Sviluppo economico Dipartimento di scienze politiche Appunti per il

Sviluppo economico
Dipartimento di scienze politiche
Appunti per il corso. Uso riservato
a. a. 2016-2017
MZ
1. CHE COS’È LO SVILUPPO ECONOMICO?
Tutti i paesi del mondo assegnano una grande importanza allo sviluppo economico. La
crescita economica è un obiettivo dichiarato delle politiche economiche: sussidi agli
investimenti, piani di sviluppo, interventi sulle infrastrutture, aiuti alle imprese, sono solo
alcuni esempi di come i governi affrontano l’impegno per conseguire elevati ritmi di
crescita dell'economia. Tale impegno, è superfluo sottolinearlo, implica che la crescita e
lo sviluppo economico siano obiettivi desiderabili dalla maggior parte delle persone. Ma
che cosa s’intende per sviluppo economico?
Secondo la definizione dell'economista svedese Gunnar Myrdal, lo sviluppo "è il moto
ascendente dell'intero sistema sociale. In altre parole, coinvolti non sono soltanto la
produzione, la distribuzione del prodotto, i modi di produzione, ma anche i livelli di vita,
le istituzioni, gli atteggiamenti e le politiche". L’economista indiano Amartya Sen ha
recentemente proposto di definire lo sviluppo come “un processo di espansione delle
libertà reali godute dagli esseri umani”.
Lo sviluppo è dunque un processo complesso che coinvolge una pluralità di aspetti che
riguardano l’insieme della vita delle persone. In sintesi, possiamo dire che lo sviluppo
economico è il processo mediante il quale le persone e le collettività perseguono
l’aumento del loro benessere. Come possiamo caratterizzare il problema del benessere?
1.1 Sviluppo e benessere
Una possibile rappresentazione della questione del benessere è offerta dallo schema
seguente che richiama i diversi “livelli” ai quali può essere espresso il benessere
personale.
1)
2)
3)
4)
5)
Fattori esterni (reddito, “qualità della vita”, relazioni sociali, “diritti”)
Benessere soggettivo (indagini psicologiche/demoscopiche)
Umori persistenti (ottimismo/pessimismo)
Stati emotivi transitori (gioia, ansia)
Biochimica delle emozioni
Al livello più alto vi sono quelle dimensioni “esterne” del benessere (reddito, condizioni
di vita) che possono essere oggetto di “verifiche pubbliche”: possiamo conoscere il
reddito di una persona, possiamo dire se un diritto è riconosciuto a qualcuno e se si tratta
1
di un diritto solamente formale o invece reso effettivo da interventi di politica economica
e sociale.
Al secondo livello il benessere risponde alla dimensione soggettiva così come può essere
accertata interrogando le persone (ad esempio chiedono a qualcuno: “tutto sommato, sei
soddisfatto, e quanto, della tua vita?).
Al terzo livello vi è la dimensione del benessere personale associata a tratti persistenti
del carattere, della personalità, dell’umore etc.
Al quarto livello il benessere è associato a stati emotivi di breve momento, tipicamente
connessi a situazioni temporanee
All’ultimo livello è coinvolta la dimensione “chimico-fisica” dello star bene:
semplificando molto, si tratta di quella dimensione che potrebbe venire trattata con “una
pastiglia”.
Se le diverse manifestazioni del benessere fossero collegate tra di loro in modo
“abbastanza forte” allora il problema del benessere sarebbe piuttosto semplice:
concentrandoci su una sola componente potremmo dominare l’intero spettro dei problemi
coinvolti. Sapremmo, scendendo dall’alto in basso, che i poveri sono sempre infelici e di
cattivo umore, mentre, salendo dal basso in alto, potremmo migliorare lo standard di vita
delle persone mediante il ricorso a portentose pastiglie, come nel recente film Limitless
nel quale il protagonista ingurgita speciali pillole che moltiplicano le sue capacità di
calcolo trasformandolo in un ricchissimo guru della finanza. Naturalmente, e
fortunatamente, non è così: i poveri non sono sempre infelici e non sempre pensano che
la loro vita non valga la pena di essere vissuta, così come, d’altro canto, anche i ricchi
talvolta piangono, mentre le pastiglie della cuccagna non sono ancora state inventate (ma
ci sono quelle contro il mal di testa).
