Sviluppo economico Dipartimento di scienze politiche Appunti per il corso. Uso riservato a. a. 2016-2017 MZ 1. CHE COS’È LO SVILUPPO ECONOMICO? Tutti i paesi del mondo assegnano una grande importanza allo sviluppo economico. La crescita economica è un obiettivo dichiarato delle politiche economiche: sussidi agli investimenti, piani di sviluppo, interventi sulle infrastrutture, aiuti alle imprese, sono solo alcuni esempi di come i governi affrontano l’impegno per conseguire elevati ritmi di crescita dell'economia. Tale impegno, è superfluo sottolinearlo, implica che la crescita e lo sviluppo economico siano obiettivi desiderabili dalla maggior parte delle persone. Ma che cosa s’intende per sviluppo economico? Secondo la definizione dell'economista svedese Gunnar Myrdal, lo sviluppo "è il moto ascendente dell'intero sistema sociale. In altre parole, coinvolti non sono soltanto la produzione, la distribuzione del prodotto, i modi di produzione, ma anche i livelli di vita, le istituzioni, gli atteggiamenti e le politiche". L’economista indiano Amartya Sen ha recentemente proposto di definire lo sviluppo come “un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani”. Lo sviluppo è dunque un processo complesso che coinvolge una pluralità di aspetti che riguardano l’insieme della vita delle persone. In sintesi, possiamo dire che lo sviluppo economico è il processo mediante il quale le persone e le collettività perseguono l’aumento del loro benessere. Come possiamo caratterizzare il problema del benessere? 1.1 Sviluppo e benessere Una possibile rappresentazione della questione del benessere è offerta dallo schema seguente che richiama i diversi “livelli” ai quali può essere espresso il benessere personale. 1) 2) 3) 4) 5) Fattori esterni (reddito, “qualità della vita”, relazioni sociali, “diritti”) Benessere soggettivo (indagini psicologiche/demoscopiche) Umori persistenti (ottimismo/pessimismo) Stati emotivi transitori (gioia, ansia) Biochimica delle emozioni Al livello più alto vi sono quelle dimensioni “esterne” del benessere (reddito, condizioni di vita) che possono essere oggetto di “verifiche pubbliche”: possiamo conoscere il reddito di una persona, possiamo dire se un diritto è riconosciuto a qualcuno e se si tratta 1 di un diritto solamente formale o invece reso effettivo da interventi di politica economica e sociale. Al secondo livello il benessere risponde alla dimensione soggettiva così come può essere accertata interrogando le persone (ad esempio chiedono a qualcuno: “tutto sommato, sei soddisfatto, e quanto, della tua vita?). Al terzo livello vi è la dimensione del benessere personale associata a tratti persistenti del carattere, della personalità, dell’umore etc. Al quarto livello il benessere è associato a stati emotivi di breve momento, tipicamente connessi a situazioni temporanee All’ultimo livello è coinvolta la dimensione “chimico-fisica” dello star bene: semplificando molto, si tratta di quella dimensione che potrebbe venire trattata con “una pastiglia”. Se le diverse manifestazioni del benessere fossero collegate tra di loro in modo “abbastanza forte” allora il problema del benessere sarebbe piuttosto semplice: concentrandoci su una sola componente potremmo dominare l’intero spettro dei problemi coinvolti. Sapremmo, scendendo dall’alto in basso, che i poveri sono sempre infelici e di cattivo umore, mentre, salendo dal basso in alto, potremmo migliorare lo standard di vita delle persone mediante il ricorso a portentose pastiglie, come nel recente film Limitless nel quale il protagonista ingurgita speciali pillole che moltiplicano le sue capacità di calcolo trasformandolo in un ricchissimo guru della finanza. Naturalmente, e fortunatamente, non è così: i poveri non sono sempre infelici e non sempre pensano che la loro vita non valga la pena di essere vissuta, così come, d’altro canto, anche i ricchi talvolta piangono, mentre le pastiglie della cuccagna non sono ancora state inventate (ma ci sono quelle contro il mal di testa). In questa situazione, ci si presentano due opzioni. La prima consiste nel “combinare” le diverse “dimensioni” del benessere pesando ciascuna secondo criteri appropriati (quanta importanza attribuiamo al reddito nel benessere di una persona? quanta alla “sensazione di infelicità”? etc.). Non mancano tentativi in questo senso: sono spesso interessanti, sono sempre discutibili e si basano inevitabilmente su assunzioni largamente arbitrarie (ne parleremo a lezione). La seconda consiste nel concentrarsi su una sola dimensione sperando che essa convogli una quantità “sufficiente” di informazioni sul benessere delle persone. Tradizionalmente questa è la strada seguita dall’analisi economica che si è concentrata sulla dimensione materiale del benessere economico nella persuasione che il benessere economico rappresenti una fonte importante di soddisfazione per le persone. Vi sono non pochi economisti che hanno abusato di questa procedura, ritenendo che il riferimento al reddito sia molto di più di una prima approssimazione, ritenendo cioè che l’”utilità” delle persone, ovvero la dimensione unitaria del grado di soddisfacimento delle preferenze individuali, sia integralmente rappresentata dal livello di reddito di una persona. Oggi questa posizione è considerata stravagante dalla maggior parte degli economisti. 1.2 Il PIL come misura di benessere e indice di sviluppo economico 2 Pur tenendo presente la complessità della nozione di sviluppo economico e la molteplicità di determinazioni in esso presenti, la teoria dello sviluppo economico considera la dimensione quantitativa come prima utile approssimazione alla definizione di benessere. Un indicatore sintetico del livello di sviluppo economico di un paese è rappresentato dal Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite, il valore dei beni e servizi prodotti nell’economia in un dato anno diviso per il numero di abitanti. Impiegare il PIL pro capite non significa ignorare l’aspetto multidimensionale della crescita, né definire lo sviluppo economico semplicemente facendo esclusivo riferimento ad una dimensione quantitativa. Tuttavia, vi sono diverse ragioni che, in un’indagine sullo sviluppo economico, suggeriscono di partire dal PIL pro capite. i) La prima discende dall’utilità di un indicatore aggregato per tracciare in modo sintetico sia i profili di crescita di una data economia, sia i confronti tra diverse economie in un dato periodo di