblica), ma ha ad oggetto un dato diverso, e mutevole da una impresa
all’altra, quale l’individuazione del fondo che
beneficerà dei versamenti conseguenti al perfe-
720
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
zionarsi del meccanismo del conferimento tacito.
La previsione ora riportata, apre un delicato
problema, in relazione al suo mancato rispetto:
ed infatti, se non si vuole ridurre il silenzio ad
un mero dato fenomenico, si ripropone in questa (differente) ipotesi la questione della conoscenza degli effetti negoziali che derivano dalla
mancata opposizione. A riguardo si potrebbe
forse sottovalutare l’aspetto della incerta individuazione del soggetto cessionario, ritenendo
che sia irrilevante la mancata conoscenza di
quale sia il fondo beneficiario del conferimento,
essendo sufficiente che, alla luce della possibilità di una successiva modifica attraverso l’esercizio della facoltà di « portare » la propria posizione individuale, il lavoratore sia consapevole
di imprimere una diversa destinazione al t.f.r.
attraverso la sua omissione.
In verità, poiché la devoluzione tacita non
può che beneficiare i fondi « chiusi », il principale pericolo a riguardo sembrerebbe provenire, più che da una richiesta individuale di restituzione dei ratei devoluti ai fondi, da un conflitto fra diversi fondi collettivi, intesi a rivendicare
a sé il versamento dei contributi dovuti, attraverso la proposizione di azioni plurime. Si ipotizzi il caso di un accordo aziendale che individui un certo fondo come destinatario del conferimento tacito a danno del fondo di categoria:
quid juris, nel caso in cui il datore ometta di effettuare la comunicazione e provveda comunque al versamento ad un fondo? E, parimenti,
che conseguenze si produrranno nell’ipotesi in
cui si comunichi la devoluzione ad un fondo diverso da quello che risulterebbe altrimenti dalla
corretta applicazione dei criteri di cui al comma
7o, lett. b)?
Il punto è, a tutta evidenza, assai delicato,
poiché una risposta che non desse sufficiente
rilievo ai vizi della comunicazione potrebbe finire con l’avallare abusi e palesi violazioni dei
criteri legali, mentre, dall’altro canto, una risposta che consentisse la rivendica dei contributi finirebbe con generare problemi non indifferenti di equilibrio dei fondi, anche ad anni
di distanza dal momento di esercizio tacito dell’opzione ( 85 ).
( 85 ) La prescrizione dei contributi è quinquennale,
in conformità al disposto dell’art. 2948, n. 4, c.c.: in
La questione per la quale la risposta è più agevole appare quella da ultimo formulata, nella
quale sussista una indicazione errata circa il fondo beneficiario. In questa ipotesi, la strada ad
eventuali azioni di rivendicazione pare sbarrata
quando si tenga presente che il lavoratore ha
comunque manifestato una volontà di segno
inequivocabile quanto al destinatario dei conferimenti e che, a fronte della libertà di scelta individuale circa il fondo conferitario, una tale
volontà è idonea ad imporsi alla diversa indicazione proveniente dalla fonte collettiva.
Peraltro, la volontà individuale appare capace
di imporsi alle fonti collettive non solo nel caso
di una informazione viziata, ma altresì nell’ipotesi della mancata comunicazione non appena si
consideri che un comportamento tacito produce i suoi effetti anche successivamente allo scadere del termine semestrale, seppure sulla base
degli ordinari criteri di accertamento della volontà negoziale, alla stregua di una fattispecie di
sanatoria di un negozio annullabile.
In tal senso, anche ove l’informazione circa
l’esatta destinazione dei ratei sia mancata, si dovrà
ammettere la legittimità del conferimento, ove la
destinazione del t.f.r. sia stata comunque, anche
dopo il termine di scadenza dell’opzione, portata a conoscenza del lavoratore in maniera sufficientemente chiara (per es., mediante indicazione della trattenuta sulla busta paga, con la contestuale indicazione del fondo beneficiario, ovvero attraverso una informativa o una richiesta di dati proveniente da quest’ultimo) e non vi sia stata una tempestiva opposizione da parte del lavoratore.
In questo senso, lo spazio lasciato dalla lett. a)
del comma 7o alla autonomia individuale consente di dare spazio alle ordinarie regole relative
alla manifestazione del consenso, che non troverebbero altrimenti applicazione nell’area del diritto del lavoro, a motivo della inderogabilità
delle sue previsioni. Il riconoscimento di una
opzione individuale apre, infatti, un varco nella
consueta indisponibilità dei diritti, consentendo
l’applicazione delle tecniche civilistiche in merito alla ricostruzione di una volontà negoziale
manifestata per fatti concludenti.
Ed identica soluzione dovrà applicarsi al caso
tal senso v. Tursi, La previdenza complementare nel
sistema italiano, cit., p. 157, ed ivi riff. alla giurisprudenza.
La nuova disciplina della previdenza complementare
in cui vi sia stato conferimento tacito al fondo
pur in presenza di manifestazione, da parte del
lavoratore, di volontà contraria alla devoluzione
(che non abbia in concreto raggiunto il suo scopo). In tal caso, a fronte della espressa previsione della revocabilità della manifestazione contraria (comma 7o, lett. a), non può sussistere
dubbio circa il significato da attribuire al comportamento successivo del lavoratore, ove possa
senza dubbio ricostruirsi in termini di modifica
tacita della volontà negoziale precedentemente
espressa (perché, ad es., sia mancata una opposizione successiva in presenza di un prelievo in
busta paga, o di una indicazione nel modello
CUD, idoneamente qualificata o a fronte del sopraggiungere di una delle comunicazioni più sopra richiamate).
Ovviamente una diversa risposta si dovrà dare nelle ipotesi, in cui, a fronte di una comunicazione carente o viziata, sia mancata una attività idonea a configurarsi (secondo le modalità
poco più sopra illustrate) come sanatoria a posteriori della volontà tacitamente espressa: in
tal caso, la mancata realizzazione di uno degli
elementi della fattispecie rende invalida la devoluzione che sia stata eventualmente realizzata
dal datore a beneficio di un fondo di categoria,
legittimando l’azione di ripetizione delle somme.
Analoga soluzione si deve dare alla ipotesi che
si è lasciata per ultimo, nella quale, nell’area del
conferimento espresso, il datore, erroneamente,
non abbia provveduto al versamento al fondo
indicato dal lavoratore (trattenendo le somme o
versandole ad un fondo diverso da quello indicato al lavoratore), né abbia in alcun modo dato
notizia al lavoratore che rivelasse il fondo destinatario del conferimento, rendendo così riconoscibile l’errore di fatto occorso. Anche qui si deve ammettere la possibilità di una rivendicazione reale dei ratei del t.f.r., con la precisazione
che legittimato attivo non sarà solo il lavoratore,
ma altresì il fondo beneficiario ( 86 ).
( 86 ) A garanzia di un rendimento non troppo lontano da quello assicurato dalle disposizioni del codice, il legislatore delegato, con previsione rivolta ai
fondi multicomparto, stabilisce al comma 9o della disposizione in commento che l’investimento delle
somme tacitamente conferite avvenga in forme « tali
da garantire la restituzione del capitale e rendimenti
721
11. – Si discute se il sistema del silenzio assenso si sovrapponga alla tradizionale impostazione
collettiva del fenomeno, presentandosi quindi
come espressione di una volontà esclusivamente
individuale, o se si tratti di una manifestazione
da ricondurre comunque all’ambito del sistema
delle fonti collettive, previste dalla originaria
lettera del d.lgs. n 124. Il problema non assume
solo rilievo in sé, ma anche nella prospettiva del
concorso fra le diverse opzioni di cui alla lett. b
del comma 7o, al fine di stabilire, in caso di
mancata indicazione del fondo da parte del lavoratore (secondo l’ipotesi di cui alla lett. a),
quale sia la forma che beneficerà del conferimento tacito del t.f.r.
Nell’opinione di un importante autore, il silenzio-assenso non configurerebbe una adesione
disposta dalla legge in modo indipendente dalle
disposizioni di cui alla contrattazione collettiva ( 87 ). Secondo questa tesi, la tacita devoluzione del t.f.r. non sarebbe altro che una modalità
individuale di adesione, collettivamente disposta, seppure condizionata al mancato dissenso
espresso dal lavoratore entro il termine stabilito.
Ed infatti, l’autonomia collettiva sarebbe
l’unica fonte capace di disporre al proprio interno un’offerta di adesione suscettibile di perfezionarsi per effetto del mancato tempestivo dissenso, posto che la devoluzione al fondo di cui
all’art. 9 (ora denominato « FONDINPS »), si
contraddistingue per la sua natura tendenzialmente provvisoria (comma 3o disposiz. cit.). Di
qui il rifiuto dell’idea che « il problema del concorso-conflitto tra contratti collettivi possa essere risolto sulla base del principio di libertà dell’adesione individuale ai fondi pensione » ( 88 ).
In verità appare difficile collocare l’intervento
del legislatore nell’ambito del sistema delle fonti
collettive, che, al contrario, il d.lgs. n. 124 pro-
comparabili, nei limiti previsti dalla normativa statale
e comunitaria, al tasso di rivalutazione del t.f.r. ».
( 87 ) Una tale interpretazione, formulata in relazione alle versioni preparatorie che hanno preceduto
l’emanazione del definitivo testo del decreto, si deve
a Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, cit., p. 527; Id., I
problemi giuridici delle fonti istitutive, in Oss. giur.
Mefop n. 10/06; analogamente Sandulli, Il conferimento tacito e non, cit., p. 178.
( 88 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere, cit., p. 529.
722
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
muoveva e rispettava. Il d.lgs. n. 252, infatti, fa
venir meno il vincolo prima previsto (art. 8.2
d.lgs. n. 124) che condizionava ad una espressa
previsione collettiva la devoluzione del t.f.r. alla
previdenza complementare, di modo che l’utilizzo di tale elemento retributivo è ora consentito anche nel caso di un dissenso esplicito del
datore.
Per altro verso, la libertà di scelta che viene riconosciuta ai lavoratori che ancora non si siano
iscritti ad alcuna forma complementare si riflette simmetricamente nel venir meno dei vincoli
alla portabilità della posizione individuale, ora
consentita per libera opzione del lavoratore e
non solo nelle ipotesi del venir meno dei requisiti di adesione al fondo. In questo senso, nella
prospettiva della adesione espressa, il legislatore
si preoccupa anche di precisare che l’adesione
alle forme pensionistiche complementari può
avvenire anche « su base individuale » (artt.
12.2 e 13.4, d.lgs. n. 252/05).
Non pare dubbio allora, a fronte della previsione in forza della quale « il conferimento del
t.f.r. maturando alle forme pensionistiche complementari comporta l’adesione alle forme stesse » (così l’incipit del comma 7o), che la devoluzione dei ratei futuri del « trattamento » alle
forme di previdenza complementare sia frutto
di una manifestazione della volontà individuale
di aderire al fondo ( 89 ). Il solo limite che sembra
( 89 ) Il legislatore non tiene conto del fatto che, nella prassi, non è infrequente la cessione del credito relativo al t.f.r., soprattutto a fini di garanzia: manca, in
relazione, a questa ipotesi ogni previsione nel testo
del decreto, anche se si può ipotizzare che, ove questa sia stata notificata al datore o comunque da questi
accettata ex art. 1264, spetti al cessionario l’esercizio
dell’opzione di cui al comma 7o, posto che l’atto di
disposizione del credito del t.f.r. consegue un « immediato effetto traslativo » (così G. Santoro-Passarelli, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 65). Analoga soluzione sembra doversi ammettere per l’ipotesi in cui il credito abbia formato oggetto di pignoramento. Più complessa appare la situazione quando la
cessione, anche ai sensi del d.p.r. 5 gennaio 1950, n.
180 – le cui disposizioni sono state estese ai dipendenti delle « aziende private » (sic) dall’art. 1, comma
137o, l. 31 dicembre 2004, n. 311 – riguardi solo una
quota, dovendosi a riguardo ipotizzare o la necessità
di una volontà congiunta ed univoca o, l’esercizio di
un diritto limitato ad una quota soltanto del credito.
Per una ricostruzione esauriente delle problematiche
derivare dalla contrattazione collettiva, in relazione alla individuazione del fondo beneficiario,
quindi, è quello che discende dalla preventiva
adesione, poiché, in tutte le altre ipotesi le indicazioni provenienti dalla contrattazione collettiva sono suscettibili di essere sovvertite dal singolo lavoratore, non appena questo abbia manifestato una volontà contraria.
Viene meno, quindi, quella sorta di titolarità
congiunta sul t.f.r., che derivava dalla sua condizione di essere sottratto alla disponibilità immediata del prestatore per rimanere invece in
quella del datore, e che aveva caratterizzato da
sempre le vicende dell’istituto, facendo sì che la
riforma del 1982 fosse il frutto di una preventiva concertazione legislativa con le parti sociali ( 90 ).
Per altro verso, ancora, si deve mettere in rilievo come, a fronte della sostanziale riserva di
legge che la Costituzione non scritta riconosce
alla contrattazione collettiva quanto alla determinazione dei livelli salariali minimi, il trattamento di fine rapporto sia un elemento retributivo disciplinato direttamente dalla legge, secondo una formula che, come è noto, ne fissa
l’importo, in relazione al coacervo delle retribuzione corrisposta nel corso del rapporto lavorativo al prestatore.
Seppure anche nella recente evoluzione normativa della disciplina della previdenza complementare siano rintracciabili numerosi momenti
di concertazione fra il potere esecutivo e le parti
sociali, la scelta, già anticipata dal legislatore
della delega, di destinare il t.f.r. a finanziamento
delle forme di previdenza complementare non
sembra trovare, dunque, una radice collettiva,
ma piuttosto nasce da una specifica opzione del
collegate alla cessione del t.f.r., v. M. Corti, Insussistenza di limiti alla cessione del t.f.r., in Riv. it. dir.
lav., 2003, II, p. 756 ss., in nota a Cass. 1o aprile
2003, n. 4930, nonché G. Santoro-Passarelli, Il
trattamento, cit., p. 41 ss. Nel senso di riconoscere alla società cessionaria l’esercizio del diritto di riscatto,
v. Trib. Milano 17 gennaio 2006, in Oss. giur. Mefop,
n. 10/06, con nota critica di Mastantuono.
( 90 ) Sulle vicende evolutive del t.f.r., in generale,
oltre alla opere di cui alla nt. 20, v. Ghera, Diritto
del lavoro, Bari, 2002, p. 392 ss., la ricostruzione offerta prevalentemente dalla dottrina è quella di un
credito che diviene esigibile solo in presenza delle
condizioni di legge: così M. Napoli, Occupazione e
politica del lavoro, Milano, 1984.
La nuova disciplina della previdenza complementare
legislatore, che sulla scorta della legittimazione
che promana dalla volontà popolare, esercita a
pieno quel potere di regolazione del rapporto di
lavoro che le norme della Costituzione e la tradizione legislativa gli conferiscono.
L’enfasi (verrebbe da dire, la solennità) che
promana dalla formulazione letterale del disposto di legge (« il lavoratore, può conferire l’intero importo del t.f.r. maturando ad una forma di
previdenza complementare dallo stesso prescelta ») giustifica, dunque, in assenza di una plausibile limitazione ricavabile aliunde, l’interpretazione più piana della norma nel senso di un riconoscimento di una libertà di scelta che può
esercitarsi anche in contrasto con il disposto
collettivo che regola il rapporto di lavoro. Ed
infatti, il contratto collettivo non produce, in
questo specifico caso, alcun effetto vincolante
nei confronti del singolo, che rimane libero di
scegliere la f.p.c. cui conferire il t.f.r.: esso limita
la sua efficacia nel completare il meccanismo legislativo, indicando il fondo beneficiario dei
conferimenti in caso di silenzio del lavoratore.
Il riconoscimento della libertà di scelta circa
la sorte del credito da t.f.r. e in merito alla individuazione del fondo beneficiario, suggellata
dall’ampio riconoscimento di un diritto alla
portabilità, fa così emergere, seppure relativamente al solo conferimento del t.f.r., una dimensione individuale del tutto sconosciuta alla
tradizione dei rapporti fra autonomia individuale e collettiva, poiché viene legislativamente sancito il prevalere delle manifestazioni individuali
su quanto collettivamente pattuito.
Il riconoscimento di una tale libertà, tuttavia,
non segna una completa eclisse della dimensione collettiva. Una simile conclusione trova puntuale conforto non solo nelle previsioni della
Legge fondamentale, ma altresì nella disciplina
positivamente dettata dal d.lgs. n. 252. Quanto
al primo aspetto, è la libertà costituzionalmente
sancita della previdenza privata che, come più
sopra meglio si è detto, impedisce che il fenomeno possa astrarsi dal momento collettivo che
lo ha generato. Sul piano della disciplina di legge, per altro verso, si può ritenere che non vi sia
piena corrispondenza fra la libertà di scelta della forma cui conferire il t.f.r. di cui all’art. 8,
comma 7o e la « portabilità » della posizione individuale, poiché quest’ultima è, invece, riconosciuta dall’art. 14, comma 6o, d.lgs. n. 252 solo
« nei limiti e secondo le modalità stabilite dai
723
contratti o accordi collettivi, anche aziendali »
Congruentemente, mentre il finanziamento
che si realizzi attraverso la devoluzione del t.f.r.
segue logiche sue proprie, la disciplina della
contribuzione che rimane a carico del datore di
lavoro appare ancora governata dalle fonti collettive, di modo che spetterà alle fonti istitutive
non solo dar vita alla obbligazione contributiva,
ma altresì di governarla, potendone disporre
appieno, in quanto manifestazione di una volontà collettiva.
12. – In relazione alla libertà di scelta della
forma cui conferire il t.f.r. ( 91 ), dunque, il legislatore detta una norma di legge che si sovrappone all’autonomia collettiva e non sembra trovare limiti in essa; viceversa, ove la previsione
del decreto di riforma si imbatta nell’autonomia
collettiva i limiti che si incontrano sono quelli di
sempre, che discendono dalla destinazione a finanziamento della previdenza complementare
di una attribuzione patrimoniale eventuale, nella misura determinata collettivamente.