In questa situazione, ci si presentano due opzioni.
La prima consiste nel “combinare” le diverse “dimensioni” del benessere pesando
ciascuna secondo criteri appropriati (quanta importanza attribuiamo al reddito nel
benessere di una persona? quanta alla “sensazione di infelicità”? etc.). Non mancano
tentativi in questo senso: sono spesso interessanti, sono sempre discutibili e si basano
inevitabilmente su assunzioni largamente arbitrarie (ne parleremo a lezione).
La seconda consiste nel concentrarsi su una sola dimensione sperando che essa convogli
una quantità “sufficiente” di informazioni sul benessere delle persone. Tradizionalmente
questa è la strada seguita dall’analisi economica che si è concentrata sulla dimensione
materiale del benessere economico nella persuasione che il benessere economico
rappresenti una fonte importante di soddisfazione per le persone. Vi sono non pochi
economisti che hanno abusato di questa procedura, ritenendo che il riferimento al reddito
sia molto di più di una prima approssimazione, ritenendo cioè che l’”utilità” delle persone,
ovvero la dimensione unitaria del grado di soddisfacimento delle preferenze individuali,
sia integralmente rappresentata dal livello di reddito di una persona. Oggi questa
posizione è considerata stravagante dalla maggior parte degli economisti.
1.2 Il PIL come misura di benessere e indice di sviluppo economico
2
Pur tenendo presente la complessità della nozione di sviluppo economico e la molteplicità
di determinazioni in esso presenti, la teoria dello sviluppo economico considera la
dimensione quantitativa come prima utile approssimazione alla definizione di benessere.
Un indicatore sintetico del livello di sviluppo economico di un paese è rappresentato dal
Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite, il valore dei beni e servizi prodotti nell’economia
in un dato anno diviso per il numero di abitanti.
Impiegare il PIL pro capite non significa ignorare l’aspetto multidimensionale della
crescita, né definire lo sviluppo economico semplicemente facendo esclusivo riferimento
ad una dimensione quantitativa. Tuttavia, vi sono diverse ragioni che, in un’indagine
sullo sviluppo economico, suggeriscono di partire dal PIL pro capite.
i) La prima discende dall’utilità di un indicatore aggregato per tracciare in modo sintetico
sia i profili di crescita di una data economia, sia i confronti tra diverse economie in un
dato periodo di tempo. Usando il PIL pro capite possiamo “misurare” il grado di sviluppo
relativo di due economie, stabilire se un’economia sta progredendo, confrontare regioni
o comunità all’interno di un dato sistema.
ii) La seconda ragione consiste nella possibilità di valutare la sostenibilità di un processo
di crescita e valutare gli effetti di determinate politiche o riforme sulla crescita. Un
processo di sviluppo è sostenibile quando, in termini del tutto generale, è in grado di
garantire alla generazione futura almeno lo standard di vita goduto dalla generazione
presente: per poter stabilire se questo è così, dobbiamo introdurre una metrica che ci dica
“quanto” viene “trasmesso” da una generazione all’altra. Nello stesso modo, solo
“misurando” lo sviluppo possiamo dire se certe politiche hanno successo o se invece
falliscono, e se l’insuccesso è grave o rimediabile.
iii) La terza ragione è che i caratteri strutturali di fondo dello sviluppo economico, così
come taluni rilevanti aspetti sociali, quali, ad esempio, la salute della popolazione, la
durata della vita umana, il tasso di alfabetizzazione degli adulti, sono, sia pure
imperfettamente, correlati con il livello e la crescita del reddito per abitante. In effetti, i
processi storici di sviluppo sperimentati nell’economia mondiale nel corso degli ultimi
due secoli possono essere descritti sia mettendo in evidenza la dimensione quantitativa
(il PIL per abitante e la sua crescita nel tempo) sia il cambiamento strutturale, com'è ad
esempio sinteticamente messo in luce dai mutamenti nel tempo delle quote della
produzione e dell'occupazione dei maggiori settori: riduzione della quota dell'agricoltura,
aumento della quota dell'industria e, successivamente, aumento della quota del settore
terziario sono processi che hanno accompagnato la crescita aggregata del PIL per abitante
nei paesi attualmente più avanzati dal punto di vista economico.
iv) L’ultima ragione è che la dimensione quantitativa del PIL pro capite – anche
riconoscendo la sua limitatezza come indicatore “completo” di benessere – può essere
salvata se la consideriamo, in prima approssimazione (e sotto condizioni da definire),
come un mezzo per espandere l’area delle capacità fondamentali delle persone.