tempo. Usando il PIL pro capite possiamo “misurare” il grado di sviluppo relativo di due economie, stabilire se un’economia sta progredendo, confrontare regioni o comunità all’interno di un dato sistema. ii) La seconda ragione consiste nella possibilità di valutare la sostenibilità di un processo di crescita e valutare gli effetti di determinate politiche o riforme sulla crescita. Un processo di sviluppo è sostenibile quando, in termini del tutto generale, è in grado di garantire alla generazione futura almeno lo standard di vita goduto dalla generazione presente: per poter stabilire se questo è così, dobbiamo introdurre una metrica che ci dica “quanto” viene “trasmesso” da una generazione all’altra. Nello stesso modo, solo “misurando” lo sviluppo possiamo dire se certe politiche hanno successo o se invece falliscono, e se l’insuccesso è grave o rimediabile. iii) La terza ragione è che i caratteri strutturali di fondo dello sviluppo economico, così come taluni rilevanti aspetti sociali, quali, ad esempio, la salute della popolazione, la durata della vita umana, il tasso di alfabetizzazione degli adulti, sono, sia pure imperfettamente, correlati con il livello e la crescita del reddito per abitante. In effetti, i processi storici di sviluppo sperimentati nell’economia mondiale nel corso degli ultimi due secoli possono essere descritti sia mettendo in evidenza la dimensione quantitativa (il PIL per abitante e la sua crescita nel tempo) sia il cambiamento strutturale, com'è ad esempio sinteticamente messo in luce dai mutamenti nel tempo delle quote della produzione e dell'occupazione dei maggiori settori: riduzione della quota dell'agricoltura, aumento della quota dell'industria e, successivamente, aumento della quota del settore terziario sono processi che hanno accompagnato la crescita aggregata del PIL per abitante nei paesi attualmente più avanzati dal punto di vista economico. iv) L’ultima ragione è che la dimensione quantitativa del PIL pro capite – anche riconoscendo la sua limitatezza come indicatore “completo” di benessere – può essere salvata se la consideriamo, in prima approssimazione (e sotto condizioni da definire), come un mezzo per espandere l’area delle capacità fondamentali delle persone. 3 1.3 Il PIL e i problemi di misura Una volta che abbiamo accettato di utilizzare il PIL pro capite come indicatore sintetico di sviluppo economico, si pongono i problemi di misura del reddito, problemi che sono particolarmente seri nei confronti internazionali. (Vedi materiali sulla piattaforma moodle). 2. FATTORI DI CRESCITA/TEORIA DELLA CRESCITA 2.1 Fattori di crescita: spiegare le variazioni della produttività Il modo più intuitivo per “sintetizzare” le problematiche connesse alla spiegazione dello sviluppo economico è rappresentare lo sviluppo come il risultato di una serie di fattori di crescita che agiscono facendo aumentare il PIL pro capite: Fattori di crescita Processo di crescita aumento PIL pro capite I fattori di crescita rappresentano le forze che mettono in moto il processo di sviluppo e lo alimentano traducendosi in un aumento continuo del PIL pro capite. Il processo di crescita può essere pensato alla stregua di una “scatola nera” che “digerisce” i fattori e li trasforma in sviluppo: il modo in cui questo avviene non è sempre ben compreso e riflette una pluralità di circostanze storiche, istituzionali, politiche, sociali, tecnologiche etc. Nella odierna teoria dello sviluppo i fattori di crescita vengono di solito raggruppati in ampie classi (almeno in una analisi introduttiva). Si fa quindi riferimento al capitale fisico, al progresso tecnico e al capitale umano come istruzione e come salute. Per capitale fisico intendiamo l’insieme delle attrezzature, dei macchinari, delle infrastrutture e degli impianti che vengono utilizzati produttivamente nel processo economico. I dati sul capitale fisico sono disponibili per molti paesi anche se molto spesso sono il risultato di calcoli e congetture piuttosto che di rilevazione diretta. Il “progresso tecnico” è un concetto fondamentale, ma in un certo senso elusivo. Per capire di che si tratta possiamo pensare ad un lavoratore “privo di qualificazione” al quale venga chiesto di svolgere un certo compito o una certa mansione. Egli la svolgerà con un dato livello di competenza e con una certa velocità-efficacia: rapportando il risultato della sua azione lavoratrice con un indice del suo sforzo produttivo otterremo una misura di produttività. Tipicamente la produttività del lavoro è il rapporto tra il prodotto e la quantità di lavoro: diremo ad esempio che la produttività oraria in un certo impianto o in una certa regione, , è Y/L = dove Y è un indice del prodotto fisico complessivo e L il numero totale di ore di lavoro. 4 Il capitale umano riguarda, in generale, tutte le attività che possono migliorare la qualità della forza lavoro, ed in particolare i suoi aspetti produttivi: di solito si fa riferimento al capitale umano come salute e al capitale umano come istruzione. Prima di esaminare il tema dei fattori di crescita, conviene concentrare l’attenzione sulla scomposizione della crescita del PIL pro capite, allo scopo di metterne in luce gli ingredienti di base. 2.2 PIL PRO CAPITE, PRODUTTIVITÀ, TASSO DI OCCUPAZIONE I FATTI STILIZZATI DELLO SVILUPPO ECONOMICO MODERNO Il PIL pro capite, Y/P, dove Y=PIL, P=popolazione, può essere definito come = (1) dove N = occupazione. y = Y/N è il prodotto per occupato, n = N/P il tasso di occupazione (rapporto tra occupati e popolazione). Possiamo anche scrivere = (2) dove h = orario di lavoro individuale, L = hN è il monte ore lavorate, e la produttività oraria del lavoro. Possiamo quindi scrivere la (1) nel modo seguente = = ℎ = è (3) La (3) è una relazione notevole: dice che il prodotto per abitante i) ii) iii) aumenta con la produttività oraria aumenta con l’orario di lavoro individuale aumenta con il tasso di occupazione Che cosa ci dice l’esperienza storica circa i determinanti del prodotto per abitante indicati dalla relazione (3). Le tabelle seguenti presentano dati storici per alcuni paesi e offrono la risposta che cerchiamo. (Tutte le tabelle sono tratte da A. Maddison, The world economy. A millennial perspective, Ocse, Parigi, 2001. 