CORTE DI CASSAZIONE, 24 luglio 2007, n. 16393

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CORTE DI CASSAZIONE, 24 luglio 2007, n. 16393 – Carnevale Presidente – Del Core
Estensiore – Sorrentino P.M. – Maffei S.r.l. c. P.M.R.
Società – Società di capitali – Società per azioni – Organi sociali – Assemblea dei soci –
Costituzione – In genere – Verbale di deliberazione assembleare – Identificazione dei soci
partecipanti – Assenza – Difetto di costituzione dell’assemblea – Prova concreta – Necessità – “Onus probandi” – A carico del socio impugnante – Fattispecie anteriore al d.lgs. n.
6 del 2003
(Artt. 1421, 2366, 2375, 2379, 2697 c.c.)
L’omessa verbalizzazione dell’identificazione dei soci partecipanti ad un’assemblea di società per
azioni non determina automaticamente la nullità assoluta della deliberazione, essendo necessario
dimostrare e non soltanto supporre il difetto di costituzione dell’organo deliberante, in quanto l’identificazione può avvenire anche in modo informale ed implicito mediante l’attestazione presidenziale della valida costituzione dell’assemblea (fattispecie anteriore al d.lgs. n. 6 del 2003). (Rigetta, App. Sassari, 25 settembre 2003) (1).
Società – Società di capitali – Società per azioni – Costituzione – Modi di formazione del
capitale – Conferimenti – In genere – Versamenti in conto capitale – Natura giuridica –
Conferimenti atti a incrementare il patrimonio netto – Destinazione – Costituzione di riserva “di capitale” soggetta alla stessa disciplina della riserva da soprapprezzo – Diritto
alla restituzione – Condizioni
(Artt. 2431, 2432 c.c.)
I versamenti in conto capitale costituiscono conferimenti volti a incrementare il patrimonio netto
della società e non sono imputabili a capitale, salvo che, con apposita delibera assembleare di
modifica dell’atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l’utilizzo per un aumento del
capitale sociale; una volta eseguiti, i versamenti vanno a costituire una riserva, non di utili, ma “di
capitale”, soggetta alla stessa disciplina della riserva da soprapprezzo (art. 2431 cod. civ.), seppure “personalizzata” o “targata” in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che li hanno effettuati.
Ne consegue che i soci eroganti possono chiedere la restituzione delle somme versate solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione e che, d’altra parte, i ridetti versamenti, in caso di saturazione della riserva legale, possono con delibera dell’assemblea ordinaria essere distribuiti “durante societate” tra i soci in misura
corrispondente a quanto da ognuno versato. (Rigetta, App. Sassari, 25 settembre 2003) (2).
Società – Società di capitali – Società per azioni – Organi sociali – Assemblea dei soci –
Deliberazioni – Invalide – Impugnazione – In genere – Delibera adottata con intervento
di soci non in regola con il deposito dei certificati azionari – Rilevabilità del vizio – Prova
– Onere a carico della parte impugnante – Contenuto
(Artt. 2377, 2379 c.c.; art. 4, legge n. 1745/1962)
In caso di impugnazione di delibera adottata con intervento di soci iscritti nel relativo libro ma
non in regola con il deposito dei certificati azionari prescritto dall’art. 4 della legge n. 1745 del
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1962, il relativo vizio può essere rilevato solo in conseguenza della prova, il cui onere incombe
sulla parte impugnante, della concreta mancanza della qualità di socio in capo al soggetto che vi
ha preso parte, poiché è solo quella qualità, e non il previo deposito delle azioni, che legittima ad
intervenire all’assemblea. (Rigetta, App. Sassari, 25 settembre 2003) (3).
Società – Società di capitali – Società a responsabilità limitata – Capitale sociale – Conferimenti – In genere – Finanziamenti del socio in favore della società – Nozione – Impugnazione della delibera di rimborso dei finanziamenti in questione – Prova a carico della
parte impugnante – Contenuto
(Art. 2467 c.c.)
La proposizione normativa contenuta nell’art. 2467 cod. civ. – secondo cui il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori
e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito – è applicabile, come reso evidente dal secondo comma della disposizione, non a ogni forma
di finanziamento da parte dei soci, ma, esclusivamente, alla figura dei cosiddetti prestiti anomali o
“sostitutivi del capitale” al fine di porre rimedio alle ipotesi di sottocapitalizzazione cosiddetta
nominale. Pertanto, in caso di impugnazione della delibera assembleare di rimborso di finanziamenti ritenuti anomali nel senso appena chiarito, la parte impugnante deve provare che la deliberazione medesima sia stata adottata in presenza di un eccesso di indebitamento rispetto al patrimonio netto della società, o di una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, ovvero, in una fase in cui la società, in reazione all’attività in concreto esercitata, aveva
la necessità delle risorse messe a disposizione dai socie finanziatori e non sarebbe stata in grado
di rimborsarli (4).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nel giugno 1996 P.M.R., M.C. e M.A., quali eredi legittimi di M.G., morto il (OMISSIS), e l’ultima anche in proprio, citarono in giudizio davanti al Tribunale di Tempio
Pausania la Maffei s.r.l. sedente in (OMISSIS), esponendo
che: al momento del decesso del loro dante causa, le azioni della allora Maffei s.p.a. erano di proprietà di
quest’ultimo e della di lui figlia A.; in seguito, le azioni del
loro, rispettivamente, marito e padre erano state cedute a
terzi; in data 12 febbraio 1987 l’assemblea ordinaria della
Maffei s.p.a. aveva deciso di trasformare, con decorrenza 1
maggio 1987, “da conto capitale a conto corrente” il debito, pari a L. 292.560.000, esistente nei confronti dei soci e
di riconoscere altresì l’interesse legale del 5% da calcolarsi
a fine anno; tuttavia, la società non aveva provveduto a
effettuare le dovute restituzioni;
pertanto, ciascuno di essi era creditore iuxe haereditario,
nella misura di un terzo, della somma di L. 292.560.000 e
la sola M. A. anche della somma di L. 292.560. Su tali
premesse, gli attori domandarono la condanna della società convenuta a corrispondere loro le relative somme maggiorate degli interessi legali.
La Maffei s.r.l. resistette alla pretesa e, in via riconvenzionale, chiese dichiararsi la nullità, per una pluralità di
motivi, della Delib. presa in data 12 febbraio 1987.
La domanda attorea venne accolta dal Tribunale adito.
Proposto gravame dalla soccombente, la Corte d’Appello
di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, con sentenza non
definitiva del 21 marzo 2002, ne respinse i motivi volti a
contestare la legittimazione attiva degli attori e la validità
della Delib. assembleare febbraio 1987, ritenendo fondato
l’atto impugnatorio solo con riferimento alla misura degli
importi dovuti dalla società. Quindi, con sentenza del 25
settembre 2003, in accoglimento di altro motivo di appello, ridusse a L. 160.908.000 la somma che gli appellati avevano diritto a ricevere, pro quota ereditaria, dalla s.r.l.
Maffei. Con la prima delle due sentenze, la Corte osservò
che: la mancata convocazione dei soci e l’omessa comunicazione dell’ordine del giorno non avevano comportato
nullità della delibera, in quanto adottata da assemblea totalitaria (art. 2366 c.c., comma 3); neanche la mancata
identificazione dei partecipanti costituisce motivo di nullità, trattandosi di adempimento non soggetto a particolari
formalità cui è possibile supplire con la personale conoscenza da parte del presidente dell’assemblea, sicché è
sufficiente la dichiarazione, riportata nel verbale, della regolare costituzione dell’adunanza;
l’omesso deposito delle azioni costituisce non un caso di
nullità, ma di vizio dell’assemblea, da farsi valere nel termine di tre mesi di cui all’art. 2377 c.c., comma 2, e,
quindi, non più invocabile da parte della società che non
provi la concreta mancanza della qualità di socio in capo a
uno o a entrambi i partecipanti o la mancata convocazione
di terzi, acquirenti di azioni; la deliberazione relativa alla
trasformazione dei versamenti effettuati dai soci è legittima
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in quanto, benché i versamenti “in conto capitale” debbano essere restituiti soltanto all’atto dello scioglimento della
società, non è esplicitamente previsto che non se ne possa
mutare la destinazione e disporre la restituzione ai soci,
ove vengano osservate le norme dettate dall’art. 2445 c.c.,
per la riduzione del capitale sociale. Per il resto, occorreva
appurare la misura dei conferimenti a suo tempo effettuati
da M.G. e, eventualmente, anche da M.A. e stabilire se, al
momento dell’apertura della successione, il credito per il
rimborso del conferimento fosse ancora da computarsi nel
patrimonio relitto dal de cuius. Nessun titolo avevano gli
appellati a richiedere la restituzione delle somme già dovute all’altro socio M.E.. Con la sentenza definitiva, la Corte
sarda rilevò come dall’esame della prodotta documentazione fosse risultato che M.A. non aveva effettuato alcun
conferimento, che M.G. era titolare del 55% delle azioni
e che quest’ultimo e M.E. avevano effettuato versamenti
in conto capitale per l’ammontare complessivo di L.
292.500.000; il credito maturato in capo al predetto e
trasmesso ai di lui eredi era quindi pari a L. (292.500.000
– 45% =) 160.908.000.
Avverso entrambe le sopra compendiate sentenze la
Maffei s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base
di cinque motivi, cui resistono con controricorso P.M.R.,
M.C. e M.A., quali eredi legittimi di M.G..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2366 e 2375 c.c., omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. La corte Territoriale ha ritenuto sanati i vizi della
convocazione dell’assemblea, poiché totalitaria, senza tenere conto dell’ulteriore motivo di nullità della deliberazione basato sull’omessa identificazione dei partecipanti. Il
carattere plenario dell’adunanza non poteva ritenersi provato sulla scorta di un giudizio formulato dal presidente,
insuscettibile di verifica, non risultando nominate né identificate, con apposita indicazione della loro generalità nel
verbale dell’assemblea, le persone intervenutevi. Nessun
rilievo poteva attribuirsi all’affermazione del presidente
relativamente alla regolare costituzione dell’assemblea,
trattandosi di giudizio di cui non era possibile controllare la
correttezza, proprio a causa della mancata identificazione
dei partecipanti.
Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia violazione
e falsa applicazione della L. 29 dicembre 1962, n. 1745,
artt. 4 e 5, artt. 2375, 2377 e 2379 c.c., omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. Era, anzitutto, onere degli attori dimostrare l’avvenuto preventivo deposito dei titoli azionar da parte degli
intervenuti all’assemblea, non risultando dal relativo verbale l’adempimento di questa ineludibile formalità. Contrariamente a quanto opinato dalla Corte d’Appello, il mancato deposito dei titoli importa vizio di inesistenza o nullità
assoluta della deliberazione assembleare.
I sopra compendiati motivi esigono trattazione congiunta
poiché implicano la risoluzione di questioni comuni (invalidità della delibera assembleare per pretesi vizi di costituzione dell’assemblea) ed è unica la ragione del loro rigetto,
prima di esplicitare la quale è d’uopo svolgere alcune
premesse.
Le censure in questione in tanto possono essere scrutinate “nel merito” in quanto con esse si supponga che la società abbia inteso sollecitare i poteri di rilevazione di uffi-
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cio della nullità o della inesistenza della delibera ai sensi
del combinato disposto degli artt. 2379 e 1421 c.c., evidente essendo che, per l’annullabilità della delibera assembleare (art. 2377 c.c.), la società difetterebbe di legittimazione attiva. Particolare, questo, che sembra essere
sfuggito alla Corte d’Appello la quale, a proposito del dedotto mancato deposito delle azioni, parla, sia pure con
argomentazione di rincalzo, di decadenza della società dal
diritto di far valere il conseguente vizio (ritenuto di annullabilità) della delibera, per essere decorso il termine di cui
all’art. 2377 c.c., comma 2, laddove più corretto sarebbe
stato semmai rilevare il difetto di legittimazione attiva della
convenuta, attrice in riconvenzione.
La soluzione della questione che indirettamente viene
sottoposta all’esame di questa Corte – id est, la natura del
vizio da cui può essere affetta la deliberazione di società
per azioni adottata senza l’identificazione a verbale dei
partecipanti o da soci intervenuti in assemblea senza aver
preventivamente provveduto al deposito delle proprie azioni – non può essere data perché deve aversi riguardo a
un elemento logicamente e ineludibilmente anteriore, e
cioè alla prova richiesta per fare valere quei vizi in sede di
impugnazione della delibera.
L’art. 2377 c.c. e l’art. 2379 c.c. (vecchio testo) sanciscono, rispettivamente, l’annullabilità delle deliberazioni
non adottate in conformità della legge o dell’atto costitutivo e la nullità delle deliberazioni recanti un oggetto illecito
o impossibile. Di esse consentono l’impugnazione (la prima norma a determinati interessati), con l’ovvio onere di
colui che la propone di allegare e dimostrare, secondo i
principi generali dell’azione, lo specifico fatto che produce
la difformità invalidante o l’impossibilità o l’illiceità dell’oggetto.
Dato che nel caso in ispecie si discute sulla valida costituzione dell’assemblea in relazione alla legittimazione dei
partecipanti e quest’ultima deriva da una condizione sostanziale (qualità di socio o titolarità di un diritto sull’azione, al quale è connesso il diritto di voto), ciò che l’attore
deve allegare e provare a fondamento dell’impugnazione è
il concreto difetto, rispetto a taluno dei partecipanti, di tale
condizione e non l’astratta possibilità che essa non sussista.
Al riguardo, va richiamata la giurisprudenza di questa Corte, la quale, pur negando il carattere per cosi dire analitico
del verbale delle deliberazioni assembleari e, dunque, escludendo che ad esso debba essere “attribuito lo scopo e
l’efficacia di mezzo di documentazione posto a tutela dei
soci dissenzienti o assenti e comunque delle minoranze
che non abbiano votato a favore”, non ha dubitato che la
società sia tenuta a conservare non solo la documentazione relativa alle deleghe di rappresentanza (come espressamente prescritto dall’art. 2372 c.c., comma 1), ma, per la
stessa ragione, anche quella concernente la verifica del
diritto di intervento dei soci, vale a dire di tutti i fattori di
costituzione dell’assemblea secondo il disposto dell’art.
2370 c.c. Sicché, pur se non allegato al verbale e perciò
non parte integrante di esso, l’elenco dei soci ammessi e
partecipanti, idoneamente formato dagli organi della società e conservato ai suoi atti, costituisce la fonte primaria di
prova della composizione dell’assemblea e, indirettamente, delle assenze (vedi Cass. nn. 2263/1970, 3107/1956).
Per la soluzione della questione sollevata più specificamente con il secondo motivo, non offre argomento decisivo la sentenza di questa Corte n. 5197 dell’8 ottobre
1979, richiamata dalla ricorrente a conforto della propria
tesi, riguardando essa un caso in cui i partecipanti all’assemblea erano risultati (provatamente) tutti privi del diritto
di voto, non avendo potuto effettuare, ai sensi della L. 29
dicembre 1962, n. 1745, art. 4, il previo deposito delle
azioni, di cui non erano più in possesso per averle dato in
pegno.
Svolte le superiori premesse, con riferimento al primo
motivo va osservato come sia ovviamente buona norma
che, ai fini della regolarità formale, il verbale di assemblea
di una società per azioni dia atto dell’avvenuta identificazione dei partecipanti, ma non può certo seguirsi la tesi
della ricorrente secondo cui l’omessa verbalizzazione dell’avvenuta identificazione dei partecipanti importi automaticamente l’invalidità della deliberazione assembleare, quasi che questa dovesse, in tal caso, presumersi adottata da
soggetti non legittimati.
In contrario, va anzitutto rammentato che, perlomeno con
riferimento all’assetto normativo vigente all’epoca dei fatti di
causa, l’identificazione dei partecipanti può avvenire anche
in modo informale, in base alla loro diretta conoscenza da
parte del presidente o dei suoi immediati collaboratori (ciò
pure nelle grandi società per la frequenza con cui i piccoli
azionisti concentrano la loro rappresentanza in poche, e di
solito abituali, persone fisiche) e che l’attestazione presidenziale della valida costituzione dell’assemblea può implicitamente voler dire che l’identificazione degli intervenuti abbia
avuto luogo almeno nel modo suddetto (vedi Cass. nn.
5542/1997, 693/1976, 2263/1970).
Peraltro, la mancanza nel verbale di una specifica attestazione circa l’avvenuta identificazione dei partecipanti –
anche qualora se ne volesse inferire una reale omissione e,
quindi, un’irregolarità sostanziale anziché solo formale,
come invece deve ritenersi di fronte all’attestazione presidenziale della valida costituzione dell’assemblea – non
configura altro che un’astratta possibilità di vizio della delibera per difetto di costituzione dell’organo deliberante. Ma
perché il Giudice possa dichiarare l’invalidità della deliberazione occorre concretamente dimostrarne e non soltanto
supporne la difformità dalla legge o dall’atto costitutivo
ovvero l’oggetto illecito o impossibile. E poiché, in definitiva, la ricorrente si è limitata ad ipotizzare un vizio di costituzione dell’assemblea, esattamente la Corte di merito (cui
nessuna prova di specifici fatti invalidanti sotto il profilo qui
considerato è stata offerta) ha comunque respinto l’impugnazione della delibera, per invalidare la quale la società avrebbe dovuto dimostrare che tutti coloro di cui non è
stata accertata la legittimazione a partecipare allariunione
assembleare ne erano effettivamente privi.
Stesso discorso va fatto per il dedotto mancato deposito
delle azioni cinque giorni prima dell’assemblea in cui fu
adottata la delibera impugnata (secondo motivo). Quand’anche si volesse ritenere che la delibera sia stata adottata con
il concorso di soci iscritti nel relativo libro ma non in regola
con il deposito dei certificati azionari prescritto dalla L. n.
1745 del 1962, art. 4, il vizio potrebbe essere rilevato solo
in conseguenza della prova (il cui onere incombe su chi
vuole far valere il vizio) della concreta mancanza della
qualità di socio in capo al soggetto che vi ha preso parte,
poiché è solo quella qualità (e non il previo deposito delle
azioni) che legittima ad intervenire all’assemblea. Di conseguenza, nel caso in cui il socio, ancorché inadempiente,
partecipi all’assemblea, il difetto di legittimazione all’intervento (in relazione al successivo calcolo dei quorum e delle maggioranze) deve essere dedotta non già con la sem-
plice contestazione del mancato deposito, bensì con la
negazione della qualità di socio in capo al soggetto inadempiente. Infatti, il previo deposito delle azioni è onere
imposto dalla legge al fine di consentire agli organi sociali il
controllo degli aventi diritto alla partecipazione e l’unica
sanzione del relativo inadempimento non può essere che
la non ammissione all’assemblea; ove però tale sanzione
non sia stata applicata, la legittimità della partecipazione
non può essere contestata se non denunciando la non appartenenza dell’intervenuto alla compagine sociale. Correttamente, dunque, la Corte Territoriale ha rilevato che, vertendosi in ipotesi di assemblea totalitaria, il mancato deposito delle azioni supponeva in ogni caso la prova incombente sulla società – tenuta a conservare tutta la documentazione inerente l’intervento dei soci nelle riunioni assembleari – che alcuno o entrambi i partecipanti avessero ceduto le proprie azioni.
Nella specie, quindi, non è stato provato che i partecipanti all’assemblea non erano soci, ma si continua a insistere per la nullità della delibera, mettendo in dubbio
quanto attestato dal presidente dell’assemblea, e si pretende che siano gli attori a dare prova dei partecipanti alla
riunione e del regolare deposito dei titoli azionari. Di contro, tanto l’identità dei partecipanti alla riunione quanto
l’omesso deposito delle azioni, cinque giorni prima della
assemblea, dovevano essere dimostrati documentalmente
in base alle scritture che la società deve conservare come
espressamente prescritto per i documenti inerenti alla convocazione e alla riunione dell’assemblea e per le deleghe
di rappresentanza, a comprova, se richiesto dagli interessati, della legalità del procedimento assembleare.