3
1.3 Il PIL e i problemi di misura
Una volta che abbiamo accettato di utilizzare il PIL pro capite come indicatore sintetico
di sviluppo economico, si pongono i problemi di misura del reddito, problemi che sono
particolarmente seri nei confronti internazionali. (Vedi materiali sulla piattaforma
moodle).
2. FATTORI DI CRESCITA/TEORIA DELLA CRESCITA
2.1 Fattori di crescita: spiegare le variazioni della produttività
Il modo più intuitivo per “sintetizzare” le problematiche connesse alla spiegazione dello
sviluppo economico è rappresentare lo sviluppo come il risultato di una serie di fattori di
crescita che agiscono facendo aumentare il PIL pro capite:
Fattori di crescita 
Processo di crescita
 aumento PIL pro capite
I fattori di crescita rappresentano le forze che mettono in moto il processo di sviluppo e
lo alimentano traducendosi in un aumento continuo del PIL pro capite. Il processo di
crescita può essere pensato alla stregua di una “scatola nera” che “digerisce” i fattori e li
trasforma in sviluppo: il modo in cui questo avviene non è sempre ben compreso e riflette
una pluralità di circostanze storiche, istituzionali, politiche, sociali, tecnologiche etc.
Nella odierna teoria dello sviluppo i fattori di crescita vengono di solito raggruppati in
ampie classi (almeno in una analisi introduttiva). Si fa quindi riferimento al capitale
fisico, al progresso tecnico e al capitale umano come istruzione e come salute.
Per capitale fisico intendiamo l’insieme delle attrezzature, dei macchinari, delle
infrastrutture e degli impianti che vengono utilizzati produttivamente nel processo
economico. I dati sul capitale fisico sono disponibili per molti paesi anche se molto spesso
sono il risultato di calcoli e congetture piuttosto che di rilevazione diretta.
Il “progresso tecnico” è un concetto fondamentale, ma in un certo senso elusivo. Per
capire di che si tratta possiamo pensare ad un lavoratore “privo di qualificazione” al quale
venga chiesto di svolgere un certo compito o una certa mansione. Egli la svolgerà con un
dato livello di competenza e con una certa velocità-efficacia: rapportando il risultato della
sua azione lavoratrice con un indice del suo sforzo produttivo otterremo una misura di
produttività. Tipicamente la produttività del lavoro è il rapporto tra il prodotto e la
quantità di lavoro: diremo ad esempio che la produttività oraria in un certo impianto o in
una certa regione, , è Y/L = dove Y è un indice del prodotto fisico complessivo e L
il numero totale di ore di lavoro.
4
Il capitale umano riguarda, in generale, tutte le attività che possono migliorare la qualità
della forza lavoro, ed in particolare i suoi aspetti produttivi: di solito si fa riferimento al
capitale umano come salute e al capitale umano come istruzione.
Prima di esaminare il tema dei fattori di crescita, conviene concentrare l’attenzione sulla
scomposizione della crescita del PIL pro capite, allo scopo di metterne in luce gli
ingredienti di base.
2.2 PIL PRO CAPITE, PRODUTTIVITÀ, TASSO DI OCCUPAZIONE
I FATTI STILIZZATI DELLO SVILUPPO ECONOMICO MODERNO
Il PIL pro capite, Y/P, dove Y=PIL, P=popolazione, può essere definito come
=
(1)
dove N = occupazione. y = Y/N è il prodotto per occupato, n = N/P il tasso di
occupazione (rapporto tra occupati e popolazione). Possiamo anche scrivere
=
(2)
dove h = orario di lavoro individuale, L = hN è il monte ore lavorate, e
la produttività oraria del lavoro.
Possiamo quindi scrivere la (1) nel modo seguente
=
=
ℎ
=
è
(3)
La (3) è una relazione notevole: dice che il prodotto per abitante
i)
ii)
iii)
aumenta con la produttività oraria
aumenta con l’orario di lavoro individuale
aumenta con il tasso di occupazione
Che cosa ci dice l’esperienza storica circa i determinanti del prodotto per abitante
indicati dalla relazione (3).