5 Tabella A: ore di lavoro annuali Tabella B: PIL per occupato (dollari internazionali del 1990) Tabella C: occupati per 100 abitanti 6 Tabella D: prodotto per ora lavorata (dollari internazionali del 1990) Tabella E: PIL pro capite (dollari internazionali del 1990) Illustriamo i dati delle tabelle considerando il Regno Unito, confrontando il 1870 con il 1998. i) ii) iii) iv) v) Il PIL pro capite (tab. E) aumenta di circa 6 volte (18714/3191=5,87). L’orario di lavoro si riduce di circa la metà (1489/2984 = 0,5) Il tasso di occupazione aumenta di circa il 10 per cento Il prodotto per ora lavorata aumenta di quasi 11 volte (27,45/2,55) Il prodotto per occupato aumenta un po’ più di cinque volte (40875/7614 = 5,3). Vediamo così che nel lungo periodo il tasso di occupazione è cambiato poco, l’orario di lavoro si è dimezzato e l’aumento del prodotto per occupato è quasi interamente spiegato dall’aumento della produttività oraria. Il prodotto per ora lavorata è quindi un buon indice sintetico il cui andamento riassume il profilo storico aggregato dello sviluppo economico. Per portare ad evidenza i fenomeni impliciti nella relazione (3) possiamo scriverla nel modo seguente = = In altri termini 7 ℎ (4) Prodotto totale = = produttività oraria x orario di lavoro x tasso di occupazione x livello della popolazione. Questo significa che la variazione proporzionale del prodotto totale, gy, è (approssimativamente) eguale alla somma delle variazioni proporzionali della produttività oraria, g, dell’orario, gh, del tasso di occupazione, gn, e della popolazione totale, gP, ovvero ≅ + + + (5) La tab. F mostra l’andamento delle variabili indicate nella relazione (4). Come si vede, nel lungo periodo la crescita del PIL pro capite è approssimativamente eguale alla crescita della produttività oraria: questo significa che la riduzione dell’orario di lavoro è stata compensata dall’aumento della popolazione e dall’andamento del tasso di occupazione. Possiamo dunque dire che lo sviluppo economico si manifesta da un lato nell’aumento del PIL pro capite e dall’altro nella riduzione dell’orario di lavoro. La teoria tradizionale ritiene che le “merci” e il “tempo libero” siano entrambi “beni” che le persone desiderano: lo sviluppo economico sembra fornire dosi crescenti di entrambi! La tab. F mostra anche il tratto caratteristico dello sviluppo economico è rappresentato dall’aumento continuo della produttività oraria: spiegare questo fenomeno è centrale per le teorie e le politiche economiche della crescita. Gli economisti pensano che i lavoratori diventino più “produttivi”, cioè possono generare un più alto livello di , essenzialmente per l’azione dei tre fattori: capitale fisico, “progresso tecnico” e istruzione. In altri termini, potremo rappresentare il processo nel modo seguente Capitale fisico “Progresso tecnico” Capitale umano 8 Processo tecnico-produttivo aumento di Tabella F Ore lavorate, tassi di occupazione, popolazione, produttività e prodotto nel complesso dei principali paesi industrializzati, 1870-1998 gh Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Usa, Giappone. Fonte: A. Maddison, The world economy. A millennial perspective, Ocse, Parigi, 2001. gn I paesi sono considerati approssimativamente ai confini attuali. gP g gy 3. Gli investimenti in capitale fisico: il rapporto capitale/lavoro Abbiamo visto che possiamo esprimere il prodotto per abitante, y=Y/P, come prodotto tra la produttività per occupato, =Y/N e il tasso di occupazione, n=N/Y 3.1 y = n e abbiamo osservato che i divari tra paesi nel prodotto per abitante sono in gran parte spiegati dai divari di produttività. Spiegare i divari di produttività e mettere in luce le 9 forze che li determinano è quindi cruciale per comprendere un aspetto importante dello sviluppo economico. Abbiamo anche osservato che il prodotto per lavoratore, Y/N, può essere ottenuto nel modo seguente 3.2 = ovvero come il risultato della moltiplicazione tra il prodotto per unità di capitale, Y/K, o produttività del capitale, (K = capitale totale), e il rapporto capitale/lavoro, K/N (rapporto tra il capitale e il numero di lavoratori)(possiamo anche fare ricorso al rapporto tra il capitale complessivo e il monte ore complessivo: la logica del ragionamento non cambia, si tratta in entrambi i casi di un rapporto tra un indice del capitale e un indice della dimensione dell’input di lavoro). Il capitale fisico è la dotazione di attrezzature presenti nell'economia, in un certo istante (macchinari, mezzi di trasporto, fabbricati) e nella teoria economica tradizionale rappresenta un fattore di produzione al quale sono associati specifici servizi produttivi. Nell’analisi applicata si pone il problema della misurazione di una data dotazione di capitale. Tale problema, in linea di principio, ha una soluzione ovvia solo nel caso estremamente semplice e del tutto irrealistico in cui il capitale fisico consista di "macchine" di qualità invariante nel tempo e con una durata fisica definita. In tal caso, in ogni momento la "quantità di capitale" è misurata dal numero di macchine presenti, che include le macchine prodotte a partire da qualche momento iniziale meno le macchine eliminate nel tempo per il logorio fisico. Nella realtà, il capitale è composto da una pluralità di macchine, di attrezzature e di edifici non omogenei per natura, funzione, età, efficienza produttiva, la cui qualità è soggetta a continuo cambiamento a causa delle innovazioni offerte dal progresso tecnico. Il "capitale aggregato", valutato con qualche metro monetario (ad esempio i prezzi costanti di un qualche anno di riferimento) è quindi inevitabilmente una nozione vaga e imprecisa, tanto più nei confronti internazionali che devono anche scontare rilevanti problemi connessi al grado di accuratezza delle stime del capitale aggregato La relazione 3.2 dice che i divari di produttività possono quindi essere ricondotti a divari nella produttività del capitale o a divari nel rapporto capitale-prodotto. La fig. 1 mostra la relazione tra la produttività per occupato e il rapporto capitale/lavoro per 56 paesi (intorno al 1990) e suggerisce che si tratti del legame “più forte” : in altri termini, i divari di produttività sono prevalentemente associati ai divari nel rapporto capitale-lavoro. La fig. 2 riproduce gli andamenti di lungo periodo del rapporto capitale-lavoro e del rapporto capitale-prodotto per quattro grandi economie sviluppate. Da tali profili emerge la sostanziale stabilità del rapporto tra il prodotto e il capitale – e in ogni caso l’assenza di profili definiti - mentre è molto netto il profilo crescente del rapporto capitale lavoro nel periodo di crescita elevata dopo la seconda guerra mondiale (e negli USA anche nel periodo tra le due guerre mondiali). 