Prescindendo, dunque, dalle problematiche relative alla
latitudine dell’obbligo di procedere direttamente all’identificazione di coloro che intervengono alla riunione assembleare e alla forma (analitica o sintetica) del relativo verbale, deve ribadirsi che colui il quale abbia motivo di dubitare della legittimazione di taluni dei partecipanti (e si proponga di impugnare sotto questo profilo la deliberazione
contraria ai suoi interessi) ha l’onere di fare le specifiche
contestazioni in assemblea, per sollecitare l’accertamento
formale della loro identità, e le specifiche allegazioni (con
la produzione delle relative prove) in sede giudiziaria, per
ottenere l’annullamento della deliberazione. È, quindi, da
condividere l’affermazione del Giudice a quo secondo cui
tale onere probatorio incombeva comunque sulla società,
non solo perché essa, in quanto tenuta a conservare tutta
la documentazione riguardante le operazioni di verifica del
diritto di intervento e di voto dei soci, aveva la disponibilità
materiale della fonte di conoscenza della legittimazione
degli attori, ma proprio in ossequio ai principi che presiedono alla ripartizione dell’onere della prova. Chi impugna
una delibera societaria ha l’obbligo di dimostrarne i presupposti in fatto e in diritto.
Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia violazione e
falsa applicazione degli artt. 2365, 2379 e 2445 c.c., nonché omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.
La delibera era nulla poiché, non ricorrendo le condizioni previste dall’art. 2445 c.c., non poteva essere disposta la restituzione anticipata, rispetto alla liquidazione, dei
versamenti in conto capitale, da ritenersi assoggettati al
rischio di impresa e assimilabili alle riserve indisponibili.
Richiama precedenti di questa Corte, secondo cui, non
potendosi i versamenti in conto capitale equiparare ai mu-
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tui, e non essendo essi divenuti capitale, l’eventuale mutamento di destinazione delle relative somme potrebbe
avvenire in corso di vigenza della società, a condizione che
vengano osservate le norme di cui all’art. 2445 c.c., per la
riduzione del capitale sociale. Erroneamente i giudici di
appello hanno ritenuto, nel caso di specie, rispettata la
predetta norma, in quanto la restituzione non è stata disposta per motivi di riduzione del capitale e pertanto l’unica formalità prescritta era l’indicazione dei motivi della restituzione nell’avviso di convocazione, adempimento tuttavia superato dal carattere totalitario dell’assemblea che aveva adottato la deliberazione. Invero, nel presupposto dell’applicabilità dell’articolo sopra citato, si sarebbe dovuto
rilevare che la deliberazione non era stata assunta, come
dovuto, in una assemblea straordinaria, bensì in una assemblea ordinaria, quale era stata quella del 12 febbraio
1987. Inoltre, per esigenze minime di tutela dei terzi, la
delibera avrebbe dovuto contenere i termini della eventuale esuberanza dei conferimenti dei soci e dimostrare i fatti
specifici a fondamento del relativo giudizio.
La censura non è fondata, anche se coglie l’erroneità di
talune affermazioni dell’impugnata sentenza, peraltro emendabili ai sensi dell’art. 384 c.p.c., essendo il dispositivo
conforme a diritto.
Preliminarmente, va osservato che la destinazione “in
conto capitale” dei versamenti oggetto di delibera costituisce circostanza pacifica in causa. D’altra parte, non appare
dubitabile che con tale imputazione essi fossero stati registrati in contabilità.
Specifiche ragioni di dissenso, compendiate nel motivo
in esame, investono invece la disciplina in concreto applicabile a questo tipo di apporti. La ricorrente si duole della
ritenuta possibilità di una successiva valida rimozione, da
parte della società, del vincolo di indisponibilità che caratterizzava ab origine i versamenti in questione.
In relazione a tali critiche, sono da approfondire le considerazioni svolte dalla ricorrente sull’indisponibilità delle
somme versate e sulla postergazione della loro restituzione.
I versamenti in conto capitale si inseriscono tra gli apporti finanziari o i conferimenti eseguiti, normalmente in società sottocapitalizzate, al di fuori degli schemi giuridicoformali previsti dal codice civile per la originaria costituzione della società o per l’aumento del capitale sociale; si traducono in un incremento del solo patrimonio netto della
società e non sono imputabili a capitale, salvo che, con
apposita delibera assembleare di modifica dell’atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l’utilizzo per
un aumento del capitale sociale. Dalla prassi si ricava che i
versamenti in conto capitale – diffusisi sia in ragione dei
benefici fiscali ad essi collegati, sia, soprattutto, perché costituiscono un efficace e flessibile strumento che i soci possono utilizzare per fare fronte a varie esigenze della società
– sono diretti a creare disponibilità finanziarie discrezionalmente destinabili dagli amministratori a scopi attinenti
all’oggetto sociale.
Sono, quindi, destinati a costituire frazioni del “capitale
di rischio”, ovverosia “mezzi propri” della società beneficiaria. Non essendo imputabili a capitale nel senso appena
chiarito, i versamenti in discorso, una volta eseguiti, vanno
a costituire una riserva non di utili ma, come usa dirsi, “di
capitale”, soggetta, secondo la condivisibile opinione della
dottrina prevalente, alla stessa disciplina della riserva da
soprapprezzo, seppure, si precisa, “personalizzata” o “targata” in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che hanno
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effettuato i versamenti in relazione all’entità delle somme
da ciascuno erogate.
L’analogia tra apporti di patrimonio e soprapprezzo è evidente. Il socio, infatti, sia che versi un soprapprezzo al
momento della sottoscrizione delle azioni, sia che apporti
entità patrimoniali indipendenti dall’emissione di azioni,
mette durevolmente a disposizione della società mezzi economici per lo svolgimento dell’attività di impresa in vista
dei risultati cui è chiamato a partecipare. Il che spiega perché l’apporto aggiuntivo del socio – di patrimonio o di sopraprezzo – possa essere non proporzionale alla partecipazione al capitale. Infatti, in tutti i tipi di società è possibile
derogare al rapporto di proporzionalità tra conferimento e
partecipazione ai risultati della società e tale deroga non è
soggetta ad alcun vincolo di procedura o di forma quando
discende da un comportamento spontaneo del socio.
La disciplina del soprapprezzo prevede che il relativo
fondo, fino al momento dell’integrale costituzione della
riserva legale, non sia disponibile per intero o, secondo
un’interpretazione meno restrittiva, solo per la parte corrispondente alla quota di riserva legale mancante. Verificatesi comunque le condizioni di disponibilità, l’eventuale eccedenza del fondo di soprapprezzo diventa assimilabile a
una qualsiasi riserva facoltativa, distribuibile a seguito di
una semplice decisione dell’assemblea ordinaria.
Le conseguenze, in termini di disciplina, di tale impostazione (assimilazione della riserva in oggetto alla riserva da
soprapprezzo), sono facilmente immaginabili. Una volta
che le somme in conto capitale siano confluite nel coacervo del patrimonio comune, è escluso che i soci eroganti,
finché dura la società, possano esercitare pretese restitutorie. Quindi, a differenza dei finanziamenti, cioè dei prestiti, i versamenti in questione non generano crediti esigibili
dei soci nei confronti della società; la definitiva aggregazione al patrimonio netto dell’ente – dotato per tale via di
ulteriori mezzi propri di cui poter disporre – evidentemente non sarebbe possibile se l’acquisizione delle somme erogate fosse bilanciata, al passivo, da debiti per restituzione
di pari importo in favore dei soci. Gli apporti in discorso
possono essere utilizzati per l’aumento gratuito del capitale, con attribuzione delle azioni di nuova emissione a tutti i
soci, o impiegati per l’acquisto di azioni proprie. I soci possono chiedere la restituzione delle somme versate solo per
effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione
(quindi, dopo la liquidazione di tutte le passività sociali). I
ridetti versamenti, tuttavia, in caso di saturazione della riserva legale, possono essere distribuiti durante societate e
le relative somme andranno ripartite tra i soci (non in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale da ciascuno possedute ma) in misura corrispondente a
quanto da ognuno versato; in diversi termini, la riserva
formata con detti apporti sarà distribuitale nel corso della
vita normale della società ai sensi e nei limiti dell’art. 2431
c.c., naturalmente con delibera dell’assemblea ordinaria.
Nella specie, non essendo neanche dedotto che la società fosse in fase liquidatoria o che sussistessero ostacoli connessi al livello della riserva legale (nel senso che questa fosse al di sotto del limite di legge), nulla impediva che la
Maffei s.p.a., di sua spontanea volontà, decidesse di restituire detti apporti ai soci conferenti.
La conclusione cui è pervenuta la Corte Territoriale è,
dunque, corretta anche se è errato il riferimento all’art.
2445 c.c., quasi che il rimborso ai soci dei versamenti in
conto capitale implicasse l’adozione di una delibera di riduzione del capitale esuberante.
Ribadito, infatti, che i versamenti in conto capitale non
vanno imputati al capitale ma al patrimonio, che la volontà
degli autori dei versamenti è proprio quella di non assoggettarli, fino a futura diversa decisione, al regime del capitale e che, rispetto a detti apporti, sarebbe erroneo parlare
di aumenti di fatto di capitale, in quanto nella disciplina
codicistica il capitale può essere costituito e aumentato
solo con procedure tipizzate, non sussistono, all’evidenza, i
presupposti per ritenere la restituzione dei versamenti disciplinata dalla norma (l’art. 2445 c.c.) che riguarda la riduzione, mediante rimborso di quote ai soci, del capitale
formalmente costituito. Dunque, in assenza di prova della
successiva imputazione a capitale dei versamenti a suo
tempo eseguiti dai due soci della Maffei s.p.a., la restituzione delle relative somme ai soci medesimi poteva essere
disposta al di fuori del paradigma normativo di cui all’art.
2445 c.c..
Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 2467 c.c., che, nel nuovo testo introdotto dalla
riforma del diritto societario (D.Lgs. 17 gennaio 2003, n.
6), posterga il rimborso dei finanziamenti dei soci alla soddisfazione degli altri creditori. Ad avviso della ricorrente, la
norma predetta sarebbe applicabile alla destinazione dei
versamenti dei soci all’atto della deliberazione contestata,
in considerazione che in quel momento gli stessi assolvevano indiscutibilmente una funzione simile a quella del
capitale, per le esigenze della attività sociale.
Il motivo è inammissibile e comunque infondato.
Sotto il primo profilo, va osservato che la norma è entrata in vigore il 1 gennaio 2004, vale a dire a ben 17 anni di
distanza dalla delibera contestata; non si vede, pertanto,
come se ne possa invocare la" applicazione per valutare la
legittimità del deliberato assembleare. Al tempo stesso, la
questione sollevata con il mezzo in esame è dichiaratamente nuova, essendosi il giudizio di appello concluso
prima della entrata in vigore della disciplina invocata.