Le tabelle seguenti presentano dati storici per alcuni paesi e offrono la risposta che
cerchiamo. (Tutte le tabelle sono tratte da A. Maddison, The world economy. A
millennial perspective, Ocse, Parigi, 2001.
5
Tabella A: ore di lavoro annuali
Tabella B: PIL per occupato (dollari internazionali del 1990)
Tabella C: occupati per 100 abitanti
6
Tabella D: prodotto per ora lavorata (dollari internazionali del 1990)
Tabella E: PIL pro capite (dollari internazionali del 1990)
Illustriamo i dati delle tabelle considerando il Regno Unito, confrontando il 1870 con il
1998.
i)
ii)
iii)
iv)
v)
Il PIL pro capite (tab. E) aumenta di circa 6 volte (18714/3191=5,87).
L’orario di lavoro si riduce di circa la metà (1489/2984 = 0,5)
Il tasso di occupazione aumenta di circa il 10 per cento
Il prodotto per ora lavorata aumenta di quasi 11 volte (27,45/2,55)
Il prodotto per occupato aumenta un po’ più di cinque volte (40875/7614 = 5,3).
Vediamo così che nel lungo periodo il tasso di occupazione è cambiato poco, l’orario di
lavoro si è dimezzato e l’aumento del prodotto per occupato è quasi interamente spiegato
dall’aumento della produttività oraria. Il prodotto per ora lavorata è quindi un buon indice
sintetico il cui andamento riassume il profilo storico aggregato dello sviluppo economico.
Per portare ad evidenza i fenomeni impliciti nella relazione (3) possiamo scriverla
nel modo seguente
=
=
In altri termini
7
ℎ
(4)
Prodotto totale =
= produttività oraria x orario di lavoro x tasso di occupazione x livello
della popolazione.
Questo significa che la variazione proporzionale del prodotto totale, gy, è
(approssimativamente) eguale alla somma delle variazioni proporzionali della
produttività oraria, g, dell’orario, gh, del tasso di occupazione, gn, e della
popolazione totale, gP, ovvero
≅
+
+
+
(5)
La tab. F mostra l’andamento delle variabili indicate nella relazione (4).
Come si vede, nel lungo periodo la crescita del PIL pro capite è
approssimativamente eguale alla crescita della produttività oraria: questo significa
che la riduzione dell’orario di lavoro è stata compensata dall’aumento della
popolazione e dall’andamento del tasso di occupazione.
Possiamo dunque dire che lo sviluppo economico si manifesta da un lato
nell’aumento del PIL pro capite e dall’altro nella riduzione dell’orario di lavoro.
La teoria tradizionale ritiene che le “merci” e il “tempo libero” siano entrambi
“beni” che le persone desiderano: lo sviluppo economico sembra fornire dosi
crescenti di entrambi!
La tab. F mostra anche il tratto caratteristico dello sviluppo economico è
rappresentato dall’aumento continuo della produttività oraria: spiegare questo
fenomeno è centrale per le teorie e le politiche economiche della crescita.
Gli economisti pensano che i lavoratori diventino più “produttivi”, cioè possono
generare un più alto livello di , essenzialmente per l’azione dei tre fattori: capitale
fisico, “progresso tecnico” e istruzione. In altri termini, potremo rappresentare il
processo nel modo seguente
Capitale fisico
“Progresso tecnico” 
Capitale umano
8
Processo tecnico-produttivo
 aumento di 
Tabella F
Ore lavorate, tassi di occupazione,
popolazione, produttività e prodotto
nel complesso dei principali paesi
industrializzati, 1870-1998
gh
Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia,
Francia, Germania, Italia, Olanda,
Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito,
Usa, Giappone.
Fonte: A. Maddison, The world economy.
A millennial perspective, Ocse, Parigi,
2001.
gn
I paesi sono considerati
approssimativamente ai confini attuali.
gP
g
gy
3. Gli investimenti in capitale fisico: il rapporto capitale/lavoro
Abbiamo visto che possiamo esprimere il prodotto per abitante, y=Y/P, come prodotto tra
la produttività per occupato, =Y/N e il tasso di occupazione, n=N/Y
3.1
y = n
e abbiamo osservato che i divari tra paesi nel prodotto per abitante sono in gran parte
spiegati dai divari di produttività. Spiegare i divari di produttività e mettere in luce le
9
forze che li determinano è quindi cruciale per comprendere un aspetto importante dello
sviluppo economico.