10 Figura 1 Scomposizione dei divari di produttività 56 paesi, 1990(1) 40000 Prodotto per lavoratore 30000 20000 10000 0 0 20000 40000 60000 80000 Rapporto capitale-lavoro 1, capitale e prodotto: prezzi internazionali del 1985. L'esperienza storica e il confronto tra paesi a diverso grado di sviluppo economico suggeriscono dunque che il processo di crescita è caratterizzato dall'aumento della quantità di capitale impiegata per lavoratore mentre gli andamenti della “produttività del capitale” non sono significativamente correlati con gli andamenti di lungo periodo della produttività del lavoro. I modelli dello sviluppo economico elaborati dopo la seconda guerra mondiale hanno dunque generalmente considerato queste due regolarità alla stregua di fatti stilizzati dello sviluppo economico moderno, nell’accezione dell’economista N. Kaldor (in particolare: N. Kaldor, "Un modello dello sviluppo economico", in: N. Kaldor, Saggi sulla stabilità economica e lo sviluppo, Einaudi, Torino, 1965; "L'accumulazione del capitale e la crescita economica", in. N. Kaldor, Equilibrio, distribuzione e crescita, Einaudi, Torino, 1984). L'aumento della quantità di capitale per lavoratore si osserva sia che il capitale venga misurato in termini di numeri indici del valore a prezzi costanti dei beni capitali, come nei grafici riprodotti nel testo, sia che esso venga misurato in qualche grandezza fisica, come ad esempio la potenza installata o le “tonnellate di acciaio” incorporate nelle macchine. Naturalmente il rapporto capitale-prodotto non è esattamente costante nel lungo periodo, ma il punto da sottolineare è che il suo andamento non sembra presentare alcuna definita tendenza nel tempo e tra paesi, così come risulta invece per il rapporto capitale-lavoro. Si pensi, ad esempio, al Giappone in cui il capitale per addetto è aumentato di cinquanta volte tra il 1890 e il 1992, mentre il rapporto capitale-prodotto è passato da 0,7 a 3. Nello stesso periodo, il rapporto capitale-prodotto è lievemente diminuito negli Stati Uniti, mentre il rapporto capitale lavoro è aumentato di circa otto volte. Secondo i dati Ocse, in Italia il rapporto capitale lavoro nel settore privato è aumentato di oltre quattro volte tra il 1961 e il 2002, mentre il rapporto prodotto/capitale è diminuito di circa il 10-15 per cento. Sebbene la sostanziale costanza, in periodi lunghi, del rapporto capitale-prodotto non implichi uno stesso profilo temporale nei diversi settori dell'economia, si deve sottolineare 11 che in molti casi la stabilità del rapporto capitale-prodotto si osserva anche in riferimento a singoli settori. Ad esempio, in Italia lo stock di capitale lordo dell'industria è aumentato di circa cinque volte tra il 1951 e il 1983 e approssimativamente lo stesso aumento si registra per il valore aggiunto a prezzi costanti delle attività industriali. Figura 2 Rapporto capitale-lavoro e rapporto capitale-prodotto Giappone, Stati Uniti, Francia, Germania, 1913-1987 40 60 Giappone Stati Uniti 30 40 k 20 k 20 10 v v 0 0 1913 60 1950 1973 1987 60 Francia 40 1913 1950 1973 1987 Germania 40 k k 20 20 v v 0 0 1913 1950 1973 1987 1913 1950 1973 1987 k=capitale per ora-uomo (dollari USA del 1985) v=rapporto tra lo stock lordo di capitale (al netto delle abitazioni) e il PIL (dollari USA del 1985) Fonte: elaborazioni dati A. Maddison, Dynamic forces in capitalist development, Oxford University Press, Oxford, 1991. 3.1 Gli investimenti in capitale fisico Le considerazioni precedenti mostrano che l'accumulazione del capitale fisico è uno degli aspetti salienti dello sviluppo economico moderno e poiché il capitale si accumula attraverso gli investimenti, la correlazione tra investimenti e crescita rappresenta una robusta regolarità empirica nella gran parte degli studi che hanno inteso isolare i principali fattori della crescita economica. L’investimento che rileva nell’accumulazione del capitale - talvolta definito come “investimento fisico” - corrisponde all’acquisto di nuovi beni capitali (macchinari, impianti), di edifici (nuovi) o case (nuove). Non va confuso con l’”investimento finanziario” che corrisponde all’acquisto di attività finanziarie, come oro, azioni, titoli. Il capitale fisico è il 12 risultato di successivi investimenti fisici meno quella parte di capitale che ogni anno viene sottratta dall’attiità produttiva a causa del logorio fisico e dell’obsolescenza tecnologica. Possiamo pensare al capitale fisico come ad una parte della base produttiva di un’economia, nella quale è anche compreso il capitale naturale (foreste, fiumi, miniere, “paesaggio” etc.) e il capitale umano. E’ facile mostrare come l’investimento si rapporti al capitale fisico. Supponiamo di partire nel tempo t=0 con un capitale nullo ereditato dal passato e un investimento pari a 100 euro I0 = 100 e supponiamo che in ogni venga ritirato dalla produzione il cinque per cento del capitale esistente l’anno precedente (ammortamento per logorio fisico e obsolescenza tecnica). La seconda colonna della tabella seguente mostra gli investimenti lordi effettuati ogni anno, da t=0 a t = 8, la terza colonna mostra l’ammortamento e l’ultima colonna mostra il capitale, come somma cumulata degli investimenti meno l’ammortamento. Gli investimenti meno l’ammortamento sono gli investimenti netti: il capitale quindi è la somma cumulata degli investimenti netti. Questo metodo di calcolo del capitale complessivo è detto metodo dell’inventario permanente (in quanto aggiorna continuamente lo stock di capitale tenendo conto sia degli investimenti nuovi sia della sottrazione del capitale che esce dalla produzione). Periodo t 0 1 2 3 4 5 6 7 8 Investimento lordo 100 100 80 200 50 100 10 -20 100 Ammortamento (1) 5 9,75 13,26 22,6 23,97 27,77 26,88 24,54 Capitale 100 195 265,25 451,99 479,39 555,42 537,65 490,77 566,23 1, Pari allo 0,05 del capitale del periodo precedente 3.2 Investimenti e crescita economica Investment underpins economic growth by bringing more inputs to the production process. Banca Mondiale, World Development Report, 2005 È virtualmente impossibile osservare un processo storico di crescita sostenuta senza che gli investimenti in capitale vi giochino un ruolo decisivo. Basti, a questo riguardo, ripensare all’esperienza di sviluppo dei paesi del sud-est asiatico (Corea del sud, Taiwan, Singapore, Malesia) e della Cina. Questi paesi sono riusciti a mantenere per molti anni elevati tassi di investimento, spesso molto più elevati di quelli sperimentati dai paesi oggi economicamente più sviluppati, tanto nel passato quanto negli ultimi decenni. In Cina nel 2003 il tasso d’investimento (rapporto tra gli investimenti lordi e il PIL) era pari al 42 per cento, una cifra enorme per un paese con un livello di vita ancora piuttosto basso (e questo fa capire quanto sacrificati siano in quel paese sia i consumi sia le spese sociali). In India il rapporto valeva il 24 per cento, in Germania il 18 per cento e in Italia il 20 per cento. 