Ma, come anticipato, la censura è anche infondata.
Al riguardo, è opportuno chiarire, che nonostante l’uso,
già nella rubrica, della locuzione “finanziamenti dei soci”,
la proposizione normativa contenuta nell’art. 2467 c.c., è
applicabile non a ogni forma di finanziamento da parte dei
soci, ma, esclusivamente, alla figura dei cosiddetti prestiti
anomali (o “sostitutivi del capitale”) al fine di porre rimedio
alle ipotesi di sottocapitalizzazione c.d. nominale.
Per come chiaramente specificato nel comma 2, “ai fini
del precedente comma si intendono finanziamenti dei soci
a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati,
che sono stati concessi in un momento in cui, anche in
considerazione del tipo di attività esercitata dalla società,
risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al
patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della
società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.
È stato, quindi, introdotto, per le imprese che siano entrate o stiano per entrare in una situazione di crisi, un
principio di corretto finanziamento la cui violazione
comporta una riqualificazione imperativa del “prestito” in
“prestito postergato” (rispetto alla soddisfazione degli altri
creditori).
Nel caso di specie, la ricorrente non ha nemmeno dedotto che il rimborso del finanziamento durante societate
sia avvenuto in presenza di un eccesso di indebitamento
rispetto al patrimonio netto (dunque rispetto ai mezzi propri, non già al capitale sociale), o di una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento,
ovvero, in altre parole, in una fase in cui la società, in relazione all’attività in concreto esercitata, aveva la necessità
delle risorse messe a disposizione dai soci (finanziatori) e
non sarebbe stata in grado di rimborsarli.
Inoltre, la norma è prevista per le società a responsabilità limitata, pur se viene estesa anche alle società per
azioni quando facciano parte di un gruppo (art. 2497
quinquies c.c.). All’epoca della delibera impugnata la M.
era una s.p.a. e non risulta che facesse parte di qualche
gruppo.
Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e vizi motivazionali. La Corte sarda ha erroneamente ricavato la prova,
ricadente sugli appellati, dell’entità dei versamenti di M.G.
dalla quota azionaria (55%) di cui egli risultava titolare in
base alle scritture contabili. In realtà, non è provato che,
rispetto all’intero montante dei versamenti, la somma conferita dal dante causa degli attori corrispondesse in percentuale alla sua partecipazione azionaria.
Il motivo è infondato.
Se è vero, e lo si è detto in precedenza, che l’apporto
aggiuntivo del socio – si tratti di apporto di patrimonio o di
soprapprezzo – può essere non proporzionale alla partecipazione al capitale, altrettanto indubbio è che, nella maggioranza dei casi, detti apporti sono eseguiti dai soci in
proporzione alle rispettive quote di partecipazione.
Il Giudice a quo, ha pertanto legittimamente presunto,
in base all’id quod plerumque accidit, che i versamenti
fossero stati effettuati dai due soci della Maffei s.p.a. in
rapporto alla rispettiva partecipazione sociale.
Come noto, è riservata al Giudice di merito la facoltà di
valutare discrezionalmente se sia opportuno fare ricorso a
presunzioni e se sussistano i requisiti di precisione, gravità
e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi
di fatto come circostanze idonee a giustificare illazioni secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit; l’unico
sindacato riservato in proposito al Giudice di legittimità è
quello sulla congruenza della relativa motivazione. D’altra
parte, le presunzioni semplici costituiscono una prova
completa alla quale il Giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del
proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e,
infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo
esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che,
ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità
(cfr. Cass. nn. 10135/2005, 9225/2005, 21047/2004, 16831/
2003, 15737/2003, 15706/2002, 15399/2002, 12980/2002,
3974/2002).
A questo riguardo è peraltro inammissibile il profilo di
censura relativo alla motivazione addotta sul punto dalla
Corte isolana. La censura per vizio di motivazione in ordine al ragionamento presuntivo ne deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà e non può limitarsi ad
affermare un convincimento diverso da quello espresso dal
giudice di merito.
Al rigetto del ricorso segue la condanna della sua proponente alle spese.
-
2/2009
293
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle
spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.600,00,
di cui Euro 3.500,00 per onorari d’avvocato, oltre spese
generali e accessori di legge.
(1-2-3-4) Versamenti in conto capitale, riserve “targate” e finanziamenti dei soci
1. Premessa
La sentenza in commento suscita interesse per due
ragioni: da un lato accoglie – ed è la prima volta che
ciò accade in un giudizio di legittimità – 1il concetto
di riserva «targata» o «personalizzata» (con tale
locuzione intendendosi la riserva patrimoniale formata grazie agli apporti spontanei in favore della società da parte di uno o alcuni soci soltanto, ovvero di
tutti i soci, ma in misura non proporzionale alle rispettive partecipazioni al capitale sociale); dall’altro
lato offre alcuni significativi spunti per la ricostruzione della disciplina sui finanziamenti dei soci prevista dall’art. 2467 c.c.
2. Il fatto
I soci di una società per azioni avevano provveduto ad erogare in favore di questa delle somme di denaro, registrate contabilmente come «versamenti in
conto capitale». Successivamente l’assemblea ordinaria della società deliberava di riqualificare quelle
poste come rimesse «in conto corrente», con conseguente diritto dei soci ad ottenere durante societate
il pagamento del saldo attivo sussistente in loro favore alla chiusura del conto, oltre agli interessi legali, fissati nella misura legale; pagamento che tuttavia
mai si verificò.
Deceduto l’azionista di maggioranza, i suoi eredi
legittimi citavano in giudizio la società (nel frattempo trasformatasi in società a responsabilità limitata),
domandandone la condanna al pagamento del suddetto debito. La società resisteva invocando la nullità della menzionata delibera, sia per la natura «sintetica» del relativo verbale, sia per l’inosservanza dell’art. 2445 c.c., recante la disciplina della riduzione
reale del capitale sociale. La sentenza di primo grado
accoglieva la domanda attorea, e veniva confermata
in appello, salvo che sotto il profilo – che qui tuttavia non rileva – del quantum debeatur; la Suprema
Corte respingeva infine il ricorso proposto dalla società convenuta, sia contestando l’affermazione di1
Cfr. PORTALE, “Appunti in tema di «versamenti in conto
futuri aumenti di capitale» eseguiti da un solo socio”, Banca,
borsa, tit. cred., 1995, I, 96.
294
fensiva secondo cui la sinteticità del verbale sarebbe
valsa di per
sé ad invalidare una deliberazione as2
principi in
sembleare , sia sulla scorta di consolidati
3
materia di versamenti in conto capitale , che sinteticamente si passa ad esporre.
3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina. I versamenti in conto capitale: i
principi generali confermati dalla sentenza
Nell’affrontare la tematica dei versamenti in conto
capitale, la S.C. esordisce affermando che i soci –
anche a prescindere da una formale procedura
di
4
aumento del capitale sociale a pagamento – posso2
Questione non poco controversa in passato era quella relativa al contenuto – sintetico ovvero analitico – del verbale
assembleare. Cfr. a favore della tesi della sinteticità del verbale, Cass., 30 ottobre 1970, n. 2663, Giur. it., I, 1, 191; contra,
a favore della più rigorosa tesi della analiticità del verbale, più
di recente Cass., 20 giugno 2000, n. 8370, Foro it., 2000, I,
3506 ss. Detta questione peraltro è da ritenersi ormai superata,
dal momento che l’attuale art. 2375 c.c., nella versione novellata in seguito alla Riforma (e perciò non applicabile nel caso
di specie ratione temporis), propende chiaramente per l’analiticità della verbalizzazione delle delibere assembleari. Cfr.:
RESTAINO, sub 2375, in SANDULLI-SANTORO (a cura di) La
riforma delle società. Commentario (Torino, 2003), 330 ss.;
F. FERRARA JR.-F. CORSI, Gli imprenditori e le società (Milano, 2006), 549; RESCIO, “Assemblea di società per azioni”,
voce de Il Diritto – Enciclopedia giuridica del sole 24 ore,
(Milano, 2007), I, 740 ss.
3
È interessante notare come nel caso in esame non è mai stata
in contestazione la natura (originaria) di versamenti in conto capitale degli apporti eseguiti dai due soci, mentre di regola le controversie giudiziarie in siffatta materia nascono proprio dall’incerta natura dei versamenti, essendo spesso dubbio se si tratta
di finanziamenti (mutui) ovvero di versamenti eseguiti causa
societatis. Cfr., oltre alla nota Cass., 19 marzo 1996, n. 2314,
Società, 1996, 1267, anche: Cass., 6 luglio 2001, n. 9209, Società, 2002, 35; Cass., 31 marzo 2006, n. 7692, Giust. civ., 2007, 3,
668; Cass., 30 marzo 2007, n. 7980, Riv. not., 2008, 176.
4
Manca qui in assoluto quel nesso teleologico tra versamenti ed aumento di capitale a pagamento che invece connota essenzialmente i versamenti in conto futuro aumento di capitale.
Cfr. sul punto Cass., 19 marzo 1996, n. 2314, (supra, n. 3) ove
riguardo a tale tipo di versamenti si parla espressamente di un
«chiaro collegamento causale tra il versamento eseguito da un
socio ed un prossimo aumento del capitale sociale».
no effettuare versamenti nelle casse della società
(specialmente se sottocapitalizzata) onde accrescerne le risorse economico-patrimoniali. Le somme in
oggetto vengono così acquisite in maniera stabile e
5
definitiva dalla società , di cui vanno ad incrementa6
re il patrimonio netto , confluendo in una vera e
7
propria riserva . Ciò significa che tali versamenti
diventano sin dall’inizio «mezzi propri» (c.d. capitale di rischio) della società alla stessa stregua dei con8
ferimenti in senso tecnico , da cui tuttavia si differenziano fondamentalmente:
– per il sistema di acquisizione al patrimonio sociale (mancano infatti vincoli di natura procedimen9
tale ;
– per la appostazione contabile, poiché, andando a
costituire una riserva, sfuggono al regime vincolisti10
co del capitale sociale nominale .
Le ragioni che nella prassi inducono i soci ad effettuare tali versamenti in favore della società sono
le più varie; vi si possono annoverare – come puntualizzato anche dai giudici di legittimità nel presen-
5
Nel senso che, quantomeno durante societate, i soci che
tali versamenti hanno effettuato non potranno pretenderne legittimamente la restituzione. Cfr., oltre alla sentenza in commento, Cass., 19 marzo 1996, n. 2314 (supra, n. 3).