Il legislatore, invero, prende in considerazione l’aspetto della ulteriore contribuzione ai fondi quando, al comma 10o della disposizione ora
in commento, si trova a regolare gli effetti conseguenti alla adesione tacita. A riguardo si prevede che: « l’adesione a una forma pensionistica
realizzata tramite il solo conferimento esplicito
o tacito del t.f.r. non comporta l’obbligo della
contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro ». Così si sancisce l’esistenza di una
sorta di doppio canale di finanziamento, secondo previsioni di fonte contrattuale (versamenti
datoriali e del lavoratore, oltre eventualmente
una parte o l’intero t.f.r.) o legale (limitata al
t.f.r., secondo le indicazioni del comma 7o).
Si aggiunge, poi, che « il lavoratore può decidere, tuttavia, di destinare una parte della retribuzione alla forma pensionistica prescelta in
modo autonomo ed anche in assenza di accordi
collettivi » (cors. mio). Qui può riprendere pie( 91 ) Tale libertà si prolunga nella facoltà di individuare, nell’ambito dei fondi multicomparto, la destinazione di investimento delle somme, ai sensi del
comma 13o dell’art. in commento. Tale facoltà appare riconosciuta in via generale dalla disposizione ora
cit. e, dunque, anche in relazione ai contributi dovuti
in forza delle previsioni di cui alle fonti istitutive collettive.
724
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
namente vigore, in assenza di limiti di derivazione contrattuale presenti nelle fonti istitutive, il
principio della libertà di determinazione della
contribuzione al fondo, di cui al precedente
comma 2o. Ed infatti, le forme che prescindono
dalla presenza di « accordi collettivi », altro non
sono se non i fondi pensione aperti, realizzati
direttamente dagli enti gestori, secondo le previsioni di cui all’art. 12, o le forme individuali di
cui all’art. 13, comma 1o, lett. b, istituite da imprese assicurative.
A tal fine, il comma ora in esame prevede che
il lavoratore subordinato, che abbia deciso di
conferire il proprio t.f.r., comunichi al proprio
datore di lavoro l’entità del contributo e il fondo di destinazione, gravando così quest’ultimo
dell’onere di provvedere ad effettuare la relativa
trattenuta e il conseguente versamento.
Emerge, però, a questo punto il contrasto fra
la radice legale del fenomeno contributivo, relativo agli accantonamenti annui del t.f.r., e quella
contrattuale, connessa alle altre ordinarie forme
di contribuzione realizzate sulla scorta delle disposizioni contrattuali ( 92 ): ed infatti il legislatore, dopo aver riconosciuto la libertà del singolo
di individuare il fondo cui conferire il t.f.r., nella prospettiva di concentrare la contribuzione
complementare verso una sola forma, si trova a
risolvere il problema conseguente al fatto che
l’eventuale versamento anche delle somme previste dal contratto collettivo può avvenire solo
in conformità al regolamento pattizio che quegli
elementi retributivi prevede.
E dunque, apparirebbe in contrasto con il disposto collettivo riconoscere la possibilità di
convogliare verso la forma, scelta dal lavoratore,
il finanziamento alla previdenza complementare, collettivamente indirizzato invece verso un
diverso fondo (di categoria o territoriale), nella
misura in cui il complessivo trattamento retributivo è frutto di un atto inscindibile, che, nel
determinare le condizioni dello scambio fra retribuzione e lavoro, definisce modalità e importo del pagamento della retribuzione.
A riguardo il legislatore sceglie, con chiarezza, in un’altra disposizione del decreto di riforma, la soluzione di rispettare il disposto colletti-
( 92 ) Analogamente, ma con diverso sviluppo logico, Vianello, Autonomia collettiva e previdenza
complementare, cit., p. 418.
vo, rinunziando a sganciare dalla fonte collettiva, che le ha istituite, le voci retributive eventualmente destinate dalla contrattazione collettiva stessa alla previdenza complementare. Così
nella disposizione che disciplina la portabilità
della posizione individuale (art. 14, comma 7o,
d.lgs. n. 252), si riconosce il diritto al versamento del contributo a carico del datore solo « nei
limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi ». Una soluzione diversa, del resto, si
sarebbe scontrata, secondo la migliore dottrina,
con i vincoli costituzionali posti a garanzia delle
manifestazioni dell’autonomia contrattuale ( 93 ).
La soluzione adottata dal legislatore al comma 10o dell’art. 8, se ben interpretata, appare in
linea con la scelta di rispettare il prodotto della
autonomia collettiva. Infatti nel caso in cui il lavoratore voglia incrementare oltre i ratei del
t.f.r. la contribuzione alle forme individuali di
cui agli artt. 12 e 13, « il datore può a sua volta
decidere, pur in assenza di accordi collettivi, anche aziendali, di contribuire alla forma pensionistica alla quale il lavoratore ha già aderito, ovvero a quella prescelta in base al citato accordo ».
In questa ultima ipotesi, dunque, non sussiste alcun vincolo derivante dalla contrattazione
collettiva circa la destinazione di eventuali
somme aggiuntive a finanziamento di un certo
fondo: un tale vincolo sembra discendere piuttosto da un accordo individuale (cui pare riferirsi il legislatore quando, riferendosi ad un
« citato accordo », sembra qualificare come negozio tacito quello risultante dall’incontro fra
la comunicazione del lavoratore circa la destinazione di una parte della sua retribuzione e la
successiva « decisione » unilaterale del datore
di contribuire anch’egli al finanziamento di tale
fondo).
Al contrario, qualora sussista un accordo collettivo che individua il fondo destinatario di tali emolumenti, il legislatore della riforma conferma la validità dei vincoli da esso derivanti,
riproducendo la clausola più sopra richiamata
in relazione alle previsioni dettate in tema di
( 93 ) Cfr. Tursi, La previdenza pensionistica privata, cit., p. 133 ss.; Id., La terza riforma, cit., p. 538;
Pandolfo, Una prima interpretazione, cit., p. 1257
ss., in relazione all’analogo problema derivante dal riconoscimento della portabilità della posizione pensionistica.
La nuova disciplina della previdenza complementare
portabilità: « Nel caso in cui il lavoratore intenda contribuire alla forma pensionistica complementare e qualora abbia diritto ad un contributo del datore di lavoro in base ad accordi
collettivi, anche aziendali, detto contributo affluisce alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso, nei limiti e secondo le modalità
stabilite dai predetti contratti o accordi » (cors.
mio) ( 94 ).
Anche nelle disposizioni dell’articolo in commento, quindi, si conferma il ruolo del contratto collettivo quale mezzo attraverso il quale
conformare l’oggetto e le modalità dell’obbligazione contributiva del datore, con l’ulteriore avvertenza che una interpretazione di diverso segno, che intendesse cioè surrettiziamente riconoscere la piena devoluzione anche dei contributi aggiuntivi previsti dalle fonti istitutive a
fronte della scelta operata dal lavoratore per
una forma diversa da quella identificata al tavolo della negoziazione collettiva, finirebbe non
solo per legittimare un vulnus alla complessiva
impostazione sino a qui osservata dal legislatore, ma imprimerebbe al fenomeno una impronta pubblicistica, eversiva della sua attuale natura
contrattuale.
In alcune ipotesi, tuttavia, può darsi il caso
di una duplice iscrizione del lavoratore a distinte forme complementari. Non si intende
qui richiamare l’ipotesi del lavoratore a tempo
parziale, che potrà esercitare due volte (e anche in senso opposto) l’opzione di cui al comma 7o, ma piuttosto il caso di quanti abbiano
aderito in passato ad una forma pensionistica
individuale, in assenza di un fondo di categoria
o per il venir meno dei requisito di appartenenza, provvedendo al versamento di un parte
della propria retribuzione: nei confronti di costoro la contrattazione collettiva potrebbe, sopravvenendo, destinare il t.f.r. ad una diversa
forma di previdenza complementare, di modo
che in caso di omessa opposizione da parte del
lavoratore, il t.f.r. di costui finirebbe per essere
tacitamente conferito al fondo individuato in
via negoziale ( 95 ).
( 94 ) Così Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione, cit., p. 1486 ss.
( 95 ) Sulla questione della pluralità di adesioni a
f.p.c. v. soprattutto Zampini, La previdenza comple-
725
13. – Nel caso di devoluzione tacita del t.f.r.,
le disposizioni legislative si preoccupano di evitare che la scelta del fondo beneficiario dei conferimenti venga lasciata al datore di lavoro. In
questo senso la lett. b del comma 7o dell’art. 8
del d.lgs. in commento si preoccupa di escludere l’applicazione del criterio della libertà di scelta, cercando di definire una serie di regole, in
applicazione delle quali al silenzio del lavoratore possa attribuirsi un significato concludente
circa l’identificazione del soggetto che sia destinatario dei conferimenti.
In verità, la gerarchia fra i diversi criteri non
appare sempre chiara ( 96 ): in un primo momento si richiama la disposizione collettiva, anche
territoriale, disponendo tuttavia la prevalenza di
un eventuale accordo aziendale sopraggiunto ( 97 ). Il richiamo ai fondi territoriali non può
che intendersi come recettivo del sistema nazionale della contrattazione collettiva sino ad ora
instauratosi, di modo che il conferimento del
t.f.r. a tali fondi potrà darsi solo nella misura in
cui la contrattazione collettiva consenta un simile risultato ( 98 ). Illogico apparirebbe, infatti, riscontrare nella confusa formulazione della nor-
mentare, cit., p. 120 ss. nonché Vianello, Autonomia collettiva e previdenza complementare, cit., p.
294.
( 96 ) Sul problema, nel vigore delle disposizioni
precedenti, v. Tursi, La previdenza complementare
nel sistema italiano, cit., spec. cap. II, e già M. Grandi, Previdenza integrativa e previdenza privata, in Dir.
lav., 1990, 1, p. 236; in relazione al testo del decreto
in commento v. A. Pandolfo, Prime osservazioni
sulla nuova legge sulla previdenza complementare a
mo’ di (parziale) commento del d.lgs. 252/2005, in
Prev. ass. pubbl. priv., 2006, p. 189, nonché ancora
Tursi, Le fonti istitutive nella legge di riforma della
previdenza complementare, in Newsletter Mefop, n.
25, aprile 2006.
( 97 ) Che l’accordo debba essere stipulato nell’ambito del semestre di opzione pare evidente poiché ci
si riferisce ad esso come ad un accordo che « sia intervenuto ». Peraltro si deve osservare come, in disparte dalle previsioni di legge, la contrattazione collettiva nazionale tende in generale a mantenere in vita
i fondi aziendali già esistenti, al momento della istituzione di un fondo nazionale di categoria.
( 98 ) Attualmente, infatti, in presenza di un fondo
di categoria, la devoluzione al fondo regionale avviene solo in forza di una apposita clausola contrattuale
che permetta la deroga: così il Laborfond della regione Trentino Alto Adige.
726
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
ma l’introduzione di un precetto che, scardinando le basi del diritto sindacale vigente, consenta una così palese violazione delle disposizioni negoziali promananti dal contratto collettivo
nazionale di lavoro applicato nell’impresa ( 99 ).
Né deve stupire la prevalenza, su tutte le fonti
negoziali, dell’accordo aziendale « intervenuto »: si tratta di una soluzione, peraltro conforme al criterio di specialità e di posteriorità, già
praticata per dirimere i complessi conflitti che
derivano in caso di fusione di più realtà organizzative e, comunque, di cessione di un ramo
d’azienda. Al pari che nella l. n. 428/90, il legislatore omette, però, di individuare i criteri che
sovraintendono alla efficacia di tali accordi, affidandosi alla tradizionale informalità delle relazioni sindacali italiane e alla giurisprudenza formatasi in relazione alle numerose ipotesi analoghe (si pensi all’accordo di cui all’art. 5 l. n. 223,
o agli altri casi di contratti c.dd. « gestionali »).
Del resto, a differenza che negli altri casi più
sopra richiamati, non sembra che nella ipotesi
ora in esame sussista una necessità legislativa di
estendere l’efficacia dell’accordo anche ai lavoratori che non erano rappresentati dalle organizzazioni stipulanti: oggetto dell’accordo è, infatti, la individuazione della forma previdenziale beneficiaria dei conferimenti taciti, di modo
che la pattuizione costituirà una proposta negoziale rivolta al singolo lavoratore, che produrrà
effetti solo a condizione che questi ometta di
manifestare il suo dissenso o di esercitare l’opzione di cui alla lettera a), scegliendo autonomamente il fondo destinatario
Né peraltro un diverso criterio gerarchico pare potersi ricavare dal disposto di cui al n. 2 della stessa lettera ora citata: il principio per cui la
devoluzione avvenga a beneficio della forma
« alla quale abbia aderito il maggior numero di
lavoratori dell’azienda », infatti, pare ritagliato
per l’ipotesi, per nulla infrequente, in cui nell’ambito di una stessa realtà imprenditoriale
convivano più fondi, in conseguenza della concentrazione operata attraverso l’incorporazione
di più imprese ( 100 ).
( 99 ) Per tutti Tursi, La terza riforma, cit., p. 535.
( 100 ) Come è noto, nel settore bancario, nell’ambito di realtà oggi unitarie, sussistono spesso più fondi
(si ha notizia di una impresa i cui dipendenti si distribuiscono su 27 diversi fondi).
Del resto, ove tale riferimento non fosse rivolto a simili ipotesi, esso sarebbe privo di senso a
mente dei limiti prima previsti dal d.lgs. n. 124
per l’adesione individuale ad un fondo complementare; né pare possibile leggere la norma nel
senso che essa imponga una rilevazione quotidiana delle adesioni individuali sopravvenute a
seguito dell’entrata in vigore della disciplina ora
in commento, poiché si raggiungerebbero risultati del tutto incongruenti, nel caso di un « testa
a testa » fra più fondi.
Per lo stesso motivo, non pare illogico ritenere che, anche per l’ipotesi della pluralità di fondi esistenti in forza di operazioni di fusione, il
riferimento all’entità numerica degli iscritti debba riferirsi la momento in cui per la prima volta
l’opzione deve essere esercitata, di modo che
tutte le adesioni sopravvenute ai sensi del comma 7o, lett. a, andrebbero per così dire contabilizzate al momento di scadenza del termine previsto per l’esercizio dell’opzione (e cioè al 30
giugno del 2007).
La devoluzione al fondo costituito ai sensi
dell’art. 9 presso l’INPS (« FONDINPS ») trova applicazione per le realtà, ancora molto numerose, in cui non sussiste alcun accordo, né di
categoria, né di altro livello, che individui un
fondo di previdenza complementare. Ciò significa, in altri termini, che per tutte le imprese che
applichino, senza riserva alcuna, ad es. il CCNL
della chimica, il conferimento tacito avverrà a
beneficio del Fonchim e, parimenti, che per tutti i rapporti di lavoro regolati dal CCNL metalmeccanici, i conferimenti confluiranno al
fondo Cometa.
Restano da esaminare, infine, le conseguenze
del mancato versamento dei ratei. Per l’ipotesi
di una loro devoluzione al fondo di cui al comma 755o l. n. 296/06, il comma 756o riconosce
all’INPS il potere di procedere anche coattivamente alla riscossione di tali somme, al pari di
quanto è previsto per i contributi obbligatori.
Non è facile, invece, spendere una parola certa sulla legittimazione individuale alla proposizione di una azione diretta ad ottenere il versamento al « Fondinps » dei ratei « maturandi »:
la mancata perdita di disponibilità delle quote
di t.f.r., infatti, non dovrebbe comportare un
danno in sé per il lavoratore, quando il datore
provveda direttamente al versamento dell’importo dovuto ai sensi dell’art. 2120 c.c. In tal
senso, sia che il lavoratore chieda il versamento
La nuova disciplina della previdenza complementare
delle somme a titolo di t.f.r. direttamente a datore, sia che agisca per il riconoscimento del
danno conseguente al mancato versamento, non
otterrà altro che una medesima somma (e nessuna differenza può derivare, a mente dell’art.
2116, dal diverso termine di prescrizione) ( 101 ).
Parimenti difficile, infine, è la risposta al quesito circa la legittimità di una distribuzione dei
ratei « maturandi » di t.f.r. ai lavoratori: anche
in questa ipotesi, laddove non si ritenga sussistente nell’ambito della norma di cui all’art.
2120 c.c. un obbligo a realizzare forme di risparmio coattivo, si potrebbe ritenere condizione di miglior favore quella dell’anticipo generalizzato e sistematico, ai sensi dell’ult. comma
della disposizione ora richiamata. La previsione
della legge finanziaria, che parifica agli ordinari
contributi quanto dovuto al « Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto », lascia
però intendere che sussista un interesse pubblico all’accantonamento presso la Tesoreria, di
modo che un simile comportamento risulterebbe radicalmente vietato, non liberando il datore
dall’obbligo del versamento ( 102 ).
14. – Il legislatore espressamente esclude al
comma 6o dell’art. 23 l’applicazione della nuova
normativa (e dunque anche del meccanismo del
conferimento tacito) ai lavoratori pubblici, fin
tanto che non si realizzi un sistema di incentivazioni a posticipare la pensione analogo a quello
( 101 ) L’assimilazione dei versamenti al fondo ai
contributi sembrerebbe implicare che si applichi in
questo caso ai primi il termine di prescrizione proprio dei secondi, secondo le disposizioni della l. n.
335/95, art. 3, commi 9o-11o.
( 102 ) In questo senso, si deve sottolineare come
l’art. 2 del d.m. 30 gennaio 2007, nel disciplinare le
anticipazioni richiami solo l’art. 2120 c.c., senza far
cenno alle eventuali disposizioni di miglior favore
previste dalla contrattazione collettiva.
727
di cui alla l. n. 243/04: si tratta, con tutta evidenza, di una semplice dichiarazione di intenti
priva di ogni effetto vincolante e non di una vera e propria condizione sospensiva, posto che
l’intervento legislativo successivo potrà disciplinare senza alcun limite la materia.
Come più sopra si è ricordato, il sistema prevede il mantenimento delle indennità previgenti, in tutti i casi in cui i lavoratori non abbiano
optato per l’applicazione delle disposizioni in
tema di t.f.r. Ove tale opzione sia stata esercitata, però, la legge e le fonti collettive di cui al d.lgs. n. 165 hanno previsto la devoluzione del
t.f.r. ai fondi di previdenza complementare costituiti per i singoli comparti.
