ISSN 0391-3740 N. 3-4 Maggio - Agosto RIVISTA BIMESTRALE a cura di Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano. GIORGIO CIAN ALBERTO MAFFEI ALBERTI PIERO SCHLESINGER LE NUOVE LEGGI CIVILI COMMENTATE - ANNO XXX - 2007 - N. 3-4 LE NUOVE LEGGI CIVILI COMMENTATE Direzione: P. AUTERI - C.M. BIANCA - E. BOCCHINI G. CAIA - F. CIPRIANI - R. DE LUCA TAMAJO A. DI PIETRO - P. FILIPPI - N. LIPARI - S. Menchini M. NAPOLI - G. SANTORO PASSARELLI A. TRAVI - A. ZACCARIA Comitato scientifico: F.D. Busnelli - S. Cassese - G. Cottino G. Falcon - E. Fazzalari - G. Giugni - N. Irti M. Libertini - P. Marchetti - G. Minervini M. Persiani - U. Pototschnig P. Rescigno - T. Treu Redattore capo: Simonetta Baldi D 66,00 ANNO XXX 2007 –La nuova disciplina della previdenza complementare (d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252) I commentari 1) La nuova disciplina della previdenza complementare (d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 537 LA NUOVA DISCIPLINA DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE (d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 « Disciplina delle forme pensionistiche complementari », in G.U. n. 289, s.o. n. 200, del 13 dicembre 2005) Commentario sistematico a cura di Armando Tursi, professore nella Università degli Studi di Milano Con la collaborazione di: Andrea Bollani, prof. nell’Univ. di Pavia; Olivia Bonardi, prof. nell’Univ. di Milano; Raffaele Bruni, esperto e consulente; Matteo Corti, dell’Univ. Cattolica di Milano; Vincenzo Ferrante, prof. nell’Univ. Cattolica di Piacenza; Lorenzo Frignati, esperto e consulente; Donatello Garcea, funz. della dir. gen. INPS; Fabio Marchetti, prof. nell’Univ. Luiss-Guido Carli di Roma; Ferdinando Montaldi, dirigente Enpals, ex dirigente COVIP; Antonella Occhino, prof. nell’Univ. Cattolica di Milano; Massimo Pallini, prof. nell’Univ. di Milano; Eugenio Ruggiero, prof. a contratto nelle Univ. Lumsa di Roma e Luiss-Guido Carli di Roma; Michele Squeglia, prof. a contratto nelle Univ. di Milano e Milano-Bicocca; Silvia Tozzoli, dottore di ricerca Note introduttive: la terza riforma della previdenza complementare Sommario: 1. Presentazione del commentario. – 2. L’obiettivo sistematico centrale della riforma: la costruzione di un regime unico, omogeneo e concorrenziale di « forme pensionistiche complementari ». – 3. La collocazione costituzionale della previdenza complementare, tra « obbligatorietà » ed « effettività » della tutela. – 4. Valorizzazione della libertà individuale e « mercato » della previdenza complementare: le tracce (da cancellare) di un « pregiudizio eteronomo » nei confronti dell’autonomia collettiva. – 5. L’adesione tramite « conferimento tacito » del t.f.r.: una proposta ricostruttiva in termini strettamente negoziali. – 6. Equivoci, contraddizioni e soluzioni interpretative, nel nuovo assetto delle fonti istitutive. – 7. Ancora equivoci, lacune e problemi interpretativi in tema di « portabilità » del contributo datoriale. – 8. Pensionamento anticipato e anticipazione della posizione individuale maturata. Il t.f.r. come cancello istituzionale per l’introduzione del « secondo pilastro » previdenziale. – 9. I maggiori vincoli in tema di riscatti e trasferimenti. – 10. La « dimensione comunitaria » del decreto. 1. – A distanza di 2 anni e mezzo dal varo della legge delega, ma con un anno di anticipo ri- spetto alla data inizialmente prevista ( 1 ), entra in vigore la « terza riforma » ( 2 ) della previdenza complementare, e con essa l’esperienza avviata nell’ormai lontano 1993 entra, almeno dal punto di vista normativo, nella fase della « maturità ». L’ultima fase di questo processo riformatore è stata particolarmente concitata. Si è passati, nel giro di poche settimane (quelle a ridosso dell’elaborazione e approvazione della legge finanziaria per il 2007 »), dalla prospettiva di un tranquillizzante rodaggio operativo e di una meditata assimilazione culturale da parte dei lavoratori e delle imprese, all’avvio praticamente « a freddo » della riforma: basti osservare che il se- ( 1 ) V. Squeglia, sub art. 23, comma 1o, in questo Commentario. ( 2 ) V. Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, p. 513 ss. 538 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 mestre in cui era destinata a consumarsi la scelta, per i lavoratori in servizio, di conferire o meno il t.f.r. alle forme pensionistiche complementari, è iniziato a decorrere prima, e non dopo, che si fosse potuto procedere all’adeguamento « certificato » (dalla COVIP) alla nuova disciplina legislativa, sia da parte delle forme pensionistiche già istituite in conformità al d.lgs. n. 124/93, sia da parte delle forme pensionistiche cdd. « preesistenti », ossia istituite alla data di entrata in vigore della l. n. 421/92 ( 3 ). Come se non bastasse, la l. n. 296/06 (cd. « legge finanziaria per il 2007) », mentre anticipava di un anno l’entrata in vigore della riforma, vi apportava numerose modifiche, in più punti, e istituiva, limitatamente ai datori di lavoro con almeno 50 addetti, uno specifico « fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto », evidentemente destinato a incrociare la disciplina del conferimento del t.f.r. alla previdenza complementare ( 4 ). Infine, l’anticipata entrata in vigore della riforma ha coinciso con il positivo esito di un’altra, parallela vicenda normativa, di radice comunitaria, cui quella principale – oggetto precipuo di questo commentario – ha fatto ombra nel dibattito politico e dottrinale: si tratta dell’attuazione della dir. 2003/41/CE, relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali ( 5 ). Di quest’ultimo provvedimento ( 6 ), pubblicato mentre il presente commentario veniva licenziato per la stampa – si è potuto tener conto solo in parte e con discontinua analiticità nei diversi contributi: maggiore e quasi esaustiva, con riferimento all’impatto sulla disciplina dei mo( 3 ) V. Montaldi, sub art. 23, comma 3o ss., in questo Commentario; Occhino, sub art. 20, comma 1o ss., in questo Commentario. ( 4 ) V., in proposito, Ferrante, sub art. 8, comma 7o, in questo Commentario; Garcea, sub art. 10, comma 2o, in questo Commentario. ( 5 ) V., in dottrina, Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, 55; Sgroi, La trasferibilità della posizione previdenziale individuale nel mercato comune, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 83 ss. ( 6 ) D.lgs. n. 28/07, pubbl. in G.U. n. 70, del 23 marzo 2007. delli gestionali ( 7 ); episodica e non organica, con riferimento all’attività transfrontaliera ( 8 ). I profili sanzionatori, invece, che pure costituiscono uno specifico e corposo filone normativo del decreto in parola ( 9 ), sono stati trattati con approccio inusuale, ma utile quantomeno in chiave pratico-operativa: confermando una scelta ricorrente nei commentari di livello scientifico, si è infatti deciso di limitare l’analisi a due soli blocchi disciplinari, quello lavoristico-previdenziale e quello tributario ( 10 ), tralasciando le disposizioni di carattere sanzionatorio, in specie quelle penali. Il notevole rilievo pratico di tali norme, tuttavia, ha consigliato di includere nel commentario una sorta di sinossi destinata ad offrire al lettore (non specialista) un quadro essenzialmente descrittivo, privo di pretese critico-ricostruttive, dell’apparato sanzionatorio, come innovato dal decreto attuativo della cennata direttiva comunitaria. Nonostante le richiamate limitazioni, questo commentario ha un impianto organico e generale, quanto organico e di amplissimo raggio è il provvedimento legislativo che ne costituisce l’oggetto: un decreto legislativo – il d.lgs. n. 252/05 (d’ora in avanti: decreto) – al quale la legge delega consegnava l’obiettivo generale di « sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari », ma che nel contempo, senza per questo eccedere dai limiti della delega, ha trasfuso in un nuovo testo organico la disciplina della previdenza complementare, sostituendo il d.lgs. n. 124/93 ( 11 ). Si trattava di innestare sull’esistente tronco normativo le misure e i rimedi necessari per fare del « secondo pilastro » del sistema previdenziale italiano, da realtà poco più che virtuale, una presenza di assoluto rilievo non solo nel sistema previdenziale, ma anche nel mercato dei capitali. A tal fine, a quell’obiettivo generale veniva asservito l’obiettivo più specifico e preciso, ( 7 ) V. Corti, sub artt. 6, 7, 7 bis, in questo Commentario. ( 8 ) Vedine cenni in Bollani, sub art. 4; Pallini, sub art. 14; Montaldi, sub art. 19; nonché passim. ( 9 ) Si tratta dei nuovi artt. 19 bis, 19 ter e 19 quater del d.lgs. n. 252/05. ( 10 ) Affidato a Marchetti, di cui v. i commenti ai pertinenti commi degli artt. 8, 10, 11, 14, 17, 21, 23. ( 11 ) V. Occhino, sub art. 21, comma 8o, in questo Commentario. La nuova disciplina della previdenza complementare di « incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari... ». Lo strumento a ciò deputato veniva individuato nel conferimento volontario, esplicito o cd. « tacito », del trattamento di fine rapporto (d’ora in avanti: t.f.r.) alla previdenza complementare, prefigurandosi così, sia pure in maniera non obbligatoria, quella « previdenzializzazione » del t.f.r. che da tempo si intravedeva come approdo ultimo dell’istituto ( 12 ). Ma questo è solo il profilo politicamente più rilevante della riforma. Molti altri ve ne sono, di rilievo sistematico e problematicità non certo minori. E molti altri ancora avrebbero potuto, e forse dovuto, esservene. Anzi, è il caso di osservare fin d’ora come la centralità politica del tema del conferimento del t.f.r. alla previdenza complementare abbia prodotto un effetto perverso: quello di monopolizzare l’attenzione del legislatore, il quale si è dimostrato assai poco avvertito che la previdenza complementare è un terreno ancora da dissodare, la cui immaturità sul piano dell’elaborazione teorico-sistematica e delle stesse basi costituzionali si riflette inesorabilmente sul piano esegetico e pratico-operativo. Di ciò è chiaro indizio la rinuncia del legislatore delegato a dar seguito a quella parte della delega ( 13 ) che gli chiedeva, contraddittoriamente, di attribuire ai fondi pensione la « contitolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione », e la « legittimazione dei fondi stessi... a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi... ». Non c’è da stupirsi dell’impasse: ché quello della natura giuridica (e dunque della stessa titolarità) dei contributi di previdenza complementare, e della disciplina giuridica da applicarsi conseguentemente, era e rimane, uno dei problemi sostanzialmente ancora aperti in materia ( 14 ). Come pure, non meno insidioso era il tema delle prestazioni: un tema che il legislatore ha affrontato con riguardo pressoché esclusivo alla ( 12 ) Per tutti, Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova, 2006, p. 570. ( 13 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 8). ( 14 ) Se ne occupa, in questo Commentario, Ferrante, sub art. 8. Per i profili fiscali, trattati nei commi 4o, 5o e 6o di questo articolo, v., sempre sub art. 8, il commento di Marchetti. 539 definizione tipologica e dei requisiti di maturazione dei diritti pensionistici e di quelli preliminari e propedeutici a questi ( 15 ), trascurando quasi del tutto i profili di stretto regime giuridico della prestazione pensionistica, se non, in ossequio alla delega e non senza una certa superficialità, limitatamente a quelli della cedibilità, sequestrabilità, pignorabilità, da assimilarsi al regime delle prestazioni di base ( 16 ). 2. – Nonostante le lacune ricordate nella presentazione, i profili implicati nel disegno riformatore non si limitano certo al conferimento del t.f.r. Al medesimo obiettivo specifico di « incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari », di cui la cennata « previdenzializzazione del t.f.r. » costituiva strumento principale, si riconducevano, infatti, altre misure finalizzate alla realizzazione della piena concorrenzialità tra tutte le forme pensionistiche complementari, previa « eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare », e riconoscimento al lavoratore del diritto di destinare alla forma pensionistica prescelta il contributo posto, dalle fonti istitutive delle forme pensionistiche collettive, a carico del datore di lavoro ( 17 ). E anzi, i temi della concorrenza tra forme collettive e forme individuali, e della libertà individuale di adesione e circolazione all’interno del « circuito allargato » della previdenza complementare, erano nella legge delega ( 18 ), e si sono ( 15 ) Si allude al regime, oltre che delle prestazioni complementari propriamente intese (ivi incluse le prestazioni pensionistiche anticipate), a quelle erogate in forma di capitale, e alle anticipazioni della posizione pensionistica maturata: materia, questa, disciplinata dall’art. 11, su cui v. il commento di Tozzoli. In senso ancora più ampio (ma sicuramente atecnico), si possono poi ricondurre alla nozione di « prestazione » anche i riscatti, disciplinati dall’art. 14, commi 2o e 3o (4o e 5o per i profili fiscali). Vedi, i commenti, rispettivamente, di Pallini e Ruggiero, entrambi sub art. 14, in questo Commentario. ( 16 ) V. il commento di Tozzoli, sub art. 11, comma 10o. ( 17 ) V. i nn. 3) e 4) della lett. e) del comma 2o, art. 1, l. n. 243/04 (d’ora in avanti, l.d.). ( 18 ) V., per tutti, Persiani, La previdenza comple- 540 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 confermati essere nel decreto attuativo, tra i più critici, anche per la forti interconnessioni con la dimensione comunitaria del problema. È stato alfine realizzato quel programma di riunificazione di tutte le forme pensionistiche complementari, collettive e individuali, prefigurato dal d.lgs. n. 47/00: adesso è pacifico che tra le « forme pensionistiche complementari » disciplinate ab origine dal d.lgs. n. 124/93, e le « forme pensionistiche individuali » introdotte dal d.lgs. n. 47/00, non si pone un rapporto di complementarità, ma di continenza (delle seconde nelle prime). È stato definitivamente spezzato l’equilibrio sul quale si basava l’impianto originario della nostrana previdenza complementare: un equilibrio che poggiava sulla distinzione funzionale tra le « forme pensionistiche complementari », destinate esclusivamente a soggetti in condizione professionale, e le « forme pensionistiche individuali », destinate, invece, sia a soggetti in condizione professionale ma privi della possibilità di aderire a forme collettive, sia a soggetti in condizione non professionale ( 19 ). Si è in suo luogo creato un mercato – imperfetto e asimmetrico – della previdenza complementare, che opera su due arene: quella della gestione finanziaria dei capitali accumulati, in cui competono ordinariamente i soli soggetti for profit a ciò abilitati ( 20 ); e quella in cui prendono corpo, con modalità eterogenee (tramite aggregazione collettiva o tramite filiazione interna a soggetti for profit), le forme e le strutture deputate a far da tramite tra la prima arena e i destinatari della previdenza complementare (i fondi pensione) ( 21 ): la zona, si direbbe, eminentemente (ma mentare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Arg. dir. lav., 2001, pp. 715 ss. ( 19 ) Per questa ricostruzione, ancora sostenibile in vigenza del d.lgs. n. 47/00, v. Tursi, La previdenza pensionistica privata: forme complementari e forme individuali, in Riv. dir. sic. soc., n. 1/02, p. 111 ss. ( 20 ) V. gli artt. 6, 7, 7 bis del decreto, commentati da Corti. La nuova disciplina di matrice comunitaria ha imposto tuttavia, su questo punto, una maggiore apertura verso la gestione diretta delle risorse da parte dei fondi pensione. V. avanti, par. 10. ( 21 ) La forzatura insita nell’assimilazione tra le forme collettive e quelle individuali è palese nella pretesa di battezzare come « fondi pensione » anche le forme pensionistiche complementari istituite me- non più esclusivamente) « lavoristica » della materia. È proprio in questa nuova dislocazione sistematica della materia che risiede, a ben vedere, il dato più qualificante della riforma: è da esso che derivano, come corollari, la possibilità di aderire a una forma individuale anche qualora sia applicabile al rapporto di lavoro una fonte istitutiva di una forma collettiva; il principio della cd. « portabilità » del contributo datoriale stabilito dalla fonte collettiva, in caso di adesione espressa o trasferimento a una forma pensionistica individuale ( 22 ); la omogeneizzazione delle diverse forme pensionistiche in materia di trasparenza e comparabilità; la razionalizzazione, in termini di unitarietà e omogeneità, del sistema di vigilanza sull’intero settore della previdenza complementare ( 23 ); in qualche misura, lo stesso ridisegno della disciplina fiscale e (ma in modo del tutto insufficiente, per questo aspetto) del sistema di governance. 3. – Le questioni esegetiche e i nodi problematici affrontati nel commentario sono innumerevoli, e non è certo possibile né utile ripercorrerli tutti in questo scritto introduttivo. È invece utile tentare di isolare le questioni centrali, di maggiore rilievo sistematico e anche costituzionale, che il decreto ha ereditato, in parte, dall’assetto normativo preesistente, e in parte dalla legge delega. La questione forse cruciale, com’è ampiamente noto, era e resta quella del fondamento costituzionale della previdenza complementare ( 24 ). Non stupisca il lettore se, in questa sede, ci si limita ad una osservazione lapidaria, ma che ci sembra riassumere lo stato dell’arte sia normativo che dottrinale sul punto: la questione, se impostata nei termini dicotomici della ascrizione alternativa al 2o o al 5o comma dell’art. 38 Cost., col corollario altrettanto polarizzato della vo- diante contratti di assicurazione sulla vita con finalità previdenziale (v. artt. 1, comma 4o, e 13). ( 22 ) V., su questi profili, i commenti di Pallini, sub artt. 12, 13 e 14. ( 23 ) V. Montaldi, sub art. 19, in questo Commentario. ( 24 ) V., da ult., anche per i riferimenti bibliografici, Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004. La nuova disciplina della previdenza complementare lontarietà o della obbligatorietà dell’adesione, è semplicemente irrisolvibile; o forse meglio: mal posta. Ci sembra, insomma, che anche le analisi condotte in questo commentario finiscano per confermare – sia pure talvolta con una certa prevalenza di accenti critici o perplessi ( 25 ) – che la domanda giusta da porre onde inquadrare correttamente e costruttivamente il problema della rilevanza costituzionale della previdenza complementare non sia tanto « come conciliare la necessità costituzionale della previdenza sociale con la sua facoltatività, quanto « come rendere effettivo un pilastro di previdenza “sociale-privata” » ( 26 ). Questo è un approccio al tema, che si rivela particolarmente fecondo: lo dimostrano, per esempio, le conclusioni cui pervengono le analisi che evidenziano, per un verso, l’incompletezza (anche sotto il profilo istituzionale-normativo) del grado di copertura della previdenza complementare a cospetto della frammentazione tipologica del mondo del lavoro ( 27 ), e per l’altro, il persistente deficit di democrazia economica che caratterizza la previdenza complementare, sia sotto il profilo finanziario ( 28 ), che sotto il profilo della governance ( 29 ). Sotto un diverso profilo, un approccio alla rilevanza costituzionale della previdenza complementare declinato in termini di « effettività » della tutela, consente di inquadrare correttamente i problemi di qualificazione e trattamento giuridico della prestazione complementare, ponendone in rilievo la specificità e peculiarità rispetto (non solo a quelli della retribuzione, ma ( 25 ) V. soprattutto Bonardi, sub art. 1; ma anche Tozzoli, sub art. 11. ( 26 ) V., su tale linea di pensiero, Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in Bessone e F. Carinci, La previdenza complementare, Torino, 2004, p. 3 ss.; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, cap. 1. ( 27 ) Bonardi, sub art. 2, in questo Commentario. ( 28 ) Corti, sub art. 6, in questo Commentario, spec. § 7; ancora Bonardi, sub art. 1, par. 4, che critica, per es., la incondizionata e drastica limitazione della possibilità per i fondi pensione di acquisire il controllo su società rispetto alle quali non si configurino situazioni di conflitto d’interesse. ( 29 ) V. Bruni, sub art. 5, in questo Commentario. 541 anche) a quelli della contribuzione ( 30 ), in ragione della rilevanza diretta (e non mediata da un’obbligazione lavoristicamente corrispettiva, sia pur non retributiva) della finalità previdenziale ( 31 ): donde i coerenti corollari, per es., in tema di (più stretto) raccordo con la tipologia e i requisiti delle prestazioni di base ( 32 ), o di assimilazione al regime delle medesime prestazioni di base in tema di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità ( 33 ). D’altro canto, un siffatto approccio consente anche di mettere a fuoco talune incongruenze legislative ( 34 ), tra le quali spicca l’allentamento dei vincoli, anche fiscali, per le prestazioni in capitale ( 35 ), che si pone in rotta di collisione perfino con la pur liberale impostazione comunitaria ( 36 ). ( 30 ) Sui quali v., invece, Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario, spec. par. 2. ( 31 ) V., per questa impostazione, v. Tursi, Il regime giuridico delle prestazioni di previdenza complementare, in Prev. ass. pubbl. priv., n. 2/04, p. 405 ss. ( 32 ) Un raccordo che il riformatore del 2005 ha voluto rafforzare anche con riferimento alla disciplina dei riscatti, visto che l’art. 14, comma 2o del decreto assoggetta il diritto al riscatto della posizione maturata a condizioni più restrittive rispetto a quanto previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 124/93. Sul punto, v. Pallini, sub art. 14, commi 1o ss., in questo Commentario, e, per il profilo fiscale, Ruggiero, sub art. 14, commi 4o e 5o, in questo Commentario. ( 33 ) Un’assimilazione, peraltro, non priva di profili problematici, soprattutto connessi alla distinzione, operata da Corte cost. n. 506/02 – si badi – internamente alla prestazione obbligatoria di base, tra un regime di indisponibilità afferente ai « mezzi adeguati alle esigenze di vita », e un regime di minor vincolo, afferente al livello di tutela eccedente i « mezzi adeguati ». V., su tutti questi profili, Tozzoli, sub art. 11, in questo Commentario. ( 34 ) Una tra le più significative incongruenze, peraltro imputabile interamente alla l.d. ed estranea al profilo della effettività, è quella della incompatibilità, col diritto comunitario, della differenziata età pensionabile nella previdenza complementare, (re)introdotta dal legislatore italiano con l’art. 1, comma 6o, lett. b), n. 1), l.d. V., sul punto, Bonardi, sub art. 2, e Tozzoli, sub art. 11, citt. ( 35 ) V., rispettivamente, Tozzoli, op. cit., par. 9; Marchetti, sub art. 11, comma 6o, in questo Commentario. ( 36 ) V., in particolare, il 13o « considerando » e l’art. 6, lett. d) della dir. 2003/41/CE. 542 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 4. – I rilievi appena svolti, vanno peraltro calibrati tenendo conto di una seconda linea normativa, che pure emerge in maniera chiarissima dalla riforma, e che si contrappone dialetticamente alla prima: la linea della valorizzazione dell’autonomia e libertà individuale nelle scelte attinenti alla previdenza complementare. Si tratta di una linea a sua volta strettamente collegata alla dimensione concorrenziale della materia: la considerazione della previdenza complementare sub specie di servizio contendibile sul mercato, che è notoriamente alla base dell’impostazione comunitaria, sia in sede legislativa ( 37 ), sia in sede giurisprudenziale ( 38 ), evoca infatti, con tutta evidenza, il profilo della libertà di scelta del singolo. E anzi, tale profilo è chiamato in causa perfino da chi, ponendosi in posizione critica nei confronti della tendenza egemonica della dimensione mercantile-concorrenziale a scapito di quella previdenziale-lavoristica, legge la valorizzazione della libertà individuale proprio in funzione della titolarità individuale del diritto a « mezzi adeguati alle esigenze di vita », che non tollererebbe vincoli quanto alla scelta di destinare i propri risparmi a tutte, indistintamente, le finalità previdenziali sancite dall’art. 38 Cost. ( 39 ). Ad ogni modo, quale che sia l’esatta collocazione valoriale e costituzionale della linea « individualistica », ad essa fanno certamente capo alcune tra le innovazioni normative di maggior rilievo della riforma, che si registrano soprattut- ( 37 ) Basti il semplice dato della base giuridica della dir. 2003/41/CE: non l’art. 137, par. 1, lett. c), TCE, relativo a « sicurezza sociale protezione sociale dei lavoratori » – che avrebbe imposto peraltro l’unanimità ai sensi del par. 2, lett. b), 2o periodo –; ma gli artt. 47, par. 2 (diritto di stabilimento), 55 (libera prestazione dei servizi) e 95, par. 1 (ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative..., che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune »). ( 38 ) La Corte di giustizia ha sviluppato un corposo filone giurisprudenziale avente sostanzialmente a oggetto la compatibilità dei monopoli sindacali in materia di previdenza complementare, con il diritto comunitario della concorrenza: v., per tutti, Giubboni, Fondi pensione e competition rules comunitarie, in La previdenza complementare, a cura di F. Carinci, cit., p. 110 ss. ( 39 ) V. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, spec. par. 7. to in tema di scelta della forma pensionistica complementare e di mobilità all’interno del sistema di previdenza complementare. Meno univoco è il quadro che, sotto questo profilo, offre invece la disciplina della contribuzione e delle prestazioni, intese queste ultime in senso ampio (comprensivo, cioè, dei diritti prodromici rispetto a quello pensionistico ( 40 )). Mente segnato da qualche fraintendimento teorico o pregiudizio ideologico appare il nuovo (ma è veramente tale?) assetto delle fonti istitutive, che della problematica in parola costituisce la cartina di tornasole. 5. – In tema di libertà di adesione, alla già ricordata libertà di scelta della forma pensionistica complementare cui aderire inizialmente, fa quasi da controcanto la rimodulazione del principio di libertà individuale di adesione alla previdenza complementare, imposta dalla regola del cd. « conferimento tacito » del t.f.r. In base a tale regola, il t.f.r. « maturando » del lavoratore che, nel semestre dall’assunzione (se assunto dopo il 31 dicembre 2007) o dall’entrata in vigore del decreto (se in servizio a quella data), né sceglie espressamente di mantenerlo, né sceglie espressamente di conferirlo ad una forma pensionistica complementare, viene automaticamente devoluto ad una delle forme pensionistiche complementari collettive stabilite dall’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2, l.d. A questo proposito, le analisi condotte ( 41 ) confermano, intanto, che la libertà di adesione resta elemento costitutivo della previdenza complementare italiana ( 42 ), configurandosi il meccanismo del conferimento tacito, tutt’al più, ( 40 ) Per la distinzione tra aspettative non tutelate, che riflettono la fattispecie a formazione progressiva del diritto a pensione, e « il completamento dei requisiti di una fattispecie ad hoc, di origine legale o convenzionale, produttiva di un’ulteriore ipotesi di diritto acquisito », v. Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 540, sulla scia di Persiani, Aspettative e diritti nella previdenza pubblica e privata, in Arg. dir. lav., 1998, p. 311 ss., spec. p. 342 ss. ( 41 ) Da Bollani, sub art. 3, comma 3o; e da Ferrante, sub art. 8, comma 7o. ( 42 ) V. art. 3, comma 3o, e il commento di Bollani, in questo Commentario. La nuova disciplina della previdenza complementare come una deroga meramente formale ( 43 ) e parziale ( 44 ). Ma è probabile che nemmeno sia necessario parlare di « deroga »: ché deroga al principio di libertà individuale di adesione si configurerebbe solo se di questo principio si desse una interpretazione ostativa nei confronti di previsioni dell’autonomia collettiva, che dispongano una iscrizione sospensivamente condizionata al mancato dissenso espresso del lavoratore soggetto al suo ambito di applicazione. Una interpretazione di quel principio, meno rigida di quella di fatto affermatasi nella vigenza del d.lgs. n. 124/93, avrebbe già di per sé spianato la strada alla cd. « adesione tacita » ai fondi pensione, con conseguente devoluzione integrale del t.f.r., indipendentemente da una previsione legislativa. Invero, la contraria opinione che è prevalsa, è essa stessa sintomo della diffusa propensione a concepire l’autonomia collettiva come vincolo (normativo) all’autonomia negoziale e non come espressione essa stessa di autonomia negoziale ( 45 ). Questa considerazione conduce direttamente ( 43 ) Considerata l’idoneità del consenso informato, garantito da varie disposizioni del decreto, a realizzare una sostanziale equiparazione del « silenzio » al « consenso esplicito » del lavoratore. Così, già Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., n. 2/06, p. 186 ss. ( 44 ) Perché non formulata in termini di obbligatorietà dell’adesione a una forma pensionistica complementare, pubblica o privata che sia (è il caso britannico, sui più recenti sviluppi del quale v., però, Pensions Commission, Implementing an integrated package of pension reforms - The Final Report of the Pensions Commission, in www.pensioncommission.org.uk: spec. il punto 3, dedicato alla proposta di un « automatic enrolment at a national level »), ma piuttosto in termini di adesione collettivamente disposta, ma condizionata al mancato dissenso individuale. E parziale anche perché destinata a operare solo in caso di adesione tramite conferimento del t.f.r.: non, per esempio, in caso di adesione a una forma pensionistica complementare, da parte di un lavoratore che abbia a suo tempo optato per il « mantenimento » del t.f.r. e non intenda revocare tale scelta. ( 45 ) V. Tursi, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Torino, 1996, p. 27 ss., p. 121 ss., e passim. 543 al tema delle fonti istitutive della previdenza complementare: nella nuova disciplina della materia, infatti, si riscontrano chiari indizi del pregiudizio eteronomo sopra evocato. 6. – Senza pretesa di approfondire in questa sede la tematica ( 46 ), ci limitiamo a evidenziare i numerosi punti in cui quel pregiudizio è emerso, oppure ha, comunque, condizionato il dibattito de iure condendo, candidandosi conseguentemente a condizionare anche quello che seguirà in sede interpretativa. Conviene menzionare per primo, il punto più strettamente collegato alla questione da ultimo affrontata, della devoluzione tacita del t.f.r. È da apprezzare la scelta legislativa di prevedere la devoluzione tacita del t.f.r. alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, restando così fedele all’impostazione dell’« Intesa Comune » tra le parti sociali del 17 febbraio 2005, senza cedere all’impostazione favorevole a porre sullo stesso piano tutte le forme pensionistiche previste dall’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2, l.d., in nome di un malinteso principio di libera concorrenza tra tutte le forme pensionistiche complementari. È bene, intanto, chiarire che non si è trattato di un cedimento al favor per la previdenza complementare di genesi collettivo-sindacale: si è trattato semplicemente di rispettare l’autonomia negoziale di cui è espressione la fonte istitutiva collettiva applicabile al rapporto di lavoro, per un verso, evitando di subordinarla a fonti eteronome ( 47 ), e per l’altro, prendendo atto che analogo meccanismo non potrebbe nemmeno logicamente concepirsi con riferimento alle forme pensionistiche individuali, strutturalmente prive di canali di collegamento di stampo rappresentativo con i destinatari della previdenza complementare. È coerente con la scelta a favore dell’autonomia, anche la precisazione – invero superflua – che fà salva la eventuale previsione di un « diverso accordo aziendale ». Il legislatore però ( 46 ) V., da ult., Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit. V. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario. ( 47 ) Quali le leggi regionali contemplate dall’art. 3, comma 1o, lett. d) del decreto: v. avanti. 544 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 trova il modo di complicare il problema, prevedendo che detto accordo aziendale possa disporre « la destinazione del t.f.r. a una forma collettiva tra quelle previste all’articolo 1, comma 2o, lett. e), n. 2), della legge 23 agosto 2004, n. 243 » ( 48 ). La norma è problematica, non solo sotto il profilo della dubbia efficacia soggettiva di tale accordo (v. avanti), ma anche e soprattutto perché è in contraddizione con la previsione immediatamente successiva (n. 2), ove si stabilisce che « in caso di presenza di più forme pensionistiche di cui al n. 1), il t.f.r. maturando è trasferito » (sempre « salvo diverso accordo aziendale »), « a quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda ». La contraddizione sta nel fatto che nel n. 1) si prevede che l’accordo aziendale possa derogare alla fonte istitutiva collettiva di livello superiore, o comunque anteriore (prevedendo il conferimento del t.f.r. a una delle altre forme pensionistiche complementari contemplate dalla legge delega), mentre nel n. 2) si pongono su un piede di parità tutte le forme pensionistiche complementari di cui alla legge delega, e si individua, come criterio di scelta, il sorprendente e problematico criterio del maggior numero di aderenti. A siffatta barocca architettura, il legislatore è stato indotto, appunto, dalla tendenza a concepire l’autonomia collettiva in termini non negoziali ma normativo-eteronomi, e, conseguentemente, il meccanismo del(l’adesione tramite) tacito conferimento (del t.f.r.) in termini, ancora una volta, di applicazione di una fonte normativa, che prescinde dalla sussistenza di canali negoziali di collegamento alla volontà individuale. Se avesse altrimenti ragionato, il legislatore avrebbe semplicemente constatato che il t.f.r. « inoptato » del lavoratore « silente » va conferito alla forma pensionistica istituita dalla fonte negoziale che, in virtù di un meccanismo di stampo rappresentativo, ha disposto l’adesione del lavoratore medesimo, sia pure condizionandola sospensivamente alla mancata manifestazione del dissenso di quest’ultimo. Così come, in caso di concorso-conflitto tra una pluralità di fonti collettive, avrebbe constatato che nulla di nuovo tale problematica pre- ( 48 ) Così l’art. 8, comma 7o, lett. b), n. 1) del decreto. senta rispetto all’ordinaria casistica del concorso-conflitto tra contratti collettivi (di uguale o diverso livello) ( 49 ). Nessun problema, infine, avrebbe posto la eventuale presenza, tra tali fondi, di quelli « regionali ». Ma ciò evoca un ulteriore punto di emersione della linea che qui si sta stigmatizzando, che merita una distinta riflessione. Nella disposizione in tema di fonti istitutive si riscontra, infatti, un singolare affastellamento, in un unico elenco, di fonti istitutive in senso proprio (quali i contratti collettivi, gli accordi tra lavoratori, i regolamenti di enti o aziende ( 50 )), e di soggetti giuridici, privati ( 51 ) o pubblici ( 52 ), che evidentemente fonti non sono. Ammesso, poi, che il legislatore, quando menziona, poniamo, « le regioni » tra le « fonti istitutive », voglia alludere alle leggi regionali, c’è allora da stigmatizzare la sua assenza di imbarazzo nell’assimilare fenomeni così diversi come, da un lato, gli atti d’autonomia negoziale, collettiva o individuale, istitutivi di forme pensionistiche complementari collettive o individuali, e un atto normativo quale la legge regionale o il diverso provvedimento pubblicistico col quale le regioni riterranno di dare seguito alla previsione legislativa. Peraltro, il legislatore (ma, in questo caso, più quello delegante che quello delegato) mostra anche di ritenere che l’attribuzione alle regioni di competenze legislative concorrenti con quelle dello Stato, in materia di « previdenza complementare e integrativa », operata dal nuovo art. 117 della Costituzione « federalista » ( 53 ), ( 49 ) Bollani, sub art. 3, cit.; Ferrante, sub art. 8, comma 7o, cit. ( 50 ) V., nell’art. 3, comma 1o, le lett. a), b), c) e f). ( 51 ) Come gli enti privati gestori di previdenza obbligatoria, di cui ai dd.llgs. n. 509/94 e n. 103/96; e, con salto logico-sistematico, i soggetti finanziari abilitati alla istituzione, mediante delibera costitutiva di un « patrimonio autonomo e separato » (che dunque è, questa sì, la « fonte istitutiva »), di forme pensionistiche complementari individuali. V. le lett. g), h), i) dell’art. 3, comma 1o. ( 52 ) Si tratta niente meno che delle « regioni », le quali « disciplinano il funzionamento » delle « forme pensionistiche complementari » da esse presumibilmente istituende, « con legge regionale ». ( 53 ) V. F. Carinci, Aspetti problematici e prospettive de iure condendo, in La previdenza complementare, cit., p. XXV ss. La nuova disciplina della previdenza complementare implichi una sorta di competenza all’istituzione, anziché alla regolazione normativa, della forme pensionistiche complementari. Questo « equivoco della regionalizzazione » della previdenza complementare, andrebbe respinto constatandosi, per un verso, l’assenza di deleghe legislative in tema di riforma dell’assetto delle fonti istitutive della previdenza complementare, e per l’altro, che nella disposizione delegata non si legge (nonostante l’inclusione nell’articolo dedicato alle fonti istitutive) una attribuzione di competenze istitutive, ma solo di competenze regolative: si stabilisce, infatti, che « le regioni... disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia » ( 54 ); ma nulla si dice quanto a modalità istitutive e costitutive di tali forme pensionistiche. Sicché non sarebbe affatto peregrina, sul piano teorico, e sarebbe certamente saggia sul piano pratico, la tesi secondo cui le regioni potranno utilizzare, per l’istituzione di tali fondi regionali, nulla più che gli strumenti negoziali deputati alla creazione di forme collettive o individuali: per esempio, promuovendo fondi negoziali, o partecipando ai soggetti istitutori di fondi aperti. Né contraddice tale assunto l’istituzione, prevista direttamente dall’art. 9 del decreto ( 55 ), di una « forma pensionistica complementare residuale presso l’INPS »: un fondo di default cui vanno devolute le quote di t.f.r. maturando da conferirsi tacitamente, nell’ipotesi in cui non abbia potuto operare il tacito conferimento né a fondi pensione istituiti da contratti collettivi, né a fondi pensione aperti ad adesione collettiva, né a fondi « regionali » ( 56 ). È vero, infatti, che si prevede, in proposito, una modalità istitutiva sicuramente non negoziale e pubblicistica; ma è ( 54 ) Quid, tra l’altro, ove si ritenesse che l’assetto delle fonti istitutive, oltre ad essere materia estranea alla delega, è anche afferente ai « principi fondamentali » della previdenza complementare, attratta pertanto nelle competenze statali esclusive? ( 55 ) V. pure l’art. 1, comma 765o, della l. n. 296/06, attuato dal decreto del Ministro del lavoro, di concerto col Ministro dell’economia e delle finanze, del 30 gennaio 2007, che ha concretamente istituito e disciplinato, per quanto di competenza, FONDINPS. ( 56 ) Per esempio, a causa dell’inesistenza o inope- 545 anche vero che FONDINPS, nonostante la disposta applicazione « integrale » delle disposizioni del decreto, è un fondo largamente extrasistemico, di carattere eccezionale, con innegabili peculiarità anche operative, come dimostra anche l’esclusione dall’elenco delle fonti istitutive (e dei soggetti) contenuto nell’art. 3 del decreto ( 57 ). ratività di tali fondi, o di previsioni negoziali idonee a rendere operativo il meccanismo del conferimento tacito. ( 57 ) V., sul punto, Garcea, sub art. 9, in questo Commentario. In verità, avevamo prospettato una diversa lettura della delega di cui all’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 7), l.d.: che, cioè, si prevedesse la costituzione di un fondo di previdenza obbligatoria integrativa, cui devolvere non semplicemente le quote di t.f.r. « inoptate », ma quelle che il lavoratore avesse espressamente deciso di non devolvere alla previdenza complementare, determinandosi, così, la necessitata « previdenzializzazione » del t.f.r. (v. Tursi, La terza riforma, cit., p. 535, nt. 51): il che risultava compatibile con la lettera della norma, che alludeva a « forme pensionistiche » costituite presso « enti di previdenza obbligatoria », non qualificate come « complementari ». Ciò avrebbe avvicinato il sistema italiano a quello britannico, ove, appunto, opera un regime di obbligatorietà della previdenza complementare, con possibilità, per il singolo, di optare (opting out) per l’adesione, anziché (o anche in aggiunta: contracted in) allo schema pubblico della State Second Pension (S2P), ad un fondo aziendale o ad un piano pensionistico personale. V. Vianello, I fondi pensione nelle esperienze nazionali europee, in La previdenza complementare, cit., pp. 181 ss. E tuttavia, a ben vedere, la prospettiva da noi evocata emerge in filigrana dalla successiva istituzione del « fondo-tesoreria » di cui al comma 755o dell’articolo unico della l. n. 296/ 06: se è vero, infatti, che detto fondo è ben lungi, nella configurazione attuale, dal costituire una forma pensionistica complementare, è anche vero che il comma 760o del medesimo articolo unico della legge finanziaria per il 2007 preannuncia, con tono vagamente minaccioso, la « costituzione di una eventuale apposita gestione INPS, alimentata con il t.f.r., dei trattamenti aggiuntivi a quelli della pensione obbligatoria definendo un apposito fondo di riserva ». La via italiana alla definitiva previdenzializzazione del t.f.r. è, così, già virtualmente tracciata: tutto dipenderà – precisa il predetto comma 760o – da quanto attesteranno « i dati relativi alla costituzione e ai rendimenti delle forme pensionistiche complementari di cui all’articolo 3 del d.lgs. n. 252/05 », nonché dalla « consistenza finanziaria e le modalità di utilizzo del Fondo di cui al comma 755o ». 546 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Sempre con riferimento alla disciplina delle fonti istitutive, il basic misunderstatement nei confronti dell’autonomia collettiva emerge anche nella precisazione, operata con riferimento ai « contratti collettivi aziendali », che la loro efficacia di fonti istitutive operi « limitatamente ... anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi ». Questo inciso si fonda, a nostro avviso, su una errata ricostruzione dell’efficacia del contratto collettivo (anche) aziendale: esso presuppone, infatti, che detto contratto goda istituzionalmente di efficacia erga omnes, quando invece la sua normale applicazione di fatto a tutti i dipendenti del datore di lavoro si spiega iure communi con la normale portata migliorativa delle condizioni di lavoro, che induce i lavoratori ad accettarlo o a chiederne l’applicazione anche se non affiliati ai sindacati stipulanti. Ne discendono due equivoci. Il primo equivoco sollevato (o meglio presupposto) dall’inciso di cui all’art. 3, comma 1o, lett. a) del decreto, è che non v’è alcun bisogno di riconoscere ai lavoratori eventualmente dissenzienti – che, beninteso, non siano vincolati al contratto in virtù di affiliazione sindacale o rinvio (espresso o tacito) alla disciplina collettiva –, una facoltà di opting out che il diritto comune vigente non gli nega; il secondo, è che il problema immaginato dal legislatore, in realtà, non si pone nemmeno in astratto, perché l’istituzione di un fondo pensione attribuisce un diritto (di aderire al fondo pensione), non un obbligo o un vincolo. Come tutti gli equivoci, poi, nemmeno questo manca di produrre un effetto « perverso », consistente in una contraddizione sistemica con un’altra previsione del decreto: quella dell’art. 8, comma 7o, che, nel disciplinare la modalità tacita di conferimento del t.f.r., rimette ad un « accordo aziendale » la possibilità di disporre la destinazione del t.f.r. a una forma pensionistica collettiva diversa da quella negoziale operante in azienda, e da individuarsi tra quelle previste dall’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2) della legge delega. Qui si postula, al contrario, un’efficacia dell’accordo aziendale non già limitata ai soli soggetti (o lavoratori) firmatari dell’accordo medesimo (come previsto dall’art. 3, comma 1o, lett. a), bensì estesa a tutti i lavoratori: proprio per questa ragione, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di notificare l’accordo derogatorio ai la- voratori, « in modo diretto e personale ». Ma non si vede quale coerenza vi sia nel riconoscere (iure communi) l’efficacia soggettivamente limitata dell’accordo aziendale istitutivo di un fondo pensione, e attribuire invece (in deroga al diritto comune dell’autonomia collettiva) efficacia erga omnes all’accordo aziendale che deroga al primo, destinando il t.f.r. a una forma pensionistica collettiva diversa da quella negoziale operante in azienda. 7. – Infine, la linea in parola emerge con riferimento a uno dei punti più caldi della riforma: quello della cd. « portabilità » del contributo contrattualmente imposto al datore di lavoro, in caso di adesione o trasferimento a una forma individuale. Accogliendo, ancora una volta, l’impostazione dell’« avviso comune » del luglio 2005 ( 58 ), il legislatore delegato ha declinato il diritto alla « portabilità » del contributo datoriale in termini di stretto condizionamento al volere della fonte istitutiva collettiva: esso opera, infatti, solo « nei limiti e secondo le modalità stabilite dai predetti contratti o accordi ». Così disponendo, il legislatore delegato si è dimostrato più avveduto del delegante, avendo riconosciuto che l’attribuzione all’autonomia collettiva del potere di allocare secondo le proprie preferenze e convenienze le risorse contrattate con la parte datoriale, lungi dal costituire un odioso privilegio anticoncorrenziale, null’altro è che un portato naturale (anzi, l’ubi consistam) della libertà negoziale, garantita anche costituzionalmente sub specie di libertà sindacale. Al contrario, l’imposizione della libera circolazione del diritto al contributo, sradicato dalla sua fonte istitutiva, avrebbe implicato la riduzione della contrattazione collettiva a mera fattispecie di un effetto normativo, imputato ad essa direttamente dalla legge. I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega, che pure si pongono con riferi( 58 ) Impostazione che era stata, invece, sorprendentemente rovesciata nel Consiglio dei Ministri del 6 ottobre 2005, provocando il rinvio di 1 mese del varo del decreto. Su questa vicenda, v. il dibattito ospitato da La voce.info con articoli di Ichino e Tursi, e interventi, tra gli altri, di Ferrante e Squeglia (in www.lavoce.info, sezione « pensioni », articoli del 6 ottobre e del 7 novembre 2005). La nuova disciplina della previdenza complementare mento all’incondizionato disposto della l.d., possono poi forse ritenersi superati alla luce della considerazione che tanto il decreto, quanto la stessa l.d., riferiscono la portabilità – quanto meno nell’ipotesi dell’adesione tramite conferimento del t.f.r. – al « contributo » cui il lavoratore abbia « diritto » ( 59 ): il che potrebbe suggerire che la portabilità era destinata a operare solo in presenza di un « diritto » al contributo, che può considerarsi esistente solo se attribuito dalla fonte istitutiva, e alle condizioni da questa stabilite ( 60 ). Si pone tuttavia, a nostro avviso, qualche problema ulteriore con riferimento alla modalità operativa della « portabilità » in caso di trasferimento e, ancor più, in caso di adesione a una forma pensionistica complementare individuale. Con riferimento alla fattispecie del trasferimento ad altra forma pensionistica complementare della posizione maturata, si deve registrare l’omessa considerazione del trasferimento conseguente al venir meno dei requisiti di partecipazione (art. 14, comma 2o, lett. a) ( 61 ): ciò è un effetto dell’analoga omissione della l.d., a suo tempo da noi evidenziata ( 62 ); e ci pare lacuna superabile solo in via analogica ( 63 ). La disciplina delle forme pensionistiche complementari individuali solleva invece un problema ancora diverso, e a nostro avviso più delicato ( 64 ): l’omesso condizionamento, in questo caso, del diritto alla portabilità del contributo datoriale, ai « limiti » e alle « modalità stabilite dai contratti... collettivi » ( 65 ). ( 59 ) V. l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 3) della l.d., e l’art. 8, comma 10o del decreto. ( 60 ) Sulla questione, v. Pallini, sub art. 14, cit. ( 61 ) Il decreto si preoccupa di disciplinare, con l’art. 14, comma 6o, il diritto alla portabilità, solo con riferimento all’ipotesi del trasferimento « libero ». ( 62 ) Tursi, La terza riforma, cit., p. 540. ( 63 ) Estendendo, cioè, per analogia la norma delegante anche all’ipotesi omessa, e così legittimando la corrispondente estensione analogica della norma delegata. ( 64 ) Meno pessimista, sul punto, la valutazione di Pallini, sub art. 14 e sub artt. 12-13, in questo Commentario. ( 65 ) Nessun riferimento a tali limiti e modalità è infatti contenuto negli artt. 12, comma 1o, e 13, comma 4o. Per chiarezza, esplicitiamo l’ipotesi controversa che potrebbe verificarsi: quella del lavoratore che abbia a suo tempo optato per il mantenimento del t.f.r., 547 Non ci sembra scontato che si possa sanare l’omissione facendo riferimento, anche in questo caso, alla previsione della l.d., secondo cui la portabilità opera con riferimento al contributo datoriale cui « il lavoratore abbia diritto » ( 66 ), perché in questo caso non si tratterebbe di giustificare la positiva previsione, da parte del legislatore delegato, di un condizionamento non espressamente previsto dalla legge delega, onde escluderne l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega, ma di utilizzare direttamente la previsione della legge delega per estendere il condizionamento anche ad una ipotesi non prevista, e anzi diversamente disciplinata, dal decreto; naturalmente, con le immancabili conseguenze di illegittimità costituzionale per irragionevole disparità di trattamento tra situazioni analoghe, che ne deriverebbero ( 67 ). 8. – Anche nella disciplina delle prestazioni (intese in senso ampio) si rinvengono tracce di un apparente favore per la libertà individuale, da conciliare, peraltro, con la già segnalata restrizione dei requisiti pensionistici in termini di accentuata funzionalizzazione rispetto alle prestazioni di base ( 68 ). Si è già detto dell’allentamento dei vincoli alla prestazione in capitale ( 69 ). Una importante novità è costituita, però, anche dalla previsione ( 70 ) del diritto al pensionamento complementare anticipato (rispetto ai requisiti ordinari), in caso di « cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi »: e che, dopo avere successivamente revocato tale scelta (come ammesso dall’art. 8, comma 7o, lett. a), 2o periodo del decreto), decida di aderire a una forma pensionistica complementare individuale. Non operando in questo caso la previsione di cui all’art. 8, comma 10o – che è riferita all’ipotesi del conferimento tacito –, parrebbe operare, ai sensi dell’art. 12, comma 1o, 2o periodo, e dell’art. 13, comma 4o, 2o periodo, un regime di portabilità non condizionata a « limiti » e modalità » imposte dalla contrattazione collettiva! ( 66 ) Così invece, perentoriamente, Pallini, sub art. 14, cit. ( 67 ) V. ancora, e questa volta del tutto condivisibilmente, Pallini, ibidem. ( 68 ) V. sopra, par. 3. ( 69 ) V. sopra, par. 3. ( 70 ) Di cui all’art. 11, comma 4o. 548 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 una previsione, peraltro, non priva di asperità interpretative e di lacune ( 71 ). Da non confondere con la nuova ipotesi del pensionamento anticipato, è poi quella della « anticipazione della posizione individuale maturata ». Si tratta, in questo caso, della rimodulazione di una figura già prevista dalla normativa previgente ( 72 ): una rimodulazione che si realizza, ancora una volta, nel segno di una complessivamente maggiore liberalità, sia rispetto al d.lgs. n. 124/93 ( 73 ), sia, e soprattutto, rispetto a quella del t.f.r. ( 74 ). ( 71 ) Va segnalata, in particolare, l’omessa considerazione dell’ipotesi della « invalidità permanente che comporti la riduzione della capacità di lavoro a meno di un terzo », contemplata dall’art. 14, comma 2o, lett. c), unitamente a quella di cui all’art. 11, comma 4o, come ipotesi di riscatto totale: riscatto tuttavia inoperante nel quinquennio precedente la maturazione dei requisiti per il pensionamento, applicandosi, in tal caso, proprio la previsione di cui all’art. 11, comma 4o. L’imperfetto coordinamento tra le due previsioni è risolvibile in via interpretativa, estendendo all’ipotesi dell’invalidità qualificata, il diritto al pensionamento anticipato: v. Tozzoli, sub art. 11; Pallini, sub art. 14. ( 72 ) Art. 7, comma 4o, del d.lgs. n. 124/93, su cui v. le nostre considerazioni in Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, p. 68 ss. ( 73 ) Per la causale « sanitaria » (invero qualificata dalla ricorrenza di « gravissime situazioni » relative agli stretti congiunti), mentre, da un lato, si pone il limite del 75% del montante accumulato, per l’altro non è più richiesto un requisito di anzianità minima. La restrizione quantitativa relativa alle altre causali previste dall’art. 7, comma 4o del d.lgs. n. 124/93, è, d’altro canto, compensata dalla previsione di una causale sostanzialmente libera (« ulteriori esigenze degli aderenti »), rimessa alla determinazione delle fonti istitutive, nel limite del 30% del montante accumulato: v. Tozzoli, sub art. 11, cit. Per le causali « titolate », poi, vale il più favorevole regime fiscale introdotto dalla nuova normativa: v. Marchetti, sub art. 11, comma 7o del decreto. ( 74 ) V. ancora Tozzoli, sub art. 11, cit.; Bonardi, sub art. 1, cit. È da segnalare, anche a proposito di questo istituto, l’ennesima dimenticanza del legislatore: non si trova traccia, nell’art. 11, comma 7o del decreto, della possibilità di conseguire un’anticipazione della posizione maturata, per le spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi formativi, di cui agli artt. 5 e 6 della l. n. 53/00: possibilità che l’art. 7, comma 2o di quella legge rimette agli « statuti Le pur legittime perplessità che le segnalate aperture suscitano in considerazione del possibile pregiudizio che esse implicherebbero nei confronti della finalità previdenziale – e quindi dell’effettività della tutela pensionistica complementare ( 75 ) –, non tengono adeguatamente conto, a nostro avviso, del contesto storico e istituzionale in cui è destinato a realizzarsi il decollo della previdenza complementare in Italia. In questo contesto, gioca un ruolo imprescindibile la presenza di un istituto – il t.f.r. – che ha costituito e costituisce, di per sé, una delle ragioni del mancato decollo della previdenza complementare; ma che, nel contempo, costituisce una opportunità – un « cancello istituzionale », è stato efficacemente detto – per agevolare la creazione di un « funded pillar » che affianchi il pilastro a ripartizione ( 76 ). Orbene, la presenza di un cancello è condizione necessaria, ma non sufficiente per entrare – sia pure come ospite invitato e non come predatore – nella cittadella della previdenza a ripartizione: this gate must be actually opened ( 77 ). Le apparenti concessioni all’autonomia individuale e alla logica del mercato finanziario ( 78 ), che si sono passate in rassegna, allora, devono leggersi (quanto meno anche) alla luce della necessità di « forzare il cancello del t.f.r. ». Fuor di metafora, non era pensabile che si potesse allestire un programma di rilancio della delle forme pensionistiche complementari ». Pur considerando che la previsione in parola non è stata espressamente abrogata dal comma 8o dell’art. 21 (che abroga, invece, il d.lgs. n. 124/93), resta la difficoltà di applicazione, derivante dal differenziato regime fiscale introdotto dal d.lgs. n. 252/05 in funzione delle diverse causali di anticipazione. Ciò potrebbe addirittura indurre a prospettare una abrogazione tacita per incompatibilità con la disciplina sopravvenuta. ( 75 ) V. sopra, par. 3. ( 76 ) V. Ferrera e Jessoula, Italy: a Narrow Gate for Path-Shift, in Immergut, Anderson e Schulze (eds.), The Handbook of West European Pension Politics, Oxford, 2007, p. 396 ss., spec. p. 441 ss. ( 77 ) Ferrera e Jessoula, Italy: a Narrow Gate, cit., p. 449. ( 78 ) Sulle quali v., con accenti molto critici, Pessi, La previdenza complementare tra funzione costituzionale e concorrenza, in Mass. giur. lav., 2005, p. 484 ss., in dialogo con Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit. La nuova disciplina della previdenza complementare previdenza complementare, largamente fondato sulla devoluzione semi-automatica del t.f.r., senza rendere la previdenza complementare almeno altrettanto allettante, per i lavoratori ( 79 ), del t.f.r.; almeno altrettanto capace, per esempio, di svolgere funzioni anche diverse da quelle strettamente pensionistiche, e assimilabili a quelle di un « ammortizzatore sociale » improprio » ( 80 ). È in questa chiave che si spiegano, del resto, anche altri interventi di riforma, talvolta di sapore ingenuamente dirigistico, quali l’imposizione, alle forme pensionistiche complementari che si candidino a essere « tacite » destinatarie del t.f.r., dell’obbligo di investire i relativi accantonamenti « nella linea a contenuto più prudenziale », garantendo nel contempo « la restituzione del capitale e rendimenti comparabili... al tasso di rivalutazione del t.f.r. »; ovvero la previsione di « linee di investimento che consentano di garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del t.f.r. » ( 81 ). 9. – Che questa – la preoccupazione, cioè, di rendere la previdenza complementare concorrenziale rispetto al t.f.r. – sia una delle ragioni principali dell’allentamento dei vincoli alla libertà individuale, è confermato da quella che, altrimenti, dovrebbe considerarsi come una contraddizione sistematica all’interno della riforma: il rafforzamento del nesso funzionale tra requisiti e tipologia delle prestazioni complementari, e quelle di base. Ciò si registra non solo – come s’è già osservato – con riferimento alla disciplina dei requisiti delle prestazioni, ma in maniera forse ancor più evidente, nel ridisegno delle opzioni spettanti al lavoratore in caso di cessazione dei requisiti di ( 79 ) Senza trascurare i datori di lavoro, per i quali si è reso necessario predisporre un pacchetto di « misure compensative » della mancata disponibilità di quel capitale a buon mercato costituito dall’accantonamento del t.f.r. Sull’art. 10, v. i commenti di Frignati e Garcea, in questo Commentario. ( 80 ) Ma proprio questo dato, dovrebbe alleggerire le preoccupazioni di chi lamenta un vincolo ingiustificato alla destinazione previdenziale del risparmio dei lavoratori. V., sul punto, Bonardi, sub art. 1, cit. ( 81 ) Art. 8, comma 9o, e art. 6, comma 8o, lett. a), del decreto. V. Corti, sub artt. 6 e 7, in questo Commentario, par. 4.2.1. 549 partecipazione alle forme pensionistiche complementari. La nuova disciplina dei riscatti e dei trasferimenti nelle ipotesi in cui « vengano meno i requisiti di partecipazione », infatti, registra un complessivo arretramento, sotto il profilo della libertà individuale, rispetto a quella contenuta nell’art. 10 del d.lgs. n. 124/93. Innanzi tutto, la possibilità di domandare il riscatto della posizione maturata è adesso limitata a due gruppi di casi tipicizzati, in uno solo dei quali, peraltro, è ammesso il riscatto totale: si tratta delle medesime ipotesi in cui è ammesso il pensionamento anticipato, fungendo il limite temporale del quinquennio di distanza dalla maturazione del requisito pensionistico, da spartiacque tra i due istituti ( 82 ). Nelle diverse ipotesi, invece, di disoccupazione di durata compresa tra 12 e 48 mesi, o di collocazione in mobilità o cassa integrazione guadagni ( 83 ), il riscatto è ammesso solo nella misura massima del 50%. La possibilità di domandare il (o meglio, la possibilità che le fonti istitutive e costitutive prevedano ipotesi di) riscatto (totale o parziale) anche al di fuori delle ipotesi tipicizzate, tuttavia, pare fatta salva da una previsione di portata apparentemente solo fiscale, e che finisce, invece, per assumere un significato sistematico di tutto rilievo: quella del comma 5o dell’art. 14, dove si riserva un trattamento meno favorevole all’ipotesi del « riscatto per cause diverse da quelle di cui ai commi 2o e 3o » ( 84 ). In secondo luogo, la modalità stessa di fruizione del diritto in parola risulta essere fortemente disincentivante, ai limiti dell’impraticabilità, oltre che dell’irragionevolezza: ché il diritto al riscatto pare assoggettato, nei casi di disoccupazione, a una condicio iuris che ne ritarda (oltre a renderne incerta) la fruizione in misura francamente incompatibile con la funzione di ammortizzatore sociale affidatale dal legislatore ( 85 ). Infine, la facoltà di domandare il trasferimen( 82 ) V. sopra, par. 8. ( 83 ) Si noti, peraltro, che la collocazione in CIG non comporta, di per sé, la cessazione dei requisiti di partecipazione alla forma pensionistica. ( 84 ) V. Pallini, sub art. 14; Ruggiero, sub art. 14, comma 5o. ( 85 ) Analogo rilievo svolge Tozzoli, sub art. 11, in relazione al pensionamento complementare anticipato. 550 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 to ad altra forma pensionistica, che dovrebbe offrire tutela in tutti i casi in cui il lavoratore perda i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica per una causa diversa da quelle che danno luogo al riscatto, non sembra coprire tutti i casi possibili. Essa infatti opera solo nel caso che il lavoratore « acceda » a una « nuova attività » ( 86 ): parrebbe, cioè, letteralmente non più contemplata l’ipotesi generale di cui al combinato disposto dell’art. 10, comma 1o, lett. b) e dell’art. 9, comma 2o, del d.lgs. n. 124/93. Anche in questo caso, forse con un certo ottimismo, si auspica una interpretazione logico-sistematica, o più probabilmente un’integrazione analogica della disposizione lacunosa, anche per escludere censure di costituzionalità per irragionevole disparità di trattamento ( 87 ). 10. – Un cenno, infine, alla dimensione « comunitaria » del decreto in commento, che, come s’è detto nella « presentazione », non ha potuto, se non in parte, formare oggetto di adeguata considerazione in questo commentario. In verità, a questo aspetto della materia non era dedicata alcuna attenzione nella legge delega. Esso vi ha fatto irruzione, in extremis, a seguito della l. n. 29/06 (« legge comunitaria 2005 »), il cui art. 18 ha conferito la delega per il recepimento della dir. 2003/41/CE ( 88 ). Non v’è traccia peraltro, in tutto ciò, della dir. 98/49/CE, sulla salvaguardia dei diritti a pen- ( 86 ) Art. 14, comma 2o, lett. a). ( 87 ) V. Pallini, sub art. 14, cit. Un altro delicato problema pone poi il mancato coordinamento con l’art. 8, comma 7o: quid in caso di riscatto totale e successiva riassunzione? Alla lettera, parrebbe non operare, in tal caso, il meccanismo di cui all’art. 8, comma 7o, lett. a) e b), che fà decorrere il termine semestrale « dalla data di prima assunzione ». V., sul punto, Pallini, sub art. 14; Ferrante, sub art. 8, citt. ( 88 ) Ciò ha avuto attuazione mediante l’introduzione, nel corpo della l. n. 62/05 (« legge comunitaria 2005 »), di un apposito articolo (il 29 bis), che concedeva, per il recepimento, un termine di 18 mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore, non già della legge in cui la norma era stata inserita, bensì « della presente disposizione »: disposizione che, facendo legislativamente corpo con la l. n. 29/06, è entrata in vigore il 23 febbraio 2006. Il decreto attuativo, come s’è anticipato nella « presentazione », è stato alfine emanato: si tratta del d.lgs. n. 28/07, sul quale ci si riserva di intervenire in maniera analitica in un successivo commento. sione complementare dei lavoratori subordinati e dei lavoratori autonomi che si spostano all’interno della Comunità Europea » ( 89 ), il cui termine per il recepimento, pure, è scaduto da quasi 6 anni. Di ciò non v’è tuttavia da stupirsi, se si considera che dalla relazione della Commissione sull’attuazione di tale direttiva si desume che l’Italia, in numerosa compagnia, ha ritenuto essere il proprio ordinamento interno già sostanzialmente adeguato alle prescrizioni in tema di parità di trattamento in caso di mobilità transfrontaliera, garanzia di pagamenti transfrontalieri, iscrizione transfrontaliera dei lavoratori distaccati, informazione degli iscritti ( 90 ), contenute nella direttiva. Nel caso della dir. 2003/41/CE, invece, a venire in rilievo non era il principio di libertà di circolazione dei lavoratori, bensì i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, in linea di continuità con il « quadro di azione per i servizi finanziari », di cui alla Comunicazione della Commissione dell’11 maggio 1999 ( 91 ): in breve, veniva in rilievo direttamente la dimensione concorrenziale e finanziaria della previdenza complementare. Si trattava, in estrema sintesi, di assicurare due ordini di obiettivi: da un lato, quello della « vigilanza prudenziale » ( 92 ) sugli enti pensionistici aziendali o professionali; dall’altro, quello di consentire a tali enti una « attività transfrontaliera ». Il primo macro-obiettivo si traduce, nel decreto, in una disciplina delle attività d’investimento contrassegnata, nel complesso, da maggiore libertà e da maggiore trasparenza ( 93 ). ( 89 ) Per un ampio commento a tale direttiva, v. Sgroi, La trasferibilità della posizione previdenziale, cit., p. 83 ss. ( 90 ) V. la « relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale e al Comitato delle Regioni, sull’attuazione della dir. 1998/49/CE » [COM (2006) 22 def.]. ( 91 ) COM (1999) 232 def.: il Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000 ha fissato al 2005 il termine per l’attuazione di detto piano. ( 92 ) Ispirata, cioè, dalla prudent man rule di matrice anglosassone. ( 93 ) V. i nuovi commi 5o bis, 5o ter e 5o quater dell’art. 6; la nuova lett. c bis aggiunta al comma 13o dell’art. 6; il periodo aggiunto al comma 3o dell’art. 6; i nuovi commi 3o bis e 3 ter dell’art. 7; il nuovo art. 7 bis. La nuova disciplina della previdenza complementare Così, per un verso, si prevede che i limiti massimi d’investimento siano adesso solo « eventuali », « giustificati da un punto di vista prudenziale », e non più vincolati a obiettivi di « finanziamento delle piccole e medie imprese e allo sviluppo locale »; che la gestione diretta delle risorse sia ammessa, previa autorizzazione della COVIP, « ove sussistano mezzi patrimoniali adeguati »; come pure si ammette l’erogazione diretta delle rendite, con larghezza ben maggiore rispetto a quanto previsto dall’abrogato comma 4 dell’art. 6. Per l’altro, si fà obbligo ai fondi pensione di documentare analiticamente e periodicamente obiettivi e criteri della propria politica di investimento, e darne informazione agli iscritti; di investire prevalentemente e normalmente su mercati regolamentati. Si dettano, infine, disposizioni più analitiche in materia di garanzia di « mezzi patrimoniali adeguati », specie in caso di assunzione di rischi biometrici o di rendimento minimo. Quanto all’attività transfrontaliera, i nuovi artt. 15 bis, 15 ter e 15 quater del decreto disegnano una sorta di mutuo riconoscimento della libera operatività transfrontaliera dei fondi pensione, allestendo un complesso meccanismo che prevede la reciproca possibilità, per i fondi stabiliti negli Stati membri, di « operare con riferimento ai datori di lavoro o ai lavoratori residenti » in un altro Stato membro, previa autorizzazione concessa dall’autorità competente dello Stato membro di stabilimento. Una procedura di scambio di informazioni tra le autorità competenti, garantisce la conoscenza da parte del fondo pensione delle disposizioni in materia di diritto di informazione degli iscritti, diritto della sicurezza sociale e diritto del lavoro, vincolanti, nello Stato in cui esso intende operare, per i fondi transfrontalieri. In particolare, per quanto riguarda i fondi stabiliti in un Paese membro, autorizzati a operare in Italia, il decreto precisa che le disposizioni ad essi applicabili sono quelle in materia di « destinatari, adesioni in forma collettiva, finanziamento, prestazioni, permanenza nella forma pensionistica complementare, cessazione dei requisiti di partecipazione, portabilità » (art. 15 ter, comma 4o); ferma restando la possibilità di « individuare », tramite decreto ministeriale, le eventuali altre disposizioni di diritto della sicurezza sociale e di diritto del lavoro », nonché « i limiti agli investimenti che i fondi devono rispettare per la parte di attivi corrispondente alle 551 attività svolte sul territorio della Repubblica ». I compiti tra le autorità di vigilanza sono così compartiti: quella dello Stato di stabilimento, autorizza l’attività transfrontaliera e vigila sul rispetto dei limiti agli investimenti previsti dalla normativa dello Stato membro ospitante; quella dello Stato ospitante, vigila sul rispetto delle disposizioni in materia di diritto di informazione degli iscritti, diritto della sicurezza sociale e diritto del lavoro applicabili sul proprio territorio. È prevista la sottoscrizione di appositi « protocolli » tra la COVIP e le altre sue omologhe autorità degli Stati membri, per la regolamentazione della reciproca collaborazione e dei necessari scambi di informazione. Per le forme pensionistiche complementari con meno di 100 aderenti, infine, è prevista la possibilità di escludere, con regolamento della COVIP, l’applicazione di specifiche disposizioni del decreto o della normativa secondaria. Anche alla luce degli importanti, e molto « specialistici » compiti, che le disposizioni da ultimo richiamate attribuiscono alla COVIP, stupisce, una volta di più, la soppressione della COVIP, prospettata nel d.d.l. sulla riforma delle authorities approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 2 febbraio. Ci sia consentito chiudere questa quasi telegrafico resoconto della « dimensione comunitaria » della riforma, con uno spunto di riflessione che consegniamo ad approfondimenti futuri. La logica che ispira la dir. 2003/41/CE è quella di un mercato unico della previdenza complementare, che non contempla la distinzione tra fondo pensione e soggetto gestore delle risorse: ciò spiega l’attribuzione ai fondi pensione della capacità di gestire direttamente le risorse finanziarie e di erogare direttamente le rendite, alla sola condizione che il fondo sia dotato di « mezzi patrimoniali adeguati ». Nel sistema del d.lgs. n. 124/93, invece, assumeva rilievo sistematico centrale il dualismo tra il fondo pensione – soggetto no profit di natura normalmente associativa – e il soggetto imprenditoriale abilitato a gestire le risorse accumulate investendole nel mercato finanziario ( 94 ): ed era, a ben vedere, corollario di questo dualismo, il rapporto ( 94 ) V. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, spec. p. 311 ss., p. 391 ss. 552 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 non concorrenziale, ma di integrazione sussidiaria, tra fondi pensione « chiusi » ed aperti. L’impressione è che il d.lgs. n. 252/05 sia rimasto, anche in questo caso, a metà del guado. Vi è da chiedersi, per esempio, se abbia ancora senso veicolare il nuovo ruolo dei fondi pensione sulle gambe degli enti no profit (in specie, l’associazione). Più in generale, un supplemento di riflessione sarebbe forse necessario, circa la problematicità dell’innesto della logica comunitaria – largamente influenzata da esperienze di common law – nel nostro sistema di previdenza complementare. Armando Tursi Art. 1. (Ambito di applicazione e definizioni) 1. Il presente decreto legislativo disciplina le forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, ivi compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui al D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e al D.Lgs. 10 febbraio 1996, n. 103, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale. 2. L’adesione alle forme pensionistiche complementari disciplinate dal presente decreto è libera e volontaria. 3. Ai fini del presente decreto s’intendono per: a) « forme pensionistiche complementari collettive »: le forme di cui agli articoli 3, comma 1, lettere da a) a h), e 12, che hanno ottenuto l’autorizzazione all’esercizio dell’attività da parte della COVIP, e di cui all’articolo 20, iscritte all’apposito albo, alle quali è possibile aderire collettivamente o individualmente e con l’apporto di quote del trattamento di fine rapporto; b) « forme pensionistiche complementari individuali »: le forme di cui all’articolo 13, che hanno ottenuto l’approvazione del regolamento da parte della COVIP alle quali è possibile destinare quote del trattamento di fine rapporto; c) « COVIP »: la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, istituita ai sensi dell’articolo 18, di seguito denominata: « COVIP »; d) « TFR »: il trattamento di fine rapporto; e) « TUIR »: il testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. 4. Le forme pensionistiche complementari sono attuate mediante la costituzione, ai sensi dell’articolo 4, di appositi fondi o di patrimoni separati, la cui denominazione deve contenere l’indicazione di « fondo pensione », la quale non può essere utilizzata da altri soggetti Tassonomie, concetti e principi della previdenza complementare Sommario (art. 1): 1. Premessa: i caratteri generali della disciplina tra continuità e innovazione. – 2. La finalità della previdenza complementare: la formulazione dell’art. 1, comma 1o, d.lgs. n. 252/05 e l’inquadramento costituzionale della materia. – 3. Segue: le finalità implicite della previdenza complementare. – 4. Segue: le finalità impedite: il fine previdenziale come fine esclusivo della previdenza complementare. – 5. L’equiparazione tra fondi chiusi e aperti tra ambiguità normative e ridimensionamento del ruolo sindacale. – 6. La libertà di adesione ai fondi: la libertà di aderire e la libertà di scegliere a quale forma pensionistica aderire. – 7. Segue: la libertà di adesione plurima e la libertà di incrementare la propria posizione contributiva, complementare e pubblica. – 8. Segue: la libertà di uscire dal sistema di previdenza complementare. 1. – Il d.lgs. n. 252/04 apporta rilevanti innovazioni alla disciplina della previdenza complementare. Il primo dubbio che si pone l’interprete è se le novità della riforma abbiano alterato la fisionomia della materia in modo tale da modificarne i connotati strutturali di fondo o se invece si tratti La nuova disciplina della previdenza complementare di modifiche settoriali che si innestano su di un assetto istituzionale già definito. La questione è complicata anche dalle particolarità della disciplina della previdenza complementare, frutto di innumerevoli aggiustamenti in corso d’opera. A rendere ancora più complesso il quadro contribuisce senz’altro il dibattito ancora aperto circa le finalità della previdenza complementare e la sua collocazione nell’ambito della previdenza sociale garantita dall’art. 38, comma 2o, Cost. o della previdenza privata libera, secondo il disposto del comma 5o del medesimo articolo. Il d.lgs. n. 252/05, è utile sottolinearlo sin da ora, riproduce, modificandolo secondo le linee di riforma delineate nella l. n. 243/04 (d’ora in avanti: l.d.) la struttura del suo antecedente legislativo, il d.lgs. n. 124/93, sicché ad una prima rapida lettura parrebbe che l’assetto di fondo della materia sia rimasto immutato. Ma si tratta, come accennato sopra, di una valutazione tutta da verificare alla luce delle rilevanti e discusse novità che investono la materia. Milita a favore di una lettura continuista della normativa la l.d., nella quale si enunciano le finalità della riforma. Queste sono, è bene rilevarlo sin da ora, riconducibili al principale criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 1o, l.d.: « sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari » prevedendo a tal fine che siano adottate « misure finalizzate ad incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari, collettive e individuali »; che sia uniformato il sistema di vigilanza sull’intero settore della previdenza complementare e siano semplificare le procedure amministrative. Considerate le limitate finalità della legge delega ( 1 ), pare corretto privilegiare l’interpreta( 1 ) Rileva Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mò di (parziale) commento del d.lgs. 252/05, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, I, p. 145, che la delega contenuta nel comma 50o dell’art. 1 l. n. 243/04, riguardante la predisposizione di un testo unico in materia, non è richiamata nel preambolo del d.lgs. n. 252/05, onde sussiste un rilevante dubbio di costituzionalità per eccesso di delega circa la possibilità di apportare innovazioni ulteriori rispetto a quelle delineate nel comma 1o dell’art. 1 della legge delega. Ciò anche perché la delega per l’emanazione di un testo unico non contiene principi e criteri direttivi ulteriori volti ad innovare la materia, e sembrerebbe quindi fare riferimento ad un testo unico meramente compilativoricognitivo della disciplina vigente. 553 zione che si ponga in linea di maggiore continuità con la disciplina previgente, quanto meno sugli aspetti non espressamente presi in considerazione dal legislatore delegante ( 2 ). Peraltro, le innovazioni previste dalla legge delega su alcuni aspetti fondanti della materia sono in ogni caso tali da richiedere una attenta e approfondita riflessione circa il suo inquadramento sistematico. Ci si chiede in particolare se il « dato più qualificante » ( 3 ) della riforma, ossia l’equiparazione delle diverse forme pensionistiche – chiuse, aperte e individuali – e il conferimento tacito del t.f.r. impongano all’interprete di rimeditare il fondamento costituzionale della previdenza complementare e la coerenza della disciplina della materia con le garanzie di cui all’art. 38 Cost. Quello dell’equiparazione tra le varie forme pensionistiche è certamente il nervo scoperto dalla recente riforma: tratto caratterizzante dell’assetto istituzionale della materia è, o almeno è stata, l’opzione legislativa a favore della mutualità e della solidarietà collettiva, ovvero la netta scelta, operata sin dal primo intervento organico del 1993, ma poi in parte temperata già nel corso degli anni ’90, di affidare il compito della realizzazione della previdenza complementare alle parti sociali mediante contratti e accordi collettivi e di riconoscere ai soggetti normalmente operanti sui mercati finanziari – gestori dei c.d. fondi aperti – un ruolo meramente suppletivo. In che modo e fino a che punto questa scelta sia stata revocata dal più recente legislatore, se sia ravvisabile o no nella nuova normativa un totale abbandono del precedente sostegno promozionale alla « previdenza sindacale » ( 4 ), se si debba parlare di un disconoscimento del ruolo centrale della contrattazione collettiva, è questione sulla quale, credo, si discuterà ancora a lungo e su cui si tornerà diffusamente (V. par. 5 e i commenti di Bollani, sub art. 3, e Pallini, sub art. 14, in questo Commentario). ( 2 ) In questo senso v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 148. ( 3 ) L’espressione è di Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere. Spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., n. 2/05, p. 513. ( 4 ) L’espressione è di Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Aa.Vv., Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Padova, 2005, p. 775, spec. p. 778. 554 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Prima di analizzare nel dettaglio il contenuto della norma che qui si commenta e di entrare nel merito delle questioni sopra accennate, è quindi utile riepilogare le linee di fondo del sistema della previdenza complementare, per verificare se esse siano rimaste immutate o se debbano essere riconsiderate. Già dall’analisi del primo elemento fondante della materia – l’origine privata e negoziale della previdenza complementare ( 5 ) – emergono infatti alcune novità. Come si vedrà in dettaglio (v. il commento all’art. 3), accanto agli ormai tradizionali fondi pensione « chiusi » e aperti e alle forme pensionistiche complementari individuali realizzate mediante contratti di assicurazione sulla vita, già previsti dal d.lgs. n. 124/93, altre forme pensionsitiche possono essere istituite da enti diversi e ulteriori rispetto a quelli precedentemente previsti dal legislatore. In particolare la legge attribuisce il ruolo di soggetto istitutore alle Regioni (art. 3, comma 1o, lett. d). La questione è delicata: la l.d., all’art. 1, comma 2o, lett. e, n. 2) indica i fondi da queste ultime istituiti o promossi come i primi destinatari del conferimento tacito del t.f.r., e l’art. 3 del d.lgs. n. 252/05 le include tra i soggetti che possono istituire le forme pensionistiche complementari. Rinviando l’analisi approfondita della questione al commento all’art. 3, è opportuno fin d’ora stigmatizzare quello che è stato definito l’« equivoco della regionalizzazione » ( 6 ), consistente nel fatto che il legislatore ha confuso la potestà legislativa (concorrente) riconosciuta dall’art. 117 Cost. in materia di « previdenza complementare e integrativa », con l’attribuzione del diverso diritto da parte delle regioni di istituire propri fondi pensione. In base al disposto costituzio- ( 5 ) Osservava Bessone, Previdenza complementare, Torino, 2001, p. 10 s., che « ogni “forma pensionistica complementare”, e perciò ogni e qualsiasi fondo pensione sono (...) iniziativa che origina da atti di autonomia di soggetti privati, volta a volta contratti collettivi o “accordi” di altro genere o atti regolamentari ma pur sempre atti di autonomia a carattere negoziale ». In argomento v. anche Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale. Fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001, 2, p. 2. ( 6 ) V. Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 425, nonché Bollani, sub art. 3, in questo Commentario. nale le regioni, pur potendo legiferare sulla materia, devono comunque ritenersi soggette non solo ai principi fondamentali stabiliti dal legislatore nazionale ( 7 ), ma anche alle regole nazionali riguardanti l’ordinamento civile, la tutela del risparmio e i mercati finanziari ( 8 ) (V. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario). In ogni caso, e tralasciando le perplessità che derivano dal fatto che la normativa sembrerebbe attribuire alle regioni contemporaneamente il ruolo di « coregolatore » della materia e di soggetto istitutore dei fondi pensione ( 9 ), secondo la disciplina del d.lgs. n. 252/05, le forme pensionistiche eventualmente istituite dalle regioni sono soggette alla medesima disciplina normativa stabilita per i privati. Alle Regioni si aggiungono gli enti previdenziali privatizzati menzionati nell’art. 1, e l’INPS, il quale a norma dell’art. 9 deve istituire una forma pensionistica complementare destinata a operare in via residuale in caso di impossibilità di destinare il trattamento di fine rapporto ad altri fondi ( 10 ). La presenza di questi soggetti pubblici non sembra alterare il dato strutturale di fondo del carattere privato e negoziale della previdenza complementare, perché il loro ruolo è di carattere residuale e perché essi sono comunque vincolati a operare secondo le norme del decreto. Secondo tratto fondamentale della disciplina, ( 7 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 521 ss. v. anche Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge in tema di pensioni complementari, con qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, III, p. 1238, per il quale l’indicazione della legge, distinguendo tra istituzione e promozione « dà l’impressione di andare ben oltre il nuovo testo costituzionale »; in argomento v. anche Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004, p. 43. ( 8 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 48 e p. 53. ( 9 ) V. ancora Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1241. ( 10 ) La possibilità di istituire e gestire forme pensionistiche complementari era peraltro già riconosciuta all’INPS dalla l. n. 88/89, in argomento v. Garcea, sub art. 9, in questo Commentario; Cinelli, sub art. 1, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 174. La nuova disciplina della previdenza complementare mantenuto e anzi rinvigorito dalla più recente riforma e sul quale si tornerà diffusamente (v. par. 6) è la libertà di adesione garantita ai singoli, che trova ora più ampia declinazione nella libertà di scelta della forma pensionistica cui aderire. Terzo è l’opzione, manifestata sin dalla l. n. 421/92, verso i sistemi a capitalizzazione, che escludono la possibilità di istituire nuove forme pensionistiche complementari a ripartizione. Tale limite risponde da un lato all’esigenza di preservare l’equilibrio finanziario dei fondi pensionistici complementari e dall’altro a quella di realizzare l’obiettivo economico di carattere generale di far transitare una quota delle prestazioni previdenziali dal sistema a ripartizione, insostenibile nel lungo periodo a causa dell’invecchiamento della popolazione, a quello a capitalizzazione. Il vincolo peraltro era esplicitato nel d.lgs. n. 124/93, all’art. 7, comma 5o, in base al quale l’entità delle prestazioni era determinata, tra l’altro, in conformità al principio della capitalizzazione, previsione questa che non ricompare nel nuovo testo del d.lgs. n. 252/05. Ciononostante si deve ritenere che l’opzione a favore dei sistemi a capitalizzazione permanga, sia perché prevista comunque dalla l. n. 421/92, sia perché la nuova l.d. non prevede alcun criterio direttivo in proposito, onde un’interpretazione della nuova normativa che ritenesse superato tale vincolo potrebbe ritenersi incostituzionale per eccesso di delega ( 11 ). Quarto elemento costitutivo della materia e strettamente connesso all’opzione per il sistema a capitalizzazione è la scelta di riservare gli investimenti al mercato finanziario: ai fondi pensione non è concesso investire nel patrimonio immobiliare, che pure è stata la forma storica di investimento degli enti previdenziali, né come si vedrà meglio in prosieguo, di selezionare gli investimenti in ragione di scelte economiche, finanziarie o etiche diverse. Quinto tratto caratterizzante la materia è la tassativa indicazione contenuta nella legge delega n. 421/92, nel d.lgs. n. 124/93 e ribadita negli artt. 1 e 11, d.lgs. n. 252/05 delle prestazioni ( 11 ) V. ancora Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 148. 555 che possono essere erogate ( 12 ) e il loro collegamento con il sistema pensionistico pubblico e con l’età pensionabile da questa stabilita ( 13 ). Fa da collante una normativa incompiuta, che costruisce un sistema fondato su più fonti regolatrici: alla legge si affiancano da un lato la contrattazione collettiva e un complesso sistema di normazione secondaria che si caratterizza per la presenza di provvedimenti governativi, atti di indirizzo, e regolamenti di vario genere, nonché per il ruolo svolto dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione ( 14 ) (d’ora in poi COVIP) ( 15 ). Ciò peraltro non ha affatto impedito che il sistema regolativo assumesse un carattere « fortemente dirigistic(o), contraddistint(o) da una serie di vincoli e autorizzazioni ». Carattere – questo – che contraddistingue quella italiana dalle normative degli altri Paesi, ove i margini di elasticità normativa sono superiori ( 16 ), e che richiede una adeguata giustificazione e fondamento costituzionale. Questa è, a nostro avviso, la questione più interessante da approfondire: l’inquadramento ormai indiscusso della previdenza complementare nell’alveo della garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita di cui all’art. 38, comma 2o, Cost. (v. par. 2), non esime l’interprete dal verificare quale sia il grado di autonomia privata che residua rispetto all’intervento legislativo ( 17 ), non essendo possibile giustificare qualunque intervento invocando « genericamente principi solidaristici ed egualitaristici » o « istanze finanziarie o di bilancio di importanza preminente » ( 18 ): tali esigenze devono in ogni ca- ( 12 ) Pessi, La previdenza complementare, Padova, 1999, p. 152. ( 13 ) In argomento v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 195, il quale osserva come il d.lgs. n. 252/05 accentui ulteriormente il legame con la previdenza di base. ( 14 ) Sulla denominazione COVIP, v. infra, par. 4. ( 15 ) Sul sistema delle fonti v. per tutti Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 29 s. ( 16 ) Le citazioni sono di Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro, Milano, 2000, p. 3 e spec. p. 4. Rileva il carattere dirigistico della normativa anche Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 34. ( 17 ) Cfr. ancora Ferraro, La problematica giuridica dei fondi, cit., p. 6. ( 18 ) Cfr. ancora Ferraro, La problematica giuridi- 556 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 so contemperarsi con il carattere volontario e autofinanziato della previdenza complementare. 2. – L’art. 1 del d.lgs. n. 252/05 si apre con una norma definitoria, in base alla quale il decreto disciplina le « forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complemplementari del sistema obbligatorio, ivi compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui al d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e al d.lgs. 10 febbraio 1996, n. 103, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale ». Tale formula, sia pure con l’aggiunta dell’inciso riferito agli enti di previdenza privatizzati, ricalca esattamente la norma già contenuta nel d.lgs. n. 124/93 e prima ancora nell’art. 3, lett. v), della l. n. 421/92. La formula era già stata definita « troppo schematica e generica » ( 19 ) rispetto alla finalità di indicare quali sono le forme pensionistiche cui si riferisce. Ma il giudizio è stato forse troppo severo: si tratta di una « norma di scopo » ( 20 ), che ben riflette la mancanza di un sufficiente assestamento della disciplina in materia, sia sul piano della regolazione del fenomeno, sia sul piano del suo inquadramento costituzionale. A ben guardare, e come si vedrà meglio al par. 4, le tutele che la previdenza complementare è destinata a realizzare appaiono ben delimitate dal carattere « pensionistico » ( 21 ) delle stesse e dal loro collegamento con il raggiungimento dell’età pensionabile, di modo che la tutela è sostanzialmente incentrata sulla vecchiaia, mentre la protezione rispetto ad altri eventi generatori di bisogno (l’invalidità per esempio) è solo eventuale e in ogni caso sussidiaria. La formula con cui si apre l’art. 1 pone anzitutto la questione teorica (ma dai considerevoli risvolti pratici) dell’inquadramento costituzionale della fattispecie e dei suoi nessi con la previdenza sociale obbligatoria. Non è possibile ri- ca dei fondi, cit., p. 8; nello stesso senso Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 75. ( 19 ) Da Cinelli, sub art. 1, cit., p. 168. ( 20 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 7. ( 21 ) Cfr. Pessi, La collocazione funzionale delle recenti innovazioni legislative in materia di previdenza complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in La previdenza complementare, a cura di Ferraro, cit., p. 53. percorrere in questa sede tutto il dibattito dottrinale in materia, che ha riguardato soprattutto la collocazione della previdenza complementare nell’ambito della previdenza sociale obbligatoria disciplinata dall’art. 38, comma 2o, Cost., oppure dell’assistenza libera di cui all’art. 38, comma 5o, Cost., ma anche i suoi nessi con la libertà sindacale e con la tutela del risparmio. Né è possibile dare conto di tutti i risvolti teorici e pratici che discendono dalle diverse opzioni interpretative. Certo è che non si è trattato di una disputa meramente teorica, dal momento che dalla riferibilità della materia alla garanzia delle prestazioni adeguate alle esigenze di vita (comma 2o) ovvero alla realizzazione di ulteriori bisogni giudicati non costituzionalmente necessitati (comma 5o), discende non solo la giustificazione delle numerose norme che vincolano e limitano in vario modo l’operato dei diversi soggetti coinvolti nella realizzazione delle forme pensionistiche complementari ( 22 ): dall’inquadramento nel comma 2o o nel 5o dell’art. 38 discende anche la giustificazione della libertà di adesione individuale ai fondi pensione (v. par. 6). I nessi che legano la previdenza pubblica a quella privata, e i limiti che quest’ultima può incontrare sono ancora oggetto di vivace discussione e in parte ancora da esplorare. Dovendosi necessariamente sintetizzare i termini della questione, si può muovere dalla constatazione storica che la previdenza complementare è stata disciplinata in modo organico a partire dal 1993, con il d.lgs. n. 124/93 (poi modificato innumerevoli volte alla ricerca dell’assetto ottimale della materia), in stretta connessione con l’avvio delle riforme della previdenza sociale obbligatoria. È valutazione generalmente condivisa ( 23 ) ( 22 ) Tra i quali ricordiamo, a titolo meramente esemplificativo, la previsione che limita il diritto a percepire il trattamento complementare al raggiungimento dell’età pensionabile; la natura retributiva, corrispettiva in senso lato o previdenziale dei contributi; e la giustificazione dei regimi di vigilanza e dei limiti agli investimenti dei fondi pensione. ( 23 ) Fra i molti v. Cinelli, sub art. 1, cit., p. 170; De Luca, La disciplina dei fondi pensione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1994, p. 77; Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, cit., in Dir. lav. Commentario diretto da Carinci, IV, Torino, 2004, p. 17; Pessi, La La nuova disciplina della previdenza complementare quella secondo cui ha giocato un ruolo fondamentale in questo processo l’esigenza di ridurre la spesa pubblica e di superare, almeno in parte, il sistema della gestione previdenziale a ripartizione, facendo transitare quote dei trattamenti pensionistici verso fondi operanti a capitalizzazione (regime questo cui non per caso sono vincolati i fondi istituiti a seguito della prima riforma previdenziale). Si è trattato, in altri termini, di una riduzione dei livelli delle prestazioni garantiti dalla previdenza sociale obbligatoria e dell’affidamento a forme di solidarietà collettiva (le forme pensionistiche individuali verranno introdotte in seguito) della garanzia del mantenimento del tenore di vita raggiunto dai lavoratori durante la vita attiva. Proprio il nesso funzionale tra riduzione della previdenza pubblica e sviluppo di quella complementare giustifica l’originaria riserva della materia all’area del mondo del lavoro (su cui v.il commento all’art. 2). Nel corso degli anni ’90 e con maggiore convinzione a seguito della sentenza della Corte cost. n. 393/00 il diritto vivente ha sostanzialmente inquadrato la previdenza complementare nell’alveo del comma 2o dell’art. 38 Cost. Dopo aver manifestato inizialmente prudenza ( 24 ), a partire dal 1995 ( 25 ) la Corte costituzionale ha affermato che « non può essere posta in dubbio la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421 e, via via, confermata nei successivi interventi, di istituire (...) un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, comma 2o, della Costituzione » ( 26 ). Alla posizione della riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare. Principi ispiratori, novità, prospettive, in Mass. giur. lav., 2006, p. 364 e spec. p. 366; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 33; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 19 ss. ( 24 ) L’espressione è di Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 119, riferita alla sentenza della Corte cost. 3 ottobre 1990, n. 427, in Foro it., 1991, I, c. 2005 ( 25 ) Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421. ( 26 ) Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, la quale afferma altresì che nel rammentato contesto normativo, in cui il nesso strutturale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare è stato voluto dal legislatore quale momento essenziale della complessiva 557 Corte costituzionale si è praticamente, e sia pure con diversi distinguo, allineata tutta la dottrina, e può oggi considerarsi un dato acquisito che la previdenza complementare concorre, con quella obbligatoria alla realizzazione degli obiettivi di cui al comma 2o dell’art. 38 Cost. ( 27 ). A partire da questa osservazione comune si sono però effettuate diverse valutazioni e si sono aperte differenti prospettive teoriche. Ancora con l’approssimazione che le esigenze di estrema sintesi qui impongono, un primo orientamento ritiene che la disciplina previgente della previdenza sociale obbligatoria, basata sul mantenimento di una consistente percentuale della retribuzione percepita durante l’ultima fase della vita lavorativa avesse realizzato una tutela che andava oltre la garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita o comunque oltre quanto finanziariamente sostenibile, per cui lo Stato si sarebbe ritratto, lasciando alla libera iniziativa collettiva (e in seguito individuale) la realizzazione di quell’istanza ulteriore del mantenimento del livello di reddito precedentemente raggiunto ( 28 ). Si parla in questo senso di due interessi diversi: quello al livello previdenziale minimo e quello al mantenimento del tenore di vita precedente ( 29 ). Questa lettura non comriforma della materia, la disciplina censurata (il collegamento tra acquisizione del diritto alla pensione pubblica e quello alla pensione complementare) concorre ad assicurare funzionalità ed equilibrio all’intero sistema pensionistico, in corrispondenza dell’obiettivo perseguito dal legislatore di coniugare l’entità della spesa pensionistica, da ricondurre a parametri sostenibili, con un più adeguato livello di copertura previdenziale. ( 27 ) Per una sintesi delle posizioni precedenti v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 11 ss.; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004, p. 27 ss. ( 28 ) V. in argomento Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 19, per il quale « l’evoluzione storica (...) ha visto la società civile in generale e il mondo del lavoro in particolare lasciarsi ingabbiare da un sistema pubblico di previdenza tanto rassicurante per il livello dei trattamenti garantiti e per la possibilità di raggiungimento delle sue soglie d’accesso quanto « onnivoro » (e quindi inibitore dell’iniziativa privata) a causa del notevole drenaggio di risorse richiesto per la sua stessa sostenibilità ». ( 29 ) P. Sandulli, Welfare State, riforma pensioni- 558 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 porta l’inquadramento della materia nell’alveo del solo comma 5o dell’art. 38 Cost.: si afferma infatti che sussiste comunque un interesse riconosciuto dal comma 2o dell’art. 38 anche alla realizzazione del secondo dei suddetti interessi e che i due sistemi – obbligatorio e complementare – concorrono alla realizzazione del fine sociale della liberazione dal bisogno ( 30 ). A questo punto si aprono però più problemi di quanti se ne siano risolti: al di là della constatazione che in questo modo si deve necessariamente rinunciare alla tesi della necessaria riserva di monopolio pubblico della tutela previdenziale ( 31 ), si osserva che se la previdenza complementare concorre con quella pubblica alla realizzazione dei fini di cui all’art. 38, comma 2o, Cost., si deve spiegare come e perché essa possa essere volontaria, ovvero come si possa giustificare la mancanza di tutela di quei lavoratori che per varie ragioni non possano o liberamente decidano di non aderire ai fondi privati ( 32 ). Si è autorevolmente obiettato che la previdenza pubblica, anche a seguito delle riforme degli anni ’90, ha mantenuto il suo « carattere di strumento necessario e sufficiente » per garantire prestazioni adeguate imposte dall’art. 38, com- stica e sviluppo della previdenza complementare, in La previdenza complementare, a cura di Ferraro, cit., p. 47, che parla di « contaminazione » tra le modalità pubbliche e le modalità private di soddisfazione del bisogno e per il quale la previdenza complementare è insieme a quella pubblica finalizzata alla liberazione dal bisogno, ma persegue un interesse – definito privato sociale – diverso da quello perseguito con la previdenza sociale pubblica. ( 30 ) Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 10. ( 31 ) Cfr. Cinelli, Previdenza pubblica e previdenza complementare nel sistema costituzionale, in La previdenza complementare, a cura di Ferraro, cit., p. 103; sulla questione sia consentito rinviare inoltre a Bonardi, Solidarietà versus concorrenza: la Corte di giustizia si pronuncia a favore del monopolio Inail, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, p. 462 con ampi richiami di giurisprudenza, nazionale e comunitaria; v. anche Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 5; Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 65. ( 32 ) Cinelli, Previdenza pubblica e previdenza complementare, cit., p. 108, Carinci, Aspetti problematici e prospettive de jure condendo, in La previdenza complementare, cit., p. XXVI. ma 2o, e che dunque l’attinenza al comma 2o dell’art. 38 si spiega in ragione della finalità sociale perseguita, ma non può considerarsi legata all’adeguatezza delle prestazioni ( 33 ). Si è altresì affermato che la previdenza complementare mira solo al mantenimento del tenore di vita precedentemente raggiunto, e che si tratta di una « area residuale dei bisogni socialmente rilevanti che, per carenza di risorse e/o per opzione di politica socio-economica, non possono nel momento attuale essere soddisfatti direttamente dallo Stato » ( 34 ). Entrambe le prospettive giungono alla conclusione che la previdenza complementare sarebbe dunque privata, ma funzionalizzata alla realizzazione di un interesse pubblico: la vigilanza e i controlli a cui è soggetta si giustificherebbero in ragione della necessità di garantire effettività alla realizzazione di quegli interessi ( 35 ). Queste interpretazioni si scontrano con la constatazione sempre più frequente della difficoltà se non addirittura dell’impossibilità che molti lavoratori, soprattutto dai percorsi lavorativi atipici e non lineari, incontrano nell’accumulare un montante contributivo tale da consentire di acquisire il diritto a un trattamento pensionistico che vada oltre la misura dell’assegno sociale garantito a tutti i cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito. Certo, l’adeguatezza è un concetto indeterminato e l’entità delle prestazioni non può che essere rimessa alla discrezionalità del legislatore e dipendere dalla situazione economica e sociale complessiva del paese, ma sussiste un sufficiente consenso sulla constatazione che essa consiste in un quid pluris rispetto alle prestazioni di assistenza garantite dal comma 1o dell’art. 38 Cost. ( 36 ). ( 33 ) Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 3 e spec. p. 10 ove l’a. rileva che « sostenere il contrario implicherebbe, per coerenza, una critica di sopravvenuta insufficienza costituzionale del sistema pubblico riformato, il che è palesemente assurdo, ovvero a configurare la obbligatorietà generale, rectius necessarietà, della previdenza complementare, il che per ora non è ». ( 34 ) Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 9. ( 35 ) Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 9 ss.; parla di funzionalizzazione anche Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 25. ( 36 ) Sulla nozione di adeguatezza v. Cinelli, Pre- La nuova disciplina della previdenza complementare 559 Altri Autori sostengono di conseguenza che l’unico modo per salvare la materia dal difetto di costituzionalità per violazione del principio di adeguatezza sarebbe l’introduzione dell’obbligo di adesione ai fondi di previdenza complementare, discutendosi poi se esso debba avvenire nella versione, per così dire, hard dell’adesione ai fondi di istituzione collettiva ( 37 ), o in quella soft dell’imposizione del solo vincolo di adesione, ferma restando la scelta del singolo del fondo cui aderire ( 38 ). Si tratta, tuttavia di una soluzione non soddisfacente, perché si deve anche spiegare quale debba essere il corretto rapporto tra tutela pubblica e privata: soltanto ora il legislatore si è preoccupato di garantire – tra l’altro solo in alcune limitate ipotesi – che le prestazioni di previdenza complementare assicurino un rendimento almeno comparato a quello del t.f.r. (art. 8, comma 9o, su cui v. Ferrante, in questo Commentario), ma ciò nulla dice e nulla garantisce rispetto all’entità del trattamento complementare che il soggetto assicurato potrà raggiungere e, conseguentemente circa l’entità delle prestazioni pensionistiche complessive che potrà percepire. Non è stabilito, infatti, né nella disciplina previgente, né nel d.lgs. n. 252/05 un rapporto reciprocamente condizionato dell’entità delle prestazioni pensionistiche obbligatorie e complementari ( 39 ). Non è detto, di conseguenza, che una volta obbligati i lavoratori a iscriversi a un fondo di previdenza complementare, con questo essi possano raggiungere il livello adeguato alle esigenze di vita cui hanno diritto ( 40 ). Coglie dunque nel segno chi ci invita a non attribuire alla previdenza complementare il dono di risolvere tutte le disfunzioni e i problemi in cui si dibatte quella pubblica ( 41 ). In conclusione la dottrina sembra arrestarsi di fronte alla constatazione del carattere « ibrido », « ambiguo » e di « difficile collocazione » ( 42 ) della previdenza complementare, che non riesce ad entrare a pieno titolo nel 2o comma dell’art. 38 perché non garantisce le prestazioni adeguate, e non può nemmeno considerarsi del tutto libera, perché in ogni caso funzionalizzata alla realizzazione del fine pubblico. Un tentativo di diverso inquadramento costituzionale della materia – forse quello che meglio tenta di conciliare il carattere privato e negoziale (oltre che l’origine collettiva, su cui v. infra par. 5) della previdenza complementare con il ruolo e i vincoli alla stessa attribuiti – muove dalla lettura del sistema secondo il principio pluralistico di cui all’art. 2 Cost.: la previdenza complementare è qui considerata espressione della valorizzazione delle comunità intermedie, sulle quali graverebbe in primo luogo il dovere di solidarietà e alle quali è riconosciuto il diritto di provvedere autonomamente alla realizzazione del pieno sviluppo della persona umana ( 43 ). Questa prospettiva – che muove da una regolazione del rapporto pubblico-privato fondata sul principio di sussidiarietà – ha il merito di superare l’idea della c.d. funzionalizzazione dell’iniziativa privata, che non è più strumentalizzata e vincolata alla realizzazione di un fine pubblico, bensì valorizzata e promossa ( 44 ). In altri termini, la previdenza privata si connota del carattere della socialità e concorre alla realizzazione del fine della liberazione dal bisogno in quanto autonomamente e volontariamente decide di farsi carico delle finalità di cui all’art. 38, comma 2o, Cost. ( 45 ). La tesi ha il merito di valorizzare pienamente, oltre che i profili di libertà, il carattere collettivo e di solidarietà mu- videnza pubblica e previdenza complementare, cit., p. 98; per una diversa interpretazione del principio di adeguatezza, letto in chiave di effettività di accesso alla tutela v. però Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., pp. 85 ss. ( 37 ) In argomento v. Pessi, La riforma del sistema pensionistico, cit., p. 366. ( 38 ) Cfr. Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 40. ( 39 ) Cinelli, sub art. 1, cit., p. 176. ( 40 ) Cinelli, sub art. 1, cit., p. 176. ( 41 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 2, il quale osserva che il fenomeno della previdenza complementare risulta ora « caricato di inusuali compiti salvifici e (...) invocato taumaturgicamente come rimedio alla crisi del sistema previdenziale pubblico ». ( 42 ) Cinelli, Previdenza pubblica e previdenza complementare, cit., p. 109. ( 43 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 19 ss.; Ciocca, La libertà della previdenza privata, Milano, 1998, p. 252. ( 44 ) Cfr. ancora Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 24 ss. ( 45 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 25. 560 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 tualistica del sistema della previdenza complementare, ma deve anch’essa misurarsi con la questione dell’adeguatezza delle prestazioni. Si è in proposito osservato che in un’ottica di sussidiarietà, spetta allo Stato garantire il raggiungimento del fine di cui all’art. 38 Cost. laddove questo non sia realizzato dalle comunità intermedie o dai soggetti privati ( 46 ) e la realizzazione di quel fine può essere garantita in diversi modi, anche attraverso un mix di prestazioni diversificate sia in ordine ai soggetti che le realizzano (pubblici e privati), sia per quanto riguarda la loro tipologia: al sostegno economico ben si possono affiancare misure di altro genere, quali servizi e beni essenziali per mantenere un adeguato livello di vita, come potrebbero essere servizi abitativi, di trasporto e di assistenza di vario tipo. Si prefigura in questo modo un quadro normativo in cui il soggetto appare decisamente più libero, in quanto ha la possibilità di scegliere e di accedere a diverse modalità di realizzazione della propria esigenza di liberazione dal bisogno. Ma si tratta, ad avviso di chi scrive, di una prospettiva tanto suggestiva quanto poco attuale, in quanto presuppone l’esistenza di una rete integrata di servizi tra cui scegliere che è ancora tutta da costruire. Essa richiede infatti un forte impegno dello Stato verso la realizzazione di ulteriori forme di tutela e rimane soggetta, oltre che ai mutevoli orientamenti politici, agli stringenti vincoli di bilancio. La questione appare a chi scrive, di conseguenza, ancora del tutto aperta e richiede un più approfondito dibattito circa le modalità di realizzazione della garanzia di adeguatezza dei trattamenti previdenziali garantita dall’art. 38 Cost. Nell’attesa, tende a farsi strada, anche in ambito dottrinale, l’idea che l’operazione compiuta, forse perché rimasta a metà del guado, sia stata quella di una « privatizzazione » della previdenza, nella quale, tuttavia, il fine pubblico non è stato realizzato attraverso il concorso dei soggetti privati ( 47 ): più semplicemente, si è trattato dell’affidamento a questi ultimi della re( 46 ) Ed è per questo che anche nella prospettiva qui tracciata non si può postulare il superamento della previdenza pubblica a favore dell’affidamento dell’intera tutela previdenziale alle categorie interessate. ( 47 ) Parla di privatizzazione in questo senso De Luca, La disciplina dei fondi pensione, cit., p. 98. sponsabilità della realizzazione dell’interesse protetto ( 48 ), con il risultato, già autorevolmente sottolineato, della configurazione di un sistema di tutela riservato alle categorie più forti ( 49 ) e con una conseguente quanto meno parziale abdicazione del fine pubblico della garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita. 3. – Si è visto al par. 1 che la realizzazione di trattamenti complementari è il fine dichiarato della disciplina che qui si commenta, e si è rilevato al par. 2 che tale fine giustifica le limitazioni normative dell’autonomia privata e, in particolare l’esclusività delle prestazioni che le forme di previdenza complementare possono erogare. La previdenza complementare e la normativa volta a incentivarne la diffusione perseguono però anche un’ulteriore e fondamentale finalità, non sempre espressamente dichiarata in ambito nazionale: quella di alimentare con i risparmi previdenziali dei lavoratori il mercato finanziario. L’intento di coniugare la tutela previdenziale con le esigenze del mercato finanziario è chiaramente esplicitato dalle istituzioni comunitarie, anche in testi normativi di carattere vincolante e ciò benché le competenze della Comunità europea in materia previdenziale siano assai limitate ( 50 ). Rilevano in particolare ai nostri fini due provvedimenti comunitari: la dir. 1998/49/CE, finalizzata alla salvaguardia dei diritti pensionistici dei lavoratori migranti ed espressione del principio della libera circolazione dei lavoratori ( 51 ) e la dir. 2003/41/CE relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali e professionali (Epap) ( 52 ), che invece mira alla costituzione di uno stabile ed efficiente mercato dei servizi finanziari assicurando l’uniformità dei trattamenti previdenziali. Si tratta ( 48 ) V., da ultimo, Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 83 ss. ( 49 ) Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 5, De Luca, La disciplina dei fondi pensione, cit., p. 78. ( 50 ) Per un breve riepilogo v. Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 65 ss. e Cinelli, Stato sociale e ordinamento comunitario: principi generali, in La previdenza complementare, cit., p. 41 ss. ( 51 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 70. ( 52 ) Attuata in Italia con il d.lgs. n. 28/07. La nuova disciplina della previdenza complementare quindi di una finalità chiaramente di tipo economico-finanziario, che viene esplicitamente dichiarata sia nella direttiva stessa, sia in numerosi altri documenti comunitari, nei quali si rileva come l’attività economica dei fondi pensione, che rappresenta il 25% del Pil europeo, giochi un ruolo fondamentale nello sviluppo del mercato finanziario europeo ( 53 ). Si tratta peraltro di una opzione di politica economica che non esclude finalità di carattere sociale; anzi, i documenti comunitari si caratterizzano per la chiara volontà di coniugare l’obiettivo economico con l’individuazione di una strategia per il mantenimento di pensioni adeguate e sostenibili, nell’ambito della quale la previdenza complementare assume un ruolo assai rilevante ( 54 ). Tuttavia, si tratta di un’opzione che affida alla (e confida nella) costruzione di condizioni di libero mercato e concorrenza la realizzazione della finalità sociale della garanzia di pensioni adeguate: si ritiene infatti che lo sviluppo del mercato europeo degli investimenti porti all’incremento dei rendimenti dei fondi pensione e alla riduzione dei loro costi, aumentandone altresì indirettamente la competitività. La fiducia nel mercato così manifestata, d’altra parte, non sembra tener conto di tutti i complessi meccanismi che lo regolano e che possono portare a risultati assai diversi da quelli auspicati. È stato in proposito autorevolmente osservato che non necessariamente l’aumento del risparmio previdenziale individuale incide sul risparmio totale di un Paese, in ( 53 ) V. tra i molti documenti, la comunicazione della Commissione al Parlamento dell’11 maggio 1999, Verso un mercato unico per i regimi pensionistici integrativi – Risultati della consultazione relativa al Libro verde sui regimi pensionistici integrativi; la comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Progetto di una Relazione congiunta della Commissione e del Consiglio in materia di pensioni adeguate e sostenibili, COM/2002/0373def.; nonché le conclusioni del Consiglio del 20 ottobre 2003, Su un Coordinamento aperto per pensioni adeguate e sostenibili, 2003/ c260/02; per una dettagliata analisi delle politiche comunitarie in materia v. Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, I, p. 55. ( 54 ) Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione, cit., p. 56. 561 quanto non è detto che in assenza del sistema previdenziale i singoli non avrebbero risparmiato una somma equivalente in qualche altro modo, così come non è affatto automatico che l’ampliamento dei mercati e della concorrenza porti a un aumento dei rendimenti ( 55 ). Per altro verso, si deve anche riconoscere che l’ispirazione liberista dell’intervento comunitario non ha impedito che venissero adottate precise e stringenti regole finalizzate alla tutela del risparmio dei lavoratori. Il principio di fondo che guida il legislatore comunitario in questa materia è quello di consentire le limitazioni al libero operare dei fondi solo « nella misura in cui ciò sia giustificato per motivi prudenziali » ( 56 ). Anche il legislatore nazionale ha perseguito, sin dalla prima riforma organica della previdenza complementare, finalità ulteriori rispetto a quella di cui all’art. 38 Cost., senza che queste venissero mai esplicitate nei testi legislativi, almeno fino al d.lgs. n. 252/05. È stato in proposito rilevato che tra gli intenti della prima disciplina della materia vi era quello del finanziamento e consolidamento del debito pubblico attraverso il prelievo fiscale realizzato sui contributi previdenziali ( 57 ). Un’analoga finalità di finanziamento pubblico è oggi contenuta nel comma 755o ss. dell’art. 1 l. n. 296/06 (legge finanziaria 2007) che prevede l’utilizzo del t.f.r. dei lavoratori che hanno scelto di non aderire a fondi di previdenza complementare in misure di stabilizzazione del bilancio pubblico e in investimenti in infrastrutture. A parte il miglioramento delle finanze pubbliche, che secondo la disciplina vigente non avviene a stretto rigore con la previdenza complementare in quanto coinvolge solo chi ha optato per il mantenimento del t.f.r., ciò che qui interessa maggiormente è il ruolo attribuito dal legislatore alla previdenza complementare sul mercato finanziario. Il contributo che, in un’ottica prettamente di politica macroeconomica, la previdenza ( 55 ) Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma delle pensioni: dieci miti sui sistemi di previdenza sociale, in Assistenza soc., 2000, p. 19. ( 56 ) Cfr. il 32o considerando della dir. 2003/41/ CE. ( 57 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 34 s., il quale in proposito parla di un prestito forzoso allo Stato. 562 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 complementare offre al sistema finanziario è stato generalmente riconosciuto tra gli studiosi della materia ( 58 ) ed è desumibile dai limiti agli investimenti che sono posti in via generale dall’art. 6 e che vincolano la destinazione delle risorse dei fondi pensione al solo mercato finanziario escludendo così quello immobiliare ( 59 ). Si tratta di vincoli alle possibilità di investimento dei fondi pensione sui quali occorre attentamente riflettere, in quanto appare evidente come con essi si sia realizzata una vera e propria funzionalizzazione della previdenza complementare a fini diversi da quelli previdenziali. Si deve conseguentemente valutare se i limiti posti all’operato dei fondi e finalizzati a scopi diversi da quelli previdenziali siano giustificati o se si concretino in una lesione della libera iniziativa privata garantita dall’art. 41 Cost. Va detto che non toglie rilevanza alla questione la considerazione che i fondi di previdenza complementare non sono imprese ma soggetti che operano senza scopo di lucro e pertanto rientranti nel settore non profit ( 60 ), in quanto la legge ha comunque stabilito che tali soggetti operano sul mercato finanziario secondo le norme che regolano questo settore, e che proprio tale operato è finalizzato alla massimizzazione dei profitti in vista della realizzazione del fine previdenziale ( 61 ). Il dubbio di legitti- ( 58 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 23; Treu, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 10; Cinelli, sub art. 1, cit., p. 172, il quale rileva che la previdenza complementare può effettivamente concorrere al rilancio dell’attività produttiva del Paese e dell’occupazione; v. anche Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 1. ( 59 ) Al quale si accede solo mediante l’acquisto di quote delle società finanziarie che lo gestiscono, v. Corti, sub art. 6, in questo Commentario. ( 60 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 314; Mazziotti, sub art. 2, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 179; sulla natura imprenditoriale delle forme pensionistiche complementari v. anche Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 52 ss. ( 61 ) Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393 ammette che i fondi pensionistici possano rientrare nella tutela di cui all’art. 41 Cost.; tuttavia, investita della questione della legittimità delle limitazioni alla fruizione delle prestazioni previdenziali complementari sotto il pro- mità costituzionale potrebbe peraltro essere superato considerando la norma come attuazione del 3o comma dell’art. 41 Cost., che ammette l’indirizzo pubblico dell’iniziativa privata a fini sociali. Ma ciò non significa dover concludere che ogni limitazione possa considerarsi lecita. Da un punto di vista giuridico, si deve ancora valutare se le limitazioni così poste possano ritenersi proporzionate e coerenti con le finalità perseguite, oltre che con le esigenze di tutela del risparmio previdenziale, risolvendosi altrimenti in una ingiustificata compressione della libertà di iniziativa economica. E in tale valutazione si deve anche a nostro avviso considerare che un’analoga funzionalizzazione non è prevista a carico di nessun altro soggetto operante sul mercato finanziario. Ove la limitazione all’operato dei fondi non sia giustificata dall’esigenza di tutela del fine previdenziale del risparmio, dunque occorrerà anche trovare una ragionevole spiegazione al fatto che si affidi solo ad alcuni dei numerosi operatori finanziari la responsabilità di contemperare i propri interessi con quelli pubblici. In ogni caso, pare opportuno che nel dibattito politico circa l’evoluzione normativa della materia e le prospettive future sia riconosciuto il contributo determinante che il mondo del lavoro apporta anche in questo modo allo sviluppo economico del Paese. In conclusione, a noi pare che il contributo fornito dalla previdenza complementare allo sviluppo dei mercati finanziari non sia stato adeguatamente considerato, soprattutto tra gli studiosi della materia, che pur avendo sempre rilevato la sussistenza della finalità finanziaria nella disciplina della previdenza complementare non ne hanno poi tratto le dovute conseguenze di carattere sistematico, in particolare per quanto riguarda la definizione e la valutazione dei limiti che la libertà di assistenza può subire. 4. – Il comma 4o dell’art. 1 stabilisce in modo tassativo che le forme previdenziali sono at- filo qui in questione, la Corte fornisce una risposta sibillina, ritenendo al questione già assorbita dal quella relativa alla violazione dell’art. 39 Cost. (con riferimento alla quale peraltro la Corte ha sostenuto la legittimità della compressione in vista delle finalità pubbliche). La nuova disciplina della previdenza complementare tuate mediante la costituzione di fondi o di patrimoni separati la cui denominazione deve contenere l’indicazione di fondo pensione, la quale non può essere utilizzata da altri. La definizione ha la funzione di attribuire in via esclusiva ai soli soggetti iscritti all’albo istituito dalla COVIP la possibilità di costituire le forme pensionistiche complementari, al fine di assicurare la trasparenza e il controllo sul loro operato. Soltanto i soggetti appositamente autorizzati dalla COVIP potranno gestire la previdenza complementare e soltanto questi potranno e dovranno avere nella loro denominazione il nome « fondo pensione » ( 62 ). Queste previsioni, che costituiscono una novità soprattutto per le forme pensionistiche individuali costituite mediante contratti di assicurazione sulla vita, risponde all’esigenza sancita chiaramente nella legge delega di uniformazione della disciplina della materia e di definizione di un quadro unico di controllo e vigilanza, affidato per tutti i fondi alla sola COVIP. Si vogliono in questo modo assicurare regole comuni in ordine alla comparabilità dei costi, alla trasparenza e « portabilità », nonché perfezionare l’omogeneità del sistema di vigilanza sull’intero settore, in modo tale che i fondi possano competere tra loro in un contesto omogeneo e che i destinatari delle forme pensionistiche possano liberamente e coscientemente valutare quale sia la forma pensionistica più congeniale rispetto alle loro esigenze. Speculare a tale previsione è la tassatività delle prestazioni previdenziali che i fondi pensione autorizzati possono offrire. Si è già visto che risulta chiaramente dalla definizione di cui al comma 1o dell’art. 1, che le forme di previdenza sono destinate all’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio. A ciò si può ora aggiungere che non sono ammissibili altre prestazioni. Conferma della ( 62 ) È questa, ad avviso di chi scrive, anche la ragione per cui la COVIP, in origine istituita come « Commissione di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari », con l’art. 2 del d.l. 13 novembre 2006, n. 279 non conv. in legge e poi con il comma 751o della l. 27 dicembre 2006, n. 296 ha cambiato denominazione in « Commissione di vigilanza sui fondi pensione ». Sulle funzioni di vigilanza della COVIP v. Montaldi, sub artt. 18 e 19, in questo Commentario. 563 limitazione si ha nell’art. 11, comma 2o, che vincola il diritto alle prestazioni al raggiungimento dell’età pensionabile pubblica, e nelle disposizioni che in vario modo configurano le prestazioni per invalidità e premorienza come accessorie ed eventuali rispetto ai trattamenti di vecchiaia. Il nesso esistente tra previdenza pubblica e privata costituisce dunque anche il limite di quest’ultima: come è stato sostenuto, sia pure con riferimento alla disciplina previgente ( 63 ), le forme previdenziali private che erogano prestazioni diverse da quelle pensionistiche esulano dal campo di applicazione della normativa e la ratio di tale limitazione è data dal vincolo di destinazione alla finalità previdenziale del risparmio realizzato ( 64 ). Peraltro, il panorama europeo denota la presenza di forme previdenziali che coprono più ampi rischi e anche la dir. 2003/41/CE contempla prestazioni complementari relative alla morte, all’invalidità, alla cessazione del rapporto di lavoro, al sostegno finanziario e a servizi in caso di malattia o stato di bisogno (art. 6, lett. d). La stessa direttiva, pur non prevedendo un obbligo in tal senso, riconosce agli Stati membri la facoltà di consentire che le forme pensionistiche garantiscano la copertura di situazioni di bisogno diverse, quali il rischio di invalidità professionale o la reversibilità (art. 9). Se quest’ultima non rientra tra i bisogni espressamente coperti dall’art. 38, comma 2o ( 65 ), vi rientrano certamente altre situazioni rilevanti, quali la disoccupazione o la malattia. Alla luce delle più recenti trasformazioni del mercato del lavoro e della crescente esigenza di realizzare forme di sostegno del reddito nelle fasi di non lavoro o di riduzione dell’attività lavorativa, ci si deve conseguentemente domandare se la limitazione alla sola tutela della vecchiaia non costituisca una restrizione inopportuna o illegittima. Il criterio che dovrebbe guidare l’interprete, in questo come in altri casi, dovrebbe essere quello del bilanciamento dei ( 63 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 52; nello stesso senso v. Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 35. ( 64 ) Ancora Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 67. ( 65 ) Ma sulla non tassatività degli eventi protetti dall’art. 38 Cost. v. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2005, p. 157. 564 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 diversi interessi in gioco e della proporzionalità delle restrizioni alla libertà rispetto alla finalità perseguita ( 66 ). Una prima giustificazione alla limitazione dell’attività dei fondi può essere fondata sull’osservazione che l’estensione degli eventi protetti determinerebbe un incremento dei costi e quindi delle contribuzioni necessarie, o una dispersione delle risorse tale da impedire la realizzazione dell’obiettivo della garanzia della tutela della vecchiaia; ma si tratterebbe di una considerazione che è smentita dalla presenza di un maggior numero di eventi tutelati dalle forme pensionistiche di altri paesi. Una seconda giustificazione, forse più soddisfacente, potrebbe probabilmente essere rinvenuta nel c.d. principio di gradualità: in una situazione quale quella italiana, in cui la previdenza complementare stenta a svilupparsi e in cui il panorama delle forme di tutela integrative dei diversi eventi generatori di bisogno è a dir poco desolante, la restrizione potrebbe giustificarsi con l’esigenza di convogliare i risparmi previdenziali su quella che è la forma di tutela ritenuta più necessaria e richiedente un maggiore tempo di radicamento. Peraltro, una simile giustificazione può valere nel breve e medio periodo; in una prospettiva di lungo termine essa meriterebbe di essere riconsiderata, in quanto potrebbe realizzare una illegittima limitazione della libertà di assistenza privata garantita dall’art. 38, comma 5o, Cost. Se la finalità previdenziale costituisce anche il limite al campo di operatività della previdenza complementare, ci si deve chiedere se si debba altresì escludere che l’investimento dei risparmi dei lavoratori nella previdenza complementare possa costituire lo strumento per realizzare altri fini. I fondi pensione in effetti potrebbero contribuire a realizzare due obiettivi diversi, ma non necessariamente tra loro contrapposti. Innanzitutto essi potrebbero costituire il mezzo per realizzare la partecipazione dei lavoratori al governo delle imprese. Ma il legislatore italiano in proposito ha chiaramente deciso di limitare fortemente le possibilità di concentrazione di capitali dei fondi pensioni e le loro capacità di influenza sui mercati finanziari, relegandoli sempre e comunque al ruolo di azionisti di minoranza. Così dispone infatti il comma 13o dell’art. 6, che vieta di acquisire una posizione dominante sulle imprese soggette alla contribuzione nei confronti del fondo medesimo o comunque di società i cui dipendenti siano destinatari della tutela previdenziale apprestata dal fondo stesso (lett. b e c) ( 67 ). Se si può comprendere che la ragione per cui si impedisce a un fondo pensione aziendale di diventare proprietario dell’azienda che lo ha istituito è quella di evitare commistioni improprie e conflitti di interesse insolubili, non si comprende invece il senso della ulteriore limitazione di cui alla lett. a) del medesimo comma, in base al quale i fondi non possono investire le proprie risorse « in azioni o quote con diritto di voto, emesse da una stessa società, per un valore nominale superiore al cinque per cento del valore nominale complessivo di tutte le azioni o quote con diritto di voto emesse dalla società medesima se quotata, ovvero al dieci per cento se non quotata, né comunque, azioni o quote con diritto di voto per un ammontare tale da determinare in via diretta un’influenza dominante sulla società emittente »: in questo caso non vi è un rischio di conflitto di interessi e l’esigenza di tutelare il risparmio dei lavoratori non sembra rilevare. Un conto infatti è stabilire, come fa la direttiva comunitaria all’art. 18, comma 7o, lett. b), che l’ente pensionistico non può investire più del 5% delle proprie attività in azioni, altri titoli equiparabili ad azioni, obbligazioni, titoli di debito e altri strumenti del mercato monetario e dei capitali emessi dalla stessa impresa e non più del 10% in azioni ed altri titoli equiparabili ad azioni, obbligazioni, titoli di debito e altri strumenti del mercato monetario e dei capitali emessi da imprese appartenenti a un unico gruppo » – regola questa chiaramente finalizzata alla diversificare gli investimenti per ridurre i rischi; altro conto è vietare, come fa l’art. 6, comma 13o, d.lgs. n. 252/05, che i fondi pensioni acquisiscano più del 5-10% delle quote di imprese tout court, anche quindi ove quel 5-10% coprisse una quota modestissima e insignificante delle risorse complessive del fondo. Si tratta di una disposizione che pone una ingiustificata limitazione ( 66 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 75. ( 67 ) Per una dettagliata analisi della materia v. Corti, sub art. 6, in questo Commentario. La nuova disciplina della previdenza complementare dell’iniziativa economica dei fondi, probabilmente in contrasto con l’art. 41 e forse anche con l’art. 46 Cost. Sotto altro profilo, ci si chiede se i fondi pensione possano svolgere una funzione sociale, indirizzando le proprie risorse finanziarie al sostegno di determinati comparti dell’economia del paese o in investimenti c.d. socialmente responsabili o etici. In proposito non pare affatto convincere l’affermazione che « qualsiasi distrazione della forma pensionistica complementare dall’interesse previdenziale che ne costituisce l’esclusiva ragion d’essere rischia di pregiudicare i risultati che gli iscritti al fondo pensione legittimamente si attendono » ( 68 ), perché si è visto che la normativa persegue anche altre finalità e, in particolare, si è rilevato che essa affianca (sia pure senza contraddirla) a quella previdenziale la finalità di sostegno al sistema finanziario. Al di là di tale osservazione, si deve anche rilevare che, così opinando, si definiscono a priori in via esclusiva gli interessi degli iscritti, mentre la libertà di scelta circa l’adesione o no al programma di risparmio previdenziale dovrebbe presupporre anche la libertà di valutarne, oltre che i rendimenti, anche la compatibilità con i propri fondamenti etici. E ciò a maggior ragione oggi che, come si vedrà al par. 6, la libertà di adesione è soprattutto libertà di scelta della forma pensionistica cui aderire. Inoltre, la scelta di investire in determinati comparti produttivi piuttosto che in altri o a determinate condizioni etiche potrebbe costituire un modo per arricchire la qualità degli investimenti e accrescere lo sviluppo del paese, con un sostanziale ritorno in termini di benefici proprio sulla finalità previdenziale perseguita (solo per fare un esempio diretto e immediatamente percepibile, anche se di scuola, non costituirebbe un vantaggio previdenziale diretto la scelta di investire solo su società che, oltre a garantire gli adeguati rendimenti secondo i normali criteri e parametri di valutazione del mercato finanziario, assicurassero ai loro dipendenti una tutela previdenziale complementare?). La finalizzazione all’utile sociale o agli interessi del mondo del lavoro in generale non è insomma necessariamente incompatibile con la realizzazione del fine previdenziale ed anzi tra le due si possono rea- ( 68 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 118. 565 lizzare utili sinergie. In ogni caso, non si vede quale ragione possa giustificare la limitazione della scelta degli investimenti ove questa avvenga a parità di rischio e di rendimento. Pertanto, ferma restando la realizzazione dello scopo della previdenza complementare, l’interprete dovrebbe piuttosto chiedersi non se sia ammissibile la scelta di un determinato indirizzo economico delle risorse finanziarie, bensì a chi debba spettare quella scelta e se e come questa sia stata regolata nel d.lgs. n. 252/05. Quest’ultimo in argomento si limita a stabilire, all’art. 6, comma 14o, l’obbligo di esporre nel rendiconto annuale e nelle comunicazioni agli iscritti, se e in quale misura si siano presi in considerazione aspetti sociali, etici ed ambientali ( 69 ). Si tratta di una prima indicazione utile ad indicare la possibilità di attivare un circolo virtuoso tra previdenza complementare e investimenti socialmente responsabili, ma ancora riduttiva, soprattutto se si considera che la disposizione si inserisce nel quadro di una complessiva disciplina della materia che denota ancora una totale disattenzione verso la questione. Anzi, per come è congegnata, la disciplina dei fondi pensione limita le possibilità di sviluppo di forme previdenziali ispirate ai criteri della responsabilità sociale. La gestione delle risorse dei fondi è infatti sempre affidata ai tradizionali operatori del mercato finanziario, con un sostanziale, ancorché non totale, divieto di gestione diretta. È stato rilevato in studi specifici sull’argomento che questa struttura, se non impedisce del tutto l’investimento socialmente responsabile, in ogni caso ne aggrava considerevolmente il costo, in quanto impone di contrattare le linee di investimento con il soggetto gestore e di adottare regole di trasparenza, centri di consulenza, di monitoraggio e di controllo ulteriori, in contrasto con il criterio generale di contenimento delle spese di gestione ( 70 ). Si può osservare che in ogni caso si tratterebbe di costi che sono destinati a essere più che ricompensati dai benefici attesi; resta tuttavia la constatazione che il legislatore, lungi dall’incentivare questo tipo di investimento, ( 69 ) Ma v. ora, in termini analoghi, anche il comma 5o quater dell’art. 6, introdotto dal d.lgs. n. 28/07. ( 70 ) Per questi aspetti v. il Quaderno Fondi pensione e investimenti socialmente responsabili, curato da Avanzi RSI, Research e Mefop, del 18 dicembre 2002, spec. p. 40 ss. 566 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 non si è nemmeno posto il problema di non ostacolarlo. 5. – Come si è visto, le novità della più recente riforma si inseriscono in un contesto in cui l’inquadramento della disciplina della previdenza complementare nell’art. 38 Cost., alla luce della finalità espressa di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale, non appare ancora del tutto sufficientemente assestato. E in un tale quadro l’interprete è chiamato a ricondurre a sistema le più recenti innovazioni e, prima ancora a valutare se esse possano considerarsi coerenti con l’impianto costituzionale sopra delineato o se sia indispensabile un ripensamento dello stesso. È utile muovere in quest’analisi dalla questione più controversa: l’equiparazione tra le diverse forme pensionistiche previste dal d.lgs. n. 252/05. Tale equiparazione emerge in primo luogo dalle definizioni con cui si apre il comma 3o dell’art. 1: sono « forme pensionistiche complementari collettive » le forme di cui all’art. 3, comma 1o, lett. da a ad h, cioè le forme istituite mediante contratti o accordi collettivi, mediante accordi tra lavoratori autonomi e tra soci di cooperativa, accordi tra persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari, regolamenti aziendali, ovvero dalle regioni o dagli enti previdenziali privatizzati, nonché le forme pensionistiche – c.d. fondi pensione aperti – istituite e gestite dagli operatori finanziari legittimati a norma dell’art. 6. Accanto a queste, il decreto prevede la categoria delle « forme pensionistiche complementari individuali », alle quali sono ricondotte l’adesione individuale ai fondi aperti e i contratti di assicurazione sulla vita. Il decreto, come si nota agevolmente, considera « ugualmente collettive forme abbastanza eterogenee quanto ad origine » ( 71 ), con una chiara « tendenza ad estendere l’attribuzione della qualifica di collettive » a forme che tale caratteristica non hanno affatto, come quelle istituite dalle regioni e soprattutto i fondi aperti. L’utilizzo del termine « collettive » è quindi ambiguo, se non addirittura frutto di una indebita generalizzazione. Esso non può essere rife- ( 71 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 151. rito alle modalità di istituzione delle forme pensionistiche, poiché riguarda, propriamente, le modalità di adesione. Poiché l’iscrizione è libera (v. infra par. 6), e poiché conseguentemente essa non può che essere individuale ( 72 ), si deve ritenere che il riferimento all’adesione collettiva costituisca una « forma sincopata » della possibilità, già prevista nel d.lgs. n. 124/93, attribuita alle fonti istitutive di prevedere, anziché la costituzione di un proprio fondo pensione, l’adesione su base contrattuale collettiva a un fondo aperto ( 73 ). Si tratta in ogni caso di una riunificazione forzata delle due tipologie di forme pensionistiche – chiuse e aperte – che risponde a un preciso intento politico: l’idea di fondo che sorregge tale opzione è quella che vede nel libero dispiegarsi della concorrenza tra le varie forme pensionistiche il presupposto per una migliore realizzazione del fine previdenziale. Ciò trova conferma anche nella esplicita previsione, contenuta in entrambe le definizioni, della destinazione del t.f.r. È stato osservato che la previsione è fuori luogo, in quanto collocata nella parte relativa all’ambito di applicazione e alle definizioni e non nella parte – che le sarebbe propria – relativa alle modalità di finanziamento ( 74 ). Ma la presenza di tale riferimento nell’art. 1 è ancora una volta significativa della volontà del legislatore, da un lato, di porre in risalto la novità della previsione stessa rispetto alla disciplina previgente e, dall’altro e soprattutto, di evidenziare la volontà, tramite appunto tale innovazione, di procedere all’equiparazione delle diverse forme pensionistiche complementari ( 75 ). Si tratta, come è stato osservato, di una sorta di « mitizzazione della concorrenza » ( 76 ), frutto più di una di « estremizzazione ideologi- ( 72 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 516 che definisce la distinzione « debole », rilevando che l’adesione collettiva a un fondo aperto altro non è se non un « procedimento collettivamente rafforzato di adesione individuale ». ( 73 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 151 s. ( 74 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 154. ( 75 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 154. ( 76 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 318, ove l’a. parla del « mito della concorrenza tra fondi ». La nuova disciplina della previdenza complementare ca ( 77 ) che di una soluzione coerente con il complessivo sistema della previdenza complementare. L’equiparazione tra forme pensionistiche collettive e individuali effettuata nelle definizioni di cui all’art. 1 appare alquanto discutibile sul piano sistematico, perché oblitera completamente la differenza, ancora giuridicamente rilevante sotto diversi profili, tra i fondi costituiti dalle parti sociali e i fondi costituiti dagli operatori del mercato finanziario. Rinviando la trattazione ai commenti ai singoli articoli del decreto, è sufficiente rilevare qui che i fondi di origine collettiva e quelli c.d. aperti mantengono tuttora, e inevitabilmente, un trattamento giuridico differenziato non solo per quanto attiene alle modalità di costituzione, alla forma giuridica e alla disciplina finanziaria ( 78 ) (e ciò nonostante l’equiparazione sotto il profilo della vigilanza ( 79 ) e del conferimento del t.f.r., su cui v. Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario) ma anche per quanto attiene alla definizione delle possibilità di conferimento del contributo del datore di lavoro (e dello stesso t.f.r., quando questo avvenga in forma « tacita »). Ma questo è in effetti il punto cardine della riforma e il nodo interpretativo più arduo che essa pone: ci si deve chiedere infatti se l’equiparazione tra le forme pensionistiche collettive e individuali abbia l’effetto di rendere evanescente la distinzione tra secondo e terzo pilastro della previdenza ( 80 ) e prima ancora di rendere evanescente il ruolo prioritario assegnato alla previ- ( 77 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 518, il quale rileva che la nuova definizione delle forme pensionistiche collettive risponde al fine di stabilire in modo inequivocabile che tra le due forme pensionistiche non vi è un rapporto di complementarità bensì di continenza. ( 78 ) Secondo Lener, Prodotto finanziario, prodotto assicurativo e prodotto « previdenziale », in Prev. ass. pubbl. e priv., 2003, p. 1009, i fondi pensione negoziali chiusi devono ritenersi estranei alla disciplina del mercato finanziario; aderisce a qs. tesi Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 324; afferma l’incomparabilità dei fenomeni anche Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., pp. 324 ss. ( 79 ) Su cui v. Montaldi, sub artt. 18 e 19, in questo Commentario. ( 80 ) Ancora Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 518. 567 denza sindacale rispetto a quella individuale. Premesso che anche la disciplina comunitaria attribuisce alle parti sociali il ruolo di fonte privilegiata nella disciplina dei trattamenti di previdenza complementare ( 81 ), è da rilevare in effetti come già in passato la previsione della possibilità di iscrizione ai fondi aperti fosse stata considerata « eversiva » rispetto alla dimensione collettiva della previdenza complementare ( 82 ). Nella disciplina previgente il carattere collettivo della previdenza derivava da diverse caratteristiche del sistema, tra le quali rilevavano anzitutto il carattere di complementarietà rispetto ai trattamenti obbligatori e la connessa riserva della previdenza complementare ai produttori di reddito da lavoro e, soprattutto il sistema di gerarchia delle fonti istitutive, che prefigurava l’adesione ai fondi aperti solo in via sussidiaria e solo ove non fossero operanti i fondi chiusi ( 83 ). Ancora, il ruolo centrale della contrattazione collettiva si desumeva dalle regole riguardanti la c.d. « portabilità » del t.f.r. e del contributo del datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore passasse da un fondo chiuso ad uno aperto. L’esclusione di tale possibilità costituiva (e per quanto riguarda il contributo datoriale tuttora costituisce) un effetto del naturale dispiegarsi dell’autonomia privata, che conferma, peraltro, come la materia non possa essere regolata a prescindere dall’intervento delle parti sociali. Peraltro, già in seguito alle modifiche alla disciplina apportate a partire dalla l. n. 335/95 e con più insistenza dopo l’emanazione del d.lgs. n. 47/00, si rilevava la tendenza verso una sorta di mutamento genetico della fattispecie. Mentre una parte della dottrina osservava con più o meno velata preoccupazione come l’introduzione di elementi di concorrenzialità tra fondi chiusi e ( 81 ) In questo senso v. Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione, cit., p. 78, la quale rinviene il favor verso la contrattazione collettiva nelle previsioni della dir. 2003/41/CE che consentono alla contrattazione collettiva stessa una diversa tipizzazione dei rischi a copertura dei quali può essere riconosciuto il trattamento pensionistico. ( 82 ) Balandi, Principi e scelte normative della riforma previdenziale, in Lav. e dir., 1996, p. 101. ( 83 ) V. per tutti Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 192 ss. e Bollani, sub art. 3, in questo Commentario. 568 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 aperti non fosse del tutto « sintonica » con le ragioni mutualistiche e solidaristiche della previdenza professionale ( 84 ), da un altro punto di vista si osservava come si fosse già pienamente transitati in un « regime di concorrenza », che avrebbe costituito un fattore positivo in termini di estensione delle opportunità offerte ai destinatari della previdenza complementare ( 85 ). Si era altresì autorevolmente osservato come fosse in corso un « mutamento di prospettiva » della previdenza complementare che si sarebbe caratterizzato per la « attenuazione della funzione solidaristica » ( 86 ) e per la progressiva attrazione della previdenza complementare nel mercato finanziario. Elementi sintomatici della mutazione genetica sarebbero stati l’opzione a favore dei regimi a capitalizzazione e il superamento di quelli a ripartizione, l’apertura alle forme pensionistiche individuali e il superamento della riserva della previdenza complementare al solo mondo del lavoro nonché, infine, l’estensione dei benefici fiscali ai fondi aperti e alle forme pensionistiche individuali ( 87 ). Anche prima della riforma del 2005 sarebbe già stato di conseguenza impossibile individuare una nozione unitaria di previdenza complementare, i cui unici tratti comuni sarebbero rimasti la libertà di adesione e la destinazione dei risparmi al mercato finanziario. Inoltre, vigente la legge delega ma non ancora attuato il d.lgs. n. 252/05 si è rilevato come l’equiparazione tra fondi chiusi e aperti avesse generato un vulnus nel sistema della contratta- ( 84 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 352; Ferraro, La problematica giuridica dei fondi, cit., p. 12; Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., pp. 103 ss.; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 36, per il quale la configurazione dell’autonomia collettiva quale fonte istitutiva assolutamente preminente era « indice » di una politica « anacronistica » perché continuava a « riporre nell’organizzazione sindacale una forte speranza per la modernizzazione della società italiana sulla rotta segnata dalla bussola di valori costituzionali forti, quali la solidarietà sociale e l’uguaglianza sostanziale ». ( 85 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 152. ( 86 ) Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 781. ( 87 ) Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 781 ss. zione collettiva: ove il contratto collettivo fosse soltanto una delle tante modalità di realizzazione del fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale, esso non realizzerebbe più un interesse collettivo, bensì la somma di tanti interessi individuali ( 88 ). Conclusione non esplicitata di tali considerazioni dovrebbe dunque essere, se ben intendiamo, il ritorno – desiderato o aborrito – alla collocazione della previdenza complementare nel solo 5o comma dell’art. 38 Cost. ( 89 ), o quanto meno la presa d’atto della sussistenza nel sistema normativo di una confusione tra secondo e terzo pilastro ( 90 ). Ma già la dottrina più avveduta aveva rilevato come l’inserimento di soggetti non lavoratori nell’ambito della disciplina della previdenza complementare non ne avesse alterato la natura di fondo, in quanto il d.lgs. n. 47/00 si era limitato a riconoscere a questi soggetti la possibilità di aderire al terzo pilastro. Si trattava quindi di una disposizione mal collocata nell’ambito della previdenza complementare, di un « intruso », ma non per questo tale da alterarne il connotato professionale ( 91 ). Si era inoltre osservato come nemmeno l’utilizzo del sistema a contribuzione definita potesse contraddire il carattere solidale della previdenza complementare, dovendo questo essere ravvisato nella finalità perseguita e nelle modalità di organizzazione della stessa ( 92 ). Il nodo teorico vero è dunque proprio quello della equiparazione tra i fondi: se in passato esisteva un largo consenso circa la sussistenza di uno stretto collegamento tra solidarietà collettiva, mutualità e previdenza complementare, altrettanto consenso sembra sussistere oggi sul fatto che l’apertura del sistema alla concorrenza tra fondi pensione impone un mutamento di prospettiva. ( 88 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 348. ( 89 ) È questa la conclusione a cui sembra alludere Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 775. ( 90 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 107. ( 91 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 99. ( 92 ) Cfr. Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 183 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare Al contrario, si è già rilevato che la disciplina giuridica mantiene tuttora significative differenze; a ciò si può ora aggiungere che diverse ragioni, anche se non tutte costituzionalmente necessitate ( 93 ), giustificano il favor legislativo verso la previdenza sindacale ( 94 ). Al di là di considerazioni storiche, che vedono la previdenza sindacale all’origine del sistema previdenziale generale ( 95 ), la ragione più convincente muove dal principio di sussidiarietà, che impone di affidare la competenza della materia al soggetto che meglio è in grado di realizzarla. Orbene, diversi motivi inducono a ritenere la tutela possa essere garantita al meglio dai fondi c.d. chiusi. Primo tra tutti, e sempre in un’ottica di sussidiarietà, è il loro carattere partecipato, riconfermato dall’art. 5 del d.lgs. n. 252/05. Se la devoluzione ai soggetti privati della realizzazione del fine previdenziale si giustifica in termini di promozione della capacità di autotutela delle categorie interessate, questa presuppone che le forme siano istituite e regolamentate dagli stessi. Inoltre, la realizzazione della tutela mediante fondi nei quali i diretti interessati partecipano alla gestione assolve alla fondamentale esigenza di controllo sull’operato dei fondi stessi ( 96 ). Da questo punto di vista pare corretta l’osservazione di chi ha rilevato come la querelle, ormai superata, circa la struttura democratico-rappresentativa dei fondi e le difficoltà di conciliarla con i requisiti di onorabilità e qualificazione professionale richiesti ai componenti degli organi di amministrazione dei fondi sia stata più che altro frutto di « antiche diffidenze » e di forme di « pregiudizio classista » ( 97 ). Strettamente connessa alle osservazioni appe- ( 93 ) In questo senso Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 108. ( 94 ) V. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario, il quale osserva che « il legislatore non sembra avere del tutto abdicato, nemmeno oggi, a(lla) linea di promozione dell’autonomia collettiva ». ( 95 ) V. Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 100. ( 96 ) V. anche De Luca, La disciplina dei fondi pensione, cit., p. 87 il quale rileva che il modello partecipativo è funzionale alla tutela degli interessi coinvolti. ( 97 ) Ferraro, La problematica giuridica dei fondi, cit., p. 16; sulla vicenda v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., 362. 569 na svolte è la correlazione esistente tra la tutela previdenziale e il rapporto di lavoro, e, più in particolare la diretta attinenza della materia della contribuzione previdenziale al costo del lavoro. Non è possibile in questa sede affrontare il complesso rapporto tra previdenza complementare e autonomia collettiva, che è approfondito nel commento all’art. 3 ( 98 ). È è in ogni caso innegabile che la negoziazione da parte sindacale della previdenza complementare avviene nell’ambito di una valutazione e di uno scambio complessivo in cui entrano in gioco numerosi altri elementi. In particolare, e indipendentemente dal carattere retributivo o no dei contributi di previdenza complementare, è indubbio che essi siano corrispettivo della prestazione lavorativa ( 99 ) e che in ogni caso siano oggetto di contrattazione insieme alle altre condizioni di lavoro. Se a ciò si aggiunge che, come si è già rilevato, sussiste un interesse collettivo alla regolamentazione e gestione della previdenza complementare e che di tale interesse unici arbitri non possono che essere i lavoratori collettivamente considerati, ne consegue che solo la contrattazione collettiva può valutare se sia più congeniale agli interessi della collettività dei lavoratori che i contributi a quella stessa collettività spettanti siano gestiti da determinati soggetti o se sia preferibile rimettere al singolo lavoratore la scelta del soggetto a cui affidarli. La rilevanza sindacale della materia spiega dunque perché nemmeno il legislatore più recente abbia potuto negare in radice la sussistenza dell’interesse collettivo alla gestione della materia, e perché non avrebbe potuto farlo senza violare l’art. 39 Cost. ( 100 ). Benché la legge delega avesse previsto « il riconoscimento al lavoratore dipendente che si trasferisca volontariamente da una forma pensionistica all’altra del diritto al trasferimento del contributo del datore di lavoro in precedenza goduto, oltre alle quote del trattamento di fine rapporto » (lett. e, n. 4), l’art. 14, comma 1o, del d.lgs. n. 252/04 rinvia agli statuti e ai regolamenti dei fondi pensione la definizione delle modalità di partecipa( 98 ) Ma v. anche Pallini, sub art. 14, in questo Commentario. ( 99 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 133. ( 100 ) V. nello stesso senso, ma in termini dubitativi, Pallini, sub art. 14, in questo Commentario. 570 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 zione alle forme medesime, alla portabilità delle posizioni individuali e della contribuzione ( 101 ). Il legislatore, come detto, non avrebbe potuto fare altrimenti, giacché sarebbe stata una inammissibile violazione della libertà sindacale, ma prima ancora e più in generale dell’autonomia privata, l’imposizione autoritativa alla contrattazione collettiva dell’obbligo di contrattare il versamento di somme a soggetti ad essa estranei ( 102 ). In ogni caso, la dottrina sembra concorde nel ritenere che il riconoscimento all’autonomia collettiva della facoltà di escludere la portabilità del contributo datoriale costituisca una sorta di compromesso equilibrato ( 103 ). Peraltro, si deve anche ricordare che la Corte costituzionale ha affermato che « l’autonomia collettiva può essere compressa o, addirittura annullata nei suoi esiti concreti, non solo quando introduca un trattamento deteriore rispetto a quanto previsto dalla legge, ma anche quando sussista l’esigenza di salvaguardia di superiori interessi generali » ( 104 ). Ma l’affermazione, davvero tranchante, dovrebbe essere almeno in parte temperata: come si è già rilevato, il criterio che dovrebbe guidare l’interprete nella valutazione della legittimità delle limitazioni all’auto- ( 101 ) Ma v. Ichino, Parere pro veritate sulla portabilità del contributo datoriale, in www.lavoce.info, il quale rileva che l’esclusione della libera portabilità del contributo da parte del decreto delegato è incostituzionale per eccesso di delega; Pallini, sub art. 14, in questo Commentario, esclude invece il contrasto con la legge delega rilevando che è stato un episodio di mancato esercizio e non di eccesso di delega, che dà luogo a responsabilità politica senza inficiare la legittimità del decreto delegato. ( 102 ) Contra v. però Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 794, il quale ritiene che negare al lavoratore il diritto al versamento da parte del datore di lavoro alla forma pensionistica, anche aperta o individuale, dal lavoratore stesso prescelta degli stessi contributi e delle stesse quote di t.f.r. che il datore di lavoro è obbligato a versare al fondo previdenziale istituito su base sindacale si tradurrebbe in una inammissibile violazione della libertà individuale. Id., Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema di previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2006, p. 1479. ( 103 ) Cinelli e Nicolini, Quale libertà di scelta nella previdenza complementare?, in Riv. it. dir. lav., 2006, III, p. 164; Pessi, La riforma del sistema pensionistico, cit., p. 368. ( 104 ) Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393. nomia privata è quello della loro proporzionalità rispetto al fine perseguito. Quest’ultimo non può che essere l’incremento delle adesioni ai fondi di previdenza complementare e del loro finanziamento, ma si può legittimamente dubitare che tale finalità possa essere realizzata attraverso gli strumenti predisposti dal legislatore, solo che si considerino alcuni « danni collaterali » che la liberalizzazione spinta del settore può ingenerare. Si allude in particolare alla questione della coesistenza di più fondi e alla conseguente frammentazione del sistema. Non è possibile qui esaminare tutte le complicatissime questioni che la concorrenza tra forme pensionistiche comporta, ma è utile sottolineare subito due rischi assai rilevanti. Vi è anzitutto il pericolo della dispersione delle risorse, che potrebbe compromettere seriamente la realizzazione di quelle economie di scala necessarie per assicurare al risparmio previdenziale un rendimento adeguato ( 105 ). È stato infatti autorevolmente osservato che la concorrenza « preclude soltanto gli utili eccessivi » mentre « non garantisce il contenimento dei costi » che dipende invece dalla struttura centralizzata della previdenza complementare ( 106 ). Si è così altresì valutato che tra perdita delle economie di scala, spese pubblicitarie, costi derivanti dai passaggi da un fondo all’altro, nei sistemi fortemente decentrati i costi assorbono buona parte dei rendimenti del risparmio previdenziale. In secondo luogo, in una prospettiva di libertà di scelta della forma pensionistica cui aderire, vi è il rischio che una carente o inadeguata informazione ai destinatari porti a un fallimento del mercato. La massimizzazione dell’utile del singolo si gioca infatti sulla possibilità che questi ha di scegliere consapevolmente quale sia la forma pensionistica a lui più congeniale. Vero è ( 105 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 527 afferma che « ammettere o addirittura incentivare forme di concorrenza o conflitto tra fonti collettive in sede di implementazione di un principio di delega diretto a massimizzare l’ammontare delle risorse destinate al finanziamento della previdenza complementare e il tasso di adesione ai fondi pensione sarebbe obiettivo eccentrico rispetto al fine ». ( 106 ) V. Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma, cit., p. 42; Pallini, sub art. 14, in questo Commentario. La nuova disciplina della previdenza complementare che il legislatore ha investito decisamente molto sul punto, prevedendo specifici obblighi di informazione e attribuendo un rilevante compito di vigilanza alla COVIP; ma come è stato giustamente osservato, il problema cruciale è chi fornirà l’informazione, posto che ai singoli fondi si può chiedere di fornire informazioni sulla propria forma pensionistica, ma non su quelle proposte dai concorrenti ( 107 ), né sembra possibile pretendere dai datori di lavoro, su cui grava il principale obbligo di informazione, che questo riguardi tutte le possibili offerte esistenti sul mercato. In conclusione, a parere di chi scrive, la recente riforma ha decisamente ridotto il ruolo della previdenza sindacale e dell’autonomia collettiva nella istituzione e gestione delle forme pensionistiche complementari, in una prospettiva assai discutibile sia sul piano costituzionale, in relazione al rispetto del principio di sussidiarietà, sia dal punto di vista dell’opportunità dei mezzi predisposti rispetto al fine perseguito. Tuttavia, restano immutati alcuni tratti di fondo della materia, tra i quali la finalità di risparmio previdenziale e la funzione « ancillare » rispetto al sistema pubblico. Le differenze normative tra la previdenza sindacale e le altre forme pensionistiche peraltro rimangono e mantengono una rilevante valenza discretiva, sebbene le contaminazioni tra secondo e terzo pilastro, che pure restano distinti, sono considerevolmente aumentate, con il rischio di confusione e di scarsa chiarezza. Per altro verso parrebbe, almeno apparentemente, del tutto superato il problema dell’individuazione del fondo cui aderire nel caso di coesistenza di diverse forme pensionistiche aventi lo stesso ambito di applicazione. Vigente il d.lgs. n. 124/93 la questione si era posta in particolare con riferimento alla compresenza di fondi nazionali di categoria e di fondi regionali intercategoriali: e in proposito si sosteneva da una parte che il problema dovesse essere risolto ( 107 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1251. I criteri di informazione sono stabiliti dalla COVIP, nella delibera del 28 giugno 2006, direttive generali alle forme pensionistiche complementari, ai sensi dell’articolo 23, comma 3o, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/ Direttive%20covip.pdf. 571 individuando l’unica fonte istitutiva applicabile sulla base delle regole vigenti in materia di rapporti tra contratti collettivi diversi ( 108 ) e dall’altra che il lavoratore fosse libero di scegliere a quale fondo aderire ( 109 ). Questa è in effetti la soluzione accolta oggi dal legislatore, che, come si è visto, dà per scontato e anzi promuove la concorrenza tra le forme pensionistiche, affidando proprio alla libera scelta dei singoli – alla domanda di mercato – il successo del sistema. La questione merita senz’altro approfondimento, a parere di chi scrive, peraltro, la libertà di scelta non sembra risolvere tutte le questioni che la coesistenza di più fondi solleva: si deve quanto meno ancora fare i conti con le previsioni e le eventuali forme di coordinamento istituite in materia dalla contrattazione collettiva e spiegare quale prevalga nel caso in cui queste si pongano in conflitto con la scelta operata dal singolo ( 110 ). 6. – Il comma 2o dell’art. 1, d.lgs. n. 252/04 stabilisce che « l’adesione alle forme pensionistiche complementari disciplinate dal presente decreto è libera e volontaria » e nell’art. 3, al comma 3o, si ribadisce che « le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari stabiliscono le modalità di partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale ». Si riprende con queste norme un principio già sancito nel d.lgs. n. 124/93, all’art. 3, comma 4o; nel nuovo testo però l’inserimento nell’art. 1, ha chiaramente lo scopo di conferire alla libertà di adesione il carattere – peraltro già ampiamente riconosciutole in passato – di « principio costi- ( 108 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 230 ss. ( 109 ) Tosi, Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Aa.Vv., Scritti in onore di Gino Giugni, Bari, 1999, p. 1309; Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 190, per il quale l’espressa previsione di criteri specifici di soluzione della questione nel caso di adesione tacita conferma « la non operatività di un criterio capace di condurre alla individuazione del contratto applicabile in alternativa al/agli altro/i ». ( 110 ) In argomento v. anche Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1244, il quale rileva che la riforma disincentiva l’autoregolamentazione in quanto accentua i tratti di concorrenzialità. 572 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 tutivo del sistema » ( 111 ), come del resto sottolineato dalla legge delega, ove si prevede « l’eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare » (lett. e, n. 4). La novità saliente della riforma, è bene rilevarlo sin da ora, è data dalla nuova declinazione del principio di libertà, che in un sistema di concorrenza tra fondi quale quello prefigurato dal legislatore (v. retro par. 5), viene inteso in senso molto più ampio rispetto al passato ( 112 ), come si vedrà non senza che ciò determini alcune aporie e contraddizioni di sistema. È bene anzitutto avvertire che la previsione di cui all’art. 1, comma 2o, si riferisce alla libertà di adesione e non alla libertà della previdenza complementare in senso generale: essa riguarda quindi la scelta positiva e negativa del singolo di optare per una tutela complementare a quella obbligatoria pubblica, ma non la libertà di azione dei fondi, che è invece soggetta alla complessa disciplina legislativa e di cui si è detto nei parr. 3 e 4. La libertà di adesione è ricondotta alla garanzia della libertà di assistenza privata di cui all’art. 38, comma 5o, e si ritiene giustificata in quanto la soggettiva valutazione del singolo avrebbe valore sovraordinato rispetto a qualsiasi altro ( 113 ), trattandosi di una decisione che ciascuno deve prendere « a misura del suo personale programma finanziario », in quanto comportante « una valutazione dei flussi di reddito percepito o attesi in futuro e che viene assunta nell’interesse dell’intero nucleo familiare ( 114 ). Si obietta però che una simile visione muove dal presupposto della sussistenza di un’elevata tutela previdenziale pubblica, al di sopra della quale devono legittimamente trova- ( 111 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 70. ( 112 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 185: « se all’inizio la libertà stava soprattutto a significare libertà di scegliere se aderire o meno, sulla base della nuova normativa a questa libertà si aggiunge anche la libertà di scegliere fra vari sbocchi una volta che si scelga di aderire ». ( 113 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 71. ( 114 ) V. ancora Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 73 ss. re spazio le scelte individuali; visione che appare in netto contrasto con la scelta c.d. di realpolitik di incremento della previdenza complementare in funzione della mitigazione degli effetti della riforma del sistema previdenziale pubblico e della conseguente inerenza della tutela complementare alla garanzia di adeguatezza di cui all’art. 38, comma 2o ( 115 ). Nella disciplina previgente – in cui sussisteva un rapporto di sussidiarietà tra fondi chiusi e aperti e in cui di conseguenza il lavoratore tendenzialmente era libero soltanto di scegliere se aderire o no alla forma pensionistica collettiva e solo in mancanza (o su disposizione) di questa a un fondo aperto – la libertà di adesione si configurava come una deroga al principio dell’inderogabilità del contratto collettivo, in mancanza del quale la rinuncia all’adesione da parte del singolo lavoratore sarebbe stata soggetta alle regole di cui all’art. 2113 c.c. ( 116 ). L’originaria collocazione del principio nell’art. 3, comma 4o, del d.lgs. n. 124/93 era dunque corretta, in quanto la norma era proprio finalizzata a regolare i rapporti tra autonomia individuale e collettiva in modo diverso dalle regole generali vigenti in materia. Analogamente, la collocazione nell’art. 1 del d.lgs. n. 252/05 ha chiaramente il senso della maggiore portata attribuita a tale principio, che viene ora declinato anche nella libertà di scelta e di cambiamento della forma pensionistica cui aderire, mutamento di prospettiva che è frutto della scelta dell’equiparazione delle diverse forme pensionistiche ( 117 ), oltre che « riflesso » di una attuazione « indivi- ( 115 ) Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 790, il quale ritiene che la valorizzazione della libertà di adesione « sia soprattutto funzionale alla promozione delle forme di previdenza complementari diverse da quelle sindacali e, quindi, delle forme di investimento finanziario offerte dal mercato ». ( 116 ) V. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario; Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 788; Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., p. 252. ( 117 ) Rileva Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 784, che la questione della libertà di adesione si pone in termini diversi in conseguenza del radicale mutamento di prospettiva in atto, che determinerebbe il superamento della previdenza c.d. sindacale a favore di una previdenza centrata sulla dimensione privata-individuale. La nuova disciplina della previdenza complementare dualista » dei precetti di costituzione economica ( 118 ). Prima di entrare nel merito dell’innovazione legislativa, si deve ricordare che la libertà di adesione è stata criticata sia perché potenzialmente in grado di compromettere o vanificare l’azione sindacale in materia ( 119 ), sia perché in contrasto con la finalizzazione della previdenza complementare alla realizzazione della garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita di cui all’art. 38, comma 2o, Cost.; garanzia che postulerebbe l’obbligatorietà dell’adesione alle forme pensionistiche complementari ( 120 ). Si è già avuto modo di osservare come l’obbligatorietà della previdenza complementare non garantisca di per sé la realizzazione della garanzia di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost.; è utile aggiungere ancora che, almeno nel quadro previgente, l’impostazione della questione in termini di dissociabilità del singolo dalle acquisizioni della contrattazione collettiva in questa materia appariva frutto di un « pregiudizio eteronomo », nel quale si considerava l’adesione realizzata tramite il contratto collettivo una limitazione e non una manifestazione della libertà dei singoli ( 121 ). La finalità espressa di attribuire al principio in questione anche la valenza di libertà di scelta della forma pensionistica riproduce esattamente quel pregiudizio e lo aggrava: non tanto per il significato politico che assume la negazione dell’idea che quella sindacale sia la forma pensionistica più confacente alle esigenze dei lavoratori, quanto perché collocata in un mercato concorrenziale, quella libertà, anziché esprimersi nella forma che le è tradizionalmente propria – quella della autotutela collettiva –, rischia di risolversi in una « estensione delle opportunità » del tutto ( 118 ) Le espressioni sono di Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 34. ( 119 ) Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 789; parlano di attentato all’interesse collettivo Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 131 e Sandulli, Welfare State, riforma pensionistica, cit., p. 50; De Luca, La disciplina dei fondi pensione, cit., p. 85, il quale esclude la violazione dell’art. 39 Cost. ( 120 ) Per un riepilogo del dibattito v. Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale, cit., p. 789. ( 121 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 522; Bollani, sub art. 3, in questo Commentario. 573 fittizia. Come ha osservato uno dei più convinti fautori di tale libertà, il suo limite sarà costituito dal carattere necessariamente standard e di serie dei contratti unilateralmente predisposti dal fondo pensione, « di modo che al destinatario della proposta previdenziale altro non (sarà) consentito se non manifestare il suo consenso ad un certo regolamento di interessi o rinunciare alla conclusione del contratto » ( 122 ). Rischio, questo, che è aggravato dal cruciale problema, cui si è già accennato, della possibilità effettiva per i lavoratori di accedere alle informazioni necessarie per tutelare adeguatamente i propri interessi ( 123 ). Prima della riforma, la dottrina era sostanzialmente divisa tra chi riteneva che i meccanismi dell’adesione o del conferimento tacito del t.f.r. sarebbero stati in contrasto con la garanzia della libertà di adesione ( 124 ) e chi affermava invece che le due previsioni fossero compatibili ( 125 ) e come senza la « mitizzazione » della libertà di adesione non vi sarebbero state difficoltà ad ammettere la legittimità dell’adesione disposta dalla fonte istitutiva ( 126 ). Esigenze di carattere logico e sistematico impongono ora di escludere che la previsione del conferimento tacito del t.f.r. costituisca una limitazione della libertà di adesione, essendo entrambi espressamente stabiliti dal legislatore ( 127 ). Rinviando per l’approfondimento al commento all’art. 8, ai fini che qui interesano è sufficiente osservare che il lavoratore resta pur sempre libero sia di rinunciare al conferimento, ( 122 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 152. ( 123 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1247. ( 124 ) Dondi, Prime note sulla recente disciplina delle forme pensionistiche complementari, in Mass. giur. lav., 1993, p. 705; Boer, La previdenza complementare, in Flessibilità e diritto del lavoro, a cura di G. Santoro Passarelli, Torino, 1997, I, p. 305 e spec. p. 310; Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., p. 250 ss. ( 125 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1241. ( 126 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 522. ( 127 ) Ma v. Bollani, sub art. 3, in questo Commentario, per il quale il conferimento tacito del t.f.r. incrinerebbe fortemente il principio della libertà di adesione. 574 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 sia di aderire a una forma pensionistica diversa ( 128 ). Anche in questo caso peraltro, affinché la libertà del lavoratore sia effettiva e non meramente formale, è fondamentale che gli siano fornite adeguate informazioni. Si osserva in questo senso che ove ben effettuata, l’informazione renderebbe la modalità tacita assai « prossima ad essere una vera e propria manifestazione di volontà » ( 129 ). 7. – Si è già rilevato che a seguito dell’equiparazione tra fondi chiusi e aperti e della statuizione della garanzia della libertà di adesione e di scelta della forma pensionistica cui aderire è possibile che si creino situazioni di concorso/ conflitto tra più fondi pensione. Ci si deve ora chiedere se la garanzia della libertà di adesione comporti anche la possibilità di scelta del singolo di aderire a più fondi contemporaneamente o di incrementare la propria posizione contributiva presso un solo fondo. La possibilità di duplice o molteplice adesione era stata in passato esclusa dalla COVIP che la considerava un evento « anomalo », dovendosi escludere che la volontà della fonti istitutive fosse quella di ammettere una partecipazione plurima ( 130 ). L’organo di vigilanza riteneva pertanto che, in assenza di espressa previsione della contrattazione collettiva, si dovesse presumere l’alternatività dell’adesione. Prima dell’emanazione del d.lgs. n. 252/05 si era altresì rilevato che osterebbe a tale possibilità la previsione dell’obbligo di conferimento di tutto il t.f.r. al fondo pensione, sicché, « la destinazione integrale del trattamento di fine rapporto a un fondo ( 128 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 186; Id., Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1241: « la « modalità tacita » non è in radicale conflitto con la ripetuta conferma della libertà/volontarietà della previdenza complementare ». ( 129 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 187. ( 130 ) V., la delibera COVIP del 12 novembre 2003, « Coordinamento di forme pensionistiche collettive aventi ambiti di destinatari parzialmente o totalmente sovrapposti – Orientamenti », in http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/D031112_01. PDF; ma si v. in argomento anche Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 412, per il quale è sempre ammissibile il cumulo tra la previdenza di origine collettiva e quella individuale. pensione consum(erebbe) la libertà di aderire a forme pensionistiche diverse da quella a cui quell’emolumento è stato conferito, salvo naturalmente farla rivivere nelle ipotesi di trasferimento » ( 131 ). Questa interpretazione sembrerebbe trovare ora conferma nell’art. 8, comma 2o, lett. b), n. 2, d.lgs. n. 252/05, in base al quale, in presenza di più forme pensionistiche il t.f.r. è trasferito a quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori in azienda. Ma la norma si riferisce solo al caso di mancata manifestazione di volontà da parte del lavoratore e dunque non esclude necessariamente che questi possa scegliere diversamente. Nella delibera del 28 giugno 2006 anche la COVIP sembra aver almeno in parte mutato posizione, rilevando che il d.lgs. n. 252/06 « non esclude la possibilità di adesione contemporanea a più forme pensionistiche complementari ». L’affermazione è tuttavia temperata dalla successiva precisazione per cui si può avere adesione plurima in presenza di « una pluralità di rapporti di lavoro ». La questione si pone oggi necessariamente in termini diversi, in quanto, come si è visto, il legislatore auspica e incentiva la coesistenza di più fondi, per cui ci si deve chiedere se non sia priva di fondamento l’argomentazione che fa leva sulla volontà delle fonti istitutive di escludere l’alternatività dell’adesione o se invece il potere riconosciuto alla contrattazione collettiva di escludere la portabilità dei contributi datoriali consenta di risolvere anche il problema dell’adesione plurima. È invece stabilito a chiare lettere dal comma 2o dell’art. 8 (V. Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario) che la libertà riconosciuta al lavoratore comprende anche la libertà di aumentare l’entità della contribuzione a proprio carico rispetto ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva ( 132 ). ( 131 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 296 ss. e spec. p. 305, ove si afferma che con il conferimento del t.f.r. l’interesse previdenziale complementare del soggetto è stato integralmente ed esaustivamente soddisfatto, non residuando conseguentemente « più alcuna porzione di interesse suscettibile di essere soddisfatto ». ( 132 ) Delibera COVIP del 28 giugno 2006, cit., la quale precisa altresì che invece la libertà di suddividere la contribuzione su diverse linee di investimento La nuova disciplina della previdenza complementare Per contro il lavoratore non è libero di incrementare la propria posizione contributiva nel regime pensionistico obbligatorio, come criticamente rilevato nell’« Appello per la libertà di scelta previdenziale e di utilizzo del t.f.r. » sottoscritto da diversi economisti ed esponenti del mondo politico e sindacale ( 133 ). Il limite si potrebbe giustificare in ragione dell’opzione effettuata a favore dei regimi a capitalizzazione: consentire ai singoli di versare il proprio risparmio previdenziale nel regime di previdenza obbligatoria significa mantenere le risorse nell’ambito del sistema a ripartizione e impedire il passaggio a un sistema misto in cui almeno una parte dei contributi è investito per realizzare più ampi rendimenti. Non si tratta solo di una opzione motivata da ragioni di politica economica generale, ovvero dalla finalità di incanalare ingenti risorse sul mercato finanziario, di cui si è detto sopra, ma di una questione ben più delicata, che comporta la valutazione della sostenibilità del sistema di previdenza pubblica a fronte dell’invecchiamento della popolazione. Peraltro, si deve anche considerare che per molti lavoratori impiegati in modo discontinuo e atipico risulta difficile non solo accumulare risparmio da destinare a finalità previdenziali, ma anche raggiungere un montante contributivo sufficiente per maturare una pensione adeguata non al tenore di vita raggiunto durante la vita attiva, ma anche al minimo vitale. Impedire alle persone soggette a questo rischio di optare per il versamento delle eventuali somme disponibili a favore del sistema pubblico rischia quindi di tradursi in una negazione dello stesso diritto ad una prestazione che vada oltre il minimo garantito ai cittadini dall’assegno sociale e dunque, in una violazione dell’art. 38, comma 2o, Cost. Se poi si considera che una non irrilevante parte di lavoratori, secondo recenti indagini ( 134 ), decide di non aderire alle forme pensionistiche complementari per sfiducia nei confronti del mercato all’interno della stessa forma pensionistica è subordinata alle previsioni in proposito degli statuti e regolamenti delle forme pensionistiche. ( 133 ) Pubblicato su Il manifesto del 28 ottobre 2006 e in www.coordinamentorsu.it/altri2006/ 2006_1028_appello.htm. ( 134 ) Fr. Luzi e Di Gialleonardo, Solo un lavoratore su quattro è pronto per i fondi pensione, in Newsletter Mefop, n. 27, ottobre 2006, p. 2. 575 finanziario, si vede come possa risultare utile consentire l’alternativa dell’incremento della propria posizione presso gli enti previdenziali obbligatori. Un ragionevole compromesso poteva essere in qualche modo costituito dalla previsione, contenuta nel n. 7, lett. e), dell’art. 1, l.d., il quale ha previsto la costituzione presso gli enti di previdenza obbligatoria di forme pensionistiche alle quali destinare le quote del t.f.r. non devolute ai fondi pensione privati. Ma la previsione, che ha trovato attuazione nell’art. 8, comma 7o, lett. b) n. 3 e nel successivo d.m. 30 gennaio 2007, non costituisce affatto una possibilità per il singolo di optare per l’incremento della propria posizione assicurativa nel regime obbligatorio, sia perché ha carattere residuale ( 135 ), operando solo in assenza di altri fondi, sia perché è destinata ad operare esclusivamente in assenza di diversa manifestazione delle volontà individuali. Non consente l’incremento della posizione previdenziale pubblica nemmeno la previsione di cui al comma 755o dell’art. 1 della l. n. 296/06, che istituisce presso l’INPS un apposito fondo destinato a ricevere e ad erogare il t.f.r. per le imprese con più di 49 addetti, in quanto il t.f.r. versato all’ente previdenziale mantiene la sua originaria caratteristica ( 136 ) e non è finalizzato all’incremento dei trattamenti pensionistici. Un timido accenno alla possibilità di incrementare la propria posizione nel sistema previdenziale obbligatorio è contenuto nel comma 760o dell’art. 1, l. n. 296/06, in base al quale nella relazione riguardante i dati relativi alla costituzione e ai rendimenti delle forme pensionistiche complementari e alle adesioni alle stesse che il Ministro del lavoro deve presentare annualmente al Parlamento sono anche indicate « le condizioni tecnico-finanziarie necessarie per la costituzione di una eventuale apposita gestione INPS, alimentata con il t.f.r., dei trattamenti aggiuntivi a quelli della pensione obbligatoria ». Con questa disposizione il legislatore sembra dunque intenzionato a valutare le condizioni per consentire di utilizzare il t.f.r. per incrementare la propria posizione nel regime di ( 135 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1254. ( 136 ) Ragione per la quale non è nemmeno corretto parlare di scippo, come avviene in alcune recenti rivendicazioni sindacali. 576 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 previdenza obbligatoria, ma si tratta per il momento di un’ipotesi ancora tutta da verificare. Altra è la questione, che non può essere approfondita in questa sede, se le forme pensionistiche istituite dagli enti pubblici debbano essere regolate secondo la normativa propria del settore della previdenza complementare, per la quale si rinvia a Garcea, sub art. 9, in questo Commentario ( 137 ). 8. – In una prospettiva in cui la libertà di adesione viene elevata a fondamento del sistema e in cui alla libertà di concorrenza vengono attribuite virtù quasi salvifiche, ci si deve domandare se e perché non sia parimenti garantita la libertà di uscita dalla tutela previdenziale complementare ( 138 ). La limitazione di quest’ultima libertà si giustifica, secondo la lettura prevalente, con la finalità previdenziale e, più in specifico, con la funzionalizzazione della previdenza complementare alla realizzazione degli obiettivi di cui all’art. 38, comma 2o: il concorso della previdenza complementare alla realizzazione di una prestazione pensionistica adeguata, in altre parole, fa sì che l’opzione positiva di adesione e quella negativa non abbiano lo stesso valore. Ne è conseguito un pressoché generale consenso sull’esclusione della « indiscriminata libertà di rinunciare al programma di previdenza complementare già avviato » ( 139 ). Non sono mancati peraltro tentativi di temperamento rispetto ad una posizione così radicale, ammettendosi il recesso per giusta causa in applicazione delle regole civilistiche generali ( 140 ); ma si tratterebbe di una so- ( 137 ) V. anche Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1254. ( 138 ) Si chiede infatti Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 185: « perché, nell’ambito di un provvedimento legislativo che in primo luogo afferma la libertà e la volontarietà del sistema complementare, non si riconosce la libertà di rinunciare al conferimento del t.f.r. dopo che lo si è inizialmente consentito? ». ( 139 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 185 per il quale « un parallelismo di soluzioni, per cui se è ammessa la libertà di entrare dovrebbe ammettersi anche la libertà di uscire, non sta in piedi e caso mai, se c’è qualcosa da spiegare, è la libertà di entrata », p. 186; Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 125. ( 140 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 250. luzione non adeguata, in quanto la giusta causa deve riferirsi a situazioni attinenti al rapporto giuridico sussistente tra l’aderente e il fondo pensione e non tiene conto delle mutevoli esigenze del singolo che normalmente possono indurre a decidere di « uscire » dal fondo. Si è altresì sostenuto che, sempre in applicazione delle regole civilistiche generali e in considerazione del carattere a tempo indeterminato del rapporto instaurato, si dovrebbe sempre ammettere la facoltà di recesso, ma resterebbe esclusa la possibilità di recuperare le somme versate ( 141 ). Anche in questo caso la soluzione non appare del tutto appagante. Se la finalità è l’adeguatezza delle prestazioni, logica conseguenza dovrebbe essere l’obbligatorietà dell’iscrizione al sistema di previdenza complementare; ma una volta che si sia esclusa tale scelta e si sia optato invece per un sistema a libera adesione, solo il bilanciamento della libertà con altri diritti costituzionalmente rilevanti può giustificarne la compressione, e a tale bilanciamento si deve procedere con riguardo a ogni aspetto della disciplina della materia che comprime la libertà del singolo. Il dubbio circa la legittimità della limitazione della libertà individuale è peraltro aggravato dalla recente riforma, nella quale, come si è visto, la libertà di adesione ha assunto una configurazione diversa rispetto al passato, non trattandosi più della sola libertà di entrare in un predeterminato programma di risparmio previdenziale, bensì di una più complessa libertà di scelta circa le modalità di realizzazione di tale finalità. Una ragione che può contribuire a giustificare la compressione della libertà del singolo è data dalla necessità di impedire processi di « depauperamento dei fondi »: la facoltà attribuita al lavoratore di revocare la propria scelta potrebbe in effetti incidere negativamente sulle aspettative di finanziamento del fondo pensione e sui calcoli di investimento che questo può effettuare. Tuttavia l’art. 14, comma 6o, dispone che il lavoratore ha la facoltà di trasferire la propria posizione presso un’altra forma pensionistica dopo che siano trascorsi due anni. Ciò avviene inoltre in un contesto in cui il legislatore ha rinunciato quasi totalmente a mantenere mecca- ( 141 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 478 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare nismi di controllo della concorrenza tra i fondi necessari per impedire che la frammentazione degli stessi possa vanificare la realizzazione di quelle economie di scala necessarie per il buon funzionamento dei fondi stessi. Dunque, rispetto al sistema delineato di libertà di adesione e di concorrenza tra i fondi, i limiti e le penalizzazioni poste all’uscita dei singoli appaiono una contraddizione e comunque non giustificate ove sussistano per il lavoratore valide ragioni per rinunciare al programma di previdenza complementare. Si può invece fondatamente giustificare la limitazione della possibilità di uscita dal sistema considerando che questa è posta nell’interesse del singolo lavoratore, allo scopo di tutelarne i risparmi in vista della realizzazione del fine previdenziale. Tuttavia, tale considerazione non pare ancora sufficiente a fugare tutti i dubbi. Una simile lettura individualistica della normativa si scontra infatti con la possibilità di ottenere buona parte della prestazione previdenziale in forma di capitale, e in ogni caso appare sproporzionata qualora la decisione di recesso del lavoratore sia motivata dall’esigenza di fare fronte ad altri eventi generatori di bisogno (come potrebbero essere cure sanitarie o situazioni di disoccupazione) o in ogni caso per fruire di altri diritti o osservare altri doveri costituzionalmente riconosciuti (come potrebbe essere il mantenimento dei figli). In casi di questo genere, si rischia che per garantire una tutela futura si lasci cadere oggi la persona in una situazione di esclusione sociale e di povertà dalla quale poi è ben difficile uscire e che paradossalmente, impedendo l’ulteriore accumulo di risparmio, ri- 577 schia di compromettere anche la effettiva possibilità di fruire in futuro di una prestazione pensionistica adeguata. In altri termini, impedire l’utilizzo del risparmio previdenziale a fronte di bisogni socialmente rilevanti che si presentano prima del raggiungimento dell’età pensionabile sarebbe come chiudere le porte della stalla dopo che i buoi sono scappati. Il giudizio potrebbe essere temperato considerando che la normativa consente oggi diverse forme di riscatto e di anticipazione, che in vario modo cercano di contemperare l’esigenza di realizzazione della tutela pensionistica con altri bisogni della persona (V. Pallini, sub art. 14, in questo Commentario). La valutazione circa la legittimità del sostanziale divieto di uscire dal sistema previdenziale deve dunque essere effettuata tenendo conto delle possibilità che la normativa in materia di riscatti e anticipazioni consente al singolo. Non è questa la sede dove si possa effettuare una compiuta analisi della questione, che sarà trattata nei commenti agli artt. 11 e 14; basti qui rilevare che ad avviso di chi scrive, le soluzioni prefigurate in tali disposizioni appaiono ancora parziali e subordinate al decorso di certi margini di tempo, sicché non sempre il bilanciamento dei diritti in gioco sembra correttamente realizzato. Appare dunque quanto meno auspicabile una revisione, nel senso di un ampliamento, delle possibilità di riscatto – totale o parziale – e di anticipazione delle prestazioni, volta a tenere in maggiore considerazione le situazioni di bisogno che si possono manifestare nel corso della vita attiva della persona. Olivia Bonardi Art. 2. (Ambito di applicazione e definizioni) 1. Alle forme pensionistiche complementari possono aderire in modo individuale o collettivo: a) i lavoratori dipendenti, sia privati sia pubblici, anche secondo il criterio di appartenenza alla medesima impresa, ente, gruppo di imprese, categoria, comparto o raggruppamento, anche territorialmente delimitato, o diversa organizzazione di lavoro e produttiva, ivi compresi i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali previste dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276; b) i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e per territorio; 578 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 c) i soci lavoratori di cooperative, anche unitamente ai lavoratori dipendenti dalle cooperative interessate; d) i soggetti destinatari del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565, anche se non iscritti al fondo ivi previsto. 2. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere istituite: a) per i soggetti di cui al comma 1, lettere a), c) e d), esclusivamente forme pensionistiche complementari in regime di contribuzione definita; b) per i soggetti di cui al comma 1, lettera b), anche forme pensionistiche complementari in regime di prestazioni definite, volte ad assicurare una prestazione determinata con riferimento al livello del reddito ovvero a quello del trattamento pensionistico obbligatorio. I destinatari della previdenza complementare Sommario (art. 2): 1. I destinatari della previdenza complementare e il riferimento al mondo del lavoro. – 2. Il genere dei destinatari: la discriminatorietà di una disciplina apparentemente neutra. – 3. I lavoratori subordinati e i criteri di aggregazione. – 4. Segue: l’inclusione dei lavoratori assunti con le nuove « tipologie contrattuali ». – 5. Segue: le ipotesi di legittima esclusione e la questione dei lavoratori assunti con le nuove « tipologie contrattuali ». – 6. I soci di cooperativa. – 7. Il lavoro autonomo e i vincoli alla scelta tra regimi a contribuzione o a prestazione definita. 1. – L’art. 2 del d.lgs. n. 252/05 definisce l’ambito di applicazione soggettivo della nuova disciplina della previdenza complementare riprendendo con qualche innovazione il contenuto del suo predecessore: l’art. 2 del d.lgs. n. 124/93. Cambia anzitutto la formulazione del capoverso del comma 1o, in quanto la nuova norma stabilisce in forma diretta quali sono i soggetti che possono aderire, in modo individuale o collettivo ( 1 ), mentre il precedente art. 2, d.lgs. n. 124/93 stabiliva con una formulazione indiretta che le forme pensionistiche complementari potevano essere istituite per le categorie di destinatari elencate nel prosieguo. La variazione appare tuttavia solo semantica e non sembra apportare modificazioni di sostanza alla disciplina della materia. I destinatari della previdenza complementare restano in gran parte immutati rispetto al testo precedente, il quale, peraltro, era già stato a più riprese oggetto di diversi ampliamenti ( 2 ). Si ( 1 ) Sulle due diverse modalità di adesione v. retro, il commento all’art. 1, par. 5. ( 2 ) Cfr. Vianello, Il nuovo campo di applicazione delle forme pensionistiche complementari di cui al d.lg. tratta di tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, indipendentemente dal tipo di contratto con cui sono assunti (su cui v. infra par. 4); dei lavoratori autonomi, dei soci lavoratori di cooperative e delle persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari. In origine il d.lgs. n. 124/93 faceva riferimento a due sole categorie di destinatari: i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e i lavoratori autonomi; la l. n. 335/95 ha esteso la tutela ai raggruppamenti di soci lavoratori di cooperativa, anche unitamente ai dipendenti di queste. Solo in seguito il legislatore, con l’art. 17 d.lgs. n. 18 febbraio 2000, n. 47, ha aggiunto la lett. b ter al comma 1o dell’art. 2, d.lgs. n. 124/ 93, estendendo così la previdenza complementare alle persone che svolgono lavoro c.d. « casalingo ». In realtà, è bene rilevarlo sin da ora, l’estensione è per un verso più ampia, in quanto riguarda tutti i soggetti non lavoratori, e per l’altro più limitata, perché questi, al pari di tutte le persone non rientranti tra le categorie di destinatari di cui all’art. 2, in quanto non percettrici di reddito da lavoro, possono sì accedere alle forme pensionistiche complementari, ma soltanto a quelle individuali disciplinate dall’art. 13 e, in forza del rinvio contenuto nel comma 1o del medesimo art. 13, ai fondi pensione aperti. A parte quest’ultima categoria di soggetti, tutte le altre sono identificate in base alla loro appartenenza al mondo del lavoro e la delimitazio- n. 124/93: i soggetti e le fonti, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cester, Torino, 1996, p. 406. La nuova disciplina della previdenza complementare ne così realizzata si spiega in ragione del carattere e della finalità della previdenza complementare: come chiaramente statuito all’art. 1 (v. retro, Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario), lo scopo è quello di assicurare « l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio », ciò che presuppone necessariamente che il beneficiario della prestazione sia al contempo destinatario della previdenza obbligatoria e, in quanto tale, sia un lavoratore ( 3 ). È pacifico che l’ampliamento effettuato con la l. n. 335/95 ai soci di cooperativa ( 4 ) non aveva alterato il carattere occupazionale della previdenza complementare, mentre più complessa è la questione a seguito dell’estensione alle persone non percettrici di reddito e quindi non necessariamente destinatarie della previdenza obbligatoria. Con riferimento alla disciplina precedente la risposta della dottrina era stata negativa, sulla base della considerazione che il d.lgs. n. 47/00 non aveva inteso ampliare la platea dei destinatari della previdenza complementare introducendovi soggetti non lavoratori, bensì soltanto consentire a questi ultimi di utilizzare i fondi pensione istituiti e disciplinati dal d.lgs. n. 124/93 per realizzare una tutela previdenziale ( 5 ). Altra è la questione se l’inserimento dei fondi aperti nell’ambito della disciplina della previdenza complementare ne abbia alterato il carattere sindacale, per la quale si rinvia a Bonardi, sub art. 1, e Bollani, sub art. 3, in questo Commentario ( 6 ). Per quanto ( 3 ) Cinelli, sub art. 1, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 169; Mazziotti, sub art. 2, ibidem, p. 179, per il quale se la legge avesse previsto la possibilità di un’estensione anche a soggetti per i quali non è possibile la copertura previdenziale pubblica per la mancanza dei presupposti, la previdenza in esame non avrebbe avuto una funzione integrativa o complementare, ma diversa natura, anche sostitutiva della previdenza pubblica »; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale. Fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001, p. 100; Bessone, Previdenza complementare, Torino, 2001, p. 61. ( 4 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 100. ( 5 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 106. ( 6 ) V. anche Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 10 ss. 579 qui interessa, basti rilevare che la nuova normativa, oltre a riconoscere ancora alla contrattazione collettiva un rilevante ruolo nella disciplina della materia, non ne altera le finalità, che restano quelle di assicurare l’integrazione dei trattamenti pubblici (art. 1); essa inoltre mantiene e conferma lo stretto collegamento tra previdenza pubblica e privata, ancorando il diritto alle prestazioni complementari all’acquisizione di quelle pubbliche (v. art. 11, comma 2o). Il legislatore del 2005, infine, non ha ampliato ulteriormente la categoria dei destinatari della previdenza complementare, sicché la previsione delle persone non appartenenti al mondo del lavoro tra i possibili beneficiari della previdenza complementare continua ad avere un carattere marginale. In conclusione, ci pare si possa sostenere che anche la nuova disciplina contenuta nel d.lgs. n. 252/05 mantenga il carattere occupazionale della previdenza complementare. 2. – La riforma attuata con il d.lgs. n. 252/05 si caratterizza, in negativo, per la totale assenza di qualunque attenzione e riferimento alla pure complessa questione della parità di trattamento tra uomini e donne. La lacuna appare grave, e colpevole, non solo alla luce della necessità di rispettare i principi e le regole in questa materia da tempo dettati dalla Comunità europea, ma anche perché più che di mancata attuazione della normativa comunitaria nel nostro caso si deve parlare di una sua aperta violazione. In proposito è utile ricordare anzitutto che la parità di trattamento è stata perseguita in ambito comunitario anche sul piano previdenziale, in particolare con le dir. 1979/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, e 1986/378/CEE del Consiglio del 24 luglio 1986, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale. Quest’ultima è stata poi modificata nel 1996 al fine di adeguarne i contenuti alla ricca giurisprudenza della Corte di giustizia in materia; giurisprudenza che, si noti, è dettata in buona parte da controversie promosse da uomini che si sono sentiti discriminati dalla previsione di requisiti di età per l’accesso al pensionamento superiori rispetto a 580 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 quelli stabiliti per le donne ( 7 ). Si tratta per vero ancora del settore in cui il principio della parità stenta maggiormente ad affermarsi, caratterizzandosi per la presenza di numerosi compromessi, tra i quali il mantenimento – almeno per quanto riguarda il sistema pubblico – della differenza di età pensionabile tra uomini e donne, e la legittimità dell’utilizzo di criteri di calcolo attuariale diversi per la determinazione delle prestazioni ( 8 ). Per quanto riguarda specificamente la previdenza complementare, la materia è stata oggetto di un recente intervento normativo, attuato con la dir. 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) ( 9 ). Quest’ultima accorpa le disposizioni fondamentali del diritto antidiscriminatorio di genere contenute nelle dir. 1975/ 117/CEE, relativa all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra lavoratori e lavoratrici; 1976/207/CEE, riguardante l’attuazione del principio di parità di trattamento nell’accesso al lavoro, nella formazione e la promozione professionale e nelle condizioni di lavoro; 1986/378/CEE sulla parità di trattamento nei regimi professionali di sicurezza sociale (già modificata nel ’96) e 1997/80/CE, riguardante l’onere della prova della discriminazione basata sul sesso. La nuova direttiva apporta novità più formali che sostanziali per quanto riguarda il settore dei regimi professionali di sicurezza sociale. Dopo aver fatto salvo quanto previsto dall’art. 4, ovvero il principio della parità retributiva, essa riprende senza rilevanti innovazioni il contenuto delle direttive precedenti, con tutti i limiti di cui si è detto sopra ( 10 ). ( 7 ) In questo senso v. anche Izzi, I fondi pensione e il principio di parità di trattamento nell’ordinamento comunitario, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 69. ( 8 ) Su cui v. Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 79. ( 9 ) Per un primo commento sia consentito rinviare a Bonardi, Parità di trattamento in materia di occupazione e impiego: la nuova disciplina comunitaria, in Note inf., 2006, n. 37, p. 37. ( 10 ) Le uniche novità sono l’inclusione nell’ambito di applicazione dei regimi di sicurezza sociale dei dipendenti pubblici (ove le prestazioni siano collegate Peraltro, nonostante i pur rilevanti limiti dell’intervento normativo, il settore dei regimi professionali di sicurezza sociale ha potuto fare passi avanti nel campo della parità maggiori rispetto a quelli dei regimi legali di sicurezza sociale grazie alla statuizione, da parte della Corte di giustizia, del carattere retributivo dei contributi e delle prestazioni erogate e della loro rilevanza ex art. 141 TCE. Senza poter entrare qui nel merito della complessa evoluzione della normativa comunitaria, e dando per acquisito che i regimi di previdenza complementare disciplinati dal d.lgs. n. 252/05 rientrano pienamente e senza eccezioni nell’ambito di applicazione del titolo II, capo 2, della dir. 2006/54/CE, relativa ai regimi professionali di sicurezza sociale ( 11 ), è utile ricordare che la normativa comunitaria impone anzitutto che non vi siano discriminazioni di genere per quanto attiene al diritto di iscrizione ai fondi di previdenza complementare, come del resto è stato espressamente sancito dalla Corte di giustizia CE sin dalla sentenza Bilka ( 12 ), nella quale la Corte ha affermato che è in contrasto con l’art. 119 (ora 141) TCE l’esclusione dei dipendenti a orario ridotto dall’accesso a un regime pensionistico aziendale, alla sussistenza del rapporto di lavoro e calcolate sulla base delle ultime retribuzioni percepite) e l’espressa definizione delle date di applicazione del principio di irretroattività della regola di parità. Entrambe le innovazioni recepiscono quanto da tempo già affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE. ( 11 ) Sul rapporto di continenza tra la disciplina comunitaria antidiscriminatoria in materia di previdenza complementare e l’ambito di applicazione della disciplina nazionale v. Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 67 e le sentenze della Corte giust. CE 29 novembre 2001, C-366/99, Griesmar; 23 ottobre 2003, C-4/02 e C-5/02 Schönheit. ( 12 ) Corte giust. CE 13 maggio 1986, C-170/84, Bilka-Kaufhaus; 24 ottobre 1996, C-435/93, Dietz; 10 febbraio 2000, C-50/96, Deutsche Telekom AG c. Lilli Schoder; 10 febbraio 2000, C-271/97, Deusche Post Ag c. Elisabeth Sievers; 28 settembre 1994, C-200/91, Coloroll; 9 ottobre 2001, C-379/99, Pensionkasse fur die Angestellten der Barmer Ersatzkasse, che affrontano anche i diversi e complicati risvolti della vicenda relativi alla limitazione degli effetti retroattivi della statuizione del principio di parità stabilendo che tale principio non si applica alle limitazioni relative al diritto di iscrizione. La nuova disciplina della previdenza complementare ove tale esclusione colpisca in misura prevalente le lavoratrici rispetto ai lavoratori, a meno che non si provi che l’esclusione sia giustificata da ragioni estranee a qualsiasi discriminazione. Si tratta chiaramente dell’applicazione ai regimi professionali privati di previdenza sociale del divieto di discriminazioni indirette e si tratta di un precedente particolarmente importante perché fornisce utili indicazioni e criteri interpretativi per affrontare lo spinoso tema dell’estensione ai lavoratori atipici della possibilità di accesso ai regimi di previdenza complementare effettuata con il d.lgs. n. 252/05 (v. par. 4). Tornando alle regole comunitarie in materia, è utile ricordare ancora come la Corte di giustizia abbia affermato che l’art. 119 TCE vieta le discriminazioni per quanto riguarda l’entità dei contributi da versare, che devono essere dello stesso importo per lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile ( 13 ), anche se sono consentite differenziazioni nei regimi a contribuzione definita, ove tali differenziazioni siano necessarie per tenere conto della variazione dei fattori attuariali (art. 9, comma 1o, lett. h, dir. 2006/54/ CE) e salvo il caso in cui siano stabiliti contributi dei datori di lavoro differenti al fine di perequare o ravvicinare gli importi delle prestazioni pensionistiche (art. 9, comma 1o, lett. i, dir. 2006/54/CE). Ancora sono considerate discriminatorie le disposizioni che fanno riferimento al genere o allo stato di famiglia per definire se la partecipazione al regime pensionistico sia obbligatoria o facoltativa, o che interrompono l’acquisizione o il mantenimento dei diritti in relazione alla fruizione dei congedi di maternità o per la fruizione delle pensioni di reversibilità ( 14 ). Il nodo più problematico riguarda peraltro l’applicazione del principio di parità di trattamento nella fissazione dei limiti di età per accedere ai trattamenti pensionistici. Si tratta in effetti di una delle questioni più delicate del diritto antidiscriminatorio, poiché la sua realizzazione comporta rilevanti oneri finanziari per gli Stati membri e incide su una materia, la previ( 13 ) Corte giust. CE 22 dicembre 1993, C-152/91, Neath; 6 ottobre 1993, C-109/91, Ten Oever. ( 14 ) Corte giust. CE 22 dicembre 1993, C-152/91, Neath; 6 ottobre 1993, C-109/91, Ten Oever; in argomento v. anche Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 150. 581 denza sociale, su cui la Comunità europea ha avuto per lungo tempo competenze decisamente limitate. La Corte di giustizia ha da tempo affermato che la definizione dei limiti di età per l’accesso al pensionamento di vecchiaia nei regimi di previdenza direttamente disciplinati dalla legge non rientra nel campo di applicazione dell’art. 119 TCE ( 15 ), mentre vi rientra la definizione dei limiti di età per l’accesso ai trattamenti di previdenza complementare ( 16 ). È stato inoltre espressamente statuito dalla Corte di giustizia che la differenziazione di età dei regimi professionali di previdenza è in contrasto con l’art. 119 TCE anche se la differenza di età è analoga a quella stabilita dal regime legale nazionale ( 17 ). Peraltro, la circostanza che l’affermazione del principio di parità nella definizione dei limiti di età per l’accesso alle prestazioni pensionistiche complementari sia avvenuta prima in via giurisprudenziale e sia stata solo successivamente recepita nelle direttive comunitarie ha comportato alcune limitazioni relative al campo di applicazione della regola di parità. In particolare, la diretta derivazione del principio in questione dall’art. 119 TCE ha consentito di stabilire nella direttiva comunitaria un regime differenziato per i lavoratori autonomi. Per essi la fissazione di un limite di età uguale per uomini e donne può essere posticipata fino alla data in cui la parità non sia stabilita dal regime legale di sicurezza sociale o sino all’adozione di una nuova direttiva in materia (art. 11 dir. 2006/54/CE). Analogamente una differenziazione è ammessa per i lavoratori autonomi per quanto riguarda l’accesso alle pensioni di reversibilità ( 18 ) e all’uso di elementi di calcolo attuariale diversi per uomini e donne ( 19 ) (art. 11 dir. 2006/54/CE). ( 15 ) Corte giust. CE 27 maggio 1971, C-80/70, Defrenne, v. anche Corte giust. CE 16 febbraio 1982, C-19/81, Burton per la quale la definizione dei limiti di età per il pensionamento anticipato rientra nel campo di applicazione della dir. 1976/207/CE, relativa alle condizioni di lavoro. ( 16 ) Corte giust. CE 11 marzo 1981, C-69/80, Worringham. ( 17 ) Corte giust. CE 17 maggio 1990, C-262/88, Barber. ( 18 ) V. Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 76. ( 19 ) Corte giust. CE 28 settembre 1994, C-200/91, Coloroll; 2 dicembre 1993, C-152/91 Neath. 582 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e poi codificato nell’art. 12 della direttiva, ai lavoratori subordinati il principio di parità nei regimi professionali di sicurezza sociale si applica a partire dal 17 maggio 1990, data che coincide con quella della sentenza Barber, con la quale per la prima volta la Corte di giustizia ha affermato che sono discriminatori i regimi pensionistici non obbligatori differenziati in base all’età. In ragione dell’esigenza di garantire la certezza del diritto e di evitare le ripercussioni negative che l’applicazione del principio di parità avrebbe comportato per l’equilibrio finanziario dei fondi pensione, in quella sentenza e nella giurisprudenza successiva la Corte ha altresì stabilito chiaramente che l’applicazione di tale principio non può avere effetto retroattivo ( 20 ). È da osservare peraltro che se da un lato la Corte di giustizia si è mostrata per un verso indulgente, dando preminenza alle esigenze di certezza del diritto (e di equilibrio finanziario dei fondi pensione), dall’altro essa è stata assai severa nel non concedere deroghe successivamente a tale data, sebbene gravando le lavoratrici del costo economico del ripristino delle condizioni di parità ( 21 ). Si è già accennato a come il legislatore nazionale, nel riformare la disciplina della previdenza complementare, si sia mostrato quanto meno disattento rispetto all’esigenza di rispettare il principio di parità tra uomini e donne; alla luce della sia pur breve disamina della normativa comunitaria, si può ora constatare come la legge delega n. 243/04 e il decreto di attuazione n. 252/05 si pongano in netto contrasto con tale principio. L’art. 11, comma 2o, d.lgs. n. 252/05 stabilisce che « il diritto alla prestazione pensionistica si acquisisce al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza, con almeno cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari ». La norma riprende quanto già stabilito in passato dal ( 20 ) Per chi avesse già iniziato prima del 17 maggio 1990 un’azione volta a far applicare il principio della parità in questo campo, la data da cui si applica il principio di irretroattività è l’8 aprile 1976, data della sentenza Defrenne II, a partire dalla quale si applica il principio dell’effetto diretto dell’art. 141 TCE. ( 21 ) V. Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 71. d.lgs. n. 124/93 e come noto era stata considerata legittima, sotto il profilo del rispetto della libertà di assistenza, con la sentenza della Corte costituzionale del 28 luglio 2000, n. 393 (su cui v. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario). Sotto il profilo che qui interessa, ovvero quello del rispetto del principio di parità tra i generi, l’illegittimità della disposizione contenuta nel d.lgs. n. 124/93 poteva dirsi in via di superamento con la riforma del sistema previdenziale pubblico attuata con l. n. 335/95. Quest’ultima, pur mantenendo un regime transitorio considerevolmente lungo, istituiva la c.d. pensione di vecchiaia unificata, che si caratterizzava, tra l’altro, per l’eliminazione della definizione di due diverse età pensionabili per uomini e donne a favore di una disciplina unica per i due generi e flessibile, con possibilità di pensionamento tra i 57 e i 65 anni di età (ferma restando peraltro la sussistenza di particolari requisiti assicurativi e contributivi). Il rinvio contenuto nel d.lgs. n. 124/93 all’età pensionabile prevista dal sistema pubblico dunque era, al pari della nuova età pensionabile pubblica, neutro dal punto di vista di genere e questo consentiva di affermare che, almeno quando il nuovo sistema sarebbe entrato pienamente a regime, la legge italiana sarebbe stata conforme alla clausola di parità affermata prima dalla Corte di giustizia (sin dalla sentenza Barber), ribadita dalla direttiva comunitaria 96/97, che ha modificato la dir. 1986/ 378/CEE, e oggi ripresa nella dir. 2006/54/CE. Ma con la l. n. 243/04 si compie un deciso passo indietro. Una delle più salienti novità della nuova normativa, sia pure destinata a entrare in vigore il 1o gennaio 2008 e probabilmente oggetto di prossime riforme legislative, riguarda proprio il ripristino della precedente differenziazione di genere per il conseguimento del diritto a pensione: 60 anni per le donne e 65 per gli uomini per le pensioni che saranno liquidate con il sistema contributivo c.d. puro; ancora 60 e 65 anni per le pensioni di anzianità (liquidate con il c.d. sistema misto), ma con la possibilità per le donne di fruire dell’abbassamento a 57 anni a condizione di optare per il calcolo della pensione con il solo metodo contributivo. Della « retromarcia » così innestata, è stato affermato, è difficile comprendere le ragioni se non ipotizzando che il legislatore abbia considerato eccessivo per le lavoratrici il passaggio immediato dai La nuova disciplina della previdenza complementare 57 ai 65 anni ( 22 ). L’unica giustificazione che ancora oggi rende costituzionalmente legittima la diversità di età pensionabile resta la necessità di compensare con lo sconto sull’età il doppio ruolo svolto dalle donne nel mondo del lavoro e nell’ambito della famiglia ( 23 ). Ma proprio il carattere compensativo della differenziazione impone altresì che la stessa possa essere considerata solo una opportunità concessa alle donne e non un vincolo tale da impedire loro di continuare a lavorare, come è chiaramente sancito dalla giurisprudenza costituzionale in materia ( 24 ). La differenziazione di età per l’accesso ai trattamenti pensionistici di vecchiaia e anzianità così ripristinata, per quanto in controtendenza con le linee di riforma europee ( 25 ), appare rispettosa del diritto comunitario, in quanto la dir. 1979/7/CEE consente agli Stati membri di escludere dall’applicazione del principio di parità, tra l’altro, la fissazione del limite di età della pensione di vecchiaia (art. 7, comma 1o); tuttavia alla medesima conclusione non si può più giungere per le prestazioni di previdenza complementare dei lavoratori subordinati. L’art. 11 del d.lgs. n. 252/05, collegando l’accesso alle prestazioni complementari all’età pensionabile stabilita dal regime obbligatorio pubblico, reintroduce la differenziazione di età, in violazione della normativa comunitaria, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, per i quali il principio di parità si applica sin dal 1990. Le conseguenze di tale violazione sono tra l’altro assai rilevanti poiché la Corte di giustizia ha affermato che dopo il 17 maggio 1990 il rispetto del principio di parità può essere garantito in via giudi( 22 ) Izzi, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Napoli, 2005, p. 123. ( 23 ) Izzi, Eguaglianza e differenze, cit., p. 118 e p. 124. ( 24 ) Corte cost. 18 giugno 1986, n. 137, in Foro it., 1986, I, c. 1749; 27 aprile 1988, n. 498, in Foro it., 1988, I, p. 1769, per le quali sono illegittime le disposizioni che prevedono un’età pensionabile inferiore per le donne, ove interpretate nel senso che sia ad esse negato il diritto di continuare a svolgere la prestazione lavorativa fino allo stesso limite di età stabilito per gli uomini; Izzi, Eguaglianza e differenze, cit., p. 116 ss. ( 25 ) V. ancora Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 73 ss. 583 ziale solo concedendo alle persone della categoria sfavorita gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata ( 26 ) e dunque riconoscendo la minore età pensionabile prevista per le donne anche agli uomini, non ammettendosi giustificazioni basate sull’impossibilità di sostenerne il costo finanziario. E si deve ricordare in proposito che la Corte di giustizia ha da tempo affermato che il principio di parità può essere fatto valere anche nei confronti degli amministratori dei regimi pensionistici, anche se estranei al rapporto di lavoro, in quanto soggetti comunque tenuti a fornire una prestazione che costituisce retribuzione a norma dell’art. 119 TCE ( 27 ). Peraltro è utile rilevare come il legislatore possa invece ristabilire la parità « al ribasso », cioè innalzando i requisiti di età delle donne rispetto a quelli degli uomini ( 28 ). 3. – La prima categoria di destinatari della previdenza complementare è costituita dai lavoratori dipendenti, pubblici e privati. Il fatto che il legislatore abbia previsto congiuntamente le due categorie è frutto di una linea di politica del diritto – da tempo perseguita e mai del tutto realizzata – della completa equiparazione delle due forme di impiego. Non è tuttavia possibile in questa sede trattare diffusamente delle modifiche che hanno investito il pubblico impiego: rinviando al commento agli artt. 3 e 23 per una completa analisi della materia, basti qui rilevare che la disciplina della previdenza complementare si caratterizza comunque per la permanenza di ampi tratti di discontinuità del settore pubblico rispetto a quello privato. I principali, a cui qui si può solamente accennare, riguardano da un lato la diversa definizione delle aree contrattuali e la scelta a favore di un sistema fortemente centralizzato, or- ( 26 ) Corte giust. CE 28 settembre 1994, C-408/ 92, Smith; 28 settembre 1994, C-200/91, Coloroll; Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 74. ( 27 ) Corte giust. CE 24 ottobre 1996, C-435/93, Dietz., cit. ( 28 ) In argomento v. le acute osservazioni di Izzi, I fondi pensione e il principio di parità, cit., p. 75, la quale osserva che la parificazione all’età più bassa sarebbe in controtendenza rispetto alle politiche di innalzamento dell’età pensionabile. 584 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ganizzato su pochi fondi di comparto o intercompartimentali ( 29 ), e dall’altro, la previsione, contenuta nell’art. 23, comma 6o, dell’applicazione al settore del lavoro pubblico della disciplina previgente con un sostanziale posticipo del conferimento del t.f.r. La lett. a) del comma 1o dell’art. 2, relativa alla definizione dei lavoratori che possono aderire alle forme pensionistiche complementari contiene alcune modifiche rispetto alla precedente formulazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 124/93 ( 30 ), indicando i possibili criteri di aggregazione dei lavoratori. In generale, l’indicazione delle modalità di raggruppamento ricalca le possibili for( 29 ) Carinci, Aspetti problematici e prospettive de jure condendo, in La previdenza complementare, cit., p. XXX. ( 30 ) Vi è una sorta di inversione gerarchica dei possibili criteri di aggregazione dei lavoratori ai fini dell’adesione alle forme pensionistiche complementari: l’art. 2 d.lgs. n. 124/93 prevedeva la categoria, il comparto, il raggruppamento anche territorialmente delimitato, la categoria contrattuale, l’impresa, l’ente, il gruppo di imprese o una diversa organizzazione del lavoro o produttiva; l’art. 2 del d.lgs. n. 252/05 inverte tale ordine, partendo dall’impresa per giungere, elencando al contrario gli stessi possibili raggruppamenti, fino alla categoria. Quest’ultima inoltre nel nuovo testo è indicata in modo generico, senza ulteriori specificazioni, mentre nel precedente art. 2 era indicata sia in modo generico, sia seguita dall’attributo « contrattuale ». L’eliminazione del duplice riferimento non sembra tuttavia alterare l’indicazione normativa, anzi appare corretta sotto il profilo giuridico, in quanto nel precedente art. 2 la categoria (generica) era collocata accanto al comparto e indicava quindi le categorie (merceologiche) nelle quali normalmente si articola il livello nazionale della contrattazione collettiva, a cui corrispondeva l’espressione comparto, che indicava lo stesso livello di contrattazione nell’ambito del pubblico impiego, mente la categoria contrattuale, era collocata dopo le altre forme di raggruppamento e prima del livello di impresa e sembrava indicare le categorie professionali di cui all’art. 2095 c.c. Peraltro si trattava di una imprecisione in quanto anche la « categoria » di livello nazionale non può che essere una categoria contrattuale e non merceologica. Sul significato da attribuire alle espressioni categoria e categoria contrattuale nel d.lgs. n. 124/93, cfr. Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 179. In ogni caso si deve ritenere che l’inversione dell’ordine dei criteri di raggruppamento dall’impresa alla categoria non possa avere rilevanza giuridica ed essere intesa in senso vincolante, riducendosi al contrario ad una mera variazione semantica. me di associazionismo sindacale e si spiega in considerazione del fatto che la legge, nonostante l’equiparazione tra fondi chiusi e aperti ( 31 ), tuttora assegna al contratto collettivo il ruolo di fonte privilegiata di istituzione delle forme pensionistiche complementari ( 32 ). Peraltro, in un sistema fondato sulla libertà sindacale da un lato e sulla libertà dell’assistenza privata dall’altro e nel quale, come si è visto (v. retro, sub art. 1), la previdenza complementare pur concorrendo alla realizzazione delle finalità di cui al comma 2o dell’art. 38 Cost., resta privata e libera, la scelta delle modalità di aggregazione dei lavoratori non può che essere rimessa alla libera autodeterminazione di questi. Devono quindi ritenersi possibili raggruppamenti territoriali o misti, che includano lavoratori del settore pubblico con quelli del settore privato o lavoratori subordinati con quelli autonomi ( 33 ). Più complessa è la questione della possibile estensione della normativa a soggetti non compresi nell’elenco dei destinatari della normativa, ovvero non espressamente menzionati nell’art. 2, di cui si tratta al par. 4. 4. – Una rilevante novità della lett. a), comma 1o, dell’art. 2 è la previsione tra i lavoratori subordinati di cui all’art. 2 dei « lavoratori assunti ( 31 ) Su cui v. Bonardi, sub art. 1, Bollani, sub art. 3, e Pallini, sub art. 14, in questo Commentario. ( 32 ) Rilevava con riferimento al precedente art. 2 d.lgs. n. 124/93 che i criteri ricalcavano quelli dell’associazionismo sindacale perché il contratto collettivo era la più importante tra le possibili fonti istitutive Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 179. In argomento v. anche Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 192, secondo il quale categoria, comparto o raggruppamento costituiscono soltanto le collettività di riferimento dell’iniziativa previdenziale: indicano la possibile estensione della forma pensionistica. ( 33 ) È peraltro a nostro avviso dubbia la possibilità di ravvisare un ulteriore riscontro normativo a favore dell’ammissibilità di fondi misti di lavoratori autonomi e subordinati nel comma 5o dell’art. 4, in base al quale « i fondi pensione costituiti nell’àmbito di categorie, comparti o raggruppamenti, sia per lavoratori subordinati sia per lavoratori autonomi, devono assumere forma di soggetto riconosciuto ai sensi del comma 1o, lett. b)... »: la norma infatti deve essere riferita alle due categorie di lavoratori alternativamente e non cumulativamente; essa dunque non conferma, ma non esclude nemmeno il loro raggruppamento in un’unica forma pensionistica. La nuova disciplina della previdenza complementare in base alle tipologie contrattuali previste dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 ». L’innovazione merita un’approfondita riflessione, per alcune importanti ragioni: in primo luogo essa pone un problema di carattere prettamente interpretativo riguardante la definizione delle tipologie contrattuali a cui si riferisce la norma; inoltre ci si deve chiedere se e in che misura siano legittime le previsioni dei fondi pensione volte ad ammettere o ad escludere dal proprio ambito di applicazione i lavoratori aventi determinati tipi di contratto o svolgenti attività limitate nel tempo. Prima di entrare nel merito di tali questioni, si deve considerare che si tratta di lavoratori che difficilmente o a fatica, a causa dei percorsi lavorativi non lineari, riusciranno a maturare il diritto alle prestazioni previdenziali del primo pilastro, e a maggior ragione a realizzare forme di risparmio da destinare alla previdenza complementare. È stato osservato che una delle finalità della legge delega era quella di perseguire la « contestuale incentivazione di nuova occupazione con caratteri di stabilità ». Era stato di conseguenza previsto nei criteri di delega l’abbattimento dell’aliquota contributiva della previdenza obbligatoria per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato. La misura, inizialmente « persa per strada » ( 34 ) è stata poi inserita nella legge finanziaria per il 2007 la quale, con varie disposizioni, prevede riduzioni della contribuzione e deduzioni dalla base imponibile Irap per i soli lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato e ulteriori incentivi per la trasformazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa in contratti di lavoro subordinato. Si inizia in questo modo ad affrontare una questione che non a torto è stata considerata una delle più « urgenti e gravi », cioè quella del « rapporto tra previdenza complementare e tendenze del mercato del lavoro, che moltiplicano tipologie di lavoro discontinuo » ( 35 ). Si tratta, peraltro, di misure ancora modeste e parziali rispetto alla dimensione del problema. La situazione è tra l’altro ( 34 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge in tema di pensioni complementari, con qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev. ass. pubbl. e priv., 2004, III, p. 1235. ( 35 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 1265. 585 ancora più problematica per i lavoratori impiegati con contratti di lavoro a progetto o comunque di collaborazione coordinata e continuativa i quali, oltre ad avere ancora contributi (e quindi poi pensioni) nettamente più bassi nel sistema previdenziale pubblico, non possono avvalersi del conferimento del t.f.r. per potenziare la propria posizione di previdenza complementare. Peraltro, la nuova normativa agevola la posizione dei lavoratori atipici mediante la previsione di misure volte ad ampliare la c.d. portabilità e la salvaguardia della posizione previdenziale del singolo. D’altro canto, e senza poter qui approfondire la questione, che sarà trattata diffusamente nei commenti agli artt. 11 e 14, si deve anche osservare come, rispetto alla elevata mobilità dei lavoratori, potrebbe essere utile non solo la possibilità di trasferimento della posizione previdenziale da un fondo all’altro senza perdite, ma anche l’opportunità opposta, consistente nella facoltà riconosciuta al lavoratore di restare nel fondo al quale si è iscritto quando, pur avendone perso i requisiti (e pur avendo maturato quelli di adesione a un altro fondo), lo stesso preveda o aspiri a riacquisirli in futuro. Si tratta di una opportunità che il legislatore non ha previsto, ma che è contenuta nelle direttive generali alle forme pensionistiche complementari emanate dalla Covip ( 36 ), ove si stabilisce che tutte le forme pensionistiche complementari dovranno prevedere, oltre al riscatto e al trasferimento, anche « il mantenimento della posizione individuale dell’aderente presso la forma stessa che, salvo diverso avviso del lavoratore, dovrà continuare ad essere gestita dalla forma pensionistica ed essere incrementata dei rendimenti conseguiti », e che la regola del mantenimento si applichi anche nel caso in cui il lavoratore non abbia esercitato altre opzioni ( 37 ). ( 36 ) Deliberazione del 28 giugno 2006, « Direttive generali alle forme pensionistiche complementari, ai sensi dell’articolo 23, comma 3o, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 », in http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/Direttive%20covip.pdf. ( 37 ) Di un’analoga esigenza si è fatta almeno parzialmente carico anche la dir. 1998/49/CE del Consiglio del 29 giugno 1998, relativa alla salvaguardia dei diritti a pensione complementare dei lavoratori subordinati e dei lavoratori autonomi che si spostano all’interno della Comunità europea, che sia pure con 586 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Si è già osservato, in sede di commento all’art. 1, come le limitazioni alle possibilità di uscita dal sistema di previdenza complementare non siano più del tutto giustificate in un regime in cui la libertà di adesione ai fondi viene declinata in (quasi) tutte le sue possibili accezioni. In quella sede si è altresì sostenuto che tali limitazioni appaiono giustificabili a fronte di bisogni diversi da quelli previdenziali, mentre sembrano eccessive rispetto ad esigenze, quali la disoccupazione, che rientrano a pieno titolo negli eventi che l’art. 38 Cost. considera meritevoli di tutela. Ci si chiede ora se il vincolo di destinazione della tutela pensionistica della previdenza complementare, limitando la possibilità di utilizzare i risparmi con essa realizzati in funzione di sostegno del reddito per i periodi di non lavoro, la renda poco appetibile. Si rileva, in proposito, che per i lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile e a termine il t.f.r. continua ad essere preferibile, nonostante il suo minor rendimento, perché consente una immediata liquidità, necessaria per affrontare le evenienze connesse ai periodi di disoccupazione. Valutare che cosa sia più conveniente è in realtà molto più complicato di quanto appaia a prima vista e presuppone una attenta analisi della disciplina delle anticipazioni e dei riscatti. Quest’ultima, oltretutto non è del tutto chiara e pone alcuni rilevanti dubbi interpretativi ( 38 ), per i quali si deve necessariamente rinviare ai commenti agli artt. 11 e 14, che trattano la materia in modo approfondito. Sommariamente si può qui osservare come la disciplina legislativa presenti misure sia più, sia meno vantaggiose rispetto al t.f.r. Milita a sfavore della previdenza e rende quindi più appetibile il t.f.r. la normativa relativa al riscatto, che per i periodi di disoccupazione è consentito nella misura del 50% solo dopo 12 mesi dalla perdita del posto e del 100% dopo 48 mesi. Peraltro la legge consente il riscatto anche per cause diverse da quelle indicate dalla legge e secondo l’interpretazione COVIP sono legittime le clausole degli statuti che lo consenriferimento al diverso caso della mobilità transnazionale del lavoratore, all’art. 4 si preoccupa di statuire precise norme volte a garantire il mantenimento dei diritti acquisiti dai lavoratori che perdano i requisti di partecipazione al fondo. ( 38 ) V. Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge, cit., p. 201. tono al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Queste ultime dunque rendono l’iscrizione al fondo di previdenza più conveniente, in ragione della immediata liquidità e del maggior rendimento rispetto al t.f.r. Sennonché per tali ipotesi il comma 5o dell’art. 14 prevede una non irrilevante ritenuta a titolo d’imposta. La normativa inoltre non considera gli eventuali bisogni di liquidità che possono derivare dal passaggio da un lavoro a tempo pieno ad un altro lavoro ad orario ridotto. In questo caso si potrebbe ricorrere ad eventuali anticipazioni, ma anche queste non sono necessariamente più favorevoli rispetto al t.f.r. Da un lato, le anticipazioni per spese derivanti da cure sanitarie sono immediatamente disponibili, mentre per quelle per l’acquisto della prima casa e per altre esigenze sono necessari otto anni di iscrizione a regimi di previdenza complementare e non di permanenza nel singolo fondo previdenziale e, tanto meno nel singolo rapporto di lavoro, come invece avviene per il t.f.r.; inoltre la legge consente le anticipazioni anche « per altre cause ». D’altro canto quest’ultima possibilità, che consentirebbe di utilizzare il risparmio previdenziale in funzione di sostegno del reddito durante i periodi di disoccupazione o sottoccupazione è limitata dal fatto che l’anticipo è ammesso solo nella misura del 30%, e comunque anche in questo caso con una ritenuta a titolo d’imposta del 23%. La convenienza dunque appare riservata ai soli lavoratori con una discreta anzianità di permanenza nel sistema della previdenza complementare. La lett. a) del comma 1o dell’art. 2 fa riferimento ai lavoratori assunti con le « tipologie contrattuali previste dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 ». Quest’ultimo disciplina i contratti di lavoro alle dipendenze delle agenzie di somministrazione, intermittente, ripartito, a tempo parziale, di apprendistato, di inserimento, a progetto, occasionale e accessorio. Il primo quesito è se rientrino nella lett. a) tutti i lavoratori assunti con questi tipi contrattuali o soltanto quelli assunti con contratti di lavoro avente vincolo di subordinazione. Il dubbio più rilevante in proposito riguarda i lavoratori a progetto. La loro assimilazione ai lavoratori subordinati, già sostenuta in passato ( 39 ), ha ( 39 ) Da Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181. La nuova disciplina della previdenza complementare il vantaggio di realizzare una forma di tutela unitaria dei lavoratori della medesima impresa e di consentire al lavoratore il mantenimento della propria posizione previdenziale all’interno dello stesso fondo sia in caso di successiva assunzione con contratto di lavoro subordinato, sia nel caso di successione di assunzioni con le diverse tipologie contrattuali. L’opzione a favore dell’assimilazione dei lavoratori a progetto a quelli subordinati presenta però l’inconveniente della necessità di definire diverse modalità di finanziamento, non potendo questo essere realizzato mediante il conferimento del t.f.r., limite questo che può incidere negativamente sulla realizzazione di una tutela previdenziale adeguata. L’opzione contraria, ovvero a favore dell’assimilazione ai lavoratori autonomi, ha il vantaggio di consentire al lavoratore di optare per una forma pensionistica a prestazione definita, che il comma 2o dell’art. 2 riserva ai soli lavoratori di cui alla lett. b (v. infra par. 7), ma che, come si vedrà, è assai poco diffusa e riservata alle categorie di lavoratori più forti sul mercato perché molto onerosa. Sul piano strettamente giuridico, militano a favore dell’inquadramento dei lavoratori a progetto nella lett. b) sia il carattere autonomo della prestazione di lavoro, sia il tenore della lett. a) nella quale si usa la formula « i lavoratori dipendenti (...) ivi compresi i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali (...) ». L’espressione usata dal legislatore sembrerebbe in effetti riferirsi alle sole tipologie contrattuali di lavoro subordinato, ma la stessa norma potrebbe essere interpretata anche nel senso opposto, potendosi ritenere che il legislatore abbia invece inteso accorpare tutte le nuove forme di lavoro previste dal d.lgs. n. 276/03 entro il più ampio genus dei lavoratori economicamente dipendenti. L’ambiguità della norma non può che essere risolta sulla base dei principi generali che regolano la materia e in primo luogo tenendo conto della discrezionalità ( 40 ) che il legislatore ha lasciato alle fonti istitutive circa le definizione dei criteri aggregativi dei lavoratori, affidando sostanzialmente al contratto collettivo, accordo ( 40 ) Pessi, La previdenza complementare, Padova, 1999, p. 141. 587 o regolamento d’impresa il compito di delineare l’area dei destinatari ( 41 ). In questo senso è utile ricordare che sussiste un generale consenso sulla possibilità per le fonti istitutive di prevedere anche destinatari ulteriori rispetto agli appartenenti alla categoria a cui il contratto collettivo che ha istituito la forma pensionistica si riferisce ( 42 ) e in proposito si noti come sinora i fondi si siano fatti carico di includere lavoratori di imprese appartenenti alla categoria merceologica di riferimento, ma a cui non si applica il contratto collettivo, o di imprese appartenenti ai settori affini, ma pur sempre richiedendo la sussistenza di un preventivo accordo sindacale ( 43 ). La COVIP, tuttavia, ha affermato che la possibilità di includere altri soggetti presuppone la sussistenza di alcune condizioni particolarmente rigorose e complesse ( 44 ). Al di là della definizione delle modalità con cui le fonti istitutive possono estendere il loro raggio d’azione, si deve comunque ritenere che sia in generale possibile l’inclusione dei lavoratori aventi rapporti di lavoro particolari tra i destinatari delle forme di previdenza complementare. Una risposta più articolata deve tuttavia essere data al quesito se le fonti istitutive possano in- ( 41 ) In questo senso con riferimento al precedente d.lgs. n. 124/93 v. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 187. ( 42 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 187; v. anche l’elenco esemplificativo di fondi pensione aperti anche a soggetti non firmatari del contratto collettivo riportato da Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 263 ss. ( 43 ) Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 265. ( 44 ) Si richiedeva infatti che almeno una delle parti che ha sottoscritto il contratto istitutivo del fondo pensione fosse anche firmataria del contratto collettivo di lavoro degli ulteriori destinatari e che sussistesse una specifica fonte istitutiva che completasse quella originaria, nonché una ulteriore specifica fonte di raccordo e di completamento della fonte istitutiva originaria. V. le delibere del 18 giugno 1997, « Orientamenti in materia statutaria », in http://www.covip. it/documenti/html/provvedimenti/D970618_01.htm; delibera del 26 gennaio 2001, « Area dei destinatari dei fondi preesistenti; orientamenti interpretativi », in http://www.covip.it/documenti/PDF/Provvedimenti/ D010126_01.pdf; in argomento v. anche Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 187, Vianello, Previdenza complementare e autonomia, cit., p. 265. 588 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 cludere tra i destinatari della tutela previdenziale complementare realizzata a favore dei dipendenti dell’utilizzatore anche i lavoratori impiegati da quest’ultimo mediante contratti di somministrazione. La risposta deve a nostro avviso essere tendenzialmente positiva, in quanto, pur essendo questi lavoratori assunti da un datore di lavoro diverso e pur essendo essi soggetti a una diversa contrattazione collettiva, la disposizione che li include tra i destinatari della tutela previdenziale può considerarsi disposizione a favore di terzi, di cui il lavoratore si avvale mediante l’adesione al fondo pensione. Se dunque non sembrano sussistere ostacoli nel ritenere che il lavoratore assunto dall’agenzia di somministrazione possa aderire al fondo di previdenza complementare dell’utilizzatore ove la fonte istitutiva applicabile a quest’ultimo lo preveda, si deve tuttavia ancora valutare se il datore di lavoro somministratore sia tenuto a conferire il t.f.r. e a versare gli eventuali contributi previsti dal contratto collettivo. Poiché l’art. 8, comma 7o, lett. a) stabilisce che « il lavoratore, può conferire l’intero importo del t.f.r. maturando ad una forma di previdenza complementare dallo stesso prescelta », non pare dubbio che il somministrante sia obbligato a versare il t.f.r. al fondo indicato dal lavoratore, mentre per quanto riguarda il versamento di ulteriori contributi la questione appare più complessa. Come si vedrà meglio, è assai dubbio che un simile vincolo possa essere desunto dal comma 1o dell’art. 23, d.lgs. n. 276/03, in base al quale il lavoratore ha diritto « a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore ». Tale norma infatti non garantisce l’estensione dello stesso trattamento spettante ai dipendenti dell’utilizzatore, ma solo che il lavoratore non percepisca un trattamento inferiore a quello a cui avrebbe diritto se fosse assunto direttamente dal suo utilizzatore. Né si può fare riferimento a nostro parere alla previsione di cui al comma 4o dell’art. 23, in base al quale il lavoratore ha diritto « a fruire di tutti i servizi sociali e assistenziali di cui godono i dipendenti dell’utilizzatore addetti alla stessa unità produttiva, esclusi quelli il cui godimento sia condizionato alla iscrizione ad associazioni o società cooperative o al conseguimento di una determinata anzianità di servizio ». Non si tratta infatti nel nostro caso né di servizi sociali, né di assistenza e l’adesione alla forma pensionistica complementare presuppone l’associazione al fondo pensione. In conclusione, l’obbligo di versamento del contributo del datore di lavoro al fondo pensione istituito per i dipendenti dell’utilizzatore potrà sussistere in capo all’agenzia di somministrazione datrice di lavoro solo ove lo stesso sia previsto dalla contrattazione collettiva che si applica all’agenzia stessa. 5. – Molto più complessa è la questione opposta a quella sopra esaminata, ovvero se sia possibile per la fonte istitutiva escludere il diritto di aderire al fondo per particolari soggetti. Può essere utile muovere dall’osservazione della legittimità dell’esclusione di coloro ai quali non si applica la fonte istitutiva e dalla constatazione che, anzi, il problema è proprio quello della necessità di una clausola che conferisca al lavoratore il diritto di adesione ( 45 ). Il nodo interpretativo è dunque quello di stabilire se le fonti istitutive possano espressamente escludere i lavoratori aventi particolari rapporti di lavoro, a termine, a tempo parziale, ripartito o a chiamata, ma anche di lavoro somministrato, dall’ambito di applicazione della tutela previdenziale, e se nel silenzio delle fonti istitutive i lavoratori aventi tali tipi di rapporto abbiano o no diritto di iscriversi ai fondi pensione. Si è osservato in proposito che legittimamente la forma previdenziale autodefinisce il proprio ambito di applicazione, escludendo chi non fa parte dello specifico gruppo preindividuato ( 46 ). In linea generale in effetti appare abbastanza scontato il riconoscimento della possibilità di delimitare la sfera dei destinatari delle forme pensionistiche complementari in quanto istituite sulla base di atti di autonomia privata (v. retro, sub art. 1); tuttavia la questione è molto più complicata e anche l’autonomia collettiva, e più in generale quella privata, incontrano alcuni limiti. In primo luogo un limite alle possibilità di esclusione di determinati soggetti deriva dai divieti di discriminazione, che riguardano sia quelle dirette sia quelle indirette. 45E si è ( ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 242. ( 46 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mò di (parziale) commento del d.lgs. 252/05, in Prev. ass. pubbl. e priv., 2005, I, p. 153. La nuova disciplina della previdenza complementare già rilevato al par. 2 che la giurisprudenza della Corte di giustizia ha da tempo affermato che l’esclusione dei lavoratori a tempo parziale dal diritto di adesione alle forme pensionistiche complementari costituisce discriminazione indiretta di genere, e alla medesima conclusione si può giungere con riferimento alle altre forme di lavoro modulato e flessibile, tutte le volte che queste siano svolte in misura maggiore da donne o da soggetti ai quali i d.lgs. n. 215 e n. 216 del 2003 hanno esteso la tutela antidiscriminatoria (sempre che non sussistano valide ragioni giustificatrici delle differenze di trattamento). Al di là di tale limite generale, ci si deve però anche chiedere se il diritto all’iscrizione al fondo di previdenza complementare sussista a favore dei lavoratori assunti con le nuove tipologie di lavoro di cui al d.lgs. n. 276/03, compresi quelli impiegati con contratti di somministrazione di lavoro e dei lavoratori a progetto, nonché a favore dei lavoratori assunti con contratto a termine. Si può ritenere che, almeno per tutti i lavoratori subordinati, il diritto di adesione sussista ove le fonti istitutive abbiano previsto il diritto all’iscrizione ai lavoratori dipendenti in modo generico, senza subordinarlo a particolari requisiti. Nel caso in cui invece siano previsti limiti relativi al tipo (o a determinate caratteristiche, per lo più temporali) di contratto, ci si deve chiedere se il diritto del singolo all’iscrizione possa essere desunto dai principi di non discriminazione o dalle garanzie di parità previsti dalla disciplina di ciascun contratto. Non è possibile in questa sede analizzare in modo dettagliato tutte le formule utilizzate dal legislatore, né tutte le interpretazioni che ne sono state date. La lettura che a nostro avviso appare più convincente è quella di chi ritiene che tali formule siano una ulteriore espressione del principio di parità, che assume una portata centrale e sistematica, che opera « quale metanorma che non individua lo specifico contenuto della disciplina, ma ne detta il criterio di sviluppo » ( 47 ). Non si afferma in questo modo la sussistenza di un generale principio di parità di trattamento tra lavoratori, ma si richiede, più riduttivamente, di ignorare una determinata differenza: se da ( 47 ) Chieco, Lavoratore comparabile e modello sociale nella legislazione sulla flessibilità del contratto e dell’impresa, in Riv. giur. lav., 2002, p. 767. 589 un lato l’articolazione dei tipi contrattuali e la flessibilizzazione nell’utilizzazione del fattore lavoro – vista con relativo favore dal legislatore in quanto possibile strumento in grado di rispondere alle mutevoli esigenze delle imprese – esige necessariamente che differenziazioni di disciplina sussistano, dall’altro il principio di parità impone che queste siano solo ed esclusivamente quelle che attengono a tali articolazioni e non al trattamento generale del rapporto di lavoro. Se questa pare l’interpretazione preferibile, ne consegue che le acquisizioni in un settore della tutela antidiscriminatoria sono estensibili agli altri, come è già avvenuto ad esempio con l’estensione della tutela dal genere agli altri fattori di discriminazione ( 48 ). Alla stessa conclusione si dovrebbe quindi giungere con riferimento ai lavoratori impiegati con le nuove tipologie di lavoro, per i quali la legge garantisce, sia pure con varie formulazioni, il diritto allo stesso trattamento economico e normativo spettante agli altri lavoratori: è infatti pacifico che i contributi di previdenza complementare sono corrispettivo della prestazione lavorativa. Militano inoltre a favore del riconoscimento del diritto del lavoratore a non essere discriminato nell’iscrizione ai fondi di previdenza complementare le direttive comunitarie 1997/81/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, nelle quali in effetti il principio di non discriminazione è stato formulato quale specificazione del principio di parità e impone che le differenziazioni di trattamento siano giustificate da ragioni obiettive. Si tratta peraltro, di una conclusione fortemente discussa e non condivisa dalla dottrina maggioritaria. Si è infatti sostenuto che i principi di parità stabiliti a favore dei lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile e il principio di non discriminazione sono due concetti autonomi ( 49 ) e che sarebbe un « errore » con( 48 ) Ma v. Gottardi, Dalle discriminazioni di genere alle discriminazioni doppie o sovrapposte: le transizioni, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2003, p. 447 ss. ( 49 ) Alaimo, Principio di non discriminazione e criterio del riproporzionamento dei trattamenti, in Il lavoro a tempo parziale. D. lgs. n. 61/2000, a cura di Brollo, Milano, 2001, p. 102; l’a. in ogni caso rileva 590 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 fonderli e assimilarli ( 50 ). Soprattutto si è osservato che il divieto di discriminazione dei lavoratori atipici appare formulato in modo più « morbido » e che non necessariamente le « ragioni obiettive » che possono « giustificare » il loro diverso trattamento coincidono con quelle che sono state faticosamente elaborate per valutare la legittimità di trattamenti differenziati in ragione del sesso dei lavoratori ( 51 ). La questione dunque appare assai controversa e delicata, e spetterà ai giudici dare contenuto alla garanzia stabilita dalla legislazione nazionale e comunitaria a favore dei lavoratori impiegati con contratti di lavoro flessibile. Peraltro, la formulazione del principio di non discriminazione contenuta nell’art. 6 del d.lgs. n. 368/01 in materia di contratto a termine appare sufficientemente ampia da includervi anche il diritto all’iscrizione ai fondi di previdenza complementare. La suddetta norma sancisce infatti chiaramente che al lavoratore spettano, tra l’altro, « il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili (...) sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine. E non si vede quali possano essere tali situazioni di incompatibilità, se proprio il d.lgs. n. 252/05, con il riferimento contenuto nella lett. a) del comma 1o dell’art. 2 del d.lgs. n. 252/05 alle nuove tipologie contrattuali, implicitamente esclude che la durata del rapporto e/o la riduzione di orario possano costituire eventuali incompatibilità con l’adesione al fondo di previdenza complementare. Il problema della possibilità effettiva di accesso alla previdenza complementare appare ancora più problematico per quelle categorie di lavoratori per le quali la legge non sancisce il diritto a percepire un trattamento uguale o quanto meno non inferiore a quello spettante agli altri lavoratori. Si allude in particolare ai lavorato- come il principio di non discriminazione dei part-timers esprima anche la volontà di tutelare il lavoro femminile. ( 50 ) Biagi e Salomone, Principio di non discriminazione, in Il lavoro a tempo parziale, a cura di Biagi, Milano, 2000, p. 98. ( 51 ) De Simone, Eguaglianza e nuove differenze nei lavori flessibili, fra diritto comunitario e diritto interno, in Lav. e dir., 2004, p. 544. ri assunti con il contratto di apprendistato, per i quali il legislatore nulla dispone, anche se l’esclusione degli apprendisti, ove non sorretta da adeguate giustificazioni, potrebbe costituire una discriminazione indiretta per motivi di età ( 52 ). A una diversa conclusione si potrebbe invece giungere per il contratto di inserimento, per il quale l’art. 58 d.lgs. n. 276/03 rinvia alla disciplina del contratto a termine, e al quale conseguentemente si applica ogni trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (art. 6, d.lgs. n. 368/ 01). Assai dubbia è la possibilità di riconoscere al lavoratore operante in regime di somministrazione il diritto di iscrizione ai fondi istituiti per i dipendenti dell’impresa utilizzatrice, sia perché in relazione a questo tipo di rapporto non è sancito un principio di parità di trattamento ma è stabilita solo una garanzia di un trattamento « non inferiore », sia perché, come si è visto, l’eventuale adesione al fondo di previdenza complementare previsto per i dipendenti dell’utilizzatore incontra l’ulteriore ostacolo dell’impossibilità di vincolare in tal senso l’agenzia di somministrazione titolare del rapporto di lavoro. Ancora più dubbia, infine, è la possibilità di riconoscere il diritto di iscrizione al lavoratore assunto nella modalità del lavoro a progetto, per il quale il legislatore non prevede alcuna equiparazione con il trattamento economico e normativo spettante ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato. 6. – La lett. c) del comma 1o dell’art. 2 riproduce senza alcuna rilevante innovazione quanto già previsto dalla lett. b bis) dell’art. 2, d.lgs. n. 124/93: i soci di cooperativa sono stati inclusi tra i destinatari della previdenza complementare con la l. n. 335/95 con l’intento di armonizzare e avvicinare la disciplina del lavoro del socio a quella del lavoro subordinato ( 53 ). Il decreto si riferisce solo ai soci lavoratori e ai dipendenti di cooperative, ma, come è già stato osservato con riferimento all’analoga disposizione di cui al d.l( 52 ) V. in proposito Bonardi, Le discriminazioni per età nel diritto del lavoro, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, a cura di Barbera, Milano, 2007 (in corso di pubblicazione). ( 53 ) In argomento v. Candian, I fondi pensione, Milano, 1998, p. 80; Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 99. La nuova disciplina della previdenza complementare gs. n. 124/93, la ratio impone di concludervi anche quelli dei consorzi e delle società consortili, oltre che delle società da queste controllate ( 54 ). Ci si deve peraltro oggi chiedere se la formulazione della lett. c) dell’art. 2, comma 1o, d.lgs. n. 252/05 sia in sintonia con la nuova definizione e disciplina del rapporto di lavoro dei soci di cooperativa introdotta con la l. n. 142/01 o se si pongano al contrario problemi di coordinamento. L’art. 2 del d.lgs. n. 124/93 era infatti modellato sul tradizionale e oggi superato orientamento in base al quale l’attività del socio costituiva l’esplicazione e l’attuazione del fine sociale della cooperativa e non poteva, di conseguenza, essere considerata alla stregua dell’obbligazione di lavoro subordinato. La l. n. 142/01 invece ha stabilito, all’art. 1, comma 3o, che il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro », che può essere sia subordinato, sia autonomo, compreso il rapporto di collaborazione coordinata non occasionale, con il quale egli contribuisce al raggiungimento della finalità sociale. Si è osservato, con riferimento al d.lgs. n. 124/93 che la scelta nel senso dell’aggregazione dei soci e dei dipendenti della cooperativa non è stata caducata dalla l. n. 142/01 perché questa non afferma l’automatica costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, sicché la nuova formulazione va intesa nel senso dell’ammissibilità di fondi pensione destinati al contempo ai dipendenti delle cooperative e ai soci delle stesse, sia che questi ultimi siano autonomi, sia che si tratti di lavoratori subordinati. Il combinato disposto dell’art. 2, comma 1o, d.lgs. n. 252/05 e dell’art. 1, comma 3o, l. n. 142/01 impone quindi di ritenere oggi superato il precedente orientamento che escludeva la possibilità di adesione alle forme pensionistiche della cooperazione, dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti legati alle cooperative da rapporti di collaborazione ( 55 ). L’opzione del mondo della cooperazione è stata quella della progettazione di fondi pensio- ( 54 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 131. ( 55 ) V. in argomento Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 130. 591 ne destinati sia ai soci, sia ai dipendenti ( 56 ). Peraltro, una delle conseguenze di tale opzione è la limitazione delle possibilità di scelta dei soci di cooperativa che siano lavoratori autonomi rispetto agli altri lavoratori autonomi, perché i primi a differenza dei secondi non possono optare per un fondo che preveda un regime a prestazione definita ( 57 ). In questo caso, è stato osservato, le istanze di solidarietà categoriale hanno prevalso su quelle di libertà ( 58 ). Sotto altro profilo è stato altresì rilevato che la scelta del fondo unico pone qualche problema di adeguamento normativo che il legislatore non ha preso in considerazione, sia per quanto riguarda le modalità di definizione delle fonti istitutive, che sono diverse per i lavoratori dipendenti e per quelli autonomi, sia per quanto riguarda le modalità di partecipazione agli organi assembleari, sia, infine, per la definizione dei contributi da versare, posto che solo per i soci che siano legati alle cooperative anche da un rapporto di lavoro subordinato è possibile il conferimento del t.f.r. Si tratta peraltro di questioni che non possono essere approfondite in questa sede e che in ogni caso sono già state agevolmente risolte sul piano procedurale e operativo ( 59 ). 7. – L’art. 2, comma 2o, stabilisce che per i lavoratori dipendenti, per i soci lavoratori di cooperative e per i soggetti svolgenti lavoro di cura non retribuito derivante da responsabilità familiari, possono essere istituite esclusivamente forme pensionistiche a contribuzione definita, mentre per i lavoratori autonomi e per i liberi professionisti possono essere istituite anche forme pensionistiche in regime di prestazioni definite. La disposizione non costituisce affatto una novità e riprende senza rilevanti modificazioni quanto già stabilito dall’art. 2, comma 2o, del d.lgs. n. 124/93. Si tratta di una « norma inderogabile sia per i soggetti promotori di fondi pensione chiusi che per le imprese di intermedia( 56 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 130. ( 57 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 130; Candian, I fondi pensione, cit., p. 80. ( 58 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 130. ( 59 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema, cit., p. 100. 592 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 zione finanziaria attive sul fronte dell’offerta di fondi pensione aperti » ( 60 ). In linea generale si deve rilevare il carattere marginale, anche per la loro onerosità, delle forme pensionistiche a prestazione definita ( 61 ), non a caso da alcuni definite come una sorta di « fantasma » ( 62 ). Si discute tuttavia se il divieto di costituire forme pensionistiche a prestazione definita stabilito per i lavoratori non autonomi costituisca una ingiustificata limitazione della libertà di assistenza garantita dall’art. 38, comma 5o, Cost. La risposta a tale quesito presuppone l’individuazione della ratio e dell’interesse protetto dalla norma, e la valutazione dell’adeguatezza del mezzo utilizzato (il divieto nel nostro caso) rispetto al fine perseguito. Peraltro, su quale sia l’interesse tutelato dalla norma sussistono interpretazioni assai divergenti. La prima ragione che è stata individuata a sostegno della legittimità del divieto per i lavoratori subordinati di costituire regimi di tutela previdenziale a prestazione definita consiste nell’esigenza di conoscere preventivamente l’entità dei contributi da versare; esigenza, questa, che si pone sia con riferimento al datore di lavoro che concorre al finanziamento delle prestazioni dei propri dipendenti, sia per i lavoratori stessi. Si è però ritenuto che soltanto l’interesse di questi ultimi sarebbe determinante e in ogni caso di rilevanza tale da giustificare la compressione della libertà di assistenza che il divieto realizza. Si osserva in questo senso che la predeterminazione dell’entità dei contributi costituisce un elemento che incide in modo decisivo sulla scelta del singolo di aderire o no al fondo di previdenza complementare. A sostegno della legittimità del divieto si è poi addotta la necessità di sottrarre i lavoratori dipendenti a un rischio eccessivo, in considerazione del loro reddito, mediamente basso ( 63 ). Si è pertanto affer- ( 60 ) In questo senso con riferimento alla disciplina di cui al d.lgs. n. 124/93 v. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 64. ( 61 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 160 ss. ( 62 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mò di (parziale) commento del d.lgs. 252/05, in Prev. ass. pubbl. e priv., 2005, I, p. 173, nello stesso senso v. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 160 ss. ( 63 ) Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181. mato che il divieto si applicherebbe anche ai lavoratori parasubordinati, sia perché l’art. 8 prevede che i contributi possano essere posti anche a carico del committente ( 64 ), sia perché sussisterebbe per questi ultimi la medesima esigenza di conoscibilità ( 65 ). Secondo una diversa interpretazione, il divieto, altrimenti sospetto di incostituzionalità, sarebbe stato posto in considerazione delle esigenze di governabilità dei fondi e di equilibrio finanziario delle gestioni, per evitare loro l’esposizione al rischio di variazione degli oneri contributivi ( 66 ). Si è infatti osservato ( 67 ) che i sistemi a prestazione definita comportano rischi a carico del soggetto erogatore; mentre nei programmi a contribuzione definita il rischio grava sui singoli lavoratori e il trattamento è legato all’efficienza della gestione finanziaria dei contributi. Queste interpretazioni individuano quindi quale primo destinatario e beneficiario del divieto il fondo pensione e non il lavoratore, la cui tutela sarebbe solo riflessa. Ma si è obiettato che anche per il fondo a prestazione definita il rischio non è totalmente a carico del fondo perché la contribuzione è, per definizione, variabile ( 68 ). Da quanto rilevato sinora emerge a nostro avviso che gli interessi tutelati dalla norma possono essere diversi e fare capo ai diversi soggetti coinvolti nella realizzazione dei programmi di previdenza complementare; ma appare anche impossibile individuare a priori come sia allocato il rischio tra di essi: gli elementi di rischiosità derivano solo in parte dal meccanismo della prestazione definita in sé e in buona parte di- ( 64 ) Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181. ( 65 ) Mazziotti, sub art. 2, cit., p. 181. ( 66 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 156; secondo l’a. inoltre (p. 149) il modello a contribuzione definita « situa l’iscritto alla forma pensionistica nella posizione del creditore di prestazioni derivanti da una altrui obbligazione di mezzi » mentre nel modello a contribuzione variabile e a prestazione definita il creditore è « garantito dall’altrui obbligo di adempimento di una obbligazione di risultato. Sulla rischiosità della forma a prestazione definita v. anche De Luca, La disciplina dei fondi pensione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1994, p. 84). ( 67 ) Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma delle pensioni: dieci miti sui sistemi di previdenza sociale, in Assistenza soc., 2000, p. 11 e spec. p. 14. ( 68 ) Candian, I fondi pensione, cit., p. 82. La nuova disciplina della previdenza complementare pendono dalla disciplina e dalla forma che il sistema assume. La questione merita peraltro ulteriore approfondimento, in quanto l’individuazione dell’interesse protetto dalla norma e, conseguentemente, la valutazione circa la proporzionalità e legittimità del divieto sembra dipendere dalla sussistenza o no di una effettiva diversa allocazione del rischio tra i due sistemi, a contribuzione e a prestazione definite. È da rilevare in effetti che i fondi a prestazione definita sono nati su iniziativa dei datori di lavoro nell’ambito del lavoro dipendente e non di quello autonomo ed erano giuridicamente qualificati quale « promessa » fatta dal datore di lavoro ai lavoratori, avente ad oggetto una prestazione previdenziale determinata ( 69 ). Sono infatti tuttora presenti fondi precedenti al 1993 di questo genere, nei quali le prestazioni possono essere determinate prendendo a riferimento il livello di reddito del lavoratore o la prestazione pensionistica del regime obbligatorio ( 70 ). Si è quindi sostenuto che il divieto in questione sarebbe posto a tutela dei datori di lavoro, che storicamente in queste forme pensionistiche hanno assunto il ruolo ultimo garante ( 71 ). Dal panorama internazionale emerge che la distinzione tra le due forme pensionistiche in questione non è così netta, perché un sistema a prestazione definita può essere concepito « come un programma a contribuzione definita unito a un mix idoneo di opzioni per eliminare il rischio residuo per il lavoratore » e perché ibridi tra programmi a prestazione e a contribuzione ( 69 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 155 s. ( 70 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 156. ( 71 ) Candian, I fondi pensione, cit., p. 83. 593 definita esistono e si vanno diffondendo nella pratica ( 72 ), anche se si è rilevato che la tendenza europea è nel senso della trasformazione dei regimi previdenziali complementari a prestazione definita in schemi a contribuzione definita gestiti secondo il sistema tecnico-finanziario della capitalizzazione, in ragione delle esigenze di stabilità del sistema. Stabilire quindi a priori quale sia l’interesse protetto e se il divieto sia proporzionato al fine perseguito dalla norma appare abbastanza arbitrario: molto dipende dalla concreta disciplina a cui il regime a prestazione definita è soggetto. Da questo punto di vista, il d.lgs. n. 124/93 è stato criticato, ma la critica ben può essere estesa al d.lgs. n. 252/05 che come detto non innova sul punto, per l’assoluta lacunosità della disciplina giuridica dei fondi a prestazione definita ( 73 ). Esso si limita a prevedere che nel caso in cui forme pensionistiche a prestazione definita siano istituite da fondi chiusi, questi stipuleranno contratti di assicurazione in nome e per conto dei loro iscritti; nel caso invece in cui la forma pensionistica sia promossa da un fondo aperto, questo potrà essere costituito solo da imprese di assicurazione; e sarà la stessa adesione al fondo a costituire il rapporto assicurativo ( 74 ). Olivia Bonardi ( 72 ) Orszag e Stiglitz, Ripensare la riforma delle pensioni, cit., p. 11 e spec. p. 14; Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, in Prev. ass. pubb. e priv., 2004, I, p. 55. ( 73 ) Candian, I fondi pensione, cit., p. 83. ( 74 ) V. in argomento Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 157, per il quale la limitazione della gestione alle assicurazioni ha chiaramente la finalità di impedire il rischio di underfunding. Art. 3. (Istituzione delle forme pensionistiche complementari) 1. Le forme pensionistiche complementari possono essere istituite da: a) contratti e accordi collettivi, anche aziendali, limitatamente, per questi ultimi, anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi, ovvero, in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro; accordi, anche interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali na- 594 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 zionali rappresentative della categoria, membri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro; b) accordi fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti, promossi da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale; c) regolamenti di enti o aziende, i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali; d) le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia; e) accordi fra soci lavoratori di cooperative, promossi da associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute; f) accordi tra soggetti destinatari del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565, promossi anche da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale; g) gli enti di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 103, con l’obbligo della gestione separata, sia direttamente sia secondo le disposizioni di cui alle lettere a) e b); h) i soggetti di cui all’articolo 6, comma 1, limitatamente ai fondi pensione aperti di cui all’articolo 12; i) i soggetti di cui all’articolo 13, limitatamente alle forme pensionistiche complementari individuali. 2. Per il personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le forme pensionistiche complementari possono essere istituite mediante i contratti collettivi di cui al titolo III del medesimo decreto legislativo. Per il personale dipendente di cui all’articolo 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo, le forme pensionistiche complementari possono essere istituite secondo le norme dei rispettivi ordinamenti ovvero, in mancanza, mediante accordi tra i dipendenti stessi promossi da loro associazioni. 3. Le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari stabiliscono le modalità di partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale. Fonti istitutive e autonomia collettiva nella riforma della previdenza complementare Sommario (art. 3): 1. Premessa. – 2. Il ruolo delle fonti istitutive nel sistema italiano della previdenza complementare. – 3. La libertà di adesione individuale. – 4. Le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari: a) i contratti collettivi, gli accordi tra lavoratori, i regolamenti aziendali. Problemi giuridici delle fonti di matrice sindacale. – 5. Segue: b) il ruolo delle regioni. – 6. Segue: c) previdenza complementare e lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. – 7. Segue: d) le altre fonti istitutive. 1. – Il cuore delle innovazioni legislative introdotte dal d.lgs. n. 252/05 risiede indubbiamente nella disciplina inerente la devoluzione del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione. Non per nulla tale questione ha occupato il centro del dibattito politico-sindacale ed anche i primi contributi esegetici – compresi quelli im- mediati ( 1 ), ma non per questo meno utili, che precedono solitamente la più meditata elaborazione scientifica ( 2 ) – vi si sono soffermati, sia dall’angolazione dell’analisi economica che da quella dell’analisi giuridica. È infatti fuori discussione che le modalità di finanziamento dei fondi pensione risultino cruciali per lo sviluppo stesso del sistema di previdenza complementare, specie quando insistono ( 1 ) Cfr. l’ampio dibattito ospitato nelle pagine del sito www.lavoce.info. ( 2 ) Per un primo intervento dottrinale di più ampio respiro, cfr. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, I, p. 145 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare su masse di denaro sufficientemente significative, come avviene per il t.f.r., e soprattutto quando si avvalgono di tecniche normative che determinano, come nel caso del conferimento tacito, un’adesione che si potrebbe definire semiautomatica ( 3 ). Meno vistose, se non altro ad una prima occhiata, potrebbero invece apparire le novità relative alla disciplina delle fonti istitutive, il cui assetto, indubbiamente centrale nell’impianto del sistema italiano di previdenza complementare, sembrerebbe rimanere ancora oggi, per lo più, nel solco già tracciato dal legislatore del 1993. I profili innovativi concernenti le fonti istitutive risultano infatti meno appariscenti, se non altro perché il dettato dell’art. 3 del d.lgs. n. 252/05 è in larga parte testualmente identico a quello dell’omologo art. 3 del d.lgs. n. 124/93. Il che potrebbe dunque indurre a porre scarsa enfasi su tale disposizione, specie nel contesto di un contributo, come questo, che è concepito come commento a singole norme e deve perciò privilegiare l’analisi e l’esegesi del testo, più che aspirare alla ricostruzione sistematica ( 4 ). ( 3 ) Bessone, Previdenza complementare, Torino, 2001, pp. 13-14, indica il nodo del t.f.r., unitamente all’opportuna modulazione degli incentivi fiscali, come la leva determinante per un maggiore sviluppo dei fondi pensione. Resta peraltro da dire che le ragioni dell’insufficiente sviluppo, ad oggi, della previdenza complementare (i dati diffusi dalla COVIP al 30 giugno 2006 segnalano un livello medio di adesione del 13,7% nel bacino potenziale dei lavoratori dipendenti, con punte in realtà più elevate – ed un livello medio del 43,4% – nel caso di fondi aziendali e di gruppo) sono assai più articolate e non possono esaurirsi nella sola disciplina inerente il conferimento del t.f.r.; si tenga del resto conto del vincolo di indisponibilità, almeno temporaneo, che grava sulle somme destinate ad un fondo pensione, sì da dissuadere buona parte della popolazione dall’accedervi. ( 4 ) Ed invero è la stessa materia della previdenza complementare – ma il discorso può in larga parte essere riferito, a nostro avviso, anche alla previdenza sociale obbligatoria – a rendere ardua la « sintesi nella forma congeniale alle teorie generali » (così Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 1). Di strutturale incompiutezza dell’ordinamento della previdenza complementare parla Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, p. 5, anche in considerazione dei poteri regolativi attribuiti alla COVIP, che rendono mu- 595 Eppure, non può sfuggire all’interprete che l’art. 3, nel delineare il catalogo delle fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari, deve essere necessariamente letto in connessione con altre norme fondamentali del testo legislativo, dalle quali si ricava invece, superando le apparenze, un incisivo mutamento dell’assetto complessivo del sistema. Ciò appare simbolicamente rappresentato soprattutto dall’attrazione dei promotori (e gestori) dei cd. fondi pensione aperti, nonché delle imprese assicurative che concludono contratti di assicurazione sulla vita, all’interno del perimetro dello stesso art. 3 (e, dunque, tra le « fonti istitutive »). Il che – unitamente alla nuova contrapposizione delineata dall’art. 1, comma 3o, tra le « forme pensionistiche complementari collettive » e le « forme pensionistiche complementari individuali » ( 5 ) – determina, anche per effetto del venir meno della previsione già contenuta nell’art. 9, comma 2o, del d.lgs. n. 124/93 ( 6 ), il netto e detevole l’assetto complessivo della disciplina (che non deriva, dunque, solo dalla fonte legale). Ciò ovviamente non sminuisce il valore di quegli apporti ricostruttivi che hanno avuto il merito di indagare, pur con differenti sensibilità e retroterra culturali, il fenomeno giuridico della previdenza complementare: si vedano, oltre agli autori appena citati, Zampini, La previdenza complementare, Padova, 2004; Ciocca, La libertà della previdenza privata, Milano, 1998; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005; Pessi, La previdenza complementare, Padova, 1999; Ferraro, La previdenza complementare nella riforma del welfare, Milano, 2000. Sennonché, ed è su questo che intende appuntarsi la nostra notazione, nemmeno i contributi in esame hanno potuto categorizzare in modo univoco il fenomeno della previdenza complementare, anche in ragione delle molteplici intersezioni tra diverse branche del diritto che incidono sul medesimo fenomeno e che sono dominate da differenti categorie e logiche di micro-sistema. ( 5 ) Contrapposizione invero poco perspicua ed in effetti già criticata: cfr. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., pp. 151-153. ( 6 ) Il quale prevedeva che ai fondi cd. aperti potessero aderire i « destinatari delle disposizioni del presente decreto legislativo per i quali non sussistano o non operino le fonti istitutive di cui all’art. 3, comma 1o, ovvero si determinino le condizioni di cui all’art. 10, comma 1o, lett. b); ove non sussistano o non operino diverse previsioni in merito alla costituzione di fondi pensione ai sensi dei precedenti articoli, la 596 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 finitivo superamento di ogni rapporto di sussidiarietà tra fondi pensione di diversa natura, oggi posti su un paritario piano di concorrenza. Il contenuto dell’art. 3, per altro verso, imprime, oggi come ieri, un segno che caratterizza la fisionomia complessiva dell’intervento legislativo, non solo in ordine, come detto, al rapporto tra le diverse forme pensionistiche complementari, ma anche in relazione ai rapporti tra autonomia collettiva ed autonomia individuale, tra contrattazione collettiva ed intervento delle istituzioni, specie a livello regionale, facendo peraltro venire al pettine significativi nodi sistematici del nostro sistema di diritto sindacale; nodi, questi, che, come noto, travalicano ampiamente i confini della previdenza complementare. Inoltre, molti problemi interpretativi posti da altre disposizioni del d.lgs. n. 252/05 (ma ciò poteva dirsi già per la disciplina varata nel 1993) non possono essere affrontati e risolti senza il necessario medium ermeneutico del ruolo attribuito alle fonti istitutive ed ai relativi poteri regolativi, che allungano pertanto la loro ombra sull’intero tessuto normativo del decreto. Per tale ragione, il discorso che si intende svolgere non potrà essere limitato alla sola trattazione dei profili legali innovativi, essendo invece necessario riprendere il filo del dibattito, che già si è palesato fecondo di idee ( 7 ), svilup- facoltà di adesione ai fondi aperti può essere prevista anche dalle fonti istitutive su base contrattuale collettiva ». ( 7 ) Per quanto riguarda le fonti istitutive, la letteratura formatasi durante la vigenza del d.lgs. n. 124/ 93 ha messo in luce diversi problemi giuridici riferibili soprattutto alla previdenza complementare di matrice sindacale: senza pretesa di completezza, si può rinviare a Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Argomenti di diritto del lavoro, 2001, p. 715 ss.; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit.; Id., Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Riv. it. dir. lav., 2000, I, p. 269 ss.; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit.; Tosi, Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 1999, p. 357 ss.; Id., Le fonti istitutive dei fondi di previdenza complementare, in Mass. giur. lav., 1996, p. 439 ss.; Bessone, I fondi pensione chiusi. Fonti istitutive, regime delle autorizzazioni, disciplina di statuto della forma previdenziale, in Riv. giur. lav., 2002, I, 295 ss.; patosi intorno ai problemi giuridici delle fonti istitutive, vigenti le disposizioni del d.lgs. n. 124/93. Inoltre, saranno in questa prospettiva inevitabili diverse intersezioni con il contenuto di quelle norme che pongono questioni direttamente connesse a quelle scaturenti dall’art. 3: è il caso, ad es., dell’art. 2, che individua i destinatari (id est, i potenziali aderenti) del sistema di previdenza complementare; dell’art. 8, relativo al finanziamento dei fondi pensione, con significativa incidenza dell’autonomia collettiva in ordine alla destinazione del t.f.r.; dell’art. 4, relativo alle fonti costitutive dei fondi pensione; dell’art. 1, comma 2o, che sancisce il principio di libertà di adesione individuale; dell’art. 12, nella parte in cui regola l’adesione, anche collettiva, ai fondi aperti. 2. – Non è qui il caso di affrontare funditus la tematica dello stretto rapporto tra fonti istitutive e fonti costitutive. Ci si può limitare a sottolineare che i problemi delle seconde sono in buona parte proiezione dei problemi delle prime, sicché il dettato dell’art. 3 assume, anche per tale ragione, fondamentale importanza (cfr. in ogni caso Bollani, sub art. 4, in questo Commentario). Da un punto di vista generale, occorre innanzitutto chiedersi se sia confermata, con l’intervento legislativo del 2005, la centralità delle fonti collettive nella istituzione delle forme pensionistiche complementari, anche al fine di rischiarare il significato ambiguo del genus, di nuovo conio, delle « forme pensionistiche complementari collettive » di cui all’art. 1, comma 3o (cfr. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario), che esplicitamente vi ricomprende anche i fondi aperti. In effetti, diversi elementi sembrano indicare, come in parte si è già anticipato, un’erosione della centralità delle fonti istitutive di origine Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35, inserto, p. IX ss.; Alaimo, La previdenza complementare nella crisi del welfare state: autonomia individuale e nuove frontiere dell’azione sindacale, in Arg. dir. lav., 2001, p. 201 ss.; Pessi, Conflitto o concorso tra fonti legali e fonti contrattuali della previdenza pensionistica complementare nell’ordinamento italiano. Gli spazi dell’autonomia individuale, in Mass. giur. lav., 1998, p. 776 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare sindacale, in ragione della tensione – che attraversa tutta la disciplina della previdenza complementare – tra le origini mutualistico-corporative di quest’ultima e le spinte concorrenziali provenienti dal mercato finanziario ( 8 ). Al sostanziale mantenimento del tenore letterale di larga parte delle disposizioni già cristallizzate nell’art. 3 del d.lgs. n. 124/93, fa infatti da contraltare, come detto, l’eliminazione del vincolo posto dal previgente art. 9, comma 2o, del d.lgs. n. 124/93. Sicché tutte le forme pensionistiche complementari sono liberamente accessibili, ad iniziativa dei destinatari. La questione si lega peraltro con quella della cd. portabilità del contributo datoriale, in ordine alla quale – pur essendo infine prevalsa, nella legislazione delegata, l’opzione tesa a conferire comunque all’autonomia collettiva il governo della materia ( 9 ) – non può dirsi certamente raggiunta una soluzione definitiva, attesi anche i problemi di costituzionalità che derivano dal contrasto (a nostro avviso, sussistente) tra legge delega e decreto delegato ( 10 ). ( 8 ) Sulla tensione tra mercato e mutualità, cfr. Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della previdenza complementare, ne Il lavoro nella giurisprudenza, 2006, p. 249 ss.; Id., Legge, contratto collettivo e autonomia individuale nella nuova disciplina della previdenza complementare, in corso di pubblicazione, in Riv. it. dir. lav., 2007. ( 9 ) V. il tenore dell’art. 12, comma 1o, del d.lgs. n. 252/05, a mente del quale ai fondi aperti possono liberamente aderire tutti i destinatari delle norme del decreto legislativo, anche destinandovi « la contribuzione a carico del datore di lavoro a cui abbiano diritto, nonché le quote del t.f.r. ». La norma va tuttavia coordinata con la previsione dell’art. 14, comma 6o, in forza del quale compete alla contrattazione collettiva, anche aziendale, regolare limiti e modalità della cd. portabilità (sul punto, di fondamentale rilievo nell’impianto della riforma, v. Pallini, sub art. 14, in questo Commentario). ( 10 ) Sul punto, cfr. gli interventi, a delega ancora aperta, di Ichino, La « portabilità » tra diritto civile e antitrust, e Tursi, I sindacati e le pensioni private, entrambi in www.lavoce.info, nonché le osservazioni di Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge in tema di pensioni complementari, con qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev. ass. pubbl. e priv., 2004, spec. pp. 1257 ss. È invero difficile negare, a delega attuata, che l’art. 14, comma 6o, nella parte in cui consente ai contraenti collettivi di limitare la portabilità del contributo datoriale, sal- 597 Si deve poi tenere conto della previsione, per quanto ambigua essa sia, che riguarda l’istituzione di forme pensionistiche complementari ad opera delle regioni, ai sensi dell’art. 3, lett. d) ( 11 ), per mezzo del quale si aprono imprevedibili spazi all’intervento (invero non auspicabile, per le ragioni che saranno meglio esposte oltre) delle istituzioni locali, non solo in veste di regolatrici, ma anche di promotrici di fondi pensione. Al contempo, però, nel testo dell’art. 3 l’istituzione di forme pensionistiche complementari negoziali, basate sulla comune appartenenza ad una categoria o comunità di lavoro, resta prevalentemente connotata, come detto, dalla matrice sindacale, perlomeno nel rapporto con le altre fonti negoziali plurilaterali o unilaterali che possono preludere alla costituzione di fondi pensione « professionali »; sicché il legislatore non sembra avere del tutto abdicato, nemmeno oggi, a quella linea di promozione dell’autonomia collettiva che, unitamente alla promozione della previdenza complementare stessa, era già stata segnalata come cifra caratterizzante della legislazione in materia ( 12 ). Sennonché, il sostegno alla contrattazione collettiva ed alla matrice sindacale della previdenza complementare sembra ora rimanere circoscritto all’interno della sola famiglia dei fondi negoziali (nel senso che, come meglio si vedrà, il contratto collettivo gode di considerazione preferenziale rispetto ad altre fonti tese ad istituire tal genere di fondi, i quali sono tuttavia pienamente esposti alla concorrenza degli altri fondi pensione, di diversa matrice). Come detto, restano infatti residuali le forme pensionistiche complementari istituibili, non già ad opera del contratto collettivo, bensì in forza di iniziative dei lavoratori subordinati ed autonomi (mediante accordi plurilaterali tra i medesimi) ovvero dei datori di lavoro (mediante regolamento vaguardi, da un lato, le prerogative dell’autonomia contrattuale collettiva, ma entri in rotta di collisione, dall’altro, con l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 3, della legge delega, là dove disponeva che il contributo datoriale potesse affluire « alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso o alla quale egli intenda trasferirsi ». ( 11 ) Cfr. infra, par. 5. ( 12 ) Cfr. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 187. 598 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 aziendale); mentre una via collettiva è pur sempre attivabile anche in caso di adesione ai fondi aperti, alla luce della previsione dell’art. 12, comma 2o, che conferma quanto già previsto dalla disciplina previgente. Infine, una significativa apertura di spazi in favore dell’autonomia collettiva sembra ravvisabile nella disciplina del conferimento del t.f.r. e nel meccanismo del tacito conferimento ( 13 ), nei termini stabiliti dall’art. 8, comma 7o, lett. b), nn. 1 e 2. Qui, senza debordare nell’esame specifico di un tema che esula dal presente commento (si veda, sul punto, Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario) deve ritenersi che l’adesione semiautomatica derivante da tale congegno normativo va pur sempre intesa come un’opzione legislativa che presuppone il consenso individuale, ancorché tacito. Nemmeno dall’introduzione di tale congegno normativo sembra perciò possibile argomentare la validità di eventuali clausole contrattual-collettive che prevedano forme di adesione tacita ai fondi pensione, anche mediante ricorso a previsioni contrattuali di inscindibilità ( 14 ). Nel d.lgs. n. 252/05 emerge, a ben vedere, l’attribuzione all’autonomia collettiva di compiti che sono pur sempre di assoluto rilievo. Il legislatore, tuttavia, a differenza del passato, lungi ( 13 ) Appare qui opportuno evitare il ricorso alla locuzione « silenzio-assenso », pure largamente ricorrente nel dibattito che accompagna il d.lgs. n. 252/05, in quanto evocativa del fenomeno pubblicistico-amministrativistico in base al quale un’autorizzazione si intende concessa in assenza di rigetto entro un certo termine: cfr., ad es., nello stesso decreto, il testo dell’art. 19, comma 2o, lett. b). Il fenomeno del conferimento del t.f.r., al contrario, ha natura negozial-privatistica. ( 14 ) Clausole ritenute valide da Sandulli, Il decreto legislativo n. 124/93 nel sistema pensionistico riformato, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35, p. VI, nonché da Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, cit., p. XI. L’opinione non ha tuttavia avuto seguito nella prassi della contrattazione collettiva e si scontrava, del resto, con il dettato dell’allora vigente art. 3, comma 4o, del d.lgs. n. 124/ 93 (oggi riprodotto con il medesimo testo nell’art. 3, comma 3o, del d.lgs. n. 252/05). Contra, Boer, La previdenza complementare, in Flessibilità e diritto del lavoro, a cura di G. Santoro Passarelli, Torino, 1997, p. 310; G. Santoro Passarelli, Trattamento di fine rapporto, previdenza complementare e mercato finanziario, in Riv. prev. pubbl. e priv., 2002, p. 178. dal preconfezionare norme di natura protezionistica in favore dei fondi pensione a genesi sindacale – che vengono esposti, invece, alla concorrenza sul mercato finanziario –, lascia in misura significativa alla dinamica delle relazioni contrattual-collettive, alla capacità di iniziativa delle parti sociali ed anche, se si vuole, alla creatività dei negoziatori, la ricerca di un nuovo punto di equilibrio nell’assetto delle fonti e nel rapporto concorrenziale con le diverse forme di previdenza complementare (specie, come è evidente, nella formulazione delle clausole contrattuali in materia di portabilità del contributo datoriale, nonché nella stipulazione degli accordi aziendali inerenti la destinazione del t.f.r.). Sta dunque ai contraenti collettivi elaborare scelte negoziali di fondo, tenendo conto che l’incidenza del prelievo contributivo da destinare alla previdenza complementare finisce inevitabilmente per riverberarsi sulla determinazione complessiva del costo del lavoro ( 15 ), entrando perciò a far parte di quel processo, unitario ed inscindibile, che è costituito dalla definizione del punto di equilibrio nell’assetto di interessi sottostante alle relazioni industriali. Anche per tale ragione la previdenza collettivo-sindacale ben può rivendicare le proprie peculiarità, in una partita nella quale sembra messa in discussione la stessa finalità, di mutualità collettiva ( 16 ), tipicamente riconducibile alla previden- ( 15 ) Il che spiega assai chiaramente perché il contratto collettivo sia tradizionalmente considerato, e non per bieche ragioni anticoncorrenziali, come la fonte istitutiva principe dei fondi pensione. Sul punto, cfr. Tosi, Contrattazione collettiva e previdenza complementare, cit., p. 358; Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, cit., p. XI. ( 16 ) Cfr. le valutazioni critiche, a delega ancora aperta, di Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 644, e di Pessi, La previdenza complementare tra funzione costituzionale e concorrenza, in Mass. giur. lav., 2005, p. 488. Anche Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro, Milano, 2000, I, p. 12, osservava che le modifiche apportate nel corso del tempo all’impianto originario del d.lgs. n. 124/93 avevano determinato l’introduzione di « elementi di concorrenzialità commerciale che non sono del tutto coerenti con le ragioni mutualistiche e solidaristiche di ordine professionale che dovrebbero contraddistinguere la pre- La nuova disciplina della previdenza complementare za privato-sociale, la quale non può essere ridotta a mera forma di investimento mobiliare e sminuita, perciò, nel suo ubi consistam ( 17 ). Pur non potendosi in questa sede affrontare partitamente la questione, non sembra nemmeno, d’altro canto, che il diritto antitrust debba necessariamente limitare l’azione dei contraenti collettivi, anche quando essi istituiscono e disciplinano la previdenza pensionistica complementare. Da parte della stessa giurisprudenza della Corte di giustizia ( 18 ) – per il caso in cui la videnza complementare ». Ritiene peraltro Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., pp. 109-110, che la rilevanza sociale del bisogno previdenziale non postula necessariamente l’apporto della solidarietà collettiva, facendone semmai derivare il vincolo previdenziale, presente anche nella previdenza individuale; il che è certamente esatto, anche se ciò non toglie che proprio la natura contrattata della previdenza a genesi sindacale consente a quest’ultima di giovarsi del contributo dei datori di lavoro e di legare gli aderenti ad un patto di carattere solidaristico. ( 17 ) È noto che la finalità solidaristica ha storicamente caratterizzato, in Italia, il fenomeno della previdenza complementare (cfr. Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 3 ss.) e che, anche per questo, il legislatore del 1993 aveva optato per una regolazione legale dalla marcata connotazione promozionale in favore dell’autonomia collettiva. La pur innegabile tendenza della previdenza complementare ad evolvere, da mera forma di solidarietà mutualistica, verso un ruolo di componente del mercato finanziario – come rilevato già da Viscomi, La « facoltà di trasferimento » della posizione pensionistica complementare, in Lav. e dir., 1997, p. 55 ss., e, più diffusamente, da Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit., p. 722 – non può tuttavia oscurarne la natura originaria ed il suo essere strumento di completamento del sistema di sicurezza sociale. Sulla compresenza delle due prospettive, quella emergente dal mercato finanziario e quella della solidarietà, cfr. da ultimo le riflessioni di G. Santoro Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, in Mass. giur. lav., 2006, p. 976 ss. ( 18 ) È d’obbligo il rinvio a Corte giust. CE 21 settembre 1999, causa n. C-67/97, Albany International BV, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, p. 209 ss., con nota di Pallini, Il rapporto problematico tra diritto della concorrenza e autonomia collettiva; in tema, cfr. anche Giubboni, La previdenza di base e complementare nella giurisprudenza comunitaria in materia di concorrenza, in Rivista della previdenza pubblica e privata, 599 forma pensionistica abbia natura complementare, nel senso che essa assolve una funzione sociale integrativa di quella obbligatoria – è stata riconosciuta un’esenzione dal campo di applicazione delle regole comunitarie in materia di tutela della concorrenza. Certo, anche i fondi pensione svolgono un’attività economica suscettibile di ricadere entro la nozione comunitaria di impresa, così da doversi conformare, almeno in prima battuta, alle regole del diritto della concorrenza ( 19 ); ma è vero anche che, pur ricordando la necessità di procedere ad un’attenta valutazione caso per caso, la giurisprudenza comunitaria conferisce rilievo proprio alla sussistenza di profili solidaristici ( 20 ), quali elementi idonei a giustificare talune deroghe al diritto antitrust. 3. – Un limite fondamentale imposto alle fonti istitutive, allorché esse intendono stabilire le modalità di partecipazione alle forme pensionistiche complementari, è ancora oggi costituito dal principio di « libertà di adesione individuale », sancito dall’art. 3, comma 3o, in una con il disposto dell’art. 1, comma 2o. La previsione dell’art. 3, comma 3o, coerentemente con quanto si poteva già rilevare nel precedente assetto normativo, sembra dettata dal fine di rafforzare – con specifico riferimento alle forme pensionistiche istituite ad iniziativa collettiva e, dunque, con riferimento al problema dell’ambito e del tipo di efficacia del contratto collettivo – quanto già affermato dall’art. 1, comma 2o. Si vuol dire, cioè, che l’art. 3, comma 3o opera nel senso di impedire – mediante la previsione di una necessaria e specifica dichiarazione di volontà del lavoratore – che il contratto collettivo produca i suoi consueti effetti normativi, al- 2002, p. 685 ss.; Piccininno, La natura dei fondi pensione alla luce degli orientamenti della Corte di giustizia europea, in Arg. dir. lav., 2000, p. 277 ss. ( 19 ) Con riferimento alla natura di « impresa », nel significato comunitario, rivestita dai fondi pensione costituiti sulla base della legislazione italiana, cfr. le osservazioni di Giubboni, Fondi pensione e competition rules comunitarie, in La previdenza complementare, cit., spec. p. 130 ss. ( 20 ) Sul tema, cfr. anche Alaimo, La previdenza complementare nella crisi del welfare state, cit., spec. pp. 212-213. 600 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 l’interno della cerchia di soggetti cui esso trova applicazione ( 21 ). Se infatti l’art. 1, comma 2o, si limita ad affermare che l’adesione « è libera e volontaria », l’art. 3, comma 3o, mira ad escludere che la mera stipulazione di un contratto collettivo istitutivo di una forma pensionistica complementare possa essere considerata – nei confronti degli iscritti alle associazioni stipulanti ovvero di coloro che avessero deciso di dare applicazione ai contenuti della contrattazione collettiva – quale espressione, appunto, di volontaria adesione. Così, l’art. 3, comma 3o, aggiunge e puntualizza che la libertà di adesione, che il legislatore intende garantire, è quella « individuale » e si realizza perciò in capo a ciascun soggetto singolarmente considerato, quand’anche ad esso si applichi iure communi il contratto collettivo concluso ai sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. a). Se però si volge lo sguardo oltre il recinto del solo art. 3, non si può fingere di ignorare che il meccanismo di conferimento tacito del t.f.r. disciplinato dall’art. 8 – benché si debba necessariamente intenderlo, per ragioni di coerenza sistematica, come espressione, comunque, della volontà individuale, ancorché implicita, del lavoratore ( 22 ) – è chiaramente idoneo ad incrinare significativamente l’effettività o, se non altro, le ricadute pratiche derivanti dal principio di libertà di adesione individuale ( 23 ); senza contare che esso collide in certa misura con la stessa essenza della nozione di negozio giuridico, tradizionalmente inteso come dichiarazione di volontà (qui solo forzatamente estrapolabile dal ( 21 ) Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit., p. 730, il quale giustamente evidenzia come la questione discenda dalla specificità dell’autonomia collettiva, vero essendo che, nel diverso caso della conclusione di accordi plurilaterali istitutivi delle forme pensionistiche complementari, ovvero nell’adesione ai fondi aperti, « la libertà di adesione è ricompresa, e si confonde, nella libertà di partecipare, o no, a quegli accordi o in quella di aderire alle forme alternative a quelle sindacali ovvero di promuoverne l’istituzione ». ( 22 ) Così anche le direttive generali della COVIP adottate con deliberazione del 28 giugno 2006. ( 23 ) Di « strisciante attenuazione del principio di libertà di adesione » parla ad es. Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 76. comportamento inerte del lavoratore). La disciplina contenuta nell’art. 8, comma 7o, determina in fin dei conti un tortuoso percorso che consente di aggirare il principio, pur mantenuto formalmente in vigore ed anzi solennemente enunciato, della libertà di adesione individuale ( 24 ); principio che viene dunque fortemente incrinato ( 25 ) e non è probabilmente più qualificabile come « costitutivo del sistema » ( 26 ). È noto che altri ordinamenti nazionali prevedono l’accesso obbligatorio alla previdenza complementare ( 27 ). Ciò ovviamente non significa che il legislatore italiano si sarebbe dovuto muovere in tale direzione ( 28 ); può però ben ( 24 ) In relazione alla disciplina di cui all’art. 8, comma 7o, parla di « via italiana all’obbligatorietà » Passalacqua, La previdenza complementare nel prisma della sussidiarietà tra disegno costituzionale e intervento del legislatore ordinario, in Riv. dir. sic. soc., 2007, p. 57. ( 25 ) Contra, ritenendo che nell’impianto della riforma persista una centralità del principio di libertà di adesione, cfr. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p. 188. ( 26 ) Come lo qualificava Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 70. ( 27 ) Cfr. Vianello, I fondi pensione nelle esperienze nazionali europee, in La previdenza complementare, cit., p. 134 ss.; Bozzao, La previdenza complementare in Italia ed in Europa, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35, inserto, p. XXIX ss. D’interesse è altresì rilevare che il Governo britannico ha recentemente presentato il Libro bianco Security in retirement: towards a new pension system, nel quale ipotizza l’estensione della previdenza complementare tramite automatic enrolment into a private pension, salvo esplicita manifestazione di volontà contraria del lavoratore (con molte assonanze, dunque, rispetto alla disciplina italiana del conferimento tacito del t.f.r.): cfr. il testo del documento nel sito www.dwp.gov.uk. ( 28 ) Che pure viene auspicata in dottrina: cfr. ad es. Pessi, La collocazione funzionale delle recenti innovazioni legislative in materia di previdenza complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, cit., a cura di Ferraro, I, p. 59; Zampini, La previdenza complementare, cit., pp. 325-326; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., pp. 637-638; contra, Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, cit., p. 10, nonché, nel contesto di una ricostruzione tesa invece a valorizzare la libertà individuale, Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., passim. Deve comunque ritenersi che il legislatore consideri il fenomeno della previdenza La nuova disciplina della previdenza complementare dirsi che una soluzione più lineare di quella adottata, e pienamente compatibile con i principi costituzionali, sarebbe potuta consistere, non tanto nella configurazione della previdenza complementare come obbligatoria, quanto nel riconoscimento che il principio della volontarietà di adesione può essere del tutto soddisfatto ad opera del contratto collettivo e delle sue previsioni, rimuovendosi perciò ogni impedimento (ancora oggi rappresentato, invece, dall’art. 3, comma 3o) al dispiegarsi della sua ordinaria efficacia nei confronti dei singoli. Allo stato, sembra però qualificabile come forzatura interpretativa la conclusione secondo cui, de iure condito, si dovrebbe leggere il requisito della libertà di adesione, anche alla luce dell’intervento della giurisprudenza costituzionale ( 29 ), come requisito in certa misura già soddi- complementare come espressione privato-sociale, che perciò non va integralmente ristretta all’interno della sola cornice delineata dall’art. 38, comma 2o, Cost., riconoscendole invece un duplice referente costituzionale, rappresentato, oltre che dalla norma citata, anche dall’art. 38, comma 5o, nel quale si radica un principio di libertà: cfr. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 67; adde, sulla « ispirazione contraddittoria irriducibile ad unità » del d.lgs. n. 124/93, Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 321 ss. La tesi della funzionalizzazione della previdenza complementare al soddisfacimento dei bisogni già oggetto della tutela dispensata dalla previdenza obbligatoria di base è per vero largamente sostenuta in dottrina (cfr., tra gli altri, Sandulli, voce Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm., 1995, p. 253; Cinelli, Sulle funzioni della previdenza complementare, in Riv. giur. lav., 2000, I, p. 523 ss.) ed è avallata da Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, in Mass. giur. lav., 2000, p. 965, con nota adesiva di Pessi, Una lezione di etica politica: la Corte costituzionale e la previdenza complementare. Per la tesi secondo cui, invece, la previdenza complementare privata troverebbe fondamento nell’art. 38, comma 5o, Cost. cfr. Persiani, Previdenza pubblica e previdenza privata, in Aidlass, Il diritto del lavoro alla svolta del secolo, Atti del XIII Congresso nazionale di diritto del lavoro, (Ferrara 11-12-13 maggio 2000), Milano, 2002, p. 23 ss., nonché Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., spec. cap. I. Per una considerazione più cauta delle ricadute del citato intervento della Corte costituzionale, cfr. Proia, Aspetti irrisolti del problema dei rapporti tra previdenza pubblica e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2001, p. 619 ss. ( 29 ) Cfr. Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, cit. 601 sfatto, in capo ai singoli rappresentati, attraverso la conclusione del contratto collettivo ( 30 ). Né, come detto, la disciplina relativa al conferimento del t.f.r., malgrado il suo meccanismo di semiautomaticità, consente di ripensare criticamente la tesi – prevalente in dottrina e del resto esatta, in vigenza del d.lgs. n. 124/93 – secondo cui eventuali clausole di inscindibilità, inserite nei contratti collettivi, che subordinassero la fruizione di tutte le tutele contrattual-collettive all’adesione al fondo pensione negoziale, sarebbero contrastanti con il principio della libertà di adesione ( 31 ). 4. – Al pari dell’art. 3 del d.lgs. n. 124/93, anche l’art. 3 del decreto delegato è rubricato « Istituzione delle forme pensionistiche complementari »; sicché esso contiene una disciplina che è sostanzialmente attinente ad un’iniziativa procedimentale, la cui titolarità viene rimessa ad una determinata cerchia di soggetti, nel rispetto di certi limiti e modalità. Ciò spiega perché, con una sostanziale sfasatura concettuale, si sia diffusa nel linguaggio corrente la tendenza a personificare la nozione di « fonti istitutive » ( 32 ), identificandole con i soggetti indicati dall’art. 3; tendenza, questa, che si è oggi viep- ( 30 ) Così, seppure con tono più ottativo che assertivo, Alaimo, La previdenza complementare nella crisi del welfare state, cit., p. 231. Parimenti Pessi, La previdenza complementare, cit., p. 127, auspica che « l’opzione garantista compiuta in nome della libertà [...] possa essere superata nel tempo dalla forza propulsiva già dimostrata in questo cinquantennio dall’autonomia collettiva »; ma tale auspicio non pare in grado di superare il dato legale, che è chiaramente connotato da un intento restrittivo degli effetti normativi normalmente prodotti dal contratto collettivo. Non può essere pertanto condivisa l’opinione di Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, cit., p. 34, secondo cui gli accordi collettivi di cui all’art. 3 « possono stabilire forme di adesione implicita, connesse ad esempio all’iscrizione al sindacato ». ( 31 ) Così, tra gli altri, Mazziotti, sub art. 2, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 182. ( 32 ) Di « tendenza a sovrapporre il concetto di fonti istitutive con le organizzazioni sindacali contraenti » parla Sandulli, Le fonti costitutive di fronte alle sfide della concorrenza, ne La previdenza complementare e la concorrenza tra i fondi pensione, Atti del convegno del Fondo pensioni del personale della BNL (3 maggio 2005), in Quaderni Mefop, 2005, p. 28. 602 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 più rafforzata ed è avallata dal legislatore, come emerge in modo macroscopico nella disposizione di cui all’art. 4, comma 6o, a mente del quale la COVIP è chiamata a disciplinare determinate ipotesi di decadenza del fondo pensione dall’autorizzazione, « previa convocazione delle fonti istitutive ». Per quanto riguarda l’ambito del lavoro subordinato privato, fonti principali nell’istituzione delle forme pensionistiche complementari rimangono, come detto, i « contratti e accordi collettivi, anche aziendali » (art. 3, comma 1o, lett. a). Natura residuale è infatti assunta dagli « accordi fra lavoratori » (art. 3, comma 1o, lett. a) ( 33 ), nonché dai « regolamenti di enti o aziende » (art. 3, comma 1o, lett. c) ( 34 ). Il legislatore specifica che i contratti aziendali istitutivi delle forme pensionistiche complementari hanno efficacia limitata « ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi ». In dottrina si è già osservato ( 35 ) che la disposizione appare sostanzialmente inutile, a meno di non ritenere che il contratto collettivo aziendale sia dotato di intrinseca efficacia erga omnes; efficacia, questa, che esso tuttavia non possiede. Così, l’intervento legislativo in commento appare criticabile proprio per l’indiretto avallo che esso fornisce ad una distorta configurazione giuridica del contratto collettivo ( 36 ). La norma, in effetti, denota la chiara volontà del legislatore di circoscrivere l’efficacia dei contratti aziendali nei confronti dei soli aderenti alle associazioni firmatarie, sul presupposto (infondato, tuttavia, alla stregua dei principi del diritto comune) che ( 33 ) Tali accordi possono istituire forme pensionistiche complementari « in mancanza » di contratti collettivi applicabili. Sul rapporto tra la contrattazione collettiva e gli accordi « fra lavoratori », cfr. Ciocca, Fondi pensione e lavoro autonomo, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro, cit., spec. p. 701. ( 34 ) Tale fonte istitutiva può promanare dai soli datori di lavoro, i rapporti alle dipendenze dei quali « non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali ». ( 35 ) Tursi, I problemi giuridici delle fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, in Osservatorio giuridico, n. 10, Suppl. alla Newsletter Mefop, n. 24, 2005, p. 4. ( 36 ) Cfr. sempre Tursi, ibidem; Id., Le fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, in Newsletter Mefop, n. 25, 2006, p. 5 senza una siffatta norma il contratto stesso assumerebbe efficacia generalizzata ( 37 ). È pur vero, d’altro canto, che la giurisprudenza, sebbene non senza ambiguità, si è sovente spinta, nella ricostruzione dell’ambito soggettivo di efficacia del contratto aziendale, ben oltre i confini consentiti dal diritto comune ( 38 ). Con una punta di benevolenza potrebbe dunque ritenersi che l’inciso normativo in esame, certo non inappuntabile sul piano della teoria del contratto collettivo, intenda pragmaticamente porsi in rapporto dialettico con il diritto vivente di formazione giurisprudenziale, oltre che – va pur detto – con certi orientamenti dottrinali ( 39 ) ( 37 ) È solo il caso di notare che l’art. 8, comma 7o, lett. b), n. 1), del decreto in commento prevede il conferimento tacito del t.f.r. « alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, salvo sia intervenuto un diverso accordo aziendale », senza preoccuparsi, in questo caso, del problema dell’ambito soggettivo di efficacia di tali accordi. ( 38 ) L’efficacia generalizzata del contratto aziendale è stata affermata in certi casi dalla giurisprudenza (benché non si tratti di un filone consolidato né univoco) in ragione dell’indivisibilità degli interessi regolati, oltre che della « oggettiva funzione di regolamentazione uniforme » propria degli accordi aziendali (così Cass. 25 marzo 2002, n. 4218; cfr. anche Cass. 15 giugno 1999, n. 5953). Per una ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali sia consentito rinviare a Bollani, Il contratto collettivo aziendale è efficace erga omnes?, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, p. 312, in nota critica a Cass. 28 maggio 2004, n. 10353, che, in difetto del dissenso sindacale, ravvisa l’efficacia erga omnes argomentando anche (assai discutibilmente) sulla base dell’inscindibilità della disciplina contrattuale. ( 39 ) L’efficacia erga omnes degli accordi aziendali è stata variamente argomentata dalla dottrina, facendo leva ora sull’indivisibilità degli interessi dedotti nel regolamento contrattuale (Dell’Olio, L’organizzazione e l’azione sindacale, Padova, 1980, p. 170; Assanti, La coppia « collettivo-collettivo »: rappresentatività del sindacato ed « indivisibilità » delle posizioni soggettive, in Aa.Vv., Diritto e giustizia del lavoro oggi, Milano, 1984, p. 109 ss.), ora sulla capacità rappresentativa dei sindacati stipulanti (sulla ritenuta efficacia generale dei contratti conclusi da sindacati maggiormente rappresentativi, cfr. Ferraro, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Padova, 1981), ora sulla legittimazione democratica promanante dall’assemblea dei lavoratori dell’azienda (Caruso, Rappresentanza sindacale e consenso, Milano, 1992). La nuova disciplina della previdenza complementare tesi a sostenere l’efficacia erga omnes del contratto aziendale. Il punto, però, è che nel caso della previdenza complementare il problema del dissenso è di fatto destinato a non porsi, essendo la questione neutralizzata per mezzo dell’affermazione generale del principio di libertà di adesione individuale di cui all’art. 3, comma 3o, e non determinando il contratto collettivo alcun obbligo per i lavoratori né alcuna revisione peggiorativa di un pregresso trattamento. Con la conseguenza che la limitazione introdotta dalla lett. a) dell’art. 3, comma 1o, relativamente all’ambito di efficacia del contratto aziendale, appare scarsamente comprensibile. Né la volontà di limitare l’efficacia degli accordi aziendali ai soli « soggetti » firmatari acquisirebbe senso se riferita all’ipotesi del dissenso collettivo ed alla stipulazione dei cd. contratti separati, sia perché il problema è destinato di fatto a non porsi nell’ambito della previdenza complementare, per le ragioni già esposte, sia perché anche la giurisprudenza sopra richiamata – una volta che nel caso concreto si possa prendere atto di un dissenso collettivo e non individuale – esclude la sussistenza di un’efficacia generalizzata. La formulazione dell’art. 3, comma 1o, lett. a) contempla peraltro un’ulteriore e distinta fattispecie, là dove si riferisce ai « lavoratori » firmatari dei menzionati contratti collettivi. Mentre il riferimento ai « soggetti » firmatari dei contratti aziendali corre, evidentemente, alle organizzazioni sindacali, per « lavoratori firmatari » dovrebbero intendersi tutti quegli individui, parte di singoli contratti di lavoro, i quali abbiano concluso accordi individuali plurimi con il comune datore di lavoro ( 40 ). Non si è dunque in presenza, malgrado l’impropria formulazione lessicale utilizzata dal legislatore, di « contratti e accordi collettivi aziendali », bensì di un fascio di atti negoziali individuali, posti in essere da una collettività non organizzata; così individuata la natura di tali accordi, è al- ( 40 ) Contra, seppur dubitativamente, Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p. 156, secondo cui il legislatore avrebbe qui voluto solo visualizzare e ribadire la rilevanza della volontà individuale, che deve seguire il contratto collettivo ai fini dell’adesione alla forma pensionistica complementare da quest’ultimo istituita. Ma, se così fosse, si tratterebbe di norma evidentemente inutile. 603 lora scontata (e, dunque, è anche qui pleonastico che il legislatore si preoccupi di ribadirla) la loro limitata efficacia soggettiva. Ed anche la Covip ( 41 ) ritiene che tali accordi non possano essere ricompresi tra quegli « accordi aziendali », contemplati dall’art. 8, comma 7o, lett. b), nn. 1 e 2, abilitati dal decreto delegato a derogare, eventualmente, alle norme legali ivi contenute in tema di devoluzione tacita del t.f.r. (su tali accordi aziendali, cfr. Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario). Per quanto invece concerne gli accordi fra lavoratori, essi hanno natura di accordi plurilaterali con comunione di scopo, costituendo, ai fini dell’istituzione di forme pensionistiche complementari, strumento ordinario, per così dire, per i lavoratori autonomi, ai sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. b), nonché per i soci lavoratori di cooperative, ai sensi della lett. e), e residuale, invece, per i lavoratori subordinati, ai sensi della lett. a). Tali accordi, che segnano un’iniziativa promanante comunque da soggetti appartenenti ad una comunità di lavoro di riferimento, debbono essere promossi, per quanto riguarda il lavoro autonomo ( 42 ), da « sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale »; per i soci lavoratori di cooperative, da « associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute »; infine, per quel che concerne il lavoro subordinato, da « sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro ». All’area del lavoro autonomo vanno peraltro ascritti anche i collaboratori coordinati e continuativi ed in genere i cd. lavoratori parasubordinati, nei cui riguardi avrebbe in realtà senso immaginare la stipulazione di veri e propri contratti collettivi. Già nel regime normativo previgente si era aperta una querelle inerente l’ammissibilità di accordi collettivi, istitutivi di forme pensionisti- ( 41 ) Cfr. le direttive generali emanate dalla COVIP il 28 giugno 2006. ( 42 ) Il testo della norma in commento parla di accordi « fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti ». L’uso della particella disgiuntiva « o » potrebbe lasciare intendere che i « liberi professionisti » siano soggetti diversi dai « lavoratori autonomi »; il che, tuttavia, non è, dal momento che, come noto, anche a voler considerare soltanto la disciplina contenuta negli artt. 2222 ss. c.c., la categoria del lavoro autonomo ricomprende chiaramente anche le cd. professioni intellettuali. 604 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 che complementari, per i cd. lavoratori parasubordinati ( 43 ). Pur avendo l’art. 3 del d.lgs. n. 124/93 apparentemente consegnato ai lavoratori autonomi il solo strumento dell’accordo plurilaterale, si era in realtà ritenuta possibile, con interpretazione condivisibile, l’istituzione di forme pensionistiche complementari per i cd. parasubordinati attraverso contratti collettivi. A tale conclusione si perveniva argomentando a partire dall’art. 8 dello stesso decreto, il quale prevedeva il finanziamento dei fondi pensione anche attraverso contributi posti a carico dei « committenti »; il che, evidentemente, presupponeva che gli stessi committenti potessero contrattualmente assumere tale obbligo nei confronti dei propri collaboratori ( 44 ). Il legislatore del 2005 perpetua una certa confusione concettuale, se è vero che l’art. 8 sembra distinguere tra le prestazioni di lavoro rese in favore di un « committente » (comma 1o, primo periodo) ed il caso del lavoro autonomo (comma 1o, secondo periodo); mentre, come noto, le prime rientrano a pieno titolo nel più ampio genus rappresentato dal secondo. In ogni caso, il tenore del dettato legislativo, sostanzialmente coincidente con quello previgente, consente di pervenire alle stesse conclusioni già elaborate sotto la vigenza del d.lgs. n. 124/93. La disciplina introdotta nel 2005, al pari di quella precedentemente in vigore, pone peraltro all’attenzione dell’interprete una serie di questioni che riguardano la rappresentatività degli agenti negoziali e la loro selezione ad opera del legislatore. Al pari del d.lgs. n. 124/93, anche il decreto delegato del 2005 nulla prevede, infatti, in ordine alle qualità rappresentative dei contraenti collettivi che stipulano i contratti collettivi istitutivi delle forme pensionistiche complementari ( 45 ). Tale silenzio non deve tut- ( 43 ) I quali, lo si ripete a scanso di equivoci, sono a tutti gli effetti lavoratori autonomi, caratterizzandosi i loro rapporti soltanto per l’applicabilità di determinate e specifiche tutele, in parte comuni a, ed in parte mutuate da, quelle approntate dall’ordinamento per il lavoro subordinato. ( 44 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 205; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 77. ( 45 ) Con l’eccezione, già introdotta dalla l. n. 335/ 95 nel corpus del d.lgs. n. 124/93, degli accordi per gli appartenenti alla categoria legale dei quadri, le cui tavia apparire distonico, se posto a confronto con il prescritto carattere nazionale dei sindacati « promotori » di iniziative di previdenza complementare senza partecipazione (e contribuzione) dei datori di lavoro. In tal caso, la ratio del requisito della nazionalità può essere infatti ravvisata nella comprensibile preoccupazione del legislatore di garantire una proficua gestione delle risorse raccolte dal fondo ad un livello accentrato ( 46 ), evitando micro-iniziative finanziariamente poco promettenti. Non è invece richiesta alcuna speciale qualità rappresentativa (conformemente a quanto già previsto dal d.lgs. n. 124/93) in capo ai soggetti che stipulano i contratti collettivi istitutivi di una forma pensionistica complementare ai sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. a). In difetto di specificazioni, deve allora ritenersi che, almeno in astratto, qualsiasi contratto collettivo, sottoscritto da qualsivoglia associazione sindacale, ed a qualsiasi livello, possa istituire una forma pensionistica complementare. Sennonché è del tutto evidente che in questa materia un’iniziativa sindacale può assumere valore solo se, nell’ambito di riferimento considerato (categoriale, territoriale o aziendale), essa non riguardi un insieme circoscritto di lavoratori. Ed infatti i fondi pensione noti ad oggi nell’esperienza del nostro Paese sono sorti attraverso l’iniziativa delle principali associazioni sindacali, tanto a livello di categoria quanto a livello aziendale. A ciò si aggiunga che, anche in questa materia, che comporta una diretta ed ulteriore incidenza sul livello complessivo del costo del lavoro, i datori di lavoro hanno interesse a negoziare solo con sindacati adeguatamente rappresentativi. Come si può notare, in sostanza il testo dell’art. 3, comma 1o, lett. a) – a cagione del fatto che menziona puramente e semplicemente i contratti collettivi, senza ulteriori specificazioni – determina la riemersione di tutti i problemi, organizzazioni sindacali, quando intendano concorrere all’istituzione di una forma pensionistica complementare, debbono possedere il requisito della nazionalità: cfr. sempre il testo dell’art. 3, comma 1o, lett. a) del d.lgs. n. 252/05. ( 46 ) Così, a margine della disciplina introdotta nel 1993, Mastrangeli, sub art. 3, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, cit., p. 183. La nuova disciplina della previdenza complementare scandagliati da una pluridecennale elaborazione dottrinale, propri del cd. contratto di diritto comune. Ciò è quanto si può dire, innanzitutto, in ordine alla questione dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo « istitutivo », che attribuisce al lavoratore il diritto di aderire al fondo pensione ed al datore l’obbligo della contribuzione, se ed in quanto il contratto collettivo risulti applicabile in forza dell’affiliazione sindacale ovvero del rinvio esplicito od implicito operato dalle parti del contratto individuale ( 47 ). Nemmeno la questione del possibile concorso tra più contratti collettivi istitutivi di forme pensionistiche complementari (ad es., l’uno categoriale e l’altro territoriale) si presta ad essere risolta secondo criteri diversi da quelli rivenienti dal diritto comune ed affermatisi nell’elaborazione gius-sindacale. Benché un filone dottrinale ritenga che, in presenza di più contratti collettivi astrattamente applicabili al rapporto di lavoro, il lavoratore potrebbe indifferentemente scegliere tra l’uno e l’altro fondo pensione, ciò discendendo dal principio di libertà individuale di adesione ( 48 ), il problema del conflitto tra ( 47 ) Contra, Tosi, Le fonti istitutive dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 440, secondo il quale il principio di libertà di adesione individuale postulerebbe la possibilità che il lavoratore scelga di aderire ad un fondo negoziale indipendentemente dall’applicabilità del contratto collettivo. Secondo Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 111 ss., sarebbe auspicabile conferire « fondamento alla realità degli effetti della contrattazione collettiva istitutiva » (p. 114), con preminenza delle fonti istitutive di livello superiore; ma tale ragionamento oscilla in modo non del tutto lineare tra opzioni, pur legittime, di politica del diritto ed un’esegesi letterale del testo di legge che lo stesso a. riconosce piuttosto fragile e che è stata in effetti adeguatamente confutata da Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 279 ss. ( 48 ) Tosi, op. ult. cit., p. 441, anche in tal caso – oltre che in quello di contratti concorrenti perché sottoscritti da diversi soggetti – ritiene il lavoratore libero di scegliere il fondo al quale aderire. In realtà la tesi in parola sembra muovere da un’errata configurazione del significato sotteso al principio di libertà di adesione, il quale determina semmai una facoltà di opting out del lavoratore, nonostante la sua eventuale affiliazione sindacale, e non anche una sua facoltà di scelta tra diverse iniziative pensionistiche a genesi sindacale. 605 contratti va invece più correttamente impostato, secondo una nota costruzione dottrinale ( 49 ), come composizione di un’antinomia e come scelta, quindi, dell’unico regolamento contrattuale applicabile al rapporto. Occorre, cioè, individuare il contratto applicabile, l’uno escludendo l’altro. Così, i lavoratori a cui si applica la fonte istitutiva sono quelli a cui si applica il contratto collettivo prevalente ( 50 ), alla stregua dei noti principi di posteriorità nel tempo e di specialità. Certo, non si può negare che il legislatore del 2005, specie nella disciplina degli accordi aziendali di cui all’art. 3, comma 1o, lett. a), mostra di intendere il contratto collettivo quale atto eteronomo con efficacia generalizzata; tanto che, proprio perché si preoccupa nell’art. 8 di regolare il concorso tra fonti, per il caso di tacito conferimento del t.f.r., sembrerebbe presupporre che tutti i contratti collettivi, eventualmente di diverso livello, istitutivi di forme pensionistiche complementari, siano astrattamente ed al contempo applicabili ( 51 ). Questo, tuttavia, non deve esimere l’interprete dal rilevare le aporie dell’intervento legislativo, proponendo l’opzione ermeneutica più consona ai principi dell’ordinamento. Altro peculiare problema, che rimanda ancora una volta ad una controversa questione giussindacale (la quale tuttavia non può qui essere sviluppata: sul punto cfr. Occhino, sub art. 15, in questo Commentario), è poi quello del recesso ( 52 ) del datore di lavoro dal contratto collettivo istitutivo della forma pensionistica complementare e delle sue eventuali ricadute sulle po- ( 49 ) Grandi, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1981, p. 355 ss. ( 50 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 232 ss. ( 51 ) Così Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., pp. 191192. ( 52 ) Cfr. Maresca, Contratto collettivo e libertà di recesso, in Arg. dir. lav., 1995, n. 2, p. 35 ss.; Rescigno, Contratto collettivo senza predeterminazione di durata e libertà di recesso, in Mass. giur. lav., 1993, p. 576 ss.; Tursi, Contratto a tempo indeterminato e recesso ad nutum, in Riv. it. dir. lav., 1993, I, p. 448 ss.; Sandulli, Disdettabilità degli accordi collettivi e prestazioni pensionistiche complementari, in Mass. giur. lav., 1990, p. 388 ss. 606 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 sizioni giuridiche soggettive ( 53 ) degli iscritti al fondo. 5. – La lett. d) dell’art. 3, comma 1o, sembra poggiare su un sostanziale equivoco ( 54 ), poiché in esso si intrecciano e si confondono due questioni del tutto separate: da un lato, la ripartizione tra Stato e regioni delle competenze legislative in materia di previdenza complementare; dall’altro, l’istituzione di forme pensionistiche complementari direttamente ad iniziativa delle regioni, vale a dire la configurazione di queste ultime quali « fonti istitutive ». Leggendo il testo della norma ( 55 ), e ponendolo a confronto con il disposto della legge delega ( 56 ), appare chiaro come in capo alle regioni si sovrappongano compiti consistenti al contempo nell’istituire le forme pensionistiche complementari, da un lato, e nel disciplinarle, in conformità alle previsioni dell’art. 117 Cost. (che assegna la materia alla potestà legislativa concorrente), dall’altro ( 57 ). ( 53 ) Cfr. Spagnuolo Vigorita, Obiettivi collettivi e strumenti contrattuali. I diritti acquisiti in tema di pensione integrativa, in Arg. dir. lav., 1995, n. 2, p. 17 ss.; Persiani, Aspettative e diritti nella previdenza pubblica e privata, in Arg. dir. lav., 1998, p. 311 ss.; Tullini, Previdenza complementare e tutela delle posizioni soggettive, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, p. 1111 ss. ( 54 ) Così già Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. e priv., 2005, p. 524, ed anche Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p. 159. ( 55 ) « Le forme pensionistiche complementari possono essere istituite da [...] d) le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia ». ( 56 ) Cfr. l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2, della legge n. 243/04, che delegava il Governo ad individuare modalità tacite di conferimento del t.f.r. « ai fondi istituiti o promossi dalle regioni, tramite loro strutture pubbliche o a partecipazione pubblica all’uopo istituite, oppure in base ai contratti e accordi collettivi di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 3 ». ( 57 ) È solo il caso di precisare che la competenza legislativa regionale (la cui ampiezza è tuttavia controversa, trattandosi di materia di competenza concorrente: cfr. infra, nel testo) riguarda l’intero fenomeno della previdenza complementare e non soltanto i fondi cd. regionali. L’impostazione « federalista » della norma in commento risente perciò di una sfocata valutazione della questione relativa al riparto di competenze legislative. La potestà normativa in materia di previdenza complementare, riconosciuta alle regioni dal titolo V della Costituzione, nella versione emendata dalla l. cost. n. 3/01, sembra avere determinato, in modo invero irrazionale, un effetto di trascinamento che ha fatto debordare il ruolo delle regioni da quello di regolatore a quello di fonte istitutiva. In questa sede non ci si soffermerà, se non nei limiti essenziali allo svolgimento del discorso, sui problemi costituzionali del riparto di competenze legislative tra Stato e regioni; problemi, questi, che ruotano essenzialmente attorno alla questione della controversa individuazione dei « principi fondamentali » rimessi alla potestà legislativa dello Stato, oltre che attorno al contenuto della stessa nozione di « previdenza complementare e integrativa » ( 58 ) di cui all’art. 117, comma 3o, Cost. Si vuole insomma contribuire, per quanto possibile, ad una chiarificazione concettuale, in modo che i problemi giuridici delle fonti istitutive (ciò che costituisce principale oggetto di questo contributo) siano tenuti distinti da quelli legati alle fonti della produzione legislativa. Ebbene, il limite del « rispetto della normativa nazionale in materia » – imposto alle regioni dall’art. 3, comma 1o, lett. d) del decreto delegato – sembra alludere ad un insieme di regole di portata tanto ampia, da consentire di sostenere ragionevolmente la tesi secondo la quale tutte le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 252/05 assurgerebbero al rango di principi fondamentali in materia di previdenza complementare. In altre parole – dovendo le regioni legiferare, nelle materie di competenza concorrente, entro la cornice dei « principi fondamentali » fissati dal- ( 58 ) L’espressione « previdenza complementare e integrativa » è generalmente intesa in senso alquanto ampio e comprensivo: cfr. F. Carinci, Aspetti problematici e prospettive de iure condendo, in La previdenza complementare, a cura di Besson e F. Carinci, cit., Torino, 2004, p. XXXIV; Magnani, Il lavoro nel titolo V della Costituzione, in Arg. dir. lav., 2002, p. 645 ss. Per la tesi, invece, secondo cui tale locuzione evocherebbe due distinti ambiti di intervento normativo, cfr. Ciocca, Il sistema previdenziale ed il federalismo, in Arg. dir. lav., 2003, p. 739 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare le leggi dello Stato – le norme del d.lgs. n. 252/ 05, in mancanza di più puntuali indicazioni legislative, sono idonee ad assurgere nella loro interezza alla stregua di limite per i legislatori regionali ( 59 ). Tale lettura estensiva pare preferibile, proprio perché, come detto, trova il conforto letterale della legge, che indica la « normativa nazionale » quale limite. E, del resto, la lettura che ritiene invece necessario estrapolare, all’interno della legislazione statale, i principi fondamentali, separandoli dalle norme prive di tale natura ( 60 ), già costringeva l’interprete, anche prima dell’emanazione del d.lgs. n. 252/05, ad una faticosissima opera di bilanciamento di valori ed interessi, lasciando gli ipotizzati interventi legislativi regionali sempre esposti alla spada di Damocle dell’incostituzionalità. Sembra perciò che si possa immaginare una legislazione regionale destinata a muoversi nel solco del sistema, senza significative deviazioni. Ma, come si è detto, l’aspetto di maggiore criticità e tensione interpretativa, almeno per quanto rileva ai fini dell’analisi giuridica dell’assetto delle fonti istitutive, non risiede tanto nei problemi del riparto di competenza legislativa, quanto nella pur ambigua apertura verso fondi direttamente istituiti dalle regioni. Si tratta di una decisa rottura, da questo punto di vista, con il sistema previgente, che pure già ammetteva il caso, tuttavia ben diverso, di una mera attività promozionale svolta dalle regioni ai fini della costituzione di fondi pensione connotati da un fondamento territoriale. Ad oggi, per verità, le regioni non sembrerebbero avere manifestato concreto interesse verso la possibilità dischiusa dalla norma in commento ( 61 ), se non nei limiti della possibile promozione di fondi pensione regionali per il personale degli enti locali ( 62 ). Sta di fatto, però, che l’assunzione di iniziative regionali non appare promettente né da un ( 59 ) Così anche Passalacqua, La previdenza complementare nel prisma della sussidiarietà tra disegno costituzionale e intervento del legislatore ordinario, cit., p. 71. ( 60 ) F. Carinci, Aspetti problematici e prospettive de iure condendo, cit., p. XXXVI; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 42 ss. ( 61 ) V. però il caso della legge regionale del Lazio n. 2/04, segnalata da Passalacqua, op. ult. cit., p. 79 ss. ( 62 ) Iniziative, queste, tuttavia ancor oggi impedite 607 punto di vista squisitamente finanziario ( 63 ), né per l’incidenza che essa potrebbe determinare sul piano della tutela della concorrenza ove i fondi si giovassero di forme di sostegno da parte delle istituzioni regionali ( 64 ). Questo non significa negare che talune esperienze di intervento pubblico locale nell’ambito della previdenza complementare abbiano guadagnato significativi meriti, anche per la loro capacità di coprire aree particolarmente critiche della previdenza complementare (si pensi al cd. lavoro atipico ovvero a soggetti in condizione non lavorativa) ( 65 ). Ma altro, si ripete, sarebbe ritenere che le regioni possano elevarsi, dal ruolo di meri coordinatori o promotori di iniziative previdenziali altrimenti originate, a quello di fonte istitutiva. Non deve peraltro dubitarsi che la norma del decreto delegato vada interpretata in coerenza con la legge delega, là dove si delegava il Governo a prevedere che i fondi regionali fossero istituiti o promossi « tramite strutture pubbliche o a partecipazione pubblica all’uopo istituite » ( 66 ); e che, altresì, debba ravvisarsi un limite implicito, per i legislatori regionali, costituito dal rispetto delle prerogative dell’autonomia dalla situazione di stallo che riguarda la previdenza complementare nel settore del lavoro pubblico: cfr., infra, par. 6. ( 63 ) Si allude al problema della possibile insufficienza delle masse di denaro così raccolte a raggiungere quella massa critica che può rendere più proficua la gestione del fondo: sul punto, cfr. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 123. ( 64 ) Cfr. Brambilla, Capire i fondi pensione, Milano, 1997, p. 272; Sandulli, Le fonti costitutive di fronte alle sfide della concorrenza, cit., p. 35. ( 65 ) Merita in tal senso una menzione il caso del Trentino-Alto Adige, le norme di attuazione del cui statuto speciale prevedono una rete residuale di protezione per i soggetti che non possono accedere a forme pensionistiche disciplinate dal d.lgs. n. 124/93, oltre a forme di sostegno amministrativo-contabile ai fondi negoziali, come previsto dalla legge regionale n. 3/97. Interessante è, in quel contesto territoriale, l’esperienza del fondo Laborfonds. Sul tema, cfr. Zampini, La previdenza complementare, cit., pp. 59-61; Francario, Principio di sussidiarietà e competenza regionale in materia di previdenza complementare, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 36-37. ( 66 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 2), della l. n. 243/04. 608 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 collettiva, garantite dall’art. 39 Cost. ( 67 ) ed oggetto di riserva di competenza legislativa statale. Una lettura « minimalista » circa la istituzione di fondi ad opera delle regioni – nel senso di ritenere che esse possano operare quali promotrici o coordinatrici di iniziative pensionistiche a genesi negoziale e non anche come soggetti che istituiscono direttamente il fondo pensione – deve dunque imporsi, soprattutto perché appare l’unica in grado di garantire la coerenza sistematica dell’intervento legislativo, salvaguardando la centralità dell’autonomia negoziale (più individuale, invero, che collettiva), già rilevata in dottrina ( 68 ) come elemento caratterizzante del decreto n. 124/93 e non rimossa, ma semmai solo erosa, dalla riforma del 2005. 6. – Una notazione a parte merita l’istituzione di forme pensionistiche complementari per i dipendenti della pubblica amministrazione. L’art. 3, comma 2o, del d.lgs. n. 252/05 conferma infatti l’impostazione già rinvenibile nel precedente assetto normativo, ribadendo la specialità della disciplina inerente il settore del lavoro pubblico. Qui non solo sopravvive il sostegno alla contrattazione collettiva, ma addirittura i contratti collettivi costituiscono, nell’ambito del cd. pubblico impiego privatizzato, canale esclusivo per l’attuazione delle forme pensionistiche complementari; mentre, per quanto attiene ai rapporti che fuoriescono dal campo si applicazione del d.lgs. n. 165/01, il legislatore si limita a rinviare ai rispettivi ordinamenti di stampo pubblicistico ovvero, in subordine, ad accordi plurilaterali tra i lavoratori. La norma – già criticata ( 69 ) allorché essa era contenuta, con identica formulazione, nell’art. 3 del d.lgs. n. 124/93 – appare chiaramente influenzata dall’esigenza di controllare e contenere i flussi della spesa pubblica; sicché l’indicazione della contrattazione collettiva come fonte istitutiva ( 67 ) Prerogative che sarebbero certamente violate, ad esempio, nel caso in cui il legislatore regionale prevedesse, in ipotesi, l’istituzione ad opera della regione di forme pensionistiche complementari esclusive. ( 68 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 11; Alaimo, La previdenza complementare nella crisi del welfare state, cit., p. 203. ( 69 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 218 ss.; Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 104. esclusiva non è, a ben vedere, il risultato di una reale opzione di sostegno legislativo, quanto, piuttosto, un effetto collaterale di un preminente obiettivo di controllo finanziario. Ed in tale direzione muove, del resto, anche l’art. 8, comma 3o, in forza del quale, per il lavoro pubblico, « i contributi alle forme pensionistiche [complementari] debbono essere definiti in sede di determinazione del trattamento economico ». Peraltro, lo sviluppo della previdenza complementare nel settore pubblico sconta l’handicap costituito dalla disciplina delle indennità di fine rapporto, variamente denominate e non ancora rimpiazzate dal t.f.r. ( 70 ); indennità, quelle ora menzionate, che generalmente non determinano un obbligo del datore di lavoro di provvedere ad accantonamenti, con la conseguenza che manca uno stock monetario immediatamente riversabile nelle forme pensionistiche complementari (sulla disciplina del settore pubblico e sulla sua lenta evoluzione verso il t.f.r., cfr. Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario). Consapevole delle specificità proprie del settore del lavoro pubblico, il Parlamento aveva perciò delegato il Governo ad attuare i principi e criteri direttivi della l. n. 243/04, nei confronti del cd. pubblico impiego privatizzato, « tenendo conto » di detta specialità (art. 1, comma 2o, lett. p). Ma il legislatore delegato, dal canto suo, altro non ha fatto se non rinviare, per il lavoro pubblico, alla disciplina previgente, in attesa della « emanazione del decreto legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2o, lettera p) » della legge delega ( 71 ). 7. – Nel tessuto dell’art. 3 sono altresì inclusi i gestori dei fondi pensione ( 72 ) (limitatamente, com’è ovvio, a quel che attiene alla costituzione di fondi aperti, per i quali non sussiste la divaricazione tra promotori e gestori che caratterizza invece i fondi negoziali), nonché le imprese assicurative ( 73 ) (per ciò che concerne i piani pensionistici individuali). A tale proposito vi è solo da rilevare (rinviando, per il resto, a Pallini, ( 70 ) Cfr. la ricostruzione di Pugliese, La previdenza complementare nel settore del pubblico impiego: il quadro normativo, La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro, cit., II, p. 811 ss. ( 71 ) Così l’art. 23, comma 6o, del d.lgs. n. 252/05. ( 72 ) Art. 3, comma 1o, lett. h). ( 73 ) Art. 3, comma 1o, lett. i). La nuova disciplina della previdenza complementare sub artt. 12 e 13, in questo Commentario) che l’esplicita menzione di tali soggetti, contenuta all’interno dell’art. 3, appare una volta di più come espressione della volontà legislativa di equiparare sul piano funzionale tutte le forme pensionistiche complementari, superando l’impostazione del d.lgs. n. 124/93 ( 74 ). E, come è stato fatto notare ( 75 ), di non distinguere più i fondi pensione a seconda che si rivolgano a destinatari i quali versino o meno in condizione lavorativa. Nel catalogo delle fonti contenuto nell’art. 3, è poi di interesse la previsione che attiene all’istituzione di forme pensionistiche complementari nell’ambito delle cd. casse privatizzate ( 76 ), per vero già anticipata, senza attendere l’emanazione della legislazione delegata, dalla l. n. 243/04, il cui art. 1, comma 35o, aveva novellato l’allora vigente d.lgs. n. 124/93, includendo, appunto, le cd. casse privatizzate nel novero delle fonti istitutive ( 77 ). L’art. 3, comma 1o, lett. g) del d.lgs. n. 252/05 riproduce ora testualmente quanto già previsto per effetto della citata novella, abilitando gli enti previdenziali privatizzati – tra i quali un ruolo di spicco è rivestito dai soggetti che assicurano la tutela previdenziale obbligatoria in favore di coloro « che svolgono attività autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è condizionato all’iscrizione in appositi albi o elenchi » ( 78 ) – ad istituire forme pensionistiche com- ( 74 ) Il cui art. 3, infatti, non menzionava i gestori dei fondi né le imprese assicurative tra le « fonti istitutive », bensì ne regolava l’attività in altre disposizioni del decreto, quasi a sancire, anche da un punto di vista topografico, la distinzione tra fondi chiusi ed altre forme di previdenza complementare. ( 75 ) Tursi, I problemi giuridici delle fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, cit., p. 4. ( 76 ) Va segnalato che da una serie di indagini empiriche emergerebbe un significativo interesse dei liberi professionisti verso la previdenza complementare, come rilevato da Inzerillo, Previdenza complementare: spazio alle casse privatizzate, in Newsletter Mefop, n. 26, 2006, p. 4 ss. Va peraltro detto che tale interesse si traduce però, soprattutto, in una propensione verso i fondi aperti e verso le forme previdenziali individuali. ( 77 ) Cfr. l’art. 1, comma 1o bis, del d.lgs. n. 124/93. ( 78 ) Così la definizione contenuta nell’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 103/96. Ma la norma in commento riguarda anche gli enti di cui al d.lgs. n. 509/94. 609 plementari, sia « direttamente » sia per mezzo degli atti negoziali contemplati dalle lett. a) e b) dello stesso art. 3, comma 1o. Si tratta di una previsione che ad oggi non sembra avere ricevuto l’attenzione che invece probabilmente merita, se è vero che da parte delle casse che gestiscono le forme previdenziali obbligatorie dei liberi professionisti vi è certamente un interesse concreto a darvi seguito, anche attraverso la costituzione di fondi intercategoriali ( 79 ). Tra l’altro, l’esplicita previsione secondo cui tali iniziative previdenziali possono essere intraprese « direttamente » da parte dei menzionati enti lascia chiaramente intendere che il medium degli accordi collettivi o plurilaterali non è qui necessario ( 80 ). Così, sebbene anche in questo caso possano sorgere, sul piano della politica del diritto, le stesse perplessità già evidenziate in ordine al ruolo assegnato alle regioni, la lettera del decreto delegato non consente stavolta di escludere che gli enti previdenziali considerati dall’art. 3, comma 1o, lett. g), siano abilitati ad istituire (direttamente, appunto) forme pensionistiche complementari, anche nelle forme del mero patrimonio di destinazione (cfr., sul punto, Bollani, sub art. 4, in questo Commentario). La lett. f) dell’art. 3, comma 1o, contempla infine tra le fonti istitutive anche accordi che venissero conclusi, dietro input di sindacati o associazioni di rilievo almeno regionale, da soggetti a cui si applica il d.lgs. n. 565/96. Si tratta degli iscritti al fondo INPS per le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari (già gestione « mutualità pensioni » di cui alla legge 5 marzo 1963, n. 389), fondo a cui afferiscono coloro che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta. Trattasi, in definitiva, di copertura previdenziale del tutto residuale, già classificata come « previdenza delle casalin( 79 ) A quanto consta, in tal senso si sta ad esempio muovendo l’Adepp, unitamente alle casse previdenziali di avvocati, commercialisti, notai, farmacisti e periti industriali. ( 80 ) Così anche Francario, Previdenza complementare per i liberi professionisti, ne La previdenza forense, 2005, p. 258. 610 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ghe » ( 81 ), in ordine alla quale appare per verità improbabile l’istituzione di forme pensionisti che complementari, nei termini prefigurati dal legislatore delegato. Andrea Bollani ( 81 ) Vianello, La mutualità pensioni alle casalinghe, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cester, Torino, 1996, p. 308 ss.; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 103. Art. 4. (Costituzione dei fondi pensione ed autorizzazione all’esercizio) 1. I fondi pensione sono costituiti: a) come soggetti giuridici di natura associativa, ai sensi dell’articolo 36 del codice civile, distinti dai soggetti promotori dell’iniziativa; b) come soggetti dotati di personalità giuridica; in tale caso, in deroga alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, il riconoscimento della personalità giuridica consegue al provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività adottato dalla COVIP; per tali fondi pensione, la COVIP cura la tenuta del registro delle persone giuridiche e provvede ai relativi adempimenti. 2. I fondi pensione istituiti ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettere g), h) e i), possono essere costituiti altresì nell’ambito della singola società o del singolo ente attraverso la formazione, con apposita deliberazione, di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito della medesima società od ente, con gli effetti di cui all’articolo 2117 del codice civile. 3. L’esercizio dell’attività dei fondi pensione di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a h), è subordinato alla preventiva autorizzazione da parte della COVIP, la quale trasmette al Ministro del lavoro e delle politiche sociali e al Ministro dell’economia e delle finanze l’esito del procedimento amministrativo relativo a ciascuna istanza di autorizzazione; i termini per il rilascio del provvedimento che concede o nega l’autorizzazione sono fissati in sessanta giorni dalla data di ricevimento da parte della COVIP dell’istanza e della prescritta documentazione ovvero in trenta giorni dalla data di ricevimento dell’ulteriore documentazione eventualmente richiesta entro trenta giorni dalla data di ricevimento dell’istanza; la COVIP può determinare con proprio regolamento le modalità di presentazione dell’istanza, i documenti da allegare alla stessa ed eventuali diversi termini per il rilascio dell’autorizzazione comunque non superiori ad ulteriori trenta giorni. Con uno o più decreti da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali determina: a) i requisiti formali di costituzione, nonché gli elementi essenziali sia dello statuto sia dell’atto di destinazione del patrimonio, con particolare riferimento ai profili della trasparenza nei rapporti con gli iscritti ed ai poteri degli organi collegiali; b) i requisiti per l’esercizio dell’attività, con particolare riferimento all’onorabilità e professionalità dei componenti degli organi collegiali e, comunque, del responsabile della forma pensionistica complementare, facendo riferimento ai criteri definiti ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, da graduare sia in funzione delle modalità di gestione del fondo stesso sia in funzione delle eventuali delimitazioni operative contenute negli statuti; c) i contenuti e le modalità del protocollo di autonomia gestionale. 4. ( 1 ) ( 1 ) Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. La nuova disciplina della previdenza complementare 611 5. I fondi pensione costituiti nell’ambito di categorie, comparti o raggruppamenti, sia per lavoratori subordinati sia per lavoratori autonomi, devono assumere forma di soggetto riconosciuto ai sensi del comma 1, lettera b), ed i relativi statuti devono prevedere modalità di raccolta delle adesioni compatibili con le disposizioni per la sollecitazione al pubblico risparmio. 6. La COVIP disciplina le ipotesi di decadenza dall’autorizzazione quando il fondo pensione non abbia iniziato la propria attività ovvero quando non sia stata conseguita la base associativa minima prevista dal fondo stesso, previa convocazione delle fonti istitutive. L’assetto delle fonti costitutive Sommario (art. 4): 1. Fonti istitutive e fonti costitutive nel sistema italiano di previdenza complementare. – 2. Numero chiuso delle fonti costitutive ed obbligo della denominazione, nella prospettiva del vincolo previdenziale. – 3. Il fondo pensione come soggetto di diritto e come patrimonio di destinazione. – 4. Segue: il fondo pensione come patrimonio di destinazione. – 5. Segue: il fondo pensione come associazione non riconosciuta. – 6. Segue: il fondo pensione come persona giuridica. – 7. Il procedimento di autorizzazione e le fonti secondarie. 1. – Contrapporre il concetto di « fonte costitutiva » a quello di « fonte istitutiva » – secondo un’impostazione oramai comunemente acquisita – postula evidentemente l’idea che l’iniziativa descritta dall’art. 3, avente ad oggetto l’istituzione di una forma pensionistica complementare, vada tenuta distinta (almeno concettualmente ( 2 )) dalla costituzione dei fondi che ai sensi ( 2 ) Con riferimento alle norme del d.lgs. n. 124/93 (ma il discorso è pienamente riferibile alle norme oggi vigenti, attesane l’identità sostanziale), ritiene Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Torino, 2001, p. 197, che in realtà una cesura netta tra fonti istitutive e fonti costitutive non sia legalmente imposta, bastando la realizzazione di una sequenza di atti (o, in ipotesi, un solo atto) che soddisfi i requisiti imposti dagli artt. 3 (in punto di legittimazione soggettiva ad istituire forme pensionistiche complementari) e 4 (in punto di forme organizzative per la costituzione del fondo). Anche Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di Ferraro, Milano, 2000, I, p. 10, avverte che « la linea divisoria tra queste due fasi non risulta sempre nitidamente tracciata ». Si tratta di rilievi senz’altro esatti, che tuttavia lasciano intatta l’efficacia euristica della distinzione concettuale tra fonti istitutive e fonti costitutive, quanto meno nella misura in cui essa evidenzia la duplicità di ambiti regolativi (la legittima- dell’art. 4 sono idonei a realizzare concretamente il piano previdenziale. Tale distinzione porta tuttavia con sé, nell’impianto del decreto delegato in commento (come già, del resto, in quello del d.lgs. n. 124/93), uno stretto rapporto tra i due tipi di « fonte », nel senso che, come è stato detto, gli atti di costituzione del fondo pensione si pongono in una « posizione di precisa dipendenza funzionale » ( 3 ) rispetto alla forma pensionistica concepita ai sensi dell’art. 3; le fonti costitutive, dunque, organizzano (e, generalmente, configurano soggettivamente) la forma pensionistica, rappresentando strumento di attuazione del disegno previdenziale portato dalle fonti istitutive ( 4 ). Ed in effetti la fonte istitutiva, oltre a generare l’obbligo di costituzione del fondo ( 5 ), rappresenta altresì un pregnante limite all’autonomia negoziale che si esprime nella formulazione di atto costitutivo, statuto e regolamento del fondo medesimo, dal momento che può condizionarne e vincolarne, al pari delle norme imperative di legge, i contenuti. Il che è stato del resto sinteticamente esplicitato nella disciplina di carattere regolamentare introdotta dal d.m. 14 gennaio 1997, n. 211, là dove esso ha imposto ad atti costitutivi e statuti di salvaguardare « le competenze attribuite dal d.lgs. n. 124/93 alle zione soggettiva, da un lato, e le forme giuridiche organizzative, dall’altro) presi in considerazione dal legislatore. ( 3 ) Bessone, Previdenza complementare, Torino, 2000, p. 50. ( 4 ) A.D. Candian, I fondi pensione, Milano, 1998, p. 27. ( 5 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 196. 612 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 fonti istitutive » ( 6 ). A ciò si aggiunga che il regolamento COVIP del 22 maggio 2001 ( 7 ) ha dettato ulteriori limiti, anche rilevanti, non circoscritti al mero incedere dell’iter procedurale. Ancora, è la stessa COVIP ad adottare, con propria deliberazione, schemi statutari-tipo ovvero regolamenti-tipo che conformano, perciò, il dispiegarsi dell’autonomia negoziale privata ( 8 ). È perciò indubbio che la matrice collettivosindacale, quando vi è, o quella eventualmente diversa, comunque prevista e regolata dall’art. 3 del d.lgs. n. 252/05, continuino anche dopo la riforma a proiettarsi sulle forme organizzative dei fondi pensione, quanto meno da un duplice punto di vista: da un lato, attraverso le indicazioni, gli obblighi e le prescrizioni liberamente generate dall’autonomia negoziale nell’atto che istituisce la forma pensionistica complementare ( 9 ); dall’altro, in conseguenza dei vincoli legali inderogabili che, nel combinato disposto degli artt. 3 e 4, ricollegano necessariamente determinate fonti istitutive (nell’accezione ampia oggi fatta propria dal legislatore, che vi include anche i promotori e gestori di fondi aperti, nonché le imprese assicuratrici) a precise e tassative forme giuridiche per la costituzione del fondo. In altre parole, la forma giuridica del fondo pensione è indirettamente determinata, ed in certi casi imposta, dalla scelta negoziale operata dalla fonte istitutiva che prelude alla costituzione del fondo stesso ( 10 ), secondo un rapporto di ( 6 ) Così l’art. 2, comma 2o, del citato d.m. 14 gennaio 1997, n. 211. ( 7 ) Sulla considerazione e sulla disciplina che i poteri regolamentari del Ministro del lavoro e della COVIP ricevono oggi nell’art. 4, comma 3o, del d.lgs. n. 252/05, si tornerà comunque infra, par. 7. ( 8 ) Cfr. gli schemi statutari e regolamentari adottati dalla COVIP con deliberazione del 30 novembre 2006, allo scopo di conformare, appunto, statuti e regolamenti alle disposizioni del d.lgs. n. 252/05. ( 9 ) Si pensi, solo per fare alcuni esempi, a clausole che prefigurino un’attività finanziaria limitata a determinate linee di investimento; che dettino criteri inerenti la cerchia dei destinatari e le modalità di partecipazione; che regolino e definiscano la composizione degli organi del fondo; che disciplinino il regime di contribuzione, con particolare riferimento al cd. contributo datoriale. ( 10 ) Il che era evidente anche nel quadro normativo previgente, come subito rilevato in dottrina: Ba- sostanziale soggezione gerarchica delle fonti costitutive rispetto a quelle istitutive ( 11 ). Va dunque ravvisato un continuum tra gli atti negoziali, pur concettualmente separabili, che danno infine vita al fondo pensione, fermo restando che dal punto di vista dell’ordinamento ciò che rileva è il rispetto dei limiti di capacità soggettiva posti dall’art. 3, da un lato, ed il conformarsi ai modelli giuridici eletti dall’art. 4 al rango di forme idonee ad imprimere efficacemente il vincolo previdenziale, dall’altro. 2. – L’art. 1, comma 4o, del decreto in esame conferma l’obbligo di marchiare la forma pensionistica complementare con una denominazione che contenga l’indicazione di « fondo pensione »; indicazione il cui uso, peraltro, è inibito a qualunque altro soggetto. La medesima disposizione, per altro verso, sancisce il fondamentale principio della separazione patrimoniale – addirittura sub specie di costituzione di un distinto soggetto di diritto o, quanto meno, sotto forma di patrimonio di destinazione – alla cui pratica realizzazione è poi finalizzata, a ben vedere, l’intera trama dell’art. 4. L’art. 1, comma 4o, rappresenta cioè la premessa logica cui l’art. 4 dà poi svolgimento, concorrendo così tali norme del d.lgs. n. 252/05 a radicare uno dei pilastri fondamentali su cui riposa la complessiva architettura dell’intervento legislativo; pilastro, questo, costituito dal vincolo di destinazione previdenziale impresso alle risorse che affluiscono ai fondi pensione e dal divieto di loro confusione col patrimonio del datore di lavoro (per il caso dei preesistenti fondi cd. interni) ovvero del gestore finanziario (per il caso dei fondi che, volendo per ora riferirci indistintamente a tutte le possibili tipologie, potremmo definire di « nuova » ( 12 ) istituzione). Si può in effetti rilevare che – al di là dell’articolazione tipologica che attraversa il fenomeno landi, Previdenza complementare e contratto collettivo, in Riv. giur. lav., 1993, I, p. 475. ( 11 ) A.D. Candian, I fondi pensione, cit., p. 92; Zampini, La previdenza complementare, Padova, 2004, p. 155; Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 264; Tosi, Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 1999, p. 358. ( 12 ) Nel senso di successiva al 15 novembre 1992, data di entrata in vigore della l. n. 421/92. La nuova disciplina della previdenza complementare della previdenza complementare, in ragione della pluralità di fonti da cui, in apicibus, si origina l’iniziativa pensionistica e che si traduce, poi, in una differenziazione di disciplina sul piano delle forme di costituzione e della loro configurazione soggettiva – è comune a tutte le forme contemplate e regolate dall’ordinamento la chiara e fondamentale strumentalizzazione al fine previdenziale, per mezzo di speciali tutele e di speciali garanzie, aventi anche rilievo pubblicistico, che mirano ad evitare la dispersione del patrimonio a tale scopo impiegato, intervenendo innanzitutto sulla stessa configurazione giuridica dei fondi pensione, prima ancora che sul loro funzionamento, sulla loro governance e sul sistema dei controlli. È in tale prospettiva che va spiegata la scelta del legislatore di adottare la tecnica del numerus clausus di forme organizzative (di natura essenzialmente, anche se non solo, associativa), che dovrebbero coniugare, secondo la veduta corrente, non distribution constraint con tutela ed aspettative dei pensionati e degli aderenti. Va però qui segnalato che qualche voce dissonante ha messo in luce, non senza ragioni, che le forme soggettive individuabili nel libro I del codice civile (associazione, con o senza personalità giuridica, e fondazione) potrebbero denunciare limiti di efficienza allorché siano utilizzate per la gestione di un fondo pensione ( 13 ). E, si potrebbe aggiungere, tale potenziale deficit di efficienza, se si assume come pietra di paragone la disciplina delle società contenuta nel libro V del codice, pare oggi accresciuto alla luce della riforma del diritto societario introdotta con il d.lgs. n. 6/03. Così, tralasciando qui di indagare la praticabilità nel nostro ordinamento di schemi giuridici atipici, quali il trust di ascendenza nordamericana ( 14 ), si tratta di interrogarsi intorno ( 13 ) Costi, I fondi pensione e l’organizzazione del risparmio previdenziale, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1988, n. 3, p. 23; Bessone, Previdenza complementare, cit., spec. p. 143 ss.; Mastrangeli, La disciplina dei fondi pensione nei decreti legislativi n. 124 e n. 585 del 1993, in Riv. it. dir. lav., 1994, I, p. 170 ss.; contra, Ponzanelli, Forma giuridica e controlli in tema di fondi pensione, in Riv. giur. lav., 1993, I, pp. 493-494. ( 14 ) Cfr., sul tema, Ponzanelli, Forma giuridica e controlli in tema di fondi pensione: la soluzione americana e il diritto italiano, cit., p. 483 ss. 613 alle ragioni per cui un fondo pensione non possa essere strutturato nella forma, oggi vietata, della società di capitali. Ed invero non si può fare a meno di mettere in evidenza che il fondo pensione, ancorché privo di carattere lucrativo e pur connotato dalla sua precipua finalità di solidarietà mutualistica, tende nondimeno alla massimizzazione dei rendimenti come momento intermedio assolutamente necessario alla realizzazione dello scopo finale. Per tale ragione, colgono nel segno le osservazioni di chi ha sottoposto a serrata critica il « regime di vincolo fortemente costrittivo » ( 15 ) prescelto già dal legislatore del 1993 (ed oggi confermato), che rimane, pur con non trascurabili elementi di specialità, all’interno della cornice generale tracciata dal libro I del codice civile. Tale modulo organizzativo viene generalmente correlato, come detto, alla natura nonprofit dei fondi pensione, che appunto postulerebbe l’opzione per le strutture previste dallo stesso libro I, in luogo di quelle previste dal libro V per le attività lucrative ( 16 ). Non pare tuttavia che sia stato dimostrato né sufficientemente chiarito per quale motivo dovrebbe sussistere un nesso giusnaturalistico tra struttura soggettiva e scopo perseguito. Tale correlazione, a ben vedere, non è affatto necessitata. Non sussistono infatti ragioni, in rerum natura, per le quali un soggetto che non persegue scopo di lucro non possa avvalersi degli stessi strumenti organizzativi e gestionali delle società lucrative; tanto più quando esso, come è il caso dei fondi pensione, mira comunque ad un obiettivo intermedio (l’incremento di valore della massa monetaria) che è tipicamente profitoriented e che è coessenziale al soddisfacimento dello scopo finale. Per quale ragione una data forma giuridica (cioè la struttura) dovrebbe necessariamente corrispondere ad oggetto e finalità (cioè alla ( 15 ) Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 143. ( 16 ) Sulla ravvisata coerenza della struttura di tali figure soggettive con le finalità previdenziali, cfr. Ponzanelli, Forma giuridica e controlli in tema di fondi pensione: la soluzione americana e il diritto italiano, cit., p. 492 ss.; Tursi, L’organizzazione dei fondi pensione in forma associativa: profili problematici, in Riv. giur. lav., 1998, I, p. 468. 614 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 funzione) dell’iniziativa negoziale di carattere associativo ? In fin dei conti, de iure condendo, nulla impedirebbe che gli obblighi contenutistici legalmente imposti agli statuti ed ai regolamenti dei fondi – per quanto concerne, ad esempio, la trasparenza nei rapporti tra fondo ed aderenti, anche in ordine ai costi ed alle spese posti a carico degli iscritti, ovvero per quel che riguarda la sorveglianza sul funzionamento organizzativo e sull’amministrazione del fondo – siano applicati, in ipotesi, ad una società di capitali di diritto speciale, se è vero che oramai anche la dottrina giuscommercialistica tende a sottolineare l’articolazione e la pluralità di modelli societari rinvenibili anche al di fuori del codice. 3. – La disciplina posta dall’art. 4 del decreto introduce dunque un vincolo conformativo inderogabile ( 17 ) all’organizzazione ed alla strutturazione soggettiva dei fondi pensione, imponendo l’adozione di determinate forme giuridiche. Invero, già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 124/93, le articolate forme di previdenza integrativa emergenti dalla prassi, e generalmente riconducibili allo schema dell’art. 2117 c.c., avevano posto agli interpreti il problema della loro natura giuridica, con particolare riferimento alla loro configurazione soggettiva. Per nulla peregrina, sul punto, appariva la tesi volta a sostenere che anche lo schema descritto dall’art. 2117 c.c. potesse essere riportato al modello dell’associazione non riconosciuta di cui agli artt. 36 ss. c.c. ( 18 ), piuttosto che alla mera costituzione di un patrimonio separato con vincolo di destinazione. Di conseguenza, ad accogliere quell’impostazione, si sarebbe potuto ritenere che sul datore di lavoro gravasse soltanto l’obbligo di amministrare il fondo, non avendo invece egli la titolarità del medesimo ( 19 ). Il d.lgs. n. 124/93 e, oggi, il d.lgs. n. 252/05 sembrano tuttavia avere chiaramente optato nel senso di ritenere che i cd. fondi interni ( 20 ), co( 17 ) Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 44. ( 18 ) Romagnoli, Natura giuridica dei fondi pensione (art. 2117 c.c.), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, p. 858 ss. ( 19 ) Romagnoli, op. ult. cit., spec. p. 864. ( 20 ) La stessa nozione di fondo interno è stata invero criticata, poiché equivoca, da Persiani, « Fondi stituiti secondo il modello di cui all’art. 2117 c.c., abbiano natura di patrimonio di destinazione e siano privi di soggettività giuridica, come del resto è oramai riconosciuto in dottrina ( 21 ). Non si sarà forse in presenza delle famose tre parole del legislatore che cancellano un’intera elaborazione, ma è chiaro che le norme vigenti sembrano perlomeno presupporre, se non proprio affermare, che il fondo costituito ai sensi dell’art. 2117 sia privo di soggettività giuridica e vada invece ricollegato al fenomeno della mera segregazione patrimoniale all’interno dello stesso soggetto. O, più esattamente, dovrebbe dirsi che la costituzione di un fondo « nell’ambito della singola società o del singolo ente attraverso la formazione [...] di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito della medesima società od ente » ( 22 ), proprio perché avviene « con gli effetti di cui all’articolo 2117 del c.c. » ( 23 ), presuppone che anche la fattispecie delineata dalla norma del codice produca, appunto, effetti di mera segregazione patrimoniale. Con la conseguenza, oggi unanimemente condivisa, che convivono, nell’ordinamento, fondi soggettivizzati e fondi non soggettivizzati: i primi costituiti ai sensi dell’art. 4, comma 1o, ed i secondi operanti, ai sensi dell’art. 4, comma 2o, all’interno di società di capitali dedite all’intermediazione finanziaria. 4. – La costituzione di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, è prevista dalla legge quale strumentazione riservata ai soli « fondi pensione istituiti ai sensi dell’articolo 3, comma 1o, lett. g), h) e i) »; quindi, con limitato riferimento ai fondi aperti, alle forme pensionistiche individuali ed a quelle istituite ad iniziativa degli enti previdenziali privatizzati ( 24 ). interni » e libertà di iniziativa economica privata, in Arg. dir. lav., 1997, p. 129. ( 21 ) Cfr., per tutti, Mantucci, sub art. 4, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, p. 190, ed ivi ulteriori riferimenti. ( 22 ) Così, testualmente, l’art. 4 in commento. ( 23 ) Così, ancora, la norma in esame. ( 24 ) Con specifico riferimento alle modalità tecniche di costituzione dei fondi da parte degli enti di cui ai dd.lgs. n. 509/94 e n. 103/96, cfr. le considerazioni di Scimia, Previdenza complementare dei liberi professionisti, ne La previdenza forense, 2004, p. 355 ss., La nuova disciplina della previdenza complementare In tali ipotesi, il fondo pensione non acquista perciò distinta soggettività e non è, dunque, centro di autonoma imputazione di rapporti giuridici. Semplicemente, si produrranno gli effetti di cui all’art. 2117 c.c., consistenti nella indistraibilità del patrimonio dal fine previdenziale e nella non assoggettabilità del medesimo ad esecuzione da parte « dei creditori dell’imprenditore o del prestatore di lavoro ». Come è stato rilevato in dottrina ( 25 ), la disciplina contenuta nell’art. 2117 c.c. trovava il proprio antecedente in una disposizione della cd. legge sull’impiego privato del 1924 ( 26 ), che già stabiliva un vincolo di destinazione in capo al patrimonio delle istituzioni di previdenza, a favore dei dipendenti delle aziende private. La finalità essenziale di tale modello consiste nell’accordare speciale tutela ai lavoratori che debbono percepire le prestazioni erogate dal fondo e che, eventualmente, abbiano contribuito ad alimentarlo. Qui occorre però precisare che nel caso dei fondi costituiti ai sensi dell’art. 4, comma 2o, del d.lgs. n. 252/05 non si è in presenza di un patrimonio soggettivamente riconducibile ad un « datore di lavoro », bensì ad un gestore professionale, la cui iniziativa ha determinato la costituzione di un fondo aperto ovvero di un fascio di contratti di assicurazione sulla vita; il che spiega anche perché il legislatore, lungi dall’identificare la costituzione di tali fondi con la fattispecie codicistica dei « fondi speciali per la previdenza e l’assistenza » di cui all’art. 2117 c.c., abbia soltanto richiamato « gli effetti » indicati da tale ultima disposizione ( 27 ). Si vuole nonché quelle, pur svolte a margine del disegno di legge delega, che sarebbe poi stato emendato, di Corbello, La previdenza complementare e gli enti di base privati: prime considerazioni in ordine alle problematiche scaturenti dall’art. 1, secondo comma, lett. g), n. 1), del d.d.l. n. 2058 (atti Senato), in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, p. 357 ss. ( 25 ) Cfr., tra gli altri, Cinelli, sub art. 1, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, cit., pp. 173-174; Romagnoli, Natura giuridica dei fondi pensione, cit., p. 859. ( 26 ) Cfr. l’art. 19 del r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, il quale a sua volta trovava radice nell’art. 15 del d.lgs. 9 febbraio 1919, n. 112. ( 27 ) Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) 615 dire, cioè, che vi è una distinzione ontologica tra la fattispecie considerata dall’art. 2117 c.c. e quelle descritte dall’art. 4 del d.lgs. n. 252/05, accomunate alla prima solo in ragione dell’applicazione della medesima disciplina in punto di separazione patrimoniale. Ed in effetti la costituzione di un patrimonio di destinazione è addirittura ritenuto strumento esclusivo per dare vita ai fondi aperti ed ai piani pensionistici individuali ( 28 ); in tali ipotesi, del resto, mancando una base negoziale ovvero una comunità di lavoro di riferimento, da cui promani l’iniziativa previdenziale, risulterebbe oltremodo arduo immaginare la costituzione di un soggetto di carattere associativo, dal momen- commento del d.lgs. n. 252/05, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, I, p. 165. ( 28 ) Cfr., in tal senso, le direttive generali adottate dalla COVIP in data 28 giugno 2006. Il dettato normativo, nel suo tenore letterale, pone in realtà una questione interpretativa dalla soluzione non scontata. L’art. 4, comma 2o, prevede testualmente che « i fondi pensione istituiti ai sensi dell’articolo 3, comma 1o, lett. g), h) e i), possono essere costituiti altresì [...] attraverso la formazione, con apposita deliberazione, di un patrimonio di destinazione ». L’uso dell’avverbio « altresì » lascerebbe perciò intendere che il ricorso alla forma giuridica in esame non sia esclusivo o necessitato, bensì costituisca opportunità aggiuntiva rispetto ai moduli organizzativi soggettivizzati già descritti dall’art. 4, comma 1o. Appare tuttavia arduo immaginare, ad esempio, la costituzione di un’associazione (tra chi?) allorché manchi, come in effetti manca per fondi aperti e piani pensionistici individuali, una comunità di riferimento. Oltretutto l’art. 13, comma 3o, appare perentorio nella parte in cui afferma che le « risorse delle forme pensionistiche individuali costituiscono patrimonio autonomo e separato con gli effetti di cui all’articolo 4, comma 2 ». Alla luce di quanto si è appena osservato, sembra di poter concludere che l’inciso « altresì » – il quale non può comunque essere totalmente deprivato di significato – possa essere riferito solamente ai fondi pensione istituiti ad iniziativa delle cd. casse privatizzate, pure menzionati nell’art. 4, comma 2o, e sui quali si tornerà infra, nel testo. Sul piano pratico-operativo, più che per i fondi aperti, la costituzione di un patrimonio separato costituisce impegno imposto ex novo dal legislatore del 2005 ai gestori di piani individuali pensionistici, i quali altresì dovranno adottare un regolamento conforme alle direttive dell’autorità di vigilanza e trasmettere alla stessa COVIP le condizioni generali dei contratti di assicurazione sulla vita (cfr., ancora, l’art. 13, comma 3o). 616 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 to che tale matrice difetta in radice (stante l’iniziativa dei gestori e non, appunto, degli « associati ») ( 29 ). Ciò detto, tutto filerebbe e manterrebbe piena coerenza, però, se solo il legislatore del 2005 avesse circoscritto l’adozione di un patrimonio separato, come forma giuridica del fondo pensione, ai due casi appena citati. Ed invece anche gli enti previdenziali di diritto privato rientrano ora nel novero dei soggetti che possono costituire un fondo pensione nella mera forma del patrimonio di destinazione; e ciò pure nell’ipotesi in cui tale iniziativa pensionistica tragga origine da un atto negoziale plurilaterale degli iscritti ( 30 ). Ciò dunque attenua o, se non altro, rende meno evidente e meno coerente sul piano sistematico la scelta legislativa di confinare la costituzione di fondi pensione non soggettivizzati ad un ruolo sostanzialmente residuale, nel solco di un percorso iniziato già con la l. n. 335/95 ( 31 ). Tale sostanziale residualità dovrebbe essere del resto letta anche in connessione con il contenuto, minimale, della tutela riveniente dal fenomeno giuridico della segregazione patrimoniale, il quale comporta, nell’impianto dell’art. 2117 c.c., la non aggredibilità del patrimonio separato da parte dei creditori del datore di lavoro; cosicché esso finisce per arricchire, a favore dei lavoratori, la garanzia patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c. ( 29 ) Si tratta solo di aggiungere che la previsione dell’art. 4, comma 2o, in commento – il quale diverge dal tenore del previgente art. 4, comma 2o, del d.lgs. n. 124/93 – consente di superare tutti i dubbi (avanzati nel vigore della precedente disciplina: cfr., sul punto, Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 158) circa la possibilità per i fondi aperti di continuare a ricorrere a tale forma giuridica, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 5 della l. n. 335/95. ( 30 ) Lo rileva anche Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p. 172, il quale mette giustamente in evidenza che in tal caso il legislatore avalla la costituzione di fondi non soggettivizzati, anche se a monte vi è un accordo tra lavoratori. ( 31 ) Cfr. l’art. 5 della l. n. 335/95, in forza del quale l’autorizzazione all’esercizio dell’attività, per i fondi chiusi, poteva essere rilasciata solo ai fondi soggettivizzati, residuando dunque la forma del patrimonio di destinazione per i soli fondi aperti e per quelli preesistenti. Ma che tale tutela risulti, come detto, minimale nel caso dei fondi pensione costituiti in forma di patrimonio separato, è reso evidente proprio in ragione del fatto che tale forma può essere adottata unicamente nelle ipotesi summenzionate di fondi che non vedono coinvolto il datore di lavoro. Con la conseguenza che la garanzia patrimoniale di cui possono giovarsi i lavoratori aderenti rimane ristretta al solo patrimonio di destinazione e non si estende, invece, all’intero patrimonio dei soggetti che erogano il servizio di gestione del fondo ( 32 ). Pertanto, il rinvio operato dall’art. 4, comma 2o, agli « effetti » descritti dall’art. 2117 c.c. risulta alquanto attenuato per ciò che concerne il rafforzamento (qui assente) della garanzia patrimoniale generica e si riduce, in definitiva, al solo profilo della indistraibilità del patrimonio separato dal fine previdenziale in vista del quale esso è stato costituito. Sennonché, come è noto e come è stato del resto ampiamente ricordato anche con specifico riferimento al caso dei fondi pensione ( 33 ), l’indistraibilità in parola è in grado di produrre unicamente effetti obbligatori e non reali, nel senso che essa non impedisce al titolare del fondo di porre in essere validi negozi dispositivi di quel patrimonio, salva ovviamente la sua responsabilità. Con tutto ciò che ordinariamente vi consegue in caso di insolvenza. Per converso, vi è tuttavia da rilevare che il d.lgs. n. 252/02 (al pari del suo antesignano del 1993) non si limita a richiamare gli effetti giuridici regolati dall’art. 2117 c.c., ma correda il fondo pensione di ulteriori ed importanti profili di disciplina ( 34 ), che trovano oggi sede nell’art. 4, comma 3o, e che sono da quest’ultimo rimessi alla normativa secondaria. Lo si evince, in particolare, dalla previsione di un atto formale di « destinazione del patrimonio, con particolare ( 32 ) Così anche Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, cit., p. 167. ( 33 ) Mantucci, sub art. 4, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, cit., p. 190, il quale rileva anche l’assenza di una disciplina che dia evidenza al vincolo, attraverso la trascrizione, come previsto invece per il fondo patrimoniale ex art. 2647 c.c.; nello stesso senso, Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, cit., p. 274. ( 34 ) Cfr. già Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 156. La nuova disciplina della previdenza complementare riferimento ai profili della trasparenza nei rapporti con gli iscritti ed ai poteri degli organi collegiali » ( 35 ) e dalla necessaria sottoscrizione di un « protocollo di autonomia gestionale » ( 36 ), senza poi trascurare la configurazione di un organismo di sorveglianza per i fondi aperti ai sensi dell’art. 5, comma 4o. Si tratta, nei termini appena descritti, di profili che si rivelano, in certi casi, particolarmente delicati e di concreto e significativo impatto sul funzionamento dei fondi medesimi ( 37 ). 5. – La costituzione di un distinto soggetto giuridico rende invece superfluo, ovviamente, ogni richiamo agli effetti disciplinati dall’art. 2117 c.c., dal momento che tale disposizione è appunto volta a determinare un effetto di separazione patrimoniale altrimenti non ravvisabile all’interno della sfera di un medesimo soggetto. Pertanto, quando il fondo assurga al rango di soggetto di diritto, ciò – unitamente all’obbligo di perseguire uno scopo previdenziale « esclusi- ( 35 ) Art. 4, comma 3o, lett. a). ( 36 ) Art. 4, comma 3o, lett. c). A tale proposito deve rilevarsi che il contenuto del protocollo in questione comporta, ai sensi dell’art. 12, comma 3o, del d.m. 14 gennaio 1997, n. 211, che il datore di lavoro si impegni ad astenersi « da qualsiasi comportamento che possa essere di ostacolo ad una gestione indipendente, sana e prudente del fondo pensione o che possa indurre il fondo medesimo ad una condotta non coerente con i princìpi di cui al d.lgs. n. 124/93 ». Siffatta previsione ha attirato la critica di autorevole dottrina (Persiani, « Fondi interni » e libertà di iniziativa economica privata, in Arg. dir. lav., 1997, p. 127 ss.), secondo cui detto regolamento avrebbe in tal modo travalicato i limiti del potere normativo ad esso delegato dal legislatore. ( 37 ) Al momento di licenziare le bozze del presente commentario, il d.lgs. n. 28/07, adottato in attuazione della direttiva comunitaria 2003/41/CE, ha novellato il d.lgs. n. 252/05. Tra l’altro, si disciplina il fenomeno dell’attività transfrontaliera dei fondi pensione, precisandosi che la COVIP può autorizzare l’operatività all’estero delle forme pensionistiche complementari italiane soltanto qualora si tratti di fondi soggettivizzati operanti a capitalizzazione (così il novello art. 15 bis, comma 1o); il che, nell’introdurre dunque un’ulteriore limitazione all’ambito di operatività dei fondi non soggettivizzati, sembra rispondere ad una chiara ratio di minimizzazione del rischio finanziario e di massimizzazione della garanzia di solvibilità del fondo medesimo. 617 vo » ( 38 ) – neutralizza in radice il problema della confusione patrimoniale. La costituzione del fondo in forma di associazione non riconosciuta è consentita, alla luce del combinato disposto dei commi 1o e 5o dell’art. 4 in commento, per quei fondi che non abbiano natura categoriale (che non siano cioè costituiti « nell’ambito di categorie, comparti o raggruppamenti »), essendo invece imposta a questi ultimi la forma della persona giuridica. L’esperienza maturata nel vigore del d.lgs. n. 124/93 indica peraltro come i fondi chiusi siano stati sempre costituiti, come meglio si dirà, in forma di associazione riconosciuta; il che si è verificato anche nel caso dei fondi a carattere meramente aziendale, che pure non ne avevano l’obbligo ( 39 ). Le associazioni non riconosciute, come noto, godono di un’autonomia patrimoniale imperfetta, secondo la disciplina dettata dagli artt. 36 ss. c.c., che qui non è ovviamente il caso di ripercorrere. La sua scontata natura di soggetto di diritto rende invero pleonastica l’espressa indicazione – contenuta nell’art. 4, comma 1o, lett. a) del decreto delegato – per mezzo della quale il legislatore si preoccupa di ribadire che si tratta di soggetti giuridici « distinti dai soggetti promotori dell’iniziativa ». Trattasi, all’evidenza di un inciso sovrabbondante, anche prescindendo, per quanto ci interessa, dall’esaminare la nota costruzione dottrinale secondo cui alle associazioni non riconosciute potrebbero applicarsi tutte quelle norme dettate dal codice per le associazioni riconosciute ( 40 ), quando esse non ( 38 ) Così l’art. 3, lett. d), del d.m. 14 gennaio 1997, n. 211; sul punto, cfr. Tursi, L’organizzazione dei fondi pensione in forma associativa: profili problematici, cit., p. 464. ( 39 ) L’autorità di vigilanza ha del resto sempre esplicitato il proprio favor verso tale modulo organizzativo, esercitando una sostanziale moral suasion nei confronti degli interessati, affinché dessero comunque vita a persone giuridiche, anche là dove ciò non fosse legalmente imposto. ( 40 ) Galgano, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, II ed., 1976, spec. pp. 47-48 e pp. 184185. Si tratta del resto di una questione con cui i giuslavoristi hanno una certa dimestichezza, essendosene occupati allo scopo di individuare lo statuto giuridico e la disciplina delle associazioni sindacali, essendosi chiesti ad es. se il provvedimento disciplinare di 618 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 presuppongano necessariamente l’attribuzione della personalità giuridica. Vero è, comunque, come si è già detto, che anche ove si ritenesse che alle associazioni non riconosciute siano applicabili talune norme contenute negli artt. 14-35 c.c., tale disciplina sarebbe in ogni caso inadeguata a regolare fenomeni di particolare complessità quale quello qui considerato ( 41 ). Ed infatti la legislazione speciale qui esaminata è costretta a derogarvi sotto vari profili. Si pensi, in particolare, alle regole inerenti gli organi interni delle associazioni riconosciute, con particolare riferimento al tema della responsabilità degli amministratori (artt. 18 e 22 c.c.), a quelle relative al recesso degli associati (art. 24 c.c.), nonché alla disciplina della liquidazione (art. 30 ss. c.c.). Allo stesso modo, per restare entro i confini della sola disciplina delle associazioni non riconosciute, si pensi al disposto dell’art. 38 c.c. – là dove viene prevista, in favore dei « terzi », una responsabilità solidale del fondo comune e delle persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione – che costringe l’interprete ad affrontare qualche fatica per poter concludere che di tale garanzia rafforzata possano godere anche gli associati ( 42 ). Così, altro non si può fare se non rifugiarsi nella sottolineatura della specialità della legislazione in materia di fondi pensione, con tutto il suo carattere conformativo, rispetto alla disciplina generale contenuta nel libro I del codice, onde supplire alle carenze obiettive di quest’ultima ( 43 ). esclusione dell’associato dal sindacato possa essere sottoposto a controllo giudiziale ai sensi dell’art. 24, comma 3o, c.c. ( 41 ) Cfr. Bessone, Fondi pensione « chiusi ». Le regole di organizzazione e le attività degli amministratori, in Arg. dir. lav., 2001, p. 747. ( 42 ) Ci si è infatti a lungo chiesti se gli associati possano essere considerati « terzi » rispetto all’associazione: la condivisibile risposta affermativa deve passare per la preliminare sottolineatura (di cui si è detto e che è ribadita enfaticamente dall’art. 4, comma 1o) della distinta soggettività di associati ed associazione. Sul punto, cfr. Mantucci, sub art. 4, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, cit., p. 188. ( 43 ) Cfr. ad es. le osservazioni di Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., 1993, n. 35, inserto, p. XII, che 6. – La forma « soggetto dotato di personalità giuridica » ricomprende sia le associazioni riconosciute sia le fondazioni. Queste ultime, tuttavia, non rappresentano un modello strutturale concretamente adottato nella prassi del sistema di previdenza complementare ( 44 ), soprattutto per il loro intrinseco limite rappresentato dall’assenza di un organo assembleare; il che discenderebbe dalla prevalenza assegnata, in quel modello organizzativo, al profilo patrimoniale rispetto a quello personale ( 45 ). L’acquisizione della personalità giuridica è necessitata, come detto, per i fondi costituiti « nell’ambito di categorie, comparti o raggruppamenti » del lavoro subordinato od autonomo. Comparando il tenore letterale dell’art. 4, comma 1o, del d.lgs. n. 124/93 con quello dell’art. 4, comma 1o, del d.lgs. n. 252/05, ci si avvede che è stato espunto il riferimento all’art. 12 c.c. Ciò è ovviamente dovuto al fatto che la norma del codice è stata nel frattempo abrogata, anche se per verità già nel vigore della precedente disciplina era ormai chiaro che il legislatore vi rinviasse più che altro per ragioni di stile ( 46 ), essendosi affermata la tendenza a ritenere che le persone giuridiche di cui al d.lgs. n. 124/93 fossero caratterizzate da spiccata specialità ( 47 ) rispetto alla giustamente afferma la prevalenza delle regole contenute nell’art. 5 del d.lgs. n. 124/93 a proposito della composizione degli organi sociali (ma, allo stesso modo, ciò vale per la disciplina attuale) rispetto al principio di cui all’art. 36 c.c., che affida tale aspetto all’accordo degli associati. ( 44 ) Rileva Bessone, Fondi pensione « chiusi ». Le regole di organizzazione e le attività degli amministratori, cit., p. 746, che « si tratta di una alternativa di modello che ormai sembra interessare esclusivamente gli studiosi di teoria generale », proprio a cagione del suo inutilizzo nell’esperienza della previdenza complementare. ( 45 ) Cfr. Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 160. ( 46 ) Sandulli, Le fonti costitutive di fronte alle sfide della concorrenza, ne La previdenza complementare e la concorrenza tra i fondi pensione, Atti del convegno del Fondo pensioni del personale della BNL (3 maggio 2005), in Quaderni Mefop, 2005, p. 33. ( 47 ) Zampini, La previdenza complementare, cit., p. 169, ritiene che gli artt. 24, comma 4o, e 37 c.c. siano incompatibili con gli istituti del trasferimento e del riscatto previsti nella disciplina legale della previden- La nuova disciplina della previdenza complementare cornice generale allora fornita dall’art. 12 c.c. ( 48 ). 7. – Il riconoscimento della personalità giuridica viene assoggettato dal legislatore del 2005 ad una disciplina semplificata, ai sensi dell’art. 4, comma 1o, lett. b), attribuendosi alla COVIP il compito di provvedervi, curando altresì la tenuta del relativo registro, in deroga alle generali previsioni del d.p.r. n. 361/00. In capo alla COVIP sono dunque accorpate le competenze – all’esito di un procedimento unitario – relative al riconoscimento della personalità giuridica ed al rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività ( 49 ). Scompare l’intervento del Ministro del lavoro per ciò che attiene il riconoscimento della personalità giuridica; ed anche per ciò che concerne i fondi già operanti la COVIP provvederà ad acquisire i registri prefettizi delle persone giuridiche. Esce pertanto confermato il principio fondamentale secondo cui l’esercizio dell’attività dei fondi pensione è consentito soltanto previa autorizzazione dell’autorità di vigilanza ( 50 ), non- za complementare; contra Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, cit., p. 278, il quale mette in evidenza che in tali ipotesi non si è di fronte ad un recesso dal rapporto associativo, bensì ad un fatto obiettivo quale la cessazione dei requisiti di appartenenza al fondo (senza che dunque sia ravvisabile contraddizione con i principi affermati nelle citate norme del codice). ( 48 ) Esplicita è ad es. la deroga introdotta dall’art. 20, comma 9o, del d.lgs. n. 252/05 nei confronti degli artt. 20 e 21 c.c., prevedendosi la possibilità di adottare deliberazioni assembleari anche con il metodo referendario. ( 49 ) Ai sensi dell’art. 4, comma 1o, il riconoscimento della personalità giuridica ora « consegue » al (e dunque, si può ritenere, è automatica conseguenza del) provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività adottato dalla COVIP. Ciò consente di superare i problemi relativi alla (incerta e discussa) sussistenza di un rapporto di pregiudizialità tra attribuzione della personalità giuridica e autorizzazione all’esercizio dell’attività: sul punto, cfr. Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, cit., p. 266. ( 50 ) Il principio è ribadito anche dal d.lgs. n. 28/07, di cui si è già detto alla nt. 37, il cui art. 15 bis subordina l’esercizio dell’attività all’estero ad una specifica autorizzazione della COVIP, secondo pro- 619 ché, come già detto ampiamente, previa attribuzione di personalità giuridica privatistica nel caso di fondi negoziali categoriali ( 51 ). E tale principio continua a rimanere presidiato dalla previsione della rilevanza penale dell’esercizio abusivo dell’attività ( 52 ). L’art. 4, comma 3o, del d.lgs. n. 252/05, allo scopo di snellire lo svolgimento di una procedura la cui complessità è invero determinata anche, se non soprattutto, dalle norme introdotte dalle fonti secondarie, riduce l’estensione dei termini che nell’impianto del d.lgs. n. 124/93 regolavano l’iter della procedura autorizzativa ( 53 ). L’importante devoluzione di potestà regolamentare in capo alla COVIP, per l’appunto in cedure che la stessa autorità di vigilanza dovrà determinare. Al contempo, l’esercizio in Italia dell’attività da parte di un fondo pensione comunitario è assoggettato, secondo l’art. 15 ter, alle disposizioni in materia di trasparenza emanate dalla COVIP per i fondi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 252/05. ( 51 ) V. però l’inciso ora presente nell’art. 4, comma 3o, secondo cui l’autorizzazione è necessaria per i « fondi pensione di cui all’articolo 3, comma 1o, lett. da a) ad h) » (con esclusione, quindi, delle forme pensionistiche complementari individuali). Tale puntualizzazione è la naturale conseguenza dell’aver voluto includere i piani pensionistici individuali, con una scelta di discutibile portata sistematica, all’interno del catalogo delle fonti istitutive. ( 52 ) Cfr. il delitto previsto e punito dall’art. 19 bis, del decreto delegato. La fattispecie incriminatrice, in realtà, desta qualche perplessità sotto il profilo della tecnica normativa adottata, se non sotto quello del rispetto del principio di tassatività, se è vero che essa configura il fatto tipico di esercizio dell’attività « senza le prescritte autorizzazioni o approvazioni », mentre il previgente art. 18 bis del d.lgs. n. 124/93 faceva più puntualmente riferimento al difetto di « autorizzazione del Ministro del lavoro ». Anche in questo caso la formulazione del 2005 risponde evidentemente allo scopo di abbracciare le « approvazioni » di cui all’art. 13, comma 3o, relative al regolamento delle forme pensionistiche individuali e costituisce perciò ulteriore ricaduta della discutibile scelta sistematica trasfusa nel testo dell’art. 3. ( 53 ) Viene infatti ridotto da novanta a sessanta giorni il termine assegnato alla COVIP per concedere ovvero negare l’autorizzazione richiesta. Tale termine è stato parimenti ridotto (da sessanta a trenta giorni) nel caso di successiva richiesta di integrazione della documentazione. 620 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ordine alla disciplina della presentazione delle istanze di autorizzazione, viene poi ribadita dallo stesso art. 4, comma 3o, confermandosi così quel ruolo di « fonte » (in senso atecnico) di regole, che la COVIP ha sempre rivestito nel sistema italiano della previdenza complementare e che è del resto comune ad altre authorities previste dal nostro ordinamento giuridico. Non privo di rilievo è anche il ruolo rivestito dalla stessa autorità di vigilanza in ordine alla disciplina delle ipotesi di decadenza dall’autorizzazione, per il caso in cui il fondo non inizi ad operare ovvero non raccolga il livello minimo di adesioni previsto dallo statuto ( 54 ). Tale potere « normativo », non disgiunto dall’intensa attività lato sensu di indirizzo che la Com( 54 ) Regole, queste, che evidenziano una « ulteriore segmentazione procedurale » (così Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, cit., p. 267) nella sequenza di atti che va dall’istituzione delle forme pensionistiche complementari al concreto operare dei fondi pensione. missione esercita anche mediante risposta a specifici quesiti ad essa sottoposti ( 55 ), si coniuga con quello delegato al Ministro ai sensi dello stesso art. 4, comma 3o, in relazione a profili, di cui già si è detto ( 56 ), quali « i requisiti di costituzione » dei fondi, con speciale attenzione alla trasparenza nei rapporti con gli iscritti ed ai poteri degli organi collegiali ( 57 ), ai « requisiti per l’esercizio dell’attività, con particolare riferimento all’onorabilità e professionalità dei componenti degli organi collegiali » ( 58 ), ai « contenuti e modalità del protocollo di autonomia gestionale » ( 59 ). Andrea Bollani ( 55 ) Cfr. l’interessante raccolta di documenti accessibile nel sito www.covip.it alla sezione « quesiti ». ( 56 ) Cfr. supra, par. 4. ( 57 ) Art. 4, comma 3o, lett. a). ( 58 ) Art. 4, comma 3o, lett. b), che rinvia ai criteri dettati dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al d.lgs. n. 58/98. ( 59 ) Art. 4, comma 3o, lett. c). Art. 5. (Partecipazione negli organi di amministrazione e di controllo e responsabilità) 1. La composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle forme pensionistiche complementari, escluse quelle di cui agli articoli 12 e 13, deve rispettare il criterio della partecipazione paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Per quelle caratterizzate da contribuzione unilaterale a carico dei lavoratori, la composizione degli organi collegiali risponde al criterio rappresentativo di partecipazione delle categorie e raggruppamenti interessati. I componenti dei primi organi collegiali sono nominati in sede di atto costitutivo. Per la successiva individuazione dei rappresentanti dei lavoratori è previsto il metodo elettivo secondo modalità e criteri definiti dalle fonti costitutive. 2. Il consiglio di amministrazione di ciascuna forma pensionistica complementare nomina il responsabile della forma stessa in possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità e per il quale non sussistano le cause di incompatibilità e di decadenza così come previsto dal decreto di cui all’articolo 4, comma 3, lettera b). Il responsabile della forma pensionistica svolge la propria attività in modo autonomo e indipendente, riportando direttamente all’organo amministrativo della forma pensionistica complementare relativamente ai risultati dell’attività svolta. Per le forme pensionistiche di cui all’articolo 3, comma 1, lettere a), b), e) ed f), l’incarico di responsabile della forma pensionistica può essere conferito anche al direttore generale, comunque denominato, ovvero ad uno degli amministratori della forma pensionistica. Per le forme pensionistiche di cui agli articoli 12 e 13, l’incarico di responsabile della forma pensionistica non può essere conferito ad uno degli amministratori o a un dipendente della forma stessa ed è incompatibile con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato, di prestazione d’opera continuativa, presso i soggetti istitutori delle predette forme, ovvero presso le società da queste controllate o che le controllano. La nuova disciplina della previdenza complementare 621 3. Il responsabile della forma pensionistica verifica che la gestione della stessa sia svolta nell’esclusivo interesse degli aderenti, nonché nel rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei regolamenti e nei contratti; sulla base delle direttive emanate da COVIP provvede all’invio di dati e notizie sull’attività complessiva del fondo richieste dalla stessa COVIP. Le medesime informazioni vengono inviate contemporaneamente anche all’organismo di sorveglianza di cui ai commi 4 e 5. In particolare vigila sul rispetto dei limiti di investimento, complessivamente e per ciascuna linea in cui si articola il fondo, sulle operazioni in conflitto di interesse e sulle buone pratiche ai fini di garantire la maggiore tutela degli iscritti. 4. Ferma restando la possibilità per le forme pensionistiche complementari di cui all’articolo 12 di dotarsi di organismi di sorveglianza anche ai sensi di cui al comma 1, le medesime forme prevedono comunque l’istituzione di un organismo di sorveglianza, composto da almeno due membri, in possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità, per i quali non sussistano le cause di incompatibilità e di decadenza previste dal decreto di cui all’articolo 4, comma 3. In sede di prima applicazione, i predetti membri sono designati dai soggetti istitutori dei fondi stessi, per un incarico non superiore al biennio. La partecipazione all’organismo di sorveglianza è incompatibile con la carica di amministratore o di componente di altri organi sociali, nonché con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato, di prestazione d’opera continuativa, presso i soggetti istitutori dei fondi pensione aperti, ovvero presso le società da questi controllate o che li controllano. I componenti dell’organismo di sorveglianza non possono essere proprietari, usufruttuari o titolari di altri diritti, anche indirettamente o per conto terzi, relativamente a partecipazioni azionarie di soggetti istitutori di fondi pensione aperti, ovvero di società da questi controllate o che li controllano. La sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla presente disposizione deve essere attestata dal candidato mediante apposita dichiarazione sottoscritta L’accertamento del mancato possesso anche di uno solo dei requisiti indicati determina la decadenza dall’ufficio dichiarata ai sensi del comma 9. 5. Successivamente alla fase di prima applicazione, i membri dell’organismo di sorveglianza sono designati dai soggetti istitutori dei fondi stessi, individuati tra gli amministratori indipendenti iscritti all’albo istituito dalla Consob. Nel caso di adesione collettiva che comporti l’iscrizione di almeno 500 lavoratori appartenenti ad una singola azienda o a un medesimo gruppo, l’organismo di sorveglianza è integrato da un rappresentante, designato dalla medesima azienda o gruppo e da un rappresentante dei lavoratori. 6. L’organismo di sorveglianza rappresenta gli interessi degli aderenti e verifica che l’amministrazione e la gestione complessiva del fondo avvenga nell’esclusivo interesse degli stessi, anche sulla base delle informazioni ricevute dal responsabile della forma pensionistica. L’organismo riferisce agli organi di amministrazione del fondo e alla COVIP delle eventuali irregolarità riscontrate. 7. Nei confronti dei componenti degli organi di cui al comma 1 e del responsabile della forma pensionistica si applicano gli articoli 2392, 2393, 2394, 2394-bis, 2395 e 2396 del codice civile. 8. Nei confronti dei componenti degli organi di controllo di cui ai commi 1 e 4, si applica l’articolo 2407 del codice civile. 9. ( 1 ). 10. ( 2 ). 11. ( 3 ). 12. ( 4 ). (1) (2) (3) (4) Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. 622 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 La governance delle forme pensionistiche complementari Sommario (art. 5): I) La governance dei fondi pensione: i principi di pariteticità e rappresentatività. – 1. Le regole di governance della forma giuridica « fondo pensione ». – 2. Gli organi dei fondi pensione ad ambito definito. – 2.1. Il principio della pariteticità. – 2.2. La nomina dei componenti degli organi collegiali. – 3. Altri organi. – II) Il responsabile della forma pensionistica complementare. – 4. Il responsabile della forma previdenziale come organo di tutela degli aderenti. – 5. L’individuzione del responsabile e sua collocazione nel funzionigramma dell’ente o dell’azienda. – 6. La terzietà. – 6.1. Il caso del responsabile delle forme previdenziali senza personalità giuridica. – 7. I compiti. – III) L’organismo di sorveglianza. – 8. Il ruolo dell’organismo di sorveglianza. – 9. Composizione. – 10. Requisiti dei partecipanti. – IV) Le responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione e controllo. – 11. Le responsabilità degli amministratori e dei sindaci di un fondo pensione. – 12. Configurazione della responsabilità. – 13. La responsabilità dell’amministratore nei confronti del fondo pensioni. – 14. Responsabilità nei confronti dei creditori del fondo. – 15. Responsabilità nei confronti degli associati (iscritti). – 16. L’azione di responsabilità. – 17. Le responsabilità ex d.lgs. n. 231/01. 1. – L’articolo detta la cornice normativa entro la quale si inquadra l’architettura della governance delle forme previdenziali. La norma introduce in questo senso elementi specifici di distinzione rispetto alle fattispecie giuridiche originarie che configurano le forme previdenziali (associazione da una parte e patrimonio separato di destinazione dall’altra) facendo di questi istituti forme « terze » rispetto al quadro normativo civilistico. In particolare con riferimento al fondo pensione ad ambito definito, è possibile cogliere le profonde differenze che esistono, in tema di disciplina legislativa, tra l’associazione tout court e l’associazione – fondo pensione. Infatti, se è vero che il legislatore ha indicato la forma associativa come forma « tipica » degli enti aventi lo scopo di erogare trattamenti di previdenza complementare, questo riferimento ha unicamente la valenza di un richiamo generale che deve necessariamente essere integrato con la normativa speciale vigente in materia. Questa distinzione risponde alla necessità di dettare un quadro di riferimento normativo coerente con la rilevante funzione di interes- se pubblico svolta dagli enti previdenziali ( 5 ). Gli strumenti previdenziali nell’attuare i propri fini istituzionali operano all’interno dei mercati finanziari in qualità di investitori istituzionali. Le previsioni sullo sviluppo delle masse amministrate e il confronto con le esperienze internazionali già avviate, indicano come questi intermediari siano destinati ad assumere una posizione di crescente peso sui mercati finanziari. Coerentemente con questa posizione, alle forme previdenziali devono essere richieste modalità organizzative ed operative in linea con le best practice adottate dagli altri operatori nel rispetto della regolazione del mercato finanziario. Allo stesso tempo la finalizzazione previdenziale e il perseguimento di un interesse pubblico impongono la definizione di un sistema di tutela che passa anche attraverso la individuazione di peculiari architetture istituzionali (cfr. il responsabile del fondo pensione). In tal modo viene rafforzato il sistema di tutela che il legislatore italiano ha scelto di adottare ispirandosi ad un modello affidato all’efficacia dei controlli incrociati e degli strumenti di governo, piuttosto che ad un sistema di riassicurazione delle posizioni previdenziali assunte dagli operatori previdenziali. Inserite in questo più ampio contesto normativo le disposizioni contenute nell’art. 5 debbono pertanto essere necessariamente integrate con una lettura coordinata delle parti della normativa attuativa emanata a livello ministeriale oltre che della regolamentazione prodotta dal- ( 5 ) Le forme previdenziali disciplinate dal d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 devono essere intese come i soggetti che il legislatore ha inteso qualificare in quanto titolati ad assumere il compito di realizzare le forme di « assistenza privata » delineate dall’art. 38 della Costituzione. Per tutti: Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2003, p. 65 ss. Ancor di più le forme complementari hanno determinato l’evoluzione del « nostro sistema previdenziale come sistema binario o combinatorio, basato su due forme tra loro connesse e, appunto, complementari »: Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 9. La nuova disciplina della previdenza complementare l’autorità di vigilanza rientranti nel tema della governance ( 6 ). Il risultato di questo intreccio normativo è una disciplina così particolare da legittimare una interpretazione del fondo pensione una vera e propria figura giuridica terza distinta delle associazioni o da qualunque altra forma tipizzata dal Codice. 2. – L’adeguamento del corpo applicativo alla forma giuridica fondo pensione è realizzata sia attraverso l’estensione dell’applicazione di norme afferenti altre forme (si veda ad esempio a questo proposito l’applicazione delle previsioni sull’obbligatorietà del collegio sindacale mutuato dalla disciplina sulle società di capitali), ovvero con specifiche previsioni coerenti con la finalizzazione che il fondo persegue. Nel caso particolare degli organi statutari, delineati dal primo comma, la loro configurazione trova, peraltro, ulteriore specificazione sia nelle disposizioni attuative demandate al Ministro del lavoro ( 7 ) che nella disciplina emanata dalla ( 6 ) Si vedano, ad esempio, a questo proposito la deliberazione COVIP che detta le « Linee guida in materia di organizzazione interna dei fondi pensione negoziali » (delib. COVIP 4 dicembre 2003) o le sezioni attinenti gli organi dei fondi pensioni contenuti nello schema di Statuto (delib. COVIP 31 ottobre 2006). ( 7 ) Il d.m. del Ministro del lavoro e della previdenza sociale n. 211 del 14 gennaio 1997 disciplina i requisiti di onorabilità e di professionalità che devono sussistere in capo agli amministratori e ai sindaci, nonché le specifiche attribuzioni deliberative riferibili ai componenti in possesso di requisiti di « più elevata » professionalità (ad esempio art. 3, comma 1o, lett. h) riferito ai quorum deliberativi su materie attinenti gli aspetti della gestione finanziaria delle risorse). Peraltro proprio questa parte del decreto dovrebbe essere novellata sulla base di un testo il cui iter normativo risulta essere in fase di completamento al momento dell’estensione del presente scritto. La novella dovrebbe consentire di superare le incongruenze derivanti dall’applicazione letterale delle disposizioni dettate dal previgente testo del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 laddove si faceva esplicito riferimento ai requisiti fissati ex l. 2 gennaio 1991, n. 1, che risultano essere ampiamente superati dalla successiva normativa nazionale e comunitaria. Al di là dell’adeguamento formale, la nuova formulazione dei requisiti, qualora fosse confermata, consentirebbe una ridefinizione degli stessi sulla base di 623 COVIP. Tali previsioni introducono ulteriori elementi di indirizzo rispetto alla qualificazione e alla attribuzione di tali organi e dei loro componenti. In primo luogo si rileva come la disciplina preveda nel caso dei fondi ad ambito definito la contestuale presenza di un organo amministrativo ed di un organo di controllo ( 8 ). Le specificazioni richiamate, come detto, definiscono quest’ultimo come un vero e proprio collegio sindacale. La norma trova applicazione in modo integrale nei confronti di tutti i fondi ad ambito definito costituiti come forma giuridica autonoma. La stessa non è pertanto derogata nei confronti dei cosiddetti fondi previgenti. È fatta salva l’esclusione delle previsioni contenute nel primo comma per le forme previdenziali interne per le quali gli organi di amministrazioni e di controllo coincidono con quelli del soggetto istitutore. In ogni caso al fine di allineare per quanto possibile i principi della go- una qualificazione sostanziale delle capacità professionali richieste all’amministratore dei fondi pensione che devono essere state maturate attraverso incarichi o attività professionali ovvero attraverso una accurata e qualificata attività di formazione erogata da « Università, anche in collaborazione con enti operanti nel settore della previdenza complementare ». In luogo del riconoscimento formale dello svolgimento di funzioni direttive all’interno di istituzioni finanziarie e assicurative la verifica dei requisiti secondo la bozza di decreto proposta si sposterebbe sulla effettiva esistenza di titoli professionali atti a configurare una competenza specifica nella gestione dell’ente previdenziale. Il nuovo testo peraltro consentirebbe un allineamento dell’individuazione delle professionalità con quelle richieste agli amministratori di altri operatori finanziari (art. 1 del d.m. del Ministro dell’economia n. 468 dell’11 novembre 1998 « Regolamento recante norme per l’individuazione dei requisiti di professionalità e di onorabilità dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione o controllo presso Sim, società di gestione del risparmio e SICAV »). ( 8 ) « Il decreto fornisce indicazioni anche per quanto riguarda l’organizzazione interna dei fondi. Esso non solo, infatti, menziona gli organi di amministrazione e gli organi di controllo dei fondi, così vincolando a prevederli [...] » Pandolfo, La previdenza complementare, in Diritto del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro pubblico e privato, a cura di F. Santoro-Passarelli, 1998, p. 1372. 624 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 vernance a tutto il sistema della previdenza complementare i commi successivi introducono organi di controllo atti a garantire il rispetto dell’interesse degli aderenti. 2.1. – Il principio ispiratore delle regole della rappresentanza dei fondi pensione ad ambito definito è quello della pariteticità. Esso si esprime nei confronti dei lavoratori aderenti e dei datori di lavoro che partecipano alla istituzione e alla contribuzione della forma previdenziale. L’applicazione di tale principio introduce un elemento di novità rispetto alla disciplina e alla prassi operante nei confronti degli organi collegiali i quali prevedono un numero di componenti dispari al fine di realizzare la certezza della capacità deliberativa dell’organo. La pariteticità trova applicazione nella formazione degli organi di amministrazione e di controllo. Non viene invece direttamente menzionata l’assemblea dei delegati ( 9 ). Il mancato riferimento all’organo assembleare non preclude la possibilità che la fonte costitutiva disponga diversamente. Non è esclusa pertanto la possibilità di realizzare una forma assembleare unilaterale composta dai soli esponenti dei lavoratori iscritti, fattispecie perseguita da alcuni fondi pensione negoziali e come tale autorizzata da COVIP ( 10 ). Questa soluzione che ha trovato applicazione in alcuni fondi pensione negoziali deve in ogni caso essere considerata alla luce delle problematicità che si pongono ogni qualvolta la decisione assembleare coinvolga l’intero corpo degli amministratori (ad esempio nel caso dell’azione di responsabilità). Resta inteso che nel caso in cui si proceda alla ( 9 ) Lo statuto dei fondi pensione negoziali prevede di norma la presenza di un’assemblea dei delegati alla stregua di altre organizzazioni ed enti caratterizzati da una vasta base associativa. Con questa strutturazione si realizza una forma di democrazia indiretta considerata in dottrina pienamente legittima in quanto non opera per le associazioni un vincolo all’adozione di forme di rappresentanza diretta (Commentario Scialoja-Branca, a cura di Galgano, p. 275 ss.). ( 10 ) Più in generale alcuni autori fanno notare come sia sul piano normativo letterale che su quello sostanziale la normativa non preveda espressamente l’obbligo di pariteticità nella composizione assembleare. Tursi, La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, p. 283 ss. formazione di un’assemblea per delegati rappresentativi sia della componente aziendale che di quella dei lavoratori la stessa debba prevedere una composizione paritetica. La pariteticità trova applicazione generale nei confronti dell’organo collegiale ma il principio si intende applicabile anche nei confronti della presidenza dello stesso. In questo caso in presenza di una carica individuale, la pariteticità ha trovato pratica applicazione attraverso la definizione di un principio di rappresentanza incrociata tra le diverse componenti (presidenza del consiglio di amministrazione e presidenza del collegio sindacale) e di rotazione delle cariche nel succedersi dei mandati. L’applicazione del criterio della pariteticità deve essere interpretato come uno degli elementi fondativi del modello di governance dei fondi pensione e come tale non può essere derogato. Proprio questa peculiarità non rende possibile di fatto la realizzazione di fondi pensione ad ambito definito a partecipazione mista dei datori di lavoro e dei propri dipendenti attuabile ad esempio in alcune situazione di « prossimità » lavorativa dei soggetti come ad esempio avviene nelle imprese artigiane o negli studi professionali. Al di là di ogni considerazione sulla praticabilità « politica » di questa soluzione la stessa troverebbe ostacolo proprio nell’applicazione delle norme che presiedono alla rappresentanza negli organi statutari. 2.2. – Per quanto attiene le procedure di nomina dei componenti degli organi statutari la norma prevede una distinzione tra quelle che operano per la formazione della rappresentanza dei lavoratori aderenti e quelle applicabili ai datori di lavoro. Per i primi è stabilito che la rappresentanza riguarda gli aderenti e non i soggetti che costituiscono le fonti istitutive. La norma già delineata nel d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 introduce un cambiamento radicale rispetto alla situazione previgente che non fissava alcun vincolo alla forma di rappresentanza adottata. A tale proposito va sottolineato come in alcuni casi, sebbene limitati, si fossero configurate previsioni statutarie che lasciavano alle forme istitutive il compito di nominare i componenti degli organi amministrativi. Nel caso di specie è definito in modo tassativo che la modalità di formazione della rappresen- La nuova disciplina della previdenza complementare tanza è affidata al metodo elettivo. Questa impostazione comporta una definizione dell’elettorato attivo e di quello passivo. Per quanto riguarda l’elettorato attivo lo stesso è attribuito alla totalità degli aderenti alla forma previdenziale (soci). L’unica deroga prevista dalla normativa riguarda il momento della fase di partenza delle forme previdenziali nelle quali la nomina degli amministratori e dei sindaci spetta direttamente alle fonti istitutive. Peraltro il riferimento al corpo associativo non consente alle fonti istitutive di riservare regole limitative nei confronti di particolari categorie di associati (ad esempio i pensionati). In questo senso tutti gli iscritti al fondo pensione sono soci a tutti gli effetti portatori degli stessi diritti e doveri. Allo stesso modo, però, la norma lascia alle fonti costitutive il compito di definire il regolamento elettorale e i criteri per la formazione degli organi. Questo rimando implica la non sussistenza di alcun obbligo nel definire particolari riserve o seggi alle diverse espressioni delle componenti degli associati. Al contrario le modalità attraverso le quali si realizza la rappresentanza di queste diverse componenti sono affidate alle fonti istitutive. Al di là di ogni valutazione rispetto alle diverse modalità che consentano di attuare tale principio, il rispetto delle regole di rappresentanza consente di ridurre il potenziale di contenzioso legato al conflitto di interesse che si potrebbe esprime ogni qualvolta vengono assunte deliberazioni che toccano in modo differenziato le diverse componenti della forma previdenziale. La norma disciplina da ultimo anche i casi che prevedono la costituzione di forme previdenziali che comprendono solo i lavoratori. Tale fattispecie può verificarsi in due casi. Il primo rappresenta un caso più di scuola che di rilevanza pratica e riguarda la situazione di mancata sottoscrizione della fonte istituitiva da parte dei datori di lavoro. Il secondo attiene alle forme previdenziali realizzate attraverso l’istituto del fondo ad ambito definito rivolte a categorie di lavoratori autonomi o liberi professionisti. Per i casi caratterizzati da unilateralità della rappresentanza non trova può trovare applicazione il principio della pariteticità. In ogni caso la stessa è sottoposta all’applicazione del metodo elettivo che consente dagli aderenti di scegliere liberamente i propri rappresentanti all’interno degli organi statutari. 625 Per quanto riguarda l’elettorato passivo lo stesso non è sottoposto a particolari vincoli di adesione al fondo. L’amministratore, così come il singolo può essere individuato anche al di fuori del corpo associativo. L’unico vincolo operante riguarda la sussistenza in capo al potenziale componente dell’organo amministrativo e di quello di controllo di particolari requisiti di professionalità e di onorabilità fissati dalla disciplina. Proprio la richiesta di requisiti professionali suggerisce l’opportunità di non introdurre vincoli associativi rispetto alla definizione dell’elettorato passivo. Va da sé che l’assenza di ogni vincolo ripropone anche nel campo dei fondi pensione la problematica del cumulo delle cariche e conseguentemente della verifica delle condizioni di sussistenza oggettiva della possibilità da parte del componente dell’organo statutario di svolgere la propria attività secondo la necessaria diligenza e professionalità ( 11 ). ( 11 ) La questione è stata ad esempio affrontata dalla recente legge recante « Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari » (l. 28 dicembre 2005, n. 262) che ha introdotto in primo luogo un obbligo di trasparenza e informazione al mercato – seppure limitato alle società quotate – riferito alle cariche ricoperte dai sindaci e dagli amministratori (c.c. artt. 2400 e 2409 septiesdecies, ult. commi) Nel caso dei sindaci, la novella apportata dalla legge di tutela del risparmio al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 48 affida alla CONSOB il compito di disciplinare il numero massimo di incarichi che possono essere assunti dal sindaco superato il quale la CONSOB stessa « dichiara la decadenza dagli incarichi assunti dopo il raggiungimento del numero massimo » (art. 148 bis). Nel caso dei fondi pensione non sussiste una norma che opera in termini restrittivi fissando un limite alla assunzione degli incarichi. Ciò non toglie che esista un problema di tale natura riferito alla presenza contemporanea degli stessi rappresentanti in più consigli di amministrazione (o in collegi sindacali), soprattutto nel caso in cui lo stesso componente assuma compiti operativi all’interno dell’organo amministrativo o di controllo. La COVIP è, invece, intervenuta su un altro aspetto della questione, riguardante la pratica della rielezione dei medesimi componenti nello stesso organo per diversi mandati successivi. Nella bozza standard di Statuto, emanato dall’Autorità di vigilanza ai fini del recepimento delle nuove disposizioni, la COVIP ha previsto « Gli amministratori [...] possono essere eletti per non più di... (fino ad un 626 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 3. – Un ulteriore rilievo suggerito dalla formulazione della norma riguarda l’introduzione di un elemento di distinzione dell’operatività del fondo rispetto al suo momento genetico nel quale operano le fonti istitutive. Queste ultime costituiscono i soli soggetti legittimati ad istituire e costituire il fondo pensione e a fissarne le regole di funzionamento, almeno nella fase iniziale. Completata la fase istitutiva sono però gli associati, e non i rappresentanti delle fonti istitutive, a regolare i momenti successivi sviluppo del fondo pensione. Ciò si attua in primo luogo proprio nella riserva che assegna ai primi la facoltà esclusiva di eleggere i componenti degli organi statutari e in particolare del consiglio di amministrazione istituzionalmente preposto alla gestione della forma previdenziale. In realtà anche l’attività degli organi è in qualche modo condizionata dall’azione delle fonti istitutive che possono determinare attraverso la contrattazione all’evoluzione del fondo (si pensi ad esempio alla scelta di accorpare in uno stesso fondo i cosiddetti settori affini o ancora alla determinazione del livello contributivo). Si è posta quindi la necessità di trovare un momento di sintesi dei diversi piani che incidono sulla vita del fondo. La soluzione è stata trovata nell’ambito della possibilità di strutturare altri organi associativi purché questi siano funzionali all’attività del fondo e purché la loro azione non interferisca con quella degli organi « istituzionali ». La maggior parte dei fondi pensione ad ambito definito prevede in questo senso la costituzione di una Consulta delle fonti istitutive. Questo organo è composto dai rappresentanti delle fonti istitutive che con l’iniziativa contrattuale hanno dato origine all’ente previdenziale. La presenza della Consulta dovrebbe consentire il raccordo tra l’autonomia del fondo e l’azione delle fonti istitutive che mantengono attraverso la contrattazione la potestà di determinare parti importanti della evoluzione dell’istituto previdenziale. La consulta non rappresenta un organo vero e massimo di tre) mandati consecutivi. (delib. COVIP 31 ottobre 2006). Per quanto riguarda la durata in carica degli amministratori la COVIP si è adeguata alle previsioni dettate dal codice civile per le società per azioni che prevedono un periodo massimo di tre anni (art. 2383, comma 2o, c.c.). proprio nel senso che non ha specifiche competenze gestionali. Al contrario va evidenziato come l’Autorità di vigilanza abbia inteso garantire la piena autonomia del Consiglio di amministrazione escludendo la possibilità che la Consulta sia dotata di funzioni e di poteri tali da interferire sull’attività e sulla funzione deliberativa espressa dall’organo amministrativo. 4. – Il comma introduce l’obbligo per le forme previdenziali di dotarsi della figura del responsabile. Il legislatore ha scelto di attribuire alla figura un ruolo rilevante nell’impianto del sistema di tutela del risparmio previdenziale e in considerazione di questo obiettivo ha optato per estendere l’applicabilità della disposizione a tutte le forme previdenziali (fondi ad ambito definito, fondi aperti, piani previdenziali di natura assicurativa). La norma ha anche fissato i termini per l’adattamento della funzione del responsabile alle distinte fattispecie, siano esse caratterizzate dalla presenza di un ente previdenziale giuridicamente autonomo, ovvero da forme costituite come patrimonio separato di destinazione (prodotti previdenziali). Allo stesso modo l’obbligatorietà opera anche nei confronti dei cosiddetti vecchi fondi determinando l’abbandono, almeno in questo ambito, del particolare regime derogatorio che consente modalità organizzative meno stringenti per queste forme previdenziali ( 12 ). In realtà già il disposto originario prevedeva la figura del responsabile, ma allo stesso non ( 12 ) Si ricorda a questo proposito che le forme previgenti non sono destinatarie delle direttive emanate dalla Autorità di vigilanza in merito all’organizzazione interna dei fondi. Va da sé che questa distinzione è più formale che sostanziale in quanto se è vero che la non applicazione di norme specifiche esistenti consente a queste forme previdenziali di prefigurare un modello organizzativo in parte differente da quello tipizzato dalla disciplina del settore, nondimeno le norme codicistiche generali impongono agli amministratori di individuare tale modello nel rispetto dei principi generali di efficienza del sistema e di tutela del risparmio affidato loro. A ciò si aggiunge come la prassi e la stessa evoluzione normativa in atto (si veda a questo proposito l’emanando decreto ministeriale sulle procedure di adeguamento destinato alle forme previdenziali previgenti in tema di modello gestionale) spingano verso una progressiva convergenza dei modelli organizzativi delle diverse forme previden- La nuova disciplina della previdenza complementare erano associati compiti specifici e soprattutto non era meglio delineato il ruolo di terzietà rispetto alla forma previdenziale. 5. – L’individuazione del responsabile della forma previdenziale compete al consiglio di amministrazione dell’ente pensionistico (o della società istitutrice, nel caso di prodotto previdenziale) che deve assumere la deliberazione valutando le caratteristiche del candidato con riferimento ai contenuti di professionalità e di indipendenza. A questo proposito il legislatore ha delineato tassonomicamente i requisiti soggettivi del responsabile. Per quanto attiene la professionalità il responsabile della forma previdenziale deve essere individuato tra i soggetti che sono in possesso dei requisiti assimilabili a quelli di previsti per i componenti degli organi collegiali. In realtà il consiglio di amministrazione deve più in generale valutare le competenze in funzione delle attribuzioni che il responsabile è chiamato ad assumere. L’incarico di responsabile deve essere conferito ad una persona fisica. Infatti, a differenza di quanto stabilito per la funzione del controllo interno o per quello contabile che può essere affidata in outsourcing anche ad una persona giuridica, la necessità di configurare in modo puntuale il profilo di responsabilità connesso alla funzione determina l’obbligo di affidamento ad un soggetto individuale. Per la stessa ragione la funzione del responsabile non può essere attribuita ad un organo collegiale, né ad un comitato costituito ad hoc. Ciò non impedisce, nelle realtà più complesse, che il responsabile si possa avvalere di una struttura operativa che risponda direttamente allo stesso. La norma fissa anche indirettamente il posizionamento della figura all’interno dell’architettura funzionale del fondo o della società istitutrice. Viene stabilito, infatti, che il responsabile deve essere messo in condizione di operare in modo indipendente e per tale ragione esso riziali soprattutto per quelle disposizioni che traggono la loro giustificazione da un esigenza di maggior tutela degli aderenti. Per una disamina della natura e della portata delle deroghe vigenti si rimanda a Bessone, I fondi preesistenti al d.lgs. n. 124/1993, in La previdenza complementare, cit. 627 sponde direttamente all’organo amministrativo. Viene cioè sancito il principio secondo il quale il responsabile non deve avere una dipendenza funzionale rispetto alla struttura gerarchica operativa del fondo pensione. La relazione diretta con il consiglio pone infatti il responsabile in staff allo stesso secondo il modello di buone pratiche adottato per tutti gli organi o funzioni ai quali sono attribuiti compiti di controllo costituiti soprattutto in ambito finanziario. Alla luce di questa esigenza la configurazione delineata non apparirebbe derogabile non risultando pertanto legittime diverse strutturazioni di dipendenza della figura all’interno dell’organigramma aziendale. La relazione diretta con il consiglio deve quindi essere interpretata come un elemento rafforzativo della indipendenza della funzione. Questa configurazione opera anche nel caso delle forme previdenziali senza personalità giuridica. In questo caso il responsabile opera in staff al consiglio per quanto attiene la specifica funzione/prodotto considerata. 6. – Per i fondi negoziali il principio di terzietà della funzione è in qualche modo attenuato in considerazione della previsione che consente di affidare l’incarico di responsabile anche al direttore generale, ovvero ad uno degli amministratori. Nelle indicazioni emanate dalla COVIP si evince una sorta di preferenza per la soluzione che porta ad estendere le prerogative del direttore generale rispetto all’ipotesi che prevede l’affidamento dell’incarico ad un amministratore ( 13 ). La possibilità di affidare a soggetto diverso dal direttore generale potrà infatti essere esaminata « eventualmente » dal consiglio di amministrazione del fondo pensione. In ogni caso il soggetto che ricopre questo incarico deve comunque operare in modo autonomo e indipendente in quanto destinatario delle prerogative generali delineate per la funzione. Per questa ragione il direttore generale, o l’amministratore, che assume la carica di responsabile ricopre, per quanto attiene l’eserci- ( 13 ) Delib. COVIP, 28 giugno 2006, « Direttive generali alle forme pensionistiche complementari ai sensi dell’art. 23, comma 3o del d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ». 628 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 zio di questo incarico, un ruolo distinto rispetto a quello ricoperto nel sistema di governance del fondo. La particolare operatività del fondo ad ambito definito permette di attenuare l’apparente contraddizione tra le rappresentate esigenze di indipendenza e l’attribuzione delle competenze di controllo attribuite ad un amministratore o al direttore generale. Se per quanto riguarda la prima soluzione la stessa trova degli esempi nella configurazione di altri organi che svolgono funzioni di controllo (si veda ad esempio il comitato di controllo interno delineato dal codice Preda per le società quotate) per quanto riguarda il direttore generale non possono non essere ravvisate forme di potenziale conflitto in capo al soggetto che istituzionalmente presiede alla gestione generale del fondo. Questo conflitto è in parte attenuato dal fatto che per alcuni ambiti (ad esempio la gestione finanziaria) il modello operativo dei fondi pensione prevede un attribuzione di competenze a soggetti terzi. Proprio in questo ambito la norma prescrive che il responsabile vigili « sul rispetto dei limiti di investimento, [...] sulle operazioni in conflitto di interesse e sulle buone pratiche ai fini di garantire la maggiore tutela degli iscritti » e quindi risulti ben delineato un compito di controllo su attività che vengono interamente svolte da terzi. 6.1. – Per le forme previdenziali costituite come patrimonio di destinazione la normativa fissa maggiori vincoli di autonomia e indipendenza del responsabile rispetto al soggetto istitutore. Questa previsione innova il precedente dettato normativo che laddove indicava la figura del responsabile del fondo pensione aperto consentiva l’attribuzione di tale responsabilità anche ai dipendenti del soggetto istitutore. Proprio però questo elemento di terzietà introduce allo stesso tempo un problema di individuare un raccordo operativo con la società istitutrice in quanto l’attività del responsabile si inserisce all’interno di un corpo organizzativo nel quale già operano altre funzioni di controllo (Internal Audit, collegio sindacale e, in taluni casi, comitato per il controllo interno). A ciò deve aggiungersi il fatto che il responsabile, in quanto soggetto esterno all’ente non dispone di un potere gerarchico sulla struttura operativa. Al fine di rendere efficace l’azione del responsabile si rende, quindi, indispensabile l’adozione di un regolamento che attribuisca al responsabilità la possibilità di disporre direttamente della funzione dell’Internal Audit. Andrebbe anche valutata la necessità di conferire un budget autonomo di spesa al responsabile al fine di rendere possibile il conferimento di particolari studi e approfondimenti a soggetti terzi specializzati. 7. – Il comma 3o fissa i compiti del responsabile da cui si desume che lo stesso estende il suo campo di controllo sia sull’attività generale del fondo sia su singole attività o deliberazioni che influiscono sulla strutturazione della forma previdenziale ( 14 ). Proprio il riferimento alla verifica « che la gestione della stessa sia svolta... rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei regolamenti e nei contratti » pone comunque un problema di sovrapposizione con le funzioni dell’organo sindacale, almeno come esso risulta definito nella nuova configurazione codicistica. In gran parte il dettaglio delle aree che costituiscono area di competenza del responsabile devono essere delineate dalla COVIP. Per quanto attiene alle aree di intervento che sono espressamente indicate risulta un compito specifico inerente l’ambito di gestione delle risorse patrimoniali laddove il responsabile è chiamato a verificare il rispetto delle indicazioni sulle politiche di investimento e sulle operazioni in conflitto di interessi. Questa attribuzione deve necessariamente intendersi come un obbligo a una verifica indiretta sulla esistenza di adeguati strumenti e procedure di controllo, nonché, in particolare, sull’adeguato modello di trattamento delle anomalie. Ciò in quanto la respon( 14 ) L’indicazione delle funzioni attribuite al responsabile consente di superare il limite contenuto nel dettato del d.lgs. 21 aprile 2003, n. 124 che laddove introduceva la figura del responsabile del fondo, seppur limitatamente alla fattispecie alla fattispecie del fondo aperto, ne lasciava indefinita la funzione. Tale indeterminatezza no aveva trovato soluzione nemmeno in dottrina producendo di fatto una « marginalizzazione » della figura all’interno del sistema di governance della forma previdenziale. Esso era, infatti, « figura di incerta qualificazione non essendo precisati né i contenuti né l’ambito operativo delle sue attribuzioni e competenze ». Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale, cit., p. 404. La nuova disciplina della previdenza complementare sabilità prima della verifica del rispetto delle linee di investimento compete istituzionalmente alla banca depositaria che, disponendo direttamente della piena visibilità dei flussi e delle disposizioni impartite, è in grado di compiere una verifica puntuale sul comportamento dei gestori. Peraltro la normativa stessa fa riferimento alle buone pratiche tali da assicurare una modalità operativa in linea con l’esigenza di rafforzare le tutele nei confronti degli iscritti. In ogni caso il punto di partenza per meglio collocare questa figura va ricercato nella formulazione adottata dalla norma che fissa il primo compito del responsabile nel l’obbligo di verificare « che la gestione della stessa sia svolta nell’esclusivo interesse degli aderenti ». Il presupposto dell’esigenza di richiamare l’attenzione sull’esclusivo interesse degli aderenti rappresenta un indiretto riconoscimento del fatto che il consiglio di amministrazione del fondo pensione (o della forma previdenziale) rappresenti un organismo complesso all’interno del quale si forma una mediazione delle esigenze dei vari stockholders che interagiscano con esso. In questo senso la norma non fa che ricalcare il dibattito che interpreta il comportamento degli organi amministrativi alla luce della teoria dell’agenzia ( 15 ). Il riconoscimento della funzione generale previdenziale svolta dal fondo pensione ha però richiamato l’esigenza di creare una sorta di punto di accumulo nel quale convergessero gli elementi peculiari caratterizzanti il « punto di vista » degli aderenti. Questa considerazione può valere in termini più immediati nei confronti dei prodotti previdenziali il cui modello operativo deve rispondere a logiche di redditività ma trova applicazione anche nel caso dei fondi negoziali nei quali agiscono geneticamente altre componenti (si veda ad esempio il ruolo delle fonti istitutive e la loro capacità di indirizzo attuata attraverso l’iniziativa contrattuale). 8. – La disposizione intende regolare la fatti- ( 15 ) Di Betta e Amenta, Gli incentivi nella corporate governance: il ruolo dell’autoregolazione e dell’autodisciplina, Paper ISTEI (Istituto di Economia d’Impresa Università degli Studi di Milano - Bicocca). 629 specie dell’integrazione del sistema di governance nei fondi pensioni aperti. L’organismo di sorveglianza si affianca alla figura del responsabile svolgendo un ruolo di verifica generale dell’adeguatezza dell’operato della forma previdenziale rispetto alla tutela del risparmio conferito. A differenza del responsabile a cui sono attribuite specifiche e puntuali competenze di controllo, l’attività dell’organismo è invece di carattere generale e si basa proprio sulle risultanze dell’operato del responsabile stesso, nonché sulle informazioni rilevanti su eventi che incidono sulla redditività e sulle caratteristiche del fondo trasmesse dal soggetto istitutore. La disposizione riguardante l’organismo di sorveglianza trova applicazione trova applicazione nei confronti della generalità degli strumenti ex art. 12 del decreto, indipendentemente dal fatto che gli stessi si rivolgano alle adesioni individuali ovvero a quelle collettive. Proprio questa generalizzazione dell’applicazione allo strumento in sé produce una differenziazione di trattamento dei fondi pensione aperti rispetto ai piani individuali pensionistici, differenziazione di cui è difficile rintracciare la ratio. Come si vedrà l’unica distinzione tra i fondi riferiti alle differenti destinazioni consiste in un obbligo ad integrare la composizione dell’organismo in presenza di collettivi che raggiungono determinate dimensioni di iscritti. La distinzione delineata afferisce, pertanto, alla composizione dell’organismo e non produce alcun effetto sulla funzione svolta e sui compiti ad esso attribuiti che sono fissati direttamente dalla normativa. L’organismo svolge una funzione di controllo che viene esercitata nell’interesse degli aderenti, mentre è preclusa ad esso ogni attribuzione gestionale, nonché ogni competenza di indirizzo che spetta in via esclusiva al soggetto istitutore. L’organismo, nell’espletamento delle sue funzioni, si raccorda direttamente con il responsabile della forma previdenziale dal quale riceve comunicazioni periodiche. Anche se l’organismo richiama nella denominazione l’organo caratteristico del sistema dualistico, lo stesso non può essere integrato in tale fattispecie in quanto non ricorrono gli elementi tipici di tale articolazione giuridica. L’organismo, infatti, svolge una mera funzione di controllo, atta a rafforzare il sistema di tutela, non assumendo in alcun modo altre funzioni di 630 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 condivisione delle attribuzioni societarie ( 16 ). 9. – La norma stabilisce che i fondi pensione aperti si dotino di un organismo di sorveglianza sin dal momento della prima applicazione della nuova disposizione. Tale organismo entra quindi a far parte in modo integrante del sistema di governance della forma previdenziale. In ogni caso è prevista una fase transitoria determinata dalla necessità di assicurare la presenza dell’organismo anche nella fase in cui almeno per quanto attiene i fondi ad adesione collettiva, manca un’adeguata base di iscritti indispensabile per realizzare il sistema di rappresentanza previsto. Per ovviare a tale situazione è previsto che la designazione dei primi componenti dell’organismo sia affidata alla società istitutrice stessa. La designazione diretta non consente però una deroga né un’attenuazione del principio generale di indipendenza dei componenti che viene semmai rafforzato con il divieto di revoca degli stessi se non in presenza di una giusta causa ( 17 ). La durata della carica dei primi componenti dell’organismo non può comunque eccedere il biennio. Successivamente l’organismo viene integrato da rappresentanti degli aderenti e dei datori di lavoro che partecipano alla contribuzione. L’obbligo di integrazione scatta ogni qualvolta aderisca una collettività di almeno 500 lavoratori. La previsione di legge va interpretata come un obbligo a fare non essendo preclusa la possibilità di operare anche in presenza di un numero inferiore di aderenti. Peraltro tale possibilità è prevista direttamente dalla norma. Va altresì considerato che probabilmente il legislatore, nel fissare un numero relativamente elevato di ade- ( 16 ) « Il sistema dualistico [...] consiste nella interposizione, fra l’assemblea e l’organo amministrativo, [...] di un organo intermedio, di nomina assembleare, il consiglio di sorveglianza che riunisce in se alcune attribuzioni proprie nel sistema ordinario, dell’assemblea [...] e del collegio sindacale » Galgano, Il nuovo diritto societario, Padova, 2003, pp. 300-301. ( 17 ) V. COVIP, Regolamento per l’istituzione e il funzionamento dell’organismo di sorveglianza, Allegato 2 allo Schema di regolamento deliberato il 31 ottobre 2006. Il provvedimento di revoca può essere assunto dal consiglio di amministrazione del soggetto istituto solamente dopo aver acquisito il parere dell’organo di controllo della società. sioni come requisito formale per l’integrazione dell’organismo, ha voluto contemperare l’esigenza della rappresentanza con la necessità di assicurare l’efficacia del funzionamento dell’organismo, attraverso il contenimento del numero dei suoi componenti. Salvo diversa previsione contenuta nel regolamento adottato, l’integrazione dell’organismo può essere realizzata in qualsiasi momento dal momento che la designazione del rappresentante spetta al collettivo individuato e non all’intero universo degli aderenti alla forma previdenziale. Va segnalato, peraltro, che anche all’organismo di sorveglianza viene esteso il principio della pariteticità della rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro. In realtà in questo caso siamo in presenza di un organismo tripartito essendo prevista la partecipazione di componenti indipendenti la cui nomina spetta alla società istitutrice. Per quanto attiene alle modalità che dovranno essere adottate per calcolare la soglia delle cinquecento adesioni, nonché le regole temporali di elezione dell’organismo le stesse devono esser in gran parte definite dall’apposito regolamento. Per quanto riguarda il calcolo numerico degli aderenti appare evidente che lo stesso debba riferirsi ai soggetti che si sono effettivamente iscritti alla forma previdenziale e non ai potenziali aderenti. L’ambito di riferimento delle adesioni dovrà inoltre tener conto della configurazione degli accordi di adesione. Nel caso in cui gli stessi siano definiti a livello di gruppo la quantificazione dovrà corrispondere alle somma dei partecipanti che fanno riferimento alle aziende partecipanti. Allo stesso modo dovrà essere stabilito il periodo di riferimento per la determinazione delle adesioni utili ai fini del calcolo della soglia. Non sembra comunque operare la decadenza dalla carica nel caso in cui il numero di aderenti scenda al di sotto della soglia dei cinquecento aderenti. Tale condizione non rientra infatti tra le cause di decadenza indicate dalla normativa e riprese dalla COVIP nello schema di regolamento tipo deliberato nell’ottobre del 2006. 10. – Ai componenti dell’organismo di sorveglianza sono richiesti gli stessi requisiti di onorabilità e professionalità definiti per tutti i componenti degli organi delle forme pensionistiche La nuova disciplina della previdenza complementare complementari. In aggiunta è previsto come presupposto soggettivo essenziale per l’assunzione della carica una condizione di indipendenza rispetto al soggetto istitutore. Questa caratteristica deve essere accertata attraverso la non sussistenza di una incompatibilità derivante dall’esistenza di mandati, rapporti di lavoro o patrimoniali con la società istitutrice del fondo, ma deve essere verificata anche in termini più generali alla luce di tutte le situazioni soggettive o oggettive che possono attenuare l’indipendenza del soggetto. A questo proposito occorre richiamare per analogia il dibattito sulla nozione di amministratore indipendente diventata comune anche nel nostro paese a seguito delle modifiche normative e dell’introduzione di codici e discipline di autoregolamentazione dei mercati ( 18 ). Per quanto attiene i rapporti patrimoniali la norma può trovare immediata verifica per quanto attiene l’assenza di specifici incarichi professionali e di lavoro, mentre più ambigua appare l’interpretazione riferita alla mancanza di qualsivoglia partecipazione azionaria del soggetto istitutore, ovvero di società controllate o controllanti. La formulazione letterale della norma dovrebbe trovare applicazione in termini tassativi indipendentemente dalla quota azionaria posseduta e in questa accezione il possesso di una qualsivoglia quantità di titoli determinerebbe la decadenza dall’incarico. In realtà appare più rilevante una lettura più sostanziale del concetto di indipendenza che rimandi la valutazione del legame economico alla « rilevanza dello stesso » ( 19 ). ( 18 ) Un ruolo particolare nel nostro paese ha avuto l’adozione del cosiddetto codice Preda « Codice di autodisciplina delle società quotate in borsa », recentemente rivisto per tener conto della nuova disciplina sulla tutela del risparmio (Versione - marzo 2006). ( 19 ) Ad esempio a questo proposito il Codice di autodisciplina delle società quotate prevede che « Per quanto riguarda le relazioni commerciali, finanziarie e professionali intrattenute, anche indirettamente, dall’amministratore con l’emittente o con altri soggetti ad esso legati, il Comitato non ritiene utile indicare precisi criteri quantitativi sulla base dei quali debba essere giudicata la loro rilevanza. In ogni caso, il consiglio di amministrazione dovrebbe valutare tali relazioni in base alla loro significatività, sia in termini assoluti che con riferimento alla situazione economico-finanziaria dell’interessato ». 631 In ogni caso proprio facendo riferimento al dibattito prima richiamato appare evidente come la nozione di indipendenza ( 20 ) debba essere formulata avendo come riferimento un più ampio spettro di condizioni che debbano necessariamente entrare nella valutazione ( 21 ). A questo proposito uno dei punti deboli della costruzione, peraltro riferibile anche alla figura del responsabile attiene al meccanismo di selezione e di nomina che in qualche modo subordina, almeno nel momento genetico, il componente dell’organismo di sorveglianza con il soggetto istitutore ( 22 ). Seguendo lo schema applicato dal testo unico sulla finanza ( 23 ) agli intermediari finanziari la norma ha previsto che il meccanismo della decadenza dalla carica già previsto per i requisiti di onorabilità e professionalità trovi applicazione anche in caso di difetto dei requisiti di indipendenza. 11. – I commi 7o e 8o dell’art. 5 delineano i profili di responsabilità degli amministratori e dei sindaci dei fondi pensione attraverso l’esten- ( 20 ) Si veda ad esempio la raccomandazione della Commissione della Unione Europea n. 262 del 15 febbraio 2005, « sul ruolo degli amministratori senza incarichi esecutivi o dei membri del consiglio di sorveglianza delle società quotate e sui comitati del consiglio d’amministrazione o di sorveglianza ». ( 21 ) L’Associazione italiana degli amministratori indipendenti ha delineato gli aspetti rilevanti che consentono di caratterizzare l’indipendenza di un amministratore: a) la rilevanza delle « caratteristiche personali »; b) la rilevanza dei legami; c) la rilevanza della modalità di nomina. Per analogia le stesse considerazioni possono essere svolte con riferimento alla fattispecie dei componenti dell’organismo di controllo non foss’altro per il richiamo esplicito alla figura degli amministratori indipendenti operata dalla norma. Nedcommunity (Non Executive Directors Community) L’amministratore indipendente, Working Paper, n. 1, 2004, p. 11 ss. ( 22 ) Può essere utile a questo proposito riferirsi alle best practice degli altri paesi che raccomandano l’individuazioni dei soggetti indipendenti a terzi. Si veda a questo proposito Iachino, La verifica e la certificazione della sussistenza del requisito di indipendenza, sia in fase di nomina sia nel corso del mandato, in Aa.Vv., La responsabilità degli amministratori indipendenti, Nedcommunity Working Paper, 2006. ( 23 ) D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. 632 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 sione agli enti previdenziali delle norme del codice civile che trovano applicazione nei confronti delle società di capitale. La norma prevede, inoltre, l’applicazione della medesima disciplina anche nei confronti del direttore generale (art. 2396 c.c.) e della nuova figura del responsabile del Fondo. È evidente l’intento perseguito dal legislatore di promuovere un rafforzamento del sistema di governance delle forme previdenziali attraverso l’esplicita attribuzione di responsabilità proprie della funzione di amministratore (o di sindaco) svolta in società commerciali ( 24 ). Questa attribuzione allontana ulteriormente il modello operativo a cui devono attenersi gli organi statutari di una forma previdenziale ad ambito definito rispetto a quello adottato da un ente associativo generico. In ogni caso l’estensione alle forme previdenziali di un insieme di disposizioni modellate su una diversa fattispecie pone il problema della loro concreta applicabilità ad alcuni casi specifici peculiari dell’attività del fondo pensione. Questa necessità interpretativa si esplica sia con riferimento alla singola norma, sia più in generale alla individuazione stessa del profilo di responsabilità dell’amministratore di un fondo pensione. 12. – Proprio con riferimento agli enti previdenziali il problema interpretativo più rilevante si pone rispetto all’inquadramento dei soggetti ai quali può essere cagionato un danno ingiusto attraverso il comportamento attivo o omissivo degli amministratori ( 25 ). ( 24 ) Peraltro gli articoli del Codice richiamati dal d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 sono stati novellati nell’ambito della revisione del diritto societario (d.lgs. 10 febbraio 2003, n. 6). ( 25 ) La condotta può essere sia attiva (l’amministratore ha compiuto una determinata azione), sia omissiva (l’amministratore non ha compiuto una determinata azione da cui deriva il danno ovvero la cui realizzazione avrebbe evitato il danno), ma deve comunque sussistere perché vi sia responsabilità. Affinché si configuri la fattispecie del danno è essenziale che il comportamento dannoso (attivo od omissivo che sia) sia stato compiuto con « dolo » o con « colpa ». Il soggetto che ha agito deve avere voluto arrecare il danno (nel caso del dolo) ovvero deve avere agito in modo negligente o imprudente, ignorando quelle regole di condotta che sarebbe stato tenuto ad Si rammenta infatti che la fattispecie di responsabilità civile deve essere inquadrata alla luce di quanto previsto dall’art. 2043 c.c., secondo cui « qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno ». Al fine dell’individuazione dei potenziali soggetti ai quali può essere arrecato il danno si deve tener conto della particolare attività svolta dall’ente in questione. Una questione rilevante riguarda la risposta alla domanda circa la qualificazione in capo al fondo pensione ad ambito definito di un’attività di carattere imprenditoriale ( 26 ). La particolare complessità dell’attività svolta che implica la necessità di organizzare « fasi produttive » diverse al fine di realizzare gli obiettivi istituzionali per conto degli aderenti farebbe propendere per l’inquadramento dell’attività del fondo come impresa seppure con caratteristiche molto peculiari ( 27 ). Nonostante questa configurazione, l’esame della concreta attività concretamente svolta riduce la casistica di soggetti terzi ai quali il fondo pensione può produrre un danno e ciò suggerisce come l’universo dei potenziali danneggiati possa essere in gran parte limitato all’insieme degli iscritti alla forma previdenziale. Occorre comunque considerare le diverse fattispecie che si possono configurare esaminando il danno che può essere cagionato: a) nei confronti dello stesso fondo pensione; b) nei confronti dei creditori osservare. Ai fini della responsabilità assume particolare rilievo il caso della configurazione della negligenza dell’amministratore la cui qualificazione deve essere provata alla luce del mancato rispetto della diligenza professionale e delle best practice del settore. ( 26 ) Peraltro la dottrina ha delineato la distinzione degli enti disciplinati dal libro I c.c. non tanto in base all’attività svolta quanto all’assenza di una distribuzione degli utili. Si veda ad esempio Marasà, Le società. Società in generale, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2000. ( 27 ) « In coerenza con la politica di riforma in materia di previdenza complementare [...] è venuta, infatti, man mano delineandosi un’attività di tipo imprenditoriale seppure particolarmente caratteristica o per meglio dire connotata di specialità dato l’ambito marcatamente previdenziale degli interessi perseguiti », Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, Milano, 2005, pp. 131-132. La nuova disciplina della previdenza complementare del fondo; c) nei confronti dei singoli associati. Un modo produttivo per mettere a fuoco i profili di responsabilità può essere quello procedere individuando le aree di maggior criticità rispetto alla potenziale emersione di un rischio operativo a fronte del quale può determinarsi una situazione di procurato danno. Utilizzando un termine comune del lessico dei sistema di controllo e vigilanza si tratta di definire il cosiddetto risk assesment connesso all’attività dell’ente previdenziale. La disamina delle aree di attività del fondo si rende necessaria in considerazione della complessità dell’operatività del fondo che oltre a protrarsi su un arco temporale particolarmente esteso comprende attività eterogenee nonché il concorso di soggetti esterni coinvolti, talvolta per espressa previsione normativa, a svolgere intere fasi del « ciclo produttivo » del fondo pensione. In questo senso le aree di maggiore criticità che attengono alla responsabilità degli amministratori e dei sindaci di un fondo pensione riguardano: a) la gestione finanziaria dell’attivo patrimoniale; b) la gestione amministrativa del rapporto associativo. Va comunque considerato come il richiamo alle due aree appena indicate rappresenti una pura indicazione sintetica che ricomprende un insieme eterogeneo di attività che possono essere ricondotte ai principali segmenti nei quali si caratterizza l’attività di una forma previdenziale. Proprio la complessità delle attività che ad esse sono riconducibili pone in ogni caso il problema di dettagliare distinti profili di responsabilità anche nei confronti di soggetti diversi. Ad esempio nell’area amministrativa rientrano sia attività che vengono svolte nei confronti degli iscritti sia operazioni che il fondo svolge in qualità di sostituto d’imposta. Le due aree di attività in realtà sono in realtà caratterizzate da un profilo operativo differenziato. La prima prevede l’obbligo del fondo pensione di affidare la gestione finanziaria del patrimonio degli iscritti in fase di accumulo, nonché la gestione delle riserve dei pensionati a soggetti esterni qualificati dalla legge ( 28 ). ( 28 ) I soggetti abilitati alla gestione dei fondi pensione sono elencati dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, mentre la gestione delle riser- 633 Per quanto attiene l’area amministrativa la scelta di procedere ad una esternalizzazione dell’intera funzione o di parte di essa discende, al contrario, dalla decisione di adottare modello operativo più efficiente e non da una cogente disposizione normativa ( 29 ). 13. – La responsabilità dell’amministratore nei confronti dell’ente presso il quale svolge il proprio mandato è disciplinata dall’art. 2392 c.c., espressamente richiamato dal legislatore. La posizione dell’amministratore deve essere valutata alla luce della novella realizzata con l’introduzione del cosiddetto nuovo diritto societario. Essa prevede una diversa configurazione della diligenza richiesta all’amministratore che non risulta essere più genericamente delineata secondo la « diligenza del mandatario » ma comporta che « gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze ». Il comma 8o definisce il profilo di responsabilità dei sindaci del fondo pensione, nonché ai componenti dell’organismo di sorveglianza istituito per i fondi pensione aperti che prevedono le adesioni collettive. Anche in questo caso il riferimento del codice civile impone ai componenti dell’organo di controllo comportamenti adeguati alla « professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico ». L’innovazione introdotta dal nuovo diritto societario che implica una ben più pregante as- ve dei pensionati compete agli stessi soggetti, nel caso di gestione diretta ex art. 6, comma 4o, ovvero ad una compagnia assicurativa nel caso in cui il fondo opti per procedere secondo il modello tipizzato dall’art. 6, comma 3o, del medesimo decreto. A ciò si devono aggiungere le disposizioni sulla banca depositaria definite dall’art. 7. ( 29 ) A tal proposito la COVIP ha rappresentato ai fondi pensione che hanno optato per un modello organizzativo basato sull’outsorcing della funzione amministrativa « la doverosità, per gli esponenti del fondo di garantire un elevato grado di efficacia al sistema dei controlli esercitati sulla qualità dei servizi amministrativi esternalizzati ». Ciò in quanto « le indicate attività amministrative, ancorché rese oggetto di outsourcing, restano comunque ascritte alla complessiva sfera di competenza del soggetto fondo » (COVIP, lett. circ. del 22 novembre 2001). 634 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 sunzione di responsabilità dell’amministratore e dei componenti l’organo di controllo, assume rilievo nel particolare contesto associativo dei fondi pensione. Esso, infatti, introduce un elemento di rottura in un modello di governance che premia in modo particolare gli elementi della rappresentanza. La stessa formulazione vigente dei requisiti di professionalità rispetta il disegno originario del legislatore che a fianco dei più tradizionali elementi distintivi legati alle competenze maturate in campo finanziario prevede uno specifico riconoscimento degli elementi di partecipazione alle strutture associative delle fonti istitutive. In termini generali la configurazione di una responsabilità che impone comportamenti tipici di un mandato professionale costituisce il principio ispiratore per la valutazione dell’azione dell’amministratore nell’assolvi – mento del proprio mandato. Essa pertanto costituisce elemento dirimente nei confronti del rispetto delle regole che attengono l’organizzazione del fondo. Una domanda interessante da porsi riguarda il fatto se la valutazione della responsabilità possa essere « individualizzata » anche in base ai diversi requisiti di professionalità posseduti dagli amministratori. Il d.m. 14 gennaio 1997, n. 211 opera, infatti, una distinzione tra i soggetti che si trovano nelle condizioni delineate all’art. 4, comma 2o, lett. a) e b), rispetto quanti sono in possesso dei restanti requisiti. Peraltro la lettura coordinata del provvedimento esprime una distinzione che vale nei confronti dei componenti degli organi afferenti alle diverse qualificazioni professionali. La domanda dovrebbe però essere risolta in senso negativo. In primo luogo il decreto del Ministro del lavoro indica i casi in cui è esplicitamente richiesto l’intervento dei componenti con il requisito di professionalità « rafforzato » ( 30 ). Tale norma dovrebbe essere interpre- ( 30 ) L’art. 2, comma 3o, lett. h) del d.m. 14 gennaio 1997, n. 211 stabilisce infatti l’obbligo di definire nello statuto il « numero di consiglieri aventi i requisiti di professionalità di cui alle lett. a) e b) del comma 2o dell’articolo medesimo che devono essere presenti nelle riunioni dello organo amministrativo convocate per deliberare su materie concernenti l’at-tuazione degli articoli 6 e 6 bis del decreto legislativo n. 124 del 1993 ». tata in quanto esprime la volontà del legislatore di assicurare che nei casi in cui si deve formare la volontà collegiale dell’organo amministrativo su materie per le quali è richiesta una adeguata professionalità sia assicurato l’apporto delle competenze specifiche presenti nel corpo consigliare. Proprio la partecipazione di questi amministratori assicura che la deliberazione consigliare venga assunta sulla base di un processo decisionale adeguato, formatosi sull’esame di tutti gli aspetti rilevante della materia in esame. In ogni caso, vale comunque il richiamo circa la indispensabilità della assunzione di comportamenti di diligenza professionale da parte di tutti i componenti del consiglio. Queste due considerazioni sono sufficienti per escludere la possibilità di sostenere la liceità dell’ipotesi della riduzione del grado di responsabilità di alcuni amministratori – salvo che per i casi espressamente disciplinati dal codice civile (ad manifestazione di espressione contraria alla deliberazione consiliare). Seguendo lo schema prima proposto deve essere ripresa la domanda relativa all’individuazione delle circostanze entro le quali si configura la responsabilità dell’amministratore nei confronti del fondo pensione. Al di là del richiamo generale all’art. 2392 c.c. e quindi all’interpretazione dei comportamenti dell’amministratore nello svolgimento dell’attività gestionale del fondo, ad ogni amministratore competono specifici obblighi derivanti dall’applicazione di disposizioni legislative o regolamentari ( 31 ). In realtà la mancata osservanza di tali disposizioni è sanzionata direttamente con altri strumenti, pertanto la responsabilità per danno deve essere espressamente valutata caso per caso al fine di rintracciare eventuali comportamenti lesivi per il fondo che abbiano allo stesso causato un danno. 14. – Ancora più circoscritto è il caso della responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori (art. 2394 c.c.). A differenza della responsabilità nei confronti del fondo che ha origine contrattuale e trova il ( 31 ) Ad esempio il d.m. 14 gennaio 1997, n. 211 fissa (art. 3) l’elenco delle attribuzioni del consiglio di amministrazione. La nuova disciplina della previdenza complementare suo fondamento in un’inosservanza degli amministratori dei doveri ad essi spettanti in base al rapporto instaurato con l’ente, siamo qui di fronte a una responsabilità di natura extracontrattuale. Nello specifico la responsabilità degli amministratori sorge nella misura in cui essi mettano in atto comportamenti tali da incidere sulla « conservazione dell’integrità del patrimonio sociale » e quindi sia divenuto insufficiente per il soddisfacimento dei creditori dell’ente. Nel caso del fondo pensione occorre premettere che la sfera dei rapporti con i creditori risulta essere potenzialmente circoscritta per il fatto stesso che, non svolgendo il fondo un’attività economica in senso stretto (ed essendo di regola la gestione delle risorse conferita a soggetti esterni), anche le obbligazioni gravanti su di esso risultano essere abbastanza circoscritte (remunerazione delle prestazioni dei fornitori quali i gestori, la banca depositaria, ecc. nonché della struttura necessaria allo svolgimento della propria attività istituzionale). Peraltro il soddisfacimento delle pretese dei creditori di alcuni particolari servizi (ad esempio quello della gestione) prevede meccanismi di remunerazione imputabili direttamente al patrimonio amministrato (commissione di gestione) e avviene secondo modalità direttamente regolate da soggetti terzi (storno della banca depositaria sui conti indicati dei gestori). A ciò deve aggiungersi il fatto che le ipotesi di distrazione del patrimonio sono circoscritte anche dalla non disponibilità diretta delle risorse da parte del fondo di una operatività che è mediata attraverso l’intervento di un soggetto terzo, la banca depositaria. Da ultimo va sottolineato che le disponibilità del fondo sono allocate in due sezioni contabili distinte. La prima rappresenta l’attivo destinato alle prestazioni previdenziali e corrisponde alla somma delle posizioni individuali dei singoli aderenti per le quali opera un vincolo di destinazione. La seconda riguarda la parte delle risorse corrispondente alle quote associative utilizzate dal fondo per far fronte alle spese derivanti dalla propria attività operativa. Su questa seconda parte si può esercitare la rivalsa dei creditori. Così circoscritto, l’unico caso in cui teoricamente si potrebbe configurare l’ipotesi di distrazione del patrimonio può riguardare la di- 635 stribuzione delle eccedenze di fine periodo della sezione amministrativa sulle posizioni individuali che potrebbe sottrarre le disponibilità necessarie a far fronte agli impegni assunti nei confronti dei creditori. Va detto comunque che nella quasi totalità dei casi, proprio l’obbligo di riversare le eccedenze sulle posizioni personali, non consente di configurare questa posta di bilancio come una componente dello stato patrimoniale quanto come un appostamento del conto economico. A tale scopo essa viene periodicamente ricostituita attraverso il prelievo delle quote associative previste dallo statuto. Va da ultimo segnalato che, in ottemperanza alle disposizioni dell’autorità di vigilanza, ogni statuto determina un tetto di spesa, espresso in percentuale delle contribuzioni, determinata direttamente dallo statuto. Semmai la violazione di questo tetto di spesa, potrebbe in alcuni casi costituire presupposto di un danno procurato dagli amministratori anche se in questo caso gli stessi potrebbero in primo luogo essere chiamati in causa dagli associati in virtù dell’assunzione di una o più deliberazioni eccedenti (sul piano quantitativo) il mandato assunto. 15. – Il richiamo all’art. 2395 c.c. consente di affermare che l’azione di responsabilità che spetta alla società non preclude il diritto del singolo socio o del terzo al risarcimento del danno provocato da atti colposi o dolosi degli amministratori. Questa è la fattispecie più rilevante ai fini della responsabilità dell’amministratore in quanto afferisce direttamente al rapporto che si istaura con l’iscritto che conferisce le proprie risorse al fondo pensione. Tecnicamente infatti il fondo pensione, alla stregua di altri strumenti del risparmio gestito, non è altro che la sommatoria delle posizioni individuali dei singoli iscritti. Ogni comportamento dannoso dal punto di vista economico ha un impatto immediato nei confronti del singolo aderente. Proprio per questo motivo le casistiche che possono dar luogo ad un danno sulla singola posizione sono molteplici e vanno dalla situazione generale di atti che riguardano la gestione finanziaria delle risorse a fatti specifici che riguardano il singolo socio (ad esempio mancata od errata liquidazione della posizione, errato contabilizzatone delle contribuzioni, ecc.) In ogni caso affinché un iscritto possa far va- 636 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 lere la sua pretesa nei confronti degli amministratori deve sussistere il presupposto dell’esistenza di una lesione di un diritto individuale del socio (che non sia un mero riflesso del pregiudizio subito dal fondo ( 32 )). Peraltro la possibilità di rilevare direttamente il danno sono molto diversificate. Se nei casi specifici il danno è immediatamente accertabile come ad esempio nel caso di un errore nella liquidazione della posizione ovvero il mancato assolvimento di una richiesta di trasferimento della posizione tra due comparti, in altre situazioni di carattere più generale. Si pensi ad esempio a fatti che riguardano le scelte operate in campo gestionale per le quali non esiste, salvo i casi più gravi, la possibilità di una ricostruzione certa di quanto si sarebbe potuto verificare con un comportamento differente degli amministratori. 16. – Se il socio può in ogni caso far valere i propri diritti patrimoniali nei confronti dei soggetti che hanno determinato un danno che incida sulla consistenza della propria posizione previdenziale ovvero sulla disponibilità della stessa, il richiamo all’art. 2393 del c.c. consente all’associato al fondo pensione – ovvero al delegato, nel caso in cui sia prevista l’assemblea dei delegati – di promuovere in sede assembleare e per le specifiche fattispecie configurabili, un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, dei sindaci e del direttore generale. Il dettato della previsione consente di estendere la praticabilità di un’azione di responsabilità anche nei confronti del responsabile del fondo pensioni. Nel caso ricorrano i presupposti della violazione dell’obbligo degli amministratori di adempiere con la dovuta diligenza al proprio mandato ovvero quando ricorra la fattispecie del danno cagionato al fondo pensione dall’inosservanza di tale obbligo di comportamenti l’assemblea degli iscritti del fondo pensione (o dei loro delegati) può deliberare la promozione di un’azione di responsabilità nei confronti de- ( 32 ) Non sembra possibile, pertanto, che l’aderente al fondo pensione agisca direttamente contro gli amministratori per far valere un danno riflesso, ossia la conseguenza negativa sul suo patrimonio del danno che gli amministratori hanno cagionato al fondo. gli amministratori di fronte al Tribunale competente (sede del fondo) ( 33 ). Dal momento che la responsabilità degli amministratori ha carattere contrattuale, derivante dall’inosservanza del « patto » che essi hanno implicitamente sottoscritto con l’accettazione dell’incarico, il fondo dovrà semplicemente provare la circostanza riferita all’inadempimento dei propri doveri da parte degli amministratori. Ricade sui chiamati in causa l’onere di dover provare i fatti che valgano a escludere o ad attenuare la loro responsabilità ( 34 ). Una situazione particolarmente delicata si configura nel caso di fondi pensione che si siano strutturati sulla base della previsione di un’assemblea dei delegati che non contempli la partecipazione di rappresentanti dei datori di lavoro. In questo caso l’avvio dell’azione di responsabilità sarebbe assunta da una componente che è responsabile della nomina di solo una parte del consiglio di amministrazione ma avrebbe effetto nei confronti di tutti i componenti. Sebbene questa fattispecie presenti profili di forte criticità non sembrerebbero sussistere dubbi circa la possibilità dell’assemblea di agire nei confronti di tutti gli amministratori in quanto componenti di un organo collegiale di cui ogni singolo membro risponde in solido con tutti gli altri. Ciò vale soprattutto nei casi in cui l’oggetto dell’azione di responsabilità riguardi deliberazioni del consiglio che in quanto tali rappresentano l’espressione di una volontà collegiale, salvo che per i consiglieri che abbiamo espresso un voto contrario alla deliberazione. Dovrebbe risultare altrettanto legittima la delibera assembleare con cui contestualmente all’azione di responsabilità approvasse un provvedimento di revoca degli amministratori ( 35 ). In ( 33 ) Nel caso in cui il fondo sia in amministrazione straordinaria la promozione dell’azione di responsabilità spetta al commissario straordinario (art. 2394 bis c.c.) ( 34 ) Nel caso in cui l’azione di responsabilità fosse fondata sul principio generale dell’art. 2043 c.c. assumendo in questo modo carattere extracontrattuale l’onere della prova spetterebbe a chi agisce in giudizio. ( 35 ) La disciplina delle società per azioni prevede che la revoca sia automatica qualora la delibera sia assunta con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. Nel caso dei fondi pensione per i La nuova disciplina della previdenza complementare questo caso anche se la decisione assembleare avrebbe efficacia anche nei confronti di amministratori per i non compete la nomina la stessa sarebbe giustificata ai fini di rimuovere le situazioni di pregiudizio che hanno portato ad assumere la decisione stessa di promuovere l’azione di responsabilità. 17. – Un ultimo aspetto che deve essere indagato in tema di responsabilità riguarda i profili rientanti nell’ambito di applicazione del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Il riferimento alla responsabilità del fondo in quanto persona giuridica consente infatti di chiarire in che termini tale normativa trova applicazione nei confronti dell’ente fondo pensioni e allo stesso tempo di completare le considerazioni generali sulle responsabilità degli amministratori in particolari ambiti definiti dal decreto. Per quanto attiene al primo punto occorre considerare come il decreto del 2001 abbia introdotto nuove responsabilità per gli enti in conseguenza di comportamenti tenuti dall’ente stesso e dal proprio personale anche in posizione apicale. Il riconoscimento di una eventuale responsabilità configurata ai sensi del decreto al di là delle sanzioni pecuniarie potrebbe arrivare nei casi più gravi alla revoca all’autorizzazione ad operare, con tutta la catena di conseguenze che in entrambi i casi dovrebbero essere verificate. In realtà va considerato che la responsabilità dell’ente si configura con riferimento a reati che siano stati commessi allo scopo di procurare un vantaggio all’ente stesso (in questo caso il fondo pensione). La combinazione di questi due elementi, il reato e il procurato vantaggio illecito, riduce enormemente l’ambito di applicazione della fattispecie delineata dal decreto agli enti della previdenza complementare. Semmai alcune situazioni (operatività diretta in campo immobiliare) possono rilevare nei confronti delle quali l’assemblea non rappresenta l’espressione dei portatori del capitale sociale quanto genericamente degli associati, la norma dovrebbe essere intesa con riferimento al numero dei componenti all’assemblea. 637 forme previdenziali previgenti, per effetto della disciplina derogatoria vigente ( 36 ). Quello che comunque è interessante rilevare al fine di mettere a fuoco il secondo aspetto prima indicato attiene alle modalità attraverso le quali l’ente può sostenere legittimamente l’esclusione da ogni responsabilità. Secondo la disciplina sulla responsabilità degli enti giuridici tale responsabilità non ricorre nei casi in cui l’ente si sia dotato di un modello organizzativo atto ad evitare la possibilità che i reati contemplati possano essere compiuti e che lo stesso sia stato individuato sulla base di un’analisi delle aree di maggiore criticità ( 37 ). I riferimenti posti dalla norma impongono in primo luogo all’amministratore di monitorare l’eventuale sussistenza di aree di potenziale criticità in quanto ciò rientra nei compiti propri dell’organo di amministrazione. Allo stesso tempo il richiamo alla necessità di adottare un modello organizzativo adeguato costituisce un indicazione generale che va ben al di là dello stretto ambito di applicazione del decreto. Il modello organizzativo ex d.lgs. n. 231/01 non può essere infatti concepito come un sistema segregato rispetto al complessivo modello operativo e dei controlli del fondo. Le regole dettate nello specifico per la costruzione del modello ex d.lgs. n. 231/01 ( 38 ) possono, infatti, costituire il punto di partenza per l’integrazione dell’operatività del fondo con un sistema adeguato di controlli sufficiente a dimostrare l’assunzione da parte degli amministratori di un comportamento « professionalmente » adeguato in tema di organizzazione e controlli. Raffaele Bruni ( 36 ) Per una disamina dell’applicabilità del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 alle forme previdenziali previgenti si rimanda a Assoprevidenza (2004), d.lgs. n. 231/01: responsabilità amministrativa degli enti. Informativa, circolare n. 12 del 24 febbraio 2004. ( 37 ) Per la trattazione delle problematiche della costruzione del modello organizzativo ex 231 in un caso particolare del mondo finanziario (Banca) si veda ad esempio Aa.Vv., I controlli interni nelle banche. Evoluzione, metodi e casi pratici, Roma, 2003. ( 38 ) Si veda l’art. 6, comma 2o. 638 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Art. 6. (Regime delle prestazioni e modelli gestionali) 1. I fondi pensione di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a h), gestiscono le risorse mediante: a) convenzioni con soggetti autorizzati all’esercizio dell’attività di cui all’articolo 1, comma 5, lettera d), del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, ovvero con soggetti che svolgono la medesima attività, con sede statutaria in uno dei Paesi aderenti all’Unione europea, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento; b) convenzioni con imprese assicurative di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, mediante ricorso alle gestioni di cui al ramo VI dei rami vita, ovvero con imprese svolgenti la medesima attività, con sede in uno dei Paesi aderenti all’Unione europea, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento; c) convenzioni con società di gestione del risparmio, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e successive modificazioni, ovvero con imprese svolgenti la medesima attività, con sede in uno dei Paesi aderenti all’Unione europea, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento; d) sottoscrizione o acquisizione di azioni o quote di società immobiliari nelle quali il fondo pensione può detenere partecipazioni anche superiori ai limiti di cui al comma 13, lettera a), nonché di quote di fondi comuni di investimento immobiliare chiusi nei limiti di cui alla lettera e); e) sottoscrizione e acquisizione di quote di fondi comuni di investimento mobiliare chiusi secondo le disposizioni contenute nel decreto di cui al comma 11, ma comunque non superiori al 20 per cento del proprio patrimonio e al 25 per cento del capitale del fondo chiuso. 2. Gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie, sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, possono stipulare con i fondi pensione convenzioni per l’utilizzazione del servizio di raccolta dei contributi da versare ai fondi pensione e di erogazione delle prestazioni e delle attività connesse e strumentali anche attraverso la costituzione di società di capitali di cui debbono conservare in ogni caso la maggioranza del capitale sociale; detto servizio deve essere organizzato secondo criteri di separatezza contabile dalle attività istituzionali del medesimo ente. 3. ( 1 ) Alle prestazioni di cui all’articolo 11 erogate sotto forma di rendita i fondi pensione provvedono mediante convenzioni con una o più imprese assicurative di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, ovvero direttamente, ove sussistano mezzi patrimoniali adeguati, in conformità con le disposizioni di cui all’art. 7-bis. I fondi pensione sono autorizzati dalla COVIP all’erogazione diretta delle rendite, avuto riguardo all’adeguatezza dei mezzi patrimoniali costituiti e alla dimensione del fondo per numero di iscritti. 4. ( 2 ). 5. Per le forme pensionistiche in regime di prestazione definita e per le eventuali prestazioni per invalidità e premorienza, sono in ogni caso stipulate apposite convenzioni con imprese assicurative. Nell’esecuzione di tali convenzioni non si applica l’articolo 7. 5-bis. ( 3 ) Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentita la COVIP, sono individuati: a) le attività nelle quali i fondi pensione possono investire le proprie disponibilità, avendo ( 1 ) Comma modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 28/07. ( 2 ) Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. ( 3 ) Comma introdotto dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. La nuova disciplina della previdenza complementare 639 presente il perseguimento dell’interesse degli iscritti, eventualmente fissando limiti massimi di investimento qualora siano giustificati da un punto di vista prudenziale; b) i criteri di investimento nelle varie categorie di valori mobiliari; c) le regole da osservare in materia di conflitti di interesse tenendo conto delle specificità dei fondi pensione e dei principi di cui alla direttiva 2004/39/CE, alla normativa comunitaria di esecuzione e a quella nazionale di recepimento. 5-ter. ( 4 ) I fondi pensione definiscono gli obiettivi e i criteri della propria politica di investimento, anche in riferimento ai singoli comparti eventualmente previsti, e provvedono periodicamente, almeno con cadenza triennale, alla verifica della rispondenza degli stessi agli interessi degli iscritti. 5-quater. ( 5 ) Secondo modalità definite dalla COVIP, i fondi pensione danno informativa agli iscritti delle scelte di investimento e predispongono apposito documento sugli obiettivi e sui criteri della propria politica di investimento, illustrando anche i metodi di misurazione e le tecniche di gestione del rischio di investimento utilizzate e la ripartizione strategica delle attività in relazione alla natura e alla durata delle prestazioni pensionistiche dovute. Il documento è riesaminato almeno ogni tre anni ed è messo a disposizione degli aderenti e dei beneficiari del fondo pensione o dei loro rappresentanti che lo richiedano. 6. Per la stipula delle convenzioni di cui ai commi 1, 3 e 5, e all’articolo 7, i competenti organismi di amministrazione dei fondi, individuati ai sensi dell’articolo 5, comma 1, richiedono offerte contrattuali, per ogni tipologia di servizio offerto, attraverso la forma della pubblicità notizia su almeno due quotidiani fra quelli a maggiore diffusione nazionale o internazionale, a soggetti abilitati che non appartengono ad identici gruppi societari e comunque non sono legati, direttamente o indirettamente, da rapporti di controllo. Le offerte contrattuali rivolte ai fondi sono formulate per singolo prodotto in maniera da consentire il raffronto dell’insieme delle condizioni contrattuali con riferimento alle diverse tipologie di servizio offerte. 7. Con deliberazione delle rispettive autorità di vigilanza sui soggetti gestori, che conservano tutti i poteri di controllo su di essi, sono determinati i requisiti patrimoniali minimi, differenziati per tipologia di prestazione offerta, richiesti ai soggetti di cui al comma 1 ai fini della stipula delle convenzioni previste nel presente articolo. 8. Il processo di selezione dei gestori deve essere condotto secondo le istruzioni adottate dalla COVIP e comunque in modo da garantire la trasparenza del procedimento e la coerenza tra obiettivi e modalità gestionali, decisi preventivamente dagli amministratori, e i criteri di scelta dei gestori. Le convenzioni possono essere stipulate, nell’ambito dei rispettivi regimi, anche congiuntamente fra loro e devono in ogni caso: a) contenere le linee di indirizzo dell’attività dei soggetti convenzionati nell’ambito dei criteri di individuazione e di ripartizione del rischio di cui al comma 11 e le modalità con le quali possono essere modificate le linee di indirizzo medesime; nel definire le linee di indirizzo della gestione, i fondi pensione possono prevedere linee di investimento che consentano di garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del TFR; b) prevedere i termini e le modalità attraverso cui i fondi pensione esercitano la facoltà di recesso, contemplando anche la possibilità per il fondo pensione di rientrare in possesso del proprio patrimonio attraverso la restituzione delle attività finanziarie nelle quali risultano investite le risorse del fondo all’atto della comunicazione al gestore della volontà di recesso dalla convenzione; c) prevedere l’attribuzione in ogni caso al fondo pensione della titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le disponibilità del fondo medesimo. ( 4 ) Comma introdotto dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. ( 5 ) Comma introdotto dall’art. 1, comma 1o, del d.lgs. n. 28/07. 640 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 9. I fondi pensione sono titolari dei valori e delle disponibilità conferiti in gestione, restando peraltro in facoltà degli stessi di concludere, in tema di titolarità, diversi accordi con i gestori a ciò abilitati nel caso di gestione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale. I valori e le disponibilità affidati ai gestori di cui al comma 1 secondo le modalità ed i criteri stabiliti nelle convenzioni costituiscono in ogni caso patrimonio separato ed autonomo, devono essere contabilizzati a valori correnti e non possono essere distratti dal fine al quale sono stati destinati, né formare oggetto di esecuzione sia da parte dei creditori dei soggetti gestori, sia da parte di rappresentanti dei creditori stessi, né possono essere coinvolti nelle procedure concorsuali che riguardano il gestore. Il fondo pensione è legittimato a proporre la domanda di rivendicazione di cui all’articolo 103 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Possono essere rivendicati tutti i valori conferiti in gestione, anche se non individualmente determinati o individuati ed anche se depositati presso terzi, diversi dal soggetto gestore. Per l’accertamento dei valori oggetto della domanda è ammessa ogni prova documentale, ivi compresi i rendiconti redatti dal gestore o dai terzi depositari. 10. Con delibera della COVIP, assunta previo parere dell’autorità di vigilanza sui soggetti convenzionati, sono fissati criteri e modalità omogenee per la comunicazione ai fondi dei risultati conseguiti nell’esecuzione delle convenzioni in modo da assicurare la piena comparabilità delle diverse convenzioni. 11. ( 6 ). 12. I fondi pensione, costituiti nell’ambito delle autorità di vigilanza sui soggetti gestori a favore dei dipendenti delle stesse, possono gestire direttamente le proprie risorse. 13. ( 7 ) I fondi non possono comunque assumere o concedere prestiti, prestare garanzie in favore di terzi né investire le disponibilità di competenza: a) in azioni o quote con diritto di voto, emesse da una stessa società, per un valore nominale superiore al cinque per cento del valore nominale complessivo di tutte le azioni o quote con diritto di voto emesse dalla società medesima se quotata, ovvero al dieci per cento se non quotata, né comunque, azioni o quote con diritto di voto per un ammontare tale da determinare in via diretta un’influenza dominante sulla società emittente; b) in azioni o quote emesse da soggetti tenuti alla contribuzione o da questi controllati direttamente o indirettamente, per interposta persona o tramite società fiduciaria, o agli stessi legati da rapporti di controllo ai sensi dell’articolo 23 del decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, in misura complessiva superiore al venti per cento delle risorse del fondo e, se trattasi di fondo pensione di categoria, in misura complessiva superiore al trenta per cento; c) fermi restando i limiti generali indicati alla lettera b), i fondi pensione aventi come destinatari i lavoratori di una determinata impresa non possono investire le proprie disponibilità in strumenti finanziari emessi dalla predetta impresa, o, allorché l’impresa appartenga a un gruppo, dalle imprese appartenenti al gruppo medesimo, in misura complessivamente superiore, rispettivamente, al cinque e al dieci per cento del patrimonio complessivo del fondo. Per la nozione di gruppo si fa riferimento all’articolo 23 del decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385; c-bis). ( 8 ) Il patrimonio del fondo pensione deve essere investito in misura predominante su mercati regolamentati. Gli investimenti in attività che non sono ammesse allo scambio in un mercato regolamentato devono in ogni caso essere mantenute a livelli prudenziali. 14. Le forme pensionistiche complementari sono tenute ad esporre nel rendiconto annuale e, sinteticamente, nelle comunicazioni periodiche agli iscritti, se ed in quale misura nella gestione ( 6 ) Comma abrogato dall’art. 7, comma 1o del d.lgs. n. 28/07. ( 7 ) Comma modificato dall’art. 1, comma 5o, del d.lgs. n. 28/07. ( 8 ) Lettera introdotta dall’art. 1, comma 2o, del d.lgs. n. 28/07. La nuova disciplina della previdenza complementare 641 delle risorse e nelle linee seguite nell’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei valori in portafoglio si siano presi in considerazione aspetti sociali, etici ed ambientali. Art. 7. (Banca depositaria) 1. Le risorse dei fondi, affidate in gestione, sono depositate presso una banca distinta dal gestore che presenti i requisiti di cui all’articolo 38 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. 2. ( 9 ) La banca depositaria esegue le istruzioni impartite dal soggetto gestore del patrimonio del fondo, se non siano contrarie alla legge, allo statuto del fondo stesso e ai criteri stabiliti nel decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di cui all’articolo 6, comma 5-bis. 3. Si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni di cui al citato articolo 38 del decreto n. 58 del 1998. Gli amministratori e i sindaci della banca depositaria riferiscono senza ritardo alla COVIP sulle irregolarità riscontrate nella gestione dei fondi pensione. 3-bis. ( 10 ) Fermo restando quanto previsto dai commi 1, 2, e 3, quale banca depositaria può anche essere nominata una banca stabilita in un altro Stato membro, debitamente autorizzata a norma della direttiva 93/22/CEE o della direttiva 2000/12/CE, ovvero operante come depositaria ai fini della direttiva 85/611/CEE. 3-ter. ( 11 ) La Banca d’Italia può vietare la libera disponibilità degli attivi, depositati presso una banca avente sede legale in Italia, di un fondo pensione avente sede in uno Stato membro. La Banca d’Italia provvede su richiesta della COVIP, anche previa conforme iniziativa dell’Autorità competente dello Stato membro di origine del fondo pensione quando trattasi di forme pensionistiche comunitarie di cui all’articolo 15-ter. Art. 7 bis ( 12 ). (Mezzi patrimoniali) 1. I fondi pensione che coprono rischi biometrici, che garantiscono un rendimento degli investimenti o un determinato livello di prestazioni devono dotarsi, nel rispetto dei criteri di cui al successivo comma 2, di mezzi patrimoniali adeguati in relazione al complesso degli impegni finanziari esistenti, salvo che detti impegni finanziari siano assunti da soggetti gestori già sottoposti a vigilanza prudenziale a ciò abilitati, i quali operano in conformità alle norme che li disciplinano. 2. Con regolamento del Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la COVIP, la Banca d’Italia e l’ISVAP, sono definiti i principi per la determinazione dei mezzi patrimoniali adeguati in conformità con quanto previsto dalle disposizioni comunitarie e dall’articolo 29-bis, comma 3, lettera a), numero 3), della legge 18 aprile 2005, n. 62. Nel regolamento sono, inoltre, definite le condizioni alle quali una forma pensionistica può, per un periodo limitato, detenere attività insufficienti. 3. La COVIP può, nei confronti delle forme di cui al comma 1, limitare o vietare la disponibilità dell’attivo qualora non siano stati costituiti i mezzi patrimoniali adeguati in conformità al regolamento di cui al comma 2. Restano ferme le competenze delle autorità di vigilanza sui soggetti gestori. ( 9 ) Comma modificato dall’art. 1, comma 3o, del d.lgs. n. 28/07. ( 10 ) Comma introdotto dall’art. 3 del d.lgs. n. 28/07. ( 11 ) Comma introdotto dall’art. 3 del d.lgs. n. 28/07. ( 12 ) Articolo introdotto dall’art. 4 del d.lgs. n. 28/07. 642 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 La gestione delle risorse dei fondi pensione chiusi Sommario (artt. 6, 7, 7 bis): 1. Introduzione: la gestione delle risorse dei fondi pensione dal d.lgs. n. 124/93 al d.lgs. n. 252/05. – 2. L’ambito di applicazione delle disposizioni dell’art. 6, d.lgs. n. 252/05 relative alla gestione dei fondi pensione. – 3. La gestione delle risorse nelle forme pensionistiche complementari a prestazione definita. – 4. La gestione delle risorse nelle forme pensionistiche complementari a contribuzione definita: il favor del legislatore per la gestione indiretta delle risorse. – 4.1. La gestione diretta. – 4.2. La gestione indiretta (o convenzionata). – 4.2.1. Le convenzioni di gestione. – 4.2.2. Il regime del patrimonio conferito in gestione. – 4.2.3. I criteri di impiego delle risorse dei fondi pensione e i limiti agli investimenti. – 4.2.4. Le regole sul conflitto di interessi. – 4.2.5. La responsabilità sociale d’impresa nella gestione dei fondi pensione. – 4.2.6. Le convenzioni per i servizi accessori. – 5. L’erogazione delle prestazioni. – 6. La banca depositaria ex art. 7 d.lgs. n. 252. – 7. Conclusioni: la via interrotta della democrazia economica. 1. – La riforma della previdenza complementare attuata con il d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (di seguito anche: il decreto) non apporta consistenti modifiche alle disposizioni riguardanti la gestione delle risorse dei fondi pensione ( 13 ), per lo più concentrate negli artt. 6 del decreto qui commentato ( 14 ), e rispettivamente 6 ( 15 ), ( 13 ) Il rilievo della prima dottrina che si è cimentata nell’esegesi dell’art. 6 d.lgs. n. 252/05 (v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2006, pp. 6-7 e 38) è autorevolmente condiviso dalla COVIP (v. la deliberazione 28 giugno 2006 contenente « Direttive generali alle forme pensionistiche complementari, ai sensi dell’art. 23, comma 3o, del d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 », sub « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». Per un primo commento di questa deliberazione v. Mastantuono e Pellegrini, E la riforma va avanti, in Newsletter Mefop, 2006, 26, pp. 2-3). ( 14 ) Sul quale v. Gheido e Casotti, Le principali novità, in Aa.Vv., La riforma della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., 2006, ins. n. 3, p. IV; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, ibid., p. XII ss.; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit. ( 15 ) Tra i numerosi autori che hanno commentato questo articolo v. Mastrangeli, La disciplina dei fondi pensione nei decreti legislativi n. 124 e n. 585 del 1993, in Riv. it. dir. lav., 1994, I, pp. 161-163; Mantucci, Art. 6 – Regime delle prestazioni e mo- 6 ter del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124. Le novità erano prefigurate nell’art. 1, comma 2o della legge di delega 23 agosto 2004, n. 243, e in linea di massima l’art. 6, d.lgs. n. 252/05 si è mantenuto nei confini da esso tracciati. Così, l’art. 6, comma 8o, lett. a), ult. periodo, d.lgs. n. delli gestionali, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari (D.lgs. 21 aprile 1993, n. 124), a cura di Cinelli, in questa Rivista, 1995, pp. 193-195; Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, in Bancaria, 1996, 10, pp. 2 ss.; Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, in Contr. e impr., 1996, p. 1103 ss.; Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cinelli, Torino, 1996, p. 416 ss.; Brambilla, Capire i fondi pensione, Milano, 1997, p. 13 ss.; Candian, I fondi pensione, Milano, 1998, p. 42 ss. e 112 ss.; Ciocca, La libertà della previdenza privata, Milano, 1998, p. 152 ss.; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, in Banca impr. soc., 1999, p. 193 ss.; Bessone, Previdenza complementare, Torino, 2000, p. 263 ss.; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di Ferraro, I, Milano, 2000, p. 167 ss.; Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, Milano, 2002, p. 74 ss.; Salerno, La gestione finanziaria delle risorse dei fondi pensione, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p. 363 ss.; Bessone, Fondo pensione e discipline di contratto. Le convenzioni per la gestione finanziaria, in Dir. lav., 2002, I, p. 39 ss.; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, Milano, 2002, p. 101 ss.; Id., La gestione assicurativa delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle prestazioni complementari, in Assicurazioni, 2003, p. 508 ss.; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I. L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, Diritto del lavoro. Commentario, diretto da F. Carinci, IV, Torino, 2004, p. 340 ss.; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004, p. 245 ss.; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2005, p. 131 ss.; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit. La nuova disciplina della previdenza complementare 252/05 attua l’art. 1, comma 2o, lett. e), n. 10), l. n. 243/04 prevedendo la possibilità che i fondi inseriscano nelle convenzioni di gestione clausole relative a linee di investimento che consentano di garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del t.f.r.; l’art. 6, comma 14o, d.lgs. n. 252/05 dà seguito alla delega ex art. 1, comma 2o, lett. l), l. n. 243/04 disponendo per i fondi l’obbligo di menzionare nel rendiconto annuale e nelle comunicazioni periodiche agli iscritti se ed in quale misura la gestione delle risorse e l’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei valori sia stata improntata ai principi della responsabilità sociale d’impresa. Non è contenuta nell’art. 6 del decreto, ma riguarda comunque la gestione delle risorse dei fondi, la previsione in base alla quale le convenzioni di gestione non sono più soggette all’autorizzazione preventiva della Commissione di vigilanza sui fondi pensione (di seguito: COVIP) ( 16 ): in questo caso è l’art. 19, comma 2o, lett. d)-e), d.lgs. n. 252/05 che dà attuazione a quanto prescritto nell’art. 1, comma 2o, lett. h), n. 3), l. n. 243/04. Salvo qualche sporadica eccezione l’art. 6, d.lgs. n. 252 riordina mantenendosi fedele al testo originario il materiale contenuto negli artt. 6 e 6 ter, d.lgs. n. 124. Con riferimento a questo articolo sono dunque meno pressanti i dubbi di eccesso di delega sollevati da attenta dottrina ( 17 ) con riferimento ad altre parti del decreto, nelle quali il legislatore delegato si è esercitato in maniera meno aderente al testo del d.lgs. n. 124 e all’art. 1, comma 1o, lett. c) ( 16 ) L’art. 1, comma 3o, lett. c), d.lgs. n. 252 aveva mutato la denominazione della COVIP in « Commissione di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari »; il successivo d.l. 13 novembre 2006, n. 279 è ritornato al nome originale (art. 2), e la modifica è stata confermata dalla legge finanziaria per il 2007 (art. 1, comma 751o, l. 27 dicembre 2006, n. 296). Peraltro, il d.d.l. in materia di funzioni, organizzazione e attività delle Autorità indipendenti di regolazione, vigilanza e garanzia dei mercati, approvato dal Consiglio dei ministri del 2 febbraio 2007, prevede la soppressione della COVIP e la ripartizione delle funzioni da essa esercitate tra la Banca d’Italia e la CONSOB. ( 17 ) V. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, I, pp. 146-148. 643 e comma 2o, lett. e), h), i), l), e v), l. n. 243/04. Com’è noto, infatti, il d.lgs. n. 252/05 dà attuazione soltanto all’art. 1, comma 1o, lett. c) e comma 2o, lett. e), h), i), l), e v) della l. n. 243/ 04, e precisamente alla parte che prevede la riforma della disciplina vigente dettando puntuali criteri direttivi; il decreto non richiama invece l’art. 1, comma 50o, che incarica il Governo di apprestare uno o più testi unici in materia di previdenza obbligatoria e di previdenza complementare, consentendo al legislatore delegato una maggiore autonomia anche a fini di semplificazione e coordinamento ( 18 ). Per questo motivo, qualsiasi formulazione innovativa del decreto che non trovi puntuale riscontro nell’art. 1, comma 2o, l. n. 243/04 potrebbe rivelarsi incostituzionale sotto il profilo dell’eccesso di delega. È pertanto da condividere l’indicazione metodologica che si pone l’obiettivo di salvaguardare la legittimità costituzionale del decreto, favorendo per quanto possibile un’interpretazione dello stesso che si ponga in continuità con il d.lgs. n. 124/93 nei punti in cui le innovazioni non trovino copertura nella delega ex art. 1, comma 2o, l. n. 243/ 04 ( 19 ) (condivide questo approccio interpretativo Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 1). Il quadro di sostanziale continuità tra l’art. 6, d.lgs. n. 252 e gli artt. 6 e 6 ter, d.lgs. n. 124/93 è stato solo marginalmente inciso dal decreto legislativo n. 28, approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 2 febbraio 2007. Il d.lgs. n. 28/07 reca disposizioni di « attuazione della dir. 2003/41/CE in tema di attività e di supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali » in esecuzione della delega conferita al Governo dall’art. 29 bis della legge comunitaria 18 aprile 2005, n. 62, introdotto dall’art. 18 della legge 25 gennaio ( 18 ) Peraltro si sono espressi fondati dubbi sul fatto che questa disposizione sia sufficiente per « dare copertura oltre certi limiti a misure del tutto innovative »: così Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 147. ( 19 ) V. in questo senso Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 148. 644 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 2006, n. 29. L’art. 1, d.lgs. n. 28/07 inserisce nell’art. 6, d.lgs. n. 252/05 i commi 5o bis, 5o ter e 5o quater, mentre l’art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07 abroga contestualmente il comma 11o dell’art. 6, d.lgs. n. 252. La nuova disciplina si caratterizza in particolare per l’imposizione a carico dei fondi pensione di più penetranti obblighi di trasparenza nei confronti degli iscritti sulle proprie scelte di investimento. L’art. 1, comma 2o, d.lgs. n. 28/07 aggiunge invece al comma 13o dell’art. 6, d.lgs. n. 252 una lett. c bis): l’obiettivo è quello di indirizzare gli investimenti dei fondi pensione in modo predominante verso i mercati regolamentati. Si tratta senza dubbio di modifiche importanti: tuttavia, come si vedrà nei luoghi opportuni, esse non alterano i tratti essenziali che la disciplina della gestione delle risorse dei fondi pensione ex d.lgs. n. 252 ha ereditato dal d.lgs. n. 124/93. La continuità del d.lgs. n. 252 rispetto alla disciplina previgente in materia di gestione delle risorse dei fondi pensione si spiega anche con la circostanza che, dopo il varo del d.lgs. n. 124/93, i necessari aggiustamenti erano già stati operati dalla l. n. 335/95 ( 20 ). In particolare, la direzione intrapresa era stata, da un lato, quella di un incremento della competizione tra i gestori al fine di un più redditizio impiego delle risorse dei fondi; dall’altro lato, quella di una maggiore tutela del patrimonio dei fondi stessi nell’ottica di una più efficace protezione del risparmio previdenziale; dall’altro lato ancora, quella del potenziamento della democrazia azionaria mediante un più diretto coinvolgimento dei fondi pensione nelle dinamiche delle società in cui risultava investito il loro patrimonio. Per un verso, le disposizioni introdotte incrementavano il numero degli intermediari finanziari abilitati alla gestione delle risorse dei fondi, aggiungendo le società di gestione del risparmio; eliminavano invece dal novero dei soggetti abilitati gli enti gestori di ( 20 ) In particolare dall’art. 3, comma 26o, che aveva abbondantemente novellato l’originario art. 6 del d.lgs. n. 124/93. Su queste modifiche v. diffusamente Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 124 ss.; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 37 ss. forme di previdenza obbligatoria ( 21 ); introducevano un procedimento di evidenza pubblica per la stipulazione delle convenzioni di gestione. Per altro verso, le nuove disposizioni chiarivano la natura separata e autonoma del patrimonio dei fondi pensione conferito in gestione agli intermediari. Per altro verso ancora, affermavano espressamente il principio della titolarità in capo ai fondi dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultavano investite le risorse. Successivamente l’art. 71, comma 3o, lett. c), l. n. 144/99 aggiungeva al d.lgs. n. 124 un nuovo art. 6 ter, che estendeva la particolare procedura di evidenza pubblica anche alle convenzioni diverse da quelle di gestione. 2. – L’art. 6 d.lgs. n. 252/05 presenta un ambito di applicazione più ampio rispetto a quello del corrispondente articolo del d.lgs. n. 124/93. Quest’ultima disposizione era ritenuta pacificamente applicabile nella sua interezza soltanto ai fondi chiusi di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 124 ( 22 ). Ora però l’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 richiama tutte le forme pensionistiche complementari che il nuovo art. 1, comma 3o definisce « collettive » ( 23 ): esso infatti si riferisce ai « fondi pen- ( 21 ) I primi commentatori avevano messo in evidenza i rischi che avrebbe potuto rappresentare la presenza degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza per il nascente mercato della gestione delle risorse di fondi pensione. Da un lato, enti a capillare diffusione sul territorio come l’INPS avrebbero potuto costituire una concorrenza insormontabile per gli altri soggetti desiderosi di entrare in questo ricco business. Dall’altro lato, la situazione non particolarmente florida di enti pubblici come l’INPS ne sconsigliava il coinvolgimento nel secondo pilastro del sistema pensionistico. Cfr. Mantucci, Art. 6 – Regime delle prestazioni e modelli gestionali, cit., p. 194, anche alla nt. 7; Gai, I fondi pensione. Il loro contributo allo sviluppo dei mercati finanziari e all’avvento della democrazia economica, Torino, 1996, pp. 87-88. ( 22 ) V. Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, in Banca, borsa, tit. cred., 1996, I, pp. 335-336. ( 23 ) Sulle criticità di questa nuova definizione, v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., pp. 151-154, per il quale « una caratteristica comune delle forme collettive è, forse, da individuare nella destinazione delle stesse ad aree di (potenziali) aderenti più o meno am- La nuova disciplina della previdenza complementare sione di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a h) ». Così in particolare rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 6 anche le forme pensionistiche istituite dalle regioni e disciplinate secondo loro leggi regionali [art. 3, comma 1o, lett. d), d.lgs. n. 252] ( 24 ); quelle istituite dalle Casse professionali, direttamente o a seguito di contratto collettivo o accordo tra liberi professionisti [art. 3, comma 1o, lett. g), d.lgs. n. 252] ( 25 ); nonché i fondi pensione aperti (si deve ritenere soltanto con riferimento all’adesione su base collettiva ex art. 12, comma 2o, d.lgs. n. 252) ( 26 ) [art. 3, comma 1o, lett. h), d.lgs. n. 252]. L’applicazione dell’art. 6 a queste nuove ipotesi crea qualche problema di compatibilità. Pare certo opportuno che i fondi pensione isti- pie, ma comunque in qualche modo circoscritte nell’ambito dei potenziali destinatari della previdenza complementare » (p. 152) (sembra condividere implicitamente questa interpretazione anche la Deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Definizioni »); Tursi, Le fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, in Newsletter Mefop, 2006, 25, p. 5; Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 5. ( 24 ) In questo senso anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». Sui problemi interpretativi posti dall’inclusione di questa nuova forma pensionistica complementare (che non vale a fugare i dubbi che il d.lgs. n. 252 solleva non soltanto in riferimento ad un eventuale eccesso di delega, ma anche alla violazione della competenza legislativa concorrente che spetta alle Regioni ex art. 117, comma 3o, Cost. in materia di previdenza complementare) v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., pp. 156-159; Bollani, sub art. 3, in questo Commentario, par. 5; Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 1. ( 25 ) In questo senso anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». L’introduzione di questa nuova fonte istitutiva ha anticipato l’entrata in vigore della riforma complessiva: l’art. 1, comma 35o, l. n. 243/04 aveva infatti già modificato in questa direzione l’art. 3, d.lgs. n. 124/93, prevedendo un nuovo comma 1o bis, in tutto analogo all’art. 3, comma 1o, lett. g), d.lgs. n. 252. ( 26 ) Cfr. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Definizioni ». 645 tuiti dalle Regioni affidino la gestione dei contributi raccolti ad un gestore professionale ex art. 6, comma 1o, e rispettino le altre disposizioni dell’art. 6 in materia di convenzioni di gestione, limiti agli investimenti, conflitti di interesse e responsabilità sociale d’impresa. È tuttavia dubbio che la disciplina tracciata dall’art. 6, anche per come completata dalle disposizioni di natura regolamentare adottate in attuazione di essa, si limiti ai « principi fondamentali » come richiesto dall’art. 117, comma 3o, ult. cpv., Cost. nelle materie di legislazione concorrente, cui anche la previdenza complementare, com’è noto, appartiene ( 27 ). Sembra poi curioso che le Casse professionali possano istituire fondi di previdenza complementare per i propri iscritti senza essere abilitate alla gestione diretta delle risorse al di fuori dei limiti tracciati per tutti i fondi pensione chiusi dall’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252. Ha probabilmente pesato un po’ di sfiducia del legislatore per questi enti privatizzati alla metà degli anni ’90, la cui esperienza di gestione diretta di risorse pensionistiche non va al di là di quella resa possibile dal metodo della ripartizione e, più recentemente, di quello a capitalizzazione « virtuale » ex lege n. 335/95 ( 28 ). L’estensione della disciplina ex art. 6, comma 1o, ai fondi pensione aperti, anche eventualmente soltanto nel caso di adesione su base collettiva, è invece del tutto irrazionale. Da un lato l’art. 6, comma 1o, richiamando i fondi pensione aperti, limita fortemente il ricorso alla gestione diretta delle risorse. Dall’altro lato, l’art. 12, comma 1o, risolvendo testualmente un dubbio che l’imperfetta formulazione del precedente art. 9 d.lgs. n. 124/93 lasciava astrattamente sus- ( 27 ) Sull’equivoco in cui è caduto il legislatore nella stesura di questa previsione del d.lgs. n. 252 v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., pp. 156-159; Tursi, Le fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, cit., p. 5. ( 28 ) Perplessità analoghe avevano condotto nel 1995 all’eliminazione degli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria dal novero dei soggetti abilitati alla gestione delle risorse dei fondi pensione: cfr. Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1105, nt. 7. 646 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 sistere ( 29 ), stabilisce che banche, società di investimento mobiliare, assicurazioni, società di gestione del risparmio « possono istituire e gestire direttamente forme pensionistiche complementari mediante la costituzione di appositi fondi [...] aperti ». Si è evidentemente in presenza di un difettoso coordinamento tra gli artt. 3, comma 1o, 6, comma 1o e 12 del d.lgs. n. 252/ 05. Infatti, non ha davvero alcun senso imporre a gestori professionali in gran parte coincidenti ( 30 ) con quelli abilitati alla gestione delle risorse dei fondi chiusi ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 di ricorrere ad un concorrente per inve- 29 ( ) Cfr. Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., p. 335. ( 30 ) La versione originaria dell’art. 12, comma 1o, d.lgs. n. 252 richiamava espressamente tutti i soggetti abilitati alla gestione delle risorse dei fondi pensione chiusi ex art. 6, comma 1o. L’art. 12, comma 1o è stato però recentemente novellato dall’art. 1, comma 6o, d.lgs. n. 28/07, che ha sostituito questo richiamo generico con uno più specifico alle SIM e alle SGR nazionali, alle banche e alle assicurazioni autorizzate all’esercizio dell’attività in Italia. Il campo di applicazione dell’art. 12, comma 1o ne esce al tempo stesso in parte più ampio e in parte più ristretto: le SIM e le SGR estere non risultano più autorizzate ad istituire e gestire fondi pensione aperti, nemmeno se stabilite in Paesi che hanno ottenuto il mutuo riconoscimento, mentre, stando alla lettera della novella, d’ora innanzi anche le assicurazioni diverse da quelle appartenenenti al ramo VI dei rami vita potrebbero istituire e gestire fondi pensione aperti. La ratio della novella non appare agevolmente comprensibile. La riserva di attività per SIM e SGR italiane si giustifica forse con l’accesso diretto al mercato del nostro Paese di cui ora godono i fondi pensione degli altri Stati dell’Unione europea grazie al nuovo art. 15 ter, d.lgs. n. 252/05 (introdotto dall’art. 5, comma 1o, d.lgs. n. 28/07). Quanto al riferimento generico a tutte le imprese assicuratrici, sembra consigliabile un’esegesi in continuità con il dato normativo previgente, che riservava l’istituzione e gestione dei fondi aperti alle sole assicurazioni di ramo VI dei rami vita. In questo senso sembrano comunque deporre gli argomenti di carattere sistematico desumibili dagli artt. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 e 2, comma 1o, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private – di seguito: c.a.p.): infatti, tra le imprese assicurative dei rami vita soltanto quelle del ramo VI svolgono un’attività di gestione puramente finanziaria, senza alcun contenuto assicurativo. V. infra anche alle nt. 51 e 114. Su tutte queste problematiche v. più diffusamente Pallini, sub art. 12, in questo Commentario. stire in strumenti finanziari ( 31 ) le risorse del fondo aperto che essi hanno costituito! In questo caso l’interpretazione in continuità con quella affermatasi nella vigenza del d.lgs. n. 124/93 ( 32 ) si giustifica anche in relazione alla scarsa copertura che la legge di delega offrirebbe ad una innovazione di questo tipo ( 33 ). Si deve dunque concludere per l’inapplicabilità dell’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252/05 ai fondi pensione aperti: questi ultimi saranno pertanto costituiti nella forma del patrimonio di destinazione ad opera dei soggetti di cui all’art. 12, comma 1o, d.lgs. n. 252 ( 34 ) (come modificato ad ( 31 ) Diversi dalle azioni o quote di società immobiliari e dalle quote di fondi comuni di investimento mobiliare o immobiliare chiusi: cfr. l’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252/05. ( 32 ) Nel senso della continuità sembrerebbe deporre anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari », quando afferma che in punto di gestione « il decreto sostanzialmente conferma l’attuale disciplina ». ( 33 ) V. retro il par. 1. ( 34 ) Secondo la COVIP la forma del patrimonio di destinazione è l’unica utilizzabile per la costituzione di fondi pensione aperti: v. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Costituzione dei fondi pensione e autorizzazione all’esercizio ». L’art. 4, d.lgs. n. 252 sembrerebbe ammettere anche la costituzione come associazione riconosciuta o non riconosciuta, ovvero come fondazione. Questa disposizione, infatti, dopo aver stabilito in via generale al comma 1o che i fondi pensione sono costituiti come associazione riconosciuta o non riconosciuta, ovvero come fondazione, aggiunge al comma 2o che i fondi aperti « possono essere costituiti altresì nell’ambito della singola società [...] attraverso la formazione [...] di un patrimonio di destinazione ». Questa apparente facoltà di scelta, che è evidentemente priva di senso per i fondi aperti, è prontamente smentita dall’art. 12, comma 1o, d.lgs. n. 252, che fa riferimento esclusivamente alla forma del patrimonio di destinazione rinviando al solo comma 2o dell’art. 4. La formulazione difettosa dell’art. 4 è dimostrata anche dalla lettura combinata degli artt. 4, commi 1o e 2o, e 9, comma 1o, d.lgs. n. 124/93, che non davano invece adito ad alcun equivoco e stabilivano la sola forma del patrimonio di destinazione per i fondi aperti [in dottrina v. per tutti Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, Padova, 1998, p. 119; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione II – Fondi La nuova disciplina della previdenza complementare opera dell’art. 1, comma 6o, d.lgs. n. 28/07), e tali soggetti gestiranno direttamente ( 35 ) le risorse raccolte nel rispetto della specifica disciplina di settore ad essi applicabile in materia di limiti di investimento e conflitti di interesse ( 36 ). Tuttavia, le disposizioni dell’art. 6 in materia di limiti all’investimento e conflitti di interesse (art. 6, commi 5o bis e 13o, d.lgs. n. 252, come modificato dal d.lgs. n. 28/07), nonché di responsabilità sociale d’impresa (art. 6, comma 14o) si applicheranno, per quanto possibile e alla stregua di lex specialis, anche ai fondi pensione aperti ( 37 ): infatti, queste disposizioni sono pensione aperti. L’offerta di mercato e le regole di gestione del portafoglio previdenziale, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 396-397]. È questo dunque un caso eclatante in cui è necessario utilizzare il criterio interpretativo della continuità con la disciplina previgente, menzionato retro al par. 1. ( 35 ) Ciò non toglie ovviamente che il soggetto promotore del fondo pensione aperto possa ricorrere ad un’altra società di cui all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 per l’esecuzione di specifici incarichi di investimento: cfr. in questo senso la deliberazione COVIP 16 settembre 1997, recante « Orientamenti in materia regolamentare: Fondi pensione aperti in regime di contribuzione definita »; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione II – Fondi pensione aperti. L’offerta di mercato e le regole di gestione del portafoglio previdenziale, cit., p. 406; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 250. Se lo desiderano, pur non essendovi vincolati, come si è sottolineato nel testo, i soggetti promotori del fondo pensione aperto potranno inoltre applicare « la ripartizione tra istituzione e gestione », affidando ad altri soggetti abilitati la gestione dell’intero patrimonio del fondo: così Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 331; analogamente Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 250. ( 36 ) Significativamente, del resto, l’art. 12, comma 3o, d.lgs. n. 252 richiama per i fondi pensione aperti le norme del decreto legislativo in tema « finanziamento, prestazioni e trattamento tributario », ma non di gestione. La maggior parte delle disposizioni dell’art. 6 presuppongono infatti il rapporto fondo-gestore: cfr. Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., pp. 335-336. ( 37 ) Contra però, con riferimento alle corrispondenti disposizioni dell’art. 6 d.lgs. n. 124/93, Volpe 647 ispirate a ragioni di tutela del risparmio previdenziale e rispettivamente di promozione di una cultura d’impresa socialmente responsabile che si giustificano pienamente anche nell’ottica dei fondi pensione aperti. L’art. 6 d.lgs. n. 252/05 è sicuramente inapplicabile alle forme pensionistiche complementari individuali attuate tramite contratti di assicurazione sulla vita: a tacere del mancato richiamo da parte dell’art. 6, comma 1o, l’art. 13, comma 3o stabilisce che la gestione delle risorse di tali forme pensionistiche « avviene secondo le regole d’investimento di cui al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 » (il Codice della assicurazione private – di seguito: c.a.p.). Secondo l’art. 13, comma 3o (come modificato dall’art. 1, comma 4o, d.lgs. n. 28/07) le assicurazioni dovranno comunque rispettare i « principi di cui all’art. 6, comma 5o bis, lett. c) », ovvero le disposizioni in materia di conflitto di interessi stabilite dalla normativa regolamentare ( 38 ). Si deve ritenere applicabile alle forme pensionistiche complementari individuali attuate tramite contratti di assicurazione sulla vita anche la disposizione in materia di responsabilità sociale d’impresa (art. 6, comma 14o) ( 39 ): l’obbligo di comunicazione in essa contenuto risulta di applicazione generale (« le forme pensionistiche complementari sono tenute »), come conferma anche la legge delega ( 40 ), e non sorgono particolari problemi nell’estenderlo alle forme pensionistiche attuate dalle assicurazioni ( 41 ). Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., pp. 335-336; Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 332. Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, in Riv. dir. impr., 1999, p. 295, nota che, in materia di conflitto di interessi, « il discorso riguarda essenzialmente i fondi pensione chiusi – ove la istituzionale separatezza tra il momento della raccolta e il momento della gestione prelude a quella proliferazione di soggetti che [...] rappresenta il brodo di coltura del conflitto di interessi ». ( 38 ) Sulla quale v. infra il par. 4.2.4. ( 39 ) Sulla quale v. infra il par. 4.2.5. ( 40 ) Cfr. l’art. 1, comma 2o, lett. l), l. n. 243/04: « prevedere che tutte le forme pensionistiche complementari siano tenute ». ( 41 ) In questo senso anche la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complemen- 648 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 L’art. 6 d.lgs. n. 252 si applica poi integralmente alla forma pensionistica complementare residuale costituita presso l’INPS, denominata FONDINPS ( 42 ), che raccoglie ex art. 8, comma 7o, n. 3) il t.f.r. maturando inoptato che non venga destinato automaticamente ex art. 8, comma 7o, nn. 2) e 3) ad altre forme pensionistiche complementari. In questo senso dispone l’art. 9, comma 1o, ult. periodo, d.lgs. n. 252, secondo il quale « tale forma pensionistica è integralmente disciplinata dalle norme del presente decreto ». L’applicazione integrale dell’art. 6 a FONDINPS trova conferma anche nel d.i. 30 gennaio 2007 (decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale e del Ministro dell’economia e finanze), che è intervenuto ad attuare (anche) l’art. 9 d.lgs. n. 252. L’art. 5, comma 1o del capo II del d.i. richiama espressamente l’art. 6, comma 3o, d.lgs. n. 252 in materia di erogazione delle prestazioni ( 43 ). Per la gestione dei servizi amministrativi e contabili di FONDINPS, nonché per le modalità di raccolta dei contributi e di erogazione delle prestazioni l’art. 5, d.i. impone a FONDINPS la stipulazione di una apposita convenzione con l’INPS al fine di « garantire la separatezza patrimoniale, amministrativa e contabile »: in questo modo si adatta alle peculiarità di FONDINPS la disposizione dettata per la generalità dei fondi pensione negoziali dall’art. 6, comma 2o, d.lgs. n. 252. In questo quadro, il silenzio del d.i. in punto di modalità di gestione delle risorse di FONDINPS rafforza l’ipotesi dell’applicabilità del regime generale ex art. 6. L’imposizione anche all’INPS del ricorso ad uno o più gestori professionali al di fuori dei casi marginali di gestione diretta consentiti dall’art. 6, comma 1o sembra da ricondurre non soltanto ad una certa sfiducia nella gestione diretta dell’istituto ( 44 ), ma anche tari »: « l’obbligo farà carico a tutte le forme pensionistiche complementari, collettive e individuali ». ( 42 ) V. l’art. 2, comma 1o, del capo II del d.i. 30 gennaio 2007. ( 43 ) Sulle quali v. infra il par. 5. ( 44 ) Già in sede di primo commento all’originario art. 6 d.lgs. n. 124/93, che contemplava la possibilità dei fondi di ricorrere alla gestione convenzionata anche con enti gestori di forme di previdenza obbligatoria (tra cui l’INPS – v. infra il par. 4.2.6), si metteva in dubbio « la disponibilità da parte degli istituti previdenziali delle professionalità necessarie per il con- e soprattutto all’intento del legislatore di garantire a tutte le forme pensionistiche complementari, compresa quella residuale, uguali condizioni di gestione del patrimonio da parte di operatori professionali ( 45 ). Alle forme pensionistiche complementari preesistenti non si applicano le disposizioni dell’art. 6 in materia di modelli gestionali e di relative convenzioni (art. 20, comma 1o, d.lgs. n. 252), né quelle sui limiti di investimento e sui conflitti di interesse ( 46 ). Peraltro, l’art. 20, com- seguimento degli obbiettivi che dovrebbero caratterizzare i fondi integrativi, finanziati con il sistema della capitalizzazione anziché con quello, proprio della previdenza pubblica, della ripartizione » (così Mantucci, sub art. 6 – Regime delle prestazioni e modelli gestionali, cit., p. 195). ( 45 ) Contra, però, Garcea, sub art. 9, in questo Commentario, par. 5, secondo il quale l’INPS potrebbe gestire anche direttamente le risorse di FONDINPS, senza essere tenuto a ricorrere allo strumento delle convenzioni di gestione con i soggetti di cui all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 (sulle quali v. infra il par. 4.2.1). ( 46 ) Con riferimento al quadro normativo risultante dal d.lgs. n. 124 cfr. Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 267-269; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 181; Bessone, I fondi pensione « preesistenti ». Le forme organizzative, la gestione finanziaria e le disposizioni di principio dell’art. 18, d.lg. n. 124 del 1993, in Giur. merito, 2003, IV, p. 2648. Per quanto riguarda l’art. 6 d.lgs. n. 124/93 l’art. 18, comma 1o, d.lgs. n. 124/93 escludeva tout court l’applicazione ai fondi preesistenti delle disposizioni in materia di modelli gestionali, mentre l’art. 18, comma 2o prevedeva l’emanazione di specifiche disposizioni regolamentari attuative delle norme sui limiti di investimento e sui conflitti di interesse, la cui applicazione sarebbe rimasta nel frattempo sospesa. L’art. 20 d.lgs. n. 252, da un lato ribadisce l’inapplicabilità delle disposizioni in materia di modelli gestionali, ma soltanto fino all’emanazione di uno o più appositi decreti (comma 1o); dall’altro lato, stabilisce in via generale che i fondi preesistenti « devono adeguarsi alle disposizioni » del decreto n. 252 « secondo i criteri, le modalità e i tempi stabiliti [...] con uno o più decreti » interministeriali (comma 2o). Poiché le apposite disposizioni regolamentari di cui all’art. 18, comma 2o, d.lgs. n. 124 non sono mai state emanate, sembra corretto ritenere che le norme dell’art. 6 in materia di limiti agli investimenti e conflitti di interesse non trovino applicazione per i fondi preesistenti fino all’emanazione del decreto interministeriale ex art. 20, comma 2o, d.lgs. n. 252. V. per spunti in questo senso Mastan- La nuova disciplina della previdenza complementare ma 2o prevede un progressivo adeguamento al d.lgs. n. 252, i cui ritmi e modalità sono stabiliti da uno o più decreti interministeriali adottati dal Ministero dell’economia e delle finanze di concerto con il Ministro del lavoro ( 47 ) (sulla complessa interpretazione del regime intertemporale riguardante i fondi preesistenti v. Occhino, sub art. 20, commi 1o e 2o, in questo Commentario). Tuttavia, sembra di poter ritenere di immediata applicabilità quanto meno la disposizione in materia di responsabilità sociale d’impresa. L’art. 6 d.lgs. n. 252 non si applica alle forme pensionistiche complementari per i lavoratori del pubblico impiego, per le quali resta integralmente in vigore il d.lgs. n. 124/93 fino all’emanazione del d.lgs. di attuazione dell’art. 1, comma 2o, lett. p), l. n. 243/2004 ( 48 ). 3. – L’art. 6 d.lgs. n. 252/05 conferma il diverso regime gestionale per i fondi pensione a contribuzione definita e per quelli a prestazione definita. A questi secondi il legislatore continua a dedicare un’attenzione fuggevole ( 49 ): forse anche per questo motivo la prassi si è sostanzialmente tuono, Fondi pensione preesistenti: è il momento della riforma, in Newsletter Mefop, 2006, 27, p. 11. ( 47 ) Per quanto riguarda l’art. 6 d.lgs. n. 252, l’art. 5 della bozza di decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale prevede un adeguamento progressivo entro un lasso di tempo che va dai 3 ai 5 anni. Il decreto mantiene peraltro per i fondi pensione preesistenti una disciplina derogatoria per larghi tratti da quella comune: tra l’altro essi potranno continuare a gestire direttamente le proprie risorse, ad effettuare direttamente investimenti immobiliari, a concedere e ad assumere prestiti, benché a determinate condizioni (art. 5, comma 2o). ( 48 ) A quanto consta non ancora emanato: v. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Ambito di applicazione del decreto n. 252/2005: obblighi di adeguamento ». ( 49 ) Con riferimento alla disciplina pregressa il rilievo è comune: v. Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., p. 127; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 124; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 344. 649 disinteressata di essi ( 50 ). L’art. 6, comma 5o si limita a ribadire che nel caso di forme pensionistiche in regime di prestazione definita, come anche nel caso in cui il fondo offra prestazioni per invalidità e premorienza, è obbligatorio il ricorso alla stipulazione di apposite convenzioni con imprese assicurative. In questi casi, infatti, la prestazione del fondo si sostanzia nel pagamento del « capitale » o di « una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana », ex art. 1882 c.c. ( 51 ): ne consegue necessaria- ( 50 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 170, nt. 9; Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 200. Soltanto una minoranza dei fondi pensione preesistenti al d.lgs. n. 124/93 opera in regime di prestazione definita, mentre ad oggi la totalità dei fondi pensione costituiti ai sensi di questo decreto funziona in regime di contribuzione definita: cfr. COVIP, Relazione per l’anno 2005, consultabile sul sito www.covip.it, p. 24. ( 51 ) V. anche l’art. 2, comma 1o, c.a.p., con riferimento ai rami I (assicurazioni sulla durata della vita umana) e IV (assicurazione per il rischio di invalidità) della classificazione delle assicurazioni dei rami vita: sono dunque soltanto le assicurazioni appartenenti a questi due rami quelle autorizzate alla stipulazione delle convenzioni (v. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 40). Cfr. nel senso che soltanto le imprese assicurative del ramo I dei rami vita possono stipulare le convenzioni con i fondi pensione che operano in regime di prestazione definita v. Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1112-1113; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 199; Spolidoro, sub art. 2, in La nuova disciplina dell’impresa di assicurazione sulla vita in attuazione della terza direttiva. Commentario del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174, a cura di Partesotti e Ricolfi, Padova, 2000, p. 67. Poco condivisibili le argomentazioni secondo le quali sarebbero abilitate alla stipulazione di queste convenzioni invece soltanto le imprese assicurative del ramo VI (che svolgono operazioni di gestione di fondi collettivi costituiti per l’erogazione di prestazioni in caso di morte, in caso di vita o in caso di cessazione o riduzione dell’attività lavorativa), in analogia con quanto previsto dall’art. 6, comma 1o, lett. b), che richiama soltanto questo ramo tra quelli vita per la stipulazione delle convenzioni di gestione del patrimonio dei fondi pensione chiusi. Secondo il parere della seconda sezione del Consiglio di Stato del 29 settembre 1999, condiviso dalla COVIP, ma non dall’ISVAP (che ritiene abilitate solo le 650 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 mente la riserva di attività in favore delle imprese assicuratrici (art. 1883 c.c. ( 52 )). La dottrina ha opportunamente rilevato che la corresponsione di una prestazione di importo predefinito, o per invalidità o premorienza richiede l’assunzione del rischio demografico-statistico, o comunque l’utilizzo di strumenti tecnico-attuariali assicurazioni del ramo I), « “forme a prestazione definita e forme a contribuzione definita” » non sarebbero caratterizzate da « “una differenza di alea” e “degli altri elementi” costitutivi della fattispecie tali da “giustificare un diverso regime” »: il parere è citato da Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 278, che sembra condividerne il contenuto (pp. 277279). Qui basta ricordare che la gestione del patrimonio dei fondi pensione in regime di contribuzione definita ha carattere puramente finanziario, mentre, come si è ricordato nel testo, nella gestione delle forme di previdenza complementare a prestazione definita l’assunzione del rischio demografico è un momento centrale dell’attività. La pretesa analogia tra le due forme di previdenza ha davvero fragile fondamento, quanto meno in punto di gestione. Per conseguenza, sembra davvero inopportuna una riserva di attività in favore delle imprese assicurative del ramo VI dei rami vita, che non compiono istituzionalmente operazioni nelle quali assumono il rischio demografico. Infatti, la gestione del patrimonio dei fondi pensione chiusi da esse operata riveste carattere puramente finanziario e le sue caratteristiche non si distaccano da quelle della gestione effettuata dagli intermediari finanziari citati all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 (cfr. in questo senso Volpe Putzolu, Fondi di previdenza e assicurazione, in Aa.Vv., La previdenza integrativa, Quad. dir. lav. rel. ind., 1988, 3, pp. 105-107; Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1108-1109; Farenga, Diritto delle assicurazioni private, Torino, 2006, pp. 30 e 244). L’interpretazione qui non condivisa riceve però ulteriore conforto dall’art. 2, comma 2o, c.a.p. Questa disposizione consente all’impresa « che ha ottenuto l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di cui al ramo VI » dei rami vita di garantire in via complementare ai relativi contratti « prestazioni di invalidità e premorienza secondo quanto previsto nella normativa sulle forme pensionistiche complementari ». Si tratta di una norma di difficile comprensione, ma sembra accennare alla possibilità di includere prestazioni di invalidità e premorienza nell’ambito di convenzioni per la gestione di forme di previdenza complementare in regime di prestazione definita (lettura combinata degli artt. 2, comma 2o, ult. periodo, c.a.p. e 6, comma 5o, d.lgs. n. 252). ( 52 ) Analogamente dispone anche l’art. 11, comma o 1 , c.a.p. per i quali soltanto le imprese assicurative sono adeguatamente attrezzate ( 53 ). L’art. 6, comma 5o, decreto rivela inoltre che nelle forme pensionistiche complementari a prestazione definita, come anche nel caso in cui siano offerte prestazioni per invalidità e premorienza, le tre fasi del ciclo della previdenza complementare ( 54 ) – fase di fase di accumulazione/ raccolta dei contributi, fase di gestione finanziaria/investimento delle contribuzioni raccolte, fase di gestione assicurativa/di erogazione delle prestazioni – sono ridotte a due, poiché la fase di gestione finanziaria e quella di gestione assicurativa vengono a coincidere in capo al medesimo soggetto senza soluzione di continuità ( 55 ). ( 53 ) V. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 194 ss.; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 343-344. ( 54 ) Sulle quali v. Costi, I fondi pensione nella prospettiva dei mercati finanziari e della finanza d’impresa, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., p. 76; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 168; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 101-102. ( 55 ) V. Volpe Putzolu, L’erogazione delle prestazioni assistenziali, I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., p. 86; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 196-197. Questa circostanza spiega tra l’altro anche l’inapplicabilità alle forme pensionistiche complementari a prestazione definita della maggior parte delle restanti disposizioni dell’art. 6 d.lgs. n. 252, pensate prevalentemente per forme pensionistiche complementari che operano in regime di contribuzione definita e separano di conseguenza la fase della gestione delle risorse da quella dell’erogazione delle prestazioni. I commi dell’art. 6 che risultano applicabili anche ai fondi che operano in regime di prestazione definita sono il comma 6o e il primo periodo del comma 8o in materia di procedura per la stipulazione delle convenzioni; il comma 7o in materia di requisiti patrimoniali minimi per la stipulazione delle convenzioni; il comma 14o in materia di responsabilità sociale d’impresa. Cfr. in questo senso, con riferimento agli analoghi commi dell’art. 6 d.lgs. n. 124 (tranne il comma in materia di responsabilità sociale d’impresa, introdotto ex novo dal d.lgs. n. 252), Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 3; Palmisano, La La nuova disciplina della previdenza complementare In buona sostanza i fondi si limitano a stipulare polizze assicurative collettive in favore degli aderenti e a versare i relativi premi ( 56 ). Proprio l’assenza della cesura tra la fase della gestione del patrimonio del fondo e quella dell’erogazione spiega la regola dettata nell’ultimo periodo dell’art. 6, comma 5o: le risorse dei fondi non devono essere depositate presso una banca distinta dal gestore poiché l’impresa assicurativa incamera tali risorse in esecuzione della convenzione ( 57 ) e garantisce direttamente l’erogazione delle prestazioni ( 58 ). 4. – Per le forme pensionistiche complementari a contribuzione definita l’art. 6 conferma il favore per la gestione indiretta delle risorse, at- gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1113-1115. Nel senso che la disciplina dettata dall’art. 6 per la gestione del patrimonio delle forme pensionistiche complementari a contribuzione definita si applicherebbe invece in linea di massima nella sua quasi totalità anche alla gestione delle forme di previdenza complementare a prestazione definita v., seppur dubitativamente e problematicamente, Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 279-280 e 354-355; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 389 ss. ( 56 ) Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 198-199. ( 57 ) Com’è noto, le imprese assicuratrici che esercitano i rami vita devono costituire riserve tecniche, comprese le riserve matematiche, « sufficienti a garantire le obbligazioni assunte e le spese future » (art. 36, comma 1o, c.a.p.), e coperte con « attivi di proprietà dell’impresa » (art. 38, comma 1o, c.a.p.). ( 58 ) Il contratto di assicurazione, peraltro, intercorre soltanto tra l’impresa assicurativa e il fondo, il quale rimane unico soggetto obbligato di fronte all’aderente per il versamento della prestazione di carattere previdenziale: infatti, la finalità dei fondi pensione è pur sempre quella di erogare trattamenti pensionistici (cfr., con riferimento ai soli fondi pensione chiusi, Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., p. 332). Contra però, nel senso che il lavoratore acquisirà un credito alla prestazione direttamente nei confronti dell’assicurazione, Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 2; nel senso che l’aderente al fondo può essere beneficiario della prestazione assicurativa sia direttamente che per il tramite del fondo Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1114. 651 tuata tramite operatori professionali specializzati nell’intermediazione di strumenti finanziari: le ipotesi consentite di gestione diretta sono residuali ( 59 ). Come è stato correttamente notato in dottrina, questa soluzione, già adottata nell’art. 6 del d.lgs. n. 124/93, non era affatto necessitata né dalla legge di delega n. 421/92 di cui quel decreto era attuazione, né dal progetto di direttiva comunitaria sui fondi pensione allora in gestazione ( 60 ). La dir. 2003/41/CE relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali ( 61 ), varata il 3 giugno 2003, ribadisce la legittimità sia della gestione diretta che di quella indiretta ( 62 ), e consente agli Stati membri di imporre quest’ultima ai fondi pensione stabiliti sul loro territorio ( 63 ); tuttavia, il legislatore comunitario sembra consi- ( 59 ) In questo senso con riferimento all’art. 6 d.lgs. n. 124/93 Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 417; Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., pp. 105107; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 265; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 121; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 340-341. ( 60 ) V. in questo senso Mantucci, Art. 6 – Regime delle prestazioni e modelli gestionali, cit., p. 194; Candian, I fondi pensione, cit., p. 114; Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., p. 153; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 174. ( 61 ) Per un commento v. P. Loi, La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, in Prev. ass. pubbl. e priv., 2004, p. 55 ss.; Tomassini, Direttiva europea sui fondi pensione e normativa italiana sulla previdenza complementare, in Assicurazioni, 2004, p. 31 ss. ( 62 ) Cfr. l’art. 19, par. 1, dir. 2003/41/CE, secondo il quale « gli Stati membri non limitano il potere degli enti pensionistici di nominare, per la gestione del portafoglio d’investimento, gestori degli investimenti aventi sede in un altro Stato membro e debitamente autorizzati all’esercizio di tale attività ». ( 63 ) Questo sembra il significato da attribuire all’art. 9, par. 4, dir. 2003/41/CE, per la verità di formulazione piuttosto oscura: « uno Stato membro può consentire o richiedere agli enti pensionistici aventi sede nel suo territorio di affidare la gestione di tali 652 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 derare la gestione indiretta piuttosto un’eccezione che non la regola ( 64 ). Secondo alcuni la scelta del nostro Paese sarebbe dettata dalla preoccupazione che gli organi paritetici di amministrazione e controllo dei fondi non siano in grado di esprimere professionalità adeguate per una gestione diretta ( 65 ): si tratta di organismi composti da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro e forse il legislatore ha temuto la prevalenza del momento politico-sindacale su quello tecnico. Questa spiegazione non convince appieno: infatti, anche i membri degli organi sopra menzionati devono possedere determinati requisiti di professionalità ( 66 ) e indipendenza ( 67 ). Sembra allora più plausibile l’opinione secondo la quale la parziale limitazione del « potere dispositivo dei fondi pensione » ha « l’intento di mobilitare al massimo tutte le competenze utilizzabili per la sana e prudente gestione »; ciò attiverebbe in particolare le « competenze di più soggetti qualificati – gli intermediari, ma anche i fondi pensione » ( 68 ). Ad enti, in tutto o in parte, ad altre entità che operano per conto dei suddetti enti ». ( 64 ) Del resto, la soluzione italiana risulta eccentrica nel panorama comparato: v. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 174. ( 65 ) Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 200; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 174; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 135. ( 66 ) V. in proposito l’art. 4, comma 3o, lett. b), d.lgs. n. 252 che, nel delegare la specificazione dei requisiti di professionalità dei componenti degli organi collegiali al Ministro del lavoro, gli impone di fare riferimento a quelli previsti dalla normativa regolamentare per gli amministratori di SIM, SGR e SICAV. V. anche l’art. 4, comma 2o del decreto del Ministro del lavoro 14 gennaio 1997, n. 211, nonché l’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro 20 giugno 2003. V. Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., p. 168. ( 67 ) V. infra il par. 4.2.4. ( 68 ) Così Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, pp. 860-861; analogamente Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili ogni modo, una volta che il legislatore aveva optato per l’esile trama normativa delle persone giuridiche regolate dal libro primo del codice civile per integrare la disciplina della struttura, degli organi e del funzionamento dei fondi pensione ( 69 ), la scelta di privilegiare la gestione indiretta appariva necessitata e addirittura indispensabile a fini di adeguata tutela del risparmio previdenziale degli aderenti ai fondi pensione ( 70 ). organizzativi, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p. 329. Nel senso che per i fondi pensione « una gestione di portafoglio attivata da imprese professionalmente attrezzate alle operazioni di mercato finanziario » sia « la cosa migliore » Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 268-269; analogamente Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p. 74. Mettono in evidenza la funzione di garanzia per gli aderenti insita nella separazione delle funzioni di indirizzo, gestione e controllo (quest’ultimo in capo alla banca depositaria – v. infra il par. 6) Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 200-201; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 174; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 121. Non è mancato chi ha sottolineato che nella platea già ampia degli organismi di investimento collettivo l’inserimento di un’autonoma categoria « fondi pensione » avrebbe cagionato probabilmente una proliferazione eccessiva: in questo senso Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1104. Vi è tuttavia del vero anche nelle considerazioni di chi riconduce almeno in parte il favor per la gestione indiretta alle pressioni esercitate dalle lobbies degli intermediari finanziari e delle assicurazioni volte ad ottenere una fetta dell’abbondante torta che sembrava aprirsi con il varo della previdenza complementare: cfr. Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., pp. 153-154. ( 69 ) Cfr. criticamente su questa scelta del legislatore nazionale Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 3; Id., I fondi pensione nella prospettiva dei mercati finanziari e della finanza d’impresa, cit., pp. 76-78, che suggeriva invece le forme della società cooperativa o di quella per azioni; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 264. ( 70 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., pp. 3-4; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 264; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 176; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 212. La nuova disciplina della previdenza complementare Il favor per la gestione indiretta non sminuisce peraltro affatto il ruolo delle fonti istitutive e degli amministratori dei fondi pensione. Infatti, l’art. 6 d.lgs. n. 252 (come già prima l’art. 6 d.lgs. n. 124) tende a configurare il rapporto fondo pensione/gestore professionale ex art. 6, comma 1o come una relazione principal/agent dove le linee strategiche dell’attività del secondo sono determinate dal primo ( 71 ), cosicché si può ben dire che il successo della forma pensionistica complementare in termini di generose prestazioni future dipende in modo determinante dall’abilità e dalle competenze degli amministratori del fondo pensione ( 72 ). Secondo la prima versione dell’art. 6 d.lgs. n. 252, che sul punto riprendeva fedelmente l’art. 6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124/93, gli statuti dei fondi dovevano indicare i « criteri di individuazione e di ripartizione del rischio nella ( 71 ) Per la configurazione del rapporto tra fondo pensione e gestori abilitati come relazione di principal e agent v. tra gli altri Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 195; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 270; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, p. 309; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 345. ( 72 ) In questo senso tra gli altri Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., pp. 168-169; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 202; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 183-184, secondo la quale alla luce di queste considerazioni anche « la portata negativa del divieto di gestione diretta delle risorse, posto al fondo, va ridimensionata » (p. 183); Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 330; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 148-149; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 160; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 221 e 359-360. Secondo Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 270, tuttavia, « la logica di rapporto da principal ad agent » operante nella disciplina dei fondi pensione assegna « al gestore agent [...] con ogni evidenza il ruolo protagonista ». 653 scelta degli investimenti »: in questo senso disponeva il comma 11o, primo periodo, dell’art. 6. Il d.lgs. n. 28/07 ha provveduto ad abrogare l’art. 6, comma 11o, d.lgs. n. 252 ( 73 ) e ad aggiungere un comma 5o ter all’art. 6. Peraltro, l’obbligo di indicare negli statuti i criteri di individuazione e ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti, benché non compaia più nel d.lgs. n. 252, deve ritenersi tuttora in vigore in virtù di quanto disposto dall’art. 3, comma 1o, lett. p), d.m. n. 211/97. Ciò significa in particolare che già negli statuti devono essere evidenziati i profili di rischio della popolazione di riferimento ed effettuate le scelte strategiche fondamentali di investimento per farvi fronte ( 74 ). Il fine sarà sempre quello di massimizzare il rendimento del risparmio previdenziale contenendo il più possibile i rischi: tuttavia, la scelta di investimento potrà essere ben diversa se, ad esempio, la popolazione di riferimento è giovane e a reddito medio-alto ( 75 ), oppure già ( 73 ) V. l’art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07. ( 74 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 182; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 149-150; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 214-215. ( 75 ) Ad es., gli analisti dei mercati finanziari avvertono che un investimento normalmente rischioso come quello azionario è comunque il più redditizio sul lungo periodo [cfr. Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., pp. 860861; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 362; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 41; introduce però un importante distinguo Porta, Effetti macroeconomici dei fondi pensione, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., pp. 16-19, che sottolinea come ciò sia vero nei Paesi anglosassoni, ma non nel nostro Paese, dove tradizionalmente « i rendimenti reali degli investimenti azionari si sono collocati su livelli tendenzialmente inferiori a quelli conseguibili investendo nel comparto del reddito fisso » (p. 18); considerazioni analoghe sono svolte anche da Fornero, L’economia dei fondi pensione. Potenzialità e limiti della previdenza privata in Italia, Bologna, 1999, pp. 89 ss.]; inoltre, su periodi di tempo molto lunghi anche il livello di rischio diminuisce notevolmente. Per questo motivo, un fondo pensione che prevede una linea di investimento a forte componente azionaria potrebbe essere particolarmente raccomandabile per lavoratori giovani, ma non per quel- 654 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 di età piuttosto avanzata e a reddito basso. I fondi possono prevedere anche più linee di investimento secondo le diverse caratteristiche dei lavoratori cui si rivolgono: ai lavoratori deve sempre essere attribuita la facoltà di spostare la propria posizione da una linea all’altra, ed anche di suddividere i propri contributi tra più linee ( 76 ). Si tratta dei cd. fondi multicomparto ( 77 ). La loro legittimità è ora espressamente sancita non soltanto dall’art. 8, comma 13o, d.lgs. n. 252, secondo il quale « gli statuti e i regolamenti disciplinano [...] le modalità in base alle quali l’aderente può suddividere i flussi contributivi anche su linee diverse di investimento all’interno della forma pensionistica [...], nonché le modalità attraverso le quali può trasferire l’intera posizione individuale a una o più linee », ma anche dal più recente comma 5o ter dell’art. 6, d.lgs. n. 252 (come modificato dal d.lgs. 28/07), secondo il quale « i fondi pensione definiscono gli obiettivi e i criteri della propria politica di investimento » anche « in riferimento ai singoli comparti eventualmente previsti ». Le indicazioni sui criteri di individuazione e ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti contenute negli statuti vengono poi precisate dagli organi di amministrazione del fondo in apposite linee di indirizzo dell’attività dei gestori ( 78 ), che vengono inserite nelle convenzio- li di età già piuttosto avanzata. V. per alcune esemplificazioni Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., p. 857, nt. 11; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 151-152. ( 76 ) Cfr. in questo senso ora espressamente l’art. 8, comma 13o, d.lgs. n. 252; ma già prima l’art. 3, comma 4o, d.m. tesoro 21 novembre 1996, n. 703. V. anche Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 224-225. Si esprime invece in termini di « inedito principio della frazionabilità della posizione individuale » Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XVI. ( 77 ) Sui quali v. Candian, I fondi pensione, cit., pp. 53-56; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 336-337; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 152-153. ( 78 ) Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 182-183; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attivi- ni stipulate con i soggetti di cui all’art. 6, comma 1o per la gestione delle risorse dei fondi pensione tramite il loro investimento in strumenti finanziari [art. 6, comma 8o, lett. a), d.lgs. n. 252]. Le linee di indirizzo ( 79 ), sempre liberamente modificabili dagli organismi di amministrazione dei fondi ( 80 ), indicano la tipologia di strumenti finanziari nei quali devono essere investite le risorse del fondo: queste linee possono essere anche piuttosto dettagliate ( 81 ), ma devono comunque limitarsi all’indicazione della cd. asset allocation, e non anche dei singoli valori tà di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 375-376; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 215216. ( 79 ) Queste linee di indirizzo sono vincolanti per il gestore alla stessa stregua dei criteri di individuazione e ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti contenuti negli statuti: la discrezionalità del gestore si eserciterà invece nella tempistica degli investimenti e disinvestimenti e nell’individuazione dei singoli strumenti finanziari su cui convogliare le risorse del fondo. V. in questo senso Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 218-219; anche se non expressis verbis, Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 330; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 189-190; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 213 ss. Contra nel senso che il potere di indirizzo del fondo non è vincolante per il gestore Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 172. ( 80 ) Cfr. gli « Schemi di convenzione per la gestione delle risorse » contenuti nella deliberazione COVIP 7 gennaio 1998. ( 81 ) Con riferimento alle convenzioni di gestione accompagnate da garanzia (sulle quali v. infra il par. 4.2.1) è stato opportunamente notato che le linee di indirizzo dovranno lasciare particolare autonomia ai gestori, ai quali dovrebbe essere rimessa anche la decisione sulla asset allocation ottimale per il raggiungimento del risultato di gestione che essi si sono impegnati a garantire: v. in questo senso Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., p. 170; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 275; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 229; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 165; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XIV. La nuova disciplina della previdenza complementare mobiliari ( 82 ). La scelta tra questi e la tempistica degli investimenti e disinvestimenti deve essere lasciata alla discrezionalità del gestore, pena la violazione del divieto di gestione diretta di strumenti finanziari diversi da quelli ex art. 6, comma 1o, lett. d)-e), d.lgs. n. 252 ( 83 ). Una parte della dottrina ammette la possibilità per il fondo di rivolgere istruzioni puntuali al gestore in analogia con quanto previsto per le gestioni di portafogli di investimento ex art. 24, comma 1o, lett. b), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (testo unico dell’intermediazione finanziaria – di seguito: t.u.f.) ( 84 ), ma in genere si nega che esse possano rivestire carattere vincolante ( 85 ). I ( 82 ) Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., pp. 859-860; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 183; Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p. 77; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 150. ( 83 ) In questo senso Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., p. 168. ( 84 ) In questo senso v. in particolare Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 188 ss.; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 210211, la quale sottolinea condivisibilmente che « il mancato esercizio » del « potere di ingerenza, sotto il profilo di un continuo monitoraggio dell’attività del gestore, che potrebbe giungere fino al punto di indicare ad esso l’opportunità di compiere specifiche operazioni, potrebbe comportare per gli organi di amministrazione e controllo del fondo pensione l’incorrere in responsabilità ai sensi [...] dell’art. 5, commi 7o e 8o, d. legisl. n. 252/2005 ». Contra però, nel senso che « agli amministratori del fondo pensione sarà preclusa qualsiasi possibilità di impartire direttive o di esercitare poteri di interferenza nelle attività gestorie », Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 270; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 348. ( 85 ) V. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 8; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 205; Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 331; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 212-213. Nel senso che la 655 nuovi commi 5o ter e 5o quater dell’art. 6 d.lgs. n. 252/05, introdotti dal d.lgs. 28/07, hanno provveduto a rafforzare la trasparenza delle politiche di investimento dei fondi. Sulla scorta del recepimento dell’art. 12 dir. 2003/41/CE, i fondi dovranno definire gli obiettivi e i criteri della propria politica di investimento, anche in riferimento ai singoli comparti eventualmente previsti, e dovranno provvedere con cadenza almeno triennale alla verifica della persistente corrispondenza agli interessi degli aderenti. Di tali scelte di investimento essi saranno tenuti ad informare gli aderenti secondo le modalità stabilite dalla COVIP. L’opera del gestore professionale dovrà essere attentamente monitorata dal fondo pensione ( 86 ), il quale rimane l’unico soggetto direttamente responsabile nei confronti degli aderenti per le performances del fondo ( 87 ). Sul punto l’art. 6, comma 10o, d.lgs. n. 252, riprende alla lettera l’art. 6, comma 4o quater, d.lgs. n. 124, e incarica la COVIP, assunto previamente il parere delle autorità di vigilanza sui gestori, di fissare « criteri e modalità omogenee per la comunicazione ai fondi dei risultati conseguiti nell’esecuzione delle convenzioni in modo da assicurare la piena comparabilità delle diverse convenzioni ». La COVIP è intervenuta con la deliberazione 30 dicembre 1998, recante « Disposizioni in materia di parametri oggettivi di riferimento per la verifica dei risultati della gestio- convenzione di gestione potrebbe attribuire al fondo anche il potere di impartire istruzioni vincolanti v., seppur problematicamente, Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 194196. ( 86 ) Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance », cit., p. 860, nt. 20. ( 87 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 6, secondo il quale è « pacifico » che gli aderenti « sono legati da un rapporto contrattuale (“rapporto previdenziale”) con il fondo, ma non hanno alcun vincolo contrattuale né con il gestore, né con la banca depositaria »; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 214-215; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 269-270; Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 331; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 153-154 e 184. 656 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ne dei fondi pensione » ( 88 ). La deliberazione prevede che i fondi debbano inserire obbligatoriamente nelle convenzioni di gestione « parametri oggettivi e confrontabili definiti facendo riferimento a indicatori finanziari di comune utilizzo »: sono i cd. benchmarks ( 89 ). Essi devono essere costruiti in modo tale da consentire un’affidabile e rapida valutazione dell’opera di investimento svolta dal gestore. Anche i fondi pensione aperti devono stabilire dei benchmarks ( 90 ). Il fondo pensione provvederà poi all’informazione degli iscritti con cadenza annuale e con la massima trasparenza in merito all’andamento della gestione complessiva ( 91 ). Il fondo pensione è sempre titolare dei « diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le disponibilità del fondo medesimo » [art. 6, comma 8o, lett. c), d.lgs. n. 252] ( 92 ): in questo modo, come è stato notato, al fondo spetta il diritto di voice nelle assem- ( 88 ) Sulla quale v. Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 323-324; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 259, nt. 22. ( 89 ) Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 376; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 169-172. ( 90 ) Che saranno comunicati alla COVIP nel corso della procedura di approvazione del regolamento o, al più tardi, subito dopo aver ricevuto l’autorizzazione all’istituzione: cfr. la deliberazione 30 dicembre 1998, cit. nel testo. ( 91 ) Cfr. l’art. 19, comma 2o, lett. g), d.lgs. n. 252/ 2005, nonché la deliberazione COVIP 10 febbraio 1999 contenente « Disposizioni in materia di trasparenza dei fondi pensione nei rapporti con gli iscritti ». Quest’ultima in particolare regola le modalità e i contenuti della comunicazione periodica agli iscritti che i fondi pensione devono effettuare con cadenza annuale. Sul punto v. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 156-157; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., pp. 262-263, anche alla nt. 27. ( 92 ) È pacifico in dottrina che il diritto di voto continui a spettare al fondo anche nel caso di gestione con garanzia accompagnata da trasferimento della titolarità delle risorse in capo al gestore (sulla quale v. infra il par. 4.2.1): v. per tutti Vianello, La struttura delle convenzioni, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cinelli, cit., p. 459. blee, e al gestore quello di exit dalla compagine azionaria delle società partecipate ( 93 ). Questo disegno del legislatore di separare le due prerogative connesse al possesso di valori mobiliari comporta che la delega del diritto di voto sia ammissibile soltanto per singola assemblea e secondo le istruzioni vincolanti impartite dal fondo stesso ( 94 ). La riserva della titolarità dei diritti di voto sempre in capo al fondo è stata perfezionata con la riforma del 1995. Gli obiettivi principali sembrano tre, strettamente collegati. Anzitutto, si intende migliorare i meccanismi di democrazia azionaria delle società italiane, inserendo nelle assemblee delle società di capitali minoranze qualificate ( 95 ) in grado di esercitare benefiche pressioni sugli azionisti di maggioranza nell’interesse generale della sana conduzione ( 93 ) V. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 8; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 219, il quale si sofferma sui problemi di coordinamento che possono sorgere tra i due soggetti cui sono attribuiti questi diversi diritti; Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., pp. 866 e 871; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 356-357 e 360; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 385-386; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 232. ( 94 ) In questo senso gli « Schemi di convenzione per la gestione delle risorse » contenuti nella deliberazione COVIP 7 gennaio 1998, cit.. V. anche Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 215; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 358-359; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 231 ss. Peraltro Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 7 e Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 358 fanno notare che le limitazioni riguardano soltanto il diritto di voto, mentre sarebbero liberamente delegabili i diritti amministrativi che accedono ai valori mobiliari che fanno parte del patrimonio del fondo pensione. ( 95 ) Come si vedrà infra al par. 4.2.3 gli investimenti del fondo pensione nelle azioni o quote con diritto di voto di una società non possono mai raggiungere un livello tale da determinare il controllo della società medesima. La nuova disciplina della previdenza complementare dell’impresa societaria ( 96 ). In secondo luogo, si vuole aumentare l’influenza del punto di vista delle parti sociali, ed in particolare dei lavoratori, sui processi decisionali delle società in un’ottica di democrazia economica ( 97 ) (cfr. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 4). È infine possibile anche riscontrare un effetto di pungolo per le società ad abbracciare un’ottica di long-termism ( 98 ), a bilanciamento dell’azione dei gestori che potrebbe invece avere l’effetto di far inclinare le direzioni aziendali verso l’adozione di strategie di massimizzazione dei rendimenti azionari nel breve periodo. 4.1. – La gestione diretta delle contribuzioni raccolte dai fondi pensione è consentita soltanto in quattro casi. In primo luogo, tutti i fondi pensione ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 possono sottoscrivere o acquistare azioni o quote di società immobiliari, ovvero quote di fondi comuni di investimento immobiliare chiusi [art. 6, comma 1o, lett. d), d.lgs. n. 252]. Le due disposizioni da un lato suppliscono al divieto di acquisto diretto di immobili da parte dei fondi pensione ( 99 ), dall’altro lato vorrebbero facilitare il flusso di risorse significative dei fondi a sostegno del mercato immobiliare ( 100 ). L’investimento diretto ( 96 ) V. Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., in particolare pp. 866-867 e 885-886; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 245 ss. Questi autori mettono in evidenza le sinergie che si sono create tra la disciplina della previdenza complementare e quella del t.u.f. in materia di valorizzazione del ruolo delle minoranze in un’ottica di potenziamento della democrazia azionaria. ( 97 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 233. ( 98 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 233, anche alla nt. 156. ( 99 ) Com’è noto, l’acquisto di immobili è una modalità classica di investimento delle proprie risorse da parte degli enti pensionistici pubblici e privati. ( 100 ) Treu, Osservazioni generali in tema di normativa sui fondi pensione, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., pp. 6061; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 177; Salerno, 657 del fondo in azioni o quote di società immobiliari non incontra i limiti fissati in via generale dall’art. 6, comma 13o, lett. a), per evitare che i fondi acquisiscano un’influenza dominante sulle società al cui capitale partecipano ( 101 ): in linea puramente teorica i fondi potrebbero assumere il controllo anche dell’intero pacchetto azionario o acquistare tutte le quote di una società immobiliare ( 102 ). La norma è stata oggetto di critiche vibranti perché sembra esporre a rischi ingiustificati il risparmio previdenziale degli aderenti ( 103 ). Va tuttavia sottolineato che anche per gli investimenti nelle società immobiliari valgono i limiti percentuali sul totale del patrimonio del fondo pensione stabiliti dall’art. 4, comma 1o del decreto del Ministro del tesoro 21 novembre 1996, n. 703 ( 104 ). Anche l’investimento diretto in fondi comuni di investimento immobiliare chiusi è limitato: i fondi pensione non possono acquisire quote di fondi comuni di investimento immobiliare chiusi in misura superiore a quella stabilita dal d.m. n. 703/96, e comunque in misura superiore al 20% del proprio patrimonio e al 25% del capitale del fondo immobiliare chiuso. In secondo luogo, tutti i fondi pensione ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 possono sotto- Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 193-194. ( 101 ) V. infra il par. 4.2.3. ( 102 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 176-177; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 193; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 128-129. ( 103 ) V. Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 211; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 266; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 177; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 193; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 128-129. ( 104 ) In questo senso Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 200, nt. 24; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XIII, nt. 18; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 129-130. Sui limiti di investimento ex d.m. n. 703/96 v. infra il par. 4.2.3. 658 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 scrivere e acquistare direttamente quote di fondi comuni di investimento mobiliare chiusi [art. 6, comma 1o, lett. e)]. Essi tuttavia incontreranno i limiti del 20% sul patrimonio del fondo pensione e rispettivamente del 25% sul capitale del fondo comune stabiliti dall’art. 4, comma 1o, lett. b), d.m. n. 703/96 e dall’art. 6, comma 1o, lett. e), d.lgs. n. 252. La disposizione ha l’evidente finalità di favorire l’utilizzo delle risorse dei fondi pensione a sostegno delle piccole e medie imprese, che sono l’oggetto privilegiato dell’investimento dei fondi chiusi ( 105 ). Da un lato, le piccole e medie imprese costituiscono un segmento importantissimo dell’economia del nostro Paese; dall’altro lato, esse patiscono in modo particolare il progressivo venir meno dell’importantissima fonte di autofinanziamento costituita dal t.f.r. ( 106 ). Peraltro, anche questa ipotesi di gestione diretta è stata oggetto, e a ragione, di forti critiche in dottrina. Infatti, l’investimento in fondi di investimento mobiliare chiusi è caratterizzato per un verso dalla particolare rischiosità, per l’altro da notevoli difficoltà di smobilizzazione: proprio per questa tipologia di investimenti sarebbero state dunque necessarie le garanzie offerte dalla gestione di un intermediario professionale ( 107 ). In terzo luogo, la gestione diretta delle risorse del fondo deve ritenersi eccezionalmente consentita anche nelle more della stipulazione delle convenzioni di gestione. In proposito gli orientamenti COVIP raccomandano una sollecita conclusione delle convenzioni e suggeriscono l’utilizzo delle liquidità disponibili in operazioni di pronti contro termine effettuate su titoli del debito pubblico di Paesi aderenti all’Unione monetaria europea, con l’obiettivo di ridurre al minimo gli elementi di rischio ( 108 ). ( 105 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 178; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 137; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 134. ( 106 ) Cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 178. ( 107 ) Cfr. in questo senso Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., pp. 430433. ( 108 ) V. la comunicazione COVIP 1 febbraio 1999 contenente « Orientamenti in tema di impiego della Infine, la gestione diretta è consentita ai fondi pensione « costituiti nell’ambito delle autorità di vigilanza sui soggetti gestori a favore dei dipendenti delle stesse » [art. 6, comma 12o, d.lgs. n. 252]: si tratta dei fondi pensione costituiti nell’ambito della Banca d’Italia, della CONSOB, dell’ISVAP ( 109 ). La ratio della disposizione è quella di evitare il peculiare conflitto di interessi che sorgerebbe nel momento in cui i fondi pensione costituiti nell’ambito dei soggetti cui è attribuita la sorveglianza sui gestori si trovassero a dover ricorrere ai servigi dei soggetti sorvegliati per la gestione delle proprie risorse ( 110 ). Secondo un’opinione la peculiare posizione della COVIP giustificherebbe l’applicazione della norma anche ai fondi costituiti nel suo ambito, quanto meno in via analogica ( 111 ). 4.2. – La gestione indiretta (o convenzionata) delle risorse dei fondi pensione avviene mediante la stipulazione di convenzioni con i soggetti abilitati ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 ( 112 ). Questi ultimi sono i soggetti autorizzati alla « gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi » [art. 1, comma 5o, lett. d), t.u.f.], e precisamente le banche, le società di intermediazione mobiliare e le società fiduciarie di gestione ( 113 ), ovvero con i soggetti liquidità del fondo nelle more della stipula delle convenzioni di gestione ». Su di essa v. l’ampio commento di Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 343-345. ( 109 ) Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 434; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 267; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 181. ( 110 ) Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., pp. 433-434; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 267; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 181. ( 111 ) Cfr. in questo senso Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 434; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 181-182. ( 112 ) Sui soggetti abilitati e sui requisiti per essi fissati dalle autorità di vigilanza ex art. 6, comma 4o, d.lgs. n. 124/93 (ora art. 6, comma 7o, d.lgs. n. 252 – v. infra il par. 4.2.1) v. diffusamente Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 282 ss. ( 113 ) Art. 18 t.u.f. V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., La nuova disciplina della previdenza complementare stabiliti in uno Stato membro dell’Unione europea che svolgono la medesima attività e hanno ottenuto il mutuo riconoscimento [art. 6, comma 1o, lett. a)]; con le imprese assicurative di cui al ramo VI dei rami vita ( 114 ), ovvero con le imprese stabilite in uno Stato membro dell’Unione europea che svolgono la medesima attività e hanno ottenuto il mutuo riconoscimento [art. 6, comma 1o, lett. b)]; con le società di gestione del risparmio, ovvero con le imprese stabilite in uno Stato membro dell’Unione europea che svolgono la medesima attività e hanno ottenuto il mutuo riconoscimento. Nell’effettuazione delle operazioni di gestione del patrimonio dei fondi i gestori di cui all’art.6, comma 1o, d.lgs. n. 252 rimangono soggetti alla specifica disciplina per essi dettata dal t.u.f. e dal c.a.p., anche di natura regolamentare ( 115 ), salvo che sul punto non disponga la disciplina specificamente applicabile ai fondi pensione (di rango primario o secondario), che quindi prevarrà alla pp. 46-48. Sull’inclusione delle società fiduciarie di gestione dubitativamente invece Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 187-188; propende per la soluzione negativa Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 421. ( 114 ) Secondo l’art. 2, comma 1o, c.a.p. le assicurazione del ramo VI dei rami vita sono autorizzate a svolgere « le operazioni di gestione di fondi collettivi costituiti per l’erogazione di prestazioni in caso di morte, in caso di vita o in caso cessazione o riduzione dell’attività lavorativa ». È stato correttamente sottolineato che l’attività contemplata è di gestione puramente finanziaria, senza alcun contenuto assicurativo. Per conseguenza, le imprese assicurative del ramo VI non dovranno costituire riserve tecniche ex art. 36, comma 1o, c.a.p., per la gestione del patrimonio dei fondi pensione, poiché, salvo il caso della convenzione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale (sulla quale v. infra il paragrafo seguente) non assumono alcuna obbligazione che con tali riserve dovrebbero garantire: infatti, il rischio della gestione grava integralmente sul fondo pensione. V. in questo senso Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 188-193, la quale sottolinea che anche la predisposizione del margine minimo di solvibilità ex art. 44, c.a.p. con riferimento alla gestione del patrimonio del fondo dipende in misura determinante dalla circostanza che l’impresa assicuratrice assuma obbligazioni con garanzia di restituzione del capitale o rendimento minimo (p. 189). ( 115 ) Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XII. 659 stregua di lex specialis ( 116 ). La vigilanza sui gestori rimane affidata alle rispettive autorità (Banca d’Italia, CONSOB, ISVAP) ( 117 ), come confermano anche gli incisi dell’art. 19, comma 2o ( 118 ) e dell’art. 6, comma 7o, d.lgs. n. 252 ( 119 ). 4.2.1. – I commi da 6o a 10o dell’art. 6, d.lgs. n. 252 tracciano la disciplina delle convenzioni di gestione, che rappresentano l’unico strumento contrattuale utilizzabile dai fondi per la gestione indiretta delle proprie risorse. La dottrina è abbastanza concorde nel considerare questa figura un contratto tipico, la cui regolazione è contenuta nel d.lgs. n. 252 e nella normativa di carattere secondario della COVIP (art. 6, commi 8o e 10o) ( 120 ) e delle autorità di vigilanza sui gestori (art. 6, comma 7o). La dottrina è incerta se si tratti di un sottotipo riconducibile a qualche altra figura contrattuale, come il man- ( 116 ) In questo senso condivisibilmente Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., p. 130; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 122; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 57-59. ( 117 ) In questo senso con riferimento alla disciplina previgente Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., p. 129; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 283; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 347. ( 118 ) L’art. 19, comma 2o, d.lgs. n. 252 conferisce la vigilanza su tutte le forme pensionistiche complementari alla COVIP, facendo però salva « la vigilanza di stabilità » in capo alle « rispettive autorità di controllo sui soggetti abilitati di cui all’articolo 6, comma 1 ». ( 119 ) L’art. 6, comma 7o, stabilisce che la determinazione dei requisiti patrimoniali minimi richiesti ai soggetti gestori per essere abilitati alla stipulazione delle convenzioni di gestione è effettuata dalle rispettive autorità di vigilanza, « che conservano tutti i poteri di controllo » sui gestori stessi. ( 120 ) Deliberazione COVIP 7 gennaio 1998, cit., contenente « Schemi di convenzione per la gestione delle risorse »; deliberazione COVIP 30 dicembre 1998 contenente « Disposizioni in materia di parametri oggettivi di riferimento per la verifica dei risultati della gestione dei fondi pensione »; delibera COVIP 9 dicembre 1999 in materia di « Selezione dei gestori ». 660 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 dato ( 121 ) o il contratto di gestione individuale di patrimoni ( 122 ), oppure se si tratti di un tipo a sé stante ( 123 ). Posto che la figura presenta una fortissima somiglianza con il contratto di gestione individuale di patrimoni ( 124 ), non sembra vi siano ostacoli ad applicare in via analogica, nel caso di lacune, disposizioni dettate per quest’ul( 121 ) Secondo Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1110 la disciplina contrattuale delle convenzioni di gestione è « conformata sul modello del mandato »; anche Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., pp. 419-420, riconduce la convezione di gestione al mandato con rappresentanza, seppur avvertendo che alcune peculiarità della prima sconsigliano un’applicazione indiscriminata della disciplina codicistica dettata per il secondo; similmente anche Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 201. ( 122 ) Secondo Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 178, « dal punto di vista sistematico [...] la gestione del patrimonio dei fondi pensione non si distacca dal genus della gestione individuale di patrimoni, di cui costituisce una particolare specificazione ». ( 123 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 4, per il quale « la tipizzazione legislativa rende inutile ogni tentativo di rintracciare nel rapporto di gestione dei fondi i caratteri essenziali di qualche altro schema contrattuale tipico »; Candian, I fondi pensione, cit., p. 131; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 204; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 273 e 312-314; Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., pp. 330-331; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 162; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 359. ( 124 ) La dottrina pressoché unanime concorda che la convenzione configuri un contratto di gestione di tipo individuale, e non in monte: v. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 10; Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., p. 335; Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., p. 862; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 134-135 e 167-168; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 137-140; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XIII; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 80. timo contratto ( 125 ) o addirittura per il mandato ( 126 ). Il d.lgs. n. 252 ha apportato due importanti modifiche alla previgente disciplina delle convenzioni di gestione: esse, tuttavia, non si collocano nell’art. 6. L’art. 17, comma 2o, lett. e) ed f), d.lgs. n. 124 contemplava l’autorizzazione preventiva della COVIP per la stipulazione delle convenzioni di gestione, che dovevano essere redatte conformemente a schemi-tipo di contratti fra i fondi e i gestori, definiti d’intesa tra la COVIP e le autorità di vigilanza sui gestori stessi ( 127 ). L’art. 19, comma 2o, lett. d) ed e), d.lgs. n. 252/05 non contempla più l’autorizzazione preventiva alla stipulazione delle convenzioni di gestione, bensì incarica la COVIP di verificare le linee di indirizzo della gestione e di vigilare sulla corrispondenza delle convenzioni a criteri di redazione delle convenzioni appositamente stabiliti dalla COVIP, sentite le autorità di vigi- ( 125 ) Il d.lgs. n. 252, unito alla normativa di carattere secondario costituita dai decreti ministeriali e dalle delibere della COVIP, presenta una disciplina esauriente delle convenzioni di gestione, cosicché le integrazioni non saranno particolarmente numerose. Tuttavia, tra le disposizioni del t.u.f. riguardanti (anche) la gestione individuale di portafogli di investimento è opportuno segnalare l’art. 23, comma 6o: in base a questa norma « nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento [...] spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta ». L’applicazione analogica di questa disposizione alla convenzione di gestione comporta un notevole rafforzamento della posizione probatoria del fondo nell’ambito delle azioni di risarcimento dei danni derivanti dall’attività del gestore. Cfr. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 183-184. ( 126 ) Che, del resto, « ha da sempre costituito il paradigma di ogni forma di cooperazione gestoria cui si sono costantemente rapportate le varie ipotesi di esecuzione di incarichi per conto altrui »: così Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., p. 201. Cfr. anche Miola, La gestione collettiva del risparmio nel T.U.F.: profili organizzativi, cit., p. 334, che, in materia di responsabilità del gestore, richiama in particolare le disposizioni sulla responsabilità del mandatario; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 173. ( 127 ) V. la deliberazione COVIP 7 gennaio 1998 contenente « Schemi di convenzione per la gestione delle risorse ». La nuova disciplina della previdenza complementare lanza sui gestori ( 128 ). La disposizione è entrata in vigore anticipatamente rispetto alla riforma complessiva, e precisamente il 14 dicembre 2005. Da un lato, essa si colloca in un’ottica di semplificazione degli adempimenti e di valorizzazione dell’autonomia contrattuale che dovrebbe velocizzare le procedure di stipulazione delle convenzioni, stimolando in questo modo anche la concorrenza tra i gestori ( 129 ). Dall’altro lato, ha l’obiettivo di superare il controllo meramente formale delle convenzioni per favorire un controllo più sostanziale sulla coerenza delle convenzioni con la politica di investimento dei fondi pensione e con i criteri di redazione delle convenzioni stabiliti dalla COVIP ( 130 ). I commi 6o e 8o dell’art. 6, d.lgs. n. 252 prescrivono una particolare procedura per la stipulazione delle convenzioni. Ad una prima fase di evidenza pubblica per la raccolta delle offerte contrattuali ne segue una seconda in cui la selezione dei gestori è improntata a trasparenza, strettamente regolamentata nello svolgimento (tramite le istruzioni della COVIP ( 131 )) e finalizzata nel risultato, che deve in ogni caso garan- ( 128 ) A questo fine i fondi pensione negoziali devono trasmettere alla COVIP, entro venti giorni dalla stipulazione delle convenzioni, una relazione dell’organo di amministrazione sulla propria politica di investimento e sulle caratteristiche delle convenzioni; il testo di ciascuna convenzione; una relazione illustrativa dello svolgimento della procedura di selezione dei gestori. V. la comunicazione COVIP 23 febbraio 2006 ai fondi pensione negoziali, dal titolo « Convenzioni per la gestione delle risorse dei fondi pensione negoziali – Novità introdotte dal decreto n. 252 del 5 dicembre 2005, disposizioni applicative »; la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Convenzioni per la gestione delle risorse dei fondi pensione negoziali ». ( 129 ) È stato segnalato in dottrina che proprio la macchinosità delle procedure di stipulazione delle convenzioni avrebbe favorito il rinnovo degli incarichi ai medesimi gestori, in quanto avrebbe reso « particolarmente onerosa la conclusione di nuove convenzioni »: così Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 203204. ( 130 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 19-20 e 137-138. ( 131 ) Contenute nella delibera COVIP 9 dicembre 1999, cit. 661 tire « la coerenza tra obiettivi e modalità gestionali, decisi preventivamente dagli amministratori, e i criteri di scelta dei gestori » [art. 6, comma 8o]. Vista l’importanza degli interessi anche pubblici in gioco nella previdenza complementare, il legislatore ha dettato regole che disegnano un vero e proprio procedimento in senso tecnico ( 132 ), in spiccata analogia con la disciplina che nel settore pubblico presiede alla formazione della volontà negoziale delle pubbliche amministrazioni ( 133 ). Gli obiettivi perseguiti sono quelli di stimolare una reale concorrenza tra i gestori e di spingere i fondi ad una scelta più consapevole, nell’interesse del miglior rendimento del risparmio previdenziale ( 134 ). Ai sensi dell’art. 6, comma 6o, d.lgs. n. 252 la procedura si apre con la richiesta di offerte contrattuali da parte dei competenti organi di amministrazione dei fondi, effettuata con la forma della pubblicità notizia su almeno due quotidiani fra quelli a maggiore diffusione nazionale o internazionale. Rispetto alla disciplina previgente, ora l’avvio della procedura è consentito non soltanto agli organi di amministrazione a regime, ma anche a quelli nominati inizialmente in sede di atto costitutivo. Le offerte contrattuali devono essere formulate « per singolo prodotto in maniera da consentire il raffronto dell’insieme delle condizioni contrattuali con riferimento alle diverse tipologie di servizio offerte » [art. 6, comma 6o, ult. periodo]. Quanto ai destinatari, essi non debbono appartenere ad identici gruppi societari e comunque non essere legati neanche indirettamente da rapporti di controllo ( 135 ). Per poter procedere alla stipulazione ( 132 ) In questo senso Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 296; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 360. ( 133 ) V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 141. ( 134 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 141. ( 135 ) Per la nozione di controllo è da condividere l’opinione che la ravvisa in quella ex art. 2359 c.c.: si tratta della nozione a carattere più generale tra quelle sparse nel nostro ordinamento, e pare dunque opportuno ricorrere ad essa. Analogamente si dovrà procedere per la nozione di gruppo, ravvisabile in 662 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 delle convenzioni, e quindi a fortiori anche per partecipare alla selezione, i potenziali gestori dovranno possedere requisiti patrimoniali minimi, differenziati per tipologia di prestazione offerta, determinati con deliberazione delle rispettive autorità di vigilanza ( 136 ) [art. 6, comma 7o, d.lgs. n. 252]. Secondo la delibera COVIP 9 dicembre 1999 ( 137 ) il fondo dovrà pubblicare un vero e proprio bando di richiesta di offerte per la gestione delle risorse, corredato di un questionario per la raccolta degli elementi utili alla selezione. Sulla base dell’esame dei questionari il fondo provvederà ad identificare i potenziali gequella ex art. 2497 c.c. V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 153-154. ( 136 ) Per quanto riguarda le assicurazioni v. il provvedimento ISVAP 14 novembre 1997, n. 719, dal titolo « Requisiti patrimoniali minimi per le imprese di assicurazione che intendono stipulare convenzioni con i fondi pensione », pubblicato in G.U., 25 novembre 1998, n. 275. Per le banche v. il regolamento della Banca d’Italia dal titolo « Gestione dei fondi pensione e istituzione di fondi pensione aperti da parte di banche », contenuto nella circolare 29 marzo 1998, n. 4, pubblicato in Banca d’Italia, Bollettino di vigilanza, 1998, 11. Per quanto riguarda le SIM v. la circolare Banca d’Italia 25 giugno 1992, n. 164, come modificata dal 20o aggiornamento del 14 agosto 1997: fascicolo « Intermediari del Mercato Mobiliare. Regolamento applicativo emanato dalla Banca d’Italia e Istruzioni di Vigilanza »; gestione del patrimonio dei fondi pensione da parte di SIM. Per le SGR v. la circolare Banca d’Italia 21 ottobre 1993, n. 188, come modificata dal 7o aggiornamento del 14 agosto 1997: fascicolo « Istruzioni di Vigilanza per gli Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio »; gestione del patrimonio dei fondi pensione. Le circolari della Banca d’Italia relative a SIM e SGR sono state consultate in Codice della previdenza complementare, a cura di Candian, Milano, 2003, pp. 297 ss. Per un quadro riassuntivo dei requisiti patrimoniali richiesti v. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 130131, nt. 80. ( 137 ) Sulla quale v. diffusamente Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 297 ss.; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 159, nt. 145; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 360363. stori cui richiedere un’offerta contrattuale. La scelta definitiva del gestore dovrà essere deliberata dall’organo amministrativo del fondo tenendo conto non soltanto del prezzo, ma anche della qualità del servizio offerto. La convenzione non sarà più oggetto di approvazione ex ante da parte della COVIP ( 138 ), ma di obblighi di comunicazione ex post: questi ultimi devono permettere all’autorità di apprezzare non soltanto la regolarità della procedura, ma anche la congruenza tra le scelte del fondo e la sua politica di investimento, nonché la corrispondenza delle convenzioni ai criteri di redazione stabiliti dalla COVIP stessa ( 139 ). Mentre nel regime previgente il grave vizio di procedura comportava il diniego dell’autorizzazione della COVIP e la conseguente inefficacia della convenzione ( 140 ), la questione appare più complicata dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 252. A parte le eventuali sanzioni per gli amministratori ex art. 19 quater, commi 2o e 3o, d.lgs. n. 252 ( 141 ), in dottrina si suggerisce la possibilità per gli amministratori dissenzienti, l’organo di controllo o i soci, se lesi nei loro diritti, di impugnare la delibera di scelta del gestore per ottenerne l’annullamento in applicazione analogica di quanto stabilito per le società per azioni dalla lettura coordinata degli artt. 2388, comma 4o, e 2377-78 c.c. ( 142 ). Tuttavia, la medesima dottrina avverte correttamente che l’invalidità non potrebbe travolgere la convenzione quando il gestore fosse in buona fede: e infatti l’art. 2388, comma 5o, c.c. fa salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi sulla base degli atti compiuti in esecuzione della deliberazione invalida ( 143 ). I vitali interessi pubblici in gioco suggerirebbero conseguenze più gravi per la ( 138 ) V. retro questo stesso paragrafo. ( 139 ) Cfr. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Convenzioni per la gestione delle risorse dei fondi pensione negoziali ». ( 140 ) Cfr. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 164-165; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 145. ( 141 ) Anche queste disposizioni sono frutto della novella apportata dal d.lgs. 28/07 (v. l’art. 6). ( 142 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 148-149. ( 143 ) Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 148-149. La nuova disciplina della previdenza complementare convenzione stipulata in aperta violazione degli oneri procedurali imposti ai fondi pensione per la selezione dei gestori. Tuttavia, appare davvero complesso configurare de iure condito la nullità della convenzione di gestione conclusa senza rispettare l’art. 6, commi 6o e 8o, d.lgs. n. 252. Infatti, le norme sul procedimento di stipulazione rientrano nel genus delle norme ordinative o di configurazione, ovvero di quelle che « stabiliscono le condizioni in presenza delle quali il contratto può validamente produrre i suoi effetti », piuttosto che comandi o divieti ( 144 ): non si tratta dunque delle norme imperative alla cui violazione l’art. 1418, comma 1o, c.c. ricollega senz’altro la sanzione radicale della nullità. La convenzione di gestione deve essere redatta per iscritto a pena di nullità; nonostante che la previsione non sia contenuta espressamente nel d.lgs. n. 252, è convincente la tesi che richiama la forma scritta ad substantiam a pena di nullità ( 145 ) sulla scorta della lettura combinata degli artt. 23, comma 1o e 24, comma 1o, lett. a), t.u.f., che prevedono il medesimo requisito per i contratti di gestione del risparmio ( 146 ). I fondi possono stipulare anche più convenzioni con soggetti abilitati diversi per la gestione del proprio patrimonio, come si evince dal secondo periodo dell’art. 6, comma 8o, d.lgs. n. 252, secondo il quale « le convenzioni possono essere stipulate, nell’ambito dei rispettivi regimi, anche congiuntamente fra loro » ( 147 ). Le diverse convenzioni possono riguardare sia la gestione ( 144 ) Così Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, pp. 206 e 212. Su questa tipologia di norme v., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, Albanese, op. ult. cit., p. 203 ss. ( 145 ) Si tratta di nullità relativa: l’azione di accertamento o l’eccezione spettano dunque soltanto al cliente-fondo pensione. ( 146 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 175. Tuttavia, come segnala la medesima autrice, la possibilità che il contratto non sia redatto per iscritto è praticamente virtuale, stante il controllo della COVIP. Nel senso che la legge richieda implicitamente la forma scritta Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 167. ( 147 ) Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 211. 663 complessiva di una frazione del patrimonio, sia l’effettuazione di uno o più tipi di attività di investimento dell’intero patrimonio ( 148 ). La precisazione che le convenzioni congiunte devono rimanere confinate all’interno dei rispettivi regimi sembra indicare l’esigenza, per la verità scontata ( 149 ), che non vi siano commistioni tra la gestione del patrimonio dei fondi a prestazione definita e di quello dei fondi a contribuzione definita ( 150 ). La possibilità di ricorrere a più gestori riconosciuta dall’art. 6, comma 8o, secondo periodo ha la duplice finalità di favorire la concorrenza fra i soggetti abilitati e di permettere al fondo di utilizzare al meglio le competenze e le esperienze possedute dai diversi gestori ( 151 ). La seconda parte dell’art. 6, comma 8o, d.lgs. n. 252 elenca alcune clausole che devono trovare necessariamente posto nella convenzione di gestione: le linee di indirizzo dell’attività dei gestori, nell’ambito dei criteri di individuazione e ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti indicati nello statuto del fondo [art. 6, comma 8o, lett. a)]; le modalità con le quali tali linee di indirizzo possono essere modificate [art. 6, comma 8o, lett. a)]; la previsione dei termini e delle modalità del recesso del fondo pensione ( 152 ), che devono anche contemplare la possibilità per il fondo di entrare in possesso delle attività finanziarie nelle quali risultano in- ( 148 ) Cfr. l’art. 3, comma 2o, delibera COVIP 9 dicembre 1999, cit. ( 149 ) Infatti, come si è visto retro (par. 3) la gestione del patrimonio delle forme pensionistiche complementari in regime di prestazione definita ha contenuto assicurativo, mentre la gestione delle risorse dei fondi a contribuzione definita è di carattere eminentemente finanziario. ( 150 ) Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 171-172. ( 151 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 171. ( 152 ) Il recesso unilaterale è previsto come facoltà del solo fondo pensione. Tale facoltà deve tuttavia considerarsi preclusa nel caso di convenzioni con contenuto assicurativo (convenzioni di gestione per regimi di prestazione definita, per l’erogazione delle prestazioni e per invalidità e premorienza): v. in questo senso condivisibilmente Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 212-213. 664 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 vestite le sue risorse [art. 6, comma 8o, lett. b)]; l’attribuzione in ogni caso al fondo della titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le sue disponibilità [art. 6, comma 8o, lett. c)]. Gli schemi di convenzione predisposti dalla COVIP sono estremamente dettagliati, e specificano ulteriormente il contenuto vincolante delle convenzioni ( 153 ). Essi precisano tra l’altro che il fondo pensione modifica le linee di indirizzo previo adeguato periodo di preavviso al gestore; tale preavviso non è tuttavia necessario nel caso di modifica degli indirizzi riferiti alla disciplina del conflitto di interessi. Gli schemi COVIP stabiliscono inoltre che il recesso del fondo deve essere sempre consentito anche ante tempus con il rispetto di un termine di preavviso ( 154 ); il recesso ante tempus del gestore, invece, è consentito in caso di modifica delle linee di indirizzo della gestione. A seguito delle modifiche della disciplina intervenute con l’art. 19, comma 2o, lett. d) ed e), d.lgs. n. 252/05 ( 155 ), gli schemi-tipo non dovrebbero essere più totalmente vincolanti, in quanto la COVIP definisce soltanto « i criteri di redazione delle convenzioni per la gestio- ( 153 ) V. la deliberazione COVIP 7 gennaio 1998 contenente « Schemi di convenzione per la gestione delle risorse ». Su questi schemi v. diffusamente Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 314 ss.; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 163; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 369 ss. ( 154 ) Il libero recesso del fondo dalla convenzione di gestione deve essere considerato un principio inderogabile della disciplina della previdenza complementare. Il fondo rimane il responsabile esclusivo dell’andamento della gestione di fronte agli aderenti, e le disposizioni in materia di responsabilità degli amministratori ex art. 5, commi 7o e 8o, d.lgs. n. 252/ 05 si comprendono anche in ragione della libera recedibilità del fondo che non ritenga più opportuna la continuazione della gestione del patrimonio ad opera di un determinato soggetto abilitato. In questo senso v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 280. Del resto, la libertà di recesso è un principio cardine sia dell’investimento nei fondi comuni di investimento mobiliare, sia della gestione patrimoniale: cfr. Vianello, La struttura delle convenzioni, cit., p. 457. ( 155 ) V. retro questo stesso paragrafo. ne delle risorse, cui devono attenersi » i fondi pensione « e i gestori nella stipula dei relativi contratti ». Per conseguenza, ora gli schemi-tipo dovrebbero essere letti soltanto come « criteri di redazione », dalla cui normativa dettagliata è dunque possibile, entro certi limiti, discostarsi ( 156 ). La COVIP tuttavia sembra andare di diverso avviso ( 157 ). Nel caso di mancanza di una delle clausole essenziali (ad es. le linee di indirizzo) la convenzione dovrà ritenersi nulla per vizio della forma scritta prevista ad substantiam ( 158 ); nel caso di clausola difforme (che attribuisce ad es. i diritti di voto relativi ai valori mobiliari del fondo al gestore) interverrà invece la nullità relativa con integrazione automatica del contratto ex art. 1419, comma 2o, c.c. ( 159 ). ( 156 ) In questo senso v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 163-164, secondo la quale « le convenzioni di nuova stipulazione potranno forse distaccarsi, ora, dalla formulazione letterale degli schemi-tipo, ma non potranno comunque disattenderne il contenuto e la sostanza ». ( 157 ) V. infatti la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Convenzioni per la gestione delle risorse dei fondi pensione negoziali »: « al momento le convenzioni si dovranno, comunque, conformare agli schemi-tipo di convenzione attualmente vigenti ». ( 158 ) V. supra questo stesso paragrafo. ( 159 ) Secondo la giurisprudenza la sostituzione automatica delle clausole ex art. 1419, comma 2o, c.c. avviene soltanto quando « un’espressa disposizione di legge [...] oltre a comminare la nullità di una determinata clausola, ne imponga anche la sostituzione con una normativa legale, mentre la predetta inserzione non è attuabile qualora il legislatore, nello stabilire la nullità di una clausola o di una pattuizione, non ne abbia espressamente prevista la sostituzione con una specifica norma », nel qual caso si rifluirà nella fattispecie ex art. 1419, comma 1o, c.c. (cfr. per tutte Cass. 28 giugno 2000, n. 8794, in Arch. civ., 2000, p. 977). Con riferimento alle convenzioni di gestione la nullità della clausola difforme e la volontà del legislatore nel senso della sostituzione si desumono dalla formulazione stessa dell’art. 6, comma 8o (« le convenzioni [...] devono in ogni caso [...] prevedere »), nonché dai rilevanti interessi pubblici in gioco, che non consentono il ricorso alla regola dell’art. 1419, comma 1o, c.c. Quest’ultima, infatti, richiama la volontà, seppur presunta, delle parti stipulanti alla conclusione del contratto benché privo della clausola nulla: ma il fondo e il gestore non sono liberi nella scelta del contenuto della convenzione di gestione, che risulta strettamente funzionalizzato a fini di tutela del risparmio previdenziale. La nuova disciplina della previdenza complementare I commi 8o e 9o dell’art. 6 d.lgs. n. 252 indicano anche due clausole che possono essere inserite facoltativamente nelle convenzioni di gestione: si tratta della previsione di una garanzia di restituzione del capitale e della clausola, che ad essa si può accompagnare, del trasferimento della titolarità delle risorse del fondo pensione in capo al gestore. Ai sensi del comma 9o « i fondi pensione sono titolari dei valori e delle disponibilità conferiti in gestione, restando peraltro in facoltà degli stessi di concludere, in tema di titolarità, diversi accordi con i gestori a ciò abilitati nel caso di gestione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale ». La disposizione segnala che il tipo « convenzione di gestione » conosce un sottotipo, caratterizzato dalla presenza di una clausola di garanzia di restituzione del capitale ( 160 ). Ai sensi dell’art. 6, comma 7o, soltanto i gestori aventi determinati requisiti patrimoniali (aggiuntivi) potranno stipulare convenzioni di questo genere: tali requisiti sono stabiliti dalle autorità di vigilanza sui gestori ( 161 ). Si ritiene consentita non soltanto la previsione di una garanzia di restituzione del capitale, ma anche di una garanzia di rendimento minimo ( 162 ). La ( 160 ) Cfr. la deliberazione COVIP 7 gennaio 1998, cit., contenente uno « Schema di convenzione per la gestione delle risorse » e uno « Schema di convenzione per la gestione delle risorse con garanzia di restituzione del capitale o corresponsione di un interesse minimo ». ( 161 ) L’art. 6, comma 7o, infatti, si esprime in termini di « requisiti patrimoniali minimi, differenziati per tipologia di prestazione offerta ». Le autorità di vigilanza, tuttavia, non hanno provveduto a determinare particolari requisiti per i gestori abilitati a stipulare la garanzia di restituzione del capitale: cfr. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 342. In ogni modo, i gestori sono sottoposti a regole prudenziali particolari in caso di stipulazione di convenzione con garanzia. Per le assicurazioni dispone in particolare la specifica disciplina in materia di riserve tecniche: esse dovranno costituire « riserve tecniche [...] sufficienti a garantire le obbligazioni assunte e le spese future » (art. 36, comma 1o, c.a.p.). Con soluzione analoga, le SIM, le SGR e le banche dovranno « disporre di un patrimonio libero almeno pari all’ammontare delle riserve necessarie per fare fronte all’impegno assunto in relazione alla garanzia prestata »: v. le normative della Banca d’Italia citate retro alla nt. 136. ( 162 ) In questo senso v. Candian, Linee ricostrutti- 665 presenza della garanzia non trasforma la convenzione in un contratto di assicurazione ( 163 ): il gestore rimane obbligato ad una gestione individuale a carattere finanziario del patrimonio del fondo, ma a questa obbligazione se ne affianca un’altra ai sensi della quale il gestore è tenuto al pagamento di una somma quando il risultato della gestione abbia condotto ad una perdita rispetto al capitale iniziale, o non abbia conseguito gli incrementi pattuiti ( 164 ). In particolare, dunque, l’attività di gestione delle risorse del fondo di gestione postulata dalle convenzioni con garanzia non implica né l’assunzione di rive in materia di fondi pensione, cit., p. 128; Id., I fondi pensione, cit., p. 121; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 221-222, che distingue opportunamente tra garanzia di restituzione del valore nominale del capitale (alla quale si riferisce propriamente l’art. 6, comma 9o), garanzia di restituzione del valore reale (che comprende una somma pari al valore nominale dei contributi versati capitalizzati ad un tasso di interesse pari almeno al tasso inflazionistico) e garanzia di corresponsione di un interesse minimo (dove la somma dovuta è comprensiva del valore nominale del capitale conferito e di un interesse minimo concordato tra le parti) (p. 221); Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I. L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 358-360; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 287-289. Del resto dispone espressamente in questo senso lo « Schema di convenzione per la gestione delle risorse con garanzia di restituzione del capitale o corresponsione di un interesse minimo », contenuto nella Deliberazione COVIP 7 gennaio 1998, cit.. Contra, nel senso che potrebbero essere inserite soltanto garanzie limitate alla sola restituzione del capitale nominale, v. invece Vianello, L’esecuzione delle convenzioni, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cinelli, cit., p. 461; Brambilla, Capire i fondi pensione, cit., p. 13; Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, cit., pp. 169-170. ( 163 ) Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., p. 135; Id., I fondi pensione, cit., p. 51; Pitacco, Gestione di fondi previdenziali con garanzie di minimo. Aspetti tecnico-attuariali, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., p. 151. ( 164 ) Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1121; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 283-284. 666 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 schio demografico, né la necessità di ricorrere a tecniche statistico-attuariali ( 165 ). Per conseguenza, tale clausola potrà essere inserita nelle convenzioni stipulate con tutti i soggetti gestori di cui all’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 (banche, SIM, SGR, società fiduciarie di gestione), e non soltanto con le assicurazioni ( 166 ). La possibilità di concludere, contestualmente alla stipulazione della garanzia, accordi che consentono il passaggio in capo al gestore della titolarità delle risorse conferite dal fondo sembra essere stata inserita soprattutto per rispettare l’obbligo delle assicurazioni di coprire con attivi propri le riserve tecniche dei rami vita (artt. 36, comma 1o e 38, comma 1o, c.a.p.) ( 167 ). Secondo la dottri- ( 165 ) V. in questo senso Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 10; Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1121-1123; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 224; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 168-170; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 283-284 e 291 ss. Contra però, nel senso che soltanto alle assicurazioni sarebbe consentito stipulare una convenzione con garanzia, Vianello, L’esecuzione delle convenzioni, cit., p. 461. ( 166 ) In questo senso Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1123; Paci, La gestione finanziaria con garanzia dei fondi pensione: metodologie e regolamentazione, in Iudica (a cura di), I fondi di previdenza e di assistenza complementare, cit., p. 158; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 224-225; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 296-301. ( 167 ) In questo senso Candian, I fondi pensione, cit., p. 125; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 353-354; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 175-176; anche se non espressamente, Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 252. Non si ritiene condivisibile invece, anche alla luce delle considerazioni riportate infra alla nt. 169, l’opinione di Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 225-227, secondo la quale « per nessuna » delle tipologie di garanzia « né tecnicamente, né legislativamente, vi è obbligo di costituzione di riserve da attrarre necessariamente nella titolarità del gestore, quand’anche questo sia una compagnia di assicurazione ». na prevalente ( 168 ) l’accordo ex art. 6, comma 9o consentirebbe soltanto l’attribuzione della titolarità formale del patrimonio, e non di quella sostanziale ( 169 ). In favore di un passaggio di titolarità meramente formale depongono dati testuali dell’art. 6 ( 170 ), ma anche lo schema-tipo ( 168 ) V. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., pp. 10-11; Carniol, La gestione dei fondi pensione: la visione degli operatori finanziari, in I fondi di previdenza e di assistenza complementare, a cura di Iudica, cit., p. 67 ss.; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 227-228; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 256 (seppur implicitamente); Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 340; contra però, nel senso che con l’accordo ex art. 6, comma 9o, d.lgs. n. 252 si avrebbe il passaggio sia della titolarità formale che di quella sostanziale, Candian, I fondi pensione, cit., 1998, p. 124; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 353-354 (quando si tratti di convenzione con garanzia di restituzione del capitale stipulata con impresa assicuratrice). ( 169 ) Il passaggio della titolarità soltanto formale non comporta tuttavia la conseguenza, paventata da alcuni, che tali risorse non potrebbero essere considerate valide a coprire le riserve tecniche delle assicurazioni dei rami vita, rendendo così eccessivamente difficile per questi ultimi operatori la stipulazione di convenzioni con garanzia. Infatti, un’attenta interpretazione della disciplina delle riserve tecniche delle assicurazioni chiarisce che, in caso di convenzione con garanzia, la titolarità sostanziale degli attivi è necessaria soltanto con riferimento alle riserve tecniche aggiuntive (v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 320 ss.). Queste ultime, tuttavia, non devono affatto corrispondere alla totalità dei valori conferiti in gestione (nel senso qui criticato, invece, Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 276 e 353-354): la compagnia di assicurazioni sarà tenuta a « costituire solo quelle riserve tecniche aggiuntive proporzionali al rischio finanziario effettivamente assunto » con la stipulazione della garanzia, tenuto conto in particolare del complesso delle riserve tecniche costituite anche dall’insieme del patrimonio gestito in nome proprio, ma per conto del fondo pensione (così Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 337). ( 170 ) Anche in caso di convenzione con garanzia e accordo sul passaggio di titolarità le risorse del fondo costituiscono patrimonio separato e autonomo, devono essere contabilizzate a valori correnti, non possono essere fatte oggetto di esecuzione da parte dei creditori del gestore [art. 6, comma 9o]; inoltre, la titola- La nuova disciplina della previdenza complementare della COVIP ( 171 ). L’attribuzione di titolarità meramente formale ha conseguenze non indifferenti per il fondo: gli eventuali accrescimenti del patrimonio ulteriori rispetto alla garanzia spetteranno ad esso, e non al gestore ( 172 ). Il d.lgs. n. 252 ha posto le fondamenta per una notevole diffusione delle convenzioni di gestione con garanzia. L’art. 8, comma 9o, stabilisce che « gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche complementari prevedono, in caso di conferimento tacito del t.f.r., l’investimento di tali somme nella linea a contenuto più prudenziale tale da garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili [...] al tasso di rivalutazione del t.f.r. » ( 173 ). L’art. 6, comma 8o, lett. a), secondo periodo, d.lgs. n. 252 aggiunge che le linee di indirizzo inserite nella convenzione possono « prevedere linee di investimento che consentano di garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del t.f.r. ». La mancata introduzione di una linea di investimento con queste caratteristiche comporta conseguenze pesanti per i fondi: e precisamente l’impossibilità di fruire del meccanismo di devoluzione tacita del t.f.r. ( 174 ). Sebbene a rigore la predisposizione di una linea di investimento di questo tipo non comporti necessariamente la stipulazione di una convenzione di gestione con garanzia ( 175 ), di fatto questo sarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari rimane in capo al fondo [art. 6, comma 8o, lett. c)]. Ma prima ancora il passaggio della titolarità sostanziale delle risorse del fondo al gestore contraddirebbe la nozione di « gestione », che è il contenuto essenziale anche di questa fattispecie di convenzione: cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 11; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 305. ( 171 ) V. in proposito l’accurata analisi di Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 341-342. ( 172 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 11; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 228; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 304-305. ( 173 ) Su questa disposizione v. Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., pp. XV-XVI. ( 174 ) In questo senso v. la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». ( 175 ) La COVIP sembra però di diverso avviso. Nella comunicazione 8 febbraio 2007 ai fondi pen- 667 rà lo strumento più semplice per conseguire il risultato della restituzione del capitale e di rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del t.f.r. ( 176 ). Tra l’altro, la COVIP, con distinzione a dire il vero non facilmente comprensibile, ritiene che la restituzione integrale del capitale debba essere assicurata « con certezza », mentre il rendimento minimo dovrà essere conseguito « con elevata probabilità » ( 177 ). Lo strumento più usato per ottenere questi risultati sarà verosimilmente una convenzione di gestione con clausola di garanzia che comprende non soltanto la restituzione del capitale, ma anche un rendimento comparabile a quello del t.f.r. ( 178 ). La previsione espressa nel d.lgs. n. 252 di una linea sione negoziali, dal titolo « Comunicazione ai fondi pensione negoziali in merito al comparto garantito destinato ad accogliere il t.f.r. conferito tacitamente », l’autorità di vigilanza sembra indicare che la stipulazione di una convenzione con clausola di garanzia di restituzione del capitale costituisce strumento imprescindibile per il corretto adeguamento a quanto prescritto dagli artt. 6, comma 8o, lett. a), secondo periodo e 8, comma 9o, d.lgs. n. 252/05. In questo senso anche Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 288. ( 176 ) E precisamente pari ad « un tasso costituito dall’1,5 per cento in misura fissa e dal 75 per cento dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall’ISTAT » nell’anno (art. 2120, comma 4o, c.c.). ( 177 ) Così la deliberazione COVIP 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Gestione delle risorse delle forme pensionistiche complementari ». Analogamente anche la comunicazione COVIP 8 febbraio 2007 ai fondi pensione negoziali, dal titolo « Comunicazione ai fondi pensione negoziali in merito al comparto garantito destinato ad accogliere il t.f.r. conferito tacitamente », cit. In quest’ultimo documento la COVIP precisa anche che la nozione di capitale garantito deve comprendere « la somma dei contributi versati al fondo [...], decurtata dei costi eventualmente posti direttamente a carico degli aderenti [...], ossia di quelle somme che non sono affidate in gestione », mentre « non devono [...] intaccare il capitale minimo garantito le commissioni da corrispondere ai gestori finanziari per la gestione delle risorse [...] e per la prestazione della garanzia, nonché gli oneri di negoziazione finanziaria ». Nel senso che i fondi dovrebbero garantire un rendimento pari almeno ad una certa percentuale di quello assicurato dal t.f.r. Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XIV. ( 178 ) Cfr. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 288, se- 668 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 di investimento che implica quasi necessariamente la stipulazione di una clausola di garanzia di rendimento toglie ogni dubbio residuo all’ammissibilità in via generale della negoziazione di tale tipo di clausole nell’ambito delle convenzioni ( 179 ). 4.2.2. – L’art. 6, comma 9o, d.lgs. n. 252 descrive gli effetti legali che conseguono alla stipulazione della convenzione di gestione. La maggior parte sono inderogabili: soltanto al principio della titolarità delle disponibilità e dei valori conferiti in capo al fondo gestione si può derogare, come si è visto ( 180 ), in caso di convenzione accompagnata da garanzia di restituzione del capitale. I fondi pensione sono dunque titolari del patrimonio conferito in gestione: è evidente la ratio di tutela degli interessi patrimoniali degli aderenti sottesa a questa disposizione ( 181 ). Esso costituisce in ogni caso (anche in quello in cui sia stato concordato il passaggio della titolarità al gestore) ( 182 ) patrimonio separato e autonomo con gli effetti già riconosciuti dall’art. 2117 c.c. ai fondi destinati dal datore di lavoro alla previdenza integrativa dei dipendenti: esso è astretto dal vincolo di destinazione, e non può formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dei soggetti gestori, né da loro rappresentanti, né essere coinvolto in procedure concorsuali che riguardano il gestore ( 183 ). Questa disciplina della separazione patrimo- condo la quale la stipulazione di una convenzione di questo tipo è addirittura imposta ai fondi pensione. ( 179 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 288. ( 180 ) V. retro il paragrafo precedente. ( 181 ) Come nota Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 215, « qualora il patrimonio del fondo venisse fuso con quello del gestore, eventuali crisi finanziarie di quest’ultimo finirebbero per avere effetti pregiudizievoli in capo agli iscritti ». ( 182 ) In questo senso espressamente Vianello, L’esecuzione delle convenzioni, cit., pp. 463 e 465466. ( 183 ) Vianello, L’esecuzione delle convenzioni, cit., pp. 462-463; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 216; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., pp. 307 ss. niale è analoga ( 184 ) a quella dettata dall’art. 22, comma 1o, t.u.f. con riferimento alle somme di denaro e agli strumenti finanziari che formano oggetto (anche) del servizio di gestione di portafogli di investimento ex art. 24, t.u.f.: ne esce così confermata l’opinione che riconduce le convenzioni di gestione ai contratti di gestione patrimoniale di cui al t.u.f., di cui costituirebbero un sottotipo ( 185 ). In caso di procedura concorsuale a carico del gestore, il fondo pensione è legittimato a proporre l’azione di rivendicazione ex art. 103, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (di seguito: l. fall.) per ritornare il possesso del proprio patrimonio [art. 6, comma 9o, terzo periodo, d.lgs. n. 252] ( 186 ). Il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 ha riscritto ampiamente la l. fall., ed in particolare anche l’art. ( 184 ) In realtà la disciplina ex art. 22, commi 1o e 2 , t.u.f. appresta una tutela ancora maggiore al cliente: essa infatti non consente agli eventuali depositari o sub-depositari, o a loro creditori, azioni sul patrimonio distinto, né l’operare in loro favore della compensazione legale o giudiziale, né la possibilità di pattuire la compensazione convenzionale rispetto ai crediti da loro vantati nei confronti dell’intermediario (o del depositario nel caso del sub-depositario). Secondo condivisibile dottrina queste disposizioni di maggior tutela sarebbero applicabili anche al cliente fondo pensione, per il quale rivestono un particolare interesse per via dell’esistenza di un depositario imposto ex lege: la banca depositaria di cui all’art. 7 d.lgs. n. 252. V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 187-189. ( 185 ) In questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 179. ( 186 ) Sui problemi di coordinamento tra questa disposizione e la disciplina delle procedure concorsuali degli intermediari finanziari v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 180-181, nt. 76. In particolare, secondo questa autrice l’art. 103 l. fall. non si applicherebbe più a banche, SIM e SGR, e la disciplina della rivendicazione e restituzione (anche) dei patrimoni dei fondi pensione si dovrebbe rinvenire nell’art. 91, d.lgs. 1o settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia – di seguito: TUB). Nel caso dei fondi pensione, tuttavia, il richiamo espresso dell’art. 103, l. fall. potrebbe costituire lex specialis derogatoria della disciplina applicabile alle rivendicazioni e restituzioni azionate dalla generalità dei clienti degli intermediari finanziari sottoposti a procedura concorsuale. o La nuova disciplina della previdenza complementare 103. Tuttavia, poiché l’art. 103 continua a regolare, sebbene in modo parzialmente diverso, la materia della rivendicazione e restituzione, non sorgono problemi a ritenere applicabili le nuove disposizioni. La rivendicazione potrà avere ad oggetto « tutti i valori conferiti in gestione, anche se non individualmente determinati o individuati ed anche se depositati presso terzi, diversi dal soggetto gestore » [art. 6, comma 9o, penultimo periodo, d.lgs. n. 252]: i terzi diversi dal gestore cui si fa riferimento sono anzitutto la banca depositaria ex art. 7, d.lgs. n. 252 ( 187 ). Qualora il patrimonio non sia stato acquisito, in tutto o in parte, all’attivo della procedura, il fondo potrà modificare la propria domanda anche nel corso dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo e chiedere l’ammissione al passivo per il valore del patrimonio o della parte di esso alla data di apertura della procedura concorsuale (art. 103, secondo periodo, l. fall.). Se invece il curatore perde il possesso di una parte o di tutti gli strumenti finanziari e le disponibilità del fondo dopo averli acquisiti, il fondo pensione potrà chiedere che il relativo valore sia corrisposto in prededuzione (art. 103, secondo periodo, l. fall.). Per la determinazione del patrimonio del fondo oggetto di rivendicazione l’ultimo periodo dell’art. 6, comma 9o pone particolari agevolazioni probatorie: è infatti ammessa « ogni prova documentale, ivi compresi i rendiconti redatti dal gestore o dai terzi depositari », ovvero dalla banca depositaria ex art. 7, d.lgs. n. 252. La riforma della l. fall. ha ulteriormente alleggerito il carico probatorio del fondo: il nuovo art. 103, primo periodo, l. fall. richiama infatti l’art. 621 c.p.c. Dalla lettura congiunta delle due norme si deduce che la prova per testimoni sui beni mobili oggetto di rivendicazione e in possesso del debitore sottoposto alla procedura concorsuale può essere esperita soltanto quando « l’esistenza del diritto stesso » di proprietà « sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo o dal debitore » (art. 621 c.p.c.). Non sussistono dubbi che questa via sia sempre percorribile dal fondo pensione sulla scorta delle caratteristiche di professionalità proprie e del gestore; ( 187 ) Sulla quale v. infra amplius il par. 6 di questo commento. 669 rimane invece più dubbia la concreta utilità ( 188 ). 4.2.3. – I commi 5o bis e 13o dell’art. 6, d.lgs. n. 252 (come modificato dal d.lgs. n. 28/07) stabiliscono i criteri di investimento che i fondi pensione devono seguire e i limiti che essi devono rispettare nell’impiego delle proprie risorse. L’ultima parte del comma 5o bis si occupa anche di conflitti di interesse. Su queste materie il testo originario del d.lgs. n. 252 aveva ripreso fedelmente quanto stabilito dall’art. 6, commi 4o quinquies e 5o, d.lgs. n. 124/93, aggiungendo però una lett. c) al contenuto del vecchio art. 6, comma 5o [art. 6, comma 13o, lett. c), d.lgs. n. 252]: si tratta di una disposizione volta ad adeguare (parzialmente) il nostro ordinamento alla dir. 2003/41/CE ( 189 ). Tuttavia, un completo adeguamento delle norme dell’art. 6 relative agli investimenti a quanto prescritto dall’art. 18, dir. 2003/41/CE richiedeva modifiche più consistenti: il d.lgs. 28/07 di recepimento della direttiva ha dunque preferito percorrere la via dell’abrogazione integrale del comma 11o dell’art. 6, d.lgs. n. 252 ( 190 ) e della sua sostituzione con il nuovo comma 5o bis; l’art. 1, comma 2o, d.lgs. 28/07 ha inoltre aggiunto una nuova lett. c bis) al comma 13o dell’art. 6. Nella propria attività di asset allocation il fondo pensione deve innanzitutto rispettare i limiti di cui all’art. 6, comma 13o, d.lgs. n. 252 ( 191 ). I ( 188 ) Infatti, il patrimonio del fondo non è composto di « beni materiali fisicamente identificabili »: così Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 186-187, nt. 86. ( 189 ) Essa infatti riprende pressoché alla lettera quanto stabilito dall’art. 18, par. 1, lett. f), dir. 2003/ 41/CE. ( 190 ) Cfr. l’art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07. ( 191 ) Qualora non rispettino i limiti di investimento previsti nell’art. 6, comma 13o, d.lgs. n. 252, a parte la responsabilità per mala gestio secondo le regole generali, i componenti degli organi collegiali dei fondi e il responsabile della forma pensionistica possono essere puniti con le sanzioni amministrative di cui all’art. 19 quater, comma 2o, lett. c) d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.lgs. 28/07) e, nei casi più gravi, anche dichiarati decaduti ai sensi dell’art. 19 quater, commi 2o, lett. c) e 3o, d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.lgs. n. 28/07). 670 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 medesimi limiti devono essere rispettati anche dai gestori abilitati che operano con le risorse del fondo pensione: infatti, la relativa disciplina si impone loro come lex specialis derogatoria delle regole generali esistenti in materia di investimenti nell’ambito dell’attività di intermediazione finanziaria o assicurativa ( 192 ). Le limitazioni ex art. 6, comma 13o, infine, vincolano anche la banca depositaria di cui all’art. 7, d.lgs. n. 252 ( 193 ), la quale è tenuta a non eseguire le istruzioni impartite dal gestore qualora esse siano contrarie alla legge (e dunque anche quando esse siano contrarie alle indicazioni ex art. 6, comma 13o). L’art. 6, comma 13o si apre vietando ai fondi, per intuibili motivi prudenziali, di assumere o concedere prestiti, nonché prestare garanzie in favore di terzi ( 194 ). La lett. a) del comma 13o stabilisce poi che i fondi pensione non possono acquisire tramite le proprie risorse più del 5% del valore nominale complessivo di tutte le azioni o quote con diritto di voto emesse da una società quotata, percentuale che diventa il 10% se la società non è quotata; la disposizione si chiude vietando comunque l’acquisizione di una percentuale anche inferiore, se questa sia in grado di determinare in via diretta un’influenza dominante sulla società ( 195 ). La ratio di questo divieto è quella di impedire che, attraverso l’acquisizione ( 192 ) In questo senso con riferimento ai limiti ex d.m. n. 703/96 (ma l’argomento vale con riferimento a tutti i limiti agli investimenti posti dalla disciplina sui fondi pensione) v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 130, nt. 20. Nel senso invece che i limiti di investimento ex d.m. n. 703/96 non si applicherebbero ai gestori, che sarebbero tenuti soltanto al rispetto delle disciplina in materia di investimenti propria della loro attività istituzionale, v. Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., pp. 335-336, secondo la quale « un eventuale conflitto di norme (ad es. sui limiti degli investimenti) » potrebbe « essere risolto mediante il ricorso da parte del fondo ad una pluralità di convenzioni » (p. 336). ( 193 ) Sulla quale v. amplius, infra al par. 6. ( 194 ) Il divieto di « prestare garanzie in favore di terzi » è stato opportunamente introdotto dall’art. 1, comma 5o, d.lgs. n. 28/07: l’assenza di questa precisazione finiva per vanificare di fatto il divieto di concedere prestiti. ( 195 ) È stato notato però che la disposizione non vieta l’acquisizione di un’influenza indiretta sulla so- del controllo, considerazioni inerenti la gestione diretta di una società finiscano in qualche modo per distogliere il fondo dal suo obiettivo prioritario, che è quello della massimizzazione del risparmio previdenziale degli aderenti ( 196 ). Un obiettivo diverso è sotteso agli altri due divieti contenuti nell’art. 6, comma 13o, lett. b) e c): qui si vuole evitare che il fondo si esponga eccessivamente nei confronti delle imprese tenute alla contribuzione. Infatti, soprattutto nel caso dei fondi negoziali, le parti sociali potrebbero cercare di concentrare la maggior parte degli investimenti nel settore o nell’impresa di appartenenza con il rischio di pregiudicare pesantemente la finalità dell’accrescimento del risparmio previdenziale degli aderenti ( 197 ). L’art. 6, comma 13o, lett. b) fa dunque divieto ai fondi pensione di acquisire azioni o quote di soggetti tenuti alla contribuzione, o da questi controllati direttamente o indirettamente, per interposta persona o tramite società fiduciaria, o agli stessi legati da rapporti di controllo ( 198 ), cietà: v. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 256. ( 196 ) Cfr. in questo senso Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 211-212; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 348; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 256-257. V. però le diverse considerazioni di Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 4: secondo questa autrice i limiti di investimento del 5 e del 10% calcolati sul valore nominale complessivo di tutte le azioni o quote con diritto di voto emesse da una società non si giustificherebbero con la finalità di tutela del risparmio previdenziale degli aderenti al fondo, e costituirebbero dunque una inammissibile limitazione dell’iniziativa economica dei fondi, « probabilmente in contrasto con l’art. 41 e forse anche con l’art. 46 Cost. ». ( 197 ) Cfr. Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 212213; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 258-260. ( 198 ) Per la nozione di controllo l’art. 6, comma La nuova disciplina della previdenza complementare per un ammontare superiore al 20% delle risorse del fondo, che diviene il 30% per i fondi pensione di categoria. L’art. 6, comma 13o, lett. c), fermi i limiti generali di cui alla lett. b), riduce le percentuali appena viste al 5 e al 10% del patrimonio complessivo del fondo quando si tratti di fondi pensione aventi come destinatari i lavoratori di una determinata impresa e l’investimento riguardi strumenti finanziari emessi da tale impresa e rispettivamente da imprese appartenenti al gruppo ( 199 ) di cui l’impresa fa parte. I limiti di investimento previsti dalla lett. c) risultano più rigorosi di quelli della lett. b). Il divieto in quest’ultimo caso riguarda soltanto l’acquisto di azioni o quote e non di altri strumenti finanziari emessi dalle società ( 200 ), come ad es. le obbligazioni o gli strumenti finanziari partecipativi ex art. 2346, comma 6o, c.c. o 2447 ter, comma 1o, lett. e), c.c., considerati evidentemente meno rischiosi per la stabilità dei fondi pensione; la percentuale di azioni o quote acquisibili è poi piuttosto elevata poiché l’investimento concerne una pluralità di società, e questa circostanza consente comunque di diluire il rischio. La fattispecie ex lett. c) riguarda invece l’investimento in un’unica società o gruppo, e sembra pensata per ricomprendere in particolare i fondi pensione aziendali: il divieto riguarda tutti gli strumenti finanziari emessi dall’impresa i cui lavoratori aderiscono al fondo pensione, con possibilità di acquisto davvero ridotte. La preoccupazione principale del legislatore, anche comunitario, è la salvaguardia del risparmio previdenziale dei lavoratori nel caso in cui l’impresa si trovi ad attraversare momenti di crisi ( 201 ). 13o, lett. b) e c) rimanda a quella, molto ampia, contenuta nell’art. 23 t.u.b. ( 199 ) Per la nozione di gruppo il riferimento dell’art. 6, comma 13o, lett. c) è alle imprese legate da rapporti di controllo ex art. 23 t.u.b. ( 200 ) Inoltre, stando alla lettera della norma, il divieto non si applica ai fondi con contribuzione esclusiva a carico dei lavoratori. La fattispecie ex lett. c) ricomprende invece anche questa tipologia di fondi. V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 261. ( 201 ) Non può non venire alla mente il notissimo caso Enron, dove alla sventura della perdita dei propri posti di lavoro, per i dipendenti si sommò la beffa 671 In attuazione dell’art. 18, par. 1, lett. c), dir. 2003/41/CE l’art. 1, comma 2o, d.lgs. n. 28/07 ha aggiunto all’art. 6, comma 13o, un’ulteriore lett. c bis), nella quale si precisa che il patrimonio dei fondi pensione deve essere investito in misura predominante sui mercati regolamentati, mantenendo a livelli prudenziali gli impieghi in attività non ammesse in tali mercati. Questa disposizione rimedia opportunamente ad una lacuna del nostro ordinamento: il d.m. n. 703/96 non prevede alcun limite specifico per gli investimenti dei fondi pensione in titoli non ammessi allo scambio in mercati regolamentati ( 202 ). È di tutta evidenza che l’investimento delle risorse dei fondi pensione nei mercati regolamentati offre maggiori garanzie per il risparmio previdenziale rispetto a quello in titoli non negoziati in tali mercati. Nella disciplina previgente la novella ex d.lgs. n. 28/07 l’assenza di un chiaro limite agli investimenti dei fondi in titoli non ammessi allo scambio in mercati regolamentati si spiegava anche con il favor che l’art. 6, comma 11o, lett. a) riservava al finanziamento delle piccole e medie imprese, i cui titoli difficilmente vengono negoziati in tali mercati. Del tutto coerentemente, perciò, il nuovo art. 6, comma 5o bis, d.lgs. n. 252 non ripropone l’inciso secondo il quale nella gestione delle proprie risorse i fondi pensione devono avere « particolare attenzione per il finanziamento delle piccole e medie imprese ». Il vecchio art. 6, comma 11o, lett. a) e b), d.lgs. n. 252, sulla scorta di quanto già faceva l’art. 6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124, incaricava il Ministero dell’economia e delle finanze di definire con decreto, sentita la COVIP, le attività del dissesto dei propri risparmi previdenziali. Nel piano pensionistico aziendale a contribuzione definita di Enron [piano 401(K)] ben il 63% del patrimonio risultava investito in titoli dell’impresa stessa. Cfr. per ulteriori dettagli sulla vicenda Mangiatordi e Giacomel, Il dissesto dei piani pensionistici della società Enron: alcune riflessioni sul sistema dei fondi pensione negli Stati Uniti e in Italia, in Quaderni tematici COVIP, 2002, 1, p. 40 ss., consultabile sul sito www.covip.it. ( 202 ) Per la verità limiti indiretti si possono trarre dai commi 1o, lett. c) e 2o dell’art. 4, la cui ratio principale è tuttavia quella di arginare gli investimenti dei fondi pensione in titoli negoziati al di fuori dei Paesi dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone. 672 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 nelle quali i fondi pensione possono investire le proprie risorse e i relativi limiti massimi di investimento, nonché i criteri di investimento nelle varie categorie di valori mobiliari; il decreto doveva anche porre particolare attenzione alle esigenze di finanziamento delle piccole e medie imprese e allo sviluppo locale. Il nuovo comma 5o bis dell’art. 6 d.lgs. n. 252 interviene a sostituire l’abrogato comma 11o ( 203 ) con una normativa maggiormente in linea con quanto disposto dall’art. 18 dir. 2003/41/CE ( 204 ). Il decreto diventa interministeriale, in quanto il comma 5o bis stabilisce che il « Ministro dell’economia e delle finanze » provveda « di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale ». Tuttavia, il contenuto del decreto non ne esce rivoluzionato, prevedendosi pur sempre che esso stabilisca le attività nelle quali i fondi pensione possono investire le proprie risorse, nonché i criteri di investimento nelle varie categorie di valori mobiliari ( 205 ). Si accentua però il carattere liberale della regolazione: i limiti massimi di investimento sono previsti soltanto come eventualità giustificata « da un punto di vista prudenziale »; scompare ogni traccia di funzionalizzazione degli investimenti dei fondi alle esigenze delle p.m.i. e, al contra( 203 ) Cfr. l’art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07. ( 204 ) Cfr. l’art. 18, parr. 1, lett. a), 5 e 6, dir. 2003/ 41/CE. ( 205 ) Secondo l’art. 15 ter, comma 6o, d.lgs. n. 28/ 07 il decreto dovrà anche definire i limiti agli investimenti che i fondi pensione istituiti in altri Stati dell’Unione europea, rientranti nel campo di applicazione della dir. 2003/41/CE e debitamente autorizzati dall’Autorità competente del proprio Stato membro di origine, dovranno eventualmente rispettare per la parte di attivi corrispondenti alle attività svolte sul territorio italiano. La dir. 2003/41/CE liberalizza l’attività transfrontaliera delle forme pensionistiche complementari (cfr. l’art. 20, nonché infra il par. 5). In linea di principio la gestione delle risorse si svolge secondo le regole dello Stato di stabilimento, in quanto esse risultano ampiamente armonizzate a livello comunitario ad opera dell’art. 18 della direttiva. Tuttavia, l’art. 18, par. 7, dir. 2003/41/CE consente ad uno Stato membro di imporre ai fondi pensione stranieri che esercitano in esso l’attività transfrontaliera il rispetto di regole di investimento conformi a quelle delineate nel medesimo art. 18, par. 7, ma soltanto per la parte di attivi corrispondenti alle attività svolte nel Paese ospite e purché tali regole si applichino anche alle imprese ivi stabilite. rio, si ribadisce che l’attività del fondo deve perseguire l’esclusivo « interesse degli iscritti ». Il Ministero ha provveduto con il decreto del Ministero del tesoro 21 novembre 1996, n. 703 ( 206 ). Di fatto, l’opera del Ministro si è concretizzata nell’identificazione di criteri di gestione piuttosto generici, nonché di nuovi limiti all’investimento delle risorse dei fondi pensione, che si intrecciano con quelli ex art. 6, comma 13o, d.lgs. n. 252. Anche questi limiti non si impongono soltanto ai fondi pensione ( 207 ), ma anche ai gestori abilitati e alla banca depositaria ( 208 ). Non sembrano sussistere poi dubbi che il d.m. n. 703/96 continui ad applicarsi anche con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 252 e della novella operata dall’art. 1, comma 1o, d.lgs. n. 28/07, benché esso sia stato approvato sulla scorta della delega ex art. 6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124. L’abrogazione è sempre una questione di interpretazione della volontà del legislatore. In questo caso, la sostanziale affinità contenutistica che lega l’art. 6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124 ai commi 11o e 5o bis dell’art. 6, d.lgs. n. 252 conferma la persistente vigenza del d.m., quanto meno nelle parti non incompatibili con le modifiche intervenute nel passaggio dall’abrogato comma 11o al nuovo comma 5o bis dell’art. 6 ( 209 ). ( 206 ) Per un’accurata analisi v. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 319 ss.; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 135 ss.; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 349-352. ( 207 ) Anche in questo caso, il mancato rispetto dei limiti di investimento contenuti nel decreto può comportare per i componenti degli organi collegiali dei fondi e il responsabile della forma pensionistica complementare, a parte la responsabilità per mala gestio secondo le regole generali, le sanzioni amministrative di cui all’art. 19 quater, comma 2o, lett. c) d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.lgs. n. 28/07) nonché, nei casi nei casi più gravi, la decadenza ai sensi dell’art. 19 quater, commi 2o, lett. c) e 3o, d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.lgs. n. 28/07). ( 208 ) V. retro questo stesso paragrafo. ( 209 ) Cfr. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 85-86, nt. 42, secondo la quale « l’art. 21, ultimo comma, La nuova disciplina della previdenza complementare Ai sensi dell’art. 2 d.m. n. 703/96 la gestione delle risorse del fondo pensione deve avvenire « in maniera sana e prudente », e deve avere per obiettivi la « diversificazione degli investimenti »; l’« efficiente gestione del portafoglio »; la « diversificazione dei rischi, anche di controparte »; il « contenimento dei costi di transazione, gestione e funzionamento del fondo »; e la « massimizzazione dei rendimenti netti ». Il d.m. raccomanda ai fondi di tener conto « delle esigenze di finanziamento delle piccole e medie imprese » (art. 2, comma 4o). Già prima dell’abrogazione del comma 11o dell’art. 6, che invitava il decreto ministeriale a porre « particolare attenzione per il finanziamento delle piccole e medie imprese » [art. 6, comma 11o, lett. a), d.lgs. n. 252], la dottrina riteneva che si trattasse per lo più di un’indicazione non vincolante ( 210 ): del resto, qualsiasi funzionalizzazione dell’attività dei fondi pensione a scopi estranei a quello di fornire un’adeguata copertura previdenziale complementare ai propri aderenti appariva scarsamente coerente con il fondamento costituzionale del secondo pilastro ( 211 ). Tuttavia, secondo attenta dottrina ( 212 ), la norma poteva anche non risultare completamente indolore: non era infatti da escludere che il perseguimento delle esigenze di finanziamento delle p.m.i. venisse in rilievo nell’ambito dei giudizi di responsabilità degli amministratori del fondo del d. legisl. n. 252/05 prevede l’abrogazione del solo d. legisl. n. 124/93, non delle relative norme di attuazione, che sembrano pertanto conservare la loro validità, almeno fintanto che non siano espressamente abrogate da una fonte di grado superiore o almeno analogo, tranne che non si verifichi una situazione di incompatibilità con le norme sopravvenute ». ( 210 ) Cfr. Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 8; Vianello, L’esecuzione delle convenzioni, cit., p. 469; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 272; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 137-138. ( 211 ) Radicato, come è stato ribadito in note sentenze del giudice delle leggi, nell’art. 38, comma 2o, Cost.: v. Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421, in Giust. civ., 1995, I, p. 2885; ancora più chiaramente Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, in Giur. cost., 2000, p. 2757. ( 212 ) Cfr. Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 209. 673 e dei gestori, con l’effetto di attenuarla o addirittura escluderla. Il nuovo comma 5o bis dell’art. 6 elimina qualsiasi riferimento alle p.m.i., e ribadisce invece la centralità del « perseguimento dell’interesse degli iscritti » nell’attività di investimento delle risorse del fondo pensioni. Per conseguenza, l’art. 2, comma 4o, d.m. n. 703/96 deve ora ritenersi tacitamente abrogato per incompatibilità con il quadro legislativo superveniens che conferisce il potere regolamentare esercitato attraverso l’emanazione del d.m. stesso. Il fondo pensione può investire le proprie disponibilità in titoli di debito, titoli di capitale, parti di OICVM (organismi di investimento collettivo in valori mobiliari), quote di fondi chiusi, nonché effettuare operazioni di pronti contro termine e in contratti derivati ( 213 ), e detenere liquidità (art. 3 d.m. n. 703/96). L’art. 4 d.m. stabilisce i limiti di investimento, espressi in percentuale del patrimonio del fondo pensione. Anzitutto, poiché la gestione è finalizzata all’incremento e alla valorizzazione delle risorse del fondo, l’art. 4, comma 1o, lett. a) sancisce il limite del 20% alle liquidità che i fondi pensione possono detenere ( 214 ). Esigenze di contenimento dei rischi valutari spingono poi la normativa regolamentare a stabilire che « gli investimenti del fondo pensione devono essere denominati per almeno un terzo in una valuta congruente con quella nella quale devono essere erogate le prestazioni del fondo » stesso (art. 4, comma 5o). Gli altri limiti riguardano in particolare le quote di fondi chiusi, nonché i titoli di debito e di capitale non negoziati in mercati regolamentati dei Paesi dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone (con un trattamento di miglior favore per i titoli di debito e di capitale emessi da Paesi aderenti all’OCSE o da soggetti lì residenti). L’art. 4, comma 2o, d.m. n. 703/96 vieta inoltre al fondo pensione di investire più del 15% del proprio patrimonio in strumenti finanziari emessi da ( 213 ) Questi ultimi con i limiti illustrati all’art. 5, d.m. n. 703/96. ( 214 ) L’art. 1, comma 1o, lett. f), d.m. n. 703/96 definisce come liquidità i « titoli del mercato monetario ovvero altri titoli di debito con vita residua non superiore a sei mesi, aventi requisiti di trasferibilità ed esatta valutabilità, ivi compresi i depositi bancari a breve ». 674 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 uno stesso emittente o da soggetti facenti parte di un medesimo gruppo ( 215 ). Il divieto ha un campo di applicazione solo parzialmente coincidente con quello ex art. 6, comma 13o, lett. c), d.lgs. n. 252: a tacer d’altro, nella fattispecie appena delineata non si richiede che i lavoratori dell’emittente aderiscano al fondo pensione, né che l’emittente sia una società (in ipotesi potrebbe essere anche uno Stato). La disciplina del d.m. n. 703/96 è stata ritenuta dalla dottrina particolarmente liberale ( 216 ): i limiti da essa stabiliti lasciano una notevole libertà d’azione ai fondi pensione, e non a caso risultano in massima parte compatibili con la regolazione degli investimenti contenuta nell’art. 18 dir. 2003/41/CE, altrettanto improntata ad un moderato laissez-faire. 4.2.4. – Il vecchio art. 6, comma 11o, lett. c), d.lgs. n. 252, come già l’art. 6, comma 4o quinquies, d.lgs. n. 124, incaricava il decreto del Ministro dell’economia di individuare anche « le regole da osservare in materia di conflitti di interesse », in particolare (ma non solo) quando i soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive partecipano ai gestori abilitati ex art. 6, comma 1o ( 217 ). Il nuovo art. 6, comma 5o bis conferma ( 215 ) Il limite scende al 5% del patrimonio del fondo se si tratti di strumenti finanziari non negoziati in mercati regolamentati dei Paesi dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone (salvo che si tratti di titoli di debito emessi da Stati aderenti all’OCSE) (art. 4, comma 2o, d.m. n. 703/96). ( 216 ) In questo senso v. Candian, I fondi pensione, cit., p. 130; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 208-209; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 272; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 136 e 138; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 350-351; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., pp. 255-256. ( 217 ) Secondo Russo, Gli amministratori dei Fondi Pensione. Natura dell’incarico ed ipotesi di conflitto di interessi, in Dir. banca e merc. fin., 1998, I, p. 184, quest’ultima fattispecie di conflitto di interessi si verifica in due sole ipotesi: « quando gli amministratori sono designati direttamente dal datore di lavoro che ha sottoscritto il contratto collettivo o il regolamento il conferimento del potere regolamentare di disporre in materia di conflitto di interessi. Il nuovo comma contempla una lett. c), secondo la quale il decreto interministeriale con cui vengono stabiliti criteri e limiti per gli investimenti dei fondi pensione si occuperà anche di tale materia. Le nuove regole dovranno tener conto della specificità dei fondi pensione, nonché dei principi di cui alla dir. 2004/39/CE, alla normativa comunitaria di esecuzione e a quella nazionale di recepimento ( 218 ). Nella dir. 21 aprile 2004, n. 2004/39/CE relativa ai mercati degli strumenti finanziari la materia dei conflitti di interesse è trattata nell’art. 18. Ai sensi di questa disposizione gli Stati membri devono anzitutto richiedere alle imprese di investimento di adottare ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse ed assicurare, con ragionevole certezza, che sia evitato il rischio di nuocere ai clienti (art. 18, parr. 1 e 2). Qualora sia impossibile evitare questo rischio, l’impresa di investimento dovrà informare chiaramente i clienti della natura e delle fonti del conflitto di interesse prima di agire per loro conto. Infine, l’art. 18, par. 3, incarica la Commissione europea di adottare misure di esecuzione in particolare per stabilire i criteri di individuazione dei conflitti di interesse potenzialmente lesivi degli interessi dei clienti. Questa disciplina del conflitto di interessi si basa essenzialmente sul binomio costituito dalla riduzione per quanto possibile al minimo dei rischi aziendale istitutivo del fondo e questi possiede la partecipazione al capitale del soggetto gestore prevista dalla norma; e quando l’amministratore è legato ad uno dei soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive da rapporti di dipendenza o collaborazione ». ( 218 ) La delega per il recepimento della dir. 2004/ 39/CE è stata da ultimo conferita al Governo dall’art. 10 della l. 6 febbraio 2007, n. 13 (legge comunitaria 2006), che ha inserito nella l. n. 62/05 un nuovo art. 9 bis. Tra i principi e criteri direttivi specifici stabiliti per il legislatore delegato vi è anche l’attribuzione alla CONSOB del potere « di disciplinare con regolamento, in conformità alla direttiva e alle relative misure di esecuzione adottate dalla Commissione europea » le materie relative alle misure e agli strumenti « per idenficare, prevenire, gestire e rendere trasparenti i conflitti di interesse, inclusi i principi che devono essere seguiti dalle imprese nell’adottare misure organizzative e politiche di gestione dei conflitti » [art. 9 bis, comma 1o, lett. h), n. 1), l. n. 62/05]. La nuova disciplina della previdenza complementare per i clienti e dagli obblighi di comunicazione quando tali rischi non siano evitabili. Anche l’attuale disciplina sul conflitto di interessi dettata dal d.m. n. 703/96 è imperniata su principi analoghi. Ne conseguono due importanti corollari: da un lato, la parte del d.m. n. 703/96 che si occupa di conflitti di interesse deve ritenersi tuttora vigente, sulla base dei principi già enunciati retro al par. 4.2.3.; dall’altro lato, il futuro nuovo decreto interministeriale non dovrebbe contenere novità rivoluzionarie rispetto a quanto stabilito oggi dal d.m. n. 703/96. Il d.m. n. 703/96 si occupa dei conflitti di interesse negli artt. 7 e 8: non sono previsti divieti espressi, bensì penetranti obblighi di trasparenza ( 219 ). L’art. 7 riguarda i casi in cui il gestore compia operazioni nelle quali abbia un interesse in conflitto, direttamente o indirettamente e anche in relazione a rapporti di gruppo ( 220 ). Secondo questa disposizione un interesse in conflitto sussiste anche quando il gestore compia investimenti in titoli emessi dai sottoscrittori delle fonti istitutive, dai datori di lavoro tenuti alla contribuzione, dalla banca depositaria o da imprese dei rispettivi gruppi, e anche quando il gestore compia operazioni con i medesimi soggetti. In tutti questi casi il gestore è tenuto ad indicare specificamente le operazioni in conflitto, nonché la natura di tale conflitto, nella documentazione periodica dovuta al fondo pensione ( 221 ). Il legale rappresentante del fondo, o il responsabile del fondo nei fondi pensione aperti, sono tenuti a dare notizia alla COVIP delle fattispecie di conflitto di interessi che siano sta- ( 219 ) Nel senso che in linea di principio il conflitto di interessi non incide sulla possibilità di compiere l’operazione v. Candian, I fondi pensione, cit., p. 67; Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit., p. 300; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 143-144; Enriques e Pomelli, Gli organi di amministrazione e di controllo dei fondi pensione negoziali: conflitto d’interessi e responsabilità alla luce della riforma del diritto societario, in Dir. banca e merc. fin., 2004, I, p. 536; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 265-266. ( 220 ) Per la nozione di controllo rilevante ai sensi del d.m. 703/96 l’art. 7, comma 3o, rimanda all’art. 23 t.u.b. ( 221 ) V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 265. 675 te comunicate loro dai gestori ai sensi dell’art. 7 d.m. n. 703/96. Il conflitto di interessi ex art. 8 d.m. n. 703/96 riceve un trattamento più rigoroso, seppur nell’ambito di obblighi di trasparenza. Infatti, a differenza di quello ex art. 7, il conflitto di interessi ex art. 8 ha carattere statico e non dinamico: esso permane a lungo ed ha un carattere più pervasivo poiché non riguarda singole operazioni, bensì caratteristiche del gestore stesso o dell’attività da esso svolta ( 222 ). L’art. 8, comma 1o, d.m. n. 703/96 considera rilevante il conflitto di interessi che emerge quando sussistano rapporti di controllo tra il gestore e la banca depositaria o tra i soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive e il gestore; quando la gestione delle risorse del fondo sia funzionale ad interessi dei soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive, dei datori di lavoro tenuti alla contribuzione, del gestore o di imprese dei loro gruppi; quando sussista ogni altra situazione soggettiva o relazione di affari che possa influenzare la corretta gestione del fondo e riguardi il fondo pensione, il gestore, la banca depositaria, i sottoscrittori delle fonti istitutive o i datori di lavoro tenuti alla contribuzione. In quest’ultima fattispecie l’art. 8, comma 4o, d.m. n. 703/96 precisa che la situazione soggettiva o relazione di affari che genera il conflitto si estende anche alle singole persone fisiche che compongono gli organi di amministrazione e controllo del fondo pensione. Il gestore, la banca depositaria, i sottoscrittori delle fonti istitutive e i datori di lavoro tenuti alla contribuzione devono informare il fondo pensione quando ricorre una delle situazioni di conflitto di interessi ex art. 8, comma 1o. Il legale rappresentante del fondo o, nei fondi pensione aperti, il responsabile del fondo sono a loro volta tenuti ad informare la COVIP della situazione di conflitto di interessi comunicando altresì l’insussistenza di condizioni che possono generare distorsioni nella gestione efficiente delle risorse o una ( 222 ) V. Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit., p. 298; Enriques e Pomelli, Gli organi di amministrazione e di controllo dei fondi pensione negoziali: conflitto d’interessi e responsabilità alla luce della riforma del diritto societario, cit., pp. 536 e 538; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 264; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 266. 676 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 gestione non conforme all’esclusivo interesse degli iscritti ( 223 ) (art. 8, comma 3o, d.m. n. 703/ 96). Qualora la COVIP ritenga rilevante il conflitto di interessi, potrà richiedere al fondo di informare gli aderenti. Obblighi di trasparenza ancora più rinforzati sono previsti nel caso in cui il gestore sia controllato da uno dei soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive: in questo caso il fondo pensione è obbligato a informare ciascun aderente; il gestore deve presentare al fondo rendicontazione delle operazioni effettuate con cadenza almeno quindicinale; il legale rappresentante del fondo o, nei fondi pensione aperti, il responsabile del fondo devono trasmettere alla COVIP una relazione con cadenza almeno semestrale sull’andamento e sui risultati della gestione (art. 8, comma 7o). L’art. 8 si chiude stabilendo una serie di incompatibilità ( 224 ). ( 223 ) Nel caso in cui sia omessa questa comunicazione, l’eventuale ignoranza del legale rappresentante del fondo o del responsabile del fondo in merito alle fattispecie di conflitto di interessi non sarà opponibile alla COVIP (art. 8, comma 5o). La disposizione, che troverà applicazione nell’ambito dei procedimenti sanzionatori della COVIP, è piuttosto singolare. Infatti, se interpretata nel senso che la mancata comunicazione rilevi anche nel caso in cui il legale rappresentante o il responsabile del fondo erano all’oscuro della fattispecie di conflitto, essa risulta illogica e singolarmente contrastante con il principio nulla poena sine culpa, che vale anche nell’ambito delle sanzioni amministrative. Cfr. in questo senso Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., pp. 213214. Se interpretata diversamente, tuttavia, è assai difficile ritagliarle un ambito pur ristretto di applicazione. ( 224 ) In particolare, le funzioni di membro di organi di amministrazione, direzione e controllo del gestore sono incompatibili con quelle di membro dei corrispondenti organi del fondo pensione; queste ultime funzioni infine sono incompatibili con quelle di direzione dei soggetti sottoscrittori (art. 8, comma 8o, d.m. 703/96). Quest’ultima previsione può riguardare da vicino anche il sindacato: in particolare, non potranno essere eletti negli organi di amministrazione e controllo del fondo pensioni soggetti che rivestano cariche direttive all’interno dei sindacati che hanno sottoscritto le fonti istitutive. La semplice iscrizione al sindacato stesso non avrà, invece, di norma alcuna rilevanza. V. in questo senso Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit., La circostanza che il d.m. n. 703/96 non vieti espressamente le operazioni o le situazioni di conflitto di interessi non significa affatto che il conflitto stesso sia giuridicamente irrilevante a parte gli obblighi di trasparenza nei confronti della COVIP e, talora, degli aderenti. Infatti, i fondi sono comunque tenuti ad una sana e prudente gestione, che implica il perseguimento esclusivo degli interessi degli aderenti e la massimizzazione del risparmio previdenziale [art. 2, comma 1o, d.m. n. 703/96; art. 6, comma 5o bis, lett. a), d.lgs. n. 252/05]. A tali principi i fondi si devono conformare anche quando si verifichino situazioni o operazioni in conflitto di interessi. In altri termini, se tale conflitto finisce per ostacolare una sana e prudente gestione, ed in particolare il perseguimento dell’interesse esclusivo degli aderenti, i componenti degli organi collegiali dei fondi e i responsabili dei fondi si devono immediatamente attivare con tutti gli strumenti a loro disposizione per evitare che la situazione perduri o le operazioni in conflitto si ripetano ( 225 ). Diversamente essi potranno es- pp. 302-303; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 266, nt. 32. Peraltro, la deliberazione COVIP 23 aprile 1998 contenente « Orientamenti in ordine alla disciplina delle incompatibilità ed ai requisiti di professionalità » ha precisato che l’effetto di incompatibilità si verifica soltanto con riferimento al medesimo livello della struttura sindacale: così se la fonte istitutiva è un contratto nazionale, soltanto i membri di organi direttivi nazionali saranno ineleggibili; se il contratto è regionale, soltanto i componenti di organi direttivi regionali, e così via. Su questa deliberazione v. Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 266, nt. 32. A livello aziendale si dovrà ritenere che l’incompatibilità riguardi sia i componenti delle rappresentanze sindacali unitarie che i componenti degli organi direttivi della struttura territoriale del sindacato. ( 225 ) In particolare, gli amministratori dei fondi potranno recedere dalla convenzione di gestione o agire per l’annullamento del contratto stipulato dal gestore in conflitto di interessi secondo le regole dettate in via generale dall’art. 1394 c.c. per i contratti stipulati dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato. In questo senso v. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 148, anche alla nt. 115. Nel senso che la disciplina codicistica in materia di conflitto di interessi si affianca a quella procedurale stabilita dal La nuova disciplina della previdenza complementare sere tenuti a risarcire l’eventuale danno che sia derivato al fondo pensione o agli aderenti dalla loro inattività in sede di giudizio di responsabilità ( 226 ). Chiaramente, una loro mancata attivazione su specifica richiesta della COVIP potrà comportare le conseguenze previste dall’art. 19 quater, commi 2o e 3o, d.lgs. n. 252 (come modificato dall’art. 6 d.lgs. n. 28/07), che vanno da una sanzione amministrativa fino alla decadenza dall’incarico. La sanzione della decadenza dall’incarico è prevista anche nel caso in cui non siano rispettati gli obblighi previsti dal d.m. n. 703/96 ( 227 ). Gli artt. 7-8 d.m. n. 703/96 prevedono obblighi anche a carico dei gestori abilitati: sul loro rispetto vigileranno le rispettive autorità di vigi- d.m. 703/96 v. anche Russo, Gli amministratori dei Fondi Pensione. Natura dell’incarico ed ipotesi di conflitto di interessi, cit., pp. 185-186; Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, cit., pp. 300-302; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., pp. 267-268: questi autori optano in particolare per l’applicazione anche ai fondi pensione dell’art. 2391 c.c., che impone agli amministratori delle s.p.a. obblighi di comunicazione del conflitto di interessi e di astensione dalle relative operazioni (quando si tratti di amministratore delegato o unico), pena l’annullabilità delle deliberazioni che possano recare danno alla società, adottate con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi. Dubitano che si possa ancora percorrere la via del richiamo all’art. 2391 c.c. dopo la riforma Vietti del diritto societario Enriques e Pomelli, Gli organi di amministrazione e di controllo dei fondi pensione negoziali: conflitto d’interessi e responsabilità alla luce della riforma del diritto societario, cit., pp. 543-544. L’applicabilità dell’art. 2391 c.c. agli organi di amministrazione dei fondi pensione è ora autorevolmente confermata dal nuovo art. 2629 bis c.c. (sul quale v. infra in questo paragrafo). ( 226 ) L’art. 5, comma 7o, d.lgs. n. 252 estende la disciplina della responsabilità degli amministratori di s.p.a. ai componenti degli organi di amministrazione e al responsabile della forma pensionistica complementare (artt. 2392-2396 c.c., tranne il 2393 bis). L’art. 5, comma 8o estende invece la disciplina della responsabilità dei sindaci di s.p.a. agli organi di controllo dei fondi pensione (art. 2407 c.c.). Su queste disposizioni v. retro Bruni, sub art. 5, in questo Commentario. ( 227 ) Cfr. in questo senso l’art. 19 quater, comma 2o, lett. b), d.lgs. n. 252, che fa riferimento tra l’altro al caso in cui siano violate le disposizioni dell’art. 6. 677 lanza (CONSOB e ISVAP) ( 228 ). Dal punto di vista sostanziale, poi, non va dimenticato che, quanto meno gli intermediari finanziari ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252, sono tenuti nella prestazione dei servizi di investimento (tra i quali rientra anche la gestione dei patrimoni dei fondi pensione) a « comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti », a « organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse » e a « svolgere una gestione indipendente, sana e prudente » [art. 21, comma 1o, lett. a), c), e), t.u.f.] ( 229 ). La regolazione della materia del conflitto di interessi è un punto particolarmente delicato della disciplina non soltanto della previdenza complementare, ma dell’attività di intermediazione finanziaria e assicurativa in generale. Il legislatore è intervenuto su di essa alla fine del 2005 con la legge di delega del 28 dicembre, n. 262 ( 230 ). L’art. 9 prevede in particolare una delega per la fissazione di limiti quantitativi agli investimenti (anche) dei patrimoni dei fondi pensione nei prodotti finanziari emessi o collocati dal gestore o da società appartenenti al suo gruppo, ovvero da società appartenenti a gruppi legati da significativi rapporti di finanziamento con il gestore o il suo gruppo; il medesimo articolo contempla anche una delega per limitare il ricorso dei gestori ad intermediari appartenenti al medesimo gruppo. A tutt’oggi, però, queste deleghe non sono state attuate. L’art. 31 l. n. 262/05 ha invece introdotto da subito un nuovo art. 2629 bis c.c., che stabilisce il reato di omessa comunicazione del conflitto di interessi (anche) a carico dell’amministratore del fondo pensione che viola gli obblighi ex art. 2391, comma 1o, c.c. ( 231 ). ( 228 ) Cfr. l’art. 6, comma 7o, d.lgs. n. 252, il quale rileva per inciso che le « rispettive autorità di vigilanza [...] conservano tutti i poteri di controllo » sui « soggetti gestori ». ( 229 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 271. ( 230 ) Su di essa v. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 274-276. ( 231 ) Si tratta dell’obbligo di comunicare agli altri amministratori e all’organo di controllo ogni interesse che l’amministratore abbia, per conto proprio o di 678 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 4.2.5. – In attuazione dell’art. 1, comma 2o, lett. l), l. n. 243/04 l’art. 6, comma 14o, d.lgs. n. 252 fa obbligo a tutte le forme pensionistiche complementari, individuali e collettive ( 232 ), di « esporre nel rendiconto annuale e, sinteticamente nelle comunicazioni periodiche agli iscritti, se ed in quale misura nella gestione delle risorse e nelle linee seguite nell’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei valori in portafoglio si siano presi in considerazione aspetti sociali, etici e ambientali ». Spetta alla COVIP definire le modalità di queste comunicazioni [art. 19, comma 2o, lett. h), d.lgs. n. 252]. Queste disposizioni si inseriscono nel quadro delle iniziative comunitarie e nazionali che dall’inizio del nuovo secolo si sono poste l’obiettivo di favorire la diffusione della responsabilità sociale d’impresa. Finora l’approccio del legislatore nazionale a questa tematica è stato molto cauto: è stata costituita un’apposita fondazione con il fine di generalizzarne la conoscenza e di supportare lo sviluppo di buone prassi in questo ambito ( 233 ). Si sta ancora discutendo se sia opportuno predisporre appositi incentivi, anche di carattere economico, per spingere le imprese ad imboccare più decisamente la via della responsabilità sociale d’impresa ( 234 ); non vi è invece alcun dubbio che l’adozione di comportamenti socialmente responsabili da parte delle imprese terzi, in una determinata operazione del fondo, precisando le caratteristiche di tale interesse; qualora si tratti di amministratore delegato, egli deve anche astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale (arg. ex art. 2391, comma 1o, c.c.). ( 232 ) V. retro il par. 2, anche alla nt. 23. ( 233 ) Si tratta della Fondazione per la diffusione della responsabilità sociale delle imprese. Il centro è formalmente indipendente, ma tra i fondatori promotori compaiono il Ministero del lavoro, l’INAIL e Unioncamere, accanto all’Università Bocconi. Per ulteriori informazioni sulla struttura e l’attività di questo organismo si veda il sito www.i-csr.org. ( 234 ) V. Ferrante, La responsabilità sociale delle imprese nel Libro Bianco e nelle più recenti iniziative ministeriali, in La responsabilità sociale delle imprese, a cura di Napoli, Milano, 2005, pp. 38-39; Tullini, Prassi socialmente responsabili nella gestione del mercato del lavoro, in Lavoro e responsabilità sociale dell’impresa, a cura di Montuschi e Tullini, Bologna, 2006, p. 69. non possa che essere un fenomeno volontario ( 235 ). Anche nel quadro di estrema cautela che connota l’atteggiamento del nostro Paese in materia, l’art. 6, comma 14o si mostra piuttosto anodino: per il fondo pensione non si tratta nemmeno di tener conto degli aspetti etici, sociali ed ambientali nell’ambito della propria attività, ma soltanto di comunicare se ed in quale misura tali aspetti siano stati considerati ( 236 ). Con riferimento alla gestione delle risorse, l’effetto della disposizione appare davvero piuttosto debole. Il legislatore avrebbe potuto agire anche in modo più coraggioso. Infatti, per un verso e in punto di diritto, il fondamento costituzionale ( 235 ) Cfr. Tursi, Responsabilità sociale dell’impresa, « etica d’impresa » e diritto del lavoro, in Lav. e dir., 2006, pp. 68-69. Com’è noto, nel Libro Verde della Commissione europea del 18 luglio 2001 la responsabilità sociale delle imprese è descritta come « l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate » [punto 20 del Libro Verde dal titolo « Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese », COM (2001) 366 def.]. Peraltro, nel commentare il Libro Verde, Tursi ammonisce che quella in chiave volontaria è soltanto una delle possibili declinazioni della responsabilità sociale d’impresa [v. Tursi, La responsabilità sociale delle imprese e la Comunità europea, in La responsabilità sociale delle imprese, a cura di Napoli, cit., pp. 3-4]. I giuristi del lavoro, pur riconoscendo la volontarietà degli impegni di responsabilità sociale assunti dalle imprese [v. per tutti F. Carinci, Normatività ed esperienze applicative della responsabilità sociale d’impresa, in Lavoro e responsabilità sociale dell’impresa, a cura di Montuschi e Tullini, cit., pp. 239-234], non si rassegnano a predicarne il valore di meri gentlemen’s agreements, ma tendono a riconoscere in essi una certa dose di vincolatività applicando diversi strumenti giuridici, che vanno dall’integrazione di tali impegni nei contratti individuali al riconoscimento della loro natura di contratti collettivi o di usi aziendali: v. per la prima soluzione Ferrante, La responsabilità sociale delle imprese nel Libro Bianco e nelle più recenti iniziative ministeriali, cit., pp. 47-48; per la seconda Tullini, Prassi socialmente responsabili nella gestione del mercato del lavoro, cit., p. 65. ( 236 ) V. Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 240-241. Un obbligo analogo è stato introdotto con il Trustee Act del 2000 anche per i fondi pensione britannici: v. Tursi, La responsabilità sociale delle imprese e la Comunità europea, cit., p. 11. La nuova disciplina della previdenza complementare della previdenza complementare non impedisce al legislatore di contemperare l’obiettivo della massimizzazione del risparmio previdenziale con altri fondamentali diritti sanciti nella Costituzione, attraverso l’incoraggiamento o anche l’imposizione di comportamenti di investimento socialmente responsabili. Per altro verso e in linea di fatto, tra i cultori delle scienze economiche non è per niente assodato che gli investimenti rispettosi degli aspetti etici, sociali ed ambientali offrano ritorni inferiori a quelli delle altre tipologie di investimento: anzi, le evidenze empiriche più recenti sembrano testimoniare una sostanziale equivalenza ( 237 ). Sotto diverso profilo, tuttavia, l’art. 6, comma 14o, appare significativo. Si tratta infatti di una delle prime disposizioni del nostro ordinamento che impongono la redazione di un bilancio sociale ( 238 ). Con la norma che qui si commenta il legislatore vuole probabilmente anche rafforzare l’identità del fondo pensione come investitore sui generis, portato ad operare in un’ottica non soltanto di long-termism, ma anche socialmente ed eticamente responsabile ( 239 ). ( 237 ) Cfr. ad es. Bauer, Koedijk e Otten, International evidence on ethical mutual fund performance and investment style, in Journal of Bancking & Finance, 2005, p. 1751 ss.; Gray, Power e Sinclair, Evaluating the Performance of Ethical and Non-ethical Funds: A Matched Pair Analysis, in Journal of Business Finance & Accounting, 2005, p. 1465 ss.; Greig, The financial Performance of a Socially Responsible Investment Over Time and a Possibile Link with Social Responsibility, in Journal of Business Ethics, 2006, 2, p. 131 ss. La questione tuttavia rimane sostanzialmente aperta. ( 238 ) Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 241. Per un altro esempio v. l’art. 10, comma 2o, del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155. Per un primo commento a questo decreto legislativo v. Corti, Il caso della Società europea. La via italiana alla partecipazione di fronte alle sfide europee. Commento al Decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 188 di attuazione della direttiva 2001/86/ CE che completa lo statuto della società europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori, in questa Rivista, 2006, pp. 1508-1510. ( 239 ) V. in questo senso Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., p. 237 ss. Sull’esperienza dei fondi etici e degli investimenti socialmente responsabili v. Vandone, Il mercato italiano dei fondi di investimento socialmente responsabili, in Banca impr. soc., 2004, p. 147 ss.; Dal 679 4.2.6. – Tra gli strumenti di semplificazione dell’attività dei fondi pensione, introdotti nel d.lgs. n. 252 sulla scorta del criterio direttivo ex art. 1, comma 2o, lett. h), n. 3), l. n. 243/04 ( 240 ), vi è la mancata riproposizione dell’inciso sulla « stipula di convenzioni aventi ad oggetto la prestazione di servizi amministrativi » contenuto nell’art. 6 ter, d.lgs. n. 124/93. Era sulla base di tale inciso che veniva estesa anche ai contratti per i servizi amministrativi dei fondi la procedura di evidenza pubblica stabilita per le convenzioni di gestione ( 241 ). Ora la stipulazione di questi contratti rientra nella piena discrezionalità dei fondi, che potranno effettuare una selezione, percorrere la via di una trattativa privata, o anche gestire direttamente il servizio ( 242 ). Per quanto riguarda i servizi di raccolta dei contributi da versare ai fondi pensione e di ero- Maso, La CSR nell’attività di gestione finanziaria: il caso degli investimenti socialmente responsabili, in Guida critica alla responsabilità sociale e al governo d’impresa, a cura di Sacconi, Roma, 2005, p. 709 ss.; Tursi, La responsabilità sociale delle imprese e la Comunità europea, cit., p. 80, nt. 10, ove anche ulteriori riferimenti bibliografici in particolare riguardanti la più evoluta esperienza anglosassone. L’esperienza dei fondi etici e della finanza socialmente responsabile riceve il comprensibile sostegno anche della Chiesa cattolica: v. Ufficio nazionale della CEI per i problemi sociali e il lavoro, Etica, sviluppo e finanza. Per i 40 anni dell’enciclica Populorum Progressio. Contributo alla riflessione, Bologna, 2006, p. 44 ss. ( 240 ) In realtà questa disposizione contempla soltanto la « semplificazione [...] delle convenzioni per la gestione delle risorse », cosicché residua qualche sospetto di eccesso di delega. ( 241 ) V. retro il par. 4.2.1. ( 242 ) La COVIP sottolinea però che la scelta del gestore del service amministrativo dovrà comunque rispondere ai criteri generali di sana e prudente gestione cui deve essere improntata l’azione dei fondi (art. 2, d.m. 703/96): per conseguenza la selezione dovrà avvenire « sulla base di criteri oggettivi e adeguati, così da individuare il soggetto che meglio risponde alle esigenze del fondo e della platea di riferimento ». Così la deliberazione 28 giugno 2006, cit., nella sezione « Service amministrativo ». Sul difficile equilibrio tra esternalizzazione ed internalizzazione (anche) di queste attività dei fondi pensione chiusi v. Francario, La ridefinizione della governance nei fondi pensione con pluralità di forme previdenziali, in La previdenza complementare in Italia, a cura di Messori, Bologna, 2006, pp. 357-361. 680 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 gazione delle prestazioni ( 243 ), nonché le attività connesse e strumentali, l’art. 6, comma 2o, d.lgs. n. 252 riprende le disposizioni di cui all’art. 6, commi 1o bis e 1o ter, d.lgs. n. 124. Per l’espletamento di tali servizi i fondi possono, oltre che gestire direttamente o tramite contratto con un operatore qualsiasi del mercato, anche ricorrere ad altre due possibilità: la stipulazione di una convenzione con gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie (principalmente si tratterà dell’INPS o dell’INPDAP), sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito: AGCM); la costituzione di una società di capitali con i summenzionati enti, sempre sentita l’AGCM ( 244 ); in tale società gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie devono comunque conservare la maggioranza del capitale sociale. La ratio dell’art. 6, comma 2o è quella di consentire ai fondi pensione di risparmiare sui costi di gestione dei servizi di raccolta dei contributi ed erogazione delle prestazioni approfittando delle economie di scala e delle sinergie derivanti dalle convenzioni con gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie, i quali dispongono di una capillare distribuzione sul territorio nazionale e di una gestione di servizi di questo tipo già ben rodata ( 245 ). La funzione della consultazione preventiva dell’AGCM sembra soprattutto quella di permettere all’autorità di arginare più agevolmente ( 243 ) Nell’ambito dell’art. 6, comma 2o, d.lgs. n. 252 per « erogazione delle prestazioni » si intende soltanto il servizio amministrativo di attribuzione materiale della prestazione in denaro al beneficiario, tramite accredito sul conto corrente, consegna diretta, o in altro modo: cfr. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 205. Infatti, la fase di erogazione delle prestazioni sotto forma di rendita, intesa come fase di gestione assicurativa del montante contributivo maturato dall’aderente, è regolata specificamente dall’art. 6, commi 3o e 4o, d.lgs. n. 252. V. infra il par. 5. ( 244 ) Il servizio di raccolta dei contributi ai fondi pensione e di erogazione delle prestazioni dei medesimi deve essere « organizzato secondo criteri di separatezza contabile dalle attività istituzionali del medesimo ente » gestore di forme pensionistiche obbligatorie: così l’art. 6, comma 2o, ultimo periodo, d.lgs. n. 252. ( 245 ) Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., pp. 253-254. l’eventuale sfruttamento della posizione dominante di cui godono gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria nell’ambito dei servizi descritti nell’art. 6, comma 2o ( 246 ). Poiché nel mercato relativo alla fornitura di questi servizi ai fondi pensione gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria non godono di alcun diritto esclusivo, deve ritenersi che l’AGCM possa utilizzare tutte le proprie prerogative ex l. n. 287/90 per reprimere le eventuali condotte anticoncorrenziali. Nel d.lgs. n. 252 non vi è più traccia della disposizione ex art. 6, comma 1o bis, d.lgs. n. 124, che consentiva agli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie di partecipare alla gestione delle risorse raccolte dai fondi pensione mediante l’acquisizione di partecipazioni nei soggetti abilitati ex art. 6, comma 1o. Con l’eliminazione di questa previsione si chiude il cerchio iniziato con la l. n. 335/95, che aveva fortemente limitato in questo senso l’originaria possibilità che questi enti gestissero tramite convenzione le risorse dei fondi pensione, alla stregua degli altri soggetti ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 124/ 93 ( 247 ). Questa ulteriore modifica sembra da ricollegare all’introduzione nel d.lgs. n. 252 della nuova forma pensionistica complementare residuale ex art. 9 (FONDINPS), che è incardinata presso l’INPS (sulla quale v. infra amplius Garcea, sub art. 9, in questo Commentario). A seguito della creazione presso l’INPS di questa forma pensionistica complementare non è sembrato più opportuno, probabilmente per ragioni di carattere concorrenziale, prevedere la possibilità per gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie (tra cui il più importante è senza dubbio l’INPS) di partecipare alla gestione delle risorse di altre forme pensionistiche complementari. 5. – Per quanto riguarda il regime dell’erogazione delle prestazioni, i commi 3o, 4o e 5o dell’art. 6 d.lgs. n. 252/05 riprendevano senza variazioni di rilievo i commi 2o, 2o bis e 3o del( 246 ) Si veda il parere indirizzato dall’AGCM all’INPS, citato da Vianello, Modelli di gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 445. ( 247 ) Sulle preoccupazioni di ordine concorrenziale e di opportunità che hanno spinto alla modifica dell’originaria previsione dell’art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 124, v. retro il par. 1, nt. 21. La nuova disciplina della previdenza complementare l’art. 6 d.lgs. n. 124/93. Il più volte menzionato d.lgs. n. 28/07 ha però provveduto ad abrogare il comma 4o dell’art. 6 [art. 7, comma 1o, lett. c)] e ad aggiungere un ulteriore periodo al comma 3o: ne è risultata una lodevole razionalizzazione della disciplina dell’erogazione diretta delle rendite da parte dei fondi pensione, materia che in precedenza era regolata in modo contraddittorio ed eccessivamente complicato. Nell’ambito delle forme pensionistiche complementari a contribuzione definita, l’erogazione delle prestazioni costituisce la terza fase, quella finale, del ciclo della previdenza complementare ( 248 ). Il montante individuale, formato dai contributi accumulati nel corso degli anni e dagli accrescimenti ottenuti tramite la gestione professionale degli stessi, deve essere trasformato in una prestazione, che potrà essere erogata in forma di capitale o di rendita ( 249 ). Qualora l’erogazione venga effettuata sotto quest’ultima forma, si tratta di un’attività di carattere eminentemente assicurativo, che implica l’assunzione del rischio demografico della sopravvivenza oltre la media e comporta l’utilizzo di strumenti statistico-attuariali ( 250 ). Per conseguenza non stupisce la scelta dell’art. 6, comma 3o, d.lgs. n. 252 di riservare la relativa attività alle « imprese assicurative di cui all’articolo 2 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 » ( 251 ). Anche in ragione di ( 248 ) V. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 101-103. ( 249 ) L’erogazione sotto forma di capitale subisce però limiti consistenti, in quanto mal si attaglia con le finalità previdenziali sottese a tutta la disciplina ex d.lgs. n. 252/05: cfr. l’art. 11, commi 3o e 4o. Su queste disposizioni v. infra Tozzoli, sub art. 11, in questo Commentario. ( 250 ) Cfr. Salerno, La gestione assicurativa delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle prestazioni complementari, cit., p. 511. ( 251 ) L’art. 2 c.a.p. fa riferimento sia alle assicurazioni dei rami vita che a quelle dei rami danni (commi 1o e rispettivamente 3o). Tuttavia, si deve ritenere che l’ambito di applicazione dell’art. 6, comma 3o, sia limitato alle imprese assicurative che assumono il rischio demografico, ovvero quelle di cui al ramo I (assicurazioni sulla durata della vita umana) dei rami vita. Cfr. nel senso che soltanto le assicurazioni del ramo I dei rami vita possono stipulare le convenzioni per l’erogazione delle prestazioni Pal- 681 questa riserva, bisogna ritenere che l’obbligo di ricorrere alla copertura assicurativa per l’erogazione delle prestazioni abbracci tutte le forme pensionistiche complementari ex d.lgs. n. 252/ 2005 ( 252 ), salvo, naturalmente, quelle individuali attuate tramite assicurazioni sulla vita e quelle a prestazione definita, dove, come si è visto ( 253 ), la fase di gestione e di erogazione sono inscindibili e postulano in ogni caso l’intervento dell’impresa assicurativa ( 254 ). I fondi pensione concluderanno dunque apposite convenzioni misano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., p. 1116; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 202; Spolidoro, sub art. 2, cit., pp. 67-68; Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p. 75; contra, nel senso che tutte imprese assicuratrici dei rami vita possono stipulare questo tipo di convenzioni, Vianello, Le convenzioni in materia di erogazione delle prestazioni, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cinelli, cit., p. 447; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 269. V. anche il n. 3 delle premesse nello Schema di convenzione per l’erogazione di una rendita vitalizia immediata, elaborato della COVIP il 28 maggio 1999, consultabile in Codice della previdenza complementare, cit., pp. 482-484, nel quale si menziona una compagnia di assicurazioni « autorizzata all’esercizio dell’attività di assicurazione sulla durata della vita umana ». ( 252 ) Compresi i fondi preesistenti, i quali potranno continuare ad erogare direttamente le rendite soltanto alle condizioni previste per la generalità dei fondi dall’art. 6, comma 3o, d.lgs. n. 252/05: v. l’art. 5, comma 6o, della bozza di decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale sui fondi preesistenti, ai sensi del quale « i fondi preesistenti che già erogano direttamente le rendite possono continuare l’erogazione diretta delle prestazioni salvo verifica da parte della COVIP dei requisiti previsti dalla legge ». Neanche la forma pensionistica residuale costituita presso l’INPS (FONDINPS) sembra sfuggire al campo di applicazione dell’art. 6, comma 3o, del resto espressamente richiamato dall’art. 5, comma 1o, del capo II del d.i. 30 gennaio 2007: v. retro il par. 2. ( 253 ) V. retro al par. 3. ( 254 ) In particolare, anche nel caso di ricorso del fondo pensione ad un’impresa assicurativa per la gestione delle risorse ex art. 6, comma 1o, lett. b), d.lgs. n. 252/05, sarà poi necessaria un’apposita convenzione assicurativa per l’erogazione delle prestazioni di quel medesimo fondo. 682 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 con una o più imprese assicurative nel rispetto della procedura di evidenza pubblica stabilita per la stipulazione delle convenzioni di gestione (art. 6, comma 6o, d.lgs. n. 252) ( 255 ). La convenzione intercorre tra il fondo pensione e l’impresa assicuratrice ( 256 ), cosicché sarà sempre il fondo il soggetto obbligato all’erogazione della rendita nei confronti degli aderenti ( 257 ). L’art. 6, comma 2o bis, d.lgs. n. 124/93 e il vecchio testo dell’art. 6, comma 4o, d.lgs. n. 252 prevedevano che la COVIP potesse autorizzare i fondi pensione ad erogare direttamente le rendite: tuttavia la disciplina disegnata da queste disposizioni era estremamente complicata, e contemplava comunque nello snodo essenziale ( 255 ) Sul regime di queste convenzioni, alle quali in particolare non si applicano le disposizioni ex art. 6, d.lgs. n. 252 in materia di linee di indirizzo, titolarità delle risorse conferite, titolarità dei diritti di voto, separazione del patrimonio, azione di rivendicazione ex art. 103 l. fall., ma soltanto le regole proprie della gestione assicurativa, in base alle quali le risorse conferite entrano a far parte a pieno titolo del patrimonio della compagnia di assicurazioni, con tutte le conseguenze che da ciò derivano, v. Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., pp. 231-233; Salerno, La gestione assicurativa delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle prestazioni complementari, cit., pp. 511-512. ( 256 ) V. l’art. 2, comma 1o, dello Schema di convenzione per l’erogazione di una rendita vitalizia immediata, cit., secondo il quale « la compagnia » di assicurazioni « si impegna a corrispondere al fondo pensione le rendite oggetto della presente convenzione a fronte del pagamento di un premio unico per ciascuna rendita assicurata ». In questo senso anche Volpe Putzolu, L’erogazione delle prestazioni assistenziali, cit., p. 86, secondo la quale « le convenzioni assicurative devono essere stipulate dal fondo in nome e per conto proprio non in nome e per conto degli iscritti ». ( 257 ) In questo senso Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., p. 332; Id., L’erogazione delle prestazioni assistenziali, cit., pp. 85-86; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 230; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 216217; Id., La gestione assicurativa delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle prestazioni complementari, cit., pp. 509-510; Iocca, Imprenditorialità e mutualità dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 211-212. l’intervento di un’impresa assicuratrice ( 258 ). Il fondo poteva essere ammesso ad erogare direttamente le rendite, ma doveva comunque affidare la gestione finanziaria dei montanti maturati ai gestori abilitati ex art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252 mediante apposite convenzioni. Inoltre, esso doveva garantirsi una copertura assicurativa contro il rischio di sopravvivenza in relazione alla speranza di vita oltre la media. L’autorizzazione della COVIP sarebbe stata concessa soltanto in presenza di una serie di requisiti che dovevano essere stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze ( 259 ), sentita la COVIP: in particolare, il decreto avrebbe precisato la dimensione minima dei fondi per numero di iscritti; la costituzione e la composizione delle riserve tecniche; le basi demografiche e finanziarie da utilizzare per la conversione dei montanti contributivi in rendita. I fondi autorizzati avrebbero dovuto presentare alla COVIP, « con cadenza almeno triennale, un bilancio tecnico contenente proiezioni riferite ad un arco temporale non inferiore a quindici anni » (art. 6, comma 4o, ultimo periodo, d.lgs. n. 252, ora abrogato). Nell’ambito dell’adeguamento del d.lgs. n. 252 alla dir. n. 2003/41/CE il d.lgs. n. 28/07 ha provveduto ad abrogare il comma 4o dell’art. 6 ( 260 ), e ad operare una breve aggiunta in coda all’art. 6, comma 3o, d.lgs. n. 252 ( 261 ). Si tratta di un’apprezzabile semplificazione del farraginoso meccanismo disegnato dall’art. 6, comma 4o ( 262 ). Ai sensi della nuova disposi- ( 258 ) Cfr. Vianello, Le convenzioni in materia di erogazione delle prestazioni, cit., p. 448; Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, cit., p. 180, secondo la quale « l’obbligo al fondo » della convenzione con un’impresa assicuratrice (v. infra questo stesso paragrafo) « svuota quasi completamente di contenuto la facoltà di erogazione diretta delle rendite, limitandola alla sola materiale corresponsione delle stesse »; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 216; Id., La gestione assicurativa delle risorse dei fondi pensione: caratteristiche e modalità di erogazione delle prestazioni complementari, cit., p. 509. ( 259 ) Questo decreto, a quanto consta, è mai stato emanato. ( 260 ) Art. 7, comma 1o, lett. c), d.lgs. n. 28/07. ( 261 ) Art. 2, d.lgs. n. 28/07. ( 262 ) Sulle incongruenze del meccanismo disegna- La nuova disciplina della previdenza complementare zione l’erogazione diretta della rendita da parte dei fondi pensione è consentita, previa autorizzazione della COVIP, quando essi dispongano di mezzi patrimoniali adeguati e di una dimensione sufficiente per numero di iscritti. Quanto ai principi per la determinazione dei mezzi patrimoniali adeguati, l’art. 4, d.lgs. n. 28/07 introduce nel d.lgs. n. 252/05 un nuovo art. 7 bis, che rimanda ad un regolamento del Ministro dell’economia e delle finanze, emanato sentita la COVIP, la Banca d’Italia e l’ISVAP. L’obiettivo principale della dir. 2003/41/CE è la liberalizzazione del mercato europeo delle prestazioni pensionistiche complementari, pur nel rispetto delle peculiarità nazionali in materia di sicurezza sociale, lavoro e organizzazione dei sistemi pensionistici ( 263 ). In particolare, l’art. 20 della direttiva regola l’attività transfrontaliera, ovvero la possibilità per i fondi pensione nazionali di offrire i propri servizi oltre frontiera e di accogliere l’adesione di imprese di altri Paesi dell’Unione europea ( 264 ). Al fine di attuare questa disposizione il d.lgs. n. 28/07 introduce nel d.lgs. n. 252 gli articoli da 15 bis a 15 quinquies. In particolare, nel caso di operatività all’estero delle forme pensionistiche complementari l’art. 15 bis considera la possibilità che l’ordinamento straniero consenta ai fondi pensione l’erogazione diretta delle prestazioni con presa in carico di rischi bio- to dall’art. 6, comma 2o bis, d.lgs. n. 124/93 (poi diventato art. 6, comma 4o, d.lgs. n. 252, e ora abrogato dal d.lgs. n. 28/07) v. diffusamente Palmisano, La gestione dei fondi pensione tra pluralismo e par condicio tra i gestori, cit., pp. 1116-1119; Volpe Putzolu, L’erogazione delle prestazioni assistenziali, cit., pp. 86-88. ( 263 ) Cfr. i considerando 6, 8, 35-37 della dir. 2003/41/CE. ( 264 ) L’art. 19 della dir. 2003/41/CE liberalizza invece l’attività dei gestori e della banca depositaria: gli Stati membri non possono limitare la facoltà dei fondi pensione nazionali di servirsi per la gestione e per il deposito delle proprie risorse degli operatori di altri Stati membri abilitati ai sensi delle direttive comunitarie di armonizzazione delle attività di intermediazione mobiliare e rispettivamente bancaria. Per quanto riguarda i gestori delle risorse il nostro ordinamento è già conforme alle regole europee: v. retro il par. 4.2. Per quanto riguarda la banca depositaria, v. infra il par. 6. 683 metrici, garanzia di rendimento degli investimenti o di un determinato livello delle prestazioni (art. 15 bis, comma 11o). In questi casi l’art. 15 bis prescrive ai fondi pensione di dotarsi di mezzi adeguati ai sensi del nuovo art. 7 bis, che si è menzionato poco più sopra. Opportunamente l’art. 7 bis aggiunge che l’obbligo di dotarsi di mezzi patrimoniali adeguati in relazione al complesso degli impegni finanziari esistenti non sussiste quando tali impegni « siano assunti da soggetti gestori già sottoposti a vigilanza prudenziale a ciò abilitati », ovvero quando il fondo ricorra a convenzioni assicurative per l’erogazione delle prestazioni (nel caso di assunzione di rischi biometrici o garanzia di un determinato livello delle prestazioni) o anche alla convenzione di gestione con garanzia (con riferimento alla garanzia di rendimento degli investimenti). I fondi pensione possono erogare anche prestazioni per invalidità e premorienza: l’art. 6, comma 5o, d.lgs. n. 252 rende obbligatorio in questo caso il ricorso alla stipulazione di apposite convenzioni con imprese assicurative ( 265 ) (v. amplius retro il par. 4.2.1.), nel rispetto della procedura di evidenza pubblica valevole per la conclusione delle convenzioni per la gestione delle risorse. L’art. 6, comma 5o è particolarmente importante perché chiarisce indirettamente la tipologia di prestazioni che possono essere offerte dal fondo agli aderenti: in questo senso esso completa l’art. 11, d.lgs. n. 252 ( 266 ). I fondi sono dunque tenuti ad offrire prestazioni pensionistiche complementari del regime obbligatorio; hanno invece la facoltà di contemplare anche prestazioni per invalidità e premorienza ( 267 ), nonché, ai sensi dell’art. 11, ( 265 ) V. lo Schema di convenzione per l’assicurazione delle prestazioni in caso di premorienza e invalidità degli aderenti e lo Schema di convenzione per l’assicurazione delle prestazioni in caso di invalidità degli aderenti, elaborati della COVIP il 28 maggio 1999, consultabili in Codice della previdenza complementare, a cura di Candian, cit., pp. 476-481. ( 266 ) V. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 194. ( 267 ) Cfr. da ultimo l’art. 13 bis dello Schema di statuto dei fondi pensione negoziali, l’art. 15 dello Schema di regolamento dei fondi pensione aperti, 684 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 comma 5o, d.lgs. n. 252, prestazioni di reversibilità ( 268 ) (sull’art. 11, comma 5o, v. Tozzoli, sub art. 11, in questo Commentario). 6. – La versione originaria dell’art. 7 d.lgs. n. 252 aveva ripreso con una sola modifica, peraltro più di forma che di sostanza, l’art. 6 bis, d.lgs. n. 124/93 ( 269 ). Il d.lgs. n. 28/07 ha aggiunto in coda all’art. 7 due nuovi commi, il 3o bis e il 3o ter, necessari per recepire alcune disposizioni della dir. 2003/41/CE che estendono il principio della libera circolazione anche ai servizi collaterali al mercato dei fondi pensione [art. 3, d.lgs. n. 28/07]. L’art. 7 si occupa dell’istituto della banca del’art. 14 dello Schema di regolamento dei piani individuali pensionistici, tutti contenuti nella deliberazione COVIP del 31 ottobre 2006. V. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 207. ( 268 ) L’art. 11, comma 5o, d.lgs. n. 252 prevede che, in caso di morte del titolare della prestazione pensionistica, il fondo possa offrire ai beneficiari da lui indicati la restituzione del montante residuo o, in alternativa l’erogazione di una rendita su di esso calcolata. Per questo secondo caso l’articolo « autorizza la stipula di contratti assicurativi collaterali contro i rischi di morte o di sopravvivenza oltre la vita media ». Nella parte in cui la disposizione sembra lasciare la scelta della stipulazione del contratto assicurativo alla discrezionalità del fondo, essa contiene un’incomprensibile incoerenza con le disposizioni dell’art. 6, commi 3o e 5o, d.lgs. n. 252, che circondano di particolari garanzie l’erogazione delle prestazioni in forma di rendita. Pare perciò opportuna una lettura correttiva: il fondo potrà erogare direttamente la prestazione soltanto se sia stato autorizzato dalla COVIP ex art. 6, comma 3o (come risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 2, d.lgs. n. 28/07); diversamente sarà tenuto ad acquisire una copertura assicurativa. ( 269 ) Sul quale v. diffusamente Vianello, La banca depositaria, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cinelli, cit., p. 471 ss.; Candian, I fondi pensione, cit., pp. 56 ss. e 137 ss.; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 289 ss., ove anche in dettaglio i requisiti necessari perché la banca possa assumere l’incarico di banca depositaria per conto del fondo; Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., pp. 79-80; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 352 ss. positaria, introdotto nel d.lgs. n. 124 con le modifiche apportate dall’art. 7 l. n. 335/95. L’art. 7, comma 1o, dispone anzitutto che le risorse dei fondi affidate in gestione devono essere depositate presso una banca distinta dal gestore ( 270 ). Si tratta dunque di un obbligo che abbraccia tutti i fondi tenuti a valersi della gestione professionale, nella misura in cui si valgano effettivamente di tale gestione. Per conseguenza, l’obbligo di deposito non sussiste per le forme pensionistiche a prestazione definita e per le eventuali prestazioni per invalidità e premorienza ( 271 ), per le forme pensionistiche complementari individuali, per i fondi pensione aperti e per i fondi pensione preesistenti, nella misura in cui non ricorrano alla gestione indiretta ( 272 ). L’obbligo di deposito delle risorse del fondo presso la banca depositaria non sussiste nemmeno nei limitati casi in cui al fondo è consentito di ricorrere alla gestione diretta ex art. 6, comma 1o ( 273 ). Per la stipulazione della convenzione tra la banca e il fondo pensione è necessario seguire la procedura di evidenza pubblica ex art. 6, comma 6o, d.lgs. n. 252 ( 274 ). La banca depositaria deve possedere i requisiti di cui all’art. 38, comma 3o, t.u.f. ( 275 ) (art. 7, comma 1o, d.lgs. n. 252), ed in generale alla convenzione si applica( 270 ) In particolare, dunque, tra la banca depositaria e il gestore non devono intercorrere rapporti né di controllo né di influenza dominante. L’espressione « distinta dal gestore » è interpretata in questa ampia accezione condivisibilmente da Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p. 79. ( 271 ) V. espressamente in questo senso l’art. 6, comma 5o, d.lgs. n. 252. ( 272 ) V. retro il par. 2, anche alla nt. 35. V. Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 267. ( 273 ) V. retro il par. 4.1. Contra, sulla base della ratio di tutela del risparmio previdenziale che ispira la disposizione, Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 196-197. Tuttavia, la formulazione letterale della norma pare insuperabile. ( 274 ) Sulla quale v. retro il par. 4.2.1. ( 275 ) L’art. 38, comma 3o, t.u.f., a sua volta rimanda la determinazione delle condizioni per l’assunzione dell’incarico di banca depositaria e delle modalità di eventuale sub-deposito dei beni ad una deliberazione della Banca d’Italia, che decide sentita la COVIP: v. ora il provvedimento Banca d’Italia 14 aprile 2005. La nuova disciplina della previdenza complementare no, per quanto compatibili, le disposizioni che il medesimo articolo detta con riferimento alla banca depositaria delle risorse dei fondi comuni di investimento mobiliare (art. 7, comma 3o, primo periodo, d.lgs. n. 252). L’art. 3, d.lgs. n. 28/07, in attuazione dell’art. 19, parr. 1 e 2, dir. 2003/41/CE, aggiunge un comma 3o bis all’art. 7 d.lgs. n. 252: come banca depositaria potrà essere scelta anche quella stabilita in un altro Stato membro, purché debitamente autorizzata ai sensi delle dir. 93/22/CE (relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari) o 2000/12/CE (relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi ed al suo esercizio), ovvero operante come banca depositaria ai fini della dir. 85/611/CEE (concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di taluni organismi di investimento collettivo in valori mobiliari). Il comma 3o ter, anch’esso introdotto nell’art. 7 d.lgs. n. 252 dall’art. 3 d.lgs. n. 28/07, consente alla Banca d’Italia, su richiesta della COVIP, di vietare la disponibilità degli attivi, depositati presso una banca avente sede legale in Italia, di un fondo pensione avente sede in uno Stato membro; l’iniziativa della COVIP può anche far seguito ad una previa conforme iniziativa dell’Autorità competente dello Stato membro in questione. Questa disposizione traspone nel nostro ordinamento l’art. 19, par. 3, dir. 2003/41/ CE. Si ritiene per lo più che la convenzione stipulata tra la banca e il fondo pensione sia un sottotipo rientrante nel genus dei contratti di deposito bancari ( 276 ), alla disciplina dei quali si potrà ricorrere nel caso di lacune, per la verità piuttosto improbabili visti anche i rimandi dell’art. 7, comma 3o, all’art. 38 t.u.f. Sicco- ( 276 ) In questo senso v. in particolare Vianello, La banca depositaria, cit., pp. 475-477; Candian, I fondi pensione, cit., p. 137; Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 290 e 292; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 204-206. Si esprime in termini di « rapporto di deposito » Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 6; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 352-353. 685 me la convenzione è pur sempre un contratto per un servizio accessorio ex art. 1, comma 6o, t.u.f., essa dovrà essere redatta per iscritto a pena di nullità ex art. 23, comma 1o, t.u.f. ( 277 ). L’art. 7, comma 2o, d.lgs. n. 252 stabilisce l’obbligo della banca depositaria di eseguire le istruzioni impartite dal gestore del patrimonio del fondo, purché esse non siano contrarie alla legge, allo statuto del fondo o ai criteri stabiliti dal decreto interministeriale di cui all’art. 6, comma 5o bis, d.lgs. n. 252, (ovvero, allo stato, ai criteri fissati dal d.m. n. 703/96). In particolare, dunque, la banca depositaria non dovrà dar seguito nemmeno alle istruzioni del gestore che confliggano con i limiti di investimento stabiliti all’art. 6, comma 13o. Dall’art. 38, comma 1o, lett. c), t.u.f. si desume che la banca depositaria non deve eseguire nemmeno le istruzioni del gestore contrarie « alle prescrizioni degli organi di vigilanza », ovvero della COVIP e degli organi di vigilanza sui singoli gestori (Banca d’Italia, CONSOB, ISVAP). La banca depositaria è tenuta ad un controllo di mera legittimità dell’operato del gestore, esclusa qualsiasi valutazione del merito delle scelte di gestione ( 278 ). L’art. 7, comma 2o, esclude anche qualsiasi controllo della corrispondenza dell’attività del gestore alle linee di indirizzo dell’attività di investimento stabilite nella convenzione di gestione, mentre la banca è tenuta a controllare la corrispondenza degli ordini ricevuti alle politiche generali di investimento fissate nello statuto ex art. 3, comma 1o, lett. p), d.m. n. 211/97. L’art. 38, comma 2o, t.u.f. stabilisce che « la banca depositaria è responsabile nei confronti ( 277 ) La nullità è tuttavia relativa e può essere fatta valere soltanto dal cliente, ovvero dal fondo (art. 23, comma 3o, t.u.f.). ( 278 ) In questo senso Vianello, La banca depositaria, cit., p. 477; Candian, Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, cit., p. 137; Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 295; Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p. 80; Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., p. 200; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 355. 686 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 della società di gestione del risparmio e dei partecipanti del fondo » comune di investimento « di ogni pregiudizio da essi subito in conseguenza dell’inadempimento dei propri obblighi » ( 279 ). La medesima regola si applicherà dunque nei confronti del fondo pensione e del soggetto gestore, ma non degli aderenti. Infatti, nel caso dei fondi pensione la gestione delle risorse è individuale, e avviene in nome e per conto dei fondi pensione (e non degli aderenti), mentre nei fondi comuni la gestione è in monte e avviene nell’interesse dei partecipanti al fondo stesso ( 280 ). Per conseguenza, l’adattamento di questa disposizione alla fattispecie del deposito delle risorse dei fondi pensione presso la banca depositaria suggerisce di limitare ai fondi pensione e ai gestori la possibilità di agire per la responsabilità della banca depositaria ex art. 38, comma 2o, t.u.f. ( 281 ), escludendo invece che gli aderenti al fondo pensione possano agire sulla base della medesima norma ( 282 ). Il comma 3o dell’art. 7 d.lgs. n. 252 aggiunge ( 279 ) Anche alla convenzione tra fondo pensione e banca depositaria si applicherà l’art. 23, comma 6o, t.u.f. che alleggerisce il carico probatorio del cliente nell’ambito delle azioni di risarcimento dei danni derivanti dall’attività degli intermediari finanziari: in base a questa norma spetterà dunque alla banca depositaria l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta quando dalla sua attività siano derivati danni per il fondo pensione. ( 280 ) Cfr. l’art. 36, comma 5o, t.u.f., secondo il quale nei fondi comuni di investimento « la società promotrice e il gestore assumono solidalmente verso i partecipanti al fondo gli obblighi e le responsabilità del mandatario ». ( 281 ) In questo senso Vianello, La banca depositaria, cit., p. 478. ( 282 ) In questo senso v. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 200-201. Sottolinea l’assenza di responsabilità contrattuale della banca nei confronti degli aderenti Costi, La gestione delle risorse dei fondi pensione, cit., p. 6. Rimane certo aperta per gli aderenti la possibilità di agire comunque in via aquiliana nei confronti della banca: v. in questo senso Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 293-294; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 354. Applica invece alla lettera la disposizione dettata per i fondi comuni di investimento anche ai fondi pensione, estendendo la relativa responsabilità della banca un secondo periodo al vecchio comma 3o dell’art. 6 bis d.lgs. n. 124/93: esso fa obbligo agli amministratori e sindaci della banca depositaria di riferire senza ritardo alla COVIP in merito alle irregolarità riscontrate nella gestione dei fondi pensione. La disposizione non rappresenta tuttavia una novità rispetto alla disciplina previgente, poiché quest’obbligo si poteva già ricavare dall’art. 2 bis della l. n. 77/83, richiamato dall’art. 6 bis, comma 3o, d.lgs. n. 124 e in tutto corrispondente all’art. 38 t.u.f. ( 283 ). La ratio dell’istituto della banca depositaria si colloca nell’alveo delle disposizioni di tutela del risparmio previdenziale ( 284 ). Da un lato, l’obbligo di gestire le risorse del fondo pensione attraverso la banca depositaria rafforza l’autonomia e la separatezza del patrimonio del fondo, impedendo anche fisicamente al gestore di operare commistioni improprie con il proprio attivo. Dall’altro lato, il legislatore aggiunge un ulteriore soggetto, particolarmente qualificato dal punto di vista professionale, a quelli che partecipano all’elaborazione finanziaria delle risorse del fondo. Ne esce particolarmente rafforzata la vigilanza sulla corretta gestione delle risorse del fondo pensione: al controllo globale effettuato dal fondo pensione e rafforzato dalla sua possibilità di recesso senza limiti dalla convenzione di gestione ( 285 ) si accompagna il controllo di legittimità garantito dalla banca depositaria. 7. – Con la disciplina della previdenza complementare il legislatore persegue principalmente quattro obiettivi, dei quali uno sicuramente prevalente e con il quale gli altri tre si devono necessariamente armonizzare. Lo scopo fondamentale campeggia già negli artt. 1 dei d.lgs. nn. 124/93 e 252/05 ed è il conseguimento anche nei confronti degli aderenti, Procopio, La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, cit., p. 80. ( 283 ) In particolare l’art. 38, comma 4o, t.u.f. stabilisce che « gli amministratori e i sindaci della banca depositaria riferiscono senza ritardo alla Banca d’Italia e alla CONSOB, ciascuna per le proprie competenze, sulle irregolarità riscontrate nell’amministrazione della società di gestione del risparmio e nella gestione dei fondi comuni ». ( 284 ) V. Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., pp. 195-196. ( 285 ) V. retro il par. 4.2.1. La nuova disciplina della previdenza complementare di « più elevati livelli di copertura previdenziale » tramite « l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio » ( 286 ). Il d.lgs. n. 124 nasce a seguito della crisi del sistema pensionistico pubblico che si palesa in tutta la sua evidenza agli inizi degli anni ’90: le riforme del ’92 e del ’95 hanno introdotto una riduzione strutturale e consistente delle prestazioni pensionistiche del sistema obbligatorio, con la conseguenza che la previdenza complementare è stata inserita a pieno titolo tra gli strumenti dell’ordinamento che contribuiscono ad assicurare ai lavoratori « mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso » di « vecchiaia » ex art. 38, comma 2o, Cost. ( 287 ). ( 286 ) Che l’obiettivo previdenziale debba essere assolutamente prevalente sembrerebbe scontato, quanto meno nella dottrina giuslavoristica: v. expressis verbis Cinelli, Sulle funzioni della previdenza complementare, in Riv. giur. lav., 2000, I, pp. 523-524. Tuttavia, per altre discipline questa gerarchia non sembra completamente acquisita: cfr. Gai, I fondi pensione. Il loro contributo allo sviluppo dei mercati finanziari e all’avvento della democrazia economica, cit., in particolare p. 168. ( 287 ) V. espressamente in questo senso i punti 5 e 6.1 di Corte cost., 8 settembre 1995, n. 421, cit.; ancora più chiaramente il punto 3 di Corte cost., 28 luglio 2000, n. 393, cit., dove si afferma expressis verbis che il legislatore ha inteso « istituire [...] un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nell’art. 38, secondo comma, della Costituzione ». In dottrina si discute, anche con toni critici, sul grado di funzionalizzazione della previdenza complementare agli scopi di cui all’art. 38, comma 2o, Cost., ma difficilmente la si nega. Per la tesi probabilmente maggioritaria secondo la quale il fondamento costituzionale della previdenza complementare sarebbe da riscontrarsi nell’art. 38, comma 2o, Cost. v. Sandulli, voce Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm., Torino, 1993, p. 249; Mastrangeli, La disciplina dei fondi pensione nei decreti legislativi n. 124 e n. 585 del 1993, cit., p. 146; Olivelli, voce Previdenza complementare, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, p. 4; G. Ferraro, Dai fondi pensione alla democrazia economica, in Riv. giur. lav., 2000, I, pp. 190-191; Mazziotti, Le posizioni soggettive nella pensione complementare, in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di Ferraro, cit., pp. 73-74; Rossi, La previdenza sociale, Enciclopedia giuridica del lavoro fondata da Mazzoni, diretta da Suppiej, vol. 9, Padova, 2000, pp. 74-75; Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della previ- 687 Questa direttrice di funzionalizzazione della previdenza complementare al mantenimento di un tenore di vita adeguato anche nella fase del pensionamento è uscita sicuramente rafforzata con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 252 ( 288 ), che denza complementare, in Lav. e giur., 2006, p. 249; Pessi, La nozione costituzionalmente necessitata di previdenza complementare: un commento, in La previdenza complementare in Italia, a cura di Messori, cit., p. 325 ss.; Id., La riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare: principi ispiratori, novità, prospettive, in Mass. giur. lav., 2006, p. 366; più dubitativamente in La previdenza complementare tra funzione costituzionale e concorrenza, in Mass. giur. lav., 2005, pp. 486-488. Per la posizione opposta, secondo la quale la previdenza complementare si caratterizzerebbe per essere il frutto della libera scelta dell’autonomia individuale e/o collettiva, e dunque troverebbe fondamento nell’art. 38, comma 5o, Cost., v. Persiani, Il campo di applicazione del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, in Aa.Vv., La previdenza complementare per le banche: problemi e prospettive, Collana di questioni sindacali e contrattuali, Assicredito, vol. n. 15, Roma, 1994, p. 34; Cecconi, La previdenza complementare e le sue vicende, in Riv. it. dir. lav., 1996, I, p. 199; Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit., specialmente pp. 104-106; Bessone, Previdenza complementare, cit., soprattutto pp. 31-32; Id., Previdenza privata e fondi pensione. Il sistema delle fonti normative di un nuovo ordinamento di settore, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 202-203. Gli autori che si inquadrano in questa posizione criticano con varie sfumature gli aspetti di funzionalizzazione della previdenza complementare realizzati dal legislatore a partire dal d.lgs. n. 124/93. Per la posizione intermedia che cerca di conciliare libertà e funzionalizzazione v. Cinelli, sub art. 1, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a cura di Cinelli, cit., pp. 175-177; Bozzao, La previdenza complementare, in La riforma del sistema previdenziale, a cura di Pessi, Padova, 1995, p. 382; Cinelli, Sulle funzioni della previdenza complementare, cit., p. 533; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., specialmente p. 67; Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., p. 10; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., pp. 338 ss.; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 83 ss. Per una recente disamina delle principali posizioni dottrinali v. Olivelli e Ciocca, voce Previdenza complementare. I) Diritto del lavoro, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001, pp. 4-5. ( 288 ) In questo senso Giubboni, Individuale e col- 688 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 agevola in ogni modo la destinazione del t.f.r. alle forme di previdenza complementare regolate dal medesimo decreto ( 289 ) (per un’ampia analisi delle relative disposizioni v. Ferrante, sub art. 8, in questo Commentario). Soprattutto nelle pieghe delle disposizioni in materia di amministrazione dei fondi pensione « chiusi » e di gestione delle loro risorse si riscontrano gli altri tre obiettivi perseguiti dai d.lgs. nn. 124/93 e 252/05: l’irrobustimento dei mercati finanziari del nostro Paese mediante l’iniezione di capitali rappresentata dalle risorse dei fondi pensione ( 290 ); il potenziamento della democrazia economica attraverso l’investimento del risparmio previdenziale dei lavoratori nel capitale delle imprese ( 291 ); il rafforzamento della democrazia azionaria e dell’ottica di lungo periodo nella governance delle società di capitali tramite l’inclusione nelle loro compagini proprietarie di investitori istituzionali le cui politiche di investimento valorizzano il cd. long-termism ( 292 ). Questi obiettivi sono perseguiti limi- lettivo nella riforma della previdenza complementare, cit., p. 252. Per spunti in questa direzione cfr. anche Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 11-12. ( 289 ) Sui meccanismi mediante i quali avviene questa destinazione, compreso in particolare l’assenso tacito, v. amplius Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., p. 176 ss. ( 290 ) Cfr. Gai, I fondi pensione. Il loro contributo allo sviluppo dei mercati finanziari e all’avvento della democrazia economica, cit., p. 105 ss.; Porta, Effetti macroeconomici dei fondi pensione, cit., p. 15 ss.; Cinelli, Sulle funzioni della previdenza complementare, cit., p. 523; G. Ferraro, Dai fondi pensione alla democrazia economica, cit., p. 206; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., pp. 3839; G. Santoro Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, in Mass. giur. lav., 2006, p. 977; Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 3. V. anche i rilievi critici di questa autrice, secondo la quale la disciplina degli investimenti dei fondi pensione perseguirebbe prevalentemente questa finalità, a tutto discapito degli obiettivi di democrazia economica e perfino dell’interesse previdenziale degli aderenti. ( 291 ) G. Ferraro, Dai fondi pensione alla democrazia economica, cit., p. 207. ( 292 ) Cfr. in questo senso Salerno, Fondi pensione « negoziali ». Costituzione, gestione e vigilanza, cit., tando agli strumenti finanziari le possibilità di investimento delle risorse dei fondi (salvo che per i fondi preesistenti, è esclusa la possibilità di investire direttamente in immobili ( 293 ) – art. 6 d.lgs. n. 252 e d.m. n. 703/96); includendo i rappresentanti dei lavoratori aderenti ai fondi pensione negoziali negli organi di amministra- pp. 26-29 e 102-103; Bessone, Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I. L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., pp. 385-386; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 1-2 e 232-233. V. anche retro le osservazioni di Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 4: questa autrice si interroga sulla coerenza degli strumenti apprestati per il raggiungimento degli obiettivi di democrazia economica, con particolare accento critico sulle disposizioni che limitano la possibilità dei fondi pensione di assumere il controllo o anche di esercitare soltanto un’influenza dominante sulle società partecipate. Nell’ambito del dibattito che precedette il varo del d.lgs. n. 124/93 era ben presente la doppia anima dei fondi pensione: indispensabile strumento di copertura previdenziale aggiuntiva per i lavoratori da un lato, ma anche fondamentale strumento di democrazia economica dall’altro. Già allora si prospettava il dilemma « fra una destinazione » dei contributi raccolti « che consideri solo la remunerazione del risparmio e la garanzia di sicurezza contro il bisogno e un utilizzo che tenda a combinare simile destinazione (essenziale) con l’uso delle risorse per investimenti qualificati sul piano dell’occupazione e dell’innovazione produttiva »: così Treu, La partecipazione dei lavoratori all’economia delle imprese, in Giur. comm., 1988, I, pp. 813-814. Questo autore richiama opportunamente le comuni radici di democrazia economica esistenti tra la previdenza complementare governata dall’autonomia collettiva e il Fondo di solidarietà (cd. Fondo 0,50, che aveva il compito di raccogliere una quota di salario pari allo 0,50 e destinarla ad investimenti produttivi), partecipato dai sindacati e sostenuto veementemente dalla CISL, che vide una realizzazione soltanto effimera nel 1980. ( 293 ) V. in questo senso Bessone, Previdenza complementare, cit., pp. 271-272; Id., Fondi pensione e mercato finanziario. Le attività di investimento, le garanzie di tutela del risparmio con finalità previdenziale. Sezione I – L’ordinamento delle attività dei fondi pensione negoziali e « chiusi », cit., p. 341; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 142; Righini, La gestione « finanziaria » del patrimonio dei fondi pensione chiusi, cit., pp. 123 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare zione e controllo in misura paritetica rispetto ai rappresentanti dei datori di lavoro, o addirittura totalitaria quando la contribuzione sia totalmente a carico dei lavoratori (art. 5, comma 1o, d.lgs. n. 252); attribuendo ai fondi pensione la titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investiti gli attivi del fondo stesso anche quando la gestione avvenga attraverso un intermediario finanziario abilitato [art. 6, comma 8o, lett. c), d.lgs. n. 252]. L’armonizzazione di questi obiettivi con quello prevalente della tutela ed incremento del risparmio previdenziale degli aderenti avviene imponendo il ricorso ad un gestore professionale, salvi i pochi casi in cui è consentita la gestione diretta (art. 6, comma 1o, d.lgs. n. 252), nonché ad una banca depositaria (art. 7 d.lgs. n. 252); ponendo vari limiti all’allocazione degli investimenti (art. 6, commi 5o bis e 13o, d.lgs. n. 252, e d.m. n. 703/96), ed in particolare vietando ai fondi pensione di categoria di investire più del 30% delle risorse in azioni o quote emesse dalle imprese tenute alla contribuzione in quanto appartenenti alla categoria [art. 6, comma 13o, lett. b), d.lgs. n. 252]; stabilendo criteri di gestione dei fondi improntati alla diversificazione degli investimenti e alla massimizzazione dei rendimenti netti (art. 2, comma 1o, d.m. n. 703/96). Il susseguirsi delle riforme della disciplina della previdenza complementare, pur non rivoluzionando l’impianto dell’amministrazione dei fondi pensione chiusi e della gestione delle loro risorse, ha inciso profondamente su di esso dall’esterno. Il d.lgs. n. 252 ha portato a compimento la progressiva « equiparazione tra forme pensionistiche », in un’ottica di « eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare » [art. 1, comma 2o, lett. e), n. 4), l. n. 243/04], ma il processo era già stato avviato fin dalla l. n. 335/95 ( 294 ). In questo modo si è creato un mercato della previdenza complementare all’interno del quale sono poste in competizione forme pensionistiche individuali e collettive, fondi ( 294 ) Cfr. in questo senso Volpe Putzolu, I fondi pensione aperti, cit., pp. 338-340; Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., p. 123 ss. 689 pensione chiusi e fondi pensione aperti ( 295 ) (cfr. Pallini, sub art. 14, commi 1o, 2o, 3o, 6o e 8o, in questo Commentario, par. 1). Permangono elementi di favor per i fondi pensione « chiusi », soprattutto con riferimento alla devoluzione tacita del t.f.r. e alla portabilità della contribuzione datoriale, che le fonti istitutive collettive possono modellare o anche escludere ( 296 ) [artt. 8, comma 7o, n. 1) e 14, comma 6o, ult. periodo, d.lgs. n. 252], ma l’accesso alle forme ( 295 ) In questo senso Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere. Spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, pp. 536-537; Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della previdenza complementare, cit., p. 252; Messori, La previdenza complementare in Italia: un quadro introduttivo, in La previdenza complementare in Italia, a cura di Messori, cit., pp. 34-36 e 81; Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, cit., in particolare p. 201; G. SantoroPassarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, cit., pp. 978-979; Sandulli, Forme pensionistiche ed equiparazione nel decreto 252/2005: obiettivi e limiti, in Newsletter Mefop, 2007, 28, p. 4. ( 296 ) Una parte consistente (e forse maggioritaria) della dottrina esclude che l’affidamento alle fonti collettive della disciplina della portabilità della contribuzione datoriale costituisca un privilegio. Al contrario, proprio questa riserva di regolazione renderebbe il disposto normativo rispettoso dell’autonomia collettiva costituzionalmente tutelata: cfr. in questo senso Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere. Spunti di riflessione, cit., pp. 537538, secondo il quale si prospettavano rischi di violazione delle prerogative dell’autonomia collettiva costituzionalmente tutelate con riferimento all’art. 1, comma 2o, lett. e), l. n. 243/04, che non sembrava lasciare alcuno spazio alle fonti collettive per la regolazione della portabilità del contributo datoriale; Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema della previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2006, p. 1491 ss.; Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 5. Rileva invece come la soluzione cui è giunto il d.lgs. n. 252 sia incompatibile con i criteri direttivi stabiliti sul punto dalla l. n. 243/04 Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della previdenza complementare, cit., in particolare p. 254. Sul vivace dibattito dottrinale e politico-sindacale che ha accompagnato la stesura dell’art. 14, comma 6o, ult. inciso, d.lgs. n. 252/05, nonché per un’esauriente disamina delle questioni di compatibilità comunitaria e costituzionale sollevate durante tale accesa discussione, v. Pallini, sub art. 14, commi 1o, 2o, 3o, 6o e 8o, in questo Commentario, parr. 3-5. 690 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 pensionistiche complementari è liberalizzato e la permanenza obbligatoria nella forma prescelta è ridotta a due anni (art. 14, comma 6o, d.lgs. n. 252) (v. amplius Pallini, sub art. 14, commi 1o, 2o, 3o, 6o e 8o, in questo Commentario, parr. 1 e 2). In un quadro di questo tipo le conseguenze sulla gestione delle risorse dei fondi sembrano di un certo rilievo: in particolare, l’impatto sugli ultimi due obiettivi di politica economica perseguiti in origine dal legislatore del d.lgs. n. 124 appare consistente. La facilità di circolazione dei lavoratori all’interno del sistema di previdenza complementare spingerà verosimilmente i fondi pensione a privilegiare investimenti con ritorni rapidi, incidendo sensibilmente sull’ottica di long-termism di questi investitori istituzionali ( 297 ) (analogamente Pallini, sub art. 14, ( 297 ) Nel senso che nemmeno la più restrittiva disciplina del trasferimento della propria posizione previdenziale di cui all’art. 10, comma 3o bis, d.lgs. n. 124/93 (obbligo di permanenza nel fondo chiuso per cinque anni nei primi cinque anni di vita del fondo, e successivamente per tre anni) fosse di per sé sufficiente a favorire l’adozione di un’ottica di long-termism da parte dei gestori v. Gai, I fondi pensione. Il loro contributo allo sviluppo dei mercati finanziari e all’avvento della democrazia economica, cit., p. 163 ss.; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, cit., p. 199. Cfr. anche Fornero, L’economia dei fondi pensione. Potenzialità e limiti della previdenza privata in Italia, cit., pp. 42-43, la quale ricollega opportunamente la « caratteristica di lungo termine delle attività previdenziali » alla circostanza che « i piani pensionistici » comportino « stretti vincoli di permanenza » che normalmente esonerano « i gestori dalla preoccupazione di una massimizzazione a breve termine dei rendimenti (short-termism) ». Sulla circostanza che, nell’ambito degli investitori istituzionali, « il rischio di riscatto delle quote da parte dei partecipanti sia fattore in grado di indurre comportamenti propensi a privilegiare la liquidità rispetto alla sorveglianza attiva » v. Pandolfo, Fondi pensione e investimento delle risorse (considerazioni a margine del dibattito sulla « corporate governance »), cit., p. 859, nt. 15. Sembrano invece piuttosto acriticamente convinti che « il fondo pensione » sia « investitore istituzionale che guarda al lungo periodo » a prescindere dai condizionamenti del sistema normativo in cui opera Bessone, Previdenza complementare, cit., in particolare pp. 324 e 360-361; Pernice, La gestione finanziaria dei fondi pensione, cit., p. XIII. commi 1o, 2o, 3o, 6o e 8o, in questo Commentario, par. 1). La pressione concorrenziale si trasmetterà ai gestori, le cui convenzioni possono essere anche di durata piuttosto breve ( 298 ): un esercizio frequente del diritto loro attribuito di smobilizzo dei valori in cui sono investite le risorse del fondo pensione toglierà probabilmente molto del suo significato al diritto di voto di cui dispone invece il fondo. L’incrementata concorrenza sul breve periodo indurrà i fondi di categoria a concentrarsi sui titoli che garantiscono ritorni rapidi e a ridurre il flusso di risorse indirizzato agli strumenti finanziari emessi dalle imprese rientranti nella categoria, qualora essi non presentino tali caratteristiche. Questi sviluppi non saranno immediati: a tacer d’altro, le fonti istitutive dei fondi pensione negoziali godono ancora di un vantaggio competitivo importante rappresentato dalla possibilità di prevedere e regolare il contributo datoriale ( 299 ). Nel lungo termine, però, un’evoluzione del tipo appena prospettato appare probabile. Nel corso degli anni il legislatore italiano ha progressivamente perso di vista le ragioni di peculiarità delle forme di previdenza complementare istituite e regolate dall’autonomia collettiva ( 300 ). Da un lato, sotto la spinta della necessi- ( 298 ) La COVIP si limita a consigliare una durata non inferiore ai tre anni; si ricordi comunque che ai sensi degli Schemi di convenzione della COVIP il fondo pensione è sempre libero di recedere, purché nel rispetto del prescritto periodo di preavviso: cfr. gli artt. 10 e 11 degli Schemi di convenzione della COVIP per la gestione delle risorse dei fondi pensione in regime di contribuzione definita, rispettivamente senza e con garanzia di restituzione del capitale, contenuti nella deliberazione 7 gennaio 1998, cit. ( 299 ) G. Santoro-Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, cit., p. 979. ( 300 ) In questo senso con toni critici Ciocca, La libertà della previdenza privata, cit.; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., in particolare p. 75 ss.; Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Diritto del lavoro, Padova, 2004, p. 1116 ss. (già in Arg. dir. lav., 2001, p. 715 ss.); Id., Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema della previdenza complementare, cit., pp. 1486-1487; Proia, Sussidiarietà e previdenza, in Arg. dir. lav., 2006, p. 1574. L’omologazione della previdenza complementare, anche di matrice collettiva, agli altri strumenti di investimento del risparmio si va arricchendo di un ulteriore tassello con la progettata eli- La nuova disciplina della previdenza complementare tà di potenziare la copertura pensionistica, la normativa ha progressivamente imbrigliato l’azione delle parti sociali funzionalizzandola strettamente agli obiettivi di cui all’art. 38, comma 2o, Cost. Dall’altro lato, anche sotto l’impulso della legislazione ( 301 ) e delle decisioni giudiziali ( 302 ) provenienti dalle istituzioni della Comunità europea, ha iniettato dosi massicce di concorrenza nel sistema della previdenza complementare ( 303 ), completando la sua trasforma- minazione della COVIP, le cui funzioni verrebbero ripartite tra la Banca d’Italia e la CONSOB (v. il d.d.l. in materia di funzioni, organizzazione e attività delle Autorità indipendenti di regolazione, vigilanza e garanzia dei mercati, approvato dal Consiglio dei ministri del 2 febbraio 2007). ( 301 ) Ci si riferisce in particolare alla già più volte menzionata dir. 2003/41/CE. ( 302 ) Sin dal notissimo caso Albany [Corte giust. CE 21 settembre 1999, C-67/97, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, p. 209 ss., con nota di Pallini, Il rapporto problematico tra diritto della concorrenza e autonomia collettiva nell’ordinamento comunitario e nazionale; tra i commenti a questa importante decisione v., senza pretesa di completezza, Andreoni, Contratto collettivo, fondo complementare e diritto della concorrenza: le virtù maieutiche della Corte di giustizia (riflessioni sul caso Albany), in Riv. giur. lav., 2000, I, p. 981 ss.; F. Ferraro, Obbligatorietà dell’iscrizione ad un fondo pensione e regole comunitarie (il caso Albany), in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di Ferraro, cit., tomo II, p. 913 ss.] la Corte di giustizia ha chiarito che i fondi di previdenza complementare sono in linea di principio soggetti alle regole del diritto comunitario della concorrenza, salvo che gli eventuali diritti speciali ad essi attribuiti non siano giustificati da particolari connotati solidaristici che verrebbero meno in assenza di tali diritti speciali. Sui pur limitati elementi di solidarietà che connotano il modello di previdenza complementare ex d.lgs. nn. 124/93 e 252/05 v. Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema della previdenza complementare, cit., pp. 1483-1484. Sulla curiosa « iper-conformazione » del sistema italiano della previdenza complementare alle regole del diritto comunitario della concorrenza v. Giubboni, Fondi pensione e competition rules comunitarie, in La previdenza complementare, a cura di Bessone e F. Carinci, cit., pp. 130-134; anche secondo Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, cit., pp. 146-150 la disciplina comunitaria della concorrenza non impedirebbe al legislatore italiano di prevedere condizioni di miglior favore per le forme pensionistiche complementari a genesi contrattuale collettiva. ( 303 ) Sugli elementi di « pluralismo concorrenzia- 691 zione in un mercato competitivo. È possibile che queste trasformazioni agevolino il raggiungimento dell’obiettivo ex art. 38, comma 2o, Cost. ( 304 ). È tuttavia altresì probabile che l’obiettivo del potenziamento della democrazia economica in gran parte sfumerà proprio nel le » introdotti nel d.lgs. n. 124/93 dalle novelle di cui alla l. n. 335/95 e al d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 400 ss.; Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit., pp. 1118-1121; Zampini, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 34 ss., in particolare pp. 40-42; Giubboni, Individuale e collettivo nella riforma della previdenza complementare, cit., pp. 250252. ( 304 ) Non è così scontato che il raggiungimento dei più alti livelli di copertura previdenziale passi attraverso un sistema di previdenza complementare che concede agli aderenti la più ampia libertà di circolazione tra diverse forme pensionistiche. Vanno ad esempio in senso contrario le riflessioni ed i suggerimenti che la Pensions Commission ha elaborato per la riforma della previdenza integrativa in Gran Bretagna. La Commissione segnala i costi aggiuntivi derivanti dai movimenti di posizioni previdenziali tra diversi soggetti attuatori, e per conseguenza esprime la propria preferenza per un’unica forma pensionistica (il National Pension Savings Scheme), che offra un’ampia gamma di fondi di investimento (tra i quali gli aderenti potrebbero scegliere liberamente) ed affidi la loro gestione agli investitori istituzionali più capaci, scelti attraverso apposite procedure selettive. V. Pensions Commission, Implementing an integrated package of pension reforms. The Final Report of the Pensions Commission, 2006, consultabile sul sito www.pensionscommission.org.uk, in particolare p. 28 ss. Sugli aumenti di costi che la proliferazione di forme pensionistiche può comportare, a tutto discapito dell’obiettivo di massimizzazione della copertura previdenziale, v. anche Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario, par. 5; Pallini, sub art. 14, commi 1o, 2o, 3o, 6o e 8o, ibidem, par. 1. La strategia che il legislatore del d.lgs. n. 252 porta alle estreme conseguenze non convince nemmeno una parte della dottrina italiana, secondo la quale il rafforzamento delle caratteristiche di previdenza pubblica della previdenza complementare si porrebbe in netto contrasto con l’accentuazione della sua funzione servente al potenziamento del mercato finanziario: v. in questo senso R. Pessi, La previdenza complementare tra funzione costituzionale e concorrenza, cit., pp. 486-488; G. Santoro Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, cit., p. 976 ss. 692 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 momento in cui, con la destinazione agevolata del t.f.r. al finanziamento delle forme di previdenza complementare, esso avrebbe potuto essere più agevolmente conseguito: il risparmio previdenziale a disposizione dell’autonomia collettiva aumenta, ma i vincoli di sistema impediscono alle parti sociali di perseguire, pur nel rispetto della destinazione previdenziale di tali risorse, una qualsiasi politica industriale per mezzo di esse. È dunque necessario finalizzare anche nel nostro Paese la profonda riflessione già avviata da qualche tempo sull’opportunità di aprire nuove strade alla democrazia economica, segnatamente attraverso il rafforzamento della partecipazione finanziaria dei lavoratori sub specie di azionariato dei dipendenti e retribuzione incentivante ( 305 ). Gli argomenti già ampiamente dibattuti in sede comunitaria e in altre esperienze europee segnalano l’indispensa( 305 ) Sulla partecipazione economica, storicamente poco sviluppata nel nostro Paese, v. per tutti Treu, La partecipazione dei lavoratori alla economia delle imprese, cit., p. 785 ss.; Alaimo, La partecipazione azionaria dei lavoratori: retribuzione, rischio e controllo, Milano, 1998; Ferrante, Forme e finalità dell’azionariato dei dipendenti nell’ordinamento italiano e nell’esperienza comparata, in Jus, 2000, p. 243 ss.; Guaglianone, Individuale e collettivo nell’azionariato dei dipendenti, Torino, 2003; Ferrante, Tradizione e novità nella disciplina della parteci- bilità di questi strumenti nell’attuale fase di globalizzazione economica ( 306 ): da un lato, la contrattazione collettiva si dimostra sempre meno in grado di coniugare adeguata crescita salariale e competitività delle imprese; dall’altro lato, la consistente presenza dei lavoratori nella compagine azionaria delle società sembra sempre più indispensabile per favorire una gestione improntata ad un’ottica di crescita di lungo periodo ed un prezioso antidoto ai tentativi di scalate ostili. Matteo Corti pazione dei lavoratori: Francia e Italia a confronto, in Riv. giur. lav., 2003, I, p. 139 ss.; La partecipazione azionaria dei dipendenti, a cura di Izar, Torino, 2003. Per un’efficace sintesi del dibattito socio-politico in argomento v. Baglioni, Democrazia impossibile? I modelli collaborativi nell’impresa: il difficile cammino della partecipazione tra democrazia ed efficienza, Bologna, 1995, in particolare p. 191 ss. ( 306 ) Cfr. da ultimo Commissione della Comunità europea, Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the Economic and Social Committee and the Committee of the Regions. On a framework for the promotion of employee financial participation, COM (2002) 364 final; la Decisione del 20o Congresso della CDU tedesca dal titolo « Soziale Kapitalpartnerschaft – für mehr Arbeitnehmerbeteiligung an Gewinn und Kapital », adottata nel novembre 2006, consultabile sul sito www.cdu.de. Art. 8. (Finanziamento) 1. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere attuato mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente e attraverso il conferimento del TFR maturando. Nel caso di lavoratori autonomi e di liberi professionisti il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è attuato mediante contribuzioni a carico dei soggetti stessi. Nel caso di soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o d’impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, il finanziamento alle citate forme è attuato dagli stessi o dai soggetti nei confronti dei quali sono a carico. 2. Ferma restando la facoltà per tutti i lavoratori di determinare liberamente l’entità della contribuzione a proprio carico, relativamente ai lavoratori dipendenti che aderiscono ai fondi di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a g) e di cui all’articolo 12, con adesione su base collettiva, le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore stesso possono essere fissati dai contratti e dagli accordi collettivi, anche aziendali; gli accordi fra soli lavoratori determinano il livello minimo della contribuzione a carico degli La nuova disciplina della previdenza complementare 693 stessi. Il contributo da destinare alle forme pensionistiche complementari è stabilito in cifra fissa oppure: per i lavoratori dipendenti, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR o con riferimento ad elementi particolari della retribuzione stessa; per i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, in percentuale del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF, relativo al periodo d’imposta precedente; per i soci lavoratori di società cooperative, secondo la tipologia del rapporto di lavoro, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR ovvero degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori ovvero in percentuale del reddito di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF relativo al periodo d’imposta precedente. 3. Nel caso di forme pensionistiche complementari di cui siano destinatari i dipendenti della pubblica amministrazione, i contributi alle forme pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure coerenti alla natura del rapporto. 4. ( 1 ) I contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro o committente, sia volontari sia dovuti in base a contratti o accordi collettivi, anche aziendali, alle forme di previdenza complementare, sono deducibili, ai sensi dell’articolo 10 del TUIR, dal reddito complessivo per un importo non superiore ad euro 5.164,57; i contributi versati dal datore di lavoro usufruiscono altresì delle medesime agevolazioni contributive di cui all’articolo 16; ai fini del computo del predetto limite di euro 5.164,57 si tiene conto anche delle quote accantonate dal datore di lavoro ai fondi di previdenza di cui all’articolo 105, comma 1, del citato TUIR. Per la parte dei contributi versati che non hanno fruito della deduzione, compresi quelli eccedenti il suddetto ammontare, il contribuente comunica alla forma pensionistica complementare, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è stato effettuato il versamento, ovvero, se antecedente, alla data in cui sorge il diritto alla prestazione, l’importo non dedotto o che non sarà dedotto nella dichiarazione dei redditi. 5. ( 2 ) Per i contributi versati nell’interesse delle persone indicate nell’articolo 12 del TUIR, che si trovino nelle condizioni ivi previste, spetta al soggetto nei confronti del quale dette persone sono a carico la deduzione per l’ammontare non dedotto dalle persone stesse, fermo restando l’importo complessivamente stabilito nel comma 4. 6. ( 3 ) Ai lavoratori di prima occupazione successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto e, limitatamente ai primi cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari, è consentito, nei venti anni successivi al quinto anno di partecipazione a tali forme, dedurre dal reddito complessivo contributi eccedenti il limite di 5.164,57 euro pari alla differenza positiva tra l’importo di 25.822,85 euro e i contributi effettivamente versati nei primi cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche e comunque per un importo non superiore a 2.582,29 euro annui. 7. Il conferimento del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari comporta l’adesione alle forme stesse e avviene, con cadenza almeno annuale, secondo: a) modalità esplicite: entro sei mesi dalla data di prima assunzione il lavoratore, può conferire l’intero importo del TFR maturando ad una forma di previdenza complementare dallo stesso prescelta; qualora, in alternativa, il lavoratore decida, nel predetto periodo di tempo, di mantenere il TFR maturando presso il proprio datore di lavoro, tale scelta può essere successi- ( 1 ) Per il commento al comma 4o, v. Marchetti, La deducibilità fiscale dei contributi alla previdenza complementare, in questo Commentario. ( 2 ) Per il commento al comma 5o, v. Marchetti, La deducibilità fiscale dei contributi versati nell’interesse delle persone fiscalmente a carico, in questo Commentario. ( 3 ) Per il commento al comma 6o, v. Marchetti, La deducibilità fiscale agevolata dei contributi per i lavoratori di prima occupazione successiva al 1.1.2007, in questo Commentario. 694 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 vamente revocata e il lavoratore può conferire il TFR maturando ad una forma pensionistica complementare dallo stesso prescelta; b) modalità tacite: nel caso in cui il lavoratore nel periodo di tempo indicato alla lettera a) non esprima alcuna volontà, a decorrere dal mese successivo alla scadenza dei sei mesi ivi previsti: 1) il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando dei dipendenti alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, salvo sia intervenuto un diverso accordo aziendale che preveda la destinazione del TFR a una forma collettiva tra quelle previste all’articolo 1, comma 2, lettera e), n. 2), della legge 23 agosto 2004, n. 243; tale accordo deve essere notificato dal datore di lavoro al lavoratore, in modo diretto e personale; 2) in caso di presenza di più forme pensionistiche di cui al n. 1), il TFR maturando è trasferito, salvo diverso accordo aziendale, a quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda; 3) qualora non siano applicabili le disposizioni di cui ai numeri 1) e 2), il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando alla forma pensionistica complementare istituita presso l’INPS; c) con riferimento ai lavoratori di prima iscrizione alla previdenza obbligatoria in data antecedente al 29 aprile 1993: 1) fermo restando quanto previsto all’articolo 20, qualora risultino iscritti, alla data di entrata in vigore del presente decreto, a forme pensionistiche complementari in regime di contribuzione definita, è consentito scegliere, entro sei mesi dalla predetta data o dalla data di nuova assunzione, se successiva, se mantenere il residuo TFR maturando presso il proprio datore di lavoro, ovvero conferirlo, anche nel caso in cui non esprimano alcuna volontà, alla forma complementare collettiva alla quale gli stessi abbiano già aderito; 2) qualora non risultino iscritti, alla data di entrata in vigore del presente decreto, a forme pensionistiche complementari, è consentito scegliere, entro sei mesi dalla predetta data, se mantenere il TFR maturando presso il proprio datore di lavoro, ovvero conferirlo, nella misura già fissata dagli accordi o contratti collettivi, ovvero, qualora detti accordi non prevedano il versamento del TFR, nella misura non inferiore al 50 per cento, con possibilità di incrementi successivi, ad una forma pensionistica complementare; nel caso in cui non esprimano alcuna volontà, si applica quanto previsto alla lettera b). 8. Prima dell’avvio del periodo di sei mesi previsto dal comma 7, il datore di lavoro deve fornire al lavoratore adeguate informazioni sulle diverse scelte disponibili. Trenta giorni prima della scadenza dei sei mesi utili ai fini del conferimento del TFR maturando, il lavoratore che non abbia ancora manifestato alcuna volontà deve ricevere dal datore di lavoro le necessarie informazioni relative alla forma pensionistica complementare verso la quale il TFR maturando è destinato alla scadenza del semestre. 9. Gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche complementari prevedono, in caso di conferimento tacito del TFR, l’investimento di tali somme nella linea a contenuto più prudenziale tali da garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili, nei limiti previsti dalla normativa statale e comunitaria, al tasso di rivalutazione del TFR. 10. L’adesione a una forma pensionistica realizzata tramite il solo conferimento esplicito o tacito del TFR non comporta l’obbligo della contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro. Il lavoratore può decidere, tuttavia, di destinare una parte della retribuzione alla forma pensionistica prescelta in modo autonomo ed anche in assenza di accordi collettivi; in tale caso comunica al datore di lavoro l’entità del contributo e il fondo di destinazione. Il datore può a sua volta decidere, pur in assenza di accordi collettivi, anche aziendali, di contribuire alla forma pensionistica alla quale il lavoratore ha già aderito, ovvero a quella prescelta in base al citato accordo. Nel caso in cui il lavoratore intenda contribuire alla forma pensionistica com- La nuova disciplina della previdenza complementare 695 plementare e qualora abbia diritto ad un contributo del datore di lavoro in base ad accordi collettivi, anche aziendali, detto contributo affluisce alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai predetti contratti o accordi. 11. La contribuzione alle forme pensionistiche complementari può proseguire volontariamente oltre il raggiungimento dell’età pensionabile prevista dal regime obbligatorio di appartenenza, a condizione che l’aderente, alla data del pensionamento, possa far valere almeno un anno di contribuzione a favore delle forme di previdenza complementare. È fatta salva la facoltà del soggetto che decida di proseguire volontariamente la contribuzione, di determinare autonomamente il momento di fruizione delle prestazioni pensionistiche. 12. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere altresì attuato delegando il centro servizi o l’azienda emittente la carta di credito o di debito al versamento con cadenza trimestrale alla forma pensionistica complementare dell’importo corrispondente agli abbuoni accantonati a seguito di acquisti effettuati tramite moneta elettronica o altro mezzo di pagamento presso i centri vendita convenzionati. Per la regolarizzazione di dette operazioni deve ravvisarsi la coincidenza tra il soggetto che conferisce la delega al centro convenzionato con il titolare della posizione aperta presso la forma pensionistica complementare medesima. 13. Gli statuti e i regolamenti disciplinano, secondo i criteri stabiliti dalla COVIP, le modalità in base alle quali l’aderente può suddividere i flussi contributivi anche su diverse linee di investimento all’interno della forma pensionistica medesima, nonché le modalità attraverso le quali può trasferire l’intera posizione individuale a una o più linee. Art. 23. (Entrata in vigore e norme transitorie) 1. ( 4 ) 2. Le norme di cui all’articolo 8, comma 7, relative alle modalità tacite di conferimento del TFR alle forme pensionistiche complementari, non si applicano ai lavoratori le cui aziende non sono in possesso dei requisiti di accesso al Fondo di garanzia di cui all’articolo 10, comma 3, limitatamente al periodo in cui sussista tale situazione e comunque non oltre un anno dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo; i lavoratori delle medesime aziende possono tuttavia conferire il TFR secondo le modalità esplicite di cui all’articolo 8, comma 7, e in questo caso l’azienda beneficia delle agevolazioni previste al predetto articolo 10, con esclusione dell’accesso al predetto Fondo di garanzia. 3. ... 4. bis ( 5 ) 5. ( 6 ) 6. ( 7 ) 7. ( 8 ) ( 4 ) Per il commento al comma 1o, v. Squeglia, L’anticipata entrata in vigore del d.lgs. n. 252/2005, in questo Commentario. ( 5 ) Per il commento ai commi 3o, 3o bis, 4o, 4o bis, v. Montaldi, La transizione verso la nuova disciplina, in questo Commentario. ( 6 ) Per il commento al comma 5o, v. Marchetti, La disciplina fiscale transitoria per i lavoratori iscritti a forme pensionistiche complementari alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 252/2005, in questo Commentario. ( 7 ) Per il commento al comma 6o, v. Squeglia, L’esclusione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dalla riforma della previdenza complementare, in questo Commentario. ( 8 ) Per il commento al comma 7o, v. Marchetti, La disciplina fiscale dei contributi e delle prestazioni per i « vecchi iscritti » ai « fondi preesistenti« , in questo Commentario. 696 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 8. Ai lavoratori assunti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo si applicano, per quanto riguarda le modalità di conferimento del TFR, le disposizioni di cui all’articolo 8, comma 7, e il termine di sei mesi ivi previsto decorre dal 1o gennaio 2007. Finanziamento della previdenza complementare e devoluzione tacita del tfr Sommario (art. 8, commi 1o-3o, 7o-13o e art. 23, commi 2o e 8o): 1. Premessa. – 2. Il significato del termine « contributi ». – 3. I soggetti destinatari delle disposizioni in tema di finanziamento. La disciplina del t.f.r. nel settore pubblico. – 4. La libertà di determinare l’entità della contribuzione e l’entità della stessa. – 5. Rapporto fra autonomia negoziale e previsioni di legge. – 6. Il t.f.r. come fonte di finanziamento della previdenza complementare, nelle vicende legislative antecedenti il d.lgs. n. 252. – 7. Il finanziamento da parte di soggetti già pensionati (comma 11o). – 8. Il t.f.r. come mezzo di finanziamento: sintesi delle possibili opzioni. – 9. La devoluzione del t.f.r. ai fondi pensione attraverso il meccanismo del « conferimento tacito »: antecedenti storici e problemi sistematici. – 10. Il conferimento tacito nella disciplina di legge: i vizi della comunicazione preventiva all’esercizio dell’opzione. – 11. La questione del coordinamento fra la volontà individuale e collettiva. – 12. La sorte dell’obbligazione contributiva a carico del datore nel caso di esercizio della libertà di scelta del fondo cui devolvere espressamente il t.f.r. – 13. I criteri che presiedono alla individuazione del fondo destinato a raccogliere le quote. – 14. La applicazione del meccanismo del conferimento tacito ai lavoratori dipendenti da pubbliche amministrazioni. 1. – L’articolo in commento, riprendendo, spesso alla lettera, il contenuto dell’art. 8 del d.lgs. n. 124/93 ( 9 ), detta disposizioni relative al ( 9 ) Parimenti intitolato al « finanziamento » dei fondi pensione. Sul primo provvedimento normativo di disciplina della previdenza complementare, v. De Luca, La disciplina dei fondi pensione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1994, p. 77; Pessi, La previdenza complementare, Padova, 1999; Olivelli, voce Previdenza complementare, in Enc. giur. Treccani, Agg., Roma, 1995; Cinelli (a cura di), Disciplina delle forme pensionistiche complementari, in questa Rivista, 1995, p. 1 (ed ivi in particolare il commento di Mastrangeli, all’art. 8); P. Sandulli, voce Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm., XI, Torino, 1995; Cester (a cura di), La riforma del sistema pensionistico, Torino, 1996, ed ivi in particolare Vianello, Il finanziamento dei fondi pensione, p. 479 ss.; Ferraro (a cura di), La previdenza complementare nella riforma del welfare, Napoli, 2000; Bessone, Pre- finanziamento delle forme pensionistiche complementari, con l’evidente intento di fare del trattamento di fine rapporto il principale strumento di alimentazione e sostegno dei fondi stessi, attraverso il meccanismo definito dal legislatore di « conferimento tacito ». Si tratta di una previsione per certi versi non nuova, posto che già il d.lgs. n. 124/93 incoraggiava il ricorso all’elemento retributivo di cui all’art. 2120 c.c. per finanziare la previdenza complementare, prevedendo, anzi, per i lavoratori di prima assunzione successiva all’entrata in vigore di quel provvedimento normativo, « l’integrale destinazione ai fondi pensione degli accantonamenti annuali al t.f.r. » (art. 8, comma 3o). Mentre, però, l’art. 18, comma 7o, del d.lgs. n. 124 ribadiva l’esclusione degli iscritti alle forme c. dd. preesistenti dalla applicazione delle disposizioni introdotte dall’art. 8 dello stesso provvedimento legislativo, le previsioni della riforma del 2005 in tema di finanziamento si estendono a tutti i lavoratori ( 10 ), seppure con videnza complementare, Torino, 2000 (in particolare p. 84 ss.); Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale: fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001; Olivelli e Ciocca, voce Previdenza complementare. Diritto del lavoro, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 2001; Zampini, La previdenza complementare, Milano, 2002; Bessone e F. Carinci, La previdenza complementare, in F. Carinci (diretto da), Diritto del lavoro, Commentario, Torino, 2004 (ed ivi in particolare il saggio di G. Zampini, sul finanziamento, che riproduce un capitolo della monografia prima citata); Vianello, Autonomia collettiva e previdenza complementare, Padova, 2006. ( 10 ) In alcuni casi le disposizioni dell’art. 8 non trovano applicazione: così per i lavoratori del settore pubblico (conformemente alla generale eccezione di cui al comma 6o dell’art. 23, che li esclude dalla riforma) nonché per gli iscritti a forme pensionistiche preesistenti, « gestite in via prevalente secondo il sistema tecnico-finanziario della ripartizione... che siano già state destinatarie del decreto del Ministro del lavoro La nuova disciplina della previdenza complementare forme parzialmente diverse, in relazione alla data di prima iscrizione alle forme di previdenza obbligatoria. Il legislatore sembra prendere atto che il livello della retribuzione individuale lascia, in molti casi, poca parte del reddito non consumata per le ordinarie necessità della vita, di modo che vede nel t.f.r. una somma che, in quanto sottratta alla disponibilità dei singoli lavoratori, può essere utilmente destinata a finanziamento della previdenza privata, nella speranza che una simile destinazione sia in grado di raggiungere due risultati virtuosi, quali l’incremento del trattamento finale di cui complessivamente beneficerà il lavoratore e, ad un tempo, lo sviluppo dei mercati finanziari, immettendo nel sistema un notevole e costante flusso di liquidità ( 11 ). Il meccanismo originariamente previsto nella disposizione in commento lasciava al singolo lavoratore, che avesse manifestato espressamente una volontà in tal senso, la possibilità di conservare assolutamente inalterata la situazione antecedente la legge, mantenendo gli accantonamenti annuali del t.f.r. presso il datore e, così, evitando la loro destinazione a finanziamento dei fondi di previdenza complementare. Anche per evitare il rischio che la riforma si riducesse ad una sorta di gigantesco plebiscito negativo, la scelta originaria del legislatore delegato è stae delle politiche sociali con il quale è stata accertata una situazione di squilibrio finanziario » (giusta le previsioni dell’art. 20, comma 7o, d.lgs. n. 252). Il comma 2o dell’art. 23 d.lgs. n. 252 continua a prevedere una esclusione anche per i lavoratori le cui aziende non siano in possesso dei requisiti di accesso al Fondo di garanzia di cui all’art. 10 del decreto stesso. Tale Fondo è stato però abrogato dal comma 764o della legge finanziaria per il 2007, senza che il legislatore si ricordasse di eliminare tale previsione, che rimane quindi priva di effetto. ( 11 ) Il collegamento fra previdenza complementare e la riforma del mercato mobiliare italiano è testimoniato dall’enfasi che si attribuisce alla presenza di investitori « istituzionali », capaci di operare in senso anticiclico, stabilizzando le oscillazioni di mercato e garantendo un flusso costante di acquisiti: a riguardo, tralasciando ogni altra considerazione, si vuole qui sottolineare solo come la destinazione al mercato mobiliare interno delle somme raccolte dai fondi non sia affatto scontata, almeno fin tanto che continueranno a sussistere dubbi circa la effettiva capacità della legislazione italiana di assicurare trasparenza agli investimenti. 697 ta perciò indirettamente rafforzata da un successivo intervento, in parte anticipato dal d.l. 13 novembre 2006, n. 279 ed ora contenuto nella legge finanziaria per il 2007 (l. 27 dicembre 2006, n. 296) ( 12 ). A seguito delle disposizioni del primo provvedimento, che, omettendosi volontariamente la conversione in legge, ha trovato poi recepimento sostanziale nei commi 749o-752o dell’articolo unico della l. n. 296/06, il termine di entrata in vigore delle disposizioni di legge di cui all’art. 23 è stato anticipato di un anno; in secondo luogo il meccanismo di devoluzione tacita è stato profondamente modificato, seppure in via indiretta e per le sole imprese di maggiori dimensioni, poiché i commi 755o e 756o della legge ora citata hanno previsto che, nel caso in cui il lavoratore rifiuti di convogliare le quote di t.f.r. maturate annualmente verso la previdenza privata, il datore sia comunque obbligato al versamento di tali somme presso un fondo, appositamente costituito presso la Te- ( 12 ) I commenti alla riforma si sono spesso incrociati con le numerose anticipazioni: a riguardo v. almeno A. Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, p. 513 ss.; Ciocca, Il sistema pensionistico nell’evoluzione del welfare, in Olivelli e Mezzanzanica (a cura di), A qualunque costo? Lavoro e pensioni: tra incertezza e sicurezza, Milano, 2005; G. Santoro-Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, in Mass. giur. lav., 2006, p. 976 ss.; Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, p. 189 ss.; dello stesso A. già Una prima interpretazione della nuova legge in tema di pensioni complementari, con qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, III, p. 1238; Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione nel sistema della previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2006, p. 1479; P. Sandulli, Il conferimento, tacito e non, del tfr al sistema di previdenza complementare: riflessioni critiche, in Messori (a cura di), La previdenza complementare in Italia, Bologna, 2006; nella manualistica v. la XV ediz. del volume di Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2006, che inserisce un apposito capitolo; nonché la IV ediz. del volume curato da G. Santoro-Passarelli, Diritto del lavoro e della previdenza sociale, Milano, 2006; ed anche Tranquillo e Ferrante, Nozioni di diritto della previdenza sociale 2, Milano, 2006. 698 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 soreria generale dello stato, e gestito dall’INPS. Il timore di un successivo eventuale intervento pubblico di modifica della disciplina delle quote di t.f.r. devolute all’INPS finirà così, nelle previsioni dei più, per giocare un ruolo rilevante nelle opzioni che i lavoratori sono chiamati ad esercitare entro il termine del 30 giugno 2007, inducendo una certa parte di questi a valutare con maggiore attenzione la possibilità di convogliare i flussi del t.f.r. a finanziamento dei fondi di previdenza complementare ( 13 ). D’altro canto, la trasformazione del t.f.r. da un accantonamento contabile a flusso finanziario effettivo potrà indurre le imprese di più grandi dimensioni ad impegnarsi maggiormente nella promozione di forme di previdenza complementare ( 14 ). La norma in commento rappresenta, dunque, il momento centrale della riforma attuata nel 2005, poiché è ad essa che spetta, nelle intenzioni del legislatore, il compito di imprimere una forza espansiva alla raccolta dei flussi finanziari destinati a finanziare i fondi, incrementando così lo sviluppo della previdenza complementare. Occorre segnalare ancora, per altro verso, come il decreto in esame contenga alcune previsioni nelle quali l’intervento eteronomo del legislatore giunge a modificare profondamente l’impianto che promanava dalla lettera originaria del d.lgs. n. 124, pur a fronte dei numerosi rimaneggiamenti subiti nel corso degli anni. Ed infatti, mentre in precedenza si manteneva la previdenza complementare nell’alveo di un fenomeno frutto dell’autonomia collettiva, lasciando alle forme individuali un ruolo residuale, per le ipotesi in cui il lavoratore venisse a perdere i requisiti di iscrizione al fondo categoriale o per i casi di mancanza di un fondo siffatto, il meccanismo di devoluzione del t.f.r. ora previsto dal decreto di riforma giunge, per questo aspetto, a cancellare la distinzione fra secon- ( 13 ) In tal senso, ad es., Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione, cit., nonché G. Santoro-Passarelli, La previdenza complementare tra rischio e bisogno, cit., p. 977. ( 14 ) Pammolli e Salerno, Non si sottragga il TFR allo sviluppo del sistema pensionistico multipilastro, CERM, nt. 1/07. do e terzo pilastro previdenziale ( 15 ), parificando le diverse forme, individuali e collettive, della previdenza privata. Almeno tre elementi normativi possono richiamarsi a riguardo, disegnando una sorta di climax della promozione dell’autonomia individuale: il venir meno degli ostacoli prima previsti per l’adesione a quelle che il legislatore ora definisce come forme individuali (cfr. abrog. art. 9, comma 2o, d.lgs. n. 124), nonché per l’adesione su base contrattuale collettiva a fondi pensione aperti (che, nella terminologia e nella sistematica del d.lgs. n. 252/ 05 sono considerate come forme pensionistiche « collettive »: v. Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario); l’utilizzo del t.f.r. a finanziamento dei fondi, pur in assenza di un accordo collettivo che sancisca l’assenso del datore a cedere la disponibilità delle somme (art. 8, comma 7o, d.lgs. ult. cit.); il riconoscimento della libertà del singolo lavoratore di individuare il fondo cui destinare il proprio t.f.r. « maturando » (art. 8, comma 7o, lett. a, d.lgs. n. 252). Si finisce così per modificare la configurazione della previdenza complementare, senza lasciare spazio alcuno a diverse valutazioni dei fondi di categoria e delle parti collettive che ad essi hanno dato vita: il legislatore sembra dunque abbandonare il ruolo di promozione dell’autonomia collettiva, che aveva svolto in precedenza, per assumere la veste di regolatore della previdenza complementare, inserendo i fondi germinati dall’iniziativa sindacale in un sistema unico e competitivo, più direttamente disciplinato dall’autorità statale. Snodo centrale di questa operazione, insieme alle previsioni in materia di finanziamento dei fondi, è il rafforzamento dei poteri della COVIP: in numerosi casi, infatti, le norme emanate prendono come destinatari non già i soggetti privati, ma piuttosto l’autorità di vigilanza, cui viene demandata una attività solo apparentemente di tipo regolamentare, ma sostanzialmente di tipo normativo, attraverso la predisposizione di atti amministrativi generali, che, nella misura in cui condizionano l’operatività dei fondi, finiscono per dettare una dettagliata serie di norme di tipo imperativo. ( 15 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, cit., p. 513 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare 2. – Il comma 1o della disposizione in commento prescrive che il finanziamento delle forme pensionistiche complementari si attui, innanzi tutto, mediante il versamento di « contributi », che vengono posti « a carico del lavoratore, del datore o del committente ». Dietro questa scelta linguistica adottata dal legislatore non può non intravedersi l’ombra di una questione, insorta in passato, circa la natura, retributiva o previdenziale, da attribuire a tali importi, che aveva profondamente diviso al loro interno sia la giurisprudenza che la dottrina. Sul presupposto che le somme destinate al finanziamento dei fondi pensione entrassero a far parte del complessivo trattamento retributivo ottenuto dal lavoratore a compenso della sua prestazione, l’Istituto assicuratore pubblico aveva iniziato, da un certo momento in poi, ad assoggettare a contribuzione anche tali importi, trovando conforto in alcune decisioni della giurisprudenza. Nel senso della loro esclusione dalla base imponibile, si era sostenuta, al contrario, la natura contributiva di tali somme, facendola derivare dalla collocazione costituzionale della previdenza privata, quale strumento di integrazione della previdenza pubblica, a mente del disposto del commi 2o e 5o dell’art. 38 Cost. A fronte di una oscillante giurisprudenza ( 16 ), ( 16 ) Da ultimo v. ancora Cass. 7 novembre 2005, n. 21473, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, p. 115, con nota di Fraioli, Natura delle contribuzioni versate dai datori di lavoro ai fondi di previdenza complementare, che, richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale di cui alla nt. 18, qualifica i versamenti dei datori ai fondi come « contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile ». La questione si è posta altresì in relazione all’incidenza di tali somme su altri istituti retributivi, senza trovare ancora appagante soluzione: a riguardo, da ultimo, v. Cass., sez. lav., 17 gennaio 2006, n. 783, nel senso della natura retributiva dei versamenti e Trib. Perugia 31 gennaio 2006, in senso opposto, entrambe in Riv. it. dir. lav., 2006, II, p. 701 con commento di Tursi, La questione ancora aperta della computabilità ai fini del t.f.r. del contributo del datore di lavoro a Fondi di previdenza complementare. Aderiscono a quest’ultimo orientamento anche Trib. Roma 17 marzo 2005, in Notiz. giur. lav., 2005, p. 246 e Trib. Bologna, 10 febbraio 2005, ivi, 2005, p. 536. Sul punto v. altresì, ma in senso contrario, Cass. 17 699 fu il legislatore ad intervenire con soluzione salomonica ( 17 ), escludendo dalla base della contribuzione di cui all’art. 12 della l. n. 153/69 le somme in questione, ma assoggettandole ad un contributo « di solidarietà », in misura percentuale pari al 10% degli importi corrisposti, prevedendo tuttavia che tali contributi non potessero avere rilievo nella definizione del complessivo trattamento pensionistico dovuto al lavoratore dall’Istituto pubblico ( 18 ). Al termine « contributi » ora ripreso dal legislatore, non può tuttavia riconnettersi un preciso significato sul piano della produzione degli effetti giuridici, giacché, nell’ambito della autonomia dei privati, non esiste una contrapposizione fra retribuzione e contribuzione che conduca alla definizione di un regime tipico per tale seconda nozione. In altri termini, dalla definizione delle somme destinate al finanziamento come « contributi », non sembra discendere alcun apporto alla definizione dei numerosi problemi che la giurispru- gennaio 2006, n. 783, in Arg. dir. lav., 2006, p. 610 con nota critica di Gambacciani. ( 17 ) V. l’art. 9 bis della l. 1 giugno 1991, n. 166. ( 18 ) Si deve peraltro ricordare come la soluzione adottata dal legislatore fu valutata negativamente dalla Corte costituzionale là dove il legislatore aveva proceduto ad un improprio consolidamento delle situazioni pregresse, disponendo il divieto di ripetizione, per quanti avessero pagato in misura maggiore rispetto al 10%, e l’esonero dal versamento, per quanti avessero omesso il pagamento. La Corte, al termine di un procedimento di scrutinio particolarmente complesso, si pronunziò estendendo l’obbligo contributivo anche nei confronti dei datori esonerati e confermando l’esclusione della ripetizione (sent. 8 sett. 1995, n. 421, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, p. 7 con nota di Pera, in Giust. civ., 1996, I, p. 663 con nota di Giubboni e in Giur. it., 1996, I, c. 288 con nota di Bozzao e in Lav. e giur., 1997, p. 233 ss., con nota di Tranquillo); di qui il successivo intervento del legislatore (l. n. 662/96, art. 1, commi 193o e 194o) che, per un verso, confermava l’importo del contributo di solidarietà per il periodo successivo al 1o luglio 1991, e, per un altro, imponeva il versamento di un ulteriore contributo, a carico dei datori inadempienti, in misura pari al 15%, a sanatoria del periodo pregresso. Tale soluzione è stata successivamente confermata dalla Corte cost. nelle sentt. 8 giugno 2000, n. 178, in Notiz. giur. lav., 2000, p. 504; 28 luglio 2000, n. 393, ivi, 2000, p. 794; 16 aprile 2002, n. 121, ivi, 2002, p. 402. 700 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 denza ha dovuto affrontare in relazione, ad es., alla spettanza di tali somme ai lavoratori che non abbiano aderito ad alcuna forma di previdenza privata, o alla loro computabilità ai fini della definizione del rateo annuo del t.f.r.; alla disciplina da applicarsi in relazione al termine di prescrizione o all’ipotesi di rinunzie e transazioni o alla rivalutazione automatica in caso di adempimento tardivo. A riguardo, pare, innanzi tutto, potersi escludere una piena assimilazione fra contribuzione disposta dalle norme imperative che disciplinano il sistema della previdenza pubblica e i contributi destinati alla previdenza privata. Le norme che istituiscono i contributi obbligatori devono considerarsi, infatti, come norme di diritto pubblico che impongono oneri insuscettibili di essere assoggettati ad atti di disposizione delle parti del rapporto, sia nel senso del venir meno dell’obbligo contributivo (art. 2115, ult. comma, c.c.), sia nel senso opposto, di una estensione di quella disciplina ad ipotesi non espressamente previste dal legislatore ( 19 ). Parimenti, non pare appagante la tesi che ricostruisce i contributi come forma di retribuzione, con « funzione previdenziale »: ed infatti una tale espressione finendo per confermare la natura comunque retributiva di tali somme si pone in contrasto con un orientamento, più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, che qualifica i versamenti posti a carico del datore a finanziamento della previdenza privata come « contributi di natura previdenziale » ( 20 ). In tal senso si è proposto in dottrina di rico- ( 19 ) Il punto è trattato soprattutto da Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, p. 127 ss., nonché in, La natura giuridica e la disciplina legale dell’obbligazione contributiva nelle forme pensionistiche complementari, in Riv. prev. pubbl. e priv., 2002, p. 89 ss. (nonché in Studi in onore di M. Persiani, Padova, 2005). Per una ampia rassegna delle diverse opinioni, da ultimo, v. Mastantuono, La contribuzione del datore di lavoro alle forme pensionistiche complementari, in Quad. Mefop, n. 10, 2006, spec. p. 50 ss. ( 20 ) Già Corte cost. n. 421/95, qualificava i versamenti dei datori di lavoro a finanziamento delle forme di previdenza integrativa come « contributi di natura previdenziale », aggiungendo altresì che il contributo di solidarietà non poteva considerarsi tale « in senso tecnico ». Nello stesso senso le già richiamate pronunzie di Corte cost. n. 178/00 e 393/00. noscere al debito per il versamento dei contributi di cui all’articolo in commento natura di obbligazione corrispettiva, di natura non retributiva ( 21 ). In altri termini, nell’ambito della ampia nozione di crediti da lavoro si può distinguere fra una obbligazione retributiva (o corrispettiva in senso stretto, secondo le indicazioni della giurisprudenza), cui trovano applicazione i principi costituzionali di cui all’art. 36, e una obbligazione corrispettiva in senso allargato (o, semplicemente, corrispettiva), regolata dalle ordinarie disposizioni del codice civile in tema di contratti sinallagamatici, ma in relazione alla quale non troverebbero applicazione le speciali disposizioni che caratterizzano il debito retributivo (con riguardo, ad es., alla sua diretta proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato, alla rivalutazione automatica di cui all’art. 429, comma 3o, c.p.c. o alla definizione della base di calcolo del t.f.r.). In questa prospettiva, dunque, i contributi avrebbero una disciplina legale diversa da quella di cui alla retribuzione, che ne determinerebbe, ad es., l’esclusione dalla base di calcolo del t.f.r. ( 22 ). Su tali aspetti il legislatore delegato tace, limitandosi a mantenere comunque in vita, all’art. 16, comma 1o (v. Garcea, sub art. 16, in questo Commentario), la disposizione legislativa che risolse l’intricato problema, escludendo dalla base imponibile di cui all’art. 12 della l. n. 153/69 i contributi alla previdenza privata. In questo senso, non sarebbe apparso contrario all’intenzione di razionalizzazione del sistema, che tutto il decreto persegue, un allargamento dei confini della delega legislativa nel senso della chiarificazione normativa di tali aspetti. ( 21 ) A riguardo, v. Tursi, La natura giuridica e la disciplina legale dell’obbligazione contributiva nelle forme pensionistiche complementari, cit., p. 89 ss., che utilizza una terminologia in parte differente rispetto a quella proposta nel testo. ( 22 ) Si potrebbe, tuttavia, ritenere che l’utilizzo dei ratei del t.f.r. a finanziamento della previdenza complementare sia un indice della omogeneità funzionale fra i contributi trattenuti sulla retribuzione e il t.f.r. stesso; da tale considerazione deriverebbe, dunque, un ulteriore indice che depone nel senso della esclusione dei contributi dalla base di calcolo del t.f.r. stesso. In tal senso, v. ora Tursi, La questione ancora aperta della computabilità ai fini del t.f.r. del contributo del datore di lavoro a Fondi di previdenza complementare, cit., p. 711. La nuova disciplina della previdenza complementare 3. – La disposizione in commento si rispecchia in quella di cui all’art. 2, che, nell’individuare analiticamente i destinatari delle previsioni del d.lgs. n. 252, menziona i « lavoratori dipendenti, sia privati che pubblici » (lett. a), i « lavoratori autonomi e i liberi professionisti » (lett. b), nonché « i soci lavoratori di cooperative » e, da ultimo, i soggetti privi di reddito, che hanno titolo per l’iscrizione al c.d. « fondo casalinghe » costituito nell’ambito del sistema di previdenza obbligatoria. Invece di procedere con eguale analiticità, la disposizione ora in commento riprende la formulazione letterale più antica e confonde insieme le varie categorie di soggetti, richiamando congiuntamente in una sola sintetica espressione: « lavoratori, datori, committenti » e il « t.f.r. maturando ». Il riferimento al « committente » costituisce un inequivoco segno linguistico che vale a chiarire che le disposizioni del decreto possono trovare applicazione anche a forme di lavoro non intellettuale (art. 2229 c.c.), di modo che nell’elenco dei destinatari contenuto nell’art. 2, comma 1o, il riferimento ai « lavoratori autonomi » deve intendersi nel senso più ampio, e cioè comprensivo delle forme di lavoro c.d. parasubordinato. Il legislatore delegato sembra aver perso così una occasione per disciplinare le altre ipotesi di attività alle quali si è, negli ultimi anni, esteso l’obbligo contributivo a favore della previdenza obbligatoria (in primis l’associazione in partecipazione di cui all’art. 2549 c.c. e il lavoro autonomo occasionale) ( 23 ). Eppure, a fronte di disposizioni che consentono l’accesso alla previdenza complementare anche a soggetti che non producono alcun reddito (v. subito infra), non sarebbe stato illogico prevedere uno speciale sistema di finanziamento diretto a dare continuità contributiva ad attività saltuarie o discontinue. Ed anzi, non sarebbe apparso inopportuno, de jure condito, se, nei casi di maggiore precarietà dell’attività, si fosse delineata una disciplina del tutto particolare, utilizzando, per es., il fondo « residuale » di cui all’art. 9, istituito presso l’INPS, per consentire, ad integrazione della ( 23 ) Sulla previdenza dei lavoratori non standard v., da ultimo, Bozzao, La tutela previdenziale del lavoro discontinuo, Torino, 2005; Renga, La tutela sociale dei lavori, Torino, 2006. 701 prestazione contributiva prevista dal sistema pubblico, la raccolta dei finanziamenti destinati alla previdenza complementare presso un unico soggetto, anche in deroga alle norme in tema di « portabilità » ( 24 ). Il comma continua dettando norme relative alle altre categorie di soggetti destinatari delle disposizioni sulla previdenza complementare, prevedendo che i lavoratori autonomi e liberi professionisti provvedano al finanziamento mediante contribuzione a loro carico. Per i soci lavoratori di società cooperative, invece, si prevede che il finanziamento avvenga « secondo la tipologia del rapporto di lavoro, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del t.f.r. ovvero degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori ovvero in percentuale del reddito di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF relativo al periodo d’imposta precedente ». La norma si riferisce, con tutta evidenza, alla pluralità di forme che il rapporto di lavoro può assumere nell’ambito delle cooperative, secondo la tripartizione introdotta dalla l. n. 142/ 01 ( 25 ), senza tuttavia dare una precisa indicazione circa le tipologie cui riferire i tre diversi criteri di calcolo. Come chiarisce il comma 3o della disposizione in commento, le previsioni della riforma interessano anche i dipendenti della pubblica am( 24 ) Peraltro, non sembra possibile che tale fondo (ora denominato « FONDINPS ») possa raccogliere altra contribuzione, che quella che proviene dalla devoluzione tacita di cui al successivo comma 7o della disposizione in commento. ( 25 ) Si può aggiungere peraltro che l’art. 3, comma 1o, della legge, allude anche a forme del tutto atipiche di lavoro là dove, al termine della elencazione delle fattispecie ammesse, si riferisce a « qualsiasi altra forma » (a riguardo v. Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lav., 2001, n. 45, p. 12 ss.). Sulla portata riformatrice della legge del 2001 v. Nogler, Tremolada e Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in questa Rivista, 2002, p. 339 ss., ed ivi l’intervento di Vergari, La tutela previdenziale del socio lavoratore, p. 425 ss.; nonché Montuschi e Tullini, Le cooperative e il socio lavoratore. La nuova disciplina, Torino, 2004 (con appendice di aggiorn.); in merito agli aspetti previdenziali v. altresì Mastinu, La previdenza sociale nella disciplina del lavoro del socio di cooperativa, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, p. 83 ss. 702 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ministrazione, là dove si stabilisce che « i contributi alle forme pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure coerenti alla natura del rapporto » ( 26 ). Il riferimento deve intendersi al fatto che, come è noto, la gran parte dei rapporti di lavoro pubblico sono stati fatti oggetto, già grazie al disposto del d.lgs. n. 29/93, di una disciplina particolare che fa luogo alla applicazione delle ordinarie regole privatistiche (c.d. « diritto comune »), salvo che per alcuni profili, che rimangono disciplinati da norme speciali (ora contenute nel d.lgs. n. 165/01). In questo senso il richiamo alle fonti di definizione del trattamento economico va riferito alla contrattazione collettiva, per tutti i rapporti, per l’appunto, privatizzati, mentre deve intendersi come rivolto alle fonti di legge, per i rapporti che sono stati esclusi da tale riforma ( 27 ). La disciplina è opportunamente contenuta in un comma separato, in quanto, in relazione a tali rapporti, non si può fare riferimento alla disciplina del t.f.r. quanto alla base da tenere in considerazione ai fini della determinazione dell’importo della contribuzione alle forme complementari. Infatti, per la gran parte dei dipendenti pubblici non si è ancora attuato, a vantaggio della applicazione del t.f.r., l’abbandono delle antiche forme di indennità di fine servizio ed anzi rimane ancora marcata la differenza fra i due istituti. Al pari che per l’indennità originariamente prevista dall’art. 2120 c.c., il trattamento di fine servizio è costituito dal prodotto del numero degli anni di servizio del lavoratore per una parte percentuale della sua ultima retribuzione: ad esso si è soliti attribuire natura previdenziale, poiché il trattamento viene erogato da un istituto assicuratore (ora l’INPDAP a seguito della confluenza in esso dell’ENPAS e degli altri enti ( 26 ) Si è detto più sopra di come l’art. 23, comma 6o, escluda i dipendenti del settore pubblico dalla riforma: l’apparente contraddizione con il comma ora in commento si spiega con il fatto che esso riproduce alla lettera la disposizione del d.lgs. n. 124, lasciata in vigore dall’art. 23. ( 27 ) V. ora l’art. 3 del d.lgs. n. 165, su cui Tursi, Le categorie escluse, in F. Carinci e Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, p. 151 ss. di settore) e il lavoratore partecipa alla relativa contribuzione ( 28 ). Già il d.lgs. n. 29/93 aveva lasciato in vigore la disciplina previgente, « in attesa di una nuova regolamentazione contrattuale della materia » (art. 72, comma 3o). A fronte delle difficoltà incontrate nella prima tornata nazionale di contrattazione collettiva successiva alla riforma, la l. n. 335/95 previde (art. 2, comma 5o), ma senza nessun esito pratico, che il t.f.r. si applicasse ai dipendenti pubblici nella ipotesi in cui questi fossero stati assunti dopo la data del 1o gennaio 1996. Intervenne successivamente l’art. 59, comma 56o, della l. n. 449/97, che stabiliva la possibilità anche per quanti fossero già stati assunti in servizio di optare per l’applicazione del t.f.r, rinviando ad un successivo accordo nazionale quadro l’attuazione della riforma. L’accordo nazionale quadro del 29 luglio 1999 aveva rinviato ad un successivo d.p.c.m. emanato in data 20 dicembre 1999, l’individuazione del momento ultimo per l’esercizio dell’opzione. Successivamente un d.p.c.m. del 2 marzo 2001, ha finalmente fissato per i lavoratori neoassunti tale termine al 31 dicembre 2000 ( 29 ). In tal modo i lavoratori già occupati alla data da ultimo richiamata hanno tempo fino al 31 dicembre 2010, secondo quanto successivamente previsto dall’ANQ del 18 dicembre 2001 e dall’accordo del 2 marzo 2006, per esercitare la propria scelta per il passaggio al t.f.r., così da produrre per espressa disposizione legislativa l’automatica adesione al fondo pensione di comparto (art. 59, comma 56o, l. n. 449/97). I lavoratori assunti a far data dal 1 gennaio 2001, invece, hanno diritto al t.f.r. e possono scegliere se aderire ai fondi di comparto. Solo per questi soggetti, tuttavia, il versamen- ( 28 ) A riguardo per un attento ed analitico esame v. Garilli, Il trattamento di fine rapporto nel lavoro pubblico e privato, Milano, 1983; più sinteticamente v. F. Carinci et aa., Diritto del lavoro, 2, Il rapporto di lavoro subordinato 2, Torino, 1990. ( 29 ) Mattarolo, La nuova disciplina del trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici, in Cester, La riforma del sistema pensionistico, cit., p. 220 ss.; Alaimo, La previdenza complementare dei dipendenti pubblici, in Riv. dir. sic. soc., 2002, p. 139; Cazzola, Il trattamento previdenziale, in F. Carinci e Zoppoli (a cura di), Il pubblico impiego, Commentario sistematico, cit., p. 1958 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare to dei contributi segue il sistema privatistico, poiché per gli altri è ancora mancato un provvedimento di adeguamento, anche a fronte del fatto che non sono stati costituiti i fondi di previdenza complementare, se non quello relativo al comparto della scuola ( 30 ) ( 31 ). Il sistema di finanziamento di tale fondo (denominato « Espero ») è particolarmente complesso: in conformità a quanto previsto dalla l. n. 449/97 al fondo sono effettivamente devolute solo le quote versate dal datore e dal lavoratore. Il versamento del t.f.r. e di un ulteriore contributo pari all’1,5% della base di calcolo del t.f.s. è invece virtuale, in quanto tali quote saranno solo successivamente corrisposte dall’INPDAP, che le rivaluterà secondo un indice inizialmente dato dalla media di rendimento di alcuni dei fondi pensione ( 32 ), successivamente sostituito dalla media dei rendimenti dei fondi pensione del solo settore pubblico. Quanto alle altre categorie di destinatari delle disposizioni del decreto in commento, al comma 2o si prevede altresì che « nel caso di soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o d’impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, il finanziamento alle citate forme è attuato dagli stessi o dai soggetti nei confronti dei quali sono a carico ». Anche in questo caso la scelta linguistica tradisce il fatto che l’attenzione dell’estensore del decreto sia stata mirata all’aspetto fiscale: già l’art. 2, comma 2o, lett d), d.lgs. n. 252, nell’individuare le categorie cui, in ultimo, si estendono le previsioni della riforma, utilizza una locuzione che mal si presta ad una piana lettura, richiamando, al pari che il testo pre-vigente, « i soggetti destinatari [delle previsioni] del d.lgs. 16 settembre 1996, n. 565, anche se non iscritti al fondo ivi previsto ». ( 30 ) Sulla questione, da ultimo, v. INPDAP, La previdenza complementare per i dipendenti pubblici, Milano, 2006. ( 31 ) In data 6 marzo 2007, l’ARAN ha sottoscritto un protocollo che prevede l’istituzione di un fondo comune a più comparti di contrattazione (autonomie locali, sanità e settori con attività affini). ( 32 ) I fondi pensione più consistenti sono stati individuati con decreto del Ministero del tesoro in G.U. del 24 gennaio 2006 e sono: Alifond; Arco; Cometa; Cooperlavoro; Fon-chim; Fondenergia; Fopen; Laborfonds; Pegaso; Previambiente; Previcooper; Solidarietà Veneto; Quadri e Capi Fiat. 703 Basta poco per rendersi conto che dietro questa formula, tralaticiamente conservata, si nascondono coloro che « svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta » ( 33 ). In verità, non sembra che i requisiti di adesione a tale speciale forma di previdenza siano oggetto di controllo da parte del legislatore, se non attraverso un requisito negativo, quale quello della assenza di altri redditi (da lavoro o da pensione diretta). In tal senso il richiamo alla categoria dei soggetti che hanno titolo alla iscrizione al fondo pubblico anzidetto appare del tutto generico e vale ad identificare, per l’appunto, i soggetti (sostanzialmente) privi di redditi autonomi, che vivono a carico altrui. L’intervento di riforma (comma 12o) mantiene in vigore, per tali ipotesi, le speciali modalità di finanziamento già previste dal d.lgs. n. 47/00 e successivamente modificate dall’art. 78, comma 14o, della l. n. 388 dello stesso anno, consentendo l’accredito di contributi su base trimestrale anche da parte di imprese che emettono carte di credito o di debito. 4. – Nella passata esperienza, sebbene fosse ammesso in certi casi il versamento di contributi di importo fisso ( 34 ), le disposizioni di legge (art. 8.2 d.lgs. n. 124/93) prevedevano che le fonti istitutive fissassero il contributo complessivo in via percentuale sulla retribuzione assunta, dalla contrattazione collettiva o direttamente dalla legge stessa (ai sensi del disposto dell’art. 2120 c.c.), a base del trattamento di fine rap( 33 ) Così l’art. 1 del d.lgs. cit.; a tale fondo, in verità, potevano altresì iscriversi al momento della sua costituzione (nel 1963), giusta le previsioni di cui all’art. 85, n. 4, del r.d.l. n. 1827/35, « le donne maritate che attendono alle cure domestiche ed il cui marito sia compreso in una delle precedenti categorie », nonché « le donne che, con altro vincolo di parentela, accudiscono alle cure domestiche presso persone comprese nelle precedenti categorie, quando risulti che non hanno redditi di alcuna specie per i quali paghino annualmente allo Stato, per imposte dirette, una somma superiore a L. 120 ». Come è evidente, però, appare difficile ipotizzare che si tratti di una categoria ancora significativamente numerosa. ( 34 ) Cfr., ad es., art. 3, comma 25o, l. n. 335/95, in relazione ai fondi preesistenti. 704 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 porto (t.f.r.). La determinazione dell’ammontare delle somme destinate a finanziamento del fondo era stabilita, dunque, dalle fonti istitutive, seppure talora nell’ambito di tetti variabili, di modo che era lasciata alla discrezione del lavoratore l’individuazione dell’esatto importo mensilmente dovuto ( 35 ). Si prevedeva altresì la destinazione al fondo anche di elementi particolari della retribuzione stessa (come tipicamente avviene per i premi di produttività collegati al raggiungimento di un certo obiettivo economico). Queste somme in altri ordinamenti hanno un ruolo rilevante nel determinare il finanziamento della previdenza integrativa o comunque di altre forme lato sensu previdenziali di integrazione del reddito da lavoro, venendo a costituire un elemento retributivo per il quale si dispone una forma di risparmio forzoso ( 36 ). Scarso è stato però l’utilizzo di tali elementi nel sistema italiano, pur a fronte delle numerose indicazioni in tal senso, contenute nei documenti prodotti al tavolo della concertazione: a riguardo merita di essere qui richiamata la previsione di cui all’art. 2 d.l. 2 marzo 1997, n. 67, conv. nella l. 3 maggio 1997, n. 135, che stabilisce una parziale decontribuzione delle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali « delle quali sono incerti la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati ». Tali erogazioni sono assoggettate ad un contributo di solidarietà del 10% a carico del datore di lavoro, a condizione che i contratti aziendali istitutivi dei premi siano depositati presso le direzioni provinciali del lavoro e nei limiti, comunque, di un importo pari al tre per cento della retribuzione contrattuale percepita (giusta ora le previsioni dell’art. 60 l. n. 144/99). Que- st’ultimo onere viene invece meno nella ipotesi in cui le somme siano destinate al finanziamento delle forme pensionistiche complementari, a testimonianza della vocazione degli elementi retributivi in esame ad integrare non già il reddito del lavoratore, ma piuttosto il suo trattamento pensionistico ( 37 ). Ed infatti l’incertezza della loro corresponsione li colloca necessariamente al di fuori del perimetro della retribuzione proporzionata e sufficiente, di cui al precetto costituzionale, essendo inammissibile che quanto sia necessario alle ordinarie esigenze di vita del lavoratore abbia natura aleatoria. Il d.lgs. n. 252 all’art. 8, comma 2o, mantiene sostanzialmente inalterate le previsioni precedenti, ammettendo una contribuzione di importo fisso solo per i lavoratori autonomi e prevedendo che « le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore e del lavoratore possono essere fissati dai contratti e dagli accordi collettivi ». Viene introdotto contestualmente un principio, in forza del quale « per tutti i lavoratori » l’entità della contribuzione viene « liberamente » determinata dal singolo. Del tutto assente è nella lettera della legge un coordinamento fra le due previsioni contenute in tale comma, che appaiono semplicemente giustapposte, di modo che questo viene lasciato all’interprete. Il principio della libera determinazione degli importi destinati a finanziamento delle forme complementari, espressamente ribadito nelle disposizioni relative alle forme pensionistiche individuali (art. 13, comma 4o, d.lgs. cit.), viene formulato attraverso una ambigua « salvezza » di effetti, che sembrerebbe descrivere una illimitata area di applicazione, ma, soprattutto, senza che ne sia chiarita la portata in relazione al contenuto delle fonti istitutive. Seppure la norma possa essere interpretata nel senso che la libertà sarebbe limitata alla sola definizione iniziale dell’importo da corrispondere periodicamente ( 38 ), appare logico, nella ( 35 ) Per es. il fondo Previndai, dei dirigenti delle aziende industriali, lascia ai singoli contratti di comparto l’individuazione degli importi della contribuzione. ( 36 ) In merito all’utilizzo di particolari elementi retributivi nell’esperienza francese v. V. Ferrante, Tradizione e novità nella disciplina della partecipazione dei lavoratori: Francia e Italia a confronto, in Riv. giur. lav., 2003, I, p. 139 ss. ( 37 ) Per qualche accenno a riguardo v. Zampini, Il finanziamento, in Bessone e F. Carinci (a cura di), La previdenza complementare, cit., p. 330; sulla retribuzione di risultato v. L. Zoppoli (a cura di), Retribuzione incentivate e rapporti di lavoro, Milano, 1994; Gragnoli, Retribuzione ad incentivo e principi costituzionali, in Arg. dir. lav., 1996, p. 266. ( 38 ) Pare abbastanza evidente che il significato del La nuova disciplina della previdenza complementare prospettiva dei fondi individuali, ritenere che un tale principio importi una modifica anche in relazione alle singole contribuzioni, di modo che il singolo lavoratore potrebbe variare mensilmente l’importo dei propri versamenti, fino al punto di omettere in certi casi ogni finanziamento ( 39 ). Dal riconoscimento di una tale libertà discendono numerosi problemi: non si tratta tanto di valutare se la soglia massima, indicata dalle disposizioni del d.lgs. n. 252 a carattere tributario si ponga come tetto comunque invalicabile, o se, al contrario, limiti semplicemente i benefici fiscali ( 40 ), ma piuttosto di stabilire, fermo restando il principio della libera variabilità della contribuzione alle forme individuali, se le soglie, attualmente previste dagli statuti delle forme complementari negoziali, siano travolte dalla disposizione legislativa, o se, al contrario, esse continuino a porre dei limiti del tutto legittimi alla autonomia individuale. La COVIP, nelle sue indicazioni operative indirizzate ai fondi già istituiti ( 41 ), si limita a riportare la clausola di legge senza null’altro aggiungere e, dunque, senza preoccuparsi del coordinamento con le disposizioni presenti negli statuti, che in generale individuano, come si è ricordato, una percentuale fissa, ovvero un massimo e un minimo. Interpretando le norme formulate dal legislatore deprecetto non possa ridursi semplicemente ad alludere al fatto che, in aggiunta ai versamenti disposti in applicazione delle fonti istitutive, si fa luogo ora al versamento dei ratei annui del t.f.r.: una esplicita disciplina in tal senso è, infatti, contenuta nel comma 10o della disposizione ora in commento. Peraltro la libertà di determinazione non riguarda l’importo del rateo del t.f.r., che viene conferito per intero per quanti siano stati assunti in data successiva alla entrata in vigore del d.lgs. n. 124. ( 39 ) Il comma 1o bis dell’abrogato art. 8 stabiliva, con maggiore chiarezza, che nel caso di finanziamento dei fondi riservati ai soggetti che svolgono attività di cura « sono consentite contribuzioni saltuarie e non fisse ». ( 40 ) A un tale quesito, infatti, si era già risposto nel vigore della disciplina precedente in senso negativo, riconoscendo la legittimità di disposizioni che consentissero il versamento di somme ulteriori rispetto al tetto fissato dalla normativa tributaria di volta in volta vigente: v. Mastrangeli, Finanziamento, cit., p. 202: A riguardo si rinvia altresì all’intervento di Marchetti, in questo Commentario. ( 41 ) V. deliberaz. COVIP del 30 novembre 2006. 705 legato come una indicazione diretta all’autorità di vigilanza, si potrebbe giungere a ritenere che la norma abbia come obiettivo quello di determinare la regola di comportamento che deve essere rispettata nell’autorizzazione delle modifiche dei fondi già esistenti. Si potrebbe quindi ipotizzare che il decreto n. 252 abbia inteso provvedere ad una sorta di modifica unilaterale del contenuto degli statuti, che si attui non attraverso una sostituzione delle clausole ad opera delle previsioni di legge, ma per il tramite della autorizzazione della Commissione, che sarebbe condizionata all’inserzione della clausola siffatta nel corpo degli statuti. Una simile soluzione, se bene si attaglia alle necessità delle forme individuali di previdenza complementare che ripetono dalla sollecitazione alla raccolta del pubblico risparmio le loro forme organizzative, non sempre appare congruente con le necessità attuariali di fondi, in genere negoziali, di minori dimensioni. Non si deve dimenticare, infatti, che anche nell’ambito dei sistema di finanziamento a capitalizzazione, sussiste una necessità di prevedere i flussi di cassa, poiché solo una certa parte delle risorse viene effettivamente investita, mentre una quota parte viene utilizzata per far fronte all’erogazione dei trattamenti di pensione. In questo senso, sembra evidente come la previsione degli statuti di un limite minimo appaia del tutto conforme alla natura previdenziale del fenomeno, garantendo continuità di contribuzione; parimenti anche la fissazione di un limite massimo non appare illogica, poiché essa può valere ad evitare squilibri in tutti quei fondi che ancora siano regolati secondo sistemi che determinano l’entità delle prestazioni in relazione alla media delle ultime retribuzioni percepite. Una interpretazione diretta a far prevalere la libertà individuale sulle disposizioni degli statuti dei fondi negoziali non può essere, dunque, pacificamente accettata, poiché il legislatore ha dimenticato di prevedere quali siano le sanzioni per il caso che si ponga in essere una violazione dei suoi comandi (per es., prevedendo la nullità delle clausole statutarie difformi). Verrebbe da dire, quindi, che la norma ha valore dispositivo, producendo i suoi effetti solo in assenza di una specifica volizione delle parti collettive, che disciplinino in maniera diversa la materia, attraverso gli accordi che costituiscono fonti istitutive delle forme collettive. 706 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Si noti che la distinzione fra norme imperative e dispositive, del tutto comune in seno alle disposizioni del codice civile, è sostanzialmente sconosciuta al diritto del lavoro, dove al contrario la tradizionale connotazione delle norme è la inderogabilità, che vale ad ammettere ad opera della autonomia individuale solo quelle modifiche che siano migliorative della condizione del lavoratore ( 42 ). Nella materia della previdenza complementare, invece, la distinzione può trovare applicazione, posto che la legge disciplina rapporti in relazione ai quali il criterio della inderogabilità non può maneggiarsi con la stessa precisione concettuale che si dà per la disciplina del rapporto di lavoro. In assenza di soglie o limiti manca, infatti, lo spazio per un giudizio comparativo che non si fondi sulle preferenze individuali, ma che sia oggettivato dal riferimento ad entità suscettibili di valutazione quantitativa. Né peraltro il principio di libertà che viene spesso richiamato dal legislatore, in relazione ad esempio alla adesione o alla misura del finanziamento, riesce ad acquisire un precisa veste precettiva, posto che è proprio della libertà individuale l’obbligarsi attraverso manifestazioni di volontà negoziale. In questo senso non appare illogico ritenere che, al pari che per ogni altro rapporto associativo o, più genericamente, negoziale, le fonti istitutive possano limitare la misura della contribuzione massima, ed anche minima, in relazione ad un importo percentuale o anche ad una cifra fissa. Diversamente, per le forme individuali deve riconoscersi la possibilità di successive variazioni dell’importo dei contributi versati, sia per l’assenza delle ragioni sistematiche che si sono qui esposte, sia in conseguenza della diversa formulazione letterale della norma (posto che l’art. 13, comma 4o, non fa riferimento ad una « facoltà », ma direttamente sembra riconoscere il diritto alla modifica unilaterale). Peraltro, un ulteriore argomento sembra rafforzare la legittimità dei vincoli posti dalla autonomia dei privati, se solo si esamini il fenomeno della previdenza privata nel suo collegamento con le manifestazioni dell’autonomia collettiva. 5. – La interpretazione, ora proposta, della di- ( 42 ) Sulla inderogabilità v. da ultimo Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, Padova, 2006. sposizione che sancisce la libertà individuale di commisurazione dei finanziamenti destinati ai fondi di previdenza, può trovare, per un altro verso, ulteriore conforto alla luce della soluzione da attribuire alla questione, che da lungo agita la dottrina, circa la posizione costituzionale da attribuire al fenomeno della previdenza complementare. Noti sono i termini della questione ( 43 ): una prima opinione colloca la previdenza complementare nell’ambito delle previsioni di cui al comma quinto della disposizione costituzionale, attribuendo alle prestazioni erogate dai fondi natura affine a quella del trattamento di fine rapporto, in relazione sia alle finalità che il legislatore conferisce ai fondi (v. art. 1 d.lgs. n. 252/ 05, e già art. 1 d.lgs. n. 124/93), sia alla volontarietà della partecipazione alle forme complementari (art. 3, comma 4o, d.lgs. n. 124/93 e 1, comma 2o, d.lgs. n. 252/05). In questa prospettiva, si mette in luce come non possa assurgere a finalità pubblica l’interesse a più elevati livelli di copertura previdenziale, a fronte delle previsioni contenute nel comma 2o dell’art. 38 Cost., che limitano l’intervento statuale al fine di assicurare « mezzi adeguati » alle esigenze di vita ( 44 ). Una seconda opinione ritiene, al contrario, che già nel testo costituzionale sia possibile rintracciare un disegno unitario che racchiuda le forme pubbliche e private nell’ambito di un unico sistema integrato, riconoscendo così anche alla previdenza privata il compito di concorrere a garantire un trattamento complessivamente idoneo al raggiungimento dei livelli di adeguatezza individuati dal legislatore costituente ( 45 ). ( 43 ) V. riepilogati, da ultimo, da Olivelli e Ciocca, voce Previdenza complementare, cit., par. 3; nonché in Vianello, Autonomia collettiva e previdenza, cit., p. 56. ( 44 ) È la nota posizione espressa da Persiani, già nel Commento all’art. 38 Cost. (curato da G. Branca, Bologna-Roma, 1979) e da ultimo ribadita in La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in Arg. dir. lav., 2001, n. 3, p. 716; tale tesi è stata ora ripresa, con un richiamo delle disposizioni del comma 4o della disposizione costituzionale, da Ciocca, La libertà della previdenza privata, Milano, 1998. ( 45 ) In questo senso, soprattutto, Pessi, La previ- La nuova disciplina della previdenza complementare In entrambe le prospettive, tuttavia, basta poco per giungere ad esiti che mettono in dubbio la legittimità della presenza del sindacato quale soggetto privilegiato nello svolgimento di attività di gestione del risparmio. Infatti, sia che si enfatizzi la natura pubblica dell’interesse, perseguito dalla previdenza complementare, a più elevati livelli di copertura previdenziale, sia che – al contrario – se ne riconduca, sulla scorta della libertà dell’adesione, il fondamento alla soddisfazione di un interesse soggettivo, ogni intromissione da parte di soggetti intermedi rischia di appare illecita, almeno ove a questi non si applichino condizioni di parità, quanto a ruolo e disciplina dei fondi, rispetto a quelle previste per i soggetti diversi. Di qui la tendenza a cancellare ogni ostacolo circa la portabilità delle posizioni individuali e l’aspirazione a una piena omogeneizzazione della disciplina, ritenendo che ogni vincolo di derivazione negoziale alla circolazione delle posizioni previdenziali si configuri come lesione, non tanto della libertà di concorrenza, ma del diritto individuale a guadagnare dalla competizione fra diversi fondi il maggior rendimento possibile. Tuttavia, non sembra possibile disancorare il fenomeno della previdenza complementare dalle previsioni contenute nel comma 5o dell’art. 38 Cost., ove si tenga presente che la libertà della previdenza privata non è strutturalmente diversa da quella di cui al comma 1o del successivo art. 39 Cost. Anche la previdenza complementare si presentava all’esperienza storica del legislatore costituente come una manifestazione di una attività di organizzazione degli interessi individuali in forma collettiva ( 46 ). L’esame del dibattito svol- denza complementare, Padova, 1999 (e già in La nozione di previdenza integrativa, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1988, 69 ss.) nonché P. Sandulli, voce Previdenza complementare, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm., XI, 1995, p. 243 ss. A riguardo v. altresì Proia, Aspetti irrisolti del problema dei rapporti fra previdenza pubblica e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2001, p. 619 ss. ( 46 ) Sul ruolo del momento organizzativo nella definizione del fenomeno sindacale v. Napoli, voce Sindacato, in Lavoro, diritto, mutamento sociale, Torino, 2002, p. 217 ss. (già in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm., XVI, Torino, 1999). 707 tosi in sede costituente dimostra chiaramente come il riconoscimento della libertà della assistenza privata rinvii alla esperienza delle mutue e sia diretto ad approntare, quindi, una protezione del tutto omogenea rispetto al fenomeno disciplinato dall’art. 39 Cost. ( 47 ). La contiguità fra le organizzazioni di mutuo soccorso e le associazioni sindacali, infatti, non può sfuggire né allo studioso dell’evoluzione del sistema della previdenza sociale né al giurista positivo, che è consapevole della incompletezza della copertura previdenziale ed assistenziale dei lavoratori al momento della promulgazione della Costituzione. Lo spazio di libertà che si volle riconoscere alla previdenza organizzata su base collettiva vale a garantire, quindi, che l’esercizio di tali attività si possa svolgere senza il rischio di ingerenze da parte dello Stato, se non per quegli aspetti che attengono alla regolamentazione generale e alla garanzia di una gestione corretta ed equilibrata. Da questo accostamento fra l’attività organizzata al fine di definire le condizioni di disciplina del rapporto di lavoro e quella intesa alla instaurazione di un sistema rivolto a garantire un reddito nel momento del ritiro dalla vita attiva, deriva, dunque, il riconoscimento del ruolo del sindacato quale soggetto protagonista della disciplina della previdenza complementare, chiamato a definire condizioni di accesso, ( 47 ) V. La Costituzione della Rep. nei lavori preparatori dell’Ass. costituente, 1970, vol. II, 1582, sed. pom. del 10 maggio 1947, p. 1579 ss. Il dibattito si incentrò, in tal senso, in relazione alla previsioni di cui all’attuale comma 4o, poiché l’esperienza del periodo dittatoriale aveva condotto ad una distrazione dei fondi raccolti con finalità previdenziali a beneficio di un investimento (poi rivelatosi fallimentare a fronte della eccezionale svalutazione del dopoguerra) in titoli di stato (v. p. 1588). In tal senso il dibattito poté registrare una posizione comune solo grazie al collegamento con le previsioni di cui all’attuale comma 5o, a garanzia del fatto che allo stato sarebbe toccato un intervento fattivo nella erezione del sistema previdenziale, così come delineato nei primi tre commi dell’art. 38, rimanendo invece libera e garantita l’iniziativa privata indirizzata a finalità previdenziali. (v. interventi di Laconi e Di Vittorio). Sui lavori della Costituente, nonché sull’ampio dibattito che si accese nell’immediato dopo-guerra, nell’ambito della c.d. « Commissione D’Aragona » v. Ciocca, La libertà nella previdenza privata, cit., p. 17 ss. 708 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 modalità di organizzazione dei fondi e criteri di investimento dei capitali accumulati, che rappresentano non tanto una proiezione di un diritto soggettivo, incondizionatamente riconosciuto al lavoratore, ma piuttosto un completamento delle pattuizioni salariali raggiunte al tavolo della negoziazione collettiva ( 48 ). E, del resto, l’esperienza insegna come gli statuti e i regolamenti stessi dei fondi negoziali siano pattuiti nell’ambito dei rinnovi periodici dei contratti collettivi di categoria, come momenti di definizione sinallagmatica delle condizioni di scambio. Dal carattere sindacale che connota la pattuizione contenuta nelle fonti istitutive discende che le forme di vincolo che siano state definite in sede collettiva, in relazione (ma non solo) alla misura dei contributi di cui all’articolo ora in commento, si presentano come munite di una speciale protezione che eleva le ordinarie manifestazioni della autonomia negoziale, trasponendole su un piano costituzionalmente protetto. In questo senso, l’animato dibattito che ha tentato di accomunare quanto a prospettive e finalità la previdenza privata e quella pubblica, essenzialmente nella prospettiva di una esclusione dagli oneri contributivi obbligatori del finanziamento datoriale alle forme preesistenti di previdenza complementare ( 49 ), non dovrebbe far dimenticare la protezione che nell’ambito del nostro ordinamento viene garantita ai frutti della autonomia collettiva, consentendo, quindi, di poter attribuire alla norma legislativa in commento, anche per questo verso, un semplice significato dispositivo, suscettibile di modifica ad opera di una diversa pattuizione collettiva. 6. – Uno dei motivi del mancato sviluppo dei fondi complementari si rinviene, concordemente, nella presenza nel nostro ordinamento di un ( 48 ) In questo senso, seppur con argomentazioni in parte diverse, v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano, cit., p. 183, nonché, da ultimo, in La previdenza pensionistica privata: forme complementari e forme individuali, in Riv. dir. sic. soc., 2002, n. 1, p. 110 ss. ( 49 ) V. Treu, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in Bessone e F. Carinci, La previdenza complementare, cit., p. 9 ss. elemento retributivo obbligatorio, quale il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c., che si presenta come una formidabile alternativa alle forme di previdenza complementare, in quanto rivolto a sopperire a esigenze del lavoratore, in buona misura analoghe a quelle cui intende rispondere la costituzione dei fondi complementari. Come è noto, le originarie previsioni del codice civile stabilivano il diritto al pagamento, al momento della risoluzione del rapporto, di una indennità di anzianità, a condizione che il rapporto non si fosse interrotto per giusta causa, determinando l’importo di tale elemento attraverso un meccanismo « moltiplicativo » che prendeva a base l’ultima retribuzione corrisposta al lavoratore in costanza di rapporto. Una volta che la l. 29 maggio 1982, n. 297 ne ha modificato la disciplina, introducendo la denominazione oggi in uso, e ne ha garantito la corresponsione in ogni caso di interruzione del rapporto, tale attribuzione patrimoniale risponde a finalità di tipo previdenziale, perché consente di far fronte alle esigenze di continuità di reddito conseguenti al venir meno della retribuzione periodica, sia nel caso in cui il soggetto non rinvenga in tempi brevi altra occupazione e non abbia ancora maturato i requisiti necessari per accedere al trattamento pensionistico, sia nell’ipotesi in cui alla interruzione del rapporto corrisponda, invece, il termine della vita lavorativa, attribuendo così al lavoratore una somma a integrazione della sua pensione ( 50 ). In tal senso, proprio in ragione della sua funzione, l’art. 12 della l. n. 153/69, nella formulazione oggi vigente in conseguenza del riordino da ultimo disposto con il d.lgs. n. 314/97, esclude il trattamento di fine rapporto dalla ( 50 ) Sul t.f.r. restano ancora attuali gli studi successivi alla sua introduzione: Ghera e SantoroPassarelli, Il nuovo trattamento di fine rapporto, Milano, 1982; De Luca Tamajo, Il trattamento di fine rapporto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1982, p. 429 ss. nonché Giugni, De Luca Tamajo e Ferraro, Il nuovo trattamento di fine rapporto, in questa Rivista, 1983, p. 257 ss.; di recente, v. G. Santoro-Passarelli, Il trattamento di fine rapporto, Torino, 1995. Dello stesso A., v. altresì Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2000, p. 93 ss. La nuova disciplina della previdenza complementare base imponibile ai fini della determinazione dei contributi dovuti alla previdenza obbligatoria ( 51 ). Del resto, un primo intreccio fra i trattamenti collegati alla risoluzione del rapporto e la previdenza complementare si poteva rinvenire già nel codice civile, all’art. 2123 c.c., là dove si stabilisce che il datore che abbia compiuto volontariamente « atti di previdenza » può scomputare da quanto dovuto in relazione alla cessazione del rapporto (nonché in caso di malattia) le somme che il lavoratore abbia « diritto di percepire per effetto degli atti medesimi » ( 52 ). Peraltro, l’alternativa fra l’erogazione, al momento della cessazione del rapporto, di una somma in unica soluzione o di una rendita ha attraversato la storia normativa di entrambi gli istituti fino allo stesso decreto di riforma della previdenza complementare ora in commento, che all’art. 11, comma 3o, consente il pagamento di una parte dell’intero trattamento in forma di capitale, « fino ad un massimo del 50 per cento del montante finale », nonché in misura integrale ove la prestazione pensionistica risulti di importo ridotto. La assimilazione, tuttavia, si manifesta solo sul piano funzionale, poiché, dal punto di vista della natura delle prestazioni attribuite al lavoratore ( 53 ) e della disciplina positiva, numerose ( 51 ) A riguardo, oltre alle opere di carattere generale, v. Persiani, Problematiche generali relative all’obbligo contributivo, in Informaz. prev., 2002, p. 1355 ss. (anche in Arg. dir. lav., 2003, p. 1 ss.). ( 52 ) Sulla interpretazione di tale norma v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano, cit., p. 480; Ichino, Il contratto di lavoro, II, Milano, 2003, p. 217; nonché Dondi in Grandi e Pera, Commentario alle leggi sul lavoro 3, Padova, 2001, sub art. 2123 c.c. ( 53 ) Sull’argomento, in generale, v. G. SantoroPassarelli, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 67 ss. I due istituti mantengono natura diversa, come si evince dall’art. 4 della l. n. 297/82, che diede vita al t.f.r., novellando l’art. 2120 c.c.: tale diposizione, infatti, nell’uniformare tutti i sistemi di calcolo fino a quel momento esistenti (comma 4o) e nel comminare la nullità di tutte le disposizioni negoziali difformi (comma 10o), precisò al suo comma quinto che: « restano salve le indennità corrisposte alla cessazione del rapporto aventi natura e funzione diverse ». Di qui, secondo l’opinione della giurisprudenza (in tal senso v. Trib. Torino 9 maggio 2006, in Notiz. giur. lav., 2006, p. 224), la differente natura delle due di- 709 sono le differenze fra i due istituti: il t.f.r., costituisce un accantonamento solo contabile, e dunque un credito che diviene esigibile solo alla fine del rapporto o in presenza delle condizioni previste per legge; esso dà garanzia di rendimenti certi sulla scorta di un tasso in parte determinato legislativamente in cifra fissa e in parte collegato all’andamento dell’inflazione ( 54 ); infine, a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 80/92, il credito del lavoratore al t.f.r. è garantito attraverso una assicurazione apposita, gestita dall’INPS e finanziata da un contributo individuale ( 55 ). Al contrario, i trattamenti erogati dalle forme pensionistiche complementari sono alimentati da versamenti di somme che costituiscono una diminuzione patrimoniale immediata per l’impresa, in tutti i casi, almeno, in cui il fondo abbia autonoma soggettività e non sia costituito nella forma di un patrimonio separato nell’ambito del capitale sociale, secondo l’uso più antico, registrato dal codice civile all’art. 2117 c.c., ma ora vietato dalle disposizioni del decreto in commento (cfr. già art. 18 d.lgs. n. 124/93). Il sistema della previdenza complementare, peraltro, non assicura garanzia di rendimento certo, essendo questo conseguente alle decisioni di investimento collettivamente assunte dagli organi di gestione del fondo e ai risultati concretamente raggiunti dai soggetti di cui all’art. 6 d.lgs. n. 252/05. L’incertezza della misura del credito che sarà riconosciuto al singolo, in conseguenza della sommatoria fra il montante accantonato e gli incrementi che si ritraggono dalle scelte finanziarie di investimento, infine, determina l’assenza di una garanzia circa la effettiva corresponsione stinte attribuzioni patrimoniali, posto che i fondi già istituiti alla data del 1982 non hanno cessato di esistere. ( 54 ) Il tasso è pari ad un valore composto da una percentuale (75%) della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo (che misura l’andamento dell’inflazione) nonché da un importo in cifra fissa (1,5%), di modo che il rendimento sarà comunque superiore al valore dell’inflazione, ogni volta che questa si mantenga al di sotto della percentuale del 6%. ( 55 ) A riguardo v. la recentissima circ. INPS n. 53 del 7 marzo 2007, per un riepilogo delle modalità di funzionamento del fondo. 710 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 della prestazione integrativa, restando, al contrario, assicurato, in forza delle previsioni dell’art. 5 del d.lgs. n. 80/92, solo il rischio di un « omesso o insufficiente versamento » dei contributi non ancora prescritti ( 56 ). La tendenziale sovrapposizione fra i due istituti ha ripetutamente sollecitato il legislatore ad individuare una forma di coordinamento: già le norme del 1993 miravano ad utilizzare il t.f.r. quale principale strumento di finanziamento della previdenza complementare, disponendo a certe condizioni la destinazione del t.f.r. a finanziamento dei fondi. Occorreva distinguere a seconda che i destinatari dei fondi fossero, o meno, lavoratori di prima occupazione successiva all’entrata in vigore del decreto (29 aprile 1993): nel primo caso la legge imponeva alle fonti istitutive di prevedere la integrale destinazione ai fondi pensione degli accantonamenti annuali al t.f.r. (art. 8, comma 3o, d.lgs. n. 124) ( 57 ). Nel secondo caso, invece, era semplice facoltà delle parti collettive destinare anche una semplice quota del t.f.r. al fondo, determinando « la misura della riduzione della quota degli accantonamenti annuali futuri al t.f.r. ». Qualora si fosse verificata questa ultima eventualità, il lavoratore avrebbe visto accantonarsi una prima quota a titolo di t.f.r., regolata secondo quanto previsto dall’art. 2120 c.c., ed una seconda quota nel fondo complementare, disciplinata secondo le regole proprie dello statuto del fondo ( 58 ). ( 56 ) Malgrado le previsioni del comma 5o della disposizione ora citata nel testo, non si è mai proceduto alla emanazione dei decreti necessari alla istituzione di tale speciale fondo di garanzia, sebbene il contributo di solidarietà, già introdotto dalla l. n. 166/91, sia ora vincolato al finanziamento di tale fondo (v. art. 16 d. in commento e già art. 12 d.lgs. n. 124/93). ( 57 ) Il vantaggio che potrebbe derivare dal trasferimento degli accantonamenti a titolo di t.f.r. al fondo pensione consiste nella possibilità che, attraverso una migliore gestione dei risparmi per mezzo di investimenti operati da soggetti qualificati (art. 6), la rivalutazione dei capitali così impiegati risulti maggiore di quella assicurata, in tema di t.f.r., dall’art. 2120, comma 4o c.c. ( 58 ) L’art. 8, comma 2o, della l. n. 335/95, peraltro, sospendeva per un periodo di quattro anni la destinazione obbligatoria del t.f.r., per i neo-assunti, nelle imprese con meno di 25 dipendenti. Ovviamente, per i lavoratori di nuova assunzione l’intero importo del t.f.r. doveva essere destinato a finanziamento della previdenza complementare, posto che non sussistevano accantonamenti previi, essendo l’assunzione posteriore alla momento di entrata in vigore della legge. La previsione della intera devoluzione ai fondi per i lavoratori di nuova assunzione, sebbene si configurasse come un vero e proprio obbligo, era tuttavia condizionata all’iscrizione del lavoratore al fondo, che rimaneva libera: per eludere la pratica applicazione della regola, quindi, era sufficiente che il lavoratore omettesse di iscriversi ad un fondo, determinando così il mancato sorgere dell’obbligo ( 59 ). Per rendere meno gravosa ai lavoratori la rinunzia al t.f.r., il legislatore previde che a quanti avessero operato il totale o parziale accantonamento a favore del fondo del trattamento maturato venisse comunque riconosciuto il diritto ad ottenere anticipazioni nei casi contemplati all’art. 7, comma 4o, del citato d.lgs. n. 124/93, con disposizioni in buona parte analoghe a quelle di cui al vigente art. 11, comma 7o, d.lgs. n. 252 (a riguardo v. Tozzoli, sub art. 11, in questo Commentario). In verità gli ostacoli all’utilizzo del t.f.r. come strumento di finanziamento della previdenza complementare non sono derivati esclusivamente dalla scarsa propensione che i lavoratori hanno fino ad ora dimostrato verso le forme di previdenza privata, ma altresì dal fatto che, in tutti i casi in cui si realizzi concretamente la devoluzione del t.f.r. ai fondi, gli imprenditori sono obbligati alla corresponsione effettiva delle somme maturate annualmente dal prestatore, di modo che, perdendo la disponibilità di tali importi, essi vedono scomparire una sorta di finanziamento a basso costo (dovendo altrimenti, per ottenere una disponibilità analoga a quella degli accantonamenti annuali, rivolgersi al sistema del credito che offre, generalmente, tassi più elevati di quelli riconosciuti per legge ai lavoratori). In tal senso non deve stupire che, per agevolare l’operazione di devoluzione, il legislatore abbia previsto, all’art. 10 del d.lgs. in commento, misure « compensative » per le imprese. ( 59 ) Cfr. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., p. 223. La nuova disciplina della previdenza complementare In passato, con il d.lgs. 17 agosto 1999, n. 299, si era tentata la strada di trasformare in titoli azionari il t.f.r., al fine di consentire il conferimento di quest’ultimo ai fondi pensione senza intaccare la liquidità dell’impresa (ed anzi incrementandone il capitale sociale). Il sistema della cartolarizzazione, spesso utilizzato in altri ordinamenti, serve ad anticipare la disponibilità di capitali collegati a crediti non ancora esigibili, consentone la circolazione sulla base di operazioni di « sconto » non dissimili, in buona sostanza, da quelle proprie dei titoli cambiari (da cui il nome dell’istituto). La scarsa familiarità delle imprese italiane con gli strumenti finanziari più progrediti e il ridotto numero di imprese quotate in borsa hanno però determinato il pressoché totale fallimento di quella esperienza, tanto che il legislatore delegato non ha inteso riproporla ( 60 ). Il d.lgs. n. 252 tenta, dunque, un diverso approccio per incentivare il ricorso all’utilizzo del t.f.r. come fonte di finanziamento della previdenza privata, secondo una precisa indicazione che proviene dalla legge delega (art. 1.2, lett. e, n. 2, l. n. 243/04). Attraverso il meccanismo del « conferimento tacito » (v. infra, § 8) il legislatore tenta un approccio in certa misura morbido, perché lascia, in ultima analisi, alla scelta al lavoratore se devolvere i futuri ratei ai fondi, evitando un conferimento obbligatorio del t.f.r. alla previdenza privata, come pure si era talora prospettato nel dibattito politico che ha accompagnato la riforma. In tal senso, nel mantenere in vita la distinzione fra lavoratori già attivi prima della data di entrata in vigore del d.lgs. n. 124 e lavoratori successivamente assunti, il decreto di riforma rinunzia ad intaccare le quote di t.f.r. già accantonate e a questi ultimi spettanti, disponendo solo per il « t.f.r. maturando » (e dunque in relazione ai soli ratei corrispondenti al periodo successivo alla entrata in vigore del decreto). Eppure non sarebbe apparso illogico estendere, nel caso di lavoratori assunti successivamente all’aprile 1993, anche a tali somme la devoluzione tacita, ( 60 ) Cfr. a riguardo Bessone, Previdenza complementare, cit., p. 84; G. Leone, Le modifiche in tema di revidenza complementare e t.f.r., in Dir. prat. lav., 1999, p. 2935; L. Casalino, Trasformazione in titoli del t.f.r.e devoluzione ai fondi pensione, in Ferraro, La previdenza complementare, I, cit., p. 123 ss. 711 posto che la previsione di legge del 1993 aveva finito per imprimere alle somme annualmente accantonate dal lavoratore una destinazione che avrebbe potuto far venir meno ogni pretesa del datore a conservare nell’ambito del patrimonio aziendale tali importi. 7. – Il meccanismo di conferimento tacito viene esteso anche a soggetti che si trovino prossimi alla pensione e che dunque non avrebbero apparentemente alcun interesse alla attivazione di un secondo pilastro previdenziale, a fronte sia del fatto che beneficeranno del più generoso sistema retributivo per il calcolo della pensione pubblica, sia del fatto che la modestia dei contributi versati ai fondi pensione non potrà assicurare loro alcun serio trattamento integrativo, ma anzi probabilmente imporrà che la prestazione sia erogata dai fondi sotto forma di una corresponsione una tantum in denaro, a mente delle disposizioni di cui all’art. 11, comma 3o, d.lgs. n. 252/05. Coerentemente con tale profonda modifica, l’art. 11 d.lgs. n. 252, muta le condizioni di accesso ai trattamenti pensionistici complementari, già previste dall’art. 7 d.lgs. n. 124, e il comma 11o della disposizione ora in commento consente che il finanziamento del fondo possa « proseguire volontariamente oltre il raggiungimento dell’età pensionabile prevista dal regime obbligatorio di appartenenza, a condizione che l’aderente, alla data del pensionamento, possa far valere almeno un anno di contribuzione a favore delle forme di previdenza complementare ». A tali lavoratori, secondo quanto previsto dalla disposizione ora richiamata, spetta di « determinare autonomamente il momento di fruizione delle prestazioni pensionistiche ». Si tratta di una deviazione abbastanza rilevante dalle previsioni prima contenute nel d.lgs. n. 124 che collegavano strettamente i requisiti per l’accesso alla pensione pubblica a quelli previsti dai fondi privati per il godimento dei trattamenti complementari (art. 7, commi 2o e 3o, nonché art. 18, comma 8o quinquies). Ed in effetti viene da chiedersi in che modo possa assimilarsi al fenomeno previdenziale, quale visualizzato dal dettato costituzionale, una tutela attivata da un soggetto che già abbia terminato la vita attiva e che, dunque, si trovi a consumare il reddito, che dovrebbe essere adeguato alle sue esigenze di 712 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 vita, per finanziare un ulteriore strumento di protezione, con la garanzia di un vantaggio fiscale. Nessuna possibile integrazione fra forme distinte di tutela previdenziale può legittimare un simile risultato, cosicché dovrà dirsi che la disposizione testimonia pienamente non tanto la complessità dell’odierno sistema previdenziale, e il suo progressivo distaccarsi dalla più lineare logica che animava le previsioni dei costituenti, quanto le finalità di incentivazione del mercato del risparmio privato, prima richiamate. Ed in effetti, a fronte della progressiva liberalizzazione del cumulo fra trattamenti pensionistici e redditi da lavoro (autonomo e dipendente), promossa dai numerosi provvedimenti legislativi che si sono succeduti nel recente passato e vieppiù incoraggiata dalla stessa legge delega n. 243, ben si comprende come i pensionati possano essere dotati di più elevati redditi da destinare a forme di risparmio a lungo termine. Il risultato determinato da una simile previsione di legge, tuttavia, può essere paradossale, poiché la previdenza complementare potrebbe risolversi in un fenomeno dal quale rimarrebbero esclusi, per l’esiguità del reddito, i soggetti di prima occupazione, a fronte invece di un massiccio afflusso di capitali da parte dei soggetti pensionati, allettati dalla assenza di un vincolo sulla durata minima degli investimenti. Ed in effetti l’aspetto che più appare lontano dalla logica costituzionale è l’assenza di un vincolo di durata quanto all’obbligo della contribuzione, mentre non apparirebbe contrario ai principi di cui all’art. 38 la creazione di un sistema di trattamenti supplementari, che provveda ad erogare una prestazione aggiuntiva, in vista dei disagi della c.d. « quarta età » ( 61 ). Il progressivo rilevante allungarsi della vita media, infatti, giustificherebbe la creazione di un sistema supplementare, a finanziamento agevolato, rivolto ad integrare i redditi che il pensionato ritrae dal sistema pubblico, a fronte della necessità di poter godere di un livello di reddito più ( 61 ) Una misura di integrazione del reddito dei soggetti più vecchi è stata prevista dalla legge finanziaria per il 2002 attraverso l’incremento dei minimi dell’assegno e della pensione sociale per gli anziani ultrasettantenni. elevato nel momento in cui l’età più avanzata renda insufficiente, per le esigenze mediche o di assistenza quotidiana, le somme che, nella piena autosufficienza fisica, erano bastevoli a garantire il raggiungimento degli standards di cui al comma secondo della disposizione costituzionale prima richiamata ( 62 ). 8. – Dopo l’ampia parentesi costituita dai commi da 4o a 6o, che recano disposizioni tributarie, i commi da 7o a 10o della disposizione in commento definiscono un meccanismo (impropriamente indicato come « silenzio-assenso » nella terminologia corrente, ma individuato dal legislatore come « modalità di conferimento tacita ») ( 63 ), in forza del quale, ove i lavoratori omettano di manifestare una volontà di segno contrario, le quote maturande del t.f.r. verranno destinate, da una certa data in poi, a finanziamento della previdenza complementare (art. 8, comma 7o, d.lgs. n. 252). Una simile previsione si applica a tutti i lavoratori subordinati del settore privato, con l’ovvia esclusione di quanti abbiano già integralmente conferito il proprio t.f.r. ai fondi di previdenza complementare ( 64 ). La data di entrata in vigore del meccanismo, originariamente fissata al 1o gennaio 2008 dall’art. 23 del d.lgs. n. 252, è stata anticipata di un anno dal d.l. 13 novembre 2006, n. 279, con una determinazione poi confermata ( 65 ) dalle disposizioni di cui ai commi 749o-752o dell’art. 1 della l. n. 296/06 (legge finanziaria per il 2007). In ( 62 ) Scarsi sono attualmente gli studi sulle esigenze previdenziali della quarta età: per tutti v. E. Fornero e C. Monticone, Il pensionamento flessibile in Europa, in Quad. europei del nuovo welfare, n. 7/07. ( 63 ) In senso fortemente contrario all’utilizzo della espressione corrente, v. P. Sandulli, Il conferimento, tacito e non, del tfr al sistema di previdenza complementare: riflessioni critiche, in M. Messori (a cura di), La previdenza complementare in Italia, Bologna, 2006, p. 157. ( 64 ) Sono esclusi altresì i lavoratori domestici, giusta la previsione del d.m. 30 gennaio 2007, art. 1, comma 4o, FONDINPS. ( 65 ) Non si tratta propriamente di una « conversione » ai sensi dell’art. 77 Cost., poiché si è rinunziato ad avviare le procedure relative; il secondo provvedimento, che ha comunque contenuto pressoché analogo al primo, ha fatto salvi gli effetti prodotti dal d.l. n. 279/06 (v. comma 752o). La nuova disciplina della previdenza complementare conseguenza di tale modifica, i lavoratori hanno sei mesi di tempo a decorrere dal 1o gennaio 2007 (o dalla loro assunzione, se posteriore), per decidere se conferire il t.f.r. maturando a una forma pensionistica, individuale o collettiva, oppure mantenerlo nella disponibilità dell’impresa, in conformità alla disciplina di cui all’art. 2120 c.c. Solo tale ultima opzione, però, può essere successivamente revocata, mediante una manifestazione di volontà espressa indirizzata ad un conferimento, per così dire « tardivo » del t.f.r., perché una volta che il lavoratore abbia deciso di destinare a finanziamento della previdenza complementare il proprio t.f.r. non potrà tornare indietro sui suoi passi, quand’anche si trovi ad instaurare un nuovo rapporto di lavoro con un diverso datore ( 66 ). Il legislatore, nel delineare il meccanismo del conferimento, sia tacito sia espresso, mantiene in vigore la distinzione originariamente introdotta al comma 3o dell’art. 8 del d.lgs. n. 124, così da definire due distinte discipline, in ragione della data di prima iscrizione del lavoratore al sistema della previdenza obbligatoria. In tal modo alle lett. a) e b) del comma 7o si detta una disciplina per i lavoratori che, per la prima volta, sono stati assunti dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 124 (29 aprile 1993), ed una separata disciplina è dettata dalla lett. c), dello stesso comma per i lavoratori che a quella data già avevano iniziato la contribuzione al sistema dell’a.g.o. A questa seconda categoria di lavoratori viene consentito, nel rispetto dell’antico disposto del d.lgs. n. 124, dianzi citato, di far luogo ad un conferimento solo parziale del t.f.r., nella misura stabilita dalla contrattazione collettiva, oppure in mancanza di previsione, nella misura individualmente determinata, e comunque non in- ( 66 ) Questa interpretazione ha trovato conforto nel decreto del 30 gennaio 2007 (FONDINPS), art. 1, comma 4o, nonché nelle dettagliate indicazioni operative emanate dalla COVIP con deliberazione del 21 marzo 2007, che esclude solo i lavoratori che abbiano provveduto all’integrale riscatto della posizione individuale. Appare evidente, a fronte della destinazione al « fondo Tesoreria » di tali somme (almeno nelle imprese di maggiori dimensioni), come la revoca abbia efficacia dal momento in cui essa è manifestata. Più che di una revoca, quindi, dovrebbe parlarsi di una opzione sopraggiunta. 713 feriore al 50% (comma 7o, lett. c); al contrario, il conferimento sarà integrale per coloro che siano stati assunti per la prima volta in un momento successivo alla data di entrata in vigore della riforma del 1993. In ogni caso, tutti i lavoratori già occupati alla data del 1o gennaio 2007 non potranno che conferire il solo t.f.r. « maturando », con esclusione – quindi – di quello già accantonato nei precedenti anni di lavoro (v. supra, par. 6). Mentre la scelta effettuata attraverso modalità « tacite » si perfeziona solo a beneficio dei fondi individuati dalla contrattazione collettiva, il lavoratore, attraverso la scelta « espressa » di cui alla lett. a del comma 7o (ovviamente, ove questa ricada sulla opzione dell’utilizzo del t.f.r. a finanziamento di una delle forme di previdenza complementare e non sul mantenimento della disciplina contenuta nel codice civile), ha il diritto di individuare la forma cui, in concreto, destinare il t.f.r., anche in difformità dalle indicazioni provenienti dagli accordi collettivi applicati presso la sede dell’impresa da cui dipende (c.dd. « modalità esplicite » di conferimento del t.f.r. di cui alla lett. a, del comma 7o). Tale libertà, tuttavia, viene riconosciuta soltanto ai soggetti non ancora iscritti ad alcuna f.p.c.; viceversa nel caso in cui il lavoratore risulti già iscritto ad un fondo, ma non conferisca il trattamento di cui all’art. 2120 c.c. (o ne conferisca solo una quota parte), le disposizioni della riforma (art. 8, comma 7o, lett. c), n. 1, d.lgs. n. 252) non riconoscono alcuna libertà di scelta al lavoratore, riducendo il novero delle opzioni a due soltanto: conferimento delle quote « residue » del t.f.r. alla f.p.c. cui già il lavoratore aderisce, o, in alternativa, il permanere della situazione antecedente (attraverso una manifestazione esplicita, in tal senso). Qualora non intervenga una espressa manifestazione di volontà da parte del lavoratore nel termine semestrale, si farà applicazione, come già più volte si è anticipato, delle c.dd. « modalità tacite » di conferimento (lett. b del comma 7o), che parificano la mancata manifestazione di volontà (il « silenzio ») del lavoratore, al suo consenso all’utilizzo del t.f.r. a finanziamento di una forma complementare. Una complessa serie di regole stabilisce quale sia la forma di previdenza complementare beneficiaria del conferimento tacito: innanzi tutto 714 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 vengono in rilievo le forme istituite o individuate dalla contrattazione collettiva, anche di livello territoriale; tali forme tuttavia cedono alle eventuali indicazioni contenute in un accordo aziendale, quando questo sia stato notificato individualmente ai singoli lavoratori (art. 8, comma 7o, lett. b, n. 1) (le parti collettive, rimangono libere in tale contesto di indicare come beneficiaria una qualsiasi delle forme di cui all’art. 1, comma 2o, lett. e, n. 2, della l. n. 243/ 04); qualora l’azienda abbia aderito a più forme di previdenza (a riguardo si rinvia a Bollani, sub art. 2, in questo Commentario, anche per i necessari riff. bibliografici), il conferimento andrà effettuato alla forma che ha raccolto più adesioni tra i lavoratori (art. 8, comma 7o, lett. b, n. 2); in mancanza di forma collettiva o di accordo aziendale trova spazio il conferimento presso il fondo c.d. residuale, istituito dall’art. 9 dello stesso d.lgs. n. 252, nell’ambito delle gestioni dell’INPS (art. 8, comma 7o, lett. b, n. 3). Quest’ultima destinazione, tuttavia, appare come provvisoria, poiché l’art. 9, comma 3o, d.lgs. n. 252 prevede, che successivamente, su indicazione del singolo, la posizione fino a quel momento maturata possa essere trasferita ad altra forma pensionistica: all’INPS spetta, dunque, di custodire le quote versate ( 67 ), in attesa della individuazione del fondo cui destinare gli accantonamenti effettuati. Come si è dianzi segnalato, la libertà di individuare il fondo conferitario viene riconosciuta soltanto ai lavoratori che già non siano iscritti ad una forma di previdenza complementare, poiché, in quest’ultimo caso, il legislatore riduce i termini della opzione alla scelta fra conferire il residuo del t.f.r. non ancora destinato a finanziamento della previdenza complementare o il permanere nell’ambito della disciplina di cui all’art. 2120 c.c. Come si evince dal quadro complessivo, quindi, le forme individuali potranno beneficiare del conferimento del t.f.r. solo in caso di opzione espressa del lavoratore; in caso di silenzio, invece, i ratei saranno devoluti ai fondi, di categoria ( 67 ) In relazione a tale Fondo, da non confondersi con quello ora istituito dal comma 755o della l. n. 296/06 (c.d. « fondo tesoreria »), v. Garcea, sub art. 9, in questo Commentario. o aziendali (ovvero a quelli territoriali nell’ipotesi in cui sussista una espressa previsione collettiva in tal senso), o, infine, verranno a confluire, in carenza di ogni tipo di accordo, al fondo residuale di cui all’art. 9 del decreto in esame. Nell’ambito delle originarie disposizioni del d.lgs. n. 252, il complesso meccanismo posto in essere dal legislatore delegato non impediva che a fronte di una serie di manifestazioni di segno negativo, non si apportasse alcuna rilevante modifica allo status quo ante. In altre parole, malgrado già la legislazione precedente avesse imposto ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 124 la destinazione del t.f.r. a finanziamento dei fondi, il legislatore del 2005 non si spingeva sino ad imporre una devoluzione forzosa, di modo che i lavoratori che avessero impedito il perfezionarsi del tacito conferimento, manifestando una volontà contraria, avrebbero continuato a godere del t.f.r. in quanto tale, secondo le disposizioni di cui all’art. 2120 c.c. Da qui il successivo intervento correttivo del 2006 che, nell’anticipare il termine di esercizio dell’opzione di cui al comma 7o (comma 749o, l. n. 296/06), ha altresì previsto che le quote di t.f.r. cc.dd. « inoptate » non rimanessero nella disponibilità del datore di lavoro ma fossero versate ad un apposito « Fondo », gestito dall’INPS su apposito conto corrente aperto presso la Tesoreria dello Stato, secondo le previsioni di cui all’art. 1, comma 755o, l. n. 296/06, ora completate attraverso l’emanazione del regolamento di attuazione di cui al comma 757o della disposizione ora citata ( 68 ). Tale Fondo è destinato a raccogliere soltanto i ratei relativi a rapporti di lavoro instaurati con datori privati che abbiano alle proprie dipendenze più di 49 lavoratori ( 69 ). Per i lavoratori ( 68 ) Tale soluzione è stata definita nell’ambito del negoziato con le parti sociali per la revisione della l. n. 243/03, correggendo l’iniziale soluzione ventilata dal governo che avrebbe avuto riguardo a tutte le imprese, ma per una quota percentuale del t.f.r. pari alla metà. Il decreto, emanato dal Ministero del lavoro di concerto con quello dell’economia, reca la data del 30 gennaio 2007 (si legge in G.U., n. 26, del 1o febbraio 2007). ( 69 ) La disciplina circa le modalità di calcolo di tale soglia è contenuta nel decreto emanato dal Mi- La nuova disciplina della previdenza complementare delle imprese di minori dimensioni, dunque, rimane immutata la possibilità di manifestare un esplicito dissenso al conferimento tacito, che vale a sottrarli ad ogni innovazione nella disciplina del t.f.r. Il Fondo (c.d. « Fondo-Tesoreria ») provvederà al pagamento della quota del trattamento, relativa agli anni successivi al 2007, di modo che il datore perderà comunque la disponibilità delle quote maturande, dovendole apportare mensilmente al Fondo ( 70 ). A differenza di quanto un tempo previsto per gli enti previdenziali ENPAS e INADEL del settore pubblico, però, il lavoratore non avrà alcun rapporto con il Fondo, poiché il datore provvederà direttamente alla liquidazione anche della quota posta a carico di questo, procedendo successivamente alla compensazione con quanto dovuto a titolo di contribuzione, non diversamente da quanto avviene, ad es., con riguardo alla indennità di malattia. Il meccanismo delineato dal legislatore lascia aperte una serie di questioni: in primo luogo si tratta di verificare a quali condizioni possa ritenersi legittimo il conferimento tacito dei ratei maturandi del t.f.r. alle forme complementari, quando sorga il dubbio di un vizio della volontà manifestata (par. 10); in secondo luogo si dovranno esaminare le conseguenze, quanto ai contributi dovuti dal datore, nel caso dell’opzione espressa di cui alla lett. a del comma 7o nistero in data 30 gennaio 2007 più volte cit. nel testo: si prevede che si faccia riferimento alla media degli addetti dell’anno 2006, per le imprese già costituite alla data dell’entrata in vigore della riforma; per le imprese costituite successivamente, invece, il limite dimensionale è riferito alla media dei lavoratori impiegati nel primo anno di attività; i lavoratori a tempo parziale vengono computati in proporzione alla durata del loro impegno lavorativo; quelli a termine solo ove il rapporto abbia durata superiore ai tre mesi e a condizione che il contratto non sia stato stipulato per la sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Devono considerarsi esclusi dalle previsioni i lavoratori che già, per disposizione collettiva, apportano il t.f.r. ad un soggetto terzo (come la « cassa edile »), e quanti ricevono annualmente in contanti il trattamento (come nel rapporto di lavoro nautico). ( 70 ) Le misure compensative sono state riviste dall’art. 1, comma 764o, l. cit. 715 per la libera scelta della forma previdenziale cui conferire il t.f.r. (par. 12); successivamente si tratterà di analizzare i criteri che presiedono alla individuazione del fondo destinato a raccogliere le quote dei lavoratori che non abbiano manifestato una espressa opposizione alla devoluzione tacita (par. 13). Prima di procedere all’esame di tali questioni, tuttavia, si dovranno approfondire i problemi sistematici che il meccanismo stesso solleva (par. 9), anche con riguardo alla disciplina riservata alla contrattazione collettiva (par. 11). 9. – Il criterio del conferimento tacito era stato già in passato praticato dalla contrattazione collettiva ( 71 ), trovando appoggio anche nella dottrina ( 72 ), nella prospettiva di rendere più agevole l’iscrizione dei singoli alle forme di previdenza collettiva, senza tuttavia menomare la libertà di adesione individuale del lavoratore, che costituiva uno dei più importanti principi su cui si basava l’impianto del d.lgs. n. 124/93. In questa prospettiva, dunque, l’adesione tacita era voluta dalle parti soprattutto come mezzo per una diffusione quanto più ampia possibile delle iscrizioni al fondo, consentendo la creazione di una sorta di piano inclinato che conduceva a considerare come concludenti i comportamenti meramente omissivi. A riguardo si deve peraltro sottolineare come sussista un interesse all’incremento del numero degli iscritti ai fondi sotto più aspetti: sia al fi- ( 71 ) Interessante, a riguardo, è notare come un tale meccanismo sia stato sperimentato anche nell’ambito di fondi di assistenza sanitaria integrativa (come nel caso del fondo del settore chimico: Faschim) con una disposizione pattizia che, tuttavia, è stata recentemente eliminata, a conferma della perdurante incertezza della legittimità di tali clausole (o comunque della inopportunità di manifestazioni tacite del consenso). ( 72 ) In tal senso, inizialmente A. Pandolfo, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in Dir. prat. lav., inserto, 1993, XI; analogamente R. Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova, 2000, p. 370 nonché Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano, cit., p. 244; G. Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, in Ferraro (a cura di), La previdenza complementare nella riforma del welfare, cit., p. 34. 716 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ne di poter ottenere costi ridotti di amministrazione e di intermediazione nelle scelte di investimento, sia perché la legge dei grandi numeri rende più agevole e stabile il governo di fondi con un elevato numero di iscritti, giacché quanto più ampio è il campione dei soggetti, tanto maggiore sarà l’accuratezza delle previsioni ( 73 ). Seppure non possa escludersi che un ostacolo alla diffusione per via negoziale di pattuizioni di tal tipo derivasse da una sotterranea ostilità degli imprenditori, timorosi di dover rinunziare al flusso di auto-finanziamento costituito dal t.f.r. ( 74 ), si può ipotizzare che le parti nutrissero comunque un dubbio circa la legittimità di disposizioni di contratto collettivo che prevedessero meccanismi di adesione tacita, tanto che esse, invece che ottenere per via negoziale la diffusione di tali clausole, hanno preferito attendere l’introduzione di una norma espressa da parte del legislatore ( 75 ). Ricostruire i possibili argomenti che hanno giocato in senso contrario ad una ampia diffusione per via negoziale delle clausole di conferimento tacito, tuttavia, può servire a meglio valutare la soluzione adottata dal legislatore. Un primo aspetto, recentemente riproposto in dottrina con riguardo ai precetti di cui al d.lgs. n. 252/05, riguarda il consueto problema dell’ambito di efficacia dei contratti collettivi, affermandosi che il meccanismo ora previsto dal legislatore sarebbe inteso a sorreggere, attraverso una pluralità di pattuizioni individuali, la incerta efficacia di questi, rilevandosi, per altro verso, come mancherebbe un criterio capace di ( 73 ) G. Proia, Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione. Efficacia. Dissenso, Milano, 1994, p. 208, nt. 131. ( 74 ) Ma non può mancarsi di sottolineare come, nel vigore della precedente disciplina di legge, ove si fossero diffuse clausole negoziali di conferimento tacito, i soli a poterne beneficiare sarebbero stati i fondi negoziali, offrendosi ai lavoratori una duplice opzione (mancato conferimento o destinazione ai fondi di categoria) senza che si riconoscesse una libertà di scelta circa il fondo cui destinare il proprio contributo. ( 75 ) Così M. Persiani, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit., p. 735. Non è inutile ricordare che una versione preliminare del d.lgs. n. 252 ha formato oggetto di un confronto bilaterale con le oo.ss. risolvere un eventuale conflitto fra più fonti collettive ( 76 ). Si avrà modo di ritornare più avanti su questo aspetto, qui merita però di essere esaminata una diversa debolezza che sembrerebbe caratterizzare la natura collettiva delle clausole di conferimento tacito. In senso contrario alla legittimità di tali clausole sembra giocare, infatti, la già richiamata concezione della previdenza complementare come proiezione di un diritto individuale, estraneo alle finalità di cui all’art. 38 Cost., di talché, attraverso una pattuizione collettiva, il lavoratore verrebbe gravato di oneri non legislativamente previsti, vedendo così ridotto il suo complessivo trattamento retributivo. Per altro verso, il richiamo alla libertà di adesione al fondo (art. 3, comma 4o, d.lgs. n. 124) sembrava confermare come la contrattazione collettiva non potesse disporre unilateralmente di quella parte di retribuzione che grava in capo al lavoratore, destinandola a finanziamento dei fondi, affermandosi che il diritto individuale alla retribuzione, una volta venuto ad esistenza, si incorpori nella sfera patrimoniale del singolo, di modo che ogni successivo accordo, seppur collettivo, che ne restringa gli ambiti sarebbe illegittimo per l’inammissibilità di transazioni collettive. Un tale risultato, infatti, appare precluso alla contrattazione collettiva, sulla scorta della dottrina dominante che ritiene, quasi unanimemente, che alla autonomia sindacale non possa riconoscersi un potere dispositivo ( 77 ). In questa prospettiva, è lecito ritenere che le parti collettive paventassero che il meccanismo del « silenzio-assenso » venisse equiparato ad un vero e proprio atto di disposizione ex art. 2113 c.c. di una quota parte delle competenze ( 76 ) Secondo P. Sandulli, Il conferimento, tacito e non, del tfr al sistema di previdenza complementare: riflessioni critiche, cit., p. 176, « il conferimento tacito finisce per risultare l’effetto di una, più o meno forzata, estensione dell’efficacia delle fonti istitutive ». ( 77 ) Per una ricostruzione del dibattito su questo aspetto v., più di recente, Occhino, L’aspettativa di diritto nei rapporti di lavoro e previdenziali, Torino, 2004. Nel senso di ammettere la legittimità di atti di disposizione collettivi v., tuttavia, Tursi, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Torino, 1996. La nuova disciplina della previdenza complementare individuali, da considerarsi vietato per quanto si è appena esposto ( 78 ). In verità, l’argomento che nega la legittimità di rinunzie effettuate collettivamente, non appare del tutto convincente, non appena lo si applichi, non già a diritti individuali riconosciuti dal legislatore (in tema, ad es., di ferie), ma ai diritti di credito retributivo definiti dalla contrattazione collettiva. Nel caso in cui la clausola negoziale interessi un diritto patrimoniale, conseguente ad una disposizione contenuta nell’ambito di una pattuizione collettiva, si tratterebbe non già di operare una rinunzia ad una elemento retributivo, ma piuttosto di conformare le modalità con cui il diritto di credito viene ad esistenza. In quest’ambito la pretesa alla applicazione del contratto collettivo da parte del singolo lavoratore non può che comportare l’applicazione di tutta la disciplina negoziale pattuita (e dunque anche dell’obbligo di pronunziarsi), senza che il principio della retribuzione sufficiente di cui alle previsioni costituzionali possa agire in senso opposto, dato che sarebbe la stessa contrattazione collettiva nazionale ad espungere quell’attribuzione patrimoniale dal perimetro delle somme necessarie a garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa ( 79 ). ( 78 ) Prospetta questa soluzione Proia, Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione. Efficacia. Dissenso, cit., p. 208, che esclude, tuttavia, in concreto una violazione della norma, argomentando dalla sostanziale inscindibilità del trattamento contrattuale, che impedisce al lavoratore una volta invocata la « fonte-fatto » di poter rifiutare una parte del regolamento collettivamente disposto; un accenno indiretto anche in Id., Tutela previdenziale pubblica, consenso del soggetto protetto e previdenza complementare (note in margine di un recente convegno), in Arg. dir. lav., 2000, p. 115 ss. ( 79 ) In questo senso può qui richiamarsi la distinzione più sopra tratteggiata fra obbligazioni retributive e meramente corrispettive, di cui a Cass., sez. un., n. 974/97, in Dir. lav., 1997, II, con nota di Bozzao: per ulteriori approfondimenti v. nt. 16. Peraltro si deve ricordare come la rinunzia ad una parte della retribuzione appaia legittima a quella parte della dottrina e della giurisprudenza che ricostruisce i rapporti fra contratti collettivi di diverso livello, in termini di piena derogabilità della fonte collettiva ad opera di quella posteriore e dotata di 717 Peraltro verso, poi, si deve notare come la decisione relativa alla destinazione del t.f.r. non si configura certo come atto abdicativo di un diritto retributivo o di una parte di esso, ma piuttosto vale quale atto di disposizione di una parte del patrimonio del lavoratore, esercitato in anticipo rispetto al momento nel quale il credito sarebbe divenuto esigibile. Infatti, ove così non fosse, dovrebbero considerarsi assoggettate al disposto dell’art. 2113 c.c. anche le ipotesi di cessione del credito retributivo o dello stesso t.f.r. La conseguenze negative che da questo atto potrebbero derivare sull’ammontare complessivo del trattamento (a causa, ad es., di una non felice scelta di investimento) non sono, insomma, in alcun modo riconducibili ad una volontà dismissiva (ed anzi, in tal senso, è facile osservare come il lavoratore attraverso una diversa destinazione del t.f.r. intenda incrementarne l’importo e non certo ridurlo). Né, in senso contrario a queste conclusioni, vale richiamare una antica opinione che, sulla scia delle preoccupazioni di limitare la « spirale inflazionistica » che mossero il legislatore del 1982, afferma la assoluta inderogabilità del disposto dell’art. 2120, in forza delle previsioni di cui all’art. 4 della l. n. 297/82, che fulminano con la nullità ogni previsione in contrasto con le disposizioni di legge, anche ove proveniente dalla contrattazione collettiva: in questa prospettiva, la disciplina del t.f.r. si configurerebbe come una previsione imperativa che non ammette deroghe, su base individuale o anche collettiva, in quanto preordinata a realizzare forme di risparmio coattivo ( 80 ). Alla stregua di tale opinione, infatti, dovrebbero risultare vietate anche le forme di anticipazione non espressamente ammesse dal legislatore, in contrasto con la prassi che si è invece radicata in occasione di operazioni di privatizza- maggiore vicinanza agli interessi regolati, giusta il canone della specialità. ( 80 ) Così già Ghera e Santoro-Passarelli, Il nuovo trattamento di fine rapporto, Milano, 1982; ed ancora di recente G. Santoro-Passarelli, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 75, secondo il quale tale principio troverebbe conferma nell’art. 8 d.lgs. n. 123, che avrebbe natura di ulteriore ipotesi di anticipazione, rispetto a quelle individuate dalla disposizione del codice civile. 718 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 zione di società a capitale pubblico, che hanno visto un largo ricorso all’acquisto di titoli azionari attraverso, per l’appunto, l’impiego di una parte degli accantonamenti del trattamento (o del suo intero ammontare) sino a quel momento realizzati, attraverso l’invocazione delle disposizioni di cui al comma 11o dell’art. 2120 c.c. che prevede condizioni di miglior favore collettivamente disposte. Tale argomento, peraltro, perde ogni valore nel caso in questione ove si noti che già il d.lgs. n. 124 prevedeva la possibilità di utilizzare il t.f.r. a finanziamento dei fondi, così incrementando le ipotesi di anticipo legislativamente previste ( 81 ), né sembra che ad una manifestazione di volontà tacita possa riconoscersi latitudine dispositiva inferiore rispetto ad una semplice manifestazione espressa, ove non sia richiesta una forma solenne. In conclusione, quindi, ad una analisi retrograda, non sembrerebbe che sussistessero seri motivi che potessero impedire la diffusione per via negoziale delle clausole vulgo dictae di « silenzio-assenso », se non la scarsa fiducia che la dottrina nutre nella sussistenza di un potere dispositivo collettivo e la eccessiva valorizzazine della libertà di adesione. Parimenti non dovrebbero sussistere motivi per dubitare della legittimità della soluzione ora adottata in via legislativa, alla stregua di valutazioni di tipo meta-giuridico. D’altronde deve apparire del tutto legittimo un accordo collettivo diretto a qualificare in un certo modo lo spazio giuridico entro cui l’inattività del lavoratore si venga a collocare, al fine di attribuire a quella omissione uno speciale valore negoziale. Ed infatti, secondo i canoni della civilistica tradizionale, anche attraverso un comportamento omissivo un soggetto può manifestare liberamente la sua volontà, purché da un simile silenzio si possa incontestabilmente ricavare una manifestazione negoziale univoca. Il silenzio, in questa prospettiva, può considerarsi come manifestazione di volontà solo quando sia « circostanziato », in quanto il suo significato sia reso univoco dalle circostanze di fatto o dalla sussistenza di un dovere di manifestare una opposizione. In tal senso l’inattività del lavoratore per potere essere considerata come ( 81 ) G. Santoro-Passarelli, ibidem. manifestazione di volontà deve essere tale per cui l’offerta di adesione, inserendosi nell’ambito delle condizioni di contratto che regolano il rapporto, faccia sorgere nel lavoratore un dovere di parlare, al fine di escludere l’adesione alla previdenza complementare mediante il silenzio ( 82 ). 10. – Giova, innanzi tutto, rilevare come il meccanismo del « conferimento tacito » non faccia venir meno la volontarietà dell’adesione individuale alla forma pensionistica complementare: resta aperta, infatti, la possibilità che il lavoratore, manifestando la sua opposizione nel termine semestrale di cui al comma 7o, mantenga (nelle imprese con meno di 50 dipendenti) gli accantonamenti del t.f.r. presso il datore, ovvero (nelle imprese di maggiori dimensioni) impedisca comunque la devoluzione dei ratei futuri alle forme di previdenza complementare. Il meccanismo, peraltro, non è estraneo ad altre riforme che hanno profondamente inciso sulle condizioni della vita materiale: così al momento della entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, con l’art. 228 della l. n. 151/75, il legislatore stabilì che il regime della comunione legale dei beni trovasse applicazione tacita a quanti non avessero manifestato una volontà contraria, entro il termine di due anni dalla entrata in vigore di quella legge. L’origine legale del meccanismo e la conseguente qualificazione della situazione nella quale si colloca il silenzio del destinatario, rendono di incerta applicazione le cautele che nella tradizione civilistica circondano la qualificazione del silenzio. Ed infatti, nella prospettiva del dogma della volontà, perché si possa attribuire ad un comportamento meramente omissivo di un soggetto un valore negoziale appare necessario che questi sia reso edotto delle conseguenze del suo ( 82 ) Circa la necessità che il silenzio sia inserito in una cornice che ne qualifichi inoppugnabilmente il significato, v., ad es., A. La Torre, voce Silenzio (dir. priv.), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. 543 ss.; A. Falzea, voce Manifestazione (teorie gen.), ivi, XXV, Milano, 1975, p. 442 ss.; V. Scalisi, Manifestazione in senso stretto, ibid., p. 476 ss., secondo cui « è opinione decisamente prevalente che il valore espressivo del silenzio si determini in funzione di un supposto dovere di parlare o di agire, incombente sul soggetto e rimasto inosservato » (così a p. 491). La nuova disciplina della previdenza complementare silenzio, di modo che queste possano correttamente considerarsi come volute, così attribuendo alla inattività un significato univoco. In questa prospettiva ci si deve chiedere se la dichiarazione da rendere nel termine di sei mesi debba possedere particolari requisiti formali affinché possa essere idonea ad impedire l’operatività del conferimento tacito ( 83 ). Non si rinvengono indicazioni utili nella delega e neppure nel decreto attuativo, ma non si tratta di problemi di poca rilevanza, se si considera come da questi requisiti possa dipendere la invalidità della protestatio con il conseguente effetto di una diversa destinazione del t.f.r. Dietro alla definizione dei requisiti formali e della eventuale annullabilità per vizi del consenso, infatti, si possono celare, da una parte, indici che rafforzano una sorta di obbligatorietà del conferimento e, dall’altra, strumenti di abuso da parte del datore (o anche del lavoratore) volti a frodare gli stessi fondi. Non dovrebbero in verità sussistere incertezze circa il significato della inattività del lavoratore, posto che il comma 8o delle disposizione ora in commento prevede che il datore di lavoro debba fornire al lavoratore « adeguate informazioni sulle diverse scelte disponibili » ( 84 ). ( 83 ) Pare certo, per la sua natura, che l’atto con il quale il lavoratore manifesta la sua opposizione alla devoluzione tacita (o parimenti la sua scelta per la destinazione ad un fondo diverso da quello che, altrimenti, sulla scorta del meccanismo del conferimento tacito beneficerebbe del finanziamento) abbia natura recettizia; esso doveva peraltro considerarsi a forma libera, almeno sino all’emanazione del decreto del gennaio 2007 più volte cit. nel testo, che ha, invece, imposto che le manifestazioni dei lavoratori si esplicitassero attraverso la compilazione di un modulo appositamente predisposto, obbligando quanti avessero già effettuato la scelta in forma libera a confermarla attraverso la compilazione del modulo, denominato TFR1 (art. 1, comma 6o, d.m. FONDINPS). ( 84 ) Il prototipo di rapporto di lavoro visualizzato dal legislatore della riforma è quello tradizionale, di modo che non sussistono indicazioni circa il soggetto obbligato a rendere le informazioni quando non via sia coincidenza, nel semestre entro il quale l’opzione deve esercitarsi, fra il soggetto che procede al pagamento della retribuzione e quello che ha stipulato il contratto di lavoro, come, tipicamente, nel caso di cessione del dipendente nell’ambito di un gruppo di imprese, o nel caso di temporaneo distacco presso altro imprenditore. 719 La disposizione ora citata, in verità, riferisce questo obbligo al periodo antecedente « l’avvio del periodo di sei mesi previsto dal comma 7o »; la conseguenza, a fronte della anticipazione dell’entrata in vigore della legge conseguente al d.l. n. 279/ 06 che inter alias ha modificando il termine di cui all’art. 23, comma 8o, sarebbe che l’attività di informazione si sarebbe dovuta concentrare nei mesi di novembre e di dicembre del 2006. Il mancato rispetto di tale diposizione, peraltro, può apparire irrilevante ove si consideri che l’oggetto della informazione (le « diverse scelte » possibili) costituisce oggetto di una specifica campagna informativa, in relazione alla quale l’art. 22 del decreto in commento predispone un apposito finanziamento, e che, in ogni caso, il clamore conseguente alla promulgazione del d.lgs. n. 252 dovrebbe valere quale comunicazione utile, per la stessa totalità dei lavoratori subordinati. Il fatto che il meccanismo si fondi su una precisa disposizione di legge, sembra impedire una applicazione delle norme che tutelano la genuinità della manifestazione di volontà nella conclusione dei contratti. Pare di poter dire, dunque, che la fattispecie si realizzi indipendentemente dalla prova di una effettiva conoscenza circa gli effetti del silenzio: in altri termini il lavoratore non è autorizzato ad invocare un errore circa il significato della sua omissione per poter vedere ribaltato l’effetto devolutivo al fondo, poiché deve presumersi juris et de jure la conoscenza delle condizioni che presiedono alla devoluzione tacita e, soprattutto, il novero delle scelte possibili. Più importante (e, per certi versi, assorbente) appare, peraltro, il rispetto della ulteriore previsione contenuta nel comma 8o dell’art. 8, là dove si stabilisce che: « trenta giorni prima della scadenza dei sei mesi utili ai fini del conferimento del t.f.r. maturando, il lavoratore che non abbia ancora manifestato alcuna volontà deve ricevere dal datore di lavoro le necessarie informazioni relative alla forma pensionistica complementare verso la quale il t.f.r. maturando è destinato alla scadenza del semestre ». In questa seconda ipotesi, dunque, l’informazione trasmessa non è generica (e dunque suscettibile di una azione sostitutiva ad opera di una campagna pubblicitaria pubblica), ma ha ad oggetto un dato diverso, e mutevole da una impresa all’altra, quale l’individuazione del fondo che beneficerà dei versamenti conseguenti al perfe- 720 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 zionarsi del meccanismo del conferimento tacito. La previsione ora riportata, apre un delicato problema, in relazione al suo mancato rispetto: ed infatti, se non si vuole ridurre il silenzio ad un mero dato fenomenico, si ripropone in questa (differente) ipotesi la questione della conoscenza degli effetti negoziali che derivano dalla mancata opposizione. A riguardo si potrebbe forse sottovalutare l’aspetto della incerta individuazione del soggetto cessionario, ritenendo che sia irrilevante la mancata conoscenza di quale sia il fondo beneficiario del conferimento, essendo sufficiente che, alla luce della possibilità di una successiva modifica attraverso l’esercizio della facoltà di « portare » la propria posizione individuale, il lavoratore sia consapevole di imprimere una diversa destinazione al t.f.r. attraverso la sua omissione. In verità, poiché la devoluzione tacita non può che beneficiare i fondi « chiusi », il principale pericolo a riguardo sembrerebbe provenire, più che da una richiesta individuale di restituzione dei ratei devoluti ai fondi, da un conflitto fra diversi fondi collettivi, intesi a rivendicare a sé il versamento dei contributi dovuti, attraverso la proposizione di azioni plurime. Si ipotizzi il caso di un accordo aziendale che individui un certo fondo come destinatario del conferimento tacito a danno del fondo di categoria: quid juris, nel caso in cui il datore ometta di effettuare la comunicazione e provveda comunque al versamento ad un fondo? E, parimenti, che conseguenze si produrranno nell’ipotesi in cui si comunichi la devoluzione ad un fondo diverso da quello che risulterebbe altrimenti dalla corretta applicazione dei criteri di cui al comma 7o, lett. b)? Il punto è, a tutta evidenza, assai delicato, poiché una risposta che non desse sufficiente rilievo ai vizi della comunicazione potrebbe finire con l’avallare abusi e palesi violazioni dei criteri legali, mentre, dall’altro canto, una risposta che consentisse la rivendica dei contributi finirebbe con generare problemi non indifferenti di equilibrio dei fondi, anche ad anni di distanza dal momento di esercizio tacito dell’opzione ( 85 ). ( 85 ) La prescrizione dei contributi è quinquennale, in conformità al disposto dell’art. 2948, n. 4, c.c.: in La questione per la quale la risposta è più agevole appare quella da ultimo formulata, nella quale sussista una indicazione errata circa il fondo beneficiario. In questa ipotesi, la strada ad eventuali azioni di rivendicazione pare sbarrata quando si tenga presente che il lavoratore ha comunque manifestato una volontà di segno inequivocabile quanto al destinatario dei conferimenti e che, a fronte della libertà di scelta individuale circa il fondo conferitario, una tale volontà è idonea ad imporsi alla diversa indicazione proveniente dalla fonte collettiva. Peraltro, la volontà individuale appare capace di imporsi alle fonti collettive non solo nel caso di una informazione viziata, ma altresì nell’ipotesi della mancata comunicazione non appena si consideri che un comportamento tacito produce i suoi effetti anche successivamente allo scadere del termine semestrale, seppure sulla base degli ordinari criteri di accertamento della volontà negoziale, alla stregua di una fattispecie di sanatoria di un negozio annullabile. In tal senso, anche ove l’informazione circa l’esatta destinazione dei ratei sia mancata, si dovrà ammettere la legittimità del conferimento, ove la destinazione del t.f.r. sia stata comunque, anche dopo il termine di scadenza dell’opzione, portata a conoscenza del lavoratore in maniera sufficientemente chiara (per es., mediante indicazione della trattenuta sulla busta paga, con la contestuale indicazione del fondo beneficiario, ovvero attraverso una informativa o una richiesta di dati proveniente da quest’ultimo) e non vi sia stata una tempestiva opposizione da parte del lavoratore. In questo senso, lo spazio lasciato dalla lett. a) del comma 7o alla autonomia individuale consente di dare spazio alle ordinarie regole relative alla manifestazione del consenso, che non troverebbero altrimenti applicazione nell’area del diritto del lavoro, a motivo della inderogabilità delle sue previsioni. Il riconoscimento di una opzione individuale apre, infatti, un varco nella consueta indisponibilità dei diritti, consentendo l’applicazione delle tecniche civilistiche in merito alla ricostruzione di una volontà negoziale manifestata per fatti concludenti. Ed identica soluzione dovrà applicarsi al caso tal senso v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano, cit., p. 157, ed ivi riff. alla giurisprudenza. La nuova disciplina della previdenza complementare in cui vi sia stato conferimento tacito al fondo pur in presenza di manifestazione, da parte del lavoratore, di volontà contraria alla devoluzione (che non abbia in concreto raggiunto il suo scopo). In tal caso, a fronte della espressa previsione della revocabilità della manifestazione contraria (comma 7o, lett. a), non può sussistere dubbio circa il significato da attribuire al comportamento successivo del lavoratore, ove possa senza dubbio ricostruirsi in termini di modifica tacita della volontà negoziale precedentemente espressa (perché, ad es., sia mancata una opposizione successiva in presenza di un prelievo in busta paga, o di una indicazione nel modello CUD, idoneamente qualificata o a fronte del sopraggiungere di una delle comunicazioni più sopra richiamate). Ovviamente una diversa risposta si dovrà dare nelle ipotesi, in cui, a fronte di una comunicazione carente o viziata, sia mancata una attività idonea a configurarsi (secondo le modalità poco più sopra illustrate) come sanatoria a posteriori della volontà tacitamente espressa: in tal caso, la mancata realizzazione di uno degli elementi della fattispecie rende invalida la devoluzione che sia stata eventualmente realizzata dal datore a beneficio di un fondo di categoria, legittimando l’azione di ripetizione delle somme. Analoga soluzione si deve dare alla ipotesi che si è lasciata per ultimo, nella quale, nell’area del conferimento espresso, il datore, erroneamente, non abbia provveduto al versamento al fondo indicato dal lavoratore (trattenendo le somme o versandole ad un fondo diverso da quello indicato al lavoratore), né abbia in alcun modo dato notizia al lavoratore che rivelasse il fondo destinatario del conferimento, rendendo così riconoscibile l’errore di fatto occorso. Anche qui si deve ammettere la possibilità di una rivendicazione reale dei ratei del t.f.r., con la precisazione che legittimato attivo non sarà solo il lavoratore, ma altresì il fondo beneficiario ( 86 ). ( 86 ) A garanzia di un rendimento non troppo lontano da quello assicurato dalle disposizioni del codice, il legislatore delegato, con previsione rivolta ai fondi multicomparto, stabilisce al comma 9o della disposizione in commento che l’investimento delle somme tacitamente conferite avvenga in forme « tali da garantire la restituzione del capitale e rendimenti 721 11. – Si discute se il sistema del silenzio assenso si sovrapponga alla tradizionale impostazione collettiva del fenomeno, presentandosi quindi come espressione di una volontà esclusivamente individuale, o se si tratti di una manifestazione da ricondurre comunque all’ambito del sistema delle fonti collettive, previste dalla originaria lettera del d.lgs. n 124. Il problema non assume solo rilievo in sé, ma anche nella prospettiva del concorso fra le diverse opzioni di cui alla lett. b del comma 7o, al fine di stabilire, in caso di mancata indicazione del fondo da parte del lavoratore (secondo l’ipotesi di cui alla lett. a), quale sia la forma che beneficerà del conferimento tacito del t.f.r. Nell’opinione di un importante autore, il silenzio-assenso non configurerebbe una adesione disposta dalla legge in modo indipendente dalle disposizioni di cui alla contrattazione collettiva ( 87 ). Secondo questa tesi, la tacita devoluzione del t.f.r. non sarebbe altro che una modalità individuale di adesione, collettivamente disposta, seppure condizionata al mancato dissenso espresso dal lavoratore entro il termine stabilito. Ed infatti, l’autonomia collettiva sarebbe l’unica fonte capace di disporre al proprio interno un’offerta di adesione suscettibile di perfezionarsi per effetto del mancato tempestivo dissenso, posto che la devoluzione al fondo di cui all’art. 9 (ora denominato « FONDINPS »), si contraddistingue per la sua natura tendenzialmente provvisoria (comma 3o disposiz. cit.). Di qui il rifiuto dell’idea che « il problema del concorso-conflitto tra contratti collettivi possa essere risolto sulla base del principio di libertà dell’adesione individuale ai fondi pensione » ( 88 ). In verità appare difficile collocare l’intervento del legislatore nell’ambito del sistema delle fonti collettive, che, al contrario, il d.lgs. n. 124 pro- comparabili, nei limiti previsti dalla normativa statale e comunitaria, al tasso di rivalutazione del t.f.r. ». ( 87 ) Una tale interpretazione, formulata in relazione alle versioni preparatorie che hanno preceduto l’emanazione del definitivo testo del decreto, si deve a Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, cit., p. 527; Id., I problemi giuridici delle fonti istitutive, in Oss. giur. Mefop n. 10/06; analogamente Sandulli, Il conferimento tacito e non, cit., p. 178. ( 88 ) Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere, cit., p. 529. 722 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 muoveva e rispettava. Il d.lgs. n. 252, infatti, fa venir meno il vincolo prima previsto (art. 8.2 d.lgs. n. 124) che condizionava ad una espressa previsione collettiva la devoluzione del t.f.r. alla previdenza complementare, di modo che l’utilizzo di tale elemento retributivo è ora consentito anche nel caso di un dissenso esplicito del datore. Per altro verso, la libertà di scelta che viene riconosciuta ai lavoratori che ancora non si siano iscritti ad alcuna forma complementare si riflette simmetricamente nel venir meno dei vincoli alla portabilità della posizione individuale, ora consentita per libera opzione del lavoratore e non solo nelle ipotesi del venir meno dei requisiti di adesione al fondo. In questo senso, nella prospettiva della adesione espressa, il legislatore si preoccupa anche di precisare che l’adesione alle forme pensionistiche complementari può avvenire anche « su base individuale » (artt. 12.2 e 13.4, d.lgs. n. 252/05). Non pare dubbio allora, a fronte della previsione in forza della quale « il conferimento del t.f.r. maturando alle forme pensionistiche complementari comporta l’adesione alle forme stesse » (così l’incipit del comma 7o), che la devoluzione dei ratei futuri del « trattamento » alle forme di previdenza complementare sia frutto di una manifestazione della volontà individuale di aderire al fondo ( 89 ). Il solo limite che sembra ( 89 ) Il legislatore non tiene conto del fatto che, nella prassi, non è infrequente la cessione del credito relativo al t.f.r., soprattutto a fini di garanzia: manca, in relazione, a questa ipotesi ogni previsione nel testo del decreto, anche se si può ipotizzare che, ove questa sia stata notificata al datore o comunque da questi accettata ex art. 1264, spetti al cessionario l’esercizio dell’opzione di cui al comma 7o, posto che l’atto di disposizione del credito del t.f.r. consegue un « immediato effetto traslativo » (così G. Santoro-Passarelli, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 65). Analoga soluzione sembra doversi ammettere per l’ipotesi in cui il credito abbia formato oggetto di pignoramento. Più complessa appare la situazione quando la cessione, anche ai sensi del d.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180 – le cui disposizioni sono state estese ai dipendenti delle « aziende private » (sic) dall’art. 1, comma 137o, l. 31 dicembre 2004, n. 311 – riguardi solo una quota, dovendosi a riguardo ipotizzare o la necessità di una volontà congiunta ed univoca o, l’esercizio di un diritto limitato ad una quota soltanto del credito. Per una ricostruzione esauriente delle problematiche derivare dalla contrattazione collettiva, in relazione alla individuazione del fondo beneficiario, quindi, è quello che discende dalla preventiva adesione, poiché, in tutte le altre ipotesi le indicazioni provenienti dalla contrattazione collettiva sono suscettibili di essere sovvertite dal singolo lavoratore, non appena questo abbia manifestato una volontà contraria. Viene meno, quindi, quella sorta di titolarità congiunta sul t.f.r., che derivava dalla sua condizione di essere sottratto alla disponibilità immediata del prestatore per rimanere invece in quella del datore, e che aveva caratterizzato da sempre le vicende dell’istituto, facendo sì che la riforma del 1982 fosse il frutto di una preventiva concertazione legislativa con le parti sociali ( 90 ). Per altro verso, ancora, si deve mettere in rilievo come, a fronte della sostanziale riserva di legge che la Costituzione non scritta riconosce alla contrattazione collettiva quanto alla determinazione dei livelli salariali minimi, il trattamento di fine rapporto sia un elemento retributivo disciplinato direttamente dalla legge, secondo una formula che, come è noto, ne fissa l’importo, in relazione al coacervo delle retribuzione corrisposta nel corso del rapporto lavorativo al prestatore. Seppure anche nella recente evoluzione normativa della disciplina della previdenza complementare siano rintracciabili numerosi momenti di concertazione fra il potere esecutivo e le parti sociali, la scelta, già anticipata dal legislatore della delega, di destinare il t.f.r. a finanziamento delle forme di previdenza complementare non sembra trovare, dunque, una radice collettiva, ma piuttosto nasce da una specifica opzione del collegate alla cessione del t.f.r., v. M. Corti, Insussistenza di limiti alla cessione del t.f.r., in Riv. it. dir. lav., 2003, II, p. 756 ss., in nota a Cass. 1o aprile 2003, n. 4930, nonché G. Santoro-Passarelli, Il trattamento, cit., p. 41 ss. Nel senso di riconoscere alla società cessionaria l’esercizio del diritto di riscatto, v. Trib. Milano 17 gennaio 2006, in Oss. giur. Mefop, n. 10/06, con nota critica di Mastantuono. ( 90 ) Sulle vicende evolutive del t.f.r., in generale, oltre alla opere di cui alla nt. 20, v. Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 2002, p. 392 ss., la ricostruzione offerta prevalentemente dalla dottrina è quella di un credito che diviene esigibile solo in presenza delle condizioni di legge: così M. Napoli, Occupazione e politica del lavoro, Milano, 1984. La nuova disciplina della previdenza complementare legislatore, che sulla scorta della legittimazione che promana dalla volontà popolare, esercita a pieno quel potere di regolazione del rapporto di lavoro che le norme della Costituzione e la tradizione legislativa gli conferiscono. L’enfasi (verrebbe da dire, la solennità) che promana dalla formulazione letterale del disposto di legge (« il lavoratore, può conferire l’intero importo del t.f.r. maturando ad una forma di previdenza complementare dallo stesso prescelta ») giustifica, dunque, in assenza di una plausibile limitazione ricavabile aliunde, l’interpretazione più piana della norma nel senso di un riconoscimento di una libertà di scelta che può esercitarsi anche in contrasto con il disposto collettivo che regola il rapporto di lavoro. Ed infatti, il contratto collettivo non produce, in questo specifico caso, alcun effetto vincolante nei confronti del singolo, che rimane libero di scegliere la f.p.c. cui conferire il t.f.r.: esso limita la sua efficacia nel completare il meccanismo legislativo, indicando il fondo beneficiario dei conferimenti in caso di silenzio del lavoratore. Il riconoscimento della libertà di scelta circa la sorte del credito da t.f.r. e in merito alla individuazione del fondo beneficiario, suggellata dall’ampio riconoscimento di un diritto alla portabilità, fa così emergere, seppure relativamente al solo conferimento del t.f.r., una dimensione individuale del tutto sconosciuta alla tradizione dei rapporti fra autonomia individuale e collettiva, poiché viene legislativamente sancito il prevalere delle manifestazioni individuali su quanto collettivamente pattuito. Il riconoscimento di una tale libertà, tuttavia, non segna una completa eclisse della dimensione collettiva. Una simile conclusione trova puntuale conforto non solo nelle previsioni della Legge fondamentale, ma altresì nella disciplina positivamente dettata dal d.lgs. n. 252. Quanto al primo aspetto, è la libertà costituzionalmente sancita della previdenza privata che, come più sopra meglio si è detto, impedisce che il fenomeno possa astrarsi dal momento collettivo che lo ha generato. Sul piano della disciplina di legge, per altro verso, si può ritenere che non vi sia piena corrispondenza fra la libertà di scelta della forma cui conferire il t.f.r. di cui all’art. 8, comma 7o e la « portabilità » della posizione individuale, poiché quest’ultima è, invece, riconosciuta dall’art. 14, comma 6o, d.lgs. n. 252 solo « nei limiti e secondo le modalità stabilite dai 723 contratti o accordi collettivi, anche aziendali » Congruentemente, mentre il finanziamento che si realizzi attraverso la devoluzione del t.f.r. segue logiche sue proprie, la disciplina della contribuzione che rimane a carico del datore di lavoro appare ancora governata dalle fonti collettive, di modo che spetterà alle fonti istitutive non solo dar vita alla obbligazione contributiva, ma altresì di governarla, potendone disporre appieno, in quanto manifestazione di una volontà collettiva. 12. – In relazione alla libertà di scelta della forma cui conferire il t.f.r. ( 91 ), dunque, il legislatore detta una norma di legge che si sovrappone all’autonomia collettiva e non sembra trovare limiti in essa; viceversa, ove la previsione del decreto di riforma si imbatta nell’autonomia collettiva i limiti che si incontrano sono quelli di sempre, che discendono dalla destinazione a finanziamento della previdenza complementare di una attribuzione patrimoniale eventuale, nella misura determinata collettivamente. Il legislatore, invero, prende in considerazione l’aspetto della ulteriore contribuzione ai fondi quando, al comma 10o della disposizione ora in commento, si trova a regolare gli effetti conseguenti alla adesione tacita. A riguardo si prevede che: « l’adesione a una forma pensionistica realizzata tramite il solo conferimento esplicito o tacito del t.f.r. non comporta l’obbligo della contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro ». Così si sancisce l’esistenza di una sorta di doppio canale di finanziamento, secondo previsioni di fonte contrattuale (versamenti datoriali e del lavoratore, oltre eventualmente una parte o l’intero t.f.r.) o legale (limitata al t.f.r., secondo le indicazioni del comma 7o). Si aggiunge, poi, che « il lavoratore può decidere, tuttavia, di destinare una parte della retribuzione alla forma pensionistica prescelta in modo autonomo ed anche in assenza di accordi collettivi » (cors. mio). Qui può riprendere pie( 91 ) Tale libertà si prolunga nella facoltà di individuare, nell’ambito dei fondi multicomparto, la destinazione di investimento delle somme, ai sensi del comma 13o dell’art. in commento. Tale facoltà appare riconosciuta in via generale dalla disposizione ora cit. e, dunque, anche in relazione ai contributi dovuti in forza delle previsioni di cui alle fonti istitutive collettive. 724 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 namente vigore, in assenza di limiti di derivazione contrattuale presenti nelle fonti istitutive, il principio della libertà di determinazione della contribuzione al fondo, di cui al precedente comma 2o. Ed infatti, le forme che prescindono dalla presenza di « accordi collettivi », altro non sono se non i fondi pensione aperti, realizzati direttamente dagli enti gestori, secondo le previsioni di cui all’art. 12, o le forme individuali di cui all’art. 13, comma 1o, lett. b, istituite da imprese assicurative. A tal fine, il comma ora in esame prevede che il lavoratore subordinato, che abbia deciso di conferire il proprio t.f.r., comunichi al proprio datore di lavoro l’entità del contributo e il fondo di destinazione, gravando così quest’ultimo dell’onere di provvedere ad effettuare la relativa trattenuta e il conseguente versamento. Emerge, però, a questo punto il contrasto fra la radice legale del fenomeno contributivo, relativo agli accantonamenti annui del t.f.r., e quella contrattuale, connessa alle altre ordinarie forme di contribuzione realizzate sulla scorta delle disposizioni contrattuali ( 92 ): ed infatti il legislatore, dopo aver riconosciuto la libertà del singolo di individuare il fondo cui conferire il t.f.r., nella prospettiva di concentrare la contribuzione complementare verso una sola forma, si trova a risolvere il problema conseguente al fatto che l’eventuale versamento anche delle somme previste dal contratto collettivo può avvenire solo in conformità al regolamento pattizio che quegli elementi retributivi prevede. E dunque, apparirebbe in contrasto con il disposto collettivo riconoscere la possibilità di convogliare verso la forma, scelta dal lavoratore, il finanziamento alla previdenza complementare, collettivamente indirizzato invece verso un diverso fondo (di categoria o territoriale), nella misura in cui il complessivo trattamento retributivo è frutto di un atto inscindibile, che, nel determinare le condizioni dello scambio fra retribuzione e lavoro, definisce modalità e importo del pagamento della retribuzione. A riguardo il legislatore sceglie, con chiarezza, in un’altra disposizione del decreto di riforma, la soluzione di rispettare il disposto colletti- ( 92 ) Analogamente, ma con diverso sviluppo logico, Vianello, Autonomia collettiva e previdenza complementare, cit., p. 418. vo, rinunziando a sganciare dalla fonte collettiva, che le ha istituite, le voci retributive eventualmente destinate dalla contrattazione collettiva stessa alla previdenza complementare. Così nella disposizione che disciplina la portabilità della posizione individuale (art. 14, comma 7o, d.lgs. n. 252), si riconosce il diritto al versamento del contributo a carico del datore solo « nei limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi ». Una soluzione diversa, del resto, si sarebbe scontrata, secondo la migliore dottrina, con i vincoli costituzionali posti a garanzia delle manifestazioni dell’autonomia contrattuale ( 93 ). La soluzione adottata dal legislatore al comma 10o dell’art. 8, se ben interpretata, appare in linea con la scelta di rispettare il prodotto della autonomia collettiva. Infatti nel caso in cui il lavoratore voglia incrementare oltre i ratei del t.f.r. la contribuzione alle forme individuali di cui agli artt. 12 e 13, « il datore può a sua volta decidere, pur in assenza di accordi collettivi, anche aziendali, di contribuire alla forma pensionistica alla quale il lavoratore ha già aderito, ovvero a quella prescelta in base al citato accordo ». In questa ultima ipotesi, dunque, non sussiste alcun vincolo derivante dalla contrattazione collettiva circa la destinazione di eventuali somme aggiuntive a finanziamento di un certo fondo: un tale vincolo sembra discendere piuttosto da un accordo individuale (cui pare riferirsi il legislatore quando, riferendosi ad un « citato accordo », sembra qualificare come negozio tacito quello risultante dall’incontro fra la comunicazione del lavoratore circa la destinazione di una parte della sua retribuzione e la successiva « decisione » unilaterale del datore di contribuire anch’egli al finanziamento di tale fondo). Al contrario, qualora sussista un accordo collettivo che individua il fondo destinatario di tali emolumenti, il legislatore della riforma conferma la validità dei vincoli da esso derivanti, riproducendo la clausola più sopra richiamata in relazione alle previsioni dettate in tema di ( 93 ) Cfr. Tursi, La previdenza pensionistica privata, cit., p. 133 ss.; Id., La terza riforma, cit., p. 538; Pandolfo, Una prima interpretazione, cit., p. 1257 ss., in relazione all’analogo problema derivante dal riconoscimento della portabilità della posizione pensionistica. La nuova disciplina della previdenza complementare portabilità: « Nel caso in cui il lavoratore intenda contribuire alla forma pensionistica complementare e qualora abbia diritto ad un contributo del datore di lavoro in base ad accordi collettivi, anche aziendali, detto contributo affluisce alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai predetti contratti o accordi » (cors. mio) ( 94 ). Anche nelle disposizioni dell’articolo in commento, quindi, si conferma il ruolo del contratto collettivo quale mezzo attraverso il quale conformare l’oggetto e le modalità dell’obbligazione contributiva del datore, con l’ulteriore avvertenza che una interpretazione di diverso segno, che intendesse cioè surrettiziamente riconoscere la piena devoluzione anche dei contributi aggiuntivi previsti dalle fonti istitutive a fronte della scelta operata dal lavoratore per una forma diversa da quella identificata al tavolo della negoziazione collettiva, finirebbe non solo per legittimare un vulnus alla complessiva impostazione sino a qui osservata dal legislatore, ma imprimerebbe al fenomeno una impronta pubblicistica, eversiva della sua attuale natura contrattuale. In alcune ipotesi, tuttavia, può darsi il caso di una duplice iscrizione del lavoratore a distinte forme complementari. Non si intende qui richiamare l’ipotesi del lavoratore a tempo parziale, che potrà esercitare due volte (e anche in senso opposto) l’opzione di cui al comma 7o, ma piuttosto il caso di quanti abbiano aderito in passato ad una forma pensionistica individuale, in assenza di un fondo di categoria o per il venir meno dei requisito di appartenenza, provvedendo al versamento di un parte della propria retribuzione: nei confronti di costoro la contrattazione collettiva potrebbe, sopravvenendo, destinare il t.f.r. ad una diversa forma di previdenza complementare, di modo che in caso di omessa opposizione da parte del lavoratore, il t.f.r. di costui finirebbe per essere tacitamente conferito al fondo individuato in via negoziale ( 95 ). ( 94 ) Così Persiani, Osservazioni sulla libera circolazione, cit., p. 1486 ss. ( 95 ) Sulla questione della pluralità di adesioni a f.p.c. v. soprattutto Zampini, La previdenza comple- 725 13. – Nel caso di devoluzione tacita del t.f.r., le disposizioni legislative si preoccupano di evitare che la scelta del fondo beneficiario dei conferimenti venga lasciata al datore di lavoro. In questo senso la lett. b del comma 7o dell’art. 8 del d.lgs. in commento si preoccupa di escludere l’applicazione del criterio della libertà di scelta, cercando di definire una serie di regole, in applicazione delle quali al silenzio del lavoratore possa attribuirsi un significato concludente circa l’identificazione del soggetto che sia destinatario dei conferimenti. In verità, la gerarchia fra i diversi criteri non appare sempre chiara ( 96 ): in un primo momento si richiama la disposizione collettiva, anche territoriale, disponendo tuttavia la prevalenza di un eventuale accordo aziendale sopraggiunto ( 97 ). Il richiamo ai fondi territoriali non può che intendersi come recettivo del sistema nazionale della contrattazione collettiva sino ad ora instauratosi, di modo che il conferimento del t.f.r. a tali fondi potrà darsi solo nella misura in cui la contrattazione collettiva consenta un simile risultato ( 98 ). Illogico apparirebbe, infatti, riscontrare nella confusa formulazione della nor- mentare, cit., p. 120 ss. nonché Vianello, Autonomia collettiva e previdenza complementare, cit., p. 294. ( 96 ) Sul problema, nel vigore delle disposizioni precedenti, v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano, cit., spec. cap. II, e già M. Grandi, Previdenza integrativa e previdenza privata, in Dir. lav., 1990, 1, p. 236; in relazione al testo del decreto in commento v. A. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, p. 189, nonché ancora Tursi, Le fonti istitutive nella legge di riforma della previdenza complementare, in Newsletter Mefop, n. 25, aprile 2006. ( 97 ) Che l’accordo debba essere stipulato nell’ambito del semestre di opzione pare evidente poiché ci si riferisce ad esso come ad un accordo che « sia intervenuto ». Peraltro si deve osservare come, in disparte dalle previsioni di legge, la contrattazione collettiva nazionale tende in generale a mantenere in vita i fondi aziendali già esistenti, al momento della istituzione di un fondo nazionale di categoria. ( 98 ) Attualmente, infatti, in presenza di un fondo di categoria, la devoluzione al fondo regionale avviene solo in forza di una apposita clausola contrattuale che permetta la deroga: così il Laborfond della regione Trentino Alto Adige. 726 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 ma l’introduzione di un precetto che, scardinando le basi del diritto sindacale vigente, consenta una così palese violazione delle disposizioni negoziali promananti dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’impresa ( 99 ). Né deve stupire la prevalenza, su tutte le fonti negoziali, dell’accordo aziendale « intervenuto »: si tratta di una soluzione, peraltro conforme al criterio di specialità e di posteriorità, già praticata per dirimere i complessi conflitti che derivano in caso di fusione di più realtà organizzative e, comunque, di cessione di un ramo d’azienda. Al pari che nella l. n. 428/90, il legislatore omette, però, di individuare i criteri che sovraintendono alla efficacia di tali accordi, affidandosi alla tradizionale informalità delle relazioni sindacali italiane e alla giurisprudenza formatasi in relazione alle numerose ipotesi analoghe (si pensi all’accordo di cui all’art. 5 l. n. 223, o agli altri casi di contratti c.dd. « gestionali »). Del resto, a differenza che negli altri casi più sopra richiamati, non sembra che nella ipotesi ora in esame sussista una necessità legislativa di estendere l’efficacia dell’accordo anche ai lavoratori che non erano rappresentati dalle organizzazioni stipulanti: oggetto dell’accordo è, infatti, la individuazione della forma previdenziale beneficiaria dei conferimenti taciti, di modo che la pattuizione costituirà una proposta negoziale rivolta al singolo lavoratore, che produrrà effetti solo a condizione che questi ometta di manifestare il suo dissenso o di esercitare l’opzione di cui alla lettera a), scegliendo autonomamente il fondo destinatario Né peraltro un diverso criterio gerarchico pare potersi ricavare dal disposto di cui al n. 2 della stessa lettera ora citata: il principio per cui la devoluzione avvenga a beneficio della forma « alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda », infatti, pare ritagliato per l’ipotesi, per nulla infrequente, in cui nell’ambito di una stessa realtà imprenditoriale convivano più fondi, in conseguenza della concentrazione operata attraverso l’incorporazione di più imprese ( 100 ). ( 99 ) Per tutti Tursi, La terza riforma, cit., p. 535. ( 100 ) Come è noto, nel settore bancario, nell’ambito di realtà oggi unitarie, sussistono spesso più fondi (si ha notizia di una impresa i cui dipendenti si distribuiscono su 27 diversi fondi). Del resto, ove tale riferimento non fosse rivolto a simili ipotesi, esso sarebbe privo di senso a mente dei limiti prima previsti dal d.lgs. n. 124 per l’adesione individuale ad un fondo complementare; né pare possibile leggere la norma nel senso che essa imponga una rilevazione quotidiana delle adesioni individuali sopravvenute a seguito dell’entrata in vigore della disciplina ora in commento, poiché si raggiungerebbero risultati del tutto incongruenti, nel caso di un « testa a testa » fra più fondi. Per lo stesso motivo, non pare illogico ritenere che, anche per l’ipotesi della pluralità di fondi esistenti in forza di operazioni di fusione, il riferimento all’entità numerica degli iscritti debba riferirsi la momento in cui per la prima volta l’opzione deve essere esercitata, di modo che tutte le adesioni sopravvenute ai sensi del comma 7o, lett. a, andrebbero per così dire contabilizzate al momento di scadenza del termine previsto per l’esercizio dell’opzione (e cioè al 30 giugno del 2007). La devoluzione al fondo costituito ai sensi dell’art. 9 presso l’INPS (« FONDINPS ») trova applicazione per le realtà, ancora molto numerose, in cui non sussiste alcun accordo, né di categoria, né di altro livello, che individui un fondo di previdenza complementare. Ciò significa, in altri termini, che per tutte le imprese che applichino, senza riserva alcuna, ad es. il CCNL della chimica, il conferimento tacito avverrà a beneficio del Fonchim e, parimenti, che per tutti i rapporti di lavoro regolati dal CCNL metalmeccanici, i conferimenti confluiranno al fondo Cometa. Restano da esaminare, infine, le conseguenze del mancato versamento dei ratei. Per l’ipotesi di una loro devoluzione al fondo di cui al comma 755o l. n. 296/06, il comma 756o riconosce all’INPS il potere di procedere anche coattivamente alla riscossione di tali somme, al pari di quanto è previsto per i contributi obbligatori. Non è facile, invece, spendere una parola certa sulla legittimazione individuale alla proposizione di una azione diretta ad ottenere il versamento al « Fondinps » dei ratei « maturandi »: la mancata perdita di disponibilità delle quote di t.f.r., infatti, non dovrebbe comportare un danno in sé per il lavoratore, quando il datore provveda direttamente al versamento dell’importo dovuto ai sensi dell’art. 2120 c.c. In tal senso, sia che il lavoratore chieda il versamento La nuova disciplina della previdenza complementare delle somme a titolo di t.f.r. direttamente a datore, sia che agisca per il riconoscimento del danno conseguente al mancato versamento, non otterrà altro che una medesima somma (e nessuna differenza può derivare, a mente dell’art. 2116, dal diverso termine di prescrizione) ( 101 ). Parimenti difficile, infine, è la risposta al quesito circa la legittimità di una distribuzione dei ratei « maturandi » di t.f.r. ai lavoratori: anche in questa ipotesi, laddove non si ritenga sussistente nell’ambito della norma di cui all’art. 2120 c.c. un obbligo a realizzare forme di risparmio coattivo, si potrebbe ritenere condizione di miglior favore quella dell’anticipo generalizzato e sistematico, ai sensi dell’ult. comma della disposizione ora richiamata. La previsione della legge finanziaria, che parifica agli ordinari contributi quanto dovuto al « Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto », lascia però intendere che sussista un interesse pubblico all’accantonamento presso la Tesoreria, di modo che un simile comportamento risulterebbe radicalmente vietato, non liberando il datore dall’obbligo del versamento ( 102 ). 14. – Il legislatore espressamente esclude al comma 6o dell’art. 23 l’applicazione della nuova normativa (e dunque anche del meccanismo del conferimento tacito) ai lavoratori pubblici, fin tanto che non si realizzi un sistema di incentivazioni a posticipare la pensione analogo a quello ( 101 ) L’assimilazione dei versamenti al fondo ai contributi sembrerebbe implicare che si applichi in questo caso ai primi il termine di prescrizione proprio dei secondi, secondo le disposizioni della l. n. 335/95, art. 3, commi 9o-11o. ( 102 ) In questo senso, si deve sottolineare come l’art. 2 del d.m. 30 gennaio 2007, nel disciplinare le anticipazioni richiami solo l’art. 2120 c.c., senza far cenno alle eventuali disposizioni di miglior favore previste dalla contrattazione collettiva. 727 di cui alla l. n. 243/04: si tratta, con tutta evidenza, di una semplice dichiarazione di intenti priva di ogni effetto vincolante e non di una vera e propria condizione sospensiva, posto che l’intervento legislativo successivo potrà disciplinare senza alcun limite la materia. Come più sopra si è ricordato, il sistema prevede il mantenimento delle indennità previgenti, in tutti i casi in cui i lavoratori non abbiano optato per l’applicazione delle disposizioni in tema di t.f.r. Ove tale opzione sia stata esercitata, però, la legge e le fonti collettive di cui al d.lgs. n. 165 hanno previsto la devoluzione del t.f.r. ai fondi di previdenza complementare costituiti per i singoli comparti. Pare, allora, di poter dire che, anche ove si facesse luogo alla abrogazione della eccettuazione di cui al comma 6o, la norma in commento non avrebbe comunque alcun rilievo per i dipendenti pubblici: infatti, o si applicherebbero ancora le disposizioni più antiche, e allora nulla vi sarebbe da conferire, o si è già realizzato su base individuale il passaggio al t.f.r., e allora – parimenti – nulla vi sarebbe da conferire in via ulteriore. Il conferimento, quindi, potrebbe interessare solo quei lavoratori che, essendo stati assunti a tempo indeterminato dal 1o gennaio 2001, si vedono integralmente applicate la disposizioni di diritto comune. Per gli altri, invece, la devoluzione delle indennità relative alla fine del rapporto potrebbe avvenire solo al prezzo di una anticipazione da parte del datore pubblico, rivolta a mettere a disposizione dei fondi somme che, attualmente, non formano neanche oggetto di accantonamento contabile (di modo che le note ristrettezze di bilancio che gravano sul settore pubblico hanno suggerito fino ad ora un diverso criterio per il versamento di tali somme: v. supra, par. 3). Vincenzo Ferrante 728 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Art. 9. (Istituzione e disciplina della forma pensionistica complementare residuale presso l’Inps) 1. Presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) è costituita la forma pensionistica complementare a contribuzione definita prevista dall’articolo 1, comma 2, lettera e), n. 7), della legge 23 agosto 2004, n. 243, alla quale affluiscono le quote di Tfr maturando nell’ipotesi prevista dall’articolo 8, comma 7, lettera b), n. 3. Tale forma pensionistica è integralmente disciplinata dalle norme del presente decreto. 2. La forma pensionistica di cui al presente articolo è amministrata da un comitato dove è assicurata la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, secondo un criterio di pariteticità. I membri sono nominati dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali e restano in carica per quattro anni. I membri del comitato devono possedere i requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza stabiliti con decreto di cui all’articolo 4, comma 3. 3. La posizione individuale costituita presso la forma pensionistica di cui al presente articolo può essere trasferita, su richiesta del lavoratore, anche prima del termine di cui all’articolo 14, comma 6, ad altra forma pensionistica dallo stesso prescelta. L’ibrida natura del fondo complementare INPS Sommario (art. 9): 1. La complementarietà residuale pubblica. – 2. La natura privatistica. – 3. La natura pubblicistica. – 4. La ratio legis e limiti all’integrale regolazione. – 5. Il comitato amministratore. – 6. Conclusioni. 1. – Nell’assetto normativo previgente era implicitamente esclusa la compartecipazione degli enti previdenziali nel sistema di previdenza complementare. Era solo consentita una limitata facoltà d’intervento tramite convenzione con i fondi complementari operanti ( 1 ). Tale intervento era tuttavia sempre limitato ad un piano squisitamente tecnico, mantenendosi un generale ed implicito divieto d’intervento diretto finanziario o assicurativo ( 2 ). ( 1 ) Art. 6, comma 1o bis e 1o ter, d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 come novellato dall’art. 3 l. 8 agosto 1995, n. 335 e modificato dall’art. 58 l. 17 maggio 1999, n. 1441. ( 2 ) Così anche Casillo, La gestione del patrimonio dei fondi di previdenza complementare, in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di Ferraro, Milano, 2000, p. 205 ss. Per l’A. la gestione assicurativa era implicitamente esclusa dalla mancata estensione della facoltà di convenzione con l’ente per l’attività di erogazione delle rendite, limitata alle sole imprese assicuratrici. La gestione finanziaria era altresì esclusa poiché la legge consentiva la sola acquisizione di partecipazioni nel capitale dei soggetti gestori ed escludeva, a contrario, una diretta gestione. Le ragioni erano evidenti: l’intervento diretto dell’ente previdenziale avrebbe svilito il carattere autonomo e complementare di tale forma di previdenza. Si sarebbe, in altre parole, implementata una forma di previdenza parallela su base volontaria, sovrapposta alle forme di integrazione facoltativa della contribuzione obbligatoria ( 3 ). ( 3 ) La dottrina ha variamente spiegato la limitazione dell’intervento pubblico: per Mazziotti, Destinatari, in Cinelli (a cura di), Disciplina delle forme pensionistiche complementari. Commentario, in questa Rivista, 1995, p. 182 era pericoloso affidare la gestione di un fondo a capitalizzazione ad un soggetto gestore di una gestione a ripartizione; alcuni autori hanno evidenziato l’intenzione di evitare un effetto distorsivo della concorrenza, anche in ragione della capillare diffusione territoriale delle strutture amministrative dell’Ente (per Mantucci, Art. 6, in Cinelli [a cura di], Disciplina delle forme pensionistiche, op. cit., p. 194), ovvero per la possibilità di gestione in deficit di bilancio di questo (Vianello, Modifiche ed integrazione al d.lgs. n. 124/93, in Cester [a cura di], La riforma del sistema pensionistico, Torino, 1995, p. 437; per Manghetti, La vigilanza sulla gestione dei fondi pensione, in Bancaria, 1993, 12, p. 67 era insufficiente la sola separazione contabile ai fini della garanzia di tutela dei contribuenti del fondo complementare. Si deve ricordare che nel disegno di legge originario dal quale derivò la pregressa normazione era prevista la possibilità di intervento diretto. Il legi- La nuova disciplina della previdenza complementare La sfavorevole considerazione legislativa nei confronti di una previdenza complementare pubblica permane inalterata anche nella novella in commento, che pure introduce il fondo residuale ( 4 ) affidato al principale attore pubblico della previdenza obbligatoria. La ragione ultima della previsione appare essere costituita dalla necessità di consentire al destinatario della tutela previdenziale la possibilità di fruire della tutela complementare in caso di insufficienza o incompatibilità dei fondi sussistenti. Si vuole così evitare di rischiare di vanificare l’effetto di massimizzazione delle adesioni al sistema della previdenza complementare ( 5 ). La residualità del fondo istituito presso l’INPS traspare con evidenza dalla norma. La rubrica così appella espressamente il fondo e la lettera ne condiziona l’operatività alla sola ipotesi limite nella quale la contribuzione del lavoratore silente non trova altrimenti sfogo verso slatore si pentì durante l’approvazione. Per taluni AA. ci fu un percorso involutivo della norma (Casillo, op. cit., p. 206). ( 4 ) Denominato ufficialmente « Fondo complementare INPS » dal decreto interministeriale 30 gennaio 2007. Stranamente la denominazione non ossequia all’obbligo legislativo: « di marchiare la forma pensionistica complementare » con una denominazione che contenga l’indicazione di « fondo pensione » (in tal senso Bollani, sub art. 4, in questo Commentario). ( 5 ) Pandolfo, Una prima interpretazione della nuova legge in tema di pensioni complementari, con qualche (utile?) indicazione per il legislatore delegato, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, 2, pp. 1235 ss. Sembra all’A. che la legge imponga il conferimento del trattamento di fine rapporto. Nel senso dell’obbligatorietà, non legislativa ma negoziale – per il tramite di un’adesione tacita condizionata sospensivamente al mancato tempestivo dissenso – anche Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, ivi, 2005, 2, p. 521 ss. Per quest’ultimo il fondo residuale INPS è dovuto « all’esigenza di far viaggiare il conferimento del t.f.r. oltre il raggio d’azione delle fonti negoziali ». Una finalità simile era ravvisata anche nella previsione dei fondi aperti il cui scopo principale per Candian, I fondi pensione, Milano, 1998, p. 157 sembra proprio quello di consentire « di includere, nel contributo da versarsi al fondo oltre le quote a carico del lavoratore, se dipendente, anche quelle a carico del datore di lavoro, nonché il trattamento di fine rapporto ». 729 fondi complementari privati ( 6 ). Si tutelano così le esigenze di sopravvivenza dei fondi privati che non possono godere delle ampie economie di scala di cui gode l’Istituto pubblico e che dunque non riuscirebbero a mantenere una competitività accettabile. Il punto è importante. Il Fondo residuale non entra in concorrenza con i fondi privati ma rappresenta solo una esigenza di chiusura del sistema, paventandosi ipotesi limite nelle quali taluni lavoratori non sono coperti da fondi complementari all’uopo istituiti ( 7 ). In altre parole il beneficiario della tutela complementare non ha facoltà di aderire al Fondo pubblico, che dunque non rischia di stornare clientela ai fondi privati. La confluenza nel Fondo residuale è una mera evenienza, scissa da qualunque aspetto volitivo del lavoratore. L’evidenza della residualità è inoltre confermata dall’immediata portabilità della posizione del lavoratore non optante ( 8 ). A tutela dell’equilibrio finanziario dei fondi complementari è previsto un termine di durata minima di permanenza nella forma pensionistica prescelta. La portabilità della posizione previdenziale è, infatti, sottoposta ad un termine iniziale biennale il cui decorso ne permette il concreto esercizio ( 9 ). Tale previsione è invece oggetto di espressa deroga per il caso del fondo residuale INPS che non ha diritto di godere di un termine di durata minima dell’investimento acquisito, ma dovrà ( 6 ) Art. 8, comma 7o, lett. b), n. 1 e 2, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. ( 7 ) Le esigenze di tutela della concorrenza vietano all’INPS, invece, di gestire direttamente fondi pensione sul mercato, ovvero anche di partecipare al controllo di gestori privati (per la mancata riproposizione della facoltà prevista nel d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124). In tal senso si esprime anche Vianello, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 215, per il quale: « (...) proprio perché espressamente definita residuale impedisce che gli enti di previdenza obbligatoria possano assumere un ruolo attivo e paritario, collocandosi sullo stesso piano degli altri soggetti abilitati ». ( 8 ) Sulla ragione della quale, nonché con l’individuazione dei presupposti di matrice comunitaria e costituzionale, v., efficacemente, Pallini, infra sub art. 14. ( 9 ) Tale prescrizione è diretta ad evitare comportamenti di market timing, quindi speculativi. Così, Huck, Le strategie di investimento dei fondi pensione, in Aa.Vv., La gestione dei fondi pensione, Roma, 1998, p. 151 ss., in particolare p. 172. 730 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 procedere immediatamente al trasferimento richiesto dal lavoratore ( 10 ). Una siffatta contingenza influenzerà certamente le politiche di investimento – mantenendole su poco speculative linee liquide – per permettere al Fondo di fare fronte ad una inaspettata e generale richiesta di trasferimento. Tale contingenza, dunque, pone un ulteriore freno all’investimento del fondo residuale, già soggetto – in quanto finanziato tramite il conferimento tacito del t.f.r. – ai limiti della « linea a contenuto più prudenziale » ( 11 ). La residualità del Fondo appare confermata anche dall’integrale rinvio alla disciplina del decreto. La previsione in parola risolve un dubbio interpretativo sul quale la dottrina si è a lungo interrogata. Era parso che la legge di ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale consentisse all’ente pubblico la gestione e la costituzione di forme pensionistiche complementari ( 12 ). Tale conclusione era stata rifuggita dai principali commentatori sulla base della natura programmatica della norma in parola: essa mira soltanto a consentire e disciplinare l’operatività amministrativa nel caso di una eventuale e successiva concessione legislativa ( 13 ). L’istituzione del Fondo residuale fa re- ( 10 ) L’art. 8 del d.m. 30 gennaio 2007, in attuazione della previsione normativa, delimita la facoltà di immediata portabilità statuendo che sia possibile solo « dopo che sia trascorso almeno un anno dall’adesione ». Il portato regolamentare è tuttavia soggetto ad una rilevante interpretazione restrittiva ad opera delle istruzioni COVIP (deliberazione 21 marzo 2007) ove è chiarito che il limite annuale non opera se non sul piano contabile relativo al trasferimento del montante contributivo già maturato, lasciando inalterata la facoltà di immediato trasferimento della posizione contributiva maturanda. ( 11 ) Art. 8, comma 9o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. ( 12 ) Art. 1, comma 3o, l. 9 marzo 1989, n. 88: « Tra gli scopi istituzionali dell’Istituto rientra anche la gestione di forme di previdenza integrativa nell’ambito delle disposizioni generali derivanti da leggi o regolamenti ». ( 13 ) Per Zampini, La previdenza complementare, Padova, 2004, p. 102 « dell’attuale operatività in parte qua delle norme del 1989 è lecito dubitare; esse sembrano piuttosto doversi ragionevolmente ritener superate dall’evoluzione del quadro legislativo. Si è ricordato, infatti, che alle disposizioni della l. n. 88/89 “è stata sempre attribuita una funzione preventiva di ipoteca sulla legislazione futura e non un cuperare alla norma programmatica un significato direttamente operativo, consentendo all’Istituto di agire in via amministrativa per la costituzione del fondo. Con lo stabilire un rinvio « integrale » al decreto, però, l’INPS sarebbe stato inibito all’uso dei suoi ordinari poteri di imperio pubblicistici. Il punto è importante. La gestione del fondo complementare, pur potendo essere in linea astratta riconducibile all’attività « istituzionale », è, invece, nel caso concreto, resa estranea all’attività pubblicistica dell’ente. Il legislatore del 2005, comprendendo le preoccupazioni della dottrina sugli aspetti lesivi della competizione concorrenziale, avrebbe « sterilizzato » la previsione del 1989 che, presa di per sé, permette una gestione pubblicisticamente orientata del fondo complementare pubblico. Da tale assunto la opzione ermeneutica assolutamente dominante ritiene che il fondo residuale pubblico operi come una specie di « corpo estraneo » all’interno della tecnostruttura operativa dell’INPS. L’ente previdenziale, in altre parole, sarebbe un mero « assegnatario » delle competenze sul fondo che, tuttavia, non sarebbe ascrivibile e comparabile alle altre gestioni obbligatorie poste in capo allo stesso. Mentre queste ultime sono sottoposte ad una precisa regolazione pubblicistica, il fondo residuale sarebbe soggetto esclusivamente alla disciplina privatistica contenuta nel decreto, di talché la gestione da parte dell’Istituto pubblico sarebbe meramente incidentale. 2. – Ciononostante è ammissibile anche una diversa esegesi. Pur assumendo una « volontarietà assistita » ( 14 ) nell’adesione alle forme carattere immediatamente operativo” » (così Vianello, op. cit.; conforme Boer, Il ruolo dei gestori della previdenza obbligatoria nella previdenza integrativa, in Inpdap, 1993, p. 252). Le norme della 88 attendevano una esplicazione nel d.lgs. n. 124/93: il silenzio « non può non produrre un effetto sterilizzatore » (Vianello, 1995, op. ult. cit.) sulle enunciazioni programmatiche della legge di riforma dell’Istituto. ( 14 ) La piena ed assoluta libertà di adesione non opera su un piano esclusivamente individuale, essendo mediata dalla preminente volontà collettiva. V. nt. n. 5 e Pessi, La collocazione funzionale delle recenti innovazioni legislative in materia di previdenza complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in Ferraro, op. cit., per il quale la previsione collettiva è comunque un onere e non un obbligo per il presta- La nuova disciplina della previdenza complementare complementari, deve comunque chiarirsi se il tipo di funzione gestoria effettuata dall’INPS goda di facoltà di imperio pubblicistiche ovvero se sia riconducibile a mera attività iure privatorum. La lettera normativa rinvia il fondo residuale alla « integrale » alla regolazione endodecretale. Tre motivi concorrenti militano in senso di escludere che l’avverbio « integralmente » possa essere ritenuto sinonimico di « esclusivamente », nel senso che il richiamo alla disciplina del decreto non deve ritenersi alternativa ad una concorrente operatività delle norme pubblicistiche che regolano l’attività dell’INPS. In primo luogo deve sottolinearsi che, come cennato nel paragrafo che precede, la gestione di forme pensionistiche complementari rientra nell’alveo delle competenze pubblicistiche conferite dalla legge istitutiva nei confronti dell’INPS. Nel nuovo assetto normativo la previdenza complementare residuale pubblica è regolata dal combinato disposto tra la norma in commento e la già ricordata norma facultante contenuta nella legge di ristrutturazione dell’Istituto ( 15 ). In altre parole la novella rende operativa la norma programmatica che consente all’ente previdenziale la gestione di un fondo complementare. Orbene, se è vero che la norma programmatica impone un regime di separatezza contabile ( 16 ), è altrettanto vero che nel combinato non si evidenzia un obbligo di gestione privatistica. Invero si evince il contrario. La facoltà di esercizio della previdenza complementare trova la sua base nell’alveo della legge di ristrutturazione, disciplina generale che regola l’attività ammini- tore il cui rifiuto non comporta l’inapplicabilità delle altre norme contrattuali. Conf. Tursi, Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Riv. it. dir. lav., 2000, 3, p. 269: « sembra evidente l’intento del legislatore di riservare alla sola autonomia collettiva la disponibilità del t.f.r. maturando, sottraendola all’autonomia individuale ». ( 15 ) Art. 1, comma 3o, l. 9 marzo 1989, n. 88, cit. in nt. 5. ( 16 ) Art. 1, comma 4o, l. 9 marzo 1989, n. 88, « L’esercizio delle attività relative alla gestione di forme di previdenza integrativa deve essere effettuato dall’INPS sulla base di un bilancio annuale di previsione separato da quello afferente agli altri fondi amministrati ». Il disposto è ribadito dall’art. 3 del decreto attuativo 30 gennaio 2007 ed è confermato anche in sede comunitaria dall’art. 3, dir. 3 giugno 2003, n. 41/CE. 731 strativistica dell’Istituto. La gestione della previdenza complementare pubblica, dunque, rientrerebbe nell’ordinaria gestione delle attività istituzionali dell’INPS, che peraltro è aduso alla gestione parallela di diverse forme di fondi previdenziali ( 17 ). Come si vedrà meglio nel prosieguo, la ratio legis dell’avverbio non può essere ascritta ad esigenze di tutela della concorrenzialità dei fondi privati. Tale intento è già raggiunto dalla residualità del fondo pubblico, che non entra in diretta competizione con gli operatori privati. Per questo motivo non appare consentita una interpretazione estensiva che, forzando la lettera normativa, estrapoli dalla stessa una limitazione alla applicazione dei poteri di imperio legislativamente accordati all’Istituto pubblico. Un secondo motivo è dato dalla impossibilità tecnica di coniugare alcune norme del decreto con la tecnostruttura dell’Istituto previdenziale. Il decreto impone la costituzione di appositi « organismi di sorveglianza » ma un sistema di controllo è già previsto nella tecnostruttura dell’INPS nel quale opera un collegio dei sindaci, regolato dalle stesse norme che il decreto in commento impone agli istituendi organismi di controllo ( 18 ). In tal caso l’organo di controllo dell’Ente previdenziale dovrebbe acquisire le competenze di sorveglianza anche sul fondo residuale poiché la norma istitutiva prevede che tale collegio sindacale vigili su « tutte » le attività istituzionali dell’Ente previdenziale ( 19 ) di talché essa opera quale norma speciale nei confronti della norma generale contenuta nel decreto qui commentato. La norma del decreto impone un organo di sorveglianza nei confronti dei fondi privati di previdenza complementare mentre la legge istitutiva dell’INPS prevede un apposito organo di controllo per tutte le attività ( 17 ) Occorre precisare che l’INPS, di per sé, non gestisce nulla. La titolarità della contribuzione obbligatoria è direttamente posta in capo ai singoli fondi (il più importante è il Fondo pensioni lavoratori dipendenti), di talché il fondo in commento non è che uno delle tante forme pensionistiche raggruppate in seno all’Istituto pubblico. ( 18 ) Art. 2407 c.c., richiamato dall’art. 4, comma 8o. ( 19 ) Art. 10, comma 1o, l. 9 marzo 1989, n. 88: « Il collegio dei sindaci vigila sulla legittimità e regolarità contabile di tutte le gestioni amministrate dall’Istituto ». 732 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 istituzionalmente riferite all’Istituto (tra le quali, come cennato, anche la previdenza complementare). Incompatibilità simili, nonostante lo « integrale » rinvio al decreto, possono ravvisarsi in molteplici altre norme. Ad esempio in tema di istituzione, costituzione ed autorizzazione all’esercizio del fondo. Il decreto impone fonti istitutive, metodi di costituzione e sottopone ad un regime di autorizzazione i fondi privati che desiderano accreditarsi come gestori della previdenza complementare. Circa istituzione e costituzione si può rilevare che l’effetto è già immanente nella norma qui commentata. La previsione « costituisce » e non già prevede una facoltà di istituzione. In altre parole i fondi privati possono essere « istituiti » in date circostanze da eventuali volizioni collettive dei soggetti interessati, facultati in tal senso dalla legge; il fondo così istituito è quindi poi « costituito » formalmente come associazione o persona giuridica. Il fondo pubblico, invece, è « costituito » direttamente dalla legge stessa e non da un eventuale seguente provvedimento amministrativo (come tale assoggettabile a controllo circa requisiti e caratteri) dell’Istituto previdenziale. Di talché già in re ipsa l’effetto è manifestato dallo stesso legislatore e l’articolo in parola si palesa come speciale rispetto alle norme generali in materia ( 20 ). Circa l’autorizzazione all’esercizio si può aggiungere, ad abundantiam, che la ratio legis sottesa è quella di assicurare e garantire ai lavoratori optanti la solidità e la legittimità dell’agire degli operatori privati. Esigenza assente nel caso dell’operatore pubblico ( 21 ). L’argo- ( 20 ) Del resto un caso simile si è già verificato in relazione al Fondo di garanzia per la contribuzione complementare di cui all’art. 5 d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80 (sul quale v. amplius D. Garcea, infra sub art. 21, comma 7o). Il difetto di una formale costituzione, in quel caso aggravata dalla mancata emanazione del regolamento attuativo, non ha impedito alla giurisprudenza di ritenere comunque operativo ex lege il Fondo, con il conseguente obbligo dell’INPS all’intervento in garanzia. ( 21 ) Non residuano margini di discrezionalità valutabili dalla COVIP. Il Fondo è costituito dalla legge, gli organi sono di nomina ministeriale, l’autonomia operativa è imposta e disciplinata dalla legge istitutiva dell’INPS. Ad abundantiam, ed in adesione, l’INPS è comunque già autorizzato alle gestioni complementari dalla sua stessa legge costitutiva (v. nt. 12). mento dirimente, tuttavia, è dato dal fatto che la norma non faculta l’INPS alla costituzione del fondo residuale. Essa bensì costituisce essa stessa, per voluntas legis, il fondo, demandandolo alla gestione dell’INPS ( 22 ). In altre parole, a compendio di questo secondo motivo, si può sostenere che lo « integrale » rinvio è a sua volta una previsione normativa che deve conciliarsi con le eventuali norme antinomiche. Tra due norme incompatibili prevale la norma speciale, di talché l’interprete deve considerare se il rinvio integrale al decreto si ponga in termini di incompatibilità con altre normative e quale, in questo caso, sia la disciplina speciale applicabile. Lo « integrale » rinvio deve essere inteso come norma di « chiusura » del sistema regolatorio applicabile al fondo residuale. La ratio legis depone in senso tale da assicurare una interpretazione restrittiva che garantisca l’applicazione del decreto ove non siano presenti norme speciali che disciplinano il medesimo ambito. In altre parole il rinvio alla integrale regolazione endodecretale è un rinvio ad una serie di norme che cedono però il passo innanzi a discipline dotate di un grado di più elevata specialità, come può accadere innanzi a date norme esterne al decreto che, quindi, derogano all’integrale rinvio ( 23 ). Altre volte è la norma in commento che si pone come speciale rispetto alle norme generali contenute nel decreto. In altre parole il rinvio al decreto è limitato alle sole ipotesi non già regolate dalla fattispecie esaminata. Se tale assunto è di tutta evidenza nei casi espressi ( 24 ) è anche vero che nella norma vi sono aspetti « occulti » che si pongono in ( 22 ) Non è consentito alla COVIP un eventuale rifiuto della autorizzazione. Il Fondo è costituito dal legislatore per una esigenza di sistema, indipendentemente da caratteri o requisiti. La COVIP non potrebbe altro che prendere atto e rilasciare l’autorizzazione con un atto che non avrebbe i caratteri del provvedimento amministrativo discrezionale ma quelli ben diversi dell’atto vincolato. ( 23 ) Si veda l’esempio reso in riferimento al rapporto tra gli organismi di vigilanza endodecretali e il collegio dei sindaci interno all’Istituto previdenziale. ( 24 ) Il comma 2o della norma in commento è speciale rispetto alle regole generali che governano la composizione degli organi dei fondi. Lo stesso può dirsi per il comma 3o che deroga al limite temporale per la portabilità del contributo. La nuova disciplina della previdenza complementare contrasto con la normazione generale del decreto ( 25 ). 3. – Come preannunciato insiste un terzo motivo che milita in favore della inapplicabilità di un rinvio « esclusivo » alla disciplina del decreto. La norma, infatti, rinvia integralmente al decreto in commento che, tuttavia, in una pluralità di sue disposizioni, limita specificatamente l’operatività delle prescrizioni a casi tassativamente indicati. Spesso le singole norme si riferiscono solo a date forme di fondi complementari, specificandone i tipi che sono interessati dalla regolazione ( 26 ). Il richiamo alla « integrale » applicazione del decreto dovrebbe essere limitato alle sole norme che non siano tassativamente già limitate a specifiche forme di gestione complementare, di talché solo le norme « generali », dunque non già delimitate, sono estese al fondo residuale pubblico. La tesi dominante intravede, invece, un rinvio compiuto nei confronti di tutte le previsioni del decreto, quasi che l’avverbio « integralmente » sia da interpretare estensivamente come rivolto ad estendere l’operatività anche di quelle norme che, « pensate » per i fondi privati, hanno nel loro seno un limite di applicazione. L’opzione isolata, invece, è antitetica. Il rinvio integrale non deve essere inteso oltre alla sua portata letterale. Nel senso che, in altre parole, « tutte » le norme del decreto sono richiamate « solo in quanto applicabili ». Le limitazioni proprie di talune norme le rendono tassativamente applicabili solo alle ipotesi in esse considerate senza che tale vincolo possa essere superato da una interpretazione estensiva dell’avverbio integralmente. Diversamente opinando non si comprenderebbe il motivo della scelta tecnica effettuata dal legislatore che solo in alcune norme ha espressamente delimitato il campo di applicazione ( 27 ). L’inter- ( 25 ) Si veda l’esempio reso in riferimento alle norme che sovrintendono l’istituzione, la costituzione o l’autorizzazione all’esercizio. ( 26 ) Ad esempio l’art. 6, per il quale i fondi pensione interessati sono solo quelli dalle « lett. a) a h) ». ( 27 ) Se l’effetto non fosse tassativo non si comprenderebbe perché, per evitare l’applicazione della sola forma pensionistica ex lett. i), non sia stata previsto un apposito inciso solo nell’alveo dell’art. 13. La riproposizione della delimitazione alle lett. da a) a h) milita nel senso della tassatività del richiamo che non 733 pretazione restrittiva è, inoltre, conforme alla ratio legis dell’inciso ed evita, altresì, le conseguenze che ne deriverebbero – ad esempio, ma non solo – per i casi citati nel paragrafo precedente. Il punto di maggiore criticità interpretativa è rappresentato dagli obblighi di convenzione. Il decreto prevede facoltà di convenzione tra i fondi privati e l’INPS per la gestione della erogazione delle prestazioni e la raccolta dei contributi. A tal fine ripropone all’Istituto previdenziale la facoltà di creare una autonoma società di capitali ( 28 ), ma solo al fine esclusivo ed espresso di assicurare una serie di attività tecniche di servizio e supporto ai fondi privati operanti nei confronti dei quali è riconosciuta la facoltà di stipulare convenzioni di esercizio. Non senza una punta di stravaganza, il dicastero in sede di regolamento ( 29 ) impone ( 30 ) all’Istituto previdenziale di convenzionarsi con se stesso, disciplinando più di quanto sarebbe stato necessario. Il fondo residuale INPS, godendo della tecnostruttura territoriale dell’ente previdenziale, avrebbe già facoltà di gestire in proprio le attività tecniche. Tale circostanza non può essere limitata invocando la « integrale » regolazione del decreto ( 31 ). Sia perché, come cennato, non residuano esigenze di concorrenzialità da tutelare ( 32 ) e sia perché un rinvio integrale al ha facoltà di essere applicato, né interpretando estensivamente i singoli articoli e né interpretando sempre estensivamente l’articolo nove in commento. ( 28 ) Art. 6, comma 2o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252: « Gli enti gestori di forme pensionistiche obbligatorie (...) possono stipulare con i fondi pensione convenzioni (...) anche attraverso la costituzione di società di capitali ». ( 29 ) Art. 5 d.m. 30 gennaio 2007. ( 30 ) Art. 5 cit.: « è stipulata apposita convenzione tra INPS e FONDINPS (...) ». Mentre i fondi privati hanno facoltà di convezione, il fondo pubblico è obbligato. ( 31 ) Tanto è vero che il dicastero in sede di regolazione ha espressamente previsto obbligo di convenzione. ( 32 ) V. nt. 7. Il Fondo complementare pubblico non entra in competizione con i fondi privati, a cagione della sua espressa residualità. Una gestione diretta, postulata efficiente, non inciderebbe dunque sulla capacità di raccolta dei fondi privati. Non solo manca una ratio legis che giustifica la norma regolamentare, ma quanto la stessa appare anche in contrasto con la stessa norma sovraordinata. L’art. 6 del de- 734 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 decreto non impedisce, per ciò solo, di godere di una contingenza che trova il suo fondamento in una situazione di fatto ( 33 ). In altre parole, la previsione regolamentare più che attuativa appare innovativa ovvero, addirittura, derogativa rispetto alla norma sovraordinata attuata. Molto controverso è l’obbligo di convenzione tra il fondo residuale e le strutture di intermediazione all’investimento mobiliare per la gestione della attività di investimento delle risorse reperite. Appare pressoché pacifica in dottrina la tesi affermativa (v. Corti, supra sub art. 6). La ragione ultima della previdenza complementare è quella di fare godere al destinatario i proventi che possono scaturire dall’investimento finanziario. Seguendo la teoria dei « pilastri », ad un regime contributivo obbligatorio (con rendimenti parzialmente predeterminati) si associa un sistema complementare (variabili in ragione della aleatorietà dell’investimento nel mercato finanziario) ( 34 ). Dalla necessità di investimento sui mercati finanziari ( 35 ) deriva l’estensione dell’onere di convenzione anche nei confronti dell’Istituto pubblico. Tale conclusione, per quan- creto in commento subordina le convenzioni tra INPS e fondi privati al parere dell’Autorità garante della concorrenza. Citando Corti, sub art. 6: « La funzione della consultazione preventiva dell’AGCM sembra soprattutto quella di permettere all’autorità di arginare più agevolmente l’eventuale sfruttamento della posizione dominante di cui godono gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria. »: appare difficile che l’INPS abusi verso se stesso. ( 33 ) In caso contrario potrebbe sostenersi che il fondo residuale dovrebbe operare in uffici e con personale diverso da quelli destinati alla gestione obbligatoria. Si tratta di circostanze di fatto che esulano dalla normativa applicabile alla fondo residuale. ( 34 ) Il sistema obbligatorio post-riforma del ’95 è a capitalizzazione nella determinazione della « misura » del diritto, con una solidarietà generazionale di tipo ripartitivo limitata a soli aspetti finanziari di cassa (sempre più coperti dalla fiscalità generale, peraltro). Il regime retributivo è una eccezione temporale ad esaurimento. La differenza tra la previdenza complementare ed il nuovo sistema obbligatorio riposa nella aleatorietà del rendimento della contribuzione, in ragione del suo investimento nei mercati finanziari. ( 35 ) La previdenza complementare è anche un volano per l’economia e per i mercati finanziari, uno strumento di espansione e mobilizzazione dei mercati finanziari. In tal senso si esprime il preambolo, nn. 1, 2 e 4 della dir. 3 giugno 2003, n. 41/CE. to pacifica solleva taluni dubbi in chi scrive. È sostenibile che la ratio legis sottesa all’obbligo di convenzione sia di garanzia nei confronti dei lavoratori aderenti. Una gestione effettuata dai costituenti (datori di lavoro o associazioni sindacali) potrebbe essere tacciata di incorrere in un eventuale conflitto di interessi ( 36 ). Per questo motivo il legislatore avrebbe previsto una « scissione » tra gestione ed investimento, assicurando questo ultimo a strutture indipendenti dalla gestione che dunque rappresenterebbero una forte garanzia dell’interesse dei lavoratori, evitando forme di investimento che celino interessi privati particolari dei gestori. Se così è non c’è alcun motivo logico dal quale farsi discendere una estensione dell’obbligo di convenzione per la gestione dell’investimento anche in capo al fondo residuale. Se la funzione delle convenzioni a favore di intermediari finanziari autonomi e indipendenti è quella di « surrogare » un intervento super partes nelle decisioni di investimento, a maggior ragione deve ritenersi che un investimento effettuato da un fondo pubblico sia scevro da qualunque dubbio di eventuali conflitti di interesse di matrice privatistica. La diversa opzione potrebbe essere recuperata solo ove si interpreti diversamente la ratio legis della disposizione e si orienti altrimenti la sottesa interpretazione correttiva. Si potrebbe infatti ritenere che la ratio sia quella di assicurare la « professionalità », e non già la « terzietà », dell’investimento finanziario ( 37 ). Dalla lettera normativa ( 36 ) I fondi aziendali potrebbero essere indotti a destinare i fondi a favore di investimenti nei quali la proprietà aziendale potrebbe avere un diretto interesse, cosi come le associazioni sindacali potrebbero essere forzate a scegliere date forme di investimento al solo fine di fornire capitali per rispondere a crisi occupazionali di settore. ( 37 ) Imperatori, Fondi pensione al bivio tra Stato e mercato: la regolamentazione della previdenza complementare in Italia e lo sviluppo dei mercati finanziari, Milano, 1997, p. 98; Enriques, La gestione delle risorse dei fondi pensione « negoziali » a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, in Banca impr. soc., 1999, p. 193, specie p. 20. La scelta legislativa di impedire la autogestione è criticata da chi (cfr., tra gli altri, Ponzanelli, I fondi pensione nell’esperienza nord-americana e in quella italiana, in Riv. dir. civ., 1988, I, p. 109 ss.) ne rileva la singolarità rispetto alla esperienza di altri sistemi giuridici e chi (M.E. Salerno, La gestione finanziaria delle ri- La nuova disciplina della previdenza complementare appare che le preoccupazioni del legislatore siano connesse, però, proprio alla garanzia dal conflitto di interessi e non ad una eventuale volontà di assicurare un certo rendimento operativo ( 38 ). Questa ultima intenzione è già diversamente tutelata nel decreto con la previsione di limiti all’investimento ( 39 ) e con la facoltà di previsione di rendimenti minimi ( 40 ). In altre parole, date le istruzioni COVIP, e considerata la vigilanza di quest’ultima, appare irrilevante chi gestisce le risorse. La scelta del legislatore appare invece mirata a « scindere » gestione da investimento, di talché la ratio legis è dovuta alla diffidenza del legislatore nei confronti delle gestioni privatistiche non in quanto tali, ma in quanto espressione di soggetti (datori e sindacati) che potrebbero essere loro malgrado sottoposti a pressioni che inficerebbero l’interesse ultimo dei lavoratori ( 41 ). In altre parole il decreto non impone un sorse dei fondi pensione, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, 3, p. 363) pone l’accento sulla libertà di gestione che caratterizza l’azione privata. ( 38 ) La ratio del conflitto di interesse emerge nella facoltà di gestione diretta ex art. 6, comma 12o, del decreto commentato, non potendosi affermare che le autorità ivi previste abbiano specifica « professionalità » nella gestione degli investimenti finanziari. ( 39 ) Art. 6, comma 11o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. ( 40 ) Art. 6, comma 8o, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. ( 41 ) Si esprime così anche la letteratura economica: « la minimizzazione dei conflitti di interesse, evitando ogni ingerenza, ogni potere di istruzione, che non sia generica o preventiva, [del gestito] nei confronti del gestore »: Gaggero e Tricoli, Appunti sui fondi pensione, in Aa.Vv., Previdenza integrativa e fondi pensione, in Assicurazioni, 1997, p. 330 ss., spec. p. 337. Milita in tal senso anche una visione comparata: nel sistema americano il Taft-Harley Act (sul quale diffusamente v. M.J. Roe, Strong Managers, Weak Owners - The Political Roots of American Corporate Finance, Prince University Press, 1994) limita l’intervento sindacale « al fine di arginare il potere dei sindacati nei loro regimi pensionistici e comunque di ridurre il crescente influsso sindacale e sulle imprese e sull’economia del paese ». Del resto circa il disastroso tentativo di utilizzo politico-sindacale delle risorse in velleitarie operazioni di salvataggio si veda Allen, The Studebaker Incident and Its Influence on the Private Pension Plan reform Movement, in Langbein & Wolk, Pension and Employee Benefit Law 3 (2000), p. 53. Ci sono, invero, anche voci contrarie che militano nel senso di ampliare il 735 dato gestore. Al contrario non fa altro che « vietare » la gestione diretta da parte dei costitutori dei fondi privati. Da ciò può sostenersi che il fondo residuale INPS non è tenuto a convenzioni con intermediari finanziari per la gestione degli investimenti, non ravvisandosi nell’ente pubblico alcun conflitto di interesse ( 42 ), fermo restando, comunque, che la raccolta contributiva deve comunque affluire sul mercato finanziario, per come evidenziato dalla concorrente ratio legis individuata dalla dottrina dominante. Tale conclusione è corroborata non solo dalla analisi della ratio legis ricordata ma anche dalla citata ragione letterale, citata in testa a questo paragrafo: la norma che prevede il regime di convenzioni è tassativamente limitata ( 43 ) ai soli fondi previsti « dalle lett. a) a h) ». Dunque solo ai fondi gestiti dai privati, in ossequio alla diffidenza ed alla volontà di garantire la terzietà dell’investimento ( 44 ). La ratio legis, questa volta potere di intervento del sindacato, ergo del « rappresentante dei lavoratori », nella gestione finanziaria dei fondi pensione. In tal senso, per tutti, Bonardi, sub art. 1, che pone anche una complessa questione di legittimità della progressiva esclusione della parte sindacale: « in una prospettiva assai discutibile sia sul piano costituzionale, in relazione al rispetto del principio di sussidiarietà, sia dal punto di vista dell’opportunità dei mezzi predisposti rispetto al fine perseguito. ». Sulla « rappresentanza » del sindacato degli interessi dei lavoratori sia consentito rinviare ad Ichino, A che serve il sindacato?, Milano, 2005, citando ed appropriandomi della recensione di Cazzola, A proposito di un recente libro di Ichino, in Dir. rel. ind., 2006, 3, p. 751: « ci sarà mai un’altra Norimberga per giudicare i sindacati dei gravissimi danni arrecati ai lavoratori? ». Circa la gestione « politica » (che può non coincidere con gli interessi « finanziari » dei beneficiari) delle risorse dei fondi pensione v. Sauviat, Sindacati, fondi pensione e mercati finanziari: bilancio e limiti delle strategie nord-americane. Quale valore d’esempio per i sindacati in Europa?, in Proteo, 2003, 2/3, p. 101 e Wooten, The S. Zudebaker/Packard Corporation and the origin of ERISA, in Review of Employee, Benefit and Executive Compensation, NY University, 2002, 12, p. 1. ( 42 ) La nomina ministeriale del comitato di amministratori rende questi ultimi espressione della collettività e non dei singoli interessi di cui questi, a livello personale, potrebbero essere portatori ( 43 ) Art. 6, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252: « I fondi pensioni di cui all’art. 3, comma 1o, lettere da a) ad h), gestiscono le risorse mediante (...) ». ( 44 ) Opinando diversamente si crea un cortocir- 736 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 quella dell’avverbio « integralmente » dell’articolo in commento, non permette, come si vedrà, una interpretazione estensiva al punto tale di ovviare al limite contenuto nella norma apparentemente richiamata. L’interpretazione restrittiva, come da paragrafo che segue, permette invece di giustificare appieno la lettera. L’avverbio scinde il fondo residuale dagli altri fondi gestiti pubblicisticamente dall’INPS e consente un regime di investimento differenziato rispetto alla raccolta obbligatoria, ma non obbliga al ricorso ad intermediari autorizzati in ragione di un (in questo caso insussistente) conflitto di interesse del gestore nella scelta degli investimenti da effettuare. La ratio legis di garanzia emerge adesso confermata con chiarezza cristallina dal quadro normativo sopravvenuto al decreto in commento. La facoltà di una gestione diretta INPS è stata espressamente riconosciuta ( 45 ), al fine di garantire « trattamenti aggiuntivi » mediante la costituzione di un apposito Fondo di riserva. Occorre chiarire che tale fondo non deve essere confuso con quello oggetto di questo commento. Quest’ultimo raccoglie le posizioni di quei soggetti che, pur confluendo nella gestione complementare, sono privi di un fondo direttamente applicabile. Il secondo, invece, sarà un fondo che, ove e se costituito, sarà alimentato con il t.f.r. (cioè quello non già conferito alle forme complementari) e gestirà la restituzione del t.f.r. in forma di rendita vitalizia « aggiuntiva ». Nella pratica applicazione, la tanto pubblicizzata facoltà di scelta (seppure con silenzio-assenso) rischia di diventare un mero « trucco » giuridico poiché anche gli optanti per il vecchio regime di t.f.r. vedranno il loro montante acquisito da un Fondo di tesoreria ( 46 ) e restituito in forme di trattamento « aggiuntivo » da un nuovo e costi- cuito interpretativo: l’integrale rinvio richiama una norma ambivalente che impone la gestione mediante convenzione (per date forme) e al contempo faculta la gestione diretta (per una sola forma). Il rinvio integrale ad una norma che non ha un significato univoco comporta il ricorso alla interpretazione correttiva. ( 45 ) Si veda in proposito il comma 760o, introdotto in sede di emendamento al testo della l. 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria 2007). ( 46 ) Istituito dal comma 755o della stessa legge. Per una prima disamina, D. Garcea, Sulla natura del Fondo di tesoreria per l’erogazione del t.f.r., in Dir. rel. ind., 2007, in corso di pubblicazione. tuendo Fondo di riserva. 4. – Il concetto di « integrale regolazione » deve dunque essere soggetto ad una interpretazione correttiva che tenga presente la ratio legis. Che non è, come potrebbe sembrare prima facie, impedire che il fondo pubblico soffochi lo sviluppo di un sistema concorrenziale privato, poiché tale intento è già raggiunto dalla residualità che evita la diretta competizione tra i fondi privati e il fondo pubblico. La ratio legis è invece diversa. Tende a garantire una efficiente e snella gestione finanziaria ed operativa, che si liberi delle pastoie burocratiche proprie delle gestioni obbligatorie e che non limiti o pregiudichi l’interesse dei destinatari che, aderendo al fondo residuale, sono già privati della possibilità di aderire ad un fondo privato. L’intenzione del legislatore è dunque quella di garantire parità di condizioni del fondo pubblico nei confronti dei fondi privati la cui regolazione è implicitamente ritenuta più snella e dunque più efficiente per l’interesse dei beneficiari. La norma, dunque, è diretta ad ampliare le facoltà del fondo pubblico e non, come in prima lettura potrebbe ritenersi, di limitarne l’attività a fini di tutela della competitività dei fondi privati. Questa ratio legis condiziona l’interpretazione da assicurare allo « integrale » rinvio alla disciplina endodecretale. La lettura può essere estensivamente intesa come diretta ad assicurare una natura di « corpo estraneo » del fondo residuale in seno all’INPS, ovvero può essere letta restrittivamente come volta a scindere il fondo residuale dalle ordinarie gestioni degli altri fondi di previdenza obbligatoria istituiti presso lo stesso INPS. Se si ragiona nei termini succitati, il punto di vista dal quale osservare l’integrale rinvio deve essere quello del lavoratore destinatario della forma pensionistica, che deve potere essere posto sullo stesso piano rispetto a quei lavoratori per i quali sono operanti i fondi privati. La mancanza di fondi privati, e il conseguente subentro del fondo residuale, non può volgersi in danno dei destinatari, ai quali è perciò « integralmente » assicurata la stessa disciplina. L’integrale rinvio è limitato restrittivamente all’ossequio di questa sola esigenza: un divieto di reformatio in peius; anche perché, come meglio si vedrà in via esemplificativa nel paragrafo che La nuova disciplina della previdenza complementare segue, una diversa interpretazione scadrebbe nella assurdità logica. Di talché solo le norme che hanno una diretta connessione con la posizione del singolo destinatario sono richiamate. Il fondo residuale non può essere integralmente disciplinato dalle sole norme del decreto, nel senso che non può intendersi che il limite citato sia sinonimico di un regime di esclusività. In altre parole la limitazione non implica che il fondo INPS trovi « esclusiva » regolazione nel decreto, ma solo che tutte (« integralmente ») le norme del decreto assumono una forza preminente rispetto alle altre norme astrattamente applicabili all’ente gestore, che continuano ad essere applicabili anche nella gestione complementare se non incompatibili con lo stesso decreto. In parole semplici, dell’inciso sull’integrale regolazione deve darsi un’interpretazione restrittiva. Del resto un siffatto rapporto insiste anche nel caso dei fondi pensione privati: sono regolati, anche in deroga rispetto alla legislazione vigente, dal decreto in quanto lex specialis e, per quanto ivi non regolato, dalle ordinarie norme civilistiche applicabili al caso, come avviene per qualunque altro tipo di persona giuridica. Nello stesso modo il fondo residuale INPS è regolato mediante il rinvio al decreto. Salve eventuali norme speciali incompatibili ( 47 ) ovvero fatte salve le norme generali pubblicistiche per quanto nel decreto non espressamente disciplinato. La natura del fondo residuale è dunque ibrida. Non esclusivamente privatistica o esclusivamente pubblicistica in ragione della coesistenza operativa di due regimi di norme. La integrale regolazione endodecretale non preclude la applicazione delle norme pubblicistiche che regolano l’attività istituzionale dell’INPS, tra le quali si rammenta risulta essere considerata anche la gestione di forme complementari rispetto alla principale gestione obbligatoria. Il rinvio ( 47 ) Concetto decisamente critico: la regolazione del decreto è speciale perché destinata alle forme complementari; la regolazione pubblicistica è speciale perché destinata ai fondi di natura pubblica. Si tratta di specialità reciproca. Capire, nel caso di conflitto tra il decreto e le norme pubblicistiche, quale sia la norma applicabile importa una attività ermeneutica volta ad accertare quale elemento prevalga nella fattispecie concreta da regolare (la natura complementare della prestazione o la natura pubblica del fondo). 737 integrale porta alla abrogazione delle sole norme pubbliche incompatibili ma non incide sugli aspetti e i poteri di imperio non considerati o diversamente regolati dal decreto stesso. Ciò che non è regolato dal decreto, in altre parole, è soggetto alle norme pubblicistiche. Ciò non per una problematica interpretazione analogica ma per una diretta applicazione della legge che regola l’attività ed i poteri di imperio dell’INPS. Del resto occorre osservare che se l’intenzione del legislatore fosse stata quella di attrarre il fondo residuale in un contesto esclusivamente privatistico avrebbe dovuto congegnare il precetto in termini diversi ( 48 ). Produrre tale effetto per mezzo di un semplice avverbio, è quantomeno problematico, specie se si considera che la natura della attività di un fondo non è ricondotta alla natura del gestore, ma al tipo di poteri e facoltà concretamente esercitati ( 49 ). Tale asserzione è sorretta anche dalla giurisprudenza amministrativa che ha da tempo sancito la « neutralità » della veste giuridica ( 50 ), riconoscendo natura pubblicistica anche a società per azioni o comunque di capitali allorquando esse siano considerate « strumentali » rispetto agli scopi ed alle funzioni di un ente pubblico. La dottrina ha chiarito che la classificazione pubblicistica di un organo formalmente privatistico deve essere compiuta caso per caso, in ragione degli elementi contingenti sussistenti ( 51 ) ed in ( 48 ) Ad esempio facendo seguire all’avverbio « integralmente » anche l’inciso « ed esclusivamente ». ( 49 ) Cass. 9 giugno 1994, n. 5606, in Foro it., 1995, I, c. 568 per la quale è irrilevante la natura pubblicistica dell’adiectus solutionis causa (ente previdenziale) ritenendolo individuato, con norma eccezionale, preposto alla prestazione in ragione della sua strutturata competenza nella gestione di erogazioni pecuniarie. Contra l’isolata Cass. 23 marzo 2001, n. 4261, in Mass. giust. civ. 2001, p. 573, secondo cui si configura una forma di assicurazione sociale pubblicistica a cagione della natura del soggetto erogatore. Entrambe le sentenze si occupano del Fondo di garanzia per il t.f.r. e per i crediti di lavoro, previsto ex art. 2, l. 29 maggio 1982, n. 297 e artt. 1 e 2, d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80 e sono citate da D. Garcea, Osservazioni critiche alla giurisprudenza sul Fondo di garanzia, in Riv. dir. sic. soc., 2005, 3, p. 645. ( 50 ) Cons. Stato, sez. VI, 1o aprile 2000, n. 1885, in Urb. e app., 2000, p. 534; conf. Cons. Stato 17 settembre 2002, n. 4711, in Riv. Corte conti, 2002, 5, p. 224. ( 51 ) Caringella, Corso di diritto amministrativo, 738 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 relazione al grado di « deviazione » dalla regolazione ordinaria civilistica. In altre parole il nomen iuris assegnato dal legislatore non è sufficiente a sottrarre l’organismo societario dalle stringenti regole pubblicistiche, onde evitare che con tali escamotages si crei una zona franca dal controllo di legittimità e di regolarità erariale. Nel caso in trattazione il fondo complementare pubblico svolge attività espressamente ritenute funzioni istituzionali dell’ente ( 52 ). Si configura dunque come un soggetto giuridico deputato ad affiancare l’ente pubblico nell’espletamento di funzioni istituzionali che, come tale, è ente di diritto pubblico a tutti gli effetti ( 53 ). Per tali motivi si può affermare che, non essendo sufficiente il rinvio « integrale » al decreto a garantire un rinvio « esclusivo » a tale disciplina privatistica che invece, come visto, coesiste con le regole pubblicistiche compatibili, la natura del fondo non può essere ascritta al novero privatistico. 5. – Una ulteriore questione si profila in relazione al comma 2o che negli aspetti formali ricalca la norma privatistica disciplinante i fondi Milano, 2004, I, p. 687: « è necessario che il regime giuridico cui la singola società è in concreto sottoposta si caratterizzi per la previsione di regole di organizzazione e di funzionamento che, oltre a costituire una consistente alterazione del modello societario tipico rivelino, al tempo stesso, la completa attrazione nell’orbita pubblicistica dell’ente societario ». ( 52 ) Art. 1, comma 3o, l. 9 marzo 1989, n. 88, cit. in nt. 9. ( 53 ) Cons. Stato, sez. VI, 28 ottobre 1998, n. 1478, in Riv. giur. edil., 1999, I, p. 334: « Ai fini dell’identificazione degli organismi di diritto pubblico ai sensi della normativa comunitaria in tema di appalti, il requisito della funzionalizzazione dell’ente al soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale va verificato con riguardo alla struttura ed alle attività esercitate dal soggetto, e può ritenersi soddisfatto, sul versante strutturale, dal carattere totale della partecipazione pubblica e, sul piano strutturale, dal fine della gestione, in via esclusiva, di un servizio pubblico, mentre è irrilevante la forma societaria assunta dal soggetto: infatti il perseguimento di uno scopo pubblico non è in contraddizione con il fine societario lucrativo descritto dall’art. 2247 c.c., dal momento che la presenza di un utile di gestione è del tutto compatibile con la gestione dei servizi pubblici. ». privati. Una norma speciale che deroga espressamente al contenuto del decreto, pur riproponendone apparentemente lo stesso contenuto. La ibrida natura del fondo residuale, infatti, impone una lettura pubblicisticamente orientata del disposto. La legge demanda al Ministro protempore il potere di nomina. Si tratta di una facoltà a discrezionalità limitata essendo, infatti, limitato nella scelta alla individuazione di soggetti dotati di dati requisiti intrinseci la cui mancanza è sanzionabile sul piano della illegittimità. L’imposizione di tali requisiti soggettivi permette di estrapolare in via esegetica due aspetti ulteriori. I membri nominati « restano » in carica per un periodo di tempo specifico. L’uso del volutamente generico termine, se letto in combinato con i requisiti soggettivi di « indipendenza », porta a ritenere ad opinione di chi scrive che il meccanismo di governance interna sia simile, se non propriamente identico, a quello in auge per le autorità indipendenti ( 54 ). Il membro nominato acquisisce una indipendenza nei confronti della stessa autorità ministeriale nominante, acquisendo inamovibilità funzionale ( 55 ). In assenza di una specificazione l’interprete è deputato in sede di interpretazione correttiva ad individuare la sussistenza di un potere di revoca. Due argomenti contrastanti. Lo ius poenitendi è un potere generale della p.a. e dunque, in difetto di un espresso divieto, dovrebbe ritenersi che il Ministro nominante abbia la possibilità di tornare discrezionalmente sui propri passi. Una interpretazione teleologicamente orientata, tuttavia, impone all’interprete di tenere conto che una siffatta discrezionalità è già espressamente limitata in seno alla fase di nomina (con la previsione dei requisiti minimali sog( 54 ) Giova precisare per « autorità indipendente » si intende un fenomeno e non un istituto giuridico: si ricollegano al termine una pluralità di strutture pubbliche che pur con poteri, funzioni e ruoli profondamente diversi, hanno tutte in comune la indipendenza e la estraneità rispetto alla comune organizzazione ministeriale o parastatale. Per approfondimenti Caringella e Garofoli, Le autorità indipendenti, Napoli, 2000. ( 55 ) Salvo i casi di gravi, manifeste e ripetute violazioni di legge ovvero dell’ipotesi di impossibilità di funzionamento dell’organo, interpretando in via analogica le pari norme che regolano tutti gli altri comitati di gestione operanti nell’Istituto (artt. 58 e 42 d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639). La nuova disciplina della previdenza complementare 739 gettivi) ( 56 ) e che la ratio legis della norma è quella di costituire una struttura impermeabile a pressioni esogene, al fine di conseguire esclusivamente l’interesse finanziario dei beneficiari ( 57 ). La soggezione ad un libero potere di revoca potrebbe incidere soggettivamente sui componenti rendendo gli stessi più influenzabili da richieste di matrice politica ( 58 ). Di talché può sostenersi che la previsione di un termine di durata sia posta a favore degli stessi membri, come termine intangibile (« restano in carica ») e che una eventuale revoca, lungi dall’essere intrinseca nelle funzioni ministeriali, dovrebbe essere, se del caso, invece espressamente consentita. L’ulteriore aspetto che scaturisce dalla presenza di requisiti soggettivi consiste nella discrezionale indicazione ministeriale dei nominativi atti alla rappresentanza sindacale. Se la partecipazione « paritetica » come si vedrà nel prossimo passaggio, impone l’indicazione di rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali, è vero altresì che la valutazione dei requisiti di nomina rende il Ministro libero di potere indicare i soggetti deputati, senza dovere ratificare le indicazioni sindacali ( 59 ). Ciò premesso la nomina deve prevedere la compartecipazione paritetica tra i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro. La norma sembrerebbe imporre soltanto una parità di componenti tra datori e lavoratori. In una norma frettolosamente introdotta, la pariteticità imposta non poteva tuttavia assumere un significato così chiaro e palese. Occorre coordinare il disposto con la successiva giurisprudenza amministrativa susseguitasi in tema di compartecipazione sindacale in strutture pubblicistiche. La « pariteticità » ha una duplice valenza: esterna, nel rap- porto quantitativo tra datori e lavoratori; ma anche interna, nel rapporto tra i diversi sindacati dello stesso ambito. Ad un criterio puramente quantitativo, in base al quale debbono prevalere i sindacati numericamente più diffusi, la giurisprudenza pretoria ha contrapposto in moderazione il criterio pluralistico, ritenuto immanente nel nostro ordinamento ( 60 ), imponendo la partecipazione anche di organizzazioni sindacali minori che rappresentino comunque interessi speciali coinvolti nella gestione della struttura ( 61 ). Ancora una volta un termine innocuo se riferito ai fondi pensione privati, assume una latitudine completamente differente se riferito al fondo residuale. La presenza di un potere discrezionale di nomina impone di reinterpretare il concetto di « pariteticità » nel senso di fare bilanciare datori e lavoratori nella amministrazione (come anche per i fondi privati) ma anche nel senso di consentire una paritaria partecipazione a tutte le plurali strutture sindacali coinvolte nella adozione di un atto pubblico ampliativo, di matrice discrezionale. Ciò eventualmente anche in deroga al principio della potenziale proporzionalità in ragione delle diverse consistenze numeriche tra le varie organizzazioni sindacali ( 62 ). L’intervento del Tar ( 63 ) è ammesso, questa volta uti singulus, anche nel caso di nomina priva dei requisiti soggettivi imposti. In tal caso subentrano delicati problemi di legittimazione attiva al ricorso che, in ossequio alle aperture di questi ultimi anni nell’analoga materia concorsuale, è riconosciuta a coloro che si sarebbero trovati nelle condizioni necessarie per accedere alla nomina. Il funzionamento del comitato, in difetto di norme speciali, è estensivamente disciplinato ( 56 ) Panico, Onorabilità e professionalità di amministratori e trustee, in Trusts e attività fiduciarie, 2005, 7, p. 366. ( 57 ) Si trova conferma dell’assunto anche nel regolamento attuativo (art. 4, d.m. 30 gennaio 2007), ove si limita la facoltà di rinnovo della nomina ad un massimo di due mandati, anche non consecutivi. ( 58 ) Nella scelta del gestore convenzionato ovvero, ovviamente, con effetti nefandi in caso di gestione diretta delle risorse. ( 59 ) Come invece avviene negli altri comitati, ove le organizzazioni sindacali sono tenute alle designazioni di loro competenza entro un termine a pena di decadenza (art. 38, d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639). ( 60 ) Cons. Stato 30 giugno 1996, n. 767, in Cons. Stato, 1996, I, 994. ( 61 ) Tar Lazio, sez. III bis, 24 maggio 2006, n. 3826 e 3827, inedite ma consultabili sul sito ufficiale della giustizia amministrativa su www.giustizia-amministrativa.it. In tali pronunciamenti il Tar si occupa della formazione (di identica composizione) dei Consigli di indirizzo e vigilanza degli enti previdenziali. ( 62 ) Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 1993, n. 159, in Cons. Stato, 1993, I, p. 229. ( 63 ) Ovviamente non ipotizzabile nei confronti dei fondi privati, le cui problematiche di governance devono essere affrontate su un piano civilistico. Si rinvia a Bruni, supra, sub art. 5. 740 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 dalle regolazioni dei vari comitati che già operano nella gestione dei diversi fondi di pertinenza dell’INPS ( 64 ). 6. – La disciplina del fondo complementare residuale è dunque influenzata dalla sua natura ibrida. L’integrale regolazione endodecretale è limitata, in ossequio alla sua ratio legis, dai vari e concomitanti elementi prima citati. L’intenzione legislativa è quella di equiparare la posizione dell’aderente al fondo residuale, già pregiudicato dal meccanismo del silenzio-assenso, alla posizione dei lavoratori optanti che godono dell’operatività dei fondi privati. Il meccanismo di gestione è regolato dal decreto, che disciplina le fonti di finanziamento, le prestazioni, il regime tributario e di vigilanza: tutti gli ambiti nei quali è necessario accomunare i diritti degli optanti a quelli dei non optanti. Laddove la disciplina diverge, nonostante l’apparenza letterale dello « integrale » rinvio, è nella essenza del fondo stesso. Modelli gestionali, forme istitutive e costitutive, autorizzazioni, e strutture organizzative sono invece ambiti che esulano dalla esigenza ( 64 ) Art. 41 d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639, che prevede il voto a maggioranza assoluta dei presenti e la primazia della volizione presidenziale. di parificare le situazioni soggettive dei lavoratori interessati e non sono oggetto di richiamo. Giova infine precisare che il fondo residuale INPS è cosa ben diversa rispetto al Fondo per l’erogazione dei trattamenti di fine rapporto ( 65 ) che è un fondo dello Stato gestito dall’INPS, ma che nulla ha a che vedere con la previdenza complementare. Il lavoratore che non aderisce espressamente ad una forma complementare continua a godere del t.f.r., ma le poste economiche di accantonamento sono acquisite dallo Stato, che ne assume facoltà di gestione al fine di finanziare specifiche opere pubbliche senza dovere, al converso, ricorrere all’oneroso mercato dei capitali. Il Fondo di tesoreria appare avere una natura retributiva, di talché l’ente pubblico opera come assuntore ex lege del risparmio forzoso dei lavoratori coinvolti ( 66 ). Donatello Garcea ( 67 ) ( 65 ) Istituito dal comma 755o della l. 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria 2007). ( 66 ) D. Garcea, Sulla natura del Fondo di tesoreria per l’erogazione del t.f.r., cit. ( 67 ) Il presente scritto è frutto delle personali considerazioni dell’autore e non riflette l’ermeneusi dell’Istituto nazionale della previdenza sociale. Art. 10. (Misure compensative per le imprese) 1. ( 1 ) Dal reddito d’impresa è deducibile un importo pari al quattro per cento dell’ammontare del TFR annualmente destinato a forme pensionistiche complementari e al Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile23; per le imprese con meno di 50 addetti tale importo è elevato al sei per cento. 2. ( 2 ) Il datore di lavoro è esonerato dal versamento del contributo al Fondo di garanzia previsto dall’articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, e successive modificazioni, nella stessa percentuale di TFR maturando conferito alle forme pensionistiche complementari e al Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile. 3. ( 3 ) Un’ulteriore compensazione dei costi per le imprese, conseguenti al conferimento del TFR alle forme pensionistiche complementari e al Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipen- ( 1 ) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06. ( 2 ) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06. ( 3 ) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06. La nuova disciplina della previdenza complementare 741 denti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile, è assicurata anche mediante una riduzione del costo del lavoro, attraverso una riduzione degli oneri impropri, correlata al flusso di TFR maturando conferito, nei limiti e secondo quanto stabilito dall’articolo 8 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005 n. 248, e successive modificazioni. 4. ( 4 ) 5. ( 5 ) Le misure di cui al comma 1 si applicano previa verifica della loro compatibilità con la normativa comunitaria in materia. ( 4 ) Comma abrogato dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06. ( 5 ) Comma così modificato dall’art. 1, comma 764o, della l. n. 296/06. La decontribuzione al fondo di garanzia del t.f.r. (6) Sommario (art. 10, comma 2o): 1. La sinallagmaticità assicurativa. – 2. Il precedente del contributo di malattia. – 3. Dall’incostituzionalità per eccesso... – 4. ... a quella per difetto. – 5. Conclusioni. 1. – Il comma oggetto di analisi è stato recentemente novellato dalla legge finanziaria per l’anno 2007 ( 7 ). Allo scopo di adeguare il testo originario alle innovazioni derivanti dalla istituzione del Fondo di tesoreria per la gestione del t.f.r. che non confluisce nell’alveo delle gestioni complementari ( 8 ), il legislatore ha introdotto una modifica sulla quale, si preannuncia già da adesso, si addensano dense nubi di incostituzionalità. La norma originaria ( 9 ) traeva la sua ragione genetica in un conflitto giurisprudenziale ancora non sedatosi, nonostante un recente arresto intervenuto ad opera delle sezioni unite. ( 6 ) Per il commento ai commi 1o, 3o, 4o, 5o, v. Frignati, Misure compensative per le imprese, in questo Commentario. ( 7 ) L. 27 dicembre 2006, n. 296. ( 8 ) Istituito dal comma 755o della stessa legge. Per una prima disamina, Garcea, Sulla natura del Fondo di tesoreria per l’erogazione del t.f.r., in Dir. rel. ind., 2007, in corso di pubblicazione. ( 9 ) Che conviene riportare testualmente: « Il datore di lavoro è esonerato dal versamento del contributo al fondo di garanzia previsto dall’articolo 2 della l. 29 maggio 1982, n. 297, nella stessa percentuale di t.f.r. maturando conferito alle forme pensionistiche complementari, ferma restando l’applicazione del contributo previsto ai sensi dell’articolo 4 del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80 ». La questione di fondo riposava in una delle grandi domande alle quali è difficile rispondere se non attraverso la deformante ottica delle valutazioni politiche. Se, cioè, i trattamenti previdenziali rientrano nell’alveo di un sistema obbligatorio di assicurazione sociale ovvero se sono concepibili quali regimi di solidarietà collettiva. Si tralascia di cennare delle principali teoretiche in materia per concentrare l’analisi sulla questione contributiva sottesa. Nel caso di specie regolato dalla norma originaria, infatti, la « sottrazione » del t.f.r. al sistema delle imprese (v. Ferrante, supra, sub art. 8) rendeva quantomeno irragionevole la sopravvivenza di obblighi contributivi che presupponevano la pregressa contingenza giuridica. In altre parole non avrebbe avuto senso che il legislatore imponesse un balzello al fine di assicurare il lavoratore dal caso dell’eventuale inadempimento datoriale delle quote di t.f.r. da questi trattenute nel caso in cui, come emergeva dal nuovo articolato il datore ne avesse perso ogni disponibilità e detenzione a vantaggio dei fondi complementari. Tali semplici considerazioni, fondate sul rispetto del sinallagma tra contributo e prestazione che « stanno e cadono » insieme, sono state tuttavia poste in dubbio dalla speculazione giurisprudenziale le cui conclusioni hanno mosso l’intervento legislativo. 2. – La « disarticolazione » tra debenza contributiva e prestazioni connesse è stata infatti riconosciuta da un pronunciamento in sezioni 742 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 unite ( 10 ). La Corte, ha ritenuto di non ravvisare nel rapporto tra contribuzione e relativa prestazione una necessaria correlazione, evidenziando nel sistema previdenziale un carattere di generale solidarietà collettiva che esula, in quanto tale, da una presunta corrispettività assicurativa tra il dato ed il ricevuto. Il Supremo consesso si occupò della risoluzione di un conflitto sorto nella sezione lavoro in ordine alla debenza del contributo per il finanziamento del regime assicurativo contro la malattia. La legge consente all’INPS di non erogare l’indennità di malattia quando il relativo trattamento sia corrisposto dal datore di lavoro, obbligato in tal senso dalla legge o dalla disciplina pattizia. Argomentando in ordine ad una necessaria corrispettività tra prestazione e contribuzione, talune pronunce evidenziarono la vulnerazione del nesso sinallagmatico della relazione assicurativa che intercorreva tra datore assicurato e Istituto previdenziale assicuratore. Quest’ultimo, infatti, sarebbe stato destinatario di un ingiustificato arricchimento, locupletando premi contributivi relativi ad un rischio inesistente ( 11 ). Un secondo e contrario indirizzo si affermò in seguito. L’argomento principe fu estrapolato dalla diversa destinazione della tutela che è espressamente estesa anche ai lavoratori divenuti disoccupati ovvero sospesi senza diritto al trattamento di cassa integrazione ( 12 ). La norma, in altre parole, obbliga il datore alla partecipazione ad un regime di solidarietà sociale i cui beneficiari si individuano anche al di fuori dei soli suoi lavoratori. Per derogare al suo contenuto precettivo occorrerebbe, dunque, una specifica norma di deroga la cui fonte non potrebbe essere pattizia, in ragione della evidente subordinazione della contrattazione collettiva nei confronti del- ( 10 ) Cass., sez. un., 27 giugno 2003, n. 10232, in Mass. giur. lav., 2003, p. 866, con nota adesiva di Boer. V. anche, per una opinione contraria, Cinelli, Solidarietà senza limiti? Ovvero: pagare i contributi di malattia senza usufruire delle relative prestazioni, in Riv. dir. sic. soc., 2005, 1, p. 75. Si occupano della questione anche Centorbi, Trattamento economico di malattia e obbligazione contributiva, in Arg. dir. lav., 2005, p. 351 e Canavesi, Questioni contributive nella più recente giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. sic. soc., 2005, 3, p. 663. ( 11 ) Cass. 3 dicembre 1999, n. 13535, in Mass. giust. civ., 1999, p. 2441. ( 12 ) Art. 1, comma 6o, d.l. 30 dicembre 1979, n. 663. la legge ordinaria. La deroga legislativa, invece, non fa altro che escludere l’INPS dalla debenza prestazionale (onde evitare che il lavoratore riceva una doppia indennità, di natura legale e contrattuale), nulla modificando al regime normativo che detta e prescrive la debenza contributiva ( 13 ). Le sezioni unite risolsero in tal senso, sostenendo altresì che il sistema previdenziale non ha natura assicurativa, ma ha invece carattere solidaristico ( 14 ). In conseguenza, l’eventuale assenza di un interesse specifico alla prestazione, non erogabile a fronte dell’impossibilità che l’evento lesivo si verificasse nel concreto, non rendeva i datori scevri dall’obbligo contributivo. Tali conclusioni non sono state recepite con favore dal merito che, con considerazioni poi svolte anche in dottrina ( 15 ), ha eccepito questione di legittimità costituzionale ( 16 ) che, allo stato in cui si scrive, è ancora pendente. 3. – Tale esegesi giurisprudenziale, nel sostenere la assenza di una correlazione tra il contributo e la prestazione finanziata, considerava il primo impermeabile alla vicenda abrogativa che poteva interessare la seconda. Il legislatore originario ritenne opportuno, quindi, prevedere espressamente l’esenzione dalla debenza contributiva, sterilizzando sul nascere gli effetti riflessi che sarebbero potuti scaturire in materia dalla eventuale pronuncia di illegittimità sulla questione analoga già incardinata innanzi alla Consulta. La previsione originaria esentava dal contributo dovuto al Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto ( 17 ), mantenendo in ( 13 ) Cass. 27 dicembre 1999, n. 14571, in Mass. giur. lav., 2000, p. 279; Cass. 21 febbraio 2000, n. 1950 in Not. giur. lav., 2000, p. 501 e Cass. 5 agosto 2004, n. 15112, in Riv. dir. sic. soc., 2005, n. 212. ( 14 ) Cass., sez. un., 27 giugno 2003, n. 10232, cit.: « il fondamento della previdenza sociale sta nel principio di solidarietà onde il concetto di sinallagma risulta insufficiente alla rappresentazione del sistema (...) per di più talvolta manca il legame tra contributi e prestazioni come nel caso di contributi di mera solidarietà o figurativi o ancora quando debba operare il principio di automaticità delle prestazioni ». Cfr. Cass. civ., sez. un., 9 gennaio 2007, n. 123, in Riv. it. dir. lav., 2007, 3, con nota di Garcea. ( 15 ) Così Cinelli, op. cit. ( 16 ) Trib. Bolzano 8 marzo 2004, n. 139 e 30 settembre 2005, citate da Canavesi, op. cit. ( 17 ) Art. 2 l. 29 maggio 1982, n. 297. La nuova disciplina della previdenza complementare essere il diverso contributo affluente all’analogo e successivo Fondo di garanzia dei crediti di lavoro ( 18 ). La norma limitava l’esenzione alla « percentuale di t.f.r. maturando conferito alle forme pensionistiche complementari ». La ragione del limite era chiara. La libera adesione dei prestatori al regime complementare provocava una scissione contabile tra t.f.r. maturando conferito alle gestioni complementari e t.f.r. maturato mantenuto nella disponibilità del datore di lavoro seguendo il consueto schema pregresso. In altre parole l’esenzione operava solo parzialmente, nel senso che il datore era comunque tenuto al finanziamento del Fondo di garanzia, seppure solo nella misura del t.f.r. del quale continuava a detenere la disponibilità. Si ossequiava così al summenzionato rischio di incostituzionalità dovuto alla alterazione, per via legislativa, del sinallagma assicurativo: il datore restava soggetto solo ad una quota-parte del contributo in ragione della diminuzione del rischio da insolvenza. Il conferimento progressivo del t.f.r. maturando alle forme pensionistiche, infatti, cagionava una sensibile diminuzione dell’accantonamento contabile detenuto dal datore, di talché l’eventuale insolvenza sopravvenuta avrebbe comportato un ridotto intervento sostitutivo da parte del Fondo. 4. – La novella adegua la previsione originaria al nuovo compendio normativo. La finanziaria per l’anno 2007 istituisce un apposito Fondo di tesoreria gestito dall’INPS, allo scopo di detenere le quote del t.f.r. maturando che non affluiranno alle forme pensionistiche complementari ( 19 ). Nel caso di specie la novella ha inserito un inciso che esclude dalla contribuzione non solo la quota affluente alle forme pensionistiche complementari, ma anche quella che sarà acquisita dal Fondo di tesoreria. La norma è evidentemente frutto di sciatteria legislativa. Essa riproduce l’originario schema letterale che esenta la « percentuale di t.f.r. conferito » all’una o all’altra opzione. Se nel pregresso assetto il richiamo al concetto di « percentuale » aveva un suo senso specifico, per come ricordato nel paragrafo precedente, nel nuovo ordine il richiamo è privo di significato. Tutto il t.f.r. maturando è ( 18 ) Art. 4 d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80. ( 19 ) V. nt. 8. 743 sottratto al datore di lavoro. A favore delle forme pensionistiche ovvero del Fondo di tesoreria. Non esiste, dunque, una « percentuale » di decontribuzione: l’esenzione opererà sempre sul totale del t.f.r. maturando. Le problematiche che derivano dalla novella, tuttavia, sono di ben più rilevante portata. È vero che il nuovo compendio sottrae ogni forma di detenzione del t.f.r. nei confronti del datore, rendendo dunque irragionevole la sopravvivenza del balzello contributivo nella originaria quantificazione. È vero altresì che il regime che deriva dalla norma in esame esclude totalmente il datore da qualsiasi relato onere contributivo. Da un eccesso all’altro. Due considerazioni militano in tal senso: a) la « trasmigrazione » del t.f.r. opera solo per i datori di lavoro che oltrepassano una soglia dimensionale minima; b) i datori di lavoro mantengono la detenzione del t.f.r. maturato ma non ancora erogato. In altre parole le esigenze di tutela dei prestatori di lavoro subordinato permangono, seppur solo parzialmente, anche nel nuovo sistema. Giova rammentare che la previsione di un fondo di garanzia per il t.f.r. ( 20 ) nasce in ottemperanza ad un obbligo comunitario, imposto da una direttiva europea ( 21 ) che impegna gli Stati membri a tutelare i prestatori di lavoro nel caso di insolvenza del datore ( 22 ). La perdurante operatività del fondo rende necessario, quindi, prevedere comunque un adeguato sistema di finanziamento che ne assicuri il regolare funzionamento. Ciò premesso appare dubitabile sul piano costituzionale che la contribuzione percuota i soli datori di minore dimensione, specie conside- ( 20 ) Art. 2 l. 29 maggio 1982, n. 297. ( 21 ) Dir. 80/987/CE, in G.U.C.E., L 283, p. 23, sulla quale v. Civale, Insolvenza dell’imprenditore e tutela dei crediti di lavoro, in Riv. giur. lav., 1993, I, p. 441. Questa direttiva è stata novellata di recente da dir. 23 settembre, n. 74/CE, in G.U.C.E., L 270, p. 10 s. cui v. Pallini, La nuova disciplina comunitaria della tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore: la dir. 2002/74/CE, in Riv. dir. sic. soc., 2003, 2, p. 695 e più diffusamente soprattutto v. Arrigo, La tutela dei crediti retributivi e previdenziali in caso di insolvenza del datore di lavoro tra ordinamento interno e disciplina comunitaria, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, 1, p. 1. ( 22 ) Diffusamente v. Garcea, Rassegna critica della giurisprudenza sul Fondo di garanzia, in Riv. dir. sic. soc., 2005, 3, p. 645. 744 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 rando che degli effetti della garanzia (sul t.f.r. già maturato ovvero nel caso di mutazione soggettiva o dimensionale ( 23 ) del datore) godono comunque anche i lavoratori dei datori di maggiore consistenza. Rinviando integralmente, infatti, si ripropone la stessa questione già affrontata dalla Corte costituzionale in tema di contributo di solidarietà (v. Garcea, infra, sub art. 16): la decontribuzione totale vulnera il necessario principio di solidarietà tra i diversi soggetti interessati (seppur in diversa gradazione) alla garanzia assicurata dal Fondo ( 24 ). In altre parole anche i lavoratori che prestano il loro servizio presso datori totalmente privati della disponibilità del t.f.r. hanno uno specifico interesse alla florida consistenza patrimoniale del Fondo di garanzia che potrebbe, comunque, esser deputato a « coprire » il t.f.r. maturato ovvero anche il maturando (ipotizzando come citato, un mutamento soggettivo o dimensionale del datore). I piccoli datori, nel sistema delineato dalla norma, sopportano anche gli oneri assicurativi dei ( 23 ) L’INPS sostiene (circ. 3 aprile 2007, n. 70), però, che i mutamenti dimensionali non abbiano rilevanza in ordine all’obbligo di conferimento. Che, in altre parole, l’obbligo colpirebbe i datori in ragione del loro dimensionamento « cristallizzato » alla data di entrata in vigore della legge finanziaria. Tale esegesi è necessitata dall’esigenza di evitare frazionamenti fittizi allo scopo di eludere l’obbligo di conferimento. Qualora una simile opzione ermeneutica dovesse trovare consenso, vi sarebbe probabilmente da dubitare sia della sua plausibilità letterale, sia, probabilmente, della sua legittimità costituzionale. ( 24 ) In primis fu Corte cost. 14 luglio 1972, n. 146, in Giur. cost., 1972, p. 1490, che evidenziò l’obbligo di solidarietà verso i soggetti sfavoriti sul piano economico-sociale, che giustifica l’imposizione di specifici contributi di solidarietà a favore del regime generale: « il contributo del singolo soggetto va a vantaggio di tutti gli iscritti, assicurando in tal modo il concorso dei lavoratori con i redditi più alti nella copertura delle prestazioni a favore delle categorie con i redditi più bassi »: cfr. M. Cinelli, Previdenza sociale e orientamenti della giurisprudenza costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 1999, p. 73, sp. 10. Garantiscono un regime solidale tra i diversi sistemi previdenziali, in materia di finanziamento della previdenza complementare, anche Corte cost. 3 ottobre 1990, n. 427 e Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421, entrambe già citate nella nt. 10 del commento dedicato all’art. 16 in questa opera. datori di grandi dimensioni, riproducendo ancora una volta un altro caso di solidarietà al contrario ( 25 ), sul quale la Consulta ama intervenire. I piccoli datori, peraltro, potrebbero essere soggetti perfino ad un incremento dell’aliquota contributiva, in ragione del peculiare meccanismo di adeguamento amministrativo che tende ad assicurare il pareggio finanziario del Fondo ( 26 ). Trasporre l’onere contributivo sulle sole finanze dei piccoli datori esclusi dal trasferimento coatto del t.f.r., equivale a porre in pericolo l’esigenza (comunitariamente imposta) di tutela del prestatore di lavoro e, al contempo vulnera altresì anche il generale principio di solidarietà contributiva che, come visto nel secondo paragrafo ( 27 ), informa il sistema di previdenza sociale vigente, nonché la ragionevolezza legislativa, alterando l’equa ripartizione degli oneri tra tutti i soggetti che, pur in gradi differenti, sono destinatari della tutela. 5. – Forse dunque la norma avrebbe dovuto essere diversamente congegnata. La frenetica attività di adeguamento che derivò dalla istituzione del nuovo Fondo di tesoreria a portato il legislatore ad eccedere rispetto a quanto dovuto. Il sistema di contribuzione al Fondo di garanzia doveva essere rivisto al fine di evitare che i datori di grandi dimensioni fossero sottoposti al medesimo onere che gravava sui soggetti di minore dimensione. Diverso era divenuto, infatti, il rischio assicurato poiché l’insolvenza del piccolo datore avrebbe comportato l’intervento del Fondo a copertura sia del t.f.r. maturato che di quello maturando. Nel caso di grande datore l’intervento sostitutivo sarebbe stato invece limitato al solo t.f.r. già maturato. È corollario del principio di eguaglianza che a situazioni diverse devono conseguire diverse regole. L’adeguamento, tuttavia, come cennato, non si limita ad una proporzionale riduzione del quantum contributivo. Si spinge invece fino ad esentare totalmente i grandi datori da qualsivoglia onere contributivo, fosse anche un contributo parziale ad aliquota di mera solida- ( 25 ) Così Cinelli, Art. 1, in Cinelli (a cura di), Disciplina delle forme pensionistiche complementari. Commentario, in questa Rivista, 1995, p. 182. ( 26 ) Art. 2, comma 8o, l. 29 maggio 1982, n. 297. ( 27 ) Ma v. anche le nt. 25 e 26. La nuova disciplina della previdenza complementare rietà ( 28 ). È dunque possibile che possa essere sollevata q.l.c. in ragione di quanto suesposto. Giova precisare, infine, che rimane inalterata ( 28 ) L’individuazione legislativa del quantum contributivo non è censurabile sul piano della legittimità costituzionale ove risponda comunque all’interesse sotteso al prelievo: v. Corte cost. 8 giugno 2000, n. 178, in Giur. cost., 2000, 3, p. 1571, con nota di Cardoni. La Corte interverrebbe solo ove la solidarietà sia concretamente vulnerata da un prelievo inconsistente, di tipo meramente formale tale dunque da svilire la ragione solidaristica per il tramite di una aliquota minimale. Del resto anche il pronunciamento dal quale è scaturito il contributo di solidarietà (Corte cost. 3 ottobre 1990, n. 427, in Foro it., 1991, I, c. 2005) riteneva incostituzionale che le poste retributive destinate alla previdenza complementare fossero « interamente esentate dalla contribuzione alla previdenza pubblica ». Per un commento della sentenza v. Pessi, La previdenza integrativa: identificazione funzionale e collocazione strutturale nell’assetto del rapporto previdenziale pubblico dopo la sentenza della Corte cost. n. 427/90 e Scognamiglio, Base imponibile della contribuzione previdenziale e 745 la debenza contributiva nei confronti del fondo gemello che assicura i crediti di lavoro. L’originaria previsione ( 29 ) ne faceva espressamente salvi gli effetti. L’inciso, tuttavia, era ridondante. Anche nell’impero del nuovo testo, nonostante il silenzio in materia, non può che sostenersi la permanenza dell’obbligo contributivo ( 30 ). Donatello Garcea ( 31 ) contributi erogati dai datori di lavoro per la previdenza e assistenza privata, entrambe in Dir. lav., 1991, I, pp. 93 e 420. ( 29 ) V. nt. 7. ( 30 ) Non può ipotizzarsi alcuna forma di abrogazione implicita, sia perché comunque l’obbligo al Fondo ha comunque matrice comunitaria non derogabile, e sia perché non può evidenziarsi alcun effetto di abrogazione implicita, regolando il Fondo in questione un aspetto non toccato dalla riforma. ( 31 ) Il presente scritto è frutto delle personali considerazioni dell’autore e non riflette l’ermeneusi dell’Istituto nazionale della previdenza sociale. Art. 11. (Prestazioni) 1. Le forme pensionistiche complementari definiscono i requisiti e le modalità di accesso alle prestazioni nel rispetto di quanto disposto dal presente articolo. 2. Il diritto alla prestazione pensionistica si acquisisce al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza, con almeno cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari. 3. Le prestazioni pensionistiche in regime di contribuzione definita e di prestazione definita possono essere erogate in capitale, secondo il valore attuale, fino ad un massimo del 50 per cento del montante finale accumulato, e in rendita. Nel computo dell’importo complessivo erogabile in capitale sono detratte le somme erogate a titolo di anticipazione per le quali non si sia provveduto al reintegro. Nel caso in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il 70 per cento del montante finale sia inferiore al 50 per cento dell’assegno sociale di cui all’articolo 3, commi 6 e 7, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la stessa può essere erogata in capitale. 4. Le forme pensionistiche complementari prevedono che, in caso di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi, le prestazioni pensionistiche siano, su richiesta dell’aderente, consentite con un anticipo massimo di cinque anni rispetto ai requisiti per l’accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza. 5. A migliore tutela dell’aderente, gli schemi per l’erogazione delle rendite possono prevedere, in caso di morte del titolare della prestazione pensionistica, la restituzione ai beneficiari dal- 746 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 lo stesso indicati del montante residuo o, in alternativa, l’erogazione ai medesimi di una rendita calcolata in base al montante residuale. In tale caso è autorizzata la stipula di contratti assicurativi collaterali contro i rischi di morte o di sopravvivenza oltre la vita media. 6 ( 1 ) Le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di capitale sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta. Le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta e a quelli di cui alla lettera g-quinquies) del comma 1 dell’articolo 44 del TUIR, e successive modificazioni, se determinabili. Sulla parte imponibile delle prestazioni pensionistiche comunque erogate è operata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali. Nel caso di prestazioni erogate in forma di capitale la ritenuta di cui al periodo precedente è applicata dalla forma pensionistica a cui risulta iscritto il lavoratore; nel caso di prestazioni erogate in forma di rendita tale ritenuta è applicata dai soggetti eroganti. La forma pensionistica complementare comunica ai soggetti che erogano le rendite i dati in suo possesso necessari per il calcolo della parte delle prestazioni corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta se determinabili. 7. Gli aderenti alle forme pensionistiche complementari possono richiedere un’anticipazione della posizione individuale maturata: a) in qualsiasi momento, per un importo non superiore al 75 per cento, per spese sanitarie a seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche. Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, è applicata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali; b) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al 75 per cento, per l’acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile, o per la realizzazione degli interventi di cui alle lettere a), b), c), e d) del comma 1 dell’articolo 3 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, relativamente alla prima casa di abitazione, documentati come previsto dalla normativa stabilita ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449. Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento; c) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al 30 per cento, per ulteriori esigenze degli aderenti. Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento; d) le ritenute di cui alle lettere a), b) e c) sono applicate dalla forma pensionistica che eroga le anticipazioni ( 2 ). 8. Le somme percepite a titolo di anticipazione non possono mai eccedere, complessivamente, il 75 per cento del totale dei versamenti, comprese le quote del TFR, maggiorati delle plusvalenze tempo per tempo realizzate, effettuati alle forme pensionistiche complementari a decor( 1 ) Per il commento al comma 6o, v. Marchetti, Il trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare, in questo Commentario. ( 2 ) Per il commento al comma 7o, lett. a), 2o per.; lett. b), 2o per.; lett. c), 2o per.; lett. d), v. Marchetti, La disciplina fiscale delle anticipazioni, in questo Commentario. La nuova disciplina della previdenza complementare 747 rere dal primo momento di iscrizione alle predette forme. Le anticipazioni possono essere reintegrate, a scelta dell’aderente, in qualsiasi momento anche mediante contribuzioni annuali eccedenti il limite di 5.164,57 euro. Sulle somme eccedenti il predetto limite, corrispondenti alle anticipazioni reintegrate, è riconosciuto al contribuente un credito d’imposta pari all’imposta pagata al momento della fruizione dell’anticipazione, proporzionalmente riferibile all’importo reintegrato ( 3 ). 9. Ai fini della determinazione dell’anzianità necessaria per la richiesta delle anticipazioni e delle prestazioni pensionistiche sono considerati utili tutti i periodi di partecipazione alle forme pensionistiche complementari maturati dall’aderente per i quali lo stesso non abbia esercitato il riscatto totale della posizione individuale. 10. Ferma restando l’intangibilità delle posizioni individuali costituite presso le forme pensionistiche complementari nella fase di accumulo, le prestazioni pensionistiche in capitale e rendita, e le anticipazioni di cui al comma 7, lettera a), sono sottoposti agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità in vigore per le pensioni a carico degli istituti di previdenza obbligatoria previsti dall’articolo 128 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 1935, n. 1155, e dall’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180, e successive modificazioni. I crediti relativi alle somme oggetto di riscatto totale e parziale e le somme oggetto di anticipazione di cui al comma 7, lettere b) e c), non sono assoggettate ad alcun vincolo di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità. ( 3 ) Per il commento al comma 8o, 2o e 3o per., v. Marchetti, La disciplina fiscale della reintegrazione delle anticipazioni, in questo Commentario. Le prestazioni di previdenza complementare Sommario (art. 11, commi 1o-5o, 7o-10o): 1. Premessa. – 2. L’ambito di applicazione della disciplina delle prestazioni: con riferimento alle forme pensionistiche. – 3. Segue: ... ed alla posizione degli aderenti. – 4. Le tipologie di prestazioni che possono essere offerte dalle forme pensionistiche complementari in relazione agli eventi protetti. – 5. Le prestazioni erogabili in caso di morte del titolare della prestazione pensionistica. – 6. I criteri di determinazione delle prestazioni pensionistiche complementari: la permanenza del principio di capitalizzazione e del criterio di corrispettività. – 7. I requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche complementari per la vecchiaia: i requisiti ordinari. – 8. Segue: ... e quelli anticipati. – 9. Le modalità ed i limiti all’erogazione delle prestazioni in capitale o rendita. – 10. Il regime delle anticipazioni. – 11. Il rafforzamento della tutela della posizione pensionistica complementare: l’intangibilità nella fase di accumulo. – 12. Segue: ... i limiti alla cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità delle prestazioni pensionistiche complementari. – 13. Segue: ... e l’esclusione da tali limiti. 1. – L’art. 11 del d.lgs. n. 252/05 definisce la disciplina delle prestazioni pensionistiche com- plementari con una serie di norme che, tanto nei loro aspetti di continuità con la disciplina del 1993 che in quelli di parziale allontanamento o innovazione, assumono particolare rilevanza nel sistema della previdenza complementare. Anzitutto, la disciplina delle prestazioni rappresenta l’architrave del rapporto giuridico previdenziale tra l’iscritto e la forma pensionistica complementare, ed offre fondamentali indicazioni sulla collocazione della previdenza complementare in rapporto alla previdenza obbligatoria. Ma la disciplina delle prestazioni determina anche « che cosa » e « quanto » le forme pensionistiche possono offrire agli iscritti, incidendo sulla desiderabilità della previdenza complementare da parte del pubblico dei destinatari e quindi influenzando in modo cruciale la scelta relativa all’adesione. Considerata la centralità della disciplina delle prestazioni, stupisce la relativamente scarsa at- 748 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 tenzione che essa ha ricevuto dal legislatore delegante chiamato a delineare i principi ed i criteri direttivi per la costruzione del sistema della previdenza complementare. Già la legge delega n. 421/92 ( 4 ) si era limitata, pur nel contesto di direttive a dir poco scarne nel loro complesso ( 5 ), ad indicare le sole linee guida della complementarietà dei trattamenti al sistema obbligatorio pubblico e del metodo della capitalizzazione ( 6 ), affidando quindi le altre scelte fondanti del regime delle prestazioni alle determinazioni del legislatore delegato, cui avevano fatto seguito successivi interventi normativi e pronunce della Corte costituzionale. Anche la legge delega n. 243/04, che pure ha definito con maggior dettaglio gli interventi da attuare sul sistema esistente per « sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari » ( 7 ), è stata avara di indicazioni specifiche in tema di prestazioni. L’art. 1, comma 2o, ha infatti limitato i principi e criteri direttivi alla previsione dell’« assoggettamento delle prestazioni di previdenza complementare a vincoli in tema di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità analoghi a quelli previsti per la previdenza di base ». Pur in assenza di principi e criteri direttivi esplicitamente innovativi del regime esistente, non si deve però sottovalutare che le scelte del legislatore delegato in materia di prestazioni sono state comunque influenzate dalle altre novità ( 4 ) L. 23 ottobre 1992, n. 421, « Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale », pubblicata in G.U. n. 257 del 31 ottobre 1992, s.o. ( 5 ) V. Ferraro, La problematica giuridica dei fondi pensione, in Id. (a cura di), La previdenza complementare nella riforma del welfare, Milano, 2000, p. 3 ss. ( 6 ) L’art. 3, comma 1o, lett. v), delegava il Governo a disciplinare la costituzione di forme di previdenza « per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari al sistema obbligatorio pubblico (...), con l’osservanza di sistemi di capitalizzazione ». ( 7 ) L. 23 agosto 2004, n. 243, « Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno della previdenza complementare ed all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria », pubblicata in G.U. n. 222 del 21 settembre 2004. della l. n. 243/04. Ci si riferisce, in particolare, alla delega a definire « regole comuni » per eliminare gli ostacoli alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare ( 8 ), con conseguente equiparazione tra le diverse forme pensionistiche ( 9 ) anche sul piano delle prestazioni erogabili; o ancora alla delega a disciplinare il conferimento tacito del t.f.r., garantendo una adeguata informativa del lavoratore, tra l’altro, sulle « condizioni per il recesso anticipato » ( 10 ). In tale contesto, l’interprete che voglia cimentarsi in un’analisi dell’art. 11 del d.lgs. n. 252 deve quindi fare propria una doppia chiave di lettura. Da un lato, l’assenza della volontà del legislatore delegante di riformare il regime delle prestazioni impone di muoversi nel solco di una necessaria continuità con le scelte già cristallizzatesi nell’ordinamento della previdenza complementare, anche per scongiurare il rischio di censure di illegittimità costituzionale per eccesso di delega ( 11 ). Dall’altro, però, non è neppure possibile disconoscere l’impatto, sia pure indiretto, che altri profili della riforma hanno avuto sulla disciplina delle prestazioni. Tenendo sullo sfondo questo duplice referen- ( 8 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 4) della l. n. 243/ 04. ( 9 ) V. Tursi, La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, III, pp. 513 ss., che individua quale « dato più qualificante della riforma » proprio la nuova « dislocazione sistematica della materia » con la piena inclusione delle forme pensionistiche individuali nel novero delle forme pensionistiche complementari originariamente previste dal d.lgs. n. 124/ 93 (così a p. 514). ( 10 ) Art. 1, comma 2o, lett. e), n. 1) della l. n. 243/ 04. ( 11 ) Sull’opportunità di una « lettura continuista » del d.lgs. n. 252/05 v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mo’ di (parziale) commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, pp. 145 ss. e Bonardi, sub art. 1, in questo Commentario. Entrambi gli autori evidenziano come il d.lgs. n. 252/05, che ha rinunciato a richiamare nel suo preambolo la delega alla predisposizione di un testo unico in materia di previdenza complementare, trovi il proprio fondamento solo nei principi e criteri direttivi di cui ai commi 1o e 2o dell’art. 1 della l. n. 243/04, con conseguente necessità di limitare la sua portata innovativa agli ambiti oggetto di tale delega. La nuova disciplina della previdenza complementare te di continuità ed innovazione, si potrà quindi cercare non soltanto di proporre una soluzione ad alcuni problemi interpretativi sollevati dal nuovo art. 11, ma anche provare ad enucleare, all’interno di tale disciplina, alcuni spunti per valutare la natura e la collocazione costituzionale della previdenza complementare dopo la sua « terza riforma ». 2. – Un primo dato di sistema che deve essere verificato prima di esaminare nel dettaglio la disciplina delle prestazioni è quello del suo ambito di applicazione all’interno del nuovo assetto delineato dal d.lgs. n. 252/05, con riferimento tanto alle diverse forme pensionistiche che alla posizione degli aderenti. Si tratta di una verifica che porta anzitutto a registrare un significativo elemento di novità, rispetto al d.lgs. n. 124/93, per quanto attiene al novero delle forme pensionistiche cui troverà applicazione la disciplina dell’art. 11. Com’è noto, nell’assetto del d.lgs. n. 124/93 – frutto di interventi normativi « stratificatisi » nel tempo – si poteva registrare una distinzione tra il regime delle prestazioni dei fondi pensione (negoziali ed aperti) e delle forme pensionistiche individuali (attuate mediante l’adesione ai fondi pensione aperti o mediante contratti di assicurazione sulla vita) ( 12 ). Le prestazioni erogate dai fondi pensione negoziali ed aperti erano infatti disciplinate dall’art. 7 del d.lgs. n. 124 ( 13 ). Le forme pensionistiche individuali erano invece assoggettate ad ( 12 ) Si fa ovviamente riferimento al testo del d.lgs. n. 124/93 risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 (« Riforma della disciplina fiscale della previdenza complementare, a norma dell’art. 3 della l. 13 maggio 1999, n. 133 », pubblicato in G.U. n. 57 del 9 marzo 2000, s.o.), che aveva introdotto nel sistema della previdenza complementare « forme di risparmio individuali vincolate a finalità previdenziali » (sull’impatto di tale intervento v. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, pp. 405 ss.; nonché Id., La previdenza pensionistica privata: forme complementari e forme individuali, in Riv. dir. sic. soc., 2002, pp. 111 ss.). ( 13 ) All’art. 7 faceva infatti implicito rinvio l’art. 9 del d.lgs. n. 124/93, nel confermare anche per i fondi aperti « l’applicazione delle norme del presente decreto legislativo in tema di finanziamento, prestazioni e trattamento tributario ». 749 una autonoma disciplina delle prestazioni, solo in parte coincidente con quella dell’art. 7 ( 14 ). Tale diversa disciplina si concretava, in particolare, nell’impossibilità per gli aderenti alle forme pensionistiche individuali di richiedere anticipazioni dei contributi accumulati per far fronte a spese sanitarie o relative alla casa di abitazione, essendo ammesso in tale ipotesi solo il riscatto totale o parziale della posizione ai sensi dell’art. 10, comma 1o bis, del d.lgs. n. 124/93 ( 15 ). ( 14 ) Per le forme pensionistiche complementari attuate mediante adesione ai fondi aperti, l’art. 9 bis del d.lgs. n. 124/93 delineava in modo autonomo il regime delle prestazioni, individuando i requisiti di accesso (prima parte del comma 4o, che riproponeva le medesime norme dell’art. 7, comma 2o, ad eccezione della possibilità di introdurre forme di graduazione dei requisiti in ragione dell’anzianità maturata), prevedendo il divieto di anticipazioni (seconda parte del comma 4o) e consentendo la liquidazione della prestazione pensionistica in forma di capitale (comma 6o). V. in materia anche la deliberazione COVIP n. 820 dell’11 ottobre 2000, « Orientamenti in materia di regolamenti dei fondi pensione aperti: modifiche conseguenti all’introduzione delle forme pensionistiche individuali di cui al d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 ». In dottrina, v. Zampini, La previdenza complementare, cit., pp. 301 ss. A sua volta, l’art. 9 ter del d.lgs. 124/93 prevedeva che le forme pensionistiche individuali attuate mediante contratti di assicurazione sulla vita garantissero le prestazioni di cui all’art. 9 bis, comma 4o, secondo le modalità ivi previste, e consentissero le facoltà di prosecuzione volontaria e di liquidazione in capitale di cui ai commi 5o e 6o del medesimo articolo. ( 15 ) L’art. 10, comma 1o bis prevedeva infatti che « il riscatto anche parziale della posizione individuale maturata nelle forme pensionistiche individuali di cui agli artt. 9 bis e 9 ter è consentito soltanto nelle ipotesi previste dal comma 4o dell’articolo 7 ». La diversa natura dell’anticipazione e del riscatto, pur aventi una simile finalità di tutela di situazioni di bisogno sorta prima della maturazione dei requisiti di accesso alla prestazione, è illustrata da Volpe Putzolu, Le forme pensionistiche individuali, in Bessone e F. Carinci (a cura di), Diritto del lavoro. Commentario, V, La previdenza complementare, Torino, 2004, pp. 427 ss. In sintesi, mentre l’anticipazione consente di disporre immediatamente di una parte del risparmio previdenziale accantonato, con facoltà di reintegrare la posizione individuale e senza risolvere il rapporto previdenziale, il riscatto ha la natura di un vero e proprio recesso (totale o parziale) dal fondo, senza diritto alla reintegrazione (ma solo alla possibilità di ricostituire la posizione modulando i successivi flussi contributivi). 750 d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 Nel d.lgs. n. 252/05, invece, la scelta di sistema di equiparare le forme pensionistiche si è tradotta anche nella tendenziale unificazione, salve alcune limitate eccezioni, del regime delle prestazioni. Non solo infatti l’art. 12, riprendendo una norma già presente nel d.lgs. n. 124/ 93, ha confermato l’applicabilità delle norme sulle prestazioni ai fondi aperti. L’art. 13 ha anche previsto « l’applicazione delle norme del presente decreto legislativo in tema di finanziamento, prestazioni e trattamento tributario » per le forme pensionistiche individuali. Rinviando ogni più approfondita considerazione al commento a tali articoli, si può subito osservare come la norma consentirà anche ai soggetti non titolari di un reddito di lavoro o di impresa di richiedere l’anticipazione della posizione maturata al verificarsi di una delle ipotesi dell’art. 11, comma 7o ( 16 ), tra l’altro beneficiando del nuovo e più favorevole regime fiscale ad essa connesso (v. Marchetti, sub art. 11, comma 6o, in questo Commentario). Anche questa norma contribuisce dunque a costruire quell’impianto di sistema che, equiparando pienamente le forme pensionistiche complementari, sfuma fin quasi ad annullarla la distinzione tra previdenza dei soggetti in condizione professionale e soggetti in condizione non professionale, e quindi tra secondo e terzo pilastro previdenziale ( 17 ). Accanto al dato dell’intervenuta uniformazione tra forme collettive ed individuali, l’iniziale verifica sull’ambito di applicazione della disciplina delle prestazioni porta però a riscontrare anche l’esistenza di forme pensionistiche che, almeno in alcune ipotesi, possono sottrarsi ad essa. Si tratta, in particolare, delle forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore della l. n. 421/92 (c.d. fondi preesistenti) (v. Occhino, sub art. 20, in questo Commentario): questi, se gestiti in via prevalente secondo il sistema della ripartizione e se in condi( 16 ) Facoltà questa che è espressamente contemplata negli schemi di regolamento adottati dalla COVIP con la delibera del 31 ottobre 2006, cui dovranno uniformarsi i fondi pensione aperti e le forme pensionistiche individuali attuate mediante contratti di assicurazione sulla vita. ( 17 ) Vedi Tursi, La terza riforma della previdenza complementare, cit., p. 518. zione di accertato squilibrio finanziario, potranno continuare, sotto la propria responsabilità, a derogare agli artt. 8 ed 11 del d.lgs. n. 252/05 (art. 20, comma 7o). Sempre in deroga all’art. 11, nell’ipotesi in cui tali fondi garantiscano prestazioni pensionistiche definite di anzianità e vecchiaia, l’accesso al trattamento complementare sarà consentito solo in caso di liquidazione del trattamento obbligatorio (art. 20, comma 6o). Infine, i lavoratori assunti prima del 29 aprile 1993 ed a tale data già aderenti ad un fondo preesistente potranno richiedere la liquidazione della prestazione in capitale anche al di fuori dei limiti previsti dall’art. 11, il cui regime sarà loro applicabile solo a seguito di una specifica manifestazione di volontà (art. 23, comma 7o). 3. – L’analisi sull’ambito di applicazione dell’art. 11 può poi arricchirsi di un riferimento alla posizione degli aderenti in rapporto al momento di entrata in vigore della nuova disciplina. L’art. 23, comma 1o, del d.lgs. n. 252/05 (come modificato dal d.l. n. 279/06 e dalla successiva legge di conversione) prevede che le norme del decreto, salve alcune eccezioni tra le quali non è contemplato il regime delle prestazioni, « entra[no] in vigore il 1o gennaio 2007 ». Né l’articolo introduce disposizioni transitorie in materia di prestazioni, se non ai soli fini fiscali ( 18 ). Per effetto di queste previsioni, il nuovo regime (ed in particolare i più severi requisiti di accesso ai trattamenti pensionistici, v. infra, par. 7) diverrà quindi immediatamente applicabile a tutti gli aderenti a forme pensionistiche ( 19 ), con ( 18 ) Si tratta del comma 5o dell’art. 23, a mente del quale alle prestazioni maturate dagli iscritti alla data di entrata in vigore del decreto continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti, ad eccezione della riliquidazione dell’imposta in base all’aliquota media di tassazione dei cinque anni precedenti di cui all’art. 20, comma 1o, secondo periodo, del t.u. delle imposte sui redditi. ( 19 ) Immediatezza che, secondo la delibera COVIP del 28 aprile 2006, deve intendersi come automatica applicabilità « anche in mancanza dell’adeguamento della documentazione contrattuale ». In senso contrario v. Pandolfo, Prime osservazioni sulla nuova legge, cit., p. 197, secondo il quale si dovrebbe invece escludere una « diretta conformazione degli ordinamenti delle forme pensionistiche ». La nuova disciplina della previdenza complementare la sola eccezione di coloro che abbiano già acquisito il diritto alle prestazioni nel vigore della previgente disciplina. Si pone quindi, a questo proposito, il problema di individuare la fattispecie in presenza della quale si possa dire già sorto, sulla base del d.lgs. n. 124/93, il diritto soggettivo alla prestazione di previdenza complementare. A riguardo, possono essere utili le indicazioni fornite dalla COVIP la quale, con la delibera del 28 giugno 2006, ha specificato che « continuano a trovare applicazione le previgenti disposizioni normative (di cui al decreto n. 124/93) relativamente alle prestazioni maturate alla data del 31 dicembre 2007 [oggi da leggere 2006], intendendosi per tali quelle per cui, entro tale data, siano stati conseguiti tutti i requisiti di accesso e sia stato esercitato il relativo diritto da parte dell’interessato mediante specifica richiesta ». Si tratta di indicazioni coerenti con la natura di diritto potestativo alle prestazioni che l’iscritto vanta nei confronti della forma pensionistica ( 20 ) e con gli spunti ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale ( 21 ). Esse, inoltre, hanno il pregio di fare proprio il principio,