6
Di ingresso di tali somme «nel coacervo del patrimonio
comune» parla espressamente ABBADESSA, “Il problema dei
prestiti dei soci nelle società di capitali: una proposta di soluzione”, Giur. comm., 1988, I, 506. Si noti come tale terminologia sia stata fatta propria dalla Cassazione nella sentenza in
commento, ove in altro passo si parla anche di «definitiva
aggregazione al patrimonio netto dell’ente».
7
Conclusione pacifica in dottrina ed in giurisprudenza. La
sentenza in commento precisa che si tratta di riserva non già
di utili, bensì «di capitale».
8
Come scrive LANDOLFI, in Vita Notarile, 1993, 87, «c’è,
dunque, tutto del conferimento classico tranne la sua imputazione a capitale».
9
In particolare, nel caso in cui si tratti di apporti patrimoniali diversi dal denaro non troverà applicazione il procedimento di stima previsto per il conferimento dei beni in natura
e dei crediti dagli artt. 2343 e 2465 c.c. Per tale osservazione,
cfr. G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale. 2. Diritto delle
società (Torino, 2002), 491, n. 4; RUBINO DE RITIS, Gli apporti “spontanei” in società di capitali (Torino, 2001), 20 ss.
e 81 ss. Contra, tuttavia: LAMANDINI, “Autonomia negoziale
e vincoli di sistema nella emissione di strumenti finanziari da
parte delle società per azioni e delle cooperative per azioni”,
Banca, borsa, tit. cred., 2003, I, 534, che reputa comunque
applicabili analogicamente gli artt. 2343 e 2465 c.c. sul presupposto che alla disciplina dei conferimenti in natura non
sarebbe aliena l’esigenza di assicurare una corretta formazione anche della riserva da sovrapprezzo.
10
Sulla funzione del capitale sociale, per tutti, cfr: SIMONETTO, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società
(Padova, 1950), 33 ss.; DI SABATO, Capitale e responsabilità
interna nelle società di persone (Napoli, 1967), 86 ss.; PORTALE, Riv. soc., 1970, 33 ss.; ID., in Riv. soc., 1991, 13 ss.;
G.F. CAMPOBASSO (supra, n. 9), 8, n. 2; FERRARA JR.-CORSI
(supra, n. 2), 244 ss.
11
te caso – sia i benefici fiscali ad essi collegati , sia
la praticità e la flessibilità di questo modus operandi,
che consente in particolare un rapido ed informale
reperimento delle risorse finanziarie di cui la società
necessita in determinate circostanze.
In ogni caso tali versamenti sono destinati al perseguimento dello scopo sociale, sotto forma di potenziamento del patrimonio sociale: si parla infatti
comunemente di causa societatis con riferimento
alla «funzione» delle elargizioni patrimoniali in e12
same .
Ulteriore caratteristica di tali attribuzioni patrimoniali, che la S.C. non ha mancato di evidenziare anche in questa occasione, è rappresentata dalla loro
essenziale «spontaneità»: sono infatti i soci (tutti o
soltanto alcuni di essi) che in piena autonomia deci13
dono se effettuarli o meno ; al limite, essi possono
essere provocati dalla società attraverso il proprio
organo amministrativo, che in assemblea (tanto ordinaria quanto straordinaria, specie se convocata ai
sensi degli artt. 2446, 1° comma, e 2447 c.c.) ne sollecita l’effettuazione, ma mai imposti attraverso una
delibera assembleare, dal momento che – per principio generale del diritto societario – i soci non possono essere obbligati ad eseguire conferimenti ulteriori
rispetto a quelli previamente pattuiti in sede di costituzione della società ovvero, con una nuova manifestazione di volontà in tal senso, in sede di sottoscri-
11
A tal proposito non appare superfluo ricordare la prassi,
diffusa specialmente in passato – vigenti gli artt. 43 e 64 del
d.p.r. 73/597 (T.U. imposte sui redditi) i quali subordinavano
l’applicazione delle agevolazioni tributarie ivi previste al requisito della «formale deliberazione» (nonché della proporzionalità dei versamenti) – consistente nel far deliberare all’assemblea dei soci all’unanimità l’effettuazione dei versamenti aggiuntivi.
12
Si rinvia, per tutti, a PARRELLA, Versamenti in denaro
dei soci e conferimenti nelle società di capitali (Milano,
2000), 99 ss.
Tali considerazioni dovrebbero tra l’altro valere ad escludere la riconducibilità di tali versamenti nell’ambito delle liberalità (non donative), per difetto dell’animus liberalis, stante
l’evidente interesse patrimoniale che induce i soci ad effettuarli. Si è infatti in presenza di (meri) atti negoziali a titolo
gratuito, giustificati causalmente dal perseguimento di un interesse egoistico economico-patrimoniale del loro autore.
Del resto, proprio sulla scorta della considerazione dell’esistenza di un interesse economico ben preciso, anche se mediato ed indiretto, rispondente alla c.d. logica di gruppo, la Cassazione in più occasioni ha affermato la natura solo gratuita,
ma non anche liberale, degli atti senza corrispettivo posti in
essere da una società in favore di altra società appartenente al
medesimo gruppo, eventualmente in adempimento delle direttive impartite dalla holding: cfr. Cass., 11 marzo 1996, n.
2001, Foro it., 1996, 1222; Cass., 5 dicembre 1998, n. 12325,
Corr. giur., 1999, 1142.
13
Da ciò discende altresì che non occorre che vi sia proporzionalità tra detti apporti aggiuntivi dei soci e le loro rispettive
partecipazioni sociali.
2/2009
295
14
zione di un aumento di capitale a pagamento . Non
a caso dunque in dottrina si parla di versamenti e di
apporti spontanei dei soci, al fine appunto di esaltarne la volontarietà: «ciascuno è libero di assumere un
rischio di impresa diverso da quello assunto nell’atto
15
costitutivo» .
Infine la S.C. prende posizione anche sul problema della rappresentazione contabile dei versamenti
in conto capitale. Sul punto si ritiene generalmente
che detti versamenti vadano appostati all’interno del
patrimonio netto della società sotto la voce «Altre
riserve, distintamente indicate» di cui alla lettera A)
– VII della colonna del passivo dello stato patrimo16
niale come schematizzata dall’art. 2424 c.c. . Nel
14
Cfr. per tutti BUONOCORE, Le situazioni soggettive dell’azionista (Napoli, 1960), 188, il quale sottolinea che «il socio, una volta effettuato il conferimento iniziale, non può
essere sottoposto ad alcun ulteriore obbligo, condizione od
onere, né tantomeno all’onere di effettuare ulteriore conferimento».
Da tale principio generale, come pure da quello di intangibilità delle posizioni soggettive individuali dei soci [su cui ex
multis cfr. G. FERRI, Manuale di diritto commerciale (Torino,
1980), 321 ss.], si deduce che l’assemblea – quale organo della società – non ha il potere di emettere a maggioranza una
deliberazione vincolante (secondo la regola sancita dall’art.
2377, 1° comma, c.c.) che obblighi tutti i soci a porre in essere versamenti aggiuntivi. Ed infatti la giurisprudenza è tendenzialmente orientata ad affermare la nullità di siffatta deliberazione per impossibilità del suo oggetto (cfr. Trib. Milano,
11 dicembre 1969, Giur. it., 1971, I, 2, 552). Nel senso invece
che si tratterebbe di (mera) inefficacia della deliberazione, che
dunque sarebbe irrilevante in quanto res inter alios acta (ed a
prescindere da un’apposita impugnazione della medesima):
SPADA, “Reintegrazione del capitale reale senza operare sul
nominale”, Giur. comm., 1978, I, 36; PARRELLA (supra, n.
12), 107; Trib. Roma, 11 febbraio 1995, Società, 1995, 964.
In ogni caso, sembra corretto ritenere che una delibera assembleare avente ad oggetto l’erogazione da parte dei soci di
versamenti in conto capitale, ove fosse tuttavia assunta all’unanimità, può essere apprezzata sul piano sostanziale (e,
quindi, al di là dell’impropria forma utilizzata) come espressione della «somma» delle volontà negoziali di ciascun socio,
e non come atto della società «in senso stretto». In tal senso
PARRELLA (supra, n. 12), 108-109.
15
Le parole sono di TANTINI, I «versamenti in conto capitale» tra conferimenti e prestiti (Milano, 1990), 98.
Quanto fin qui affermato non vale tuttavia ad escludere che,
come sovente accade nella prassi, tali versamenti siano preceduti dalla stipulazione di patti parasociali che, pur nella varietà dei loro contenuti, sono in linea di massima finalizzati a
stabilire le concrete modalità in base alle quale la complessiva
operazione dovrà svolgersi. Per la natura di patti parasociali di
detti accordi, e per la loro riconducibilità nell’ambito del più
generale schema negoziale del contratto in favore del terzo
(qui la società) ai sensi degli artt. 1411 ss. c.c., per tutti cfr.:
G.F. CAMPOBASSO (supra, n. 9), 491, n. 2 e AA. ivi citati;
PARRELLA (supra, n. 12), 175-176, ove si estende tale conclusione anche alla (formale) delibera con cui, all’unanimità, si
decide l’effettuazione di versamenti fuori capitale.
16
Si noti come, se da un la lato riserva da versamenti in
conto capitale non è oggetto di specifica disciplina legislativa,
dall’altro lato proprio la lettera della legge esclude in maniera
296
silenzio della legge è tuttavia discusso quale sia il
regime giuridico della riserva così formata.
17
Secondo un’autorevole, ma isolata opinione , troverebbe applicazione la disciplina propria del capitale sociale nominale ovvero (meno rigidamente) quella della riserva legale; tale tesi è stata però respinta
dalla dottrina assolutamente dominante per la decisiva ragione che «la volontà degli autori dei versamenti è proprio quella di non assoggettarli, fino a
18
futura diversa decisione, al regime del capitale» .
