Capitolo 14 - Ateneonline

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Essenziale di economia
Stanley L. Brue, Campbell R. McConnell, Sean M. Flynn
Copyright © 2010 – The McGraw-Hill Companies srl
SOLUZIONI DEGLI ESERCIZI DI FINE CAPITOLO 14
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La politica fiscale è volta a modificare il livello di attività macroeconomica per stimolare la crescita,
ridurre la disoccupazione e/o contenere l’inflazione. Le normali attività di gestione e di bilancio
rispondono a un’ampia gamma di priorità, molte delle quali sono (almeno in apparenza) di natura
non economica e, talvolta, possono essere contrarie ai consueti obiettivi macroeconomici del
governo.
Le opzioni disponibili sono: un aumento della spesa pubblica, una riduzione delle imposte o una
qualche combinazione delle due cose.
Un individuo che desidera preservare la dimensione dello Stato è probabile che sarà favorevole a un
aumento della spesa pubblica; una persona che crede che il settore pubblico sia fin troppo grande è
invece plausibile che si schieri in favore di un taglio delle imposte.
Il gettito fiscale netto varia proporzionalmente al variare del PIL. Quando il PIL cresce, aumentano
anche le imposte sui redditi e l’IVA e contemporaneamente diminuisce la spesa – diminuiscono di
importanza voci di spesa quali i trasferimenti di welfare o i sussidi di disoccupazione. Siccome il
gettito netto è dato dalle tasse raccolte al netto della spesa pubblica, esso cresce all’aumentare del
PIL, così riducendo il tasso di crescita di quest’ultimo.
D’altra parte, quando il PIL diminuisce a causa di una recessione, il prelievo fiscale rallenta o
diminuisce, mentre la spesa per trasferimenti aumenta rapidamente. Di conseguenza, il gettito netto
diminuisce parallelamente al PIL, così riducendo la gravità della contrazione dell’attività economica.
Un sistema di imposta progressivo è, tra i tre differenti sistemi di ripartizione del carico fiscale,
quello che ha il maggiore effetto stabilizzante; all’opposto, un sistema di imposta regressivo sortisce
il minore effetto di stabilizzazione automatica. Un’imposta progressiva fa sì che il gettito fiscale
aumenti al crescere del reddito e offre pertanto una maggiore “stabilizzazione” sull’aumento dei
redditi e della spesa rispetto a un’imposta proporzionale e, ancor di più, rispetto a un’imposta
regressiva. Nel caso di quest’ultima, il gettito fiscale cresce più lentamente rispetto al PIL, così
esercitando una stabilizzazione molto contenuta. Infine, il gettito raccolto con un’imposta
proporzionale cresce a un tasso costante con l’aumento del PIL. Specularmente, quando l’economia
entra in recessione, il gettito di un’imposta progressiva diminuisce molto più rapidamente, in quanto
il gettito diminuisce più che proporzionalmente rispetto alla contrazione del PIL. Questa peculiarità
ha l’effetto di un “ammortizzatore” sulla riduzione dei redditi – la percentuale di reddito pagata in
tasse diminuisce, lasciando quindi disponibile una porzione di reddito maggiore. È evidente che, nel
caso di un’imposta regressiva, una riduzione del PIL sortisce l’effetto opposto: il gettito fiscale
diminuisce, ma meno che proporzionalmente rispetto alla contrazione subita dal PIL.
Il saldo di bilancio corretto per il ciclo (anche detto bilancio di piena occupazione) misura quello che
sarebbe il deficit o il surplus di bilancio se l’economia fosse al livello di PIL che corrisponde alla
piena occupazione della forza lavoro, mantenendo invariato il sistema di imposta e la spesa pubblica
corrente. Se il saldo di bilancio corretto per il ciclo è in pareggio, il governo non ha intrapreso né una
politica espansiva né una politica restrittiva; ciò è vero anche nel caso in cui una recessione
determini l’insorgere di un deficit ciclico. Il bilancio effettivo è invece il deficit o il surplus che si
realizza nel corso di un anno, a prescindere dal fatto che l’economia operi al livello di PIL di piena
occupazione o meno.
Osservando la Figura 14.3, se il PIL di piena occupazione fosse PIL3, il saldo di bilancio di piena
occupazione sarebbe positivo (in quanto esiste un surplus), segno che è stata intrapresa una politica
fiscale restrittiva. Anche se il saldo di bilancio “effettivo” è in pareggio in corrispondenza del livello
PIL2, la politica fiscale è comunque restrittiva. Per far sì che l’economia raggiunga la piena
occupazione, lo Stato dovrebbe alternativamente ridurre le imposte o aumentare la spesa pubblica
(cioè spostare a destra la curva G o a sinistra la curva T, finché la loro intersezione non avviene in
corrispondenza di PIL3).
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E’ necessario avere tempo per capire in che direzione si sta muovendo l’economia (ritardo di
conoscenza), per attuare una politica fiscale (ritardo amministrativo) e per far sì che tale politica
sortisca pienamente il proprio effetto sull’economia (ritardo operativo). Durante tutto questo tempo,
è possibile che altri fattori cambino, rendendo del tutto inappropriata una certa politica fiscale.
Ciononostante, la politica fiscale discrezionale rappresenta un utile strumento per prevenire gravi
fenomeni recessivi o forti inflazioni da domanda.
Il mondo politico può ulteriormente complicare la politica fiscale a causa del ciclo politicoeconomico. Il ciclo politico-economico è dato dal maggiore interesse che la classe politica
solitamente nutre nei confronti della propria rielezione che non nei confronti della stabilizzazione
dell’economia. Prima delle scadenze elettorali, non è improbabile che si verifichino tagli delle
imposte o aumenti della spesa pubblica al solo scopo di compiacere gli elettori, anche se poi queste
politiche rischiano di alimentare fenomeni inflattivi. Dopo le elezioni, ammesso e non concesso che i
politici abbiano il coraggio necessario per farlo, è possibile che si cerchi di “frenare” l’economia per
contenere il rischio di inflazione, facendo così crescere il livello di disoccupazione. In questa
prospettiva, il processo politico-elettorale crea instabilità economica.
Una delle possibili soluzioni per stimolare i consumi è un taglio delle imposte. Se le famiglie
ricevono la riduzione delle imposte, ma si aspettano che vi sarà un imminente capovolgimento della
politica fiscale, è possibile che esitino ad aumentare la spesa per consumi. Ipotizzando che le tasse
aumenteranno presto (e che aumentino magari oltre il livello iniziale), non è inverosimile che le
famiglie aumentino il proprio tasso di risparmio nell’aspettativa di imposte future più elevate.
L’effetto spiazzamento è la riduzione della spesa per investimenti a causa dall’aumento del tasso di
interesse provocato dalla maggiore spesa pubblica (finanziata attraverso il ricorso al debito).
L’aumento di G, inizialmente pensato per far crescere la domanda aggregata, potrebbe far aumentare
i tassi di interesse, determinando quindi una contrazione di I. L’effetto spiazzamento può pertanto
ridurre l’incisività di una politica fiscale espansiva.
Nella misura in cui l’aumento del deficit fa espandere l’economia, il PIL di equilibrio sarà a destra
della sua posizione originale rappresentata nella Figura 14.4. Il maggiore PIL genera redditi e
occupazione più elevati, così contribuendo a un incremento del gettito fiscale (nonostante le aliquote
più basse) e riducendo automaticamente la spesa previdenziale e assistenziale (grazie al diminuire
del numero di persone che possono accedere a tali programmi di assistenza). La politica fiscale
espansiva potrebbe sortire effetti positivi sia sull’economia che sul deficit di bilancio effettivo.
Specie nei primi anni’60, quando l’inflazione era ancora relativamente bassa, il Presidente Kennedy
aveva ragione. I tagli delle imposte, approvati poi dal Presidente Johnson, fecero aumentare il PIL. Il
taglio delle tasse fece crescere il prodotto reale in maniera tale che, grazie al PIL più elevato, il
gettito fiscale netto era maggiore dopo il taglio delle tasse rispetto a prima – proprio come avremmo
potuto evincere dalla Figura 14.4.
Il debito pubblico totale rappresenta la quantità complessiva di denaro che lo Stato deve rimborsare a
chi detiene titoli del debito pubblico. Tuttavia, solo parte di questo debito (con riferimento agli USA,
il 47 percento nel 2007) è detenuta dal pubblico; il restante 53 percento è nelle mani del governo
federale – lo Stato è debitore di se stesso.
È più importante esaminare la dimensione del debito relativamente al PIL, in quanto rappresenta una
misura più appropriata per valutare la capacità di un’economia (o di uno Stato) di onorare il debito.
È in pratica lo stesso discorso che vale per una famiglia: il livello di indebitamento diventa un
problema se e solo se la famiglia non ha reddito sufficiente (il PIL, nel caso di uno Stato) per far
fronte alle rate mensili del mutuo. Un debito di € 10 000 rappresenta indubbiamente un problema per
un individuo privo di reddito; è difficile però che lo sia per chi guadagna più di € 100 000 l’anno. Il
pagamento del debito interno è come passare i soldi da una mano all’altra: quel che avviene è una
mera redistribuzione, senza che vi sia alcuna perdita di ricchezza nazionale. Il pagamento del debito
estero è invece a tutti gli effetti un flusso di ricchezza verso investitori stranieri. Osservate però che
questo non è necessariamente un male se il debito estero è stato accumulato per acquistare dei beni o
delle attività atte a generare crescita economica o a soddisfare importanti priorità di ordine sociale o
economico.
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L’affermazione è vera per quanto attiene a quella parte di debito nelle mani di investitori nazionali,
ma ciò non significa che un debito pubblico molto elevato sia completamente privo di problemi.
14-9 Il peso “effettivo” del debito pubblico non è dato dalla sua dimensione in termini assoluti. Infatti, se
non dovessero essere pagati interessi e il rifinanziamento fosse automatico, il debito sarebbe del tutto
privo di “peso”. In realtà, sappiamo che è necessario pagare degli interessi. Gli investitori si
aspettano che, per pagare gli interessi, lo Stato debba usare la leva fiscale o incrementare
ulteriormente il debito pubblico. Gli interessi sul debito sono perciò molto importanti e il loro peso
può essere valutato grazie al rapporto tra spesa per interessi e PIL (in quanto il PIL è una misura del
reddito nazionale, cioè di quanto gettito fiscale può virtualmente raccogliere lo Stato per far fronte
agli interessi sul debito).
Si può anche esaminare lo stesso problema in termini di costo opportunità. Ogni euro speso per
pagare gli interessi sul debito è un euro che avrebbe potuto essere usato per finanziare l’istruzione, la
sanità pubblica, la difesa nazionale, un taglio delle imposte o qualche altre priorità di ordine sociale
o economico.
14-10 Catena causa-effetto: il finanziamento del debito pubblico compete con il finanziamento degli
investimenti privati; i maggiori tassi d’interesse provocano una riduzione del capitale privato e un
rallentamento della crescita economica.
Ciononostante, se gli investimenti pubblici sono complementari rispetto a quelli privati, i soggetti
privati che prendono a prestito potrebbero essere disposti a pagare tassi di interesse più elevati,
grazie alle maggiori opportunità di crescita rese possibili da questa complementarietà. La produttività
e la crescita economica potrebbero pertanto aumentare.
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