Abbiamo anche osservato che il prodotto per lavoratore, Y/N, può essere ottenuto nel
modo seguente
3.2
=
ovvero come il risultato della moltiplicazione tra il prodotto per unità di capitale, Y/K, o
produttività del capitale, (K = capitale totale), e il rapporto capitale/lavoro, K/N (rapporto
tra il capitale e il numero di lavoratori)(possiamo anche fare ricorso al rapporto tra il
capitale complessivo e il monte ore complessivo: la logica del ragionamento non cambia,
si tratta in entrambi i casi di un rapporto tra un indice del capitale e un indice della
dimensione dell’input di lavoro).
Il capitale fisico è la dotazione di attrezzature presenti nell'economia, in un certo
istante (macchinari, mezzi di trasporto, fabbricati) e nella teoria economica
tradizionale rappresenta un fattore di produzione al quale sono associati specifici
servizi produttivi. Nell’analisi applicata si pone il problema della misurazione di una
data dotazione di capitale. Tale problema, in linea di principio, ha una soluzione
ovvia solo nel caso estremamente semplice e del tutto irrealistico in cui il capitale
fisico consista di "macchine" di qualità invariante nel tempo e con una durata fisica
definita. In tal caso, in ogni momento la "quantità di capitale" è misurata dal numero
di macchine presenti, che include le macchine prodotte a partire da qualche
momento iniziale meno le macchine eliminate nel tempo per il logorio fisico. Nella
realtà, il capitale è composto da una pluralità di macchine, di attrezzature e di edifici
non omogenei per natura, funzione, età, efficienza produttiva, la cui qualità è
soggetta a continuo cambiamento a causa delle innovazioni offerte dal progresso
tecnico. Il "capitale aggregato", valutato con qualche metro monetario (ad esempio i
prezzi costanti di un qualche anno di riferimento) è quindi inevitabilmente una
nozione vaga e imprecisa, tanto più nei confronti internazionali che devono anche
scontare rilevanti problemi connessi al grado di accuratezza delle stime del capitale
aggregato
La relazione 3.2 dice che i divari di produttività possono quindi essere ricondotti a divari
nella produttività del capitale o a divari nel rapporto capitale-prodotto.
La fig. 1 mostra la relazione tra la produttività per occupato e il rapporto capitale/lavoro
per 56 paesi (intorno al 1990) e suggerisce che si tratti del legame “più forte” : in altri
termini, i divari di produttività sono prevalentemente associati ai divari nel rapporto
capitale-lavoro.
La fig. 2 riproduce gli andamenti di lungo periodo del rapporto capitale-lavoro e del
rapporto capitale-prodotto per quattro grandi economie sviluppate. Da tali profili emerge
la sostanziale stabilità del rapporto tra il prodotto e il capitale – e in ogni caso l’assenza
di profili definiti - mentre è molto netto il profilo crescente del rapporto capitale lavoro
nel periodo di crescita elevata dopo la seconda guerra mondiale (e negli USA anche nel
periodo tra le due guerre mondiali).
10
Figura 1
Scomposizione dei divari di produttività
56 paesi, 1990(1)
40000
Prodotto per lavoratore
30000
20000
10000
0
0
20000
40000
60000
80000
Rapporto capitale-lavoro
1, capitale e prodotto: prezzi internazionali del 1985.
L'esperienza storica e il confronto tra paesi a diverso grado di sviluppo economico
suggeriscono dunque che il processo di crescita è caratterizzato dall'aumento della
quantità di capitale impiegata per lavoratore mentre gli andamenti della “produttività
del capitale” non sono significativamente correlati con gli andamenti di lungo periodo
della produttività del lavoro.
I modelli dello sviluppo economico elaborati dopo la seconda guerra mondiale hanno
dunque generalmente considerato queste due regolarità alla stregua di fatti stilizzati dello
sviluppo economico moderno, nell’accezione dell’economista N. Kaldor (in particolare:
N. Kaldor, "Un modello dello sviluppo economico", in: N. Kaldor, Saggi sulla stabilità
economica e lo sviluppo, Einaudi, Torino, 1965; "L'accumulazione del capitale e la
crescita economica", in. N. Kaldor, Equilibrio, distribuzione e crescita, Einaudi, Torino,
1984).