13 In molti paesi in via di sviluppo, compresi diversi paesi africani, il tasso d’investimento era più elevato che nei paesi economicamente avanzati. La fig. 3 riproduce i dati per alcuni paesi nel 2003. Figura 3 Tasso d’investimento in alcuni paesi, 2003 (1) Albania Argentina Bangladesh Bolivia Brasile Burkina Faso Burundi Cina Croazia Francia Germania Italia Kenya Lettonia Malawi Malesia Mozambico Namibia Norvegia Olanda Portogallo Senegal Svezia Tanzania Regno Unito Stati Uniti 50 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 1, Rapporto % tra gli investimenti fissi lordi e il PIL Fonte: Banca Mondiale, World Development Report, 2005. Da che cosa dipendono gli investimenti? Ci sono almeno quattro gruppi di fattori che concorrono a determinare gli investimenti. 1) Fattori legati al costo del finanziamento degli investimenti. Alti tassi di interesse scoraggiano gli investimenti, difficoltà di accesso al credito (in molti paesi le difficoltà sono particolarmente accentuate per le piccole imprese: di qui i possibili benefici del microcredito) 2) Fattori legati al dinamismo dell’economia: un’economia dinamica offre prospettive per gli investimenti in quanto garantisce un mercato di sbocco per la produzione aggiuntiva realizzata con i nuovi impianti. Nello stesso modo il dinamismo tecnologico incoraggia gli investimenti in quanto permette alle imprese di acquisire nuove tecnologie e amplia la gamma dei prodotti che può essere, a sua volta, un fattore in grado di incoraggiare la domanda dei consumatori. 3) Fattori legati al clima politico-sociale: l’instabilità politica e la corruzione possono scoraggiare gli investimenti. Secondo la Banca mondiale, i rischi associati alla situazione politica sono un importante fattore che potrebbe scoraggiare gli investimenti in molti paesi emergenti. Negli ultimi anni la Banca Mondiale e gli altri principali organismi internazionali hanno molto insistito sulla “deregolamentazione” dei mercati, dei beni e del lavoro, come prerequisito per la crescita economica, ma l’evidenza empirica a favore di questa tesi rimane molto fiacca e molti sostengono che essa non sia molto di più di un 14 argomento ideologico. La gravissima crisi finanziaria che ha squassato i paesi occidentali nel 2008-2009 e ancora tiene per la gola l’economia europea è stata provocata da un eccesso di deregolamentazione dei mercati finanziari che, negli anni scorsi, era stata presentata come una sicura ricetta per la crescita economica. Si insiste anche sulla corruzione come fattore che blocca la crescita, ma il punto importante è che la relazione tra corruzione e crescita è ambigua. La Cina è un paese considerato molto corrotto secondo gli indicatori correntemente utilizzati, ed è anche un paese non democratico secondo gli standard occidentali, ma è un paese che ha sperimentato tassi di crescita eccezionali per un lunghissimo periodo di tempo, un’esperienza semplicemente senza precedenti nella storia universale. Probabilmente, sarebbe opportuno pensare alla corruzione come un fenomeno che guasta la qualità della vita economica e opprime la partecipazione sociale, piuttosto che, semplicisticamente, come un fattore che ostacola la crescita (anche perché in passato si pensava esattamente l’opposto, che la corruzione potrebbe essere un fattore in grado di promuovere la crescita in quanto capace di aggirare le regolamentazioni e gli ostacoli della burocrazia favorendo quindi l’iniziativa delle imprese più aggressivamente desiderose di affermarsi!). 4) Fattori di interazione con aspetti della struttura economica e sociale. i) ii) iii) iv) Gli impianti in cui si fissano gli investimenti fisici richiedono spesso, per operare in modo efficace, maestranze qualificate (soprattutto quando si tratta di investimenti in apparecchiature complesse o impianti che richiedono continue attività di revisione-manutenzione). L’insufficiente dotazione di capitale umano potrebbe quindi non consentire di sfruttare appieno il contenuto di tecnologia implicito nei beni capitali. La destinazione settoriale degli investimenti potrebbe comportare sprechi o insufficienti “ritorni” socio-economici, taluni investimenti potrebbero essere effettuati per ragioni “politiche” senza una vera motivazione economica, in seguito a pressioni di gruppi di interesse o altro. Gli investimenti potrebbero essere “sottoutilizzati” per ragioni diverse: una scuola in un distretto con pochi bambini, una fabbrica di legname in un’area poco adatta, una fabbrica di birra in una regione di astemi. Più in generale, in molti paesi in via di sviluppo la dimensione del mercato interno è un ostacolo alla piena redditività degli impianti quando quei paesi abbiano difficoltà di esportare i prodotti. In un paese povero, il mercato per molti tipi di beni è inevitabilmente limitato e questo può o scoraggiare del tutto l'investimento nelle attività rilevanti o, se l'investimento viene effettuato, può non permettere di conseguire pienamente i vantaggi produttivi associati ad elevate scale di produzione. Strade, disponibilità di energia elettrica, facilità di finanziamento etc. sono tutti fattori che amplificano il potenziale di crescita associato a dati flussi di investimenti: la mancanza di infrastutture è quindi un fattore che può ostacolare il circolo virtuoso investimenti-crescita. Mentre è importante rammentare la lista di fattori da cui, in generale, dipendono gli investimenti, è altrettanto importante riconoscere che tali fattori agiscono sempre in contesti specifici che possono amplificare l’importanza di un fattore o attenuare il peso di altri. 4. Progresso tecnico L’importanza degli investimenti fisici è spiegabile non solo con il fatto che essi permettono al lavoro di operare con dotazioni crescenti di impianti e macchinari, ma anche con il fatto che essi rappresentano il canale attraverso cui viene introdotto nell’economia il progresso tecnico e con le esternalità positive associate agli 15 insediamenti produttivi. In altri termini: gli investimenti sostengono la crescita economica in quanto introducono un aumento di input nel processo produttivo (la zappa di cui può disporre il contadino), introducono tecnologia che permette l’ulteriore aumento della produttività (non solo una zappa, ma una motozappa), e permettono di realizzare esternalità, ovvero ricadute positive sull’ambiente al di là dei rendimenti privati associati agli investimenti stessi. Ad es.: se un’impresa effettua un investimento determinerà conseguenze sulla qualificazione delle maestranze, favorirà gli acquisti dalle imprese che forniscono semilavorati etc., una strada favorirà i collegamenti e permetterà ai contadini di vendere in città la loro produzione. Proprio nella misura in cui l’investimento incorpora le conoscenze rese disponibili dal progresso tecnico esso rappresenta, per una singola impresa, una modalità di apprendimento attraverso la pratica (“learning by doing”) i cui effetti tendono inevitabilmente ad estendersi ad altre imprese, anche attraverso il miglioramento delle abilità dei lavoratori e le sollecitazioni esercitate sulle reti di fornitura e di collaborazione delle imprese. In questo senso il progresso tecnico è un processo che sorge all’interno del processo produttivo e che si sviluppa attarverso le molteplici relazioni che s’intaurano tra imprese, distretti produttivi, paesi. C’è una relazione bidirezionale tra innovazione tecnologica e investimento: una innovazione tecnologica (un nuovo prodotto o un nuovo processo produttivo) incoraggerà l’impresa ad effettuare l’investimento, ma un’impresa che investe favorirà la diffusione del progresso tecnico. 4.1 Progresso tecnico: che cos’è veramente? Il progresso tecnico viene sovente presentato come un processo che include tre fasi distinte: la fase dell'invenzione, nella quale l'idea o il principio tecnico viene selezionato, la fase dell'innovazione, nella quale il principio tecnico trova una prima applicazione economica da parte di imprenditori innovatori, la fase della diffusione nella quale l'innovazione raggiunge una platea sempre più larga di utilizzatori e di imprenditori imitatori. Questa suddivisione in fasi non è priva di utilità, a condizione che la si impieghi con un certo grado di flessibilità. E' evidente infatti che il ritardo tra invenzione e innovazione dipende dalla proprietà che vengono assegnate all'invenzione e dalla sua complessità tecnica. Si è, ad esempio, calcolato un ritardo di 79 anni tra l'invenzione della lampada a fluorescenza (1859, Becquerel) e la sua adozione innovativa nel 1938 (General Electric, Westinghouse), ma è noto che il principio della lampada ad incandescenza è più antico dell'invenzione di Becquerel. Lunghi ritardi tra invenzione e innovazione riflettono il più delle volte il fatto che, alla data di identificazione dell'invenzione, permangono diversi problemi tecnici importanti e non risolti che non consentono l'utilizzo economico di tipo innovativo. Se si riconosce l'ovvia importanza della fattibilità tecnica ed economica di un principio tecnico-scientifico, allora la distinzione tra momento dell'invenzione e momento dell'innovazione diventa in qualche misura artificiale, mentre è opportuno concentrare l'attenzione sulla "continuità" che caratterizza l'attività innovativa incrementale (a livello d'impresa e di impianto), piuttosto che sulla discontinuità dei prodotti della conoscenza scientifica: il modo migliore di descrivere l'attività inventiva è di considerarla un processo di accrescimento graduale, un'accumularsi di eventi in cui, in linea generale, le continuità sono molto più importanti delle discontinuità. Anche là dove è possibile individuare grandi invenzioni, che sembrano costituire concezioni completamente nuove, e quindi reali discontinuità, nette e spettacolari rotture col passato, sono solitamente all'opera forze capillarmente diffuse, di natura sia tecnologica sia economica, che tendono a rallentaree ad ammorbidire l'impatto di queste invenzioni in termini del loro contributo all'aumento della 16 produttività delle risorse (N. Rosenberg, Le vie della tecnologia, Rosenberg e Sellier, Torino, 1989). Possiamo pertanto distinguere, all'interno del generale processo innovativo, le innovazioni primarie, talvolta di rilevante portata e storicamente databili (sia pure con qualche imprecisione), e le innovazioni secondarie, che seguono, adattano e migliorano le attrezzature e i prodotti resi possibili dai cambiamenti iniziali. L'analisi delle "fonti" delle principali innovazioni nell'industria nei paesi avanzati mostra che in gran parte esse hanno a fondamento un’attività innovativa interna all'unità produttiva che realizza l'innovazione. Sulla base di questa constatazione, Rosenberg ha mostrato che anche la distinzione tra innovazione e diffusione è in gran parte artificiale, grosso modo per ragioni analoghe a quelle viste a proposito della distinzione tra invenzione e innovazione. Se quel che conta è, infatti, l'attività innovativa all'interno delle imprese, allora anche la diffusione del progresso tecnico dev'essere concepita non come semplice imitazione di imprese che seguono l'onda dettata dalle imprese leader, bensì come un processo dinamico di adattamento continuo. In altri termini, la diffusione dell'innovazione non comporta semplicemente la trasmissione e la passiva ricezione di elementi tecnici (strumenti, attrezzature, nozioni tecnico-scientifiche), bensì un attivo impegno da parte delle unità che adottano l'elemento innovativo: il modo migliore di descrivere l'attività inventiva è di considerarla un processo di accrescimento graduale, un accumularsi di eventi in cui, in linea generale, le continuità sono molto più importanti delle discontinuità. Anche là dove è possibile individuare grandi invenzioni, che sembrano costituire concezioni completamente nuove, e quindi reali discontinuità, nette e spettacolari rotture col passato, sono solitamente all'opera forze capillarmente diffuse, di natura sia tecnologica sia economica, che tendono a rallentare e ad ammorbidire l'impatto di queste invenzioni in termini del loro contributo all'aumento della produttività delle risorse (Rosenberg, op. cit., p. 210). Se si riconosce che l'idea di progresso tecnico implica un continuo di attività di sperimentazione, di