Pare, allora, di poter dire che, anche ove si facesse luogo alla abrogazione della eccettuazione
di cui al comma 6o, la norma in commento non
avrebbe comunque alcun rilievo per i dipendenti pubblici: infatti, o si applicherebbero ancora le disposizioni più antiche, e allora nulla vi
sarebbe da conferire, o si è già realizzato su base
individuale il passaggio al t.f.r., e allora – parimenti – nulla vi sarebbe da conferire in via ulteriore.
Il conferimento, quindi, potrebbe interessare
solo quei lavoratori che, essendo stati assunti a
tempo indeterminato dal 1o gennaio 2001, si vedono integralmente applicate la disposizioni di
diritto comune. Per gli altri, invece, la devoluzione delle indennità relative alla fine del rapporto potrebbe avvenire solo al prezzo di una
anticipazione da parte del datore pubblico, rivolta a mettere a disposizione dei fondi somme
che, attualmente, non formano neanche oggetto
di accantonamento contabile (di modo che le
note ristrettezze di bilancio che gravano sul settore pubblico hanno suggerito fino ad ora un
diverso criterio per il versamento di tali somme:
v. supra, par. 3).
Vincenzo Ferrante
728
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Art. 9.
(Istituzione e disciplina della forma pensionistica complementare residuale presso l’Inps)
1. Presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) è costituita la forma pensionistica complementare a contribuzione definita prevista dall’articolo 1, comma 2, lettera e), n. 7),
della legge 23 agosto 2004, n. 243, alla quale affluiscono le quote di Tfr maturando nell’ipotesi
prevista dall’articolo 8, comma 7, lettera b), n. 3. Tale forma pensionistica è integralmente disciplinata dalle norme del presente decreto.
2. La forma pensionistica di cui al presente articolo è amministrata da un comitato dove è assicurata la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, secondo un
criterio di pariteticità. I membri sono nominati dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali
e restano in carica per quattro anni. I membri del comitato devono possedere i requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza stabiliti con decreto di cui all’articolo 4, comma 3.
3. La posizione individuale costituita presso la forma pensionistica di cui al presente articolo
può essere trasferita, su richiesta del lavoratore, anche prima del termine di cui all’articolo 14,
comma 6, ad altra forma pensionistica dallo stesso prescelta.
L’ibrida natura del fondo complementare INPS
Sommario (art. 9): 1. La complementarietà residuale
pubblica. – 2. La natura privatistica. – 3. La natura
pubblicistica. – 4. La ratio legis e limiti all’integrale regolazione. – 5. Il comitato amministratore. – 6. Conclusioni.
1. – Nell’assetto normativo previgente era implicitamente esclusa la compartecipazione degli
enti previdenziali nel sistema di previdenza
complementare. Era solo consentita una limitata facoltà d’intervento tramite convenzione con
i fondi complementari operanti ( 1 ). Tale intervento era tuttavia sempre limitato ad un piano
squisitamente tecnico, mantenendosi un generale ed implicito divieto d’intervento diretto finanziario o assicurativo ( 2 ).
( 1 ) Art. 6, comma 1o bis e 1o ter, d.lgs. 21 aprile 1993,
n. 124 come novellato dall’art. 3 l. 8 agosto 1995, n. 335
e modificato dall’art. 58 l. 17 maggio 1999, n. 1441.
( 2 ) Così anche Casillo, La gestione del patrimonio
dei fondi di previdenza complementare, in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di Ferraro, Milano, 2000, p. 205 ss. Per l’A. la gestione assicurativa era implicitamente esclusa dalla
mancata estensione della facoltà di convenzione con
l’ente per l’attività di erogazione delle rendite, limitata alle sole imprese assicuratrici. La gestione finanziaria era altresì esclusa poiché la legge consentiva la sola acquisizione di partecipazioni nel capitale dei soggetti gestori ed escludeva, a contrario, una diretta gestione.
Le ragioni erano evidenti: l’intervento diretto
dell’ente previdenziale avrebbe svilito il carattere autonomo e complementare di tale forma di
previdenza. Si sarebbe, in altre parole, implementata una forma di previdenza parallela su
base volontaria, sovrapposta alle forme di integrazione facoltativa della contribuzione obbligatoria ( 3 ).
( 3 ) La dottrina ha variamente spiegato la limitazione dell’intervento pubblico: per Mazziotti, Destinatari, in Cinelli (a cura di), Disciplina delle forme pensionistiche complementari. Commentario, in questa
Rivista, 1995, p. 182 era pericoloso affidare la gestione di un fondo a capitalizzazione ad un soggetto gestore di una gestione a ripartizione; alcuni autori hanno evidenziato l’intenzione di evitare un effetto distorsivo della concorrenza, anche in ragione della capillare diffusione territoriale delle strutture amministrative dell’Ente (per Mantucci, Art. 6, in Cinelli
[a cura di], Disciplina delle forme pensionistiche, op.
cit., p. 194), ovvero per la possibilità di gestione in
deficit di bilancio di questo (Vianello, Modifiche ed
integrazione al d.lgs. n. 124/93, in Cester [a cura di],
La riforma del sistema pensionistico, Torino, 1995, p.
437; per Manghetti, La vigilanza sulla gestione dei
fondi pensione, in Bancaria, 1993, 12, p. 67 era insufficiente la sola separazione contabile ai fini della garanzia di tutela dei contribuenti del fondo complementare. Si deve ricordare che nel disegno di legge
originario dal quale derivò la pregressa normazione
era prevista la possibilità di intervento diretto. Il legi-
La nuova disciplina della previdenza complementare
La sfavorevole considerazione legislativa nei
confronti di una previdenza complementare pubblica permane inalterata anche nella novella in commento, che pure introduce il fondo residuale ( 4 ) affidato al principale attore
pubblico della previdenza obbligatoria. La ragione ultima della previsione appare essere costituita dalla necessità di consentire al destinatario della tutela previdenziale la possibilità di
fruire della tutela complementare in caso di insufficienza o incompatibilità dei fondi sussistenti. Si vuole così evitare di rischiare di vanificare l’effetto di massimizzazione delle adesioni al sistema della previdenza complementare ( 5 ).
La residualità del fondo istituito presso
l’INPS traspare con evidenza dalla norma. La
rubrica così appella espressamente il fondo e la
lettera ne condiziona l’operatività alla sola ipotesi limite nella quale la contribuzione del lavoratore silente non trova altrimenti sfogo verso
slatore si pentì durante l’approvazione. Per taluni
AA. ci fu un percorso involutivo della norma (Casillo, op. cit., p. 206).
( 4 ) Denominato ufficialmente « Fondo complementare INPS » dal decreto interministeriale 30 gennaio 2007. Stranamente la denominazione non ossequia all’obbligo legislativo: « di marchiare la forma
pensionistica complementare » con una denominazione che contenga l’indicazione di « fondo pensione » (in tal senso Bollani, sub art. 4, in questo Commentario).
( 5 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della
nuova legge in tema di pensioni complementari, con
qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato,
in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, 2, pp. 1235 ss. Sembra
all’A. che la legge imponga il conferimento del trattamento di fine rapporto. Nel senso dell’obbligatorietà,
non legislativa ma negoziale – per il tramite di
un’adesione tacita condizionata sospensivamente al
mancato tempestivo dissenso – anche Tursi, La terza
riforma della previdenza complementare, ivi, 2005, 2,
p. 521 ss. Per quest’ultimo il fondo residuale INPS è
dovuto « all’esigenza di far viaggiare il conferimento
del t.f.r. oltre il raggio d’azione delle fonti negoziali ».
Una finalità simile era ravvisata anche nella previsione dei fondi aperti il cui scopo principale per Candian, I fondi pensione, Milano, 1998, p. 157 sembra
proprio quello di consentire « di includere, nel contributo da versarsi al fondo oltre le quote a carico del
lavoratore, se dipendente, anche quelle a carico del
datore di lavoro, nonché il trattamento di fine rapporto ».
729
fondi complementari privati ( 6 ). Si tutelano così
le esigenze di sopravvivenza dei fondi privati
che non possono godere delle ampie economie
di scala di cui gode l’Istituto pubblico e che
dunque non riuscirebbero a mantenere una
competitività accettabile. Il punto è importante.
Il Fondo residuale non entra in concorrenza
con i fondi privati ma rappresenta solo una esigenza di chiusura del sistema, paventandosi
ipotesi limite nelle quali taluni lavoratori non
sono coperti da fondi complementari all’uopo
istituiti ( 7 ). In altre parole il beneficiario della
tutela complementare non ha facoltà di aderire
al Fondo pubblico, che dunque non rischia di
stornare clientela ai fondi privati. La confluenza
nel Fondo residuale è una mera evenienza, scissa da qualunque aspetto volitivo del lavoratore.
L’evidenza della residualità è inoltre confermata
dall’immediata portabilità della posizione del
lavoratore non optante ( 8 ). A tutela dell’equilibrio finanziario dei fondi complementari è previsto un termine di durata minima di permanenza nella forma pensionistica prescelta. La portabilità della posizione previdenziale è, infatti,
sottoposta ad un termine iniziale biennale il cui
decorso ne permette il concreto esercizio ( 9 ).
Tale previsione è invece oggetto di espressa deroga per il caso del fondo residuale INPS che
non ha diritto di godere di un termine di durata
minima dell’investimento acquisito, ma dovrà
( 6 ) Art. 8, comma 7o, lett. b), n. 1 e 2, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252.
( 7 ) Le esigenze di tutela della concorrenza vietano
all’INPS, invece, di gestire direttamente fondi pensione sul mercato, ovvero anche di partecipare al
controllo di gestori privati (per la mancata riproposizione della facoltà prevista nel d.lgs. 21 aprile 1993,
n. 124). In tal senso si esprime anche Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 215, per il quale: « (...) proprio perché
espressamente definita residuale impedisce che gli
enti di previdenza obbligatoria possano assumere un
ruolo attivo e paritario, collocandosi sullo stesso piano degli altri soggetti abilitati ».
( 8 ) Sulla ragione della quale, nonché con l’individuazione dei presupposti di matrice comunitaria e
costituzionale, v., efficacemente, Pallini, infra sub
art. 14.
( 9 ) Tale prescrizione è diretta ad evitare comportamenti di market timing, quindi speculativi. Così,
Huck, Le strategie di investimento dei fondi pensione,
in Aa.Vv., La gestione dei fondi pensione, Roma,
1998, p. 151 ss., in particolare p. 172.
730
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
procedere immediatamente al trasferimento richiesto dal lavoratore ( 10 ). Una siffatta contingenza influenzerà certamente le politiche di investimento – mantenendole su poco speculative
linee liquide – per permettere al Fondo di fare
fronte ad una inaspettata e generale richiesta di
trasferimento. Tale contingenza, dunque, pone
un ulteriore freno all’investimento del fondo residuale, già soggetto – in quanto finanziato tramite il conferimento tacito del t.f.r. – ai limiti
della « linea a contenuto più prudenziale » ( 11 ).
La residualità del Fondo appare confermata
anche dall’integrale rinvio alla disciplina del decreto. La previsione in parola risolve un dubbio
interpretativo sul quale la dottrina si è a lungo
interrogata. Era parso che la legge di ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza
sociale consentisse all’ente pubblico la gestione
e la costituzione di forme pensionistiche complementari ( 12 ). Tale conclusione era stata rifuggita dai principali commentatori sulla base della
natura programmatica della norma in parola:
essa mira soltanto a consentire e disciplinare
l’operatività amministrativa nel caso di una
eventuale e successiva concessione legislativa ( 13 ). L’istituzione del Fondo residuale fa re-
( 10 ) L’art. 8 del d.m. 30 gennaio 2007, in attuazione della previsione normativa, delimita la facoltà di
immediata portabilità statuendo che sia possibile solo
« dopo che sia trascorso almeno un anno dall’adesione ». Il portato regolamentare è tuttavia soggetto ad
una rilevante interpretazione restrittiva ad opera delle istruzioni COVIP (deliberazione 21 marzo 2007)
ove è chiarito che il limite annuale non opera se non
sul piano contabile relativo al trasferimento del montante contributivo già maturato, lasciando inalterata
la facoltà di immediato trasferimento della posizione
contributiva maturanda.
( 11 ) Art. 8, comma 9o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n.
252.
( 12 ) Art. 1, comma 3o, l. 9 marzo 1989, n. 88: « Tra
gli scopi istituzionali dell’Istituto rientra anche la gestione di forme di previdenza integrativa nell’ambito
delle disposizioni generali derivanti da leggi o regolamenti ».
( 13 ) Per Zampini, La previdenza complementare,
Padova, 2004, p. 102 « dell’attuale operatività in parte qua delle norme del 1989 è lecito dubitare; esse
sembrano piuttosto doversi ragionevolmente ritener
superate dall’evoluzione del quadro legislativo. Si è
ricordato, infatti, che alle disposizioni della l. n.
88/89 “è stata sempre attribuita una funzione preventiva di ipoteca sulla legislazione futura e non un
cuperare alla norma programmatica un significato direttamente operativo, consentendo all’Istituto di agire in via amministrativa per la costituzione del fondo. Con lo stabilire un rinvio
« integrale » al decreto, però, l’INPS sarebbe
stato inibito all’uso dei suoi ordinari poteri di
imperio pubblicistici. Il punto è importante. La
gestione del fondo complementare, pur potendo essere in linea astratta riconducibile all’attività « istituzionale », è, invece, nel caso concreto, resa estranea all’attività pubblicistica dell’ente. Il legislatore del 2005, comprendendo le
preoccupazioni della dottrina sugli aspetti lesivi
della competizione concorrenziale, avrebbe
« sterilizzato » la previsione del 1989 che, presa
di per sé, permette una gestione pubblicisticamente orientata del fondo complementare pubblico. Da tale assunto la opzione ermeneutica
assolutamente dominante ritiene che il fondo
residuale pubblico operi come una specie di
« corpo estraneo » all’interno della tecnostruttura operativa dell’INPS. L’ente previdenziale,
in altre parole, sarebbe un mero « assegnatario » delle competenze sul fondo che, tuttavia,
non sarebbe ascrivibile e comparabile alle altre
gestioni obbligatorie poste in capo allo stesso.
Mentre queste ultime sono sottoposte ad una
precisa regolazione pubblicistica, il fondo residuale sarebbe soggetto esclusivamente alla disciplina privatistica contenuta nel decreto, di
talché la gestione da parte dell’Istituto pubblico
sarebbe meramente incidentale.
2. – Ciononostante è ammissibile anche una
diversa esegesi. Pur assumendo una « volontarietà assistita » ( 14 ) nell’adesione alle forme
carattere immediatamente operativo” » (così Vianello, op. cit.; conforme Boer, Il ruolo dei gestori
della previdenza obbligatoria nella previdenza integrativa, in Inpdap, 1993, p. 252). Le norme della 88 attendevano una esplicazione nel d.lgs. n. 124/93: il silenzio « non può non produrre un effetto sterilizzatore » (Vianello, 1995, op. ult. cit.) sulle enunciazioni
programmatiche della legge di riforma dell’Istituto.
( 14 ) La piena ed assoluta libertà di adesione non
opera su un piano esclusivamente individuale, essendo mediata dalla preminente volontà collettiva. V. nt.
n. 5 e Pessi, La collocazione funzionale delle recenti
innovazioni legislative in materia di previdenza complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in
Ferraro, op. cit., per il quale la previsione collettiva
è comunque un onere e non un obbligo per il presta-
La nuova disciplina della previdenza complementare
complementari, deve comunque chiarirsi se il tipo di funzione gestoria effettuata dall’INPS goda di facoltà di imperio pubblicistiche ovvero se
sia riconducibile a mera attività iure privatorum.
La lettera normativa rinvia il fondo residuale alla « integrale » alla regolazione endodecretale.
Tre motivi concorrenti militano in senso di
escludere che l’avverbio « integralmente » possa essere ritenuto sinonimico di « esclusivamente », nel senso che il richiamo alla disciplina del
decreto non deve ritenersi alternativa ad una
concorrente operatività delle norme pubblicistiche che regolano l’attività dell’INPS. In primo
luogo deve sottolinearsi che, come cennato nel
paragrafo che precede, la gestione di forme
pensionistiche complementari rientra nell’alveo
delle competenze pubblicistiche conferite dalla
legge istitutiva nei confronti dell’INPS. Nel
nuovo assetto normativo la previdenza complementare residuale pubblica è regolata dal combinato disposto tra la norma in commento e la
già ricordata norma facultante contenuta nella
legge di ristrutturazione dell’Istituto ( 15 ). In altre parole la novella rende operativa la norma
programmatica che consente all’ente previdenziale la gestione di un fondo complementare.
Orbene, se è vero che la norma programmatica impone un regime di separatezza contabile ( 16 ), è altrettanto vero che nel combinato non
si evidenzia un obbligo di gestione privatistica.
Invero si evince il contrario. La facoltà di esercizio della previdenza complementare trova la sua
base nell’alveo della legge di ristrutturazione, disciplina generale che regola l’attività ammini-
tore il cui rifiuto non comporta l’inapplicabilità delle
altre norme contrattuali. Conf. Tursi, Contrattazione
collettiva e previdenza complementare, in Riv. it. dir.
lav., 2000, 3, p. 269: « sembra evidente l’intento del
legislatore di riservare alla sola autonomia collettiva
la disponibilità del t.f.r. maturando, sottraendola all’autonomia individuale ».
( 15 ) Art. 1, comma 3o, l. 9 marzo 1989, n. 88, cit. in
nt. 5.
( 16 ) Art. 1, comma 4o, l. 9 marzo 1989, n. 88,
« L’esercizio delle attività relative alla gestione di forme di previdenza integrativa deve essere effettuato
dall’INPS sulla base di un bilancio annuale di previsione separato da quello afferente agli altri fondi amministrati ». Il disposto è ribadito dall’art. 3 del decreto attuativo 30 gennaio 2007 ed è confermato anche in sede comunitaria dall’art. 3, dir. 3 giugno
2003, n. 41/CE.
731
strativistica dell’Istituto. La gestione della previdenza complementare pubblica, dunque, rientrerebbe nell’ordinaria gestione delle attività
istituzionali dell’INPS, che peraltro è aduso alla
gestione parallela di diverse forme di fondi previdenziali ( 17 ). Come si vedrà meglio nel prosieguo, la ratio legis dell’avverbio non può essere
ascritta ad esigenze di tutela della concorrenzialità dei fondi privati. Tale intento è già raggiunto
dalla residualità del fondo pubblico, che non entra in diretta competizione con gli operatori privati. Per questo motivo non appare consentita
una interpretazione estensiva che, forzando la
lettera normativa, estrapoli dalla stessa una limitazione alla applicazione dei poteri di imperio
legislativamente accordati all’Istituto pubblico.