L'aumento della quantità di capitale per lavoratore si osserva sia che il capitale venga
misurato in termini di numeri indici del valore a prezzi costanti dei beni capitali, come nei
grafici riprodotti nel testo, sia che esso venga misurato in qualche grandezza fisica, come
ad esempio la potenza installata o le “tonnellate di acciaio” incorporate nelle macchine.
Naturalmente il rapporto capitale-prodotto non è esattamente costante nel lungo periodo,
ma il punto da sottolineare è che il suo andamento non sembra presentare alcuna definita
tendenza nel tempo e tra paesi, così come risulta invece per il rapporto capitale-lavoro. Si
pensi, ad esempio, al Giappone in cui il capitale per addetto è aumentato di cinquanta volte
tra il 1890 e il 1992, mentre il rapporto capitale-prodotto è passato da 0,7 a 3. Nello stesso
periodo, il rapporto capitale-prodotto è lievemente diminuito negli Stati Uniti, mentre il
rapporto capitale lavoro è aumentato di circa otto volte. Secondo i dati Ocse, in Italia il
rapporto capitale lavoro nel settore privato è aumentato di oltre quattro volte tra il 1961 e il
2002, mentre il rapporto prodotto/capitale è diminuito di circa il 10-15 per cento.
Sebbene la sostanziale costanza, in periodi lunghi, del rapporto capitale-prodotto non
implichi uno stesso profilo temporale nei diversi settori dell'economia, si deve sottolineare
11
che in molti casi la stabilità del rapporto capitale-prodotto si osserva anche in riferimento a
singoli settori. Ad esempio, in Italia lo stock di capitale lordo dell'industria è aumentato di
circa cinque volte tra il 1951 e il 1983 e approssimativamente lo stesso aumento si registra
per il valore aggiunto a prezzi costanti delle attività industriali.
Figura 2
Rapporto capitale-lavoro e rapporto capitale-prodotto
Giappone, Stati Uniti, Francia, Germania, 1913-1987
40
60
Giappone
Stati Uniti
30
40
k
20
k
20
10
v
v
0
0
1913
60
1950
1973
1987
60
Francia
40
1913
1950
1973
1987
Germania
40
k
k
20
20
v
v
0
0
1913
1950
1973
1987
1913
1950
1973
1987
k=capitale per ora-uomo (dollari USA del 1985)
v=rapporto tra lo stock lordo di capitale (al netto delle abitazioni) e il PIL
(dollari USA del 1985)
Fonte: elaborazioni dati A. Maddison, Dynamic forces in capitalist development, Oxford University Press,
Oxford, 1991.
3.1 Gli investimenti in capitale fisico
Le considerazioni precedenti mostrano che l'accumulazione del capitale fisico è uno degli
aspetti salienti dello sviluppo economico moderno e poiché il capitale si accumula
attraverso gli investimenti, la correlazione tra investimenti e crescita rappresenta una
robusta regolarità empirica nella gran parte degli studi che hanno inteso isolare i principali
fattori della crescita economica.
L’investimento che rileva nell’accumulazione del capitale - talvolta definito come
“investimento fisico” - corrisponde all’acquisto di nuovi beni capitali (macchinari, impianti),
di edifici (nuovi) o case (nuove). Non va confuso con l’”investimento finanziario” che
corrisponde all’acquisto di attività finanziarie, come oro, azioni, titoli. Il capitale fisico è il
12
risultato di successivi investimenti fisici meno quella parte di capitale che ogni anno viene
sottratta dall’attiità produttiva a causa del logorio fisico e dell’obsolescenza tecnologica.
Possiamo pensare al capitale fisico come ad una parte della base produttiva di
un’economia, nella quale è anche compreso il capitale naturale (foreste, fiumi, miniere,
“paesaggio” etc.) e il capitale umano.