innovazione e di diffusione tecnologica che hanno luogo essenzialmente nelle unità produttive e nelle imprese, si comprende l'importanza della nozione del progresso tecnico come fenomeno tipicamente endogeno in quanto insieme di attività che si propagano nell'economia attraverso l'introduzione di nuovi beni capitali e di nuove pratiche organizzative. Gli aspetti principali attraverso i quali si manifesta l'endogenità del progresso tecnico riguardano le caratteristiche dell'ambiente economico-istituzionale, le capacità degli utilizzatori, le caratteristiche del mercato. i) In ogni dato momento il sistema delle imprese incorpora un insieme di tecniche, di know how, di procedure di gestione delle risorse e di abilità le cui caratteristiche specifiche possono favorire od ostacolare l'adozione di processi o prodotti innovativi, a causa di vincoli tecnologici od organizzativi. ii) La dimensione delle imprese è talvolta un fattore che può spiegare la rapidità del processo di innovazione. Le indagini sull'innovazione in Italia mostrano che nelle piccole e piccolissime imprese è molto minore la propensione all'innovazione. Anche una debole posizione finanziaria delle imprese può impedire l'adozione di invenzioni altrimenti attraenti dal punto di vista economico. iii) Le caratteristiche dei mercati, sia dal lato dell'offerta sia da quello della domanda, rappresentano decisive influenze sul passo della diffusione tecnologica. Mercati in crescita saranno generalmente più pronti ad accogliere l'innovazione di mercati stagnanti, così come condizioni di vivace concorrenza rappresentano uno stimolo all'adozione di nuovi metodi da parte di imprese che desiderano mantenere o migliorare la loro forza in relazione alle altre imprese. Per quanto riguarda la domanda, è indubbio che la prontezza dei consumatori nell'accogliere nuovi prodotti o i prodotti standardizzati resi possibili dalle 17 nuove tecnologie rappresenta un fattore importante nella diffusione del progresso tecnico (sebbene si debba tenere presente che le imprese sono continuamente impegnate in attività orientate ad influire sui gusti dei consumatori). Per sintetizzare la complessità delle determinazioni endogene del progresso tecnico possiamo osservare, con le parole di Kuznets, che "i corollari economici e sociali dell'innovazione tecnologica rappresentano un insieme di argomenti collegati" (S. Kuznets, “Innovazioni, sviluppo e trasformazioni”, in: S. Kuznets, Popolazione, tecnologia, sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1990Kuznets, 1977, p. 173). In buona sostanza, sono qui in gioco “processi complementari di adattamento – nuovi schemi di vita e nuove forme istituzionali che si [evolvono] come risposta all'innovazione tecnologica […] per convogliare efficacemente quest'ultima alle applicazioni di massa, processi compensatori di adattamento […][ed] effetti distruttivi delle innovazioni tecnologiche nella loro vittoriosa competizione con i settori maturi …”. Il progresso tecnico come processo sociale Una volta che si riconosca la complessità della nozione di progresso tecnico, non è difficile vedere che l'andamento della produttività del lavoro è il frutto di un insieme di determinazioni sociali, economiche e tecnologiche. Lo schema della fig. 4 tenta di raccogliere le principali forze responsabili delle variazioni della produttività. Partiamo dal prodotto potenziale per lavoratore. Essenzialmente, esso dipende, in ogni dato breve periodo, dalla qualificazione della forza lavoro e dalle abilità manageriali, dalla dotazione di attrezzature, dal tipo di prodotti e dalla situazione della domanda aggregata. La produttività effettiva, poi, dipenderà dal comportamento della forza lavoro occupata, che, a sua volta, rifletterà sia lo stato delle relazioni industriali, compresa la tipologia e la diffusione delle forme di incentivazione (relazioni industriali molto conflittuali o sistemi di produzione poco incentivanti avranno ovvi effetti negativi sulla performance dei lavoratori), sia gli atteggiamenti delle maestranze e gli stili di direzione aziendale. Dietro queste determinanti, giace una storia di opportunità imprenditoriali e di decisioni esercitate sia utilizzando le disponibilità e le qualificazioni dei lavoratori e la conoscenza scientifica sia effettuando investimenti produttivi. La natura dei mercati finanziari (che determinano il grado di disponibilità dei finanziamenti per i progetti produttivi), l'organizzazione dell'industria e le caratteristiche dei mercati dei prodotti (grado di concorrenzialità, presenza di elementi monopolistici, politiche di prezzo delle imprese) sono tutti fattori che contribuiscono a formare l'ambiente in cui maturano le scelte produttive delle imprese. (Naturalmente, possono esserci effetti di retroazione - alcune sono indicate con linee tratteggiate - ad esempio dalla legislazione sul lavoro e dalla domanda aggregata, in grado di modificare le decisioni imprenditoriali). Alla base dei questi fattori vi sono elementi che agiscono ancora più in profondità come, ad esempio, il sistema scolastico e la formazione professionale, che contribuiscono a determinare la qualità della forza lavoro, e il sistema delle norme e delle regolamentazioni dell'industria, che possono agire come fattori di spinta o di ostacolo all'espansione della produzione. Lo schema della fig. 4 può essere letto in verticale, osservando che le determinanti più in alto agiscono per lo più nel breve periodo, mentre le determinanti più in basso e "più profonde" riguardano essenzialmente lo sviluppo, l'introduzione e la diffusione di nuovi prodotti e di nuove tecniche e incorporano gli effetti di lungo periodo dell'ambiente istituzionale. 18 Figura 4 Le forze che determinano la produttività Produttività dei lavoratori Legislazione del lavoro, relazioni industriali, schemi di incentivazione Attitudini dei lavoratori, stili di direzione aziendale, fattori culturali Prodotto potenziale per lavoratore Qualificazione della forza lavoro Attrezzature, stock di capitale Tipologia dei prodotti Situazione della domanda aggregata Decisioni imprenditoriali Qualificazione della forza lavoro Risorse scientifiche, Mercati finanziari tecniche e organizzazione organizzative dei settori industriali Sistema scolastico Dimensione e tipologia dei mercati dei prodotti Dispositivi di regolamentazione dell’industria, intervento pubblico nell’economia Formazione professionale Sviluppo storico del sistema economico 5. Misurare la produttività La produttività è la chiave dello sviluppo economic: per le persone, le imprese, l’economia nel suo complesso. Aumentare la produttività significa produrre di più con lo stesso ammontare di input misurati. Gli indici di produttività più usati sono la produttività del lavoro e la produttività totale dei fattori (PTF, o total factor productivity, TFP). La produttività del lavoro è di solito misurata con il valore aggiunto prodotto da ogni unità di lavoro (un’ora di lavoro o un lavoratore: produttività oraria o produttività per addetto). Aumentare la produttività del lavoro significa che una persona è capace di produrre di più: come? 19 Prendiamo l’esempio di una lavoratrice nel settore informale della produzione di vestiario. Una possibilità è che la lavoratrice abbia accesso a più macchinario (una macchina da cucire, un telaio): questo fa riferimento al contributo del capitale fisico. Una seconda possibilità è che la persona riceva un addestramento addizionale che le permette di lavorare con maggiore efficienza: il capitale umano. Una terza possibilità è che la lavoratrice possa utilizzare macchine di tipo nuovo capaci di cucire più abiti nell’unità di tempo (magari risparmiando filo e aghi). Una quarta possibilità fa riferimento all’accesso più facile alle materie prime, ad agevolazioni di vario tipo legate, ad esempio, alla burocrazia o al fisco (meno moduli da compilare) e ad un ambiente non guastato dalla corruzione o dalla malavita. Miglioramenti in ciascuna di queste aree contribuiscono ad aumentare la produttività della lavoratrice. In generale la produttività totale dei fattori tenta di misurare il contributo alla produttività dei lavoratori in aggiunta al contributo associato alla loro abilità e al macchinario usato. Supponiamo che la produttività di una lavoratrice aumenti del 50 per cento in un periodo di 10 anni e che si possa stabilire che il 20 per cento di questo aumento dipende dal fatto di avere usato la macchina da cucire piuttosto che l’ago (capitale fisico) e che il 10 percento dipenda dall’addestramento ricevuto (capitale umano): resta quindi il 20 per cento che non possiamo associare ai fattori misurati (capitale fisico e capitale umano) e che possiamo, sia pure in modo evocativo, attribuire al “progresso tecnico” che quindi approssimiamo con la produttività totale dei fattori: in questo caso diremo che il “progresso tecnico” spiega il 20 per cento dell’aumento della produttività. Con riferimento alla classificazione precedente, diremo che la PTF è una misura indiretta sia del contributo delle innovazioni incorporate nelle nuove macchine sia del “miglioramento ambientale” che permette alle persone di lavorare in maniera più produttivo. Pertanto la PTF rappresenta non solo gli aspetti più tradizionalmente associati al progresso tecnico (l’innovazione dei prodotti e l’innovazione del processi produttivi), ma anche l’”innovazione organizzativa” in senso lato: ad es. una migliore organizzazione del lavoro capace di utilizzare meglio le competenze dei lavoratori, rapporti di lavoro meno oppressivi ma in grado di incoraggiare la creatività delle maestranze possono contribuire all’efficienza dei lavoratori anche senza che questo si traduca in aumenti del capitale fisico o dell’istruzione dei lavoratori. Proprio la natura composita della nozione di PTF spiega perché le misure disponibili devono sempre essere prese con cautela, come indizi indiretti dei processi sottostanti piuttosto che come “misure esatte” del progresso tecnico. Dobbiamo insistere su questo: per “tecnologia” (o “progresso tecnico”) non si intende solamente l’avanzamento scientifico che, ad es., può essere riconosciuto da un brevetto (“invenzione”). Di solito include miglioramenti più modesti, piccoli adattamenti di tecnologie già esistenti, imitazione di prodotti o di metodi di altri paesi o di altre imprese, nuovi metodi organizzativi che utilizzano tecnologie produttive note: in questo caso parliamo piuttosto di “innovazione”, ovvero di un processo che consiste nel “modificare qualcosa che esiste”. Importanti sono poi anche i “mutamenti organizzativi” che facilitano l’adozione di nuovi processi produttivi o rappresentano essi stessi fattori autonomi di miglioramento produttivo. I dati, come abbiamo già visto, dimostrano il ruolo centrale dell’investimento fisico nel sostenere il processo di crescita. Secondo calcoli della Banca Mondiale, relativi a 87 paesi emergenti nel periodo 1960-2000, il “capitale fisico” contribuisce per circa il 40-45 per cento nella spiegazione della differenza nei tassi di crescita. Gli altri fattori che contribuiscono alla crescita sono il “progresso tecnico”, nel senso di PTF, e il capitale umano. 20 La fig. 5 illustra questa informazione distinguendo quattro gruppi di paesi in via di sviluppo (grosso modo in numero equivalente). Il primo gruppo è quello dei paesi che non sono cresciuti: come si può vedere è trascurabile il ruolo degli investimenti mentre è risultato addirittura negativo il ruolo del “progresso tecnico” (possiamo pensare che per questi paesi si tratti di gravi fattori di “disfunzionalità” istuzionali-organizzative che impediscono di sfruttare lo sforzo delle maestranze e determinano “sprechi” di vario tipo nel processo produttivo); nel secondo gruppo, in cui è risultato trascurabile il ruolo del capitale umano, la modesta crescita (un po’ più di mezzo punto in media all’anno) è per lo più dovuta agli investimenti fisici; per il terzo e quarto gruppo di paesi, nei quali il tasso di crescita del PIL per lavoratore varia da un valore medio di 1,2 punti a circa 3 punti percentuali, si vede bene il ruolo decisivo del capitale fisico (grosso modo più della metà della crescita è attribuibile agli investimenti fisici). Figura 5 Tassi di crescita del PIL per lavoratore, 1960-2000 62 paesi in via di sviluppo I paesi sono divisi in quattro gruppi a seconda del tasso di crescita. Il tasso di crescita medio di ciascun gruppo è la somma del contributo dei diversi “fattori”. Il grafico si legge nel modo seguente: se prendiamo il quarto gruppo di paesi vediamo che in essi la produttività (prodotto per lavoratore) è aumentata in media annua a circa il 3 per cento, somma di 1,2 per cento dovuto a “progresso tecnico”, 1,7 per cento dovuto a investimento in capitale fisico e a circa 0,3 punti dovuti all’istruzione. Fonte: Banca Mondiale, World Development Report, 2005. 21