Un secondo motivo è dato dalla impossibilità
tecnica di coniugare alcune norme del decreto
con la tecnostruttura dell’Istituto previdenziale.
Il decreto impone la costituzione di appositi
« organismi di sorveglianza » ma un sistema di
controllo è già previsto nella tecnostruttura dell’INPS nel quale opera un collegio dei sindaci,
regolato dalle stesse norme che il decreto in
commento impone agli istituendi organismi di
controllo ( 18 ). In tal caso l’organo di controllo
dell’Ente previdenziale dovrebbe acquisire le
competenze di sorveglianza anche sul fondo residuale poiché la norma istitutiva prevede che
tale collegio sindacale vigili su « tutte » le attività istituzionali dell’Ente previdenziale ( 19 ) di talché essa opera quale norma speciale nei confronti della norma generale contenuta nel decreto qui commentato. La norma del decreto
impone un organo di sorveglianza nei confronti
dei fondi privati di previdenza complementare
mentre la legge istitutiva dell’INPS prevede un
apposito organo di controllo per tutte le attività
( 17 ) Occorre precisare che l’INPS, di per sé, non
gestisce nulla. La titolarità della contribuzione obbligatoria è direttamente posta in capo ai singoli fondi
(il più importante è il Fondo pensioni lavoratori dipendenti), di talché il fondo in commento non è che
uno delle tante forme pensionistiche raggruppate in
seno all’Istituto pubblico.
( 18 ) Art. 2407 c.c., richiamato dall’art. 4, comma
8o.
( 19 ) Art. 10, comma 1o, l. 9 marzo 1989, n. 88: « Il
collegio dei sindaci vigila sulla legittimità e regolarità
contabile di tutte le gestioni amministrate dall’Istituto ».
732
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
istituzionalmente riferite all’Istituto (tra le quali, come cennato, anche la previdenza complementare). Incompatibilità simili, nonostante lo
« integrale » rinvio al decreto, possono ravvisarsi in molteplici altre norme. Ad esempio in tema
di istituzione, costituzione ed autorizzazione all’esercizio del fondo. Il decreto impone fonti
istitutive, metodi di costituzione e sottopone ad
un regime di autorizzazione i fondi privati che
desiderano accreditarsi come gestori della previdenza complementare. Circa istituzione e costituzione si può rilevare che l’effetto è già immanente nella norma qui commentata. La previsione « costituisce » e non già prevede una facoltà di istituzione. In altre parole i fondi privati
possono essere « istituiti » in date circostanze
da eventuali volizioni collettive dei soggetti interessati, facultati in tal senso dalla legge; il fondo
così istituito è quindi poi « costituito » formalmente come associazione o persona giuridica. Il
fondo pubblico, invece, è « costituito » direttamente dalla legge stessa e non da un eventuale
seguente provvedimento amministrativo (come
tale assoggettabile a controllo circa requisiti e
caratteri) dell’Istituto previdenziale. Di talché
già in re ipsa l’effetto è manifestato dallo stesso
legislatore e l’articolo in parola si palesa come
speciale rispetto alle norme generali in materia ( 20 ). Circa l’autorizzazione all’esercizio si
può aggiungere, ad abundantiam, che la ratio legis sottesa è quella di assicurare e garantire ai lavoratori optanti la solidità e la legittimità dell’agire degli operatori privati. Esigenza assente
nel caso dell’operatore pubblico ( 21 ). L’argo-
( 20 ) Del resto un caso simile si è già verificato in
relazione al Fondo di garanzia per la contribuzione
complementare di cui all’art. 5 d.lgs. 27 gennaio
1992, n. 80 (sul quale v. amplius D. Garcea, infra
sub art. 21, comma 7o). Il difetto di una formale costituzione, in quel caso aggravata dalla mancata emanazione del regolamento attuativo, non ha impedito
alla giurisprudenza di ritenere comunque operativo
ex lege il Fondo, con il conseguente obbligo dell’INPS all’intervento in garanzia.
( 21 ) Non residuano margini di discrezionalità valutabili dalla COVIP. Il Fondo è costituito dalla legge,
gli organi sono di nomina ministeriale, l’autonomia
operativa è imposta e disciplinata dalla legge istitutiva dell’INPS. Ad abundantiam, ed in adesione,
l’INPS è comunque già autorizzato alle gestioni complementari dalla sua stessa legge costitutiva (v. nt.
12).
mento dirimente, tuttavia, è dato dal fatto che la
norma non faculta l’INPS alla costituzione del
fondo residuale. Essa bensì costituisce essa stessa, per voluntas legis, il fondo, demandandolo
alla gestione dell’INPS ( 22 ).
In altre parole, a compendio di questo secondo motivo, si può sostenere che lo « integrale »
rinvio è a sua volta una previsione normativa
che deve conciliarsi con le eventuali norme antinomiche. Tra due norme incompatibili prevale
la norma speciale, di talché l’interprete deve
considerare se il rinvio integrale al decreto si
ponga in termini di incompatibilità con altre
normative e quale, in questo caso, sia la disciplina speciale applicabile. Lo « integrale » rinvio
deve essere inteso come norma di « chiusura »
del sistema regolatorio applicabile al fondo residuale. La ratio legis depone in senso tale da assicurare una interpretazione restrittiva che garantisca l’applicazione del decreto ove non siano presenti norme speciali che disciplinano il
medesimo ambito. In altre parole il rinvio alla
integrale regolazione endodecretale è un rinvio
ad una serie di norme che cedono però il passo
innanzi a discipline dotate di un grado di più
elevata specialità, come può accadere innanzi a
date norme esterne al decreto che, quindi, derogano all’integrale rinvio ( 23 ). Altre volte è la norma in commento che si pone come speciale rispetto alle norme generali contenute nel decreto. In altre parole il rinvio al decreto è limitato
alle sole ipotesi non già regolate dalla fattispecie
esaminata. Se tale assunto è di tutta evidenza
nei casi espressi ( 24 ) è anche vero che nella norma vi sono aspetti « occulti » che si pongono in
( 22 ) Non è consentito alla COVIP un eventuale rifiuto della autorizzazione. Il Fondo è costituito dal
legislatore per una esigenza di sistema, indipendentemente da caratteri o requisiti. La COVIP non potrebbe altro che prendere atto e rilasciare l’autorizzazione con un atto che non avrebbe i caratteri del
provvedimento amministrativo discrezionale ma
quelli ben diversi dell’atto vincolato.
( 23 ) Si veda l’esempio reso in riferimento al rapporto tra gli organismi di vigilanza endodecretali e il
collegio dei sindaci interno all’Istituto previdenziale.
( 24 ) Il comma 2o della norma in commento è speciale rispetto alle regole generali che governano la
composizione degli organi dei fondi. Lo stesso può
dirsi per il comma 3o che deroga al limite temporale
per la portabilità del contributo.
La nuova disciplina della previdenza complementare
contrasto con la normazione generale del decreto ( 25 ).
3. – Come preannunciato insiste un terzo motivo che milita in favore della inapplicabilità di
un rinvio « esclusivo » alla disciplina del decreto. La norma, infatti, rinvia integralmente al decreto in commento che, tuttavia, in una pluralità di sue disposizioni, limita specificatamente
l’operatività delle prescrizioni a casi tassativamente indicati. Spesso le singole norme si riferiscono solo a date forme di fondi complementari, specificandone i tipi che sono interessati dalla regolazione ( 26 ). Il richiamo alla « integrale »
applicazione del decreto dovrebbe essere limitato alle sole norme che non siano tassativamente già limitate a specifiche forme di gestione
complementare, di talché solo le norme « generali », dunque non già delimitate, sono estese al
fondo residuale pubblico. La tesi dominante intravede, invece, un rinvio compiuto nei confronti di tutte le previsioni del decreto, quasi
che l’avverbio « integralmente » sia da interpretare estensivamente come rivolto ad estendere
l’operatività anche di quelle norme che, « pensate » per i fondi privati, hanno nel loro seno un
limite di applicazione. L’opzione isolata, invece,
è antitetica. Il rinvio integrale non deve essere
inteso oltre alla sua portata letterale. Nel senso
che, in altre parole, « tutte » le norme del decreto sono richiamate « solo in quanto applicabili ». Le limitazioni proprie di talune norme le
rendono tassativamente applicabili solo alle ipotesi in esse considerate senza che tale vincolo
possa essere superato da una interpretazione
estensiva dell’avverbio integralmente. Diversamente opinando non si comprenderebbe il motivo della scelta tecnica effettuata dal legislatore
che solo in alcune norme ha espressamente delimitato il campo di applicazione ( 27 ). L’inter-
( 25 ) Si veda l’esempio reso in riferimento alle norme che sovrintendono l’istituzione, la costituzione o
l’autorizzazione all’esercizio.
( 26 ) Ad esempio l’art. 6, per il quale i fondi pensione interessati sono solo quelli dalle « lett. a) a h) ».
( 27 ) Se l’effetto non fosse tassativo non si comprenderebbe perché, per evitare l’applicazione della
sola forma pensionistica ex lett. i), non sia stata previsto un apposito inciso solo nell’alveo dell’art. 13. La
riproposizione della delimitazione alle lett. da a) a h)
milita nel senso della tassatività del richiamo che non
733
pretazione restrittiva è, inoltre, conforme alla
ratio legis dell’inciso ed evita, altresì, le conseguenze che ne deriverebbero – ad esempio, ma
non solo – per i casi citati nel paragrafo precedente.
Il punto di maggiore criticità interpretativa è
rappresentato dagli obblighi di convenzione. Il
decreto prevede facoltà di convenzione tra i
fondi privati e l’INPS per la gestione della erogazione delle prestazioni e la raccolta dei contributi. A tal fine ripropone all’Istituto previdenziale la facoltà di creare una autonoma società
di capitali ( 28 ), ma solo al fine esclusivo ed
espresso di assicurare una serie di attività tecniche di servizio e supporto ai fondi privati operanti nei confronti dei quali è riconosciuta la facoltà di stipulare convenzioni di esercizio. Non
senza una punta di stravaganza, il dicastero in
sede di regolamento ( 29 ) impone ( 30 ) all’Istituto
previdenziale di convenzionarsi con se stesso,
disciplinando più di quanto sarebbe stato necessario. Il fondo residuale INPS, godendo della tecnostruttura territoriale dell’ente previdenziale, avrebbe già facoltà di gestire in proprio le
attività tecniche. Tale circostanza non può essere limitata invocando la « integrale » regolazione del decreto ( 31 ). Sia perché, come cennato,
non residuano esigenze di concorrenzialità da
tutelare ( 32 ) e sia perché un rinvio integrale al
ha facoltà di essere applicato, né interpretando estensivamente i singoli articoli e né interpretando sempre
estensivamente l’articolo nove in commento.
( 28 ) Art. 6, comma 2o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n.
252: « Gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie (...) possono stipulare con i fondi pensione
convenzioni (...) anche attraverso la costituzione di
società di capitali ».
( 29 ) Art. 5 d.m. 30 gennaio 2007.
( 30 ) Art. 5 cit.: « è stipulata apposita convenzione
tra INPS e FONDINPS (...) ». Mentre i fondi privati
hanno facoltà di convezione, il fondo pubblico è obbligato.
( 31 ) Tanto è vero che il dicastero in sede di regolazione ha espressamente previsto obbligo di convenzione.
( 32 ) V. nt. 7. Il Fondo complementare pubblico
non entra in competizione con i fondi privati, a cagione della sua espressa residualità. Una gestione diretta, postulata efficiente, non inciderebbe dunque
sulla capacità di raccolta dei fondi privati. Non solo
manca una ratio legis che giustifica la norma regolamentare, ma quanto la stessa appare anche in contrasto con la stessa norma sovraordinata. L’art. 6 del de-
734
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
decreto non impedisce, per ciò solo, di godere
di una contingenza che trova il suo fondamento
in una situazione di fatto ( 33 ). In altre parole, la
previsione regolamentare più che attuativa appare innovativa ovvero, addirittura, derogativa
rispetto alla norma sovraordinata attuata.
Molto controverso è l’obbligo di convenzione
tra il fondo residuale e le strutture di intermediazione all’investimento mobiliare per la gestione della attività di investimento delle risorse
reperite. Appare pressoché pacifica in dottrina
la tesi affermativa (v. Corti, supra sub art. 6). La
ragione ultima della previdenza complementare
è quella di fare godere al destinatario i proventi
che possono scaturire dall’investimento finanziario. Seguendo la teoria dei « pilastri », ad un
regime contributivo obbligatorio (con rendimenti parzialmente predeterminati) si associa
un sistema complementare (variabili in ragione
della aleatorietà dell’investimento nel mercato
finanziario) ( 34 ). Dalla necessità di investimento
sui mercati finanziari ( 35 ) deriva l’estensione dell’onere di convenzione anche nei confronti dell’Istituto pubblico. Tale conclusione, per quan-
creto in commento subordina le convenzioni tra
INPS e fondi privati al parere dell’Autorità garante
della concorrenza. Citando Corti, sub art. 6: « La
funzione della consultazione preventiva dell’AGCM
sembra soprattutto quella di permettere all’autorità
di arginare più agevolmente l’eventuale sfruttamento
della posizione dominante di cui godono gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria. »: appare
difficile che l’INPS abusi verso se stesso.
( 33 ) In caso contrario potrebbe sostenersi che il
fondo residuale dovrebbe operare in uffici e con personale diverso da quelli destinati alla gestione obbligatoria. Si tratta di circostanze di fatto che esulano
dalla normativa applicabile alla fondo residuale.
( 34 ) Il sistema obbligatorio post-riforma del ’95 è a
capitalizzazione nella determinazione della « misura » del diritto, con una solidarietà generazionale di
tipo ripartitivo limitata a soli aspetti finanziari di cassa
(sempre più coperti dalla fiscalità generale, peraltro).
Il regime retributivo è una eccezione temporale ad
esaurimento. La differenza tra la previdenza complementare ed il nuovo sistema obbligatorio riposa nella
aleatorietà del rendimento della contribuzione, in ragione del suo investimento nei mercati finanziari.
( 35 ) La previdenza complementare è anche un volano per l’economia e per i mercati finanziari, uno
strumento di espansione e mobilizzazione dei mercati
finanziari. In tal senso si esprime il preambolo, nn. 1,
2 e 4 della dir. 3 giugno 2003, n. 41/CE.
to pacifica solleva taluni dubbi in chi scrive. È
sostenibile che la ratio legis sottesa all’obbligo di
convenzione sia di garanzia nei confronti dei lavoratori aderenti. Una gestione effettuata dai costituenti (datori di lavoro o associazioni sindacali) potrebbe essere tacciata di incorrere in un
eventuale conflitto di interessi ( 36 ). Per questo
motivo il legislatore avrebbe previsto una « scissione » tra gestione ed investimento, assicurando questo ultimo a strutture indipendenti dalla
gestione che dunque rappresenterebbero una
forte garanzia dell’interesse dei lavoratori, evitando forme di investimento che celino interessi
privati particolari dei gestori. Se così è non c’è
alcun motivo logico dal quale farsi discendere
una estensione dell’obbligo di convenzione per
la gestione dell’investimento anche in capo al
fondo residuale. Se la funzione delle convenzioni a favore di intermediari finanziari autonomi e
indipendenti è quella di « surrogare » un intervento super partes nelle decisioni di investimento, a maggior ragione deve ritenersi che un investimento effettuato da un fondo pubblico sia
scevro da qualunque dubbio di eventuali conflitti di interesse di matrice privatistica. La diversa opzione potrebbe essere recuperata solo
ove si interpreti diversamente la ratio legis della
disposizione e si orienti altrimenti la sottesa interpretazione correttiva. Si potrebbe infatti ritenere che la ratio sia quella di assicurare la « professionalità », e non già la « terzietà », dell’investimento finanziario ( 37 ). Dalla lettera normativa
( 36 ) I fondi aziendali potrebbero essere indotti a
destinare i fondi a favore di investimenti nei quali la
proprietà aziendale potrebbe avere un diretto interesse, cosi come le associazioni sindacali potrebbero
essere forzate a scegliere date forme di investimento
al solo fine di fornire capitali per rispondere a crisi
occupazionali di settore.
( 37 ) Imperatori, Fondi pensione al bivio tra Stato
e mercato: la regolamentazione della previdenza complementare in Italia e lo sviluppo dei mercati finanziari, Milano, 1997, p. 98; Enriques, La gestione delle
risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione
definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, in
Banca impr. soc., 1999, p. 193, specie p. 20. La scelta
legislativa di impedire la autogestione è criticata da
chi (cfr., tra gli altri, Ponzanelli, I fondi pensione
nell’esperienza nord-americana e in quella italiana, in
Riv. dir. civ., 1988, I, p. 109 ss.) ne rileva la singolarità rispetto alla esperienza di altri sistemi giuridici e
chi (M.E. Salerno, La gestione finanziaria delle ri-
La nuova disciplina della previdenza complementare
appare che le preoccupazioni del legislatore siano connesse, però, proprio alla garanzia dal conflitto di interessi e non ad una eventuale volontà
di assicurare un certo rendimento operativo ( 38 ).
Questa ultima intenzione è già diversamente tutelata nel decreto con la previsione di limiti all’investimento ( 39 ) e con la facoltà di previsione
di rendimenti minimi ( 40 ). In altre parole, date le
istruzioni COVIP, e considerata la vigilanza di
quest’ultima, appare irrilevante chi gestisce le risorse. La scelta del legislatore appare invece mirata a « scindere » gestione da investimento, di
talché la ratio legis è dovuta alla diffidenza del
legislatore nei confronti delle gestioni privatistiche non in quanto tali, ma in quanto espressione
di soggetti (datori e sindacati) che potrebbero
essere loro malgrado sottoposti a pressioni che
inficerebbero l’interesse ultimo dei lavoratori ( 41 ). In altre parole il decreto non impone un
sorse dei fondi pensione, in Banca, borsa, tit. cred.,
2001, 3, p. 363) pone l’accento sulla libertà di gestione che caratterizza l’azione privata.
( 38 ) La ratio del conflitto di interesse emerge nella
facoltà di gestione diretta ex art. 6, comma 12o, del
decreto commentato, non potendosi affermare che le
autorità ivi previste abbiano specifica « professionalità » nella gestione degli investimenti finanziari.