E’ facile mostrare come l’investimento si rapporti al capitale fisico. Supponiamo di partire
nel tempo t=0 con un capitale nullo ereditato dal passato e un investimento pari a 100 euro
I0 = 100 e supponiamo che in ogni venga ritirato dalla produzione il cinque per cento del
capitale esistente l’anno precedente (ammortamento per logorio fisico e obsolescenza
tecnica). La seconda colonna della tabella seguente mostra gli investimenti lordi effettuati
ogni anno, da t=0 a t = 8, la terza colonna mostra l’ammortamento e l’ultima colonna mostra
il capitale, come somma cumulata degli investimenti meno l’ammortamento. Gli
investimenti meno l’ammortamento sono gli investimenti netti: il capitale quindi è la somma
cumulata degli investimenti netti. Questo metodo di calcolo del capitale complessivo è detto
metodo dell’inventario permanente (in quanto aggiorna continuamente lo stock di capitale
tenendo conto sia degli investimenti nuovi sia della sottrazione del capitale che esce dalla
produzione).
Periodo t
0
1
2
3
4
5
6
7
8
Investimento lordo
100
100
80
200
50
100
10
-20
100
Ammortamento (1)
5
9,75
13,26
22,6
23,97
27,77
26,88
24,54
Capitale
100
195
265,25
451,99
479,39
555,42
537,65
490,77
566,23
1, Pari allo 0,05 del capitale del periodo precedente
3.2 Investimenti e crescita economica
Investment underpins economic growth by bringing more inputs to the production process.
Banca Mondiale, World Development Report, 2005
È virtualmente impossibile osservare un processo storico di crescita sostenuta senza che
gli investimenti in capitale vi giochino un ruolo decisivo. Basti, a questo riguardo,
ripensare all’esperienza di sviluppo dei paesi del sud-est asiatico (Corea del sud, Taiwan,
Singapore, Malesia) e della Cina. Questi paesi sono riusciti a mantenere per molti anni
elevati tassi di investimento, spesso molto più elevati di quelli sperimentati dai paesi oggi
economicamente più sviluppati, tanto nel passato quanto negli ultimi decenni. In Cina nel
2003 il tasso d’investimento (rapporto tra gli investimenti lordi e il PIL) era pari al 42 per
cento, una cifra enorme per un paese con un livello di vita ancora piuttosto basso (e questo
fa capire quanto sacrificati siano in quel paese sia i consumi sia le spese sociali). In India
il rapporto valeva il 24 per cento, in Germania il 18 per cento e in Italia il 20 per cento.
13
In molti paesi in via di sviluppo, compresi diversi paesi africani, il tasso d’investimento
era più elevato che nei paesi economicamente avanzati. La fig. 3 riproduce i dati per
alcuni paesi nel 2003.
Figura 3
Tasso d’investimento in alcuni paesi, 2003 (1)
Albania
Argentina
Bangladesh
Bolivia
Brasile
Burkina Faso
Burundi
Cina
Croazia
Francia
Germania
Italia
Kenya
Lettonia
Malawi
Malesia
Mozambico
Namibia
Norvegia
Olanda
Portogallo
Senegal
Svezia
Tanzania
Regno Unito
Stati Uniti
50
45
40
35
30
25
20
15
10
5
0
1, Rapporto % tra gli investimenti fissi lordi e il PIL
Fonte: Banca Mondiale, World Development Report, 2005.
Da che cosa dipendono gli investimenti?
Ci sono almeno quattro gruppi di fattori che concorrono a determinare gli investimenti.
1) Fattori legati al costo del finanziamento degli investimenti. Alti tassi di interesse
scoraggiano gli investimenti, difficoltà di accesso al credito (in molti paesi le
difficoltà sono particolarmente accentuate per le piccole imprese: di qui i possibili
benefici del microcredito)
2) Fattori legati al dinamismo dell’economia: un’economia dinamica offre
prospettive per gli investimenti in quanto garantisce un mercato di sbocco per la
produzione aggiuntiva realizzata con i nuovi impianti. Nello stesso modo il
dinamismo tecnologico incoraggia gli investimenti in quanto permette alle
imprese di acquisire nuove tecnologie e amplia la gamma dei prodotti che può
essere, a sua volta, un fattore in grado di incoraggiare la domanda dei consumatori.
3) Fattori legati al clima politico-sociale: l’instabilità politica e la corruzione
possono scoraggiare gli investimenti. Secondo la Banca mondiale, i rischi
associati alla situazione politica sono un importante fattore che potrebbe
scoraggiare gli investimenti in molti paesi emergenti.