19
La dottrina prevalente , sulla cui scia si è posta da
ultima anche la sentenza in commento, ha individuato nella disciplina del sovrapprezzo azionario quella
che meglio si attaglia alla fattispecie in esame, in
considerazione dell’indubbia analogia che sussiste
20
tra detto istituto ed i versamenti fuori capitale : in
entrambi i casi si è infatti in presenza di apporti che,
pur arricchendo il patrimonio netto della società, non
sono tuttavia formalmente imputati a capitale nominale. A sostegno di tale tesi si aggiunge che nel nostro ordinamento l’art. 2431 c.c. esprime l’unica norma in tema di conferimenti non imputati a capitale,
ragion per cui essa assurgerebbe a paradigma di riferimento per la disciplina di tutti gli apporti patrimoniali non destinati ad incrementare il capitale sociale
nominale (perché diversi dai conferimenti in senso
tecnico).
21
Altra tesi infine, ritenendo ingiustificata l’anasicura che le riserve costituiscano un numerus clausus e che
perciò siano tali solo quelle espressamente disciplinate dalla
legge.
17
Espressa in dottrina da CHIOMENTI, “I versamenti a fondo perduto”, Riv. dir. comm., 1974, II, 118; ID., “Ancora sugli
apporti al capitale di rischio effettuati dai soci in forma diversa dal conferimento”, Riv. dir. comm., 1981, II, 246.
18
Così testualmente COLOMBO, “Bilancio d’esercizio e
consolidato”, in Trattato Colombo-Portale (Torino, 1994),
VII, 517-518. Nello stesso senso: P. FERRO-LUZZI, “I versamenti in conto capitale”, Giur. comm., 1981, II, 900 (in particolare nt. 11); ABBADESSA, “Il problema dei prestiti dei soci
nelle società di capitali: una proposta di soluzione”, Giur.
comm., 1988, I, 508; TANTINI (supra, n. 15), 96.
19
COSTA, Le riserve nel diritto delle società (Milano,
1984), 55; PORTALE, “L’acquisto di azioni della controllante
da parte di società controllata”, Quadrimestre, 1986, 294; ID.,
Appunti (supra, n. 1), 95 e 100; R. WEIGMANN, “Capitale,
utili e riserve nelle società di persone”, Giur. comm., 1986, I,
76; ABBADESSA (supra, n. 6); IRRERA, I «prestiti» dei soci
alla società (Padova, 1992), 185; S. LANDOLFI (supra, n. 8);
COLOMBO (supra, n. 18); PARRELLA (supra, n. 12), 148 ss.;
G.F. CAMPOBASSO (supra, n. 9), 492, nt. 2; P. BALZARINI, in
AA.VV., “Il bilancio d’esercizio e il bilancio consolidato”, in
Trattato Bessone (Torino, 2002), 87.
20
Proprio l’istituto del sovrapprezzo azionario ha rappresentato del resto la base normativa su cui è stata edificata l’elaborazione dottrinale in tema di versamenti fuori capitale.
21
In tal senso: TANTINI (supra, n. 15), secondo cui «affermare la liceità di versamenti in conto capitale, perché il sistema già … prevede il sovrapprezzo, non mi sembra necessa-
logia di cui sopra, sostiene che la riserva in esame
sarebbe assimilabile in tutto e per tutto ad una riserva facoltativa (disponibile), invocandosi tra l’altro
l’esistenza nel nostro ordinamento del principio di
22
libera disponibilità delle poste del netto .
4. (Segue). Versamenti in conto capitale e
«riserve targate»
Secondo la communis opinio della dottrina, trattandosi di apporti di patrimonio e non di capitale, i
versamenti in conto capitale (analogamente ai versamenti a fondo perduto o a copertura perdite), una
volta effettuati, si caratterizzerebbero per l’assenza
23
di un obbligo di rimborso da parte della società . Le
conseguenze scaturenti da tale opzione interpretativa
possono essere così sintetizzate:
– durante societate le somme così versate potranno essere in seguito distribuite tra tutti i soci, compresi quelli che nulla hanno versato, in proporzione
alle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale;
– durante societate le riserve formate con le suddette somme potranno essere impiegate ai fini di un
aumento gratuito del capitale sociale, con conseguente incremento proporzionale delle partecipazioni di tutti i soci, compresi quelli che nulla hanno versato;
– durante societate sarà possibile procedere all’acquisto di azioni proprie utilizzando tali versamenti;
– durante societate eventuali perdite sociali incideranno su tali riserve secondo il consueto ordine
24
gerarchico ;
riamente trasferibile anche sul piano della disciplina»; M.
CERA, Il passaggio di riserva a capitale (Milano, 1986), 149150, il quale con riferimento all’art. 2431 c.c. afferma che «la
norma è sicuramente eccezionale e derogatoria della libera
disponibilità del patrimonio netto eccedente la misura del capitale sociale e della riserva legale»; D. CENNI, “I versamenti
fuori capitale dei soci e la tutela dei creditori sociali”, Contratto e impresa, 1995, 1150 ss.; SALAFIA, “Conferimento a
capitale di crediti dei soci”, Società, 1987, 421.
22
Scettico circa l’esistenza di tale principio, fra gli altri, è
IRRERA (supra, n. 19), 187, secondo cui «le eccezioni e le
deroghe al presunto principio di libera disponibilità del patrimonio, sono così numerose e rilevanti da porre in dubbio
l’esistenza stessa di un principio cui tali disposizioni derogherebbero».
23
Si veda per tutti: IRRERA (supra, n. 19), 109, secondo cui
tale non rimborsabilità rappresenterebbe l’«elemento tipologico positivo» di qualsivoglia attribuzione di capitale di rischio
non imputato a capitale nominale.
24
È pacifico che «in presenza di riserve facoltative, statutarie e legali, le perdite colpiscono le riserve nell’ordine esposto»: così testualmente G.F. CAMPOBASSO (supra, n. 9), 470,
nt. 2.
– in sede di liquidazione della società tali somme
saranno suscettibili di ripartizione proporzionale tra
tutti i soci, ovviamente nei limiti in cui dal bilancio
di liquidazione emerga un residuo attivo.
Critica nei confronti di questa impostazione si è
25
tuttavia mostrata altra parte della dottrina secondo
cui, alla luce del principio di parità di trattamento tra
i soci, le conclusioni testè esposte sono condivisibili
solo nei limiti in cui i versamenti in conto capitale
risultino essere stati effettuati da tutti i soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al
capitale sociale ovvero – se effettuati solo da alcuni
oppure da tutti ma non proporzionalmente (c.d. versamenti «ineguali») – con la rinuncia (anche implici26
ta) a qualsiasi pretesa restitutoria. In caso contrario
si darebbe luogo ad evidenti alterazioni nei rapporti
interni tra i soci, dal momento che quelli che nulla
hanno versato o che hanno versato in misura men
che proporzionale si avvantaggerebbero ingiustificatamente rispetto a quelli che al contrario hanno effettuato i versamenti in conto capitale, magari anche in
27
misura più che proporzionale .
Sotto il profilo pratico, l’accoglimento della tesi in
esame comporta implicazioni di notevole portata in
presenza di versamenti c.d. ineguali, dando essi luogo a riserve c.d. «personalizzate» ovvero «targate»,
secondo l’efficace terminologia coniata in dottrina
28
dal Portale .
Ne discende infatti che:
– durante societate tali somme ben potranno essere distribuite (nei limiti in cui ciò risulti consentito dall’art. 2431 c.c.) ma solo in favore dei soci e29
roganti ;
– durante societate le riserve così formate possono
essere utilizzate al fine di un aumento gratuito del
capitale; tuttavia, poiché tale operazione non potrebbe che giovare ai soli soci eroganti trattandosi ap-
Per le novità in materia derivanti dall’introduzione nel nostro ordinamento dei principi IAS – IFRS, si veda in particolare G. STRAMPELLI, in AA.VV., “Obbligazioni. Bilancio”, in
MARCHETTI-BIANCHI-GREZZI-NOTARI (diretto da), Commentario alla riforma delle società (Milano, 2006), 358 ss. (in
particolare le pp. 363-364).
25
PORTALE (supra, n. 1), 95; P.G. MARCHETTI, nel Dattiloscritto citato da PORTALE (supra, n. 1), 95; PARRELLA (supra, n. 12), 138 ss.
26
Rinuncia da verificare utilizzando gli ordinari canoni di
ermeneutica negoziale.
27
Il che – si afferma – appare ammissibile solo in presenza
di una volontà in tal senso dei soci eroganti.
28
PORTALE (supra, n. 1), 96, il quale afferma inoltre che
tale circostanza deve in ogni caso emergere dallo stato patrimoniale o quantomeno dalla nota integrativa, che comunque
deve evidenziare il fatto che «il versamento è stato eseguito
dal socio X e che, pertanto, è di sua esclusiva spettanza».
29
PORTALE (supra, n. 1), 100; COLOMBO (supra, n. 18), nt.
101; PARRELLA (supra, n. 12), 153.
2/2009
297
punto di riserve «targate», per salvaguardare il pari
diritto degli altri soci di non vedere modificata nei
rapporti con i soci eroganti la misura della loro partecipazione al capitale sociale nominale occorrerà
30
deliberare un aumento di capitale c.d. misto , e cioè:
gratuito (o nominale) con riferimento alla parte di
aumento «coperta» utilizzando le riserve targate, e
oneroso (o reale) con riferimento alla parte di aumento da offrire in opzione (o in sottoscrizione) ai
soci che non hanno effettuato versamenti ovvero li
31
hanno effettuati in misura men che proporzionale ;
– durante societate non sarebbe possibile imputare
la riserve de qua a riserva legale, né utilizzarla per
32
l’acquisto di azioni proprie ;
– durante societate la riserva così formata sarà esposta alle eventuali perdite sociali solo dopo che
queste ultime abbiano eroso tutte le riserve di spet33
tanza comune, ivi compresa la riserva legale ;
– in sede di liquidazione della società gli autori dei
versamenti «ineguali» potranno ottenerne la restituzione, alla duplice condizione che: a) siano stati
soddisfatti i creditori sociali, e b) tutti i soci siano
stati proporzionalmente rimborsati del valore delle
34
rispettive quote di partecipazione al capitale .
Come si è già anticipato, la S.C. con la sentenza in
commento ha espressamente affermato che la riserva
da versamenti in conto capitale è «personalizzata» o
«targata», «in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che hanno effettuato i versamenti in relazione
all’entità delle somme da ciascuno erogata». Da ciò
consegue che, ove si intenda procedere alla distribuzione delle riserve in oggetto in caso di saturazione
35
della riserva legale , «le relative somme andranno
30
PORTALE (supra, n. 1), 97; COLOMBO (supra, n. 18),
513, nt. 84; PARRELLA (supra, n. 12), 156.
31
Sicuramente opportuno in tal caso sarebbe prevedere in
delibera la c.d. scindibilità dell’aumento oneroso (artt. 2439,
2° comma, e 2481-bis, 3° comma, c.c.), onde consentire la
realizzazione anche solo parziale della tranche di aumento a
pagamento, nel caso in cui non tutti i soci individuati sopra
nel testo intendano procedere alla sottoscrizione di detto aumento.
32
PARRELLA (supra, n. 12), 158.
33
PORTALE (supra, n. 1), 98; COLOMBO (supra, n. 18),
511, nt. 80; PARRELLA (supra, n. 12), 157, il quale osserva
che tale soluzione per un verso tutela gli autori dei versamenti
che abbiamo definito ineguali, per altro verso non arreca alcun pregiudizio ai creditori sociali, «in quanto la riserva targata non sarà distribuibile fino a quando la riserva legale non
abbia raggiunto il quinto del capitale o, comunque, secondo la
tesi prevalente, non sarà distribuibile per la parte corrispondente a quell’importo».
34
PARRELLA (supra, n. 12).
35
È infatti evidente che, una volta affermata dalla Corte di
Cassazione la sottoposizione delle riserve da versamenti in
conto capitale al regime della riserva sovrapprezzo (art. 2431
c.c.), condicio sine qua non per la distribuzione delle relative
somme è rappresentata dalla completa formazione della riser-
298
ripartite tra i soci (non in proporzione delle rispettive
quote di partecipazione al capitale da ciascuno possedute ma) in misura corrispondente a quanto da ognuno versato»: ciò significa che, in caso di versamenti c.d. «ineguali», questi potranno essere restituiti ai loro autori e che alla relativa distribuzione non
avranno titolo per partecipare gli altri soci.
Il principio così affermato non è evidentemente di
poco conto, considerate le conseguenze di cui è foriero. Il che, peraltro, avrebbe probabilmente meritato una maggior attenzione da parte dell’organo giudicante, non fosse altro perché – stando almeno a
quel che consta – si tratta della prima espressa presa
di posizione in tal senso da parte della Cassazione.
5. (Segue). I finanziamenti dei soci e l’art.
2467 c.c.
Un altro profilo affrontato dalla sentenza in esame
attiene ai rapporti tra versamenti in conto capitale e
finanziamenti dei soci, con particolare riferimento
alla disciplina dettata dall’art. 2467 c.c.
Dopo aver chiarito che i finanziamenti, a differenza dei versamenti in conto capitale, costituiscono capitale «di credito», con conseguente obbligo di resti36
tuzione da parte della società di quanto ricevuto , la
S.C. passa al vaglio uno dei motivi di ricorso prospettati dalla difesa della società ricorrente, facente
leva sulla pretesa natura sostanziale di conferimenti
dei versamenti oggetto di causa; argomentazione in
va legale nei limiti quantitativi prescritti con norma inderogabile dall’art. 2430 c.c.
36
La distinzione tra versamenti in conto capitale e finanziamenti, se appare agevole in astratto, tuttavia non sempre lo è in
concreto, soprattutto a causa della inesauribile «fantasia dei
contabili» [secondo la colorita espressione di P. FERRO-LUZZI
(supra, n. 18), 896] nel denominare le poste nascenti dai versamenti dei soci, sia per ragioni di ordine fiscale sia per far apparire all’esterno sotto la veste di mutui quelli che in realtà sono
veri e propri apporti dei soci effettuati a titolo di capitale di rischio, cosicché – specie in caso di fallimento della società – gli
autori di siffatti apporti potranno avanzare pretese restitutorie
alla stregua di qualsiasi altro creditore sociale. Date queste difficoltà pratiche, si è reso perciò necessario individuare i criteri
per qualificare in concreto le singole fattispecie al vaglio degli
interpreti. Al riguardo – superata oramai da tempo, per l’assenza di indici normativi a supporto, l’impostazione volta a risolvere la questione ricorrendo a criteri di carattere presuntivo (in tal
senso Cass., 3 dicembre 1980, n. 6315, Giur. comm., 1981, II,
895) – attualmente tende a prevalere la tesi secondo la quale la
distinzione andrà operata in base alla reale ed effettiva volontà
delle parti, interpretata alla stregua dei comuni canoni ermeneutici della volontà negoziale (artt. 1362 ss. c.c.). È questo in particolare l’indirizzo consolidatosi negli ultimi anni in seno alla
giurisprudenza di legittimità sulla scia delle indicazioni offerte
sul punto dalla dottrina [cfr.: ABBADESSA (supra, n. 6), 509;
TANTINI (supra, n. 15), 87; IRRERA (supra, n. 19), 98; PORTALE (supra, n. 1), 95] ed inaugurato da Cass., 19 marzo 1996, n.
2314 (supra, n. 3).
base alla quale si invocava la applicazione al caso in
esame dell’art. 2467 c.c. Al riguardo la Cassazione
ha evidentemente buon gioco nel dichiarare inammissibile il motivo de quo, per la notevole distanza
temporale (ben 17 anni) tra la data di entrata in vigore dell’art. 2467 c.c. nuovo testo e la data in cui fu
assunta la delibera contestata, per cui di certo non si
sarebbe potuto invocare quella norma nel presente
caso; da un punto di vista più strettamente processuale, poi, la questione così sollevata è dichiaratamente «nuova», essendosi il giudizio di secondo
grado concluso anteriormente al 1° gennaio 2004,
data di entrata in vigore della Riforma. Ma la S.C.,
che a questo punto ben potrebbe passare ad esaminare il quinto ed ultimo motivo di ricorso, preferisce
invece soffermarsi a spiegare le ragioni per cui ritiene anche infondato nel merito detto motivo di ricorso, non reputando neppure astrattamente applicabile
nella fattispecie in esame la norma invocata dalla
ricorrente. In questo modo un contributo della giurisprudenza di legittimità (sia pure espresso attraverso
un mero obiter dictum) si inserisce nel quadro
dell’ampio e vivace dibattito dottrinario che si è sviluppato intorno alla nuova norma già all’indomani
37
della sua entrata in vigore .
Com’è noto, con l’art. 2467 c.c. il legislatore ha
dettato una disciplina ad hoc volta a porre rimedio
sia al fenomeno della sottocapitalizzazione c.d. no-
37
Poderosa è la letteratura specialistica riguardante l’art.
2467 c.c. Tra i molteplici contributi, cfr.: PORTALE, “I «finanziamenti» dei soci nelle società di capitali”, Banca, borsa, tit.
cred., 2003, I, 663; ANGELICI, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale (Padova, 2003), 47 ss.;
TASSINARI, in AA.VV., La riforma della società a responsabilità limitata (Milano, 2003), 117 ss.; TANTINI, ““Migrazione” dei versamenti spontanei dei soci dal passivo (debiti) al
patrimonio netto (riserve) nel bilancio d’esercizio”, Giur.
comm., 2003, 5, 694; LO CASCIO, sub 2467, in AA.VV., Società a responsabilità limitata (artt. 2462-2483 c.c.), in LO
CASCIO (a cura di), La riforma del diritto societario (Milano
2003), 69 ss.; G. TERRANOVA, sub 2467, in NICCOLINISTAGNO D’ALCONTRES (a cura di), Commentario alla riforma del diritto societario (Napoli, 2004), 1449 ss.; IRRERA,
sub 2467, in COTTINO-BONFANTE-CAGNASSO-MONTALENTI
(diretto da), Il nuovo diritto societario. Commentario (Bologna, 2004), 1789 ss.; LOLLI, sub 2467, in MAFFEI ALBERTI (a
cura di), Il nuovo diritto societario (Padova, 2005), 1806 ss.;
MAUGERI, Finanziamenti «anomali» dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali (Milano, 2005); ID., “Finanziamenti dei soci”, voce de Il Diritto – Enciclopedia giuridica
del Sole 24 ore (Milano, 2007), VI, 423 ss.; SALAFIA, “I finanziamenti dei soci alla società a responsabilità limitata”,
Società, 2005, 1077 ss.; FERRARA JR.-CORSI (supra, n. 2),
904 ss; PRESTI, sub 2467, in BENAZZO-PATRIARCA (diretto
da), Codice commentato delle s.r.l. (Torino, 2006), 98 ss.;
TOMBARI, in ABBADESSA-PORTALE (diretto da), Il nuovo
diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso (Torino, 2007), I, 551 ss.; CAGNASSO, “La società a
responsabilità limitata”, in COTTINO (diretto da), Trattato di
diritto commerciale (Padova, 2007), 98 ss.
minale (tipica soprattutto delle società a responsabilità limitata), sia al collegato fenomeno dei pseudofinanziamenti dei soci, che in realtà altro non sono
che veri e propri apporti «camuffati» di capitale di
38
rischio . Che per reperire le risorse necessarie allo
svolgimento della propria attività una S.R.L. faccia
ricorso al c.d. eterofinanziamento (si pensi in primo
luogo ai canali di finanziamento bancari) è un fatto
del tutto naturale che non solleva né dubbi né perplessità; così come non c’è alcunché di anormale nel
fatto che i soci concedano dei prestiti alla società, il
che sia sotto l’aspetto dei costi sia sotto l’aspetto
delle garanzie può risultare più vantaggioso per la
società stessa rispetto ad esempio al mutuo bancario
o all’apertura di credito bancario. Ciò che invece
non appare ammissibile è che tali prestiti – soprattutto se concessi in situazioni di crisi economica della
società – si trasformino in strumenti per perpetrare
abusi in danno dei creditori sociali. Basti notare infatti che tale espediente consentirebbe ai soci che
hanno erogato i finanziamenti in questione «di concorrere alla pari con gli altri creditori per il relativo
rimborso, mentre se avessero formalizzato questi
apporti come conferimenti a capitale potrebbero recuperare le somme stesse soltanto dopo il soddisfacimento dei creditori (e sempre che un attivo sia ri39
masto)» . In altri termini, non è consentita «una impropria ed inefficiente traslazione del rischio di im40
presa dai soci ai creditori» . Anteriormente alla Riforma societaria queste considerazioni avevano indotto parte della dottrina a propugnare la riqualificazione imperativa di tali prestiti in conferimenti, e
quindi in veri e propri apporti di rischio, secondo la
41
tesi della frode alla legge ovvero secondo quella
42
della causa concreta dell’operazione .
Il legislatore della Riforma è opportunamente intervenuto in questa delicata problematica, stabilendo
nel 1° comma dell’art. 2467 c.c. che: «Il rimborso
dei finanziamenti dei soci a favore della società è
postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito». Ai sensi del secondo comma rientrano nel
perimetro applicativo della disciplina in esame esclusivamente quei finanziamenti, in qualunque forma
effettuati, che si suole definire «anomali», perché
erogati in una fase critica della società, vale a dire –
secondo la formula legislativa – quando, anche in
38
Si ricordi quanto osservato in n. 37.
F. CORSI, in FERRARA JR.-CORSI (supra, n. 2), 904.
40
PRESTI (supra, n. 37), 100.
41
PORTALE, “Tra sottocapitalizzazione «nominale» e sottocapitalizzazione «sostanziale» nelle società di capitali”, Banca, borsa, tit. cred., 1986, I, 201 ss.
42
ABBADESSA (supra, n. 6), 497.
39
2/2009
299
considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure quando, in
base alla situazione finanziaria della società, sarebbe
43
stato ragionevole un conferimento . Stante la lettera
della legge, è diffusa in dottrina l’opinione secondo
cui il legislatore abbia inteso riferirsi a veri e propri
prestiti dei soci in favore della società, come del resto confermerebbe la stessa disciplina positiva, che
presuppone infatti un obbligo di rimborso in capo
alla società. Ciò significa che dovrebbero esulare
dall’ambito di applicazione della norma i versamenti
erogati in conto capitale (o comunque a titolo di conferimento di patrimonio), con la conseguenza che
risulta accresciuta, sotto questo aspetto, l’importanza
della distinzione tra erogazioni dei soci in favore
della società caratterizzati da causa societatis e quel44
le invece caratterizzate da una causa creditizia .
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta, sinteticamente le seguenti importanti
questioni:
i) se la norma implichi o meno, al ricorrere di determinate circostanze, la riqualificazione imperativa
dei prestiti anomali dei soci in conferimenti;
ii) se i presupposti applicativi contemplati dal capoverso della citata norma siano da considerare tra
loro autonomi, oppure debbano essere unitariamente
riguardati, con conseguente integrazione dell’uno con
l’altro;
iii) se infine la nuova disposizione trovi applicazione anche al di fuori delle specifiche sedes materiae in cui trovasi espressamente inserita (cfr., oltre
all’art. 2467 c.c., l’art. 2497-quinquies c.c., rubricato
«Finanziamenti nell’attività di direzione e coordinamento»).
La S.C. innanzitutto identifica la ratio sottesa
all’art. 2467 c.c. in un principio di corretto finanziamento delle imprese, specialmente per quelle che
siano entrate o stiano entrando in una situazione di
45
crisi . La violazione di siffatto principio – si legge
testualmente nella sentenza – «comporta una riqualificazione imperativa del “prestito” in “prestito postergato” (rispetto alla soddisfazione degli altri creditori)». Pertanto secondo la Cassazione questi finanziamenti, sebbene «anomali», in ogni caso mantengono inalterata la propria natura di veri e propri
prestiti, con conseguente diritto dei loro autori al relativo rimborso, benché postergato rispetto alle pretese degli altri creditori sociali: non si assiste cioè ad
46
una loro riqualificazione de iure in conferimenti .
Una volta escluso – come ha fatto la Cassazione
nel presente caso – che dall’applicazione concreta
dell’art. 2467 c.c. scaturisca come effetto ex lege
una riqualificazione imperativa del prestito anomalo in conferimento, resta tuttavia il dubbio se la disciplina dettata dal 1° comma del citato articolo
abbia rilevanza solo processuale, essendo essa destinata a valere esclusivamente nell’ambito del con47
corso tra i creditori sociali , oppure rappresenti
prima ancora una regola di diritto sostanziale, che
si rivolge in primo luogo all’organo amministrativo
della società, imponendogli di non procedere al
rimborso dei prestiti dei soci, al ricorrere di deter48
minate circostanze .
Affermando poi che nel caso di specie la ricorren45
43
Come si vede, il legislatore ha preferito dettare dei parametri di riferimento piuttosto «elastici», come tali adattabili
alle più svariate fattispecie concrete. Sarà peraltro compito
soprattutto della giurisprudenza riempire tali parametri di contenuti più precisi in sede di applicazione concreta della presente disciplina.
44
Nel senso del testo, per tutti cfr.: PRESTI (supra, n. 37),
107-108. In senso contrario si veda però TASSINARI (supra, n.
37), 125-126, il quale ritiene applicabile la norma in discorso
a qualsiasi forma di apporto fuori capitale, in quanto finalizzata non solo alla tutela della par condicio creditorum, ma anche alla predisposizione di un meccanismo di tutela indiretta
della consistenza del capitale, rendendo così non convenienti
per i soci anche «i finanziamenti in senso aziendalistico ma
non giuridico, eseguiti al di fuori dell’aumento di capitale
nominale, quali i versamenti in conto aumento capitale, copertura perdite, ecc.». Peculiare è la posizione di CAGNASSO (supra, n. 37), 104, secondo cui «la fattispecie finanziamenti dei
soci si contrappone nettamente a quella costituita dai versamenti in conto capitale o a fondo perduto»; tuttavia in seguito
(p. 122) l’A., nel tracciare i profili operativi dell’art. 2467
c.c., con riferimento ai versamenti in conto capitale tende ad
escludere che la società possa deliberarne la restituzione ai
soci, sussistendo i presupposti di cui al secondo comma del
citato articolo.
300
Come nota MAUGERI, voce Finanziamenti (supra, n. 37),
429-430, la situazione di crisi non necessariamente coincide
con lo stato di insolvenza cui si riferisce l’art. 5 della legge
fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) quale presupposto
per la dichiarazione di fallimento.
46
Come vorrebbe invece la teoria «sostanzialistica», che
vede tra gli altri nel Portale, anche dopo l’entrata in vigore
della riforma, uno dei suoi più autorevoli sostenitori. Giova
comunque precisare che secondo tale tesi si tratterebbe di una
riqualificazione particolare, in quanto non vi sarebbe una perfetta sovrapponibilità tra i finanziamenti anomali ed i conferimenti. In primo luogo infatti si riconosce che ai prestiti «riqualificati» non si applica integralmente la disciplina del capitale sociale e/o delle riserve. In secondo luogo si sostiene che
la riqualificazione, lungi dall’essere definitiva, viene meno al
cessare della situazione di crisi in cui versa la società, il che si
verificherebbe in particolare allorché essa non si trovi più nella situazione di manifesta sottocapitalizzazione. Cfr. per questi rilievi: PORTALE, “Capitale sociale e società per azioni
sottocapitalizzate”, in Trattato Colombo-Portale (Torino, 2004),
I, 160 ss.
47
Secondo quanto sostenuto dalla teoria c.d. «processualistica», su cui cfr. soprattutto TERRANOVA (supra, n. 37),
1455 ss.
48
Come sottolineato da: PRESTI (supra, n. 37), 118 ss.;
CAGNASSO (supra, n. 37), 108 ss.; MAUGERI (supra, n. 37),
431 ss.
te, dopo aver invocato l’applicazione della nuova
disposizione, non aveva però dedotto che la decisione di rimborsare il finanziamento durante societate
fosse stata assunta in presenza di un eccesso di indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in presenza di una situazione finanziaria in cui sarebbe
stato ragionevole un conferimento, la S.C. pare inoltre ritenere che i due presupposti siano tra loro auto49
nomi (ma il punto non è stato affrontato ex professo dai giudici di legittimità).
Quanto infine alla questione esposta sub iii), la
50
Cassazione ha sposato la tesi più restrittiva , secondo la quale le nuove regole in materie di finanziamenti anomali non troverebbero applicazione, nemmeno analogica, al di fuori delle fattispecie normativamente contemplate dagli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. Ciò emerge abbastanza chiaramente dal
passo della sentenza in cui, nel contestare la tesi della ricorrente, si afferma che «all’epoca della delibera
impugnata la M. (cioè la società in cui favore erano
stati fatti i versamenti, n.d.r.) era una s.p.a. e non risulta che facesse parte di qualche gruppo». Non si
può però non notare come in realtà ci si sarebbe aspettati una diversa conclusione in merito, una volta
riconosciuto dalla stessa Cassazione che la norma
risponde ad una esigenza di tutela dei creditori sociali e detta un principio di corretto finanziamento
delle imprese che, come tale, ben dovrebbe potersi
applicare quantomeno alle s.p.a. c.d. «chiuse», con
particolare riferimento in quest’ambito all’azionista
51
di controllo .
STEFANO FERRI
49
Ritengono autonomi i due menzionati presupposti: CA(supra, n. 37), 106; PORTALE (supra, n. 46), I «finanziamenti» dei soci, 142; TERRANOVA (supra, n. 37), 1459 ss.;
SALAFIA (supra, n. 37), 1079 ss.; MAUGERI (supra, n. 37),
428. Per una lettura unitaria dei due presupposti cfr. invece in
particolare: IRRERA (supra, n. 37), 1791 ss.; PRESTI (supra, n.
37), 110.
50
BARTALENA, “I finanziamenti dei soci nella s.r.l.”, in
Analisi giuridica dell’economia, 2003, 388 ss.
51
In dottrina ritengono che l’art. 2467 c.c. esprima un principio generale dell’ordinamento societario, come tale applicabile a tutte le società di capitali: PORTALE (supra, n. 46), I
«finanziamenti» dei soci, 681; IRRERA (supra, n. 37), 1797;
TERRANOVA (supra, n. 37), 1475; CAGNASSO (supra, n. 37),
119; TOMBARI (supra, n. 37), 569 ss. (il quale parla al riguardo di norma transtipica). Prospettano poi un’applicazione
della norma anche ai soci di s.p.a. che, per la misura ovvero
per la qualità della loro partecipazione, siano assimilabili a
quelli di s.r.l.: ANGELICI (supra, n. 37), 47; M. STELLA RICHTER JR., in AA.VV., Diritto delle società. Manuale breve
(Milano, 2005), 282; MAUGERI (supra, n. 37), 424.
GNASSO
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