( 39 ) Art. 6, comma 11o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n.
252.
( 40 ) Art. 6, comma 8o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n.
252.
( 41 ) Si esprime così anche la letteratura economica: « la minimizzazione dei conflitti di interesse, evitando ogni ingerenza, ogni potere di istruzione, che
non sia generica o preventiva, [del gestito] nei confronti del gestore »: Gaggero e Tricoli, Appunti
sui fondi pensione, in Aa.Vv., Previdenza integrativa e
fondi pensione, in Assicurazioni, 1997, p. 330 ss.,
spec. p. 337. Milita in tal senso anche una visione
comparata: nel sistema americano il Taft-Harley Act
(sul quale diffusamente v. M.J. Roe, Strong Managers, Weak Owners - The Political Roots of American
Corporate Finance, Prince University Press, 1994) limita l’intervento sindacale « al fine di arginare il potere dei sindacati nei loro regimi pensionistici e comunque di ridurre il crescente influsso sindacale e
sulle imprese e sull’economia del paese ». Del resto
circa il disastroso tentativo di utilizzo politico-sindacale delle risorse in velleitarie operazioni di salvataggio si veda Allen, The Studebaker Incident and Its
Influence on the Private Pension Plan reform Movement, in Langbein & Wolk, Pension and Employee
Benefit Law 3 (2000), p. 53. Ci sono, invero, anche
voci contrarie che militano nel senso di ampliare il
735
dato gestore. Al contrario non fa altro che « vietare » la gestione diretta da parte dei costitutori
dei fondi privati. Da ciò può sostenersi che il
fondo residuale INPS non è tenuto a convenzioni con intermediari finanziari per la gestione degli investimenti, non ravvisandosi nell’ente pubblico alcun conflitto di interesse ( 42 ), fermo restando, comunque, che la raccolta contributiva
deve comunque affluire sul mercato finanziario,
per come evidenziato dalla concorrente ratio legis individuata dalla dottrina dominante.
Tale conclusione è corroborata non solo dalla
analisi della ratio legis ricordata ma anche dalla
citata ragione letterale, citata in testa a questo
paragrafo: la norma che prevede il regime di
convenzioni è tassativamente limitata ( 43 ) ai soli
fondi previsti « dalle lett. a) a h) ». Dunque solo
ai fondi gestiti dai privati, in ossequio alla diffidenza ed alla volontà di garantire la terzietà dell’investimento ( 44 ). La ratio legis, questa volta
potere di intervento del sindacato, ergo del « rappresentante dei lavoratori », nella gestione finanziaria
dei fondi pensione. In tal senso, per tutti, Bonardi,
sub art. 1, che pone anche una complessa questione
di legittimità della progressiva esclusione della parte
sindacale: « in una prospettiva assai discutibile sia sul
piano costituzionale, in relazione al rispetto del principio di sussidiarietà, sia dal punto di vista dell’opportunità dei mezzi predisposti rispetto al fine perseguito. ». Sulla « rappresentanza » del sindacato degli
interessi dei lavoratori sia consentito rinviare ad
Ichino, A che serve il sindacato?, Milano, 2005, citando ed appropriandomi della recensione di Cazzola, A proposito di un recente libro di Ichino, in Dir.
rel. ind., 2006, 3, p. 751: « ci sarà mai un’altra Norimberga per giudicare i sindacati dei gravissimi danni
arrecati ai lavoratori? ». Circa la gestione « politica »
(che può non coincidere con gli interessi « finanziari » dei beneficiari) delle risorse dei fondi pensione v.
Sauviat, Sindacati, fondi pensione e mercati finanziari: bilancio e limiti delle strategie nord-americane.
Quale valore d’esempio per i sindacati in Europa?, in
Proteo, 2003, 2/3, p. 101 e Wooten, The S. Zudebaker/Packard Corporation and the origin of ERISA,
in Review of Employee, Benefit and Executive Compensation, NY University, 2002, 12, p. 1.
( 42 ) La nomina ministeriale del comitato di amministratori rende questi ultimi espressione della collettività e non dei singoli interessi di cui questi, a livello
personale, potrebbero essere portatori
( 43 ) Art. 6, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252: « I fondi pensioni di cui all’art. 3, comma 1o, lettere da a) ad
h), gestiscono le risorse mediante (...) ».
( 44 ) Opinando diversamente si crea un cortocir-
736
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
quella dell’avverbio « integralmente » dell’articolo in commento, non permette, come si vedrà,
una interpretazione estensiva al punto tale di ovviare al limite contenuto nella norma apparentemente richiamata. L’interpretazione restrittiva,
come da paragrafo che segue, permette invece di
giustificare appieno la lettera. L’avverbio scinde
il fondo residuale dagli altri fondi gestiti pubblicisticamente dall’INPS e consente un regime di
investimento differenziato rispetto alla raccolta
obbligatoria, ma non obbliga al ricorso ad intermediari autorizzati in ragione di un (in questo
caso insussistente) conflitto di interesse del gestore nella scelta degli investimenti da effettuare. La ratio legis di garanzia emerge adesso confermata con chiarezza cristallina dal quadro normativo sopravvenuto al decreto in commento.
La facoltà di una gestione diretta INPS è stata
espressamente riconosciuta ( 45 ), al fine di garantire « trattamenti aggiuntivi » mediante la costituzione di un apposito Fondo di riserva. Occorre chiarire che tale fondo non deve essere confuso con quello oggetto di questo commento.
Quest’ultimo raccoglie le posizioni di quei soggetti che, pur confluendo nella gestione complementare, sono privi di un fondo direttamente
applicabile. Il secondo, invece, sarà un fondo
che, ove e se costituito, sarà alimentato con il
t.f.r. (cioè quello non già conferito alle forme
complementari) e gestirà la restituzione del t.f.r.
in forma di rendita vitalizia « aggiuntiva ». Nella
pratica applicazione, la tanto pubblicizzata facoltà di scelta (seppure con silenzio-assenso) rischia di diventare un mero « trucco » giuridico
poiché anche gli optanti per il vecchio regime di
t.f.r. vedranno il loro montante acquisito da un
Fondo di tesoreria ( 46 ) e restituito in forme di
trattamento « aggiuntivo » da un nuovo e costi-
cuito interpretativo: l’integrale rinvio richiama una
norma ambivalente che impone la gestione mediante
convenzione (per date forme) e al contempo faculta
la gestione diretta (per una sola forma). Il rinvio integrale ad una norma che non ha un significato univoco
comporta il ricorso alla interpretazione correttiva.
( 45 ) Si veda in proposito il comma 760o, introdotto
in sede di emendamento al testo della l. 27 dicembre
2006, n. 296 (finanziaria 2007).
( 46 ) Istituito dal comma 755o della stessa legge.
Per una prima disamina, D. Garcea, Sulla natura del
Fondo di tesoreria per l’erogazione del t.f.r., in Dir. rel.
ind., 2007, in corso di pubblicazione.
tuendo Fondo di riserva.
4. – Il concetto di « integrale regolazione » deve
dunque essere soggetto ad una interpretazione
correttiva che tenga presente la ratio legis. Che
non è, come potrebbe sembrare prima facie, impedire che il fondo pubblico soffochi lo sviluppo di un sistema concorrenziale privato, poiché
tale intento è già raggiunto dalla residualità che
evita la diretta competizione tra i fondi privati e
il fondo pubblico. La ratio legis è invece diversa.
Tende a garantire una efficiente e snella gestione
finanziaria ed operativa, che si liberi delle pastoie burocratiche proprie delle gestioni obbligatorie e che non limiti o pregiudichi l’interesse
dei destinatari che, aderendo al fondo residuale,
sono già privati della possibilità di aderire ad un
fondo privato. L’intenzione del legislatore è
dunque quella di garantire parità di condizioni
del fondo pubblico nei confronti dei fondi privati la cui regolazione è implicitamente ritenuta
più snella e dunque più efficiente per l’interesse
dei beneficiari. La norma, dunque, è diretta ad
ampliare le facoltà del fondo pubblico e non, come in prima lettura potrebbe ritenersi, di limitarne l’attività a fini di tutela della competitività
dei fondi privati.
Questa ratio legis condiziona l’interpretazione
da assicurare allo « integrale » rinvio alla disciplina endodecretale. La lettura può essere estensivamente intesa come diretta ad assicurare una
natura di « corpo estraneo » del fondo residuale
in seno all’INPS, ovvero può essere letta restrittivamente come volta a scindere il fondo residuale dalle ordinarie gestioni degli altri fondi di
previdenza obbligatoria istituiti presso lo stesso
INPS.
Se si ragiona nei termini succitati, il punto di vista dal quale osservare l’integrale rinvio deve essere quello del lavoratore destinatario della forma pensionistica, che deve potere essere posto
sullo stesso piano rispetto a quei lavoratori per i
quali sono operanti i fondi privati. La mancanza
di fondi privati, e il conseguente subentro del
fondo residuale, non può volgersi in danno dei
destinatari, ai quali è perciò « integralmente »
assicurata la stessa disciplina. L’integrale rinvio
è limitato restrittivamente all’ossequio di questa
sola esigenza: un divieto di reformatio in peius;
anche perché, come meglio si vedrà in via esemplificativa nel paragrafo che
La nuova disciplina della previdenza complementare
segue, una diversa interpretazione scadrebbe
nella assurdità logica. Di talché solo le norme
che hanno una diretta connessione con la posizione del singolo destinatario sono richiamate.
Il fondo residuale non può essere integralmente
disciplinato dalle sole norme del decreto, nel
senso che non può intendersi che il limite citato
sia sinonimico di un regime di esclusività. In altre parole la limitazione non implica che il fondo INPS trovi « esclusiva » regolazione nel decreto, ma solo che tutte (« integralmente ») le
norme del decreto assumono una forza preminente rispetto alle altre norme astrattamente applicabili all’ente gestore, che continuano ad essere applicabili anche nella gestione complementare se non incompatibili con lo stesso decreto. In parole semplici, dell’inciso sull’integrale regolazione deve darsi un’interpretazione
restrittiva. Del resto un siffatto rapporto insiste
anche nel caso dei fondi pensione privati: sono
regolati, anche in deroga rispetto alla legislazione vigente, dal decreto in quanto lex specialis e,
per quanto ivi non regolato, dalle ordinarie norme civilistiche applicabili al caso, come avviene
per qualunque altro tipo di persona giuridica.
Nello stesso modo il fondo residuale INPS è regolato mediante il rinvio al decreto. Salve eventuali norme speciali incompatibili ( 47 ) ovvero
fatte salve le norme generali pubblicistiche per
quanto nel decreto non espressamente disciplinato. La natura del fondo residuale è dunque
ibrida. Non esclusivamente privatistica o esclusivamente pubblicistica in ragione della coesistenza operativa di due regimi di norme. La integrale regolazione endodecretale non preclude
la applicazione delle norme pubblicistiche che
regolano l’attività istituzionale dell’INPS, tra le
quali si rammenta risulta essere considerata anche la gestione di forme complementari rispetto
alla principale gestione obbligatoria. Il rinvio
( 47 ) Concetto decisamente critico: la regolazione
del decreto è speciale perché destinata alle forme
complementari; la regolazione pubblicistica è speciale perché destinata ai fondi di natura pubblica. Si
tratta di specialità reciproca. Capire, nel caso di conflitto tra il decreto e le norme pubblicistiche, quale
sia la norma applicabile importa una attività ermeneutica volta ad accertare quale elemento prevalga
nella fattispecie concreta da regolare (la natura complementare della prestazione o la natura pubblica del
fondo).
737
integrale porta alla abrogazione delle sole norme pubbliche incompatibili ma non incide sugli
aspetti e i poteri di imperio non considerati o
diversamente regolati dal decreto stesso. Ciò
che non è regolato dal decreto, in altre parole, è
soggetto alle norme pubblicistiche. Ciò non per
una problematica interpretazione analogica ma
per una diretta applicazione della legge che regola l’attività ed i poteri di imperio dell’INPS.
Del resto occorre osservare che se l’intenzione del legislatore fosse stata quella di attrarre il
fondo residuale in un contesto esclusivamente
privatistico avrebbe dovuto congegnare il precetto in termini diversi ( 48 ). Produrre tale effetto per mezzo di un semplice avverbio, è quantomeno problematico, specie se si considera che
la natura della attività di un fondo non è ricondotta alla natura del gestore, ma al tipo di poteri
e facoltà concretamente esercitati ( 49 ). Tale asserzione è sorretta anche dalla giurisprudenza
amministrativa che ha da tempo sancito la
« neutralità » della veste giuridica ( 50 ), riconoscendo natura pubblicistica anche a società per
azioni o comunque di capitali allorquando esse
siano considerate « strumentali » rispetto agli
scopi ed alle funzioni di un ente pubblico. La
dottrina ha chiarito che la classificazione pubblicistica di un organo formalmente privatistico
deve essere compiuta caso per caso, in ragione
degli elementi contingenti sussistenti ( 51 ) ed in
( 48 ) Ad esempio facendo seguire all’avverbio « integralmente » anche l’inciso « ed esclusivamente ».
( 49 ) Cass. 9 giugno 1994, n. 5606, in Foro it., 1995,
I, c. 568 per la quale è irrilevante la natura pubblicistica dell’adiectus solutionis causa (ente previdenziale) ritenendolo individuato, con norma eccezionale,
preposto alla prestazione in ragione della sua strutturata competenza nella gestione di erogazioni pecuniarie. Contra l’isolata Cass. 23 marzo 2001, n. 4261, in
Mass. giust. civ. 2001, p. 573, secondo cui si configura una forma di assicurazione sociale pubblicistica a
cagione della natura del soggetto erogatore. Entrambe le sentenze si occupano del Fondo di garanzia per
il t.f.r. e per i crediti di lavoro, previsto ex art. 2, l. 29
maggio 1982, n. 297 e artt. 1 e 2, d.lgs. 27 gennaio
1992, n. 80 e sono citate da D. Garcea, Osservazioni
critiche alla giurisprudenza sul Fondo di garanzia, in
Riv. dir. sic. soc., 2005, 3, p. 645.
( 50 ) Cons. Stato, sez. VI, 1o aprile 2000, n. 1885, in
Urb. e app., 2000, p. 534; conf. Cons. Stato 17 settembre 2002, n. 4711, in Riv. Corte conti, 2002, 5, p. 224.
( 51 ) Caringella, Corso di diritto amministrativo,
738
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
relazione al grado di « deviazione » dalla regolazione ordinaria civilistica. In altre parole il nomen iuris assegnato dal legislatore non è sufficiente a sottrarre l’organismo societario dalle
stringenti regole pubblicistiche, onde evitare
che con tali escamotages si crei una zona franca
dal controllo di legittimità e di regolarità erariale.
Nel caso in trattazione il fondo complementare pubblico svolge attività espressamente ritenute funzioni istituzionali dell’ente ( 52 ). Si configura dunque come un soggetto giuridico deputato ad affiancare l’ente pubblico nell’espletamento di funzioni istituzionali che, come tale,
è ente di diritto pubblico a tutti gli effetti ( 53 ).
Per tali motivi si può affermare che, non essendo sufficiente il rinvio « integrale » al decreto a
garantire un rinvio « esclusivo » a tale disciplina
privatistica che invece, come visto, coesiste con
le regole pubblicistiche compatibili, la natura
del fondo non può essere ascritta al novero privatistico.
5. – Una ulteriore questione si profila in relazione al comma 2o che negli aspetti formali ricalca la norma privatistica disciplinante i fondi
Milano, 2004, I, p. 687: « è necessario che il regime
giuridico cui la singola società è in concreto sottoposta si caratterizzi per la previsione di regole di organizzazione e di funzionamento che, oltre a costituire
una consistente alterazione del modello societario tipico rivelino, al tempo stesso, la completa attrazione
nell’orbita pubblicistica dell’ente societario ».
( 52 ) Art. 1, comma 3o, l. 9 marzo 1989, n. 88, cit. in
nt. 9.
( 53 ) Cons. Stato, sez. VI, 28 ottobre 1998, n. 1478,
in Riv. giur. edil., 1999, I, p. 334: « Ai fini dell’identificazione degli organismi di diritto pubblico ai sensi
della normativa comunitaria in tema di appalti, il requisito della funzionalizzazione dell’ente al soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale va verificato con
riguardo alla struttura ed alle attività esercitate dal
soggetto, e può ritenersi soddisfatto, sul versante
strutturale, dal carattere totale della partecipazione
pubblica e, sul piano strutturale, dal fine della gestione, in via esclusiva, di un servizio pubblico, mentre è
irrilevante la forma societaria assunta dal soggetto:
infatti il perseguimento di uno scopo pubblico non è
in contraddizione con il fine societario lucrativo descritto dall’art. 2247 c.c., dal momento che la presenza di un utile di gestione è del tutto compatibile con
la gestione dei servizi pubblici. ».
privati. Una norma speciale che deroga espressamente al contenuto del decreto, pur riproponendone apparentemente lo stesso contenuto.
La ibrida natura del fondo residuale, infatti, impone una lettura pubblicisticamente orientata
del disposto. La legge demanda al Ministro protempore il potere di nomina. Si tratta di una facoltà a discrezionalità limitata essendo, infatti,
limitato nella scelta alla individuazione di soggetti dotati di dati requisiti intrinseci la cui
mancanza è sanzionabile sul piano della illegittimità. L’imposizione di tali requisiti soggettivi
permette di estrapolare in via esegetica due
aspetti ulteriori. I membri nominati « restano »
in carica per un periodo di tempo specifico.
L’uso del volutamente generico termine, se letto
in combinato con i requisiti soggettivi di « indipendenza », porta a ritenere ad opinione di chi
scrive che il meccanismo di governance interna
sia simile, se non propriamente identico, a quello in auge per le autorità indipendenti ( 54 ). Il
membro nominato acquisisce una indipendenza
nei confronti della stessa autorità ministeriale
nominante, acquisendo inamovibilità funzionale ( 55 ). In assenza di una specificazione l’interprete è deputato in sede di interpretazione correttiva ad individuare la sussistenza di un potere
di revoca. Due argomenti contrastanti. Lo ius
poenitendi è un potere generale della p.a. e dunque, in difetto di un espresso divieto, dovrebbe
ritenersi che il Ministro nominante abbia la possibilità di tornare discrezionalmente sui propri
passi. Una interpretazione teleologicamente
orientata, tuttavia, impone all’interprete di tenere conto che una siffatta discrezionalità è già
espressamente limitata in seno alla fase di nomina (con la previsione dei requisiti minimali sog( 54 ) Giova precisare per « autorità indipendente »
si intende un fenomeno e non un istituto giuridico: si
ricollegano al termine una pluralità di strutture pubbliche che pur con poteri, funzioni e ruoli profondamente diversi, hanno tutte in comune la indipendenza e la estraneità rispetto alla comune organizzazione
ministeriale o parastatale. Per approfondimenti Caringella e Garofoli, Le autorità indipendenti, Napoli, 2000.
( 55 ) Salvo i casi di gravi, manifeste e ripetute violazioni di legge ovvero dell’ipotesi di impossibilità di
funzionamento dell’organo, interpretando in via analogica le pari norme che regolano tutti gli altri comitati di gestione operanti nell’Istituto (artt. 58 e 42
d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639).
La nuova disciplina della previdenza complementare
739
gettivi) ( 56 ) e che la ratio legis della norma è
quella di costituire una struttura impermeabile
a pressioni esogene, al fine di conseguire esclusivamente l’interesse finanziario dei beneficiari ( 57 ). La soggezione ad un libero potere di revoca potrebbe incidere soggettivamente sui
componenti rendendo gli stessi più influenzabili
da richieste di matrice politica ( 58 ). Di talché
può sostenersi che la previsione di un termine
di durata sia posta a favore degli stessi membri,
come termine intangibile (« restano in carica »)
e che una eventuale revoca, lungi dall’essere intrinseca nelle funzioni ministeriali, dovrebbe essere, se del caso, invece espressamente consentita. L’ulteriore aspetto che scaturisce dalla presenza di requisiti soggettivi consiste nella discrezionale indicazione ministeriale dei nominativi atti alla rappresentanza sindacale. Se la partecipazione « paritetica » come si vedrà nel
prossimo passaggio, impone l’indicazione di
rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali, è vero altresì che la valutazione dei requisiti
di nomina rende il Ministro libero di potere indicare i soggetti deputati, senza dovere ratificare le indicazioni sindacali ( 59 ).
Ciò premesso la nomina deve prevedere la
compartecipazione paritetica tra i sindacati dei
lavoratori e dei datori di lavoro. La norma sembrerebbe imporre soltanto una parità di componenti tra datori e lavoratori. In una norma frettolosamente introdotta, la pariteticità imposta
non poteva tuttavia assumere un significato così
chiaro e palese. Occorre coordinare il disposto
con la successiva giurisprudenza amministrativa
susseguitasi in tema di compartecipazione sindacale in strutture pubblicistiche. La « pariteticità » ha una duplice valenza: esterna, nel rap-
porto quantitativo tra datori e lavoratori; ma anche interna, nel rapporto tra i diversi sindacati
dello stesso ambito. Ad un criterio puramente
quantitativo, in base al quale debbono prevalere
i sindacati numericamente più diffusi, la giurisprudenza pretoria ha contrapposto in moderazione il criterio pluralistico, ritenuto immanente
nel nostro ordinamento ( 60 ), imponendo la partecipazione anche di organizzazioni sindacali
minori che rappresentino comunque interessi
speciali coinvolti nella gestione della struttura ( 61 ). Ancora una volta un termine innocuo se
riferito ai fondi pensione privati, assume una latitudine completamente differente se riferito al
fondo residuale. La presenza di un potere discrezionale di nomina impone di reinterpretare
il concetto di « pariteticità » nel senso di fare bilanciare datori e lavoratori nella amministrazione (come anche per i fondi privati) ma anche
nel senso di consentire una paritaria partecipazione a tutte le plurali strutture sindacali coinvolte nella adozione di un atto pubblico ampliativo, di matrice discrezionale. Ciò eventualmente anche in deroga al principio della potenziale
proporzionalità in ragione delle diverse consistenze numeriche tra le varie organizzazioni sindacali ( 62 ). L’intervento del Tar ( 63 ) è ammesso,
questa volta uti singulus, anche nel caso di nomina priva dei requisiti soggettivi imposti. In tal
caso subentrano delicati problemi di legittimazione attiva al ricorso che, in ossequio alle aperture di questi ultimi anni nell’analoga materia
concorsuale, è riconosciuta a coloro che si sarebbero trovati nelle condizioni necessarie per
accedere alla nomina.
Il funzionamento del comitato, in difetto di
norme speciali, è estensivamente disciplinato
( 56 ) Panico, Onorabilità e professionalità di amministratori e trustee, in Trusts e attività fiduciarie, 2005,
7, p. 366.
( 57 ) Si trova conferma dell’assunto anche nel regolamento attuativo (art. 4, d.m. 30 gennaio 2007), ove
si limita la facoltà di rinnovo della nomina ad un massimo di due mandati, anche non consecutivi.
( 58 ) Nella scelta del gestore convenzionato ovvero,
ovviamente, con effetti nefandi in caso di gestione diretta delle risorse.
( 59 ) Come invece avviene negli altri comitati, ove
le organizzazioni sindacali sono tenute alle designazioni di loro competenza entro un termine a pena di
decadenza (art. 38, d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639).
( 60 ) Cons. Stato 30 giugno 1996, n. 767, in Cons.
Stato, 1996, I, 994.
( 61 ) Tar Lazio, sez. III bis, 24 maggio 2006, n.
3826 e 3827, inedite ma consultabili sul sito ufficiale
della giustizia amministrativa su www.giustizia-amministrativa.it. In tali pronunciamenti il Tar si occupa
della formazione (di identica composizione) dei Consigli di indirizzo e vigilanza degli enti previdenziali.
( 62 ) Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 1993, n. 159,
in Cons. Stato, 1993, I, p. 229.
( 63 ) Ovviamente non ipotizzabile nei confronti dei
fondi privati, le cui problematiche di governance devono essere affrontate su un piano civilistico. Si rinvia a Bruni, supra, sub art. 5.
740
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
dalle regolazioni dei vari comitati che già operano nella gestione dei diversi fondi di pertinenza
dell’INPS ( 64 ).
6. – La disciplina del fondo complementare
residuale è dunque influenzata dalla sua natura
ibrida. L’integrale regolazione endodecretale è
limitata, in ossequio alla sua ratio legis, dai vari e
concomitanti elementi prima citati. L’intenzione
legislativa è quella di equiparare la posizione
dell’aderente al fondo residuale, già pregiudicato dal meccanismo del silenzio-assenso, alla posizione dei lavoratori optanti che godono dell’operatività dei fondi privati. Il meccanismo di
gestione è regolato dal decreto, che disciplina le
fonti di finanziamento, le prestazioni, il regime
tributario e di vigilanza: tutti gli ambiti nei quali
è necessario accomunare i diritti degli optanti a
quelli dei non optanti. Laddove la disciplina diverge, nonostante l’apparenza letterale dello
« integrale » rinvio, è nella essenza del fondo
stesso. Modelli gestionali, forme istitutive e costitutive, autorizzazioni, e strutture organizzative sono invece ambiti che esulano dalla esigenza
( 64 ) Art. 41 d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639, che prevede il voto a maggioranza assoluta dei presenti e la
primazia della volizione presidenziale.
di parificare le situazioni soggettive dei lavoratori interessati e non sono oggetto di richiamo.
Giova infine precisare che il fondo residuale
INPS è cosa ben diversa rispetto al Fondo per
l’erogazione dei trattamenti di fine rapporto ( 65 )
che è un fondo dello Stato gestito dall’INPS,
ma che nulla ha a che vedere con la previdenza
complementare. Il lavoratore che non aderisce
espressamente ad una forma complementare
continua a godere del t.f.r., ma le poste economiche di accantonamento sono acquisite dallo
Stato, che ne assume facoltà di gestione al fine
di finanziare specifiche opere pubbliche senza
dovere, al converso, ricorrere all’oneroso mercato dei capitali. Il Fondo di tesoreria appare
avere una natura retributiva, di talché l’ente
pubblico opera come assuntore ex lege del risparmio forzoso dei lavoratori coinvolti ( 66 ).
Donatello Garcea ( 67 )
( 65 ) Istituito dal comma 755o della l. 27 dicembre
2006, n. 296 (finanziaria 2007).
( 66 ) D. Garcea, Sulla natura del Fondo di tesoreria
per l’erogazione del t.f.r., cit.
( 67 ) Il presente scritto è frutto delle personali considerazioni dell’autore e non riflette l’ermeneusi dell’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Art. 10.
(Misure compensative per le imprese)
1. ( 1 ) Dal reddito d’impresa è deducibile un importo pari al quattro per cento dell’ammontare del TFR annualmente destinato a forme pensionistiche complementari e al Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile23; per le imprese con meno di 50 addetti tale importo è elevato
al sei per cento.
2. ( 2 ) Il datore di lavoro è esonerato dal versamento del contributo al Fondo di garanzia previsto dall’articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, e successive modificazioni, nella stessa
percentuale di TFR maturando conferito alle forme pensionistiche complementari e al Fondo
per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di
cui all’articolo 2120 del codice civile.
3. ( 3 ) Un’ulteriore compensazione dei costi per le imprese, conseguenti al conferimento del
TFR alle forme pensionistiche complementari e al Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipen-
( 1 ) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06.
( 2 ) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06.
( 3 ) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06.
La nuova disciplina della previdenza complementare
741
denti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile, è assicurata anche mediante una riduzione del costo del lavoro, attraverso una riduzione degli oneri impropri, correlata al flusso di TFR maturando conferito, nei limiti e secondo quanto
stabilito dall’articolo 8 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005 n. 248, e successive modificazioni.
4. ( 4 )
5. ( 5 ) Le misure di cui al comma 1 si applicano previa verifica della loro compatibilità con la
normativa comunitaria in materia.
( 4 ) Comma abrogato dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06.
( 5 ) Comma così modificato dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06.
La decontribuzione al fondo di garanzia del t.f.r. (6)
Sommario (art. 10, comma 2o): 1. La sinallagmaticità
assicurativa. – 2. Il precedente del contributo di malattia. – 3. Dall’incostituzionalità per eccesso... – 4. ...
a quella per difetto. – 5. Conclusioni.
1. – Il comma oggetto di analisi è stato recentemente novellato dalla legge finanziaria per
l’anno 2007 ( 7 ). Allo scopo di adeguare il testo
originario alle innovazioni derivanti dalla istituzione del Fondo di tesoreria per la gestione del
t.f.r. che non confluisce nell’alveo delle gestioni
complementari ( 8 ), il legislatore ha introdotto
una modifica sulla quale, si preannuncia già da
adesso, si addensano dense nubi di incostituzionalità. La norma originaria ( 9 ) traeva la sua ragione genetica in un conflitto giurisprudenziale
ancora non sedatosi, nonostante un recente arresto intervenuto ad opera delle sezioni unite.
( 6 ) Per il commento ai commi 1o, 3o, 4o, 5o, v. Frignati, Misure compensative per le imprese, in questo
Commentario.
( 7 ) L. 27 dicembre 2006, n. 296.
( 8 ) Istituito dal comma 755o della stessa legge. Per
una prima disamina, Garcea, Sulla natura del Fondo
di tesoreria per l’erogazione del t.f.r., in Dir. rel. ind.,
2007, in corso di pubblicazione.
( 9 ) Che conviene riportare testualmente: « Il datore di lavoro è esonerato dal versamento del contributo al fondo di garanzia previsto dall’articolo 2 della l.
29 maggio 1982, n. 297, nella stessa percentuale di
t.f.r. maturando conferito alle forme pensionistiche
complementari, ferma restando l’applicazione del
contributo previsto ai sensi dell’articolo 4 del d.lgs.
27 gennaio 1992, n. 80 ».
La questione di fondo riposava in una delle
grandi domande alle quali è difficile rispondere
se non attraverso la deformante ottica delle valutazioni politiche. Se, cioè, i trattamenti previdenziali rientrano nell’alveo di un sistema obbligatorio di assicurazione sociale ovvero se sono
concepibili quali regimi di solidarietà collettiva.
Si tralascia di cennare delle principali teoretiche
in materia per concentrare l’analisi sulla questione contributiva sottesa. Nel caso di specie
regolato dalla norma originaria, infatti, la « sottrazione » del t.f.r. al sistema delle imprese (v.
Ferrante, supra, sub art. 8) rendeva quantomeno irragionevole la sopravvivenza di obblighi
contributivi che presupponevano la pregressa
contingenza giuridica. In altre parole non
avrebbe avuto senso che il legislatore imponesse
un balzello al fine di assicurare il lavoratore dal
caso dell’eventuale inadempimento datoriale
delle quote di t.f.r. da questi trattenute nel caso
in cui, come emergeva dal nuovo articolato il
datore ne avesse perso ogni disponibilità e detenzione a vantaggio dei fondi complementari.
Tali semplici considerazioni, fondate sul rispetto del sinallagma tra contributo e prestazione
che « stanno e cadono » insieme, sono state tuttavia poste in dubbio dalla speculazione giurisprudenziale le cui conclusioni hanno mosso
l’intervento legislativo.
2. – La « disarticolazione » tra debenza contributiva e prestazioni connesse è stata infatti riconosciuta da un pronunciamento in sezioni
742
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
unite ( 10 ). La Corte, ha ritenuto di non ravvisare
nel rapporto tra contribuzione e relativa prestazione una necessaria correlazione, evidenziando
nel sistema previdenziale un carattere di generale solidarietà collettiva che esula, in quanto tale,
da una presunta corrispettività assicurativa tra il
dato ed il ricevuto. Il Supremo consesso si occupò della risoluzione di un conflitto sorto nella
sezione lavoro in ordine alla debenza del contributo per il finanziamento del regime assicurativo contro la malattia. La legge consente all’INPS di non erogare l’indennità di malattia
quando il relativo trattamento sia corrisposto
dal datore di lavoro, obbligato in tal senso dalla
legge o dalla disciplina pattizia. Argomentando
in ordine ad una necessaria corrispettività tra
prestazione e contribuzione, talune pronunce
evidenziarono la vulnerazione del nesso sinallagmatico della relazione assicurativa che intercorreva tra datore assicurato e Istituto previdenziale assicuratore. Quest’ultimo, infatti, sarebbe stato destinatario di un ingiustificato arricchimento, locupletando premi contributivi
relativi ad un rischio inesistente ( 11 ). Un secondo e contrario indirizzo si affermò in seguito.
L’argomento principe fu estrapolato dalla diversa destinazione della tutela che è espressamente estesa anche ai lavoratori divenuti disoccupati ovvero sospesi senza diritto al trattamento di cassa integrazione ( 12 ). La norma, in altre
parole, obbliga il datore alla partecipazione ad
un regime di solidarietà sociale i cui beneficiari
si individuano anche al di fuori dei soli suoi lavoratori. Per derogare al suo contenuto precettivo occorrerebbe, dunque, una specifica norma
di deroga la cui fonte non potrebbe essere pattizia, in ragione della evidente subordinazione
della contrattazione collettiva nei confronti del-
( 10 ) Cass., sez. un., 27 giugno 2003, n. 10232, in Mass.
giur. lav., 2003, p. 866, con nota adesiva di Boer. V. anche, per una opinione contraria, Cinelli, Solidarietà
senza limiti? Ovvero: pagare i contributi di malattia senza usufruire delle relative prestazioni, in Riv. dir. sic. soc.,
2005, 1, p. 75. Si occupano della questione anche Centorbi, Trattamento economico di malattia e obbligazione contributiva, in Arg. dir. lav., 2005, p. 351 e Canavesi, Questioni contributive nella più recente giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. sic. soc., 2005, 3, p. 663.
( 11 ) Cass. 3 dicembre 1999, n. 13535, in Mass.
giust. civ., 1999, p. 2441.
( 12 ) Art. 1, comma 6o, d.l. 30 dicembre 1979, n. 663.
la legge ordinaria. La deroga legislativa, invece,
non fa altro che escludere l’INPS dalla debenza
prestazionale (onde evitare che il lavoratore riceva una doppia indennità, di natura legale e
contrattuale), nulla modificando al regime normativo che detta e prescrive la debenza contributiva ( 13 ). Le sezioni unite risolsero in tal senso, sostenendo altresì che il sistema previdenziale non ha natura assicurativa, ma ha invece carattere solidaristico ( 14 ). In conseguenza, l’eventuale assenza di un interesse specifico alla prestazione, non erogabile a fronte dell’impossibilità che l’evento lesivo si verificasse nel concreto, non rendeva i datori scevri dall’obbligo
contributivo. Tali conclusioni non sono state recepite con favore dal merito che, con considerazioni poi svolte anche in dottrina ( 15 ), ha eccepito questione di legittimità costituzionale ( 16 )
che, allo stato in cui si scrive, è ancora pendente.
3. – Tale esegesi giurisprudenziale, nel sostenere la assenza di una correlazione tra il contributo e la prestazione finanziata, considerava il
primo impermeabile alla vicenda abrogativa che
poteva interessare la seconda. Il legislatore originario ritenne opportuno, quindi, prevedere
espressamente l’esenzione dalla debenza contributiva, sterilizzando sul nascere gli effetti riflessi che sarebbero potuti scaturire in materia dalla
eventuale pronuncia di illegittimità sulla questione analoga già incardinata innanzi alla Consulta. La previsione originaria esentava dal contributo dovuto al Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto ( 17 ), mantenendo in
( 13 ) Cass. 27 dicembre 1999, n. 14571, in Mass.
giur. lav., 2000, p. 279; Cass. 21 febbraio 2000, n.
1950 in Not. giur. lav., 2000, p. 501 e Cass. 5 agosto
2004, n. 15112, in Riv. dir. sic. soc., 2005, n. 212.
( 14 ) Cass., sez. un., 27 giugno 2003, n. 10232, cit.:
« il fondamento della previdenza sociale sta nel principio di solidarietà onde il concetto di sinallagma risulta insufficiente alla rappresentazione del sistema
(...) per di più talvolta manca il legame tra contributi
e prestazioni come nel caso di contributi di mera solidarietà o figurativi o ancora quando debba operare
il principio di automaticità delle prestazioni ». Cfr.
Cass. civ., sez. un., 9 gennaio 2007, n. 123, in Riv. it.
dir. lav., 2007, 3, con nota di Garcea.
( 15 ) Così Cinelli, op. cit.
( 16 ) Trib. Bolzano 8 marzo 2004, n. 139 e 30 settembre 2005, citate da Canavesi, op. cit.
( 17 ) Art. 2 l. 29 maggio 1982, n. 297.
La nuova disciplina della previdenza complementare
essere il diverso contributo affluente all’analogo
e successivo Fondo di garanzia dei crediti di lavoro ( 18 ). La norma limitava l’esenzione alla
« percentuale di t.f.r. maturando conferito alle
forme pensionistiche complementari ». La ragione del limite era chiara. La libera adesione
dei prestatori al regime complementare provocava una scissione contabile tra t.f.r. maturando
conferito alle gestioni complementari e t.f.r. maturato mantenuto nella disponibilità del datore
di lavoro seguendo il consueto schema pregresso. In altre parole l’esenzione operava solo parzialmente, nel senso che il datore era comunque
tenuto al finanziamento del Fondo di garanzia,
seppure solo nella misura del t.f.r. del quale
continuava a detenere la disponibilità. Si ossequiava così al summenzionato rischio di incostituzionalità dovuto alla alterazione, per via legislativa, del sinallagma assicurativo: il datore restava soggetto solo ad una quota-parte del contributo in ragione della diminuzione del rischio
da insolvenza. Il conferimento progressivo del
t.f.r. maturando alle forme pensionistiche, infatti, cagionava una sensibile diminuzione dell’accantonamento contabile detenuto dal datore, di
talché l’eventuale insolvenza sopravvenuta
avrebbe comportato un ridotto intervento sostitutivo da parte del Fondo.
4. – La novella adegua la previsione originaria
al nuovo compendio normativo. La finanziaria
per l’anno 2007 istituisce un apposito Fondo di
tesoreria gestito dall’INPS, allo scopo di detenere le quote del t.f.r. maturando che non affluiranno alle forme pensionistiche complementari ( 19 ). Nel caso di specie la novella ha inserito
un inciso che esclude dalla contribuzione non
solo la quota affluente alle forme pensionistiche
complementari, ma anche quella che sarà acquisita dal Fondo di tesoreria. La norma è evidentemente frutto di sciatteria legislativa. Essa riproduce l’originario schema letterale che esenta
la « percentuale di t.f.r. conferito » all’una o all’altra opzione. Se nel pregresso assetto il richiamo al concetto di « percentuale » aveva un suo
senso specifico, per come ricordato nel paragrafo precedente, nel nuovo ordine il richiamo è
privo di significato. Tutto il t.f.r. maturando è
( 18 ) Art. 4 d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80.
( 19 ) V. nt. 8.
743
sottratto al datore di lavoro. A favore delle forme pensionistiche ovvero del Fondo di tesoreria. Non esiste, dunque, una « percentuale » di
decontribuzione: l’esenzione opererà sempre
sul totale del t.f.r. maturando.
Le problematiche che derivano dalla novella,
tuttavia, sono di ben più rilevante portata. È vero che il nuovo compendio sottrae ogni forma
di detenzione del t.f.r. nei confronti del datore,
rendendo dunque irragionevole la sopravvivenza del balzello contributivo nella originaria
quantificazione. È vero altresì che il regime che
deriva dalla norma in esame esclude totalmente
il datore da qualsiasi relato onere contributivo.
Da un eccesso all’altro. Due considerazioni militano in tal senso: a) la « trasmigrazione » del
t.f.r. opera solo per i datori di lavoro che oltrepassano una soglia dimensionale minima; b) i
datori di lavoro mantengono la detenzione del
t.f.r. maturato ma non ancora erogato. In altre
parole le esigenze di tutela dei prestatori di lavoro subordinato permangono, seppur solo
parzialmente, anche nel nuovo sistema. Giova
rammentare che la previsione di un fondo di garanzia per il t.f.r. ( 20 ) nasce in ottemperanza ad
un obbligo comunitario, imposto da una direttiva europea ( 21 ) che impegna gli Stati membri a
tutelare i prestatori di lavoro nel caso di insolvenza del datore ( 22 ). La perdurante operatività
del fondo rende necessario, quindi, prevedere
comunque un adeguato sistema di finanziamento che ne assicuri il regolare funzionamento.
Ciò premesso appare dubitabile sul piano costituzionale che la contribuzione percuota i soli
datori di minore dimensione, specie conside-
( 20 ) Art. 2 l. 29 maggio 1982, n. 297.
( 21 ) Dir. 80/987/CE, in G.U.C.E., L 283, p. 23,
sulla quale v. Civale, Insolvenza dell’imprenditore e
tutela dei crediti di lavoro, in Riv. giur. lav., 1993, I, p.
441. Questa direttiva è stata novellata di recente da
dir. 23 settembre, n. 74/CE, in G.U.C.E., L 270, p. 10
s. cui v. Pallini, La nuova disciplina comunitaria della tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore:
la dir. 2002/74/CE, in Riv. dir. sic. soc., 2003, 2, p.
695 e più diffusamente soprattutto v. Arrigo, La tutela dei crediti retributivi e previdenziali in caso di insolvenza del datore di lavoro tra ordinamento interno e
disciplina comunitaria, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005,
1, p. 1.
( 22 ) Diffusamente v. Garcea, Rassegna critica della giurisprudenza sul Fondo di garanzia, in Riv. dir. sic.
soc., 2005, 3, p. 645.
744
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rando che degli effetti della garanzia (sul t.f.r.
già maturato ovvero nel caso di mutazione soggettiva o dimensionale ( 23 ) del datore) godono
comunque anche i lavoratori dei datori di maggiore consistenza. Rinviando integralmente, infatti, si ripropone la stessa questione già affrontata dalla Corte costituzionale in tema di contributo di solidarietà (v. Garcea, infra, sub art.
16): la decontribuzione totale vulnera il necessario principio di solidarietà tra i diversi soggetti interessati (seppur in diversa gradazione) alla
garanzia assicurata dal Fondo ( 24 ). In altre parole anche i lavoratori che prestano il loro servizio
presso datori totalmente privati della disponibilità del t.f.r. hanno uno specifico interesse alla
florida consistenza patrimoniale del Fondo di
garanzia che potrebbe, comunque, esser deputato a « coprire » il t.f.r. maturato ovvero anche
il maturando (ipotizzando come citato, un mutamento soggettivo o dimensionale del datore).
I piccoli datori, nel sistema delineato dalla norma, sopportano anche gli oneri assicurativi dei
( 23 ) L’INPS sostiene (circ. 3 aprile 2007, n. 70),
però, che i mutamenti dimensionali non abbiano rilevanza in ordine all’obbligo di conferimento. Che,
in altre parole, l’obbligo colpirebbe i datori in ragione del loro dimensionamento « cristallizzato » alla data di entrata in vigore della legge finanziaria.
Tale esegesi è necessitata dall’esigenza di evitare frazionamenti fittizi allo scopo di eludere l’obbligo di
conferimento. Qualora una simile opzione ermeneutica dovesse trovare consenso, vi sarebbe probabilmente da dubitare sia della sua plausibilità letterale,
sia, probabilmente, della sua legittimità costituzionale.
( 24 ) In primis fu Corte cost. 14 luglio 1972, n. 146,
in Giur. cost., 1972, p. 1490, che evidenziò l’obbligo
di solidarietà verso i soggetti sfavoriti sul piano economico-sociale, che giustifica l’imposizione di specifici contributi di solidarietà a favore del regime generale: « il contributo del singolo soggetto va a vantaggio di tutti gli iscritti, assicurando in tal modo il concorso dei lavoratori con i redditi più alti nella copertura delle prestazioni a favore delle categorie con i
redditi più bassi »: cfr. M. Cinelli, Previdenza sociale e orientamenti della giurisprudenza costituzionale,
in Riv. it. dir. lav., 1999, p. 73, sp. 10. Garantiscono
un regime solidale tra i diversi sistemi previdenziali,
in materia di finanziamento della previdenza complementare, anche Corte cost. 3 ottobre 1990, n. 427 e
Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421, entrambe già citate nella nt. 10 del commento dedicato all’art. 16 in
questa opera.
datori di grandi dimensioni, riproducendo ancora una volta un altro caso di solidarietà al contrario ( 25 ), sul quale la Consulta ama intervenire.
I piccoli datori, peraltro, potrebbero essere soggetti perfino ad un incremento dell’aliquota
contributiva, in ragione del peculiare meccanismo di adeguamento amministrativo che tende
ad assicurare il pareggio finanziario del Fondo ( 26 ). Trasporre l’onere contributivo sulle sole
finanze dei piccoli datori esclusi dal trasferimento coatto del t.f.r., equivale a porre in pericolo l’esigenza (comunitariamente imposta) di
tutela del prestatore di lavoro e, al contempo
vulnera altresì anche il generale principio di solidarietà contributiva che, come visto nel secondo paragrafo ( 27 ), informa il sistema di previdenza sociale vigente, nonché la ragionevolezza
legislativa, alterando l’equa ripartizione degli
oneri tra tutti i soggetti che, pur in gradi differenti, sono destinatari della tutela.
5. – Forse dunque la norma avrebbe dovuto
essere diversamente congegnata. La frenetica
attività di adeguamento che derivò dalla istituzione del nuovo Fondo di tesoreria a portato il
legislatore ad eccedere rispetto a quanto dovuto. Il sistema di contribuzione al Fondo di garanzia doveva essere rivisto al fine di evitare
che i datori di grandi dimensioni fossero sottoposti al medesimo onere che gravava sui soggetti di minore dimensione. Diverso era divenuto, infatti, il rischio assicurato poiché l’insolvenza del piccolo datore avrebbe comportato
l’intervento del Fondo a copertura sia del t.f.r.
maturato che di quello maturando. Nel caso di
grande datore l’intervento sostitutivo sarebbe
stato invece limitato al solo t.f.r. già maturato.
È corollario del principio di eguaglianza che a
situazioni diverse devono conseguire diverse
regole. L’adeguamento, tuttavia, come cennato, non si limita ad una proporzionale riduzione del quantum contributivo. Si spinge invece
fino ad esentare totalmente i grandi datori da
qualsivoglia onere contributivo, fosse anche un
contributo parziale ad aliquota di mera solida-
( 25 ) Così Cinelli, Art. 1, in Cinelli (a cura di),
Disciplina delle forme pensionistiche complementari.
Commentario, in questa Rivista, 1995, p. 182.
( 26 ) Art. 2, comma 8o, l. 29 maggio 1982, n. 297.
( 27 ) Ma v. anche le nt. 25 e 26.
La nuova disciplina della previdenza complementare
rietà ( 28 ). È dunque possibile che possa essere
sollevata q.l.c. in ragione di quanto suesposto.
Giova precisare, infine, che rimane inalterata
( 28 ) L’individuazione legislativa del quantum contributivo non è censurabile sul piano della legittimità costituzionale ove risponda comunque all’interesse sotteso al prelievo: v. Corte cost. 8 giugno 2000,
n. 178, in Giur. cost., 2000, 3, p. 1571, con nota di
Cardoni. La Corte interverrebbe solo ove la solidarietà sia concretamente vulnerata da un prelievo inconsistente, di tipo meramente formale tale dunque
da svilire la ragione solidaristica per il tramite di una
aliquota minimale. Del resto anche il pronunciamento dal quale è scaturito il contributo di solidarietà
(Corte cost. 3 ottobre 1990, n. 427, in Foro it., 1991,
I, c. 2005) riteneva incostituzionale che le poste retributive destinate alla previdenza complementare
fossero « interamente esentate dalla contribuzione
alla previdenza pubblica ». Per un commento della
sentenza v. Pessi, La previdenza integrativa: identificazione funzionale e collocazione strutturale nell’assetto del rapporto previdenziale pubblico dopo la sentenza della Corte cost. n. 427/90 e Scognamiglio,
Base imponibile della contribuzione previdenziale e
745
la debenza contributiva nei confronti del fondo gemello che assicura i crediti di lavoro.
L’originaria previsione ( 29 ) ne faceva espressamente salvi gli effetti. L’inciso, tuttavia, era ridondante. Anche nell’impero del nuovo testo,
nonostante il silenzio in materia, non può che
sostenersi la permanenza dell’obbligo contributivo ( 30 ).
Donatello Garcea ( 31 )
contributi erogati dai datori di lavoro per la previdenza e assistenza privata, entrambe in Dir. lav., 1991, I,
pp. 93 e 420.
( 29 ) V. nt. 7.
( 30 ) Non può ipotizzarsi alcuna forma di abrogazione implicita, sia perché comunque l’obbligo al
Fondo ha comunque matrice comunitaria non derogabile, e sia perché non può evidenziarsi alcun effetto
di abrogazione implicita, regolando il Fondo in questione un aspetto non toccato dalla riforma.
( 31 ) Il presente scritto è frutto delle personali considerazioni dell’autore e non riflette l’ermeneusi dell’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Art. 11.
(Prestazioni)
1. Le forme pensionistiche complementari definiscono i requisiti e le modalità di accesso alle
prestazioni nel rispetto di quanto disposto dal presente articolo.
2. Il diritto alla prestazione pensionistica si acquisisce al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza, con almeno
cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari.
3. Le prestazioni pensionistiche in regime di contribuzione definita e di prestazione definita
possono essere erogate in capitale, secondo il valore attuale, fino ad un massimo del 50 per
cento del montante finale accumulato, e in rendita. Nel computo dell’importo complessivo
erogabile in capitale sono detratte le somme erogate a titolo di anticipazione per le quali non
si sia provveduto al reintegro. Nel caso in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il 70 per cento del montante finale sia inferiore al 50 per cento dell’assegno sociale di cui
all’articolo 3, commi 6 e 7, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la stessa può essere erogata in
capitale.
4. Le forme pensionistiche complementari prevedono che, in caso di cessazione dell’attività
lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi, le prestazioni pensionistiche siano, su richiesta dell’aderente, consentite con un anticipo massimo di
cinque anni rispetto ai requisiti per l’accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza.
5. A migliore tutela dell’aderente, gli schemi per l’erogazione delle rendite possono prevedere, in caso di morte del titolare della prestazione pensionistica, la restituzione ai beneficiari dal-
746
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
lo stesso indicati del montante residuo o, in alternativa, l’erogazione ai medesimi di una rendita calcolata in base al montante residuale. In tale caso è autorizzata la stipula di contratti assicurativi collaterali contro i rischi di morte o di sopravvivenza oltre la vita media.
6 ( 1 ) Le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di capitale sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta. Le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente
ai redditi già assoggettati ad imposta e a quelli di cui alla lettera g-quinquies) del comma 1
dell’articolo 44 del TUIR, e successive modificazioni, se determinabili. Sulla parte imponibile delle prestazioni pensionistiche comunque erogate è operata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per
ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali. Nel caso di prestazioni
erogate in forma di capitale la ritenuta di cui al periodo precedente è applicata dalla forma
pensionistica a cui risulta iscritto il lavoratore; nel caso di prestazioni erogate in forma di
rendita tale ritenuta è applicata dai soggetti eroganti. La forma pensionistica complementare
comunica ai soggetti che erogano le rendite i dati in suo possesso necessari per il calcolo della parte delle prestazioni corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta se determinabili.
7. Gli aderenti alle forme pensionistiche complementari possono richiedere un’anticipazione
della posizione individuale maturata:
a) in qualsiasi momento, per un importo non superiore al 75 per cento, per spese sanitarie a
seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche. Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, è applicata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15
per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di
riduzione di 6 punti percentuali;
b) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al 75 per cento, per l’acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile, o per la
realizzazione degli interventi di cui alle lettere a), b), c), e d) del comma 1 dell’articolo 3 del
testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, relativamente alla prima casa di abitazione, documentati come previsto dalla normativa stabilita ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della
legge 27 dicembre 1997, n. 449. Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad
imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento;
c) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al 30 per cento, per ulteriori
esigenze degli aderenti. Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, si
applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento;
d) le ritenute di cui alle lettere a), b) e c) sono applicate dalla forma pensionistica che eroga
le anticipazioni ( 2 ).
8. Le somme percepite a titolo di anticipazione non possono mai eccedere, complessivamente,
il 75 per cento del totale dei versamenti, comprese le quote del TFR, maggiorati delle plusvalenze tempo per tempo realizzate, effettuati alle forme pensionistiche complementari a decor( 1 ) Per il commento al comma 6o, v. Marchetti, Il trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare, in questo Commentario.
( 2 ) Per il commento al comma 7o, lett. a), 2o per.; lett. b), 2o per.; lett. c), 2o per.; lett. d), v. Marchetti, La
disciplina fiscale delle anticipazioni, in questo Commentario.
La nuova disciplina della previdenza complementare
747
rere dal primo momento di iscrizione alle predette forme. Le anticipazioni possono essere reintegrate, a scelta dell’aderente, in qualsiasi momento anche mediante contribuzioni annuali eccedenti il limite di 5.164,57 euro. Sulle somme eccedenti il predetto limite, corrispondenti alle
anticipazioni reintegrate, è riconosciuto al contribuente un credito d’imposta pari all’imposta
pagata al momento della fruizione dell’anticipazione, proporzionalmente riferibile all’importo
reintegrato ( 3 ).
9. Ai fini della determinazione dell’anzianità necessaria per la richiesta delle anticipazioni e
delle prestazioni pensionistiche sono considerati utili tutti i periodi di partecipazione alle forme pensionistiche complementari maturati dall’aderente per i quali lo stesso non abbia esercitato il riscatto totale della posizione individuale.
10. Ferma restando l’intangibilità delle posizioni individuali costituite presso le forme pensionistiche complementari nella fase di accumulo, le prestazioni pensionistiche in capitale e
rendita, e le anticipazioni di cui al comma 7, lettera a), sono sottoposti agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità in vigore per le pensioni a carico degli istituti di previdenza obbligatoria previsti dall’articolo 128 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827,
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 1935, n. 1155, e dall’articolo 2 del decreto
del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180, e successive modificazioni. I crediti relativi alle somme oggetto di riscatto totale e parziale e le somme oggetto di anticipazione di cui
al comma 7, lettere b) e c), non sono assoggettate ad alcun vincolo di cedibilità, sequestrabilità
e pignorabilità.
( 3 ) Per il commento al comma 8o, 2o e 3o per., v. Marchetti, La disciplina fiscale della reintegrazione delle
anticipazioni, in questo Commentario.
Le prestazioni di previdenza complementare
Sommario (art. 11, commi 1o-5o, 7o-10o): 1. Premessa.
– 2. L’ambito di applicazione della disciplina delle
prestazioni: con riferimento alle forme pensionistiche.
– 3. Segue: ... ed alla posizione degli aderenti. – 4. Le
tipologie di prestazioni che possono essere offerte dalle forme pensionistiche complementari in relazione
agli eventi protetti. – 5. Le prestazioni erogabili in caso di morte del titolare della prestazione pensionistica. – 6. I criteri di determinazione delle prestazioni
pensionistiche complementari: la permanenza del
principio di capitalizzazione e del criterio di corrispettività. – 7. I requisiti di accesso alle prestazioni
pensionistiche complementari per la vecchiaia: i requisiti ordinari. – 8. Segue: ... e quelli anticipati. – 9.
Le modalità ed i limiti all’erogazione delle prestazioni
in capitale o rendita. – 10. Il regime delle anticipazioni. – 11. Il rafforzamento della tutela della posizione
pensionistica complementare: l’intangibilità nella fase
di accumulo. – 12. Segue: ... i limiti alla cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità delle prestazioni pensionistiche complementari. – 13. Segue: ... e l’esclusione
da tali limiti.
1. – L’art. 11 del d.lgs. n. 252/05 definisce la
disciplina delle prestazioni pensionistiche com-
plementari con una serie di norme che, tanto
nei loro aspetti di continuità con la disciplina
del 1993 che in quelli di parziale allontanamento o innovazione, assumono particolare rilevanza nel sistema della previdenza complementare.
Anzitutto, la disciplina delle prestazioni rappresenta l’architrave del rapporto giuridico previdenziale tra l’iscritto e la forma pensionistica
complementare, ed offre fondamentali indicazioni sulla collocazione della previdenza complementare in rapporto alla previdenza obbligatoria.
Ma la disciplina delle prestazioni determina
anche « che cosa » e « quanto » le forme pensionistiche possono offrire agli iscritti, incidendo sulla desiderabilità della previdenza complementare da parte del pubblico dei destinatari e
quindi influenzando in modo cruciale la scelta
relativa all’adesione.
Considerata la centralità della disciplina delle
prestazioni, stupisce la relativamente scarsa at-
748
d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
tenzione che essa ha ricevuto dal legislatore delegante chiamato a delineare i principi ed i criteri direttivi per la costruzione del sistema della
previdenza complementare. Già la legge delega
n. 421/92 ( 4 ) si era limitata, pur nel contesto di
direttive a dir poco scarne nel loro complesso ( 5 ), ad indicare le sole linee guida della complementarietà dei trattamenti al sistema obbligatorio pubblico e del metodo della capitalizzazione ( 6 ), affidando quindi le altre scelte fondanti del regime delle prestazioni alle determinazioni del legislatore delegato, cui avevano fatto seguito successivi interventi normativi e
pronunce della Corte costituzionale.
Anche la legge delega n. 243/04, che pure ha
definito con maggior dettaglio gli interventi da
attuare sul sistema esistente per « sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari » ( 7 ), è stata avara di indicazioni specifiche in tema di prestazioni. L’art. 1, comma
2o, ha infatti limitato i principi e criteri direttivi
alla previsione dell’« assoggettamento delle prestazioni di previdenza complementare a vincoli
in tema di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità analoghi a quelli previsti per la previdenza
di base ».
Pur in assenza di principi e criteri direttivi esplicitamente innovativi del regime esistente, non si
deve però sottovalutare che le scelte del legislatore delegato in materia di prestazioni sono state comunque influenzate dalle altre novità
( 4 ) L. 23 ottobre 1992, n. 421, « Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di
previdenza e di finanza territoriale », pubblicata in
G.U. n. 257 del 31 ottobre 1992, s.o.
( 5 ) V. Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, in Id. (a cura di), La previdenza complementare nella riforma del welfare, Milano, 2000, p. 3
ss.
( 6 ) L’art. 3, comma 1o, lett. v), delegava il Governo a disciplinare la costituzione di forme di previdenza « per l’erogazione di trattamenti pensionistici
complementari al sistema obbligatorio pubblico (...),
con l’osservanza di sistemi di capitalizzazione ».
( 7 ) L. 23 agosto 2004, n. 243, « Norme in materia
pensionistica e deleghe al Governo nel settore della
previdenza pubblica, per il sostegno della previdenza
complementare ed all’occupazione stabile e per il
riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria », pubblicata in G.U. n. 222 del 21 settembre
2004.
della l. n. 243/04. Ci si riferisce, in particolare,
alla delega a definire « regole comuni » per eliminare gli ostacoli alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della
previdenza complementare ( 8 ), con conseguente equiparazione tra le diverse forme pensionistiche ( 9 ) anche sul piano delle prestazioni erogabili; o ancora alla delega a disciplinare il conferimento tacito del t.f.r., garantendo una adeguata informativa del lavoratore, tra l’altro, sulle « condizioni per il recesso anticipato » ( 10 ).
In tale contesto, l’interprete che voglia cimentarsi in un’analisi dell’art. 11 del d.lgs. n. 252
deve quindi fare propria una doppia chiave di
lettura. Da un lato, l’assenza della volontà del
legislatore delegante di riformare il regime delle
prestazioni impone di muoversi nel solco di una
necessaria continuità con le scelte già cristallizzatesi nell’ordinamento della previdenza complementare, anche per scongiurare il rischio di
censure di illegittimità costituzionale per eccesso di delega ( 11 ). Dall’altro, però, non è neppure
possibile disconoscere l’impatto, sia pure indiretto, che altri profili della riforma hanno avuto
sulla disciplina delle prestazioni.
Tenendo sullo sfondo questo duplice referen-
( 8 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 4) della l. n. 243/
04.
( 9 ) V. Tursi, La terza riforma della previdenza
complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev.
ass. pubbl. priv., 2005, III, pp. 513 ss., che individua
quale « dato più qualificante della riforma » proprio
la nuova « dislocazione sistematica della materia »
con la piena inclusione delle forme pensionistiche individuali nel novero delle forme pensionistiche complementari originariamente previste dal d.lgs. n. 124/
93 (così a p. 514).
( 10 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 1) della l. n. 243/
04.
( 11 ) Sull’opportunità di una « lettura continuista »
del d.lgs. n. 252/05 v. Pandolfo, Prime osservazioni
sulla nuova legge sulla previdenza complementare a
mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in
Prev. ass. pubbl. priv., 2006, pp. 145 ss. e Bonardi,
sub art. 1, in questo Commentario. Entrambi gli autori evidenziano come il d.lgs. n. 252/05, che ha rinunciato a richiamare nel suo preambolo la delega alla
predisposizione di un testo unico in materia di previdenza complementare, trovi il proprio fondamento
solo nei principi e criteri direttivi di cui ai commi 1o e
2o dell’art. 1 della l. n. 243/04, con conseguente necessità di limitare la sua portata innovativa agli ambiti
oggetto di tale delega.
La nuova disciplina della previdenza complementare
te di continuità ed innovazione, si potrà quindi
cercare non soltanto di proporre una soluzione
ad alcuni problemi interpretativi sollevati dal
nuovo art. 11, ma anche provare ad enucleare,
all’interno di tale disciplina, alcuni spunti per
valutare la natura e la collocazione costituzionale della previdenza complementare dopo la sua
« terza riforma ».
2. – Un primo dato di sistema che deve essere
verificato prima di esaminare nel dettaglio la disciplina delle prestazioni è quello del suo ambito di applicazione all’interno del nuovo assetto
delineato dal d.lgs. n. 252/05, con riferimento
tanto alle diverse forme pensionistiche che alla
posizione degli aderenti.
Si tratta di una verifica che porta anzitutto a
registrare un significativo elemento di novità, rispetto al d.lgs. n. 124/93, per quanto attiene al
novero delle forme pensionistiche cui troverà
applicazione la disciplina dell’art. 11.
Com’è noto, nell’assetto del d.lgs. n. 124/93 –
frutto di interventi normativi « stratificatisi »
nel tempo – si poteva registrare una distinzione
tra il regime delle prestazioni dei fondi pensione
(negoziali ed aperti) e delle forme pensionistiche individuali (attuate mediante l’adesione ai
fondi pensione aperti o mediante contratti di assicurazione sulla vita) ( 12 ).
Le prestazioni erogate dai fondi pensione negoziali ed aperti erano infatti disciplinate dall’art. 7 del d.lgs. n. 124 ( 13 ). Le forme pensionistiche individuali erano invece assoggettate ad
( 12 ) Si fa ovviamente riferimento al testo del d.lgs.
n. 124/93 risultante dalle modifiche introdotte dal
d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 (« Riforma della disciplina fiscale della previdenza complementare, a norma dell’art. 3 della l. 13 maggio 1999, n. 133 », pubblicato in G.U. n. 57 del 9 marzo 2000, s.o.), che aveva introdotto nel sistema della previdenza complementare « forme di risparmio individuali vincolate a
finalità previdenziali » (sull’impatto di tale intervento
v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema
italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, pp. 405 ss.;
nonché Id., La previdenza pensionistica privata: forme
complementari e forme individuali, in Riv. dir. sic.
soc., 2002, pp. 111 ss.).
( 13 ) All’art. 7 faceva infatti implicito rinvio l’art. 9
del d.lgs. n. 124/93, nel confermare anche per i fondi
aperti « l’applicazione delle norme del presente decreto legislativo in tema di finanziamento, prestazioni
e trattamento tributario ».
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una autonoma disciplina delle prestazioni, solo
in parte coincidente con quella dell’art. 7 ( 14 ).
Tale diversa disciplina si concretava, in particolare, nell’impossibilità per gli aderenti alle forme
pensionistiche individuali di richiedere anticipazioni dei contributi accumulati per far fronte a spese sanitarie o relative alla casa di abitazione, essendo ammesso in tale ipotesi solo il riscatto totale o
parziale della posizione ai sensi dell’art. 10, comma 1o bis, del d.lgs. n. 124/93 ( 15 ).
( 14 ) Per le forme pensionistiche complementari attuate mediante adesione ai fondi aperti, l’art. 9 bis del d.lgs. n. 124/93 delineava in modo autonomo il regime delle prestazioni, individuando i requisiti di accesso (prima parte del comma 4o, che riproponeva le medesime
norme dell’art. 7, comma 2o, ad eccezione della possibilità di introdurre forme di graduazione dei requisiti
in ragione dell’anzianità maturata), prevedendo il divieto di anticipazioni (seconda parte del comma 4o) e consentendo la liquidazione della prestazione pensionistica in forma di capitale (comma 6o). V. in materia anche
la deliberazione COVIP n. 820 dell’11 ottobre 2000,
« Orientamenti in materia di regolamenti dei fondi pensione aperti: modifiche conseguenti all’introduzione delle forme pensionistiche individuali di cui al d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 ». In dottrina, v. Zampini, La previdenza complementare, cit., pp. 301 ss.
A sua volta, l’art. 9 ter del d.lgs. 124/93 prevedeva
che le forme pensionistiche individuali attuate mediante contratti di assicurazione sulla vita garantissero le prestazioni di cui all’art. 9 bis, comma 4o, secondo le modalità ivi previste, e consentissero le facoltà
di prosecuzione volontaria e di liquidazione in capitale di cui ai commi 5o e 6o del medesimo articolo.
( 15 ) L’art. 10, comma 1o bis prevedeva infatti che
« il riscatto anche parziale della posizione individuale
maturata nelle forme pensionistiche individuali di cui
agli artt. 9 bis e 9 ter è consentito soltanto nelle ipotesi previste dal comma 4o dell’articolo 7 ». La diversa natura dell’anticipazione e del riscatto, pur aventi
una simile finalità di tutela di situazioni di bisogno
sorta prima della maturazione dei requisiti di accesso
alla prestazione, è illustrata da Volpe Putzolu, Le
forme pensionistiche individuali, in Bessone e F. Carinci (a cura di), Diritto del lavoro. Commentario, V,
La previdenza complementare, Torino, 2004, pp. 427
ss. In sintesi, mentre l’anticipazione consente di disporre immediatamente di una parte del risparmio
previdenziale accantonato, con facoltà di reintegrare
la posizione individuale e senza risolvere il rapporto
previdenziale, il riscatto ha la natura di un vero e proprio recesso (totale o parziale) dal fondo, senza diritto alla reintegrazione (ma solo alla possibilità di ricostituire la posizione modulando i successivi flussi
contributivi).
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d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252
Nel d.lgs. n. 252/05, invece, la scelta di sistema di equiparare le forme pensionistiche si è
tradotta anche nella tendenziale unificazione,
salve alcune limitate eccezioni, del regime delle
prestazioni. Non solo infatti l’art. 12, riprendendo una norma già presente nel d.lgs. n. 124/
93, ha confermato l’applicabilità delle norme
sulle prestazioni ai fondi aperti. L’art. 13 ha anche previsto « l’applicazione delle norme del
presente decreto legislativo in tema di finanziamento, prestazioni e trattamento tributario »
per le forme pensionistiche individuali.
Rinviando ogni più approfondita considerazione al commento a tali articoli, si può subito
osservare come la norma consentirà anche ai
soggetti non titolari di un reddito di lavoro o di
impresa di richiedere l’anticipazione della posizione maturata al verificarsi di una delle ipotesi
dell’art. 11, comma 7o ( 16 ), tra l’altro beneficiando del nuovo e più favorevole regime fiscale
ad essa connesso (v. Marchetti, sub art. 11,
comma 6o, in questo Commentario).
Anche questa norma contribuisce dunque a
costruire quell’impianto di sistema che, equiparando pienamente le forme pensionistiche complementari, sfuma fin quasi ad annullarla la distinzione tra previdenza dei soggetti in condizione professionale e soggetti in condizione non
professionale, e quindi tra secondo e terzo pilastro previdenziale ( 17 ).
Accanto al dato dell’intervenuta uniformazione tra forme collettive ed individuali, l’iniziale
verifica sull’ambito di applicazione della disciplina delle prestazioni porta però a riscontrare
anche l’esistenza di forme pensionistiche che,
almeno in alcune ipotesi, possono sottrarsi ad
essa.
Si tratta, in particolare, delle forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore della l. n. 421/92 (c.d. fondi preesistenti) (v. Occhino, sub art. 20, in questo Commentario): questi, se gestiti in via prevalente secondo il sistema della ripartizione e se in condi( 16 ) Facoltà questa che è espressamente contemplata negli schemi di regolamento adottati dalla COVIP con la delibera del 31 ottobre 2006, cui dovranno uniformarsi i fondi pensione aperti e le forme
pensionistiche individuali attuate mediante contratti
di assicurazione sulla vita.
( 17 ) Vedi Tursi, La terza riforma della previdenza
complementare, cit., p. 518.
zione di accertato squilibrio finanziario, potranno continuare, sotto la propria responsabilità, a
derogare agli artt. 8 ed 11 del d.lgs. n. 252/05
(art. 20, comma 7o).
Sempre in deroga all’art. 11, nell’ipotesi in cui
tali fondi garantiscano prestazioni pensionistiche definite di anzianità e vecchiaia, l’accesso al
trattamento complementare sarà consentito solo in caso di liquidazione del trattamento obbligatorio (art. 20, comma 6o).
Infine, i lavoratori assunti prima del 29 aprile
1993 ed a tale data già aderenti ad un fondo
preesistente potranno richiedere la liquidazione
della prestazione in capitale anche al di fuori
dei limiti previsti dall’art. 11, il cui regime sarà
loro applicabile solo a seguito di una specifica
manifestazione di volontà (art. 23, comma 7o).
3. – L’analisi sull’ambito di applicazione dell’art. 11 può poi arricchirsi di un riferimento alla
posizione degli aderenti in rapporto al momento
di entrata in vigore della nuova disciplina.
L’art. 23, comma 1o, del d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.l. n. 279/06 e dalla successiva legge di conversione) prevede che le norme
del decreto, salve alcune eccezioni tra le quali
non è contemplato il regime delle prestazioni,
« entra[no] in vigore il 1o gennaio 2007 ». Né
l’articolo introduce disposizioni transitorie in
materia di prestazioni, se non ai soli fini fiscali ( 18 ).
Per effetto di queste previsioni, il nuovo regime (ed in particolare i più severi requisiti di accesso ai trattamenti pensionistici, v. infra, par.
7) diverrà quindi immediatamente applicabile a
tutti gli aderenti a forme pensionistiche ( 19 ), con
( 18 ) Si tratta del comma 5o dell’art. 23, a mente del
quale alle prestazioni maturate dagli iscritti alla data
di entrata in vigore del decreto continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti, ad eccezione della riliquidazione dell’imposta in base all’aliquota media
di tassazione dei cinque anni precedenti di cui all’art.
20, comma 1o, secondo periodo, del t.u. delle imposte sui redditi.
( 19 ) Immediatezza che, secondo la delibera COVIP del 28 aprile 2006, deve intendersi come automatica applicabilità « anche in mancanza dell’adeguamento della documentazione contrattuale ». In
senso contrario v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 197, secondo il quale si dovrebbe invece escludere una « diretta conformazione degli ordinamenti delle forme pensionistiche ».
La nuova disciplina della previdenza complementare
la sola eccezione di coloro che abbiano già acquisito il diritto alle prestazioni nel vigore della
previgente disciplina.
Si pone quindi, a questo proposito, il problema di individuare la fattispecie in presenza della
quale si possa dire già sorto, sulla base del d.lgs.
n. 124/93, il diritto soggettivo alla prestazione
di previdenza complementare.
A riguardo, possono essere utili le indicazioni
fornite dalla COVIP la quale, con la delibera
del 28 giugno 2006, ha specificato che « continuano a trovare applicazione le previgenti disposizioni normative (di cui al decreto n.
124/93) relativamente alle prestazioni maturate
alla data del 31 dicembre 2007 [oggi da leggere
2006], intendendosi per tali quelle per cui, entro tale data, siano stati conseguiti tutti i requisiti di accesso e sia stato esercitato il relativo diritto da parte dell’interessato mediante specifica
richiesta ».
Si tratta di indicazioni coerenti con la natura
di diritto potestativo alle prestazioni che l’iscritto vanta nei confronti della forma pensionistica ( 20 ) e con gli spunti ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale ( 21 ). Esse, inoltre, hanno il
pregio di fare proprio il principio, 
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