Negli ultimi anni la Banca Mondiale e gli altri principali organismi internazionali hanno
molto insistito sulla “deregolamentazione” dei mercati, dei beni e del lavoro, come
prerequisito per la crescita economica, ma l’evidenza empirica a favore di questa
tesi rimane molto fiacca e molti sostengono che essa non sia molto di più di un
14
argomento ideologico. La gravissima crisi finanziaria che ha squassato i paesi
occidentali nel 2008-2009 e ancora tiene per la gola l’economia europea è stata
provocata da un eccesso di deregolamentazione dei mercati finanziari che, negli
anni scorsi, era stata presentata come una sicura ricetta per la crescita economica.
Si insiste anche sulla corruzione come fattore che blocca la crescita, ma il punto
importante è che la relazione tra corruzione e crescita è ambigua. La Cina è un
paese considerato molto corrotto secondo gli indicatori correntemente utilizzati, ed
è anche un paese non democratico secondo gli standard occidentali, ma è un paese
che ha sperimentato tassi di crescita eccezionali per un lunghissimo periodo di
tempo, un’esperienza semplicemente senza precedenti nella storia universale.
Probabilmente, sarebbe opportuno pensare alla corruzione come un fenomeno che
guasta la qualità della vita economica e opprime la partecipazione sociale, piuttosto
che, semplicisticamente, come un fattore che ostacola la crescita (anche perché in
passato si pensava esattamente l’opposto, che la corruzione potrebbe essere un
fattore in grado di promuovere la crescita in quanto capace di aggirare le
regolamentazioni e gli ostacoli della burocrazia favorendo quindi l’iniziativa delle
imprese più aggressivamente desiderose di affermarsi!).
4) Fattori di interazione con aspetti della struttura economica e sociale.
i)
ii)
iii)
iv)
Gli impianti in cui si fissano gli investimenti fisici richiedono spesso, per
operare in modo efficace, maestranze qualificate (soprattutto quando si tratta
di investimenti in apparecchiature complesse o impianti che richiedono
continue attività di revisione-manutenzione). L’insufficiente dotazione di
capitale umano potrebbe quindi non consentire di sfruttare appieno il
contenuto di tecnologia implicito nei beni capitali.
La destinazione settoriale degli investimenti potrebbe comportare sprechi o
insufficienti “ritorni” socio-economici, taluni investimenti potrebbero essere
effettuati per ragioni “politiche” senza una vera motivazione economica, in
seguito a pressioni di gruppi di interesse o altro.
Gli investimenti potrebbero essere “sottoutilizzati” per ragioni diverse: una
scuola in un distretto con pochi bambini, una fabbrica di legname in un’area
poco adatta, una fabbrica di birra in una regione di astemi. Più in generale,
in molti paesi in via di sviluppo la dimensione del mercato interno è un
ostacolo alla piena redditività degli impianti quando quei paesi abbiano
difficoltà di esportare i prodotti. In un paese povero, il mercato per molti tipi di
beni è inevitabilmente limitato e questo può o scoraggiare del tutto
l'investimento nelle attività rilevanti o, se l'investimento viene effettuato, può
non permettere di conseguire pienamente i vantaggi produttivi associati ad
elevate scale di produzione.
Strade, disponibilità di energia elettrica, facilità di finanziamento etc. sono tutti
fattori che amplificano il potenziale di crescita associato a dati flussi di
investimenti: la mancanza di infrastutture è quindi un fattore che può
ostacolare il circolo virtuoso investimenti-crescita.
Mentre è importante rammentare la lista di fattori da cui, in generale, dipendono gli
investimenti, è altrettanto importante riconoscere che tali fattori agiscono sempre in
contesti specifici che possono amplificare l’importanza di un fattore o attenuare il peso di
altri.
4. Progresso tecnico
L’importanza degli investimenti fisici è spiegabile non solo con il fatto che essi
permettono al lavoro di operare con dotazioni crescenti di impianti e macchinari, ma
anche con il fatto che essi rappresentano il canale attraverso cui viene introdotto
nell’economia il progresso tecnico e con le esternalità positive associate agli
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insediamenti produttivi. In altri termini: gli investimenti sostengono la crescita
economica in quanto introducono un aumento di input nel processo produttivo (la zappa
di cui può disporre il contadino), introducono tecnologia che permette l’ulteriore aumento
della produttività (non solo una zappa, ma una motozappa), e permettono di realizzare
esternalità, ovvero ricadute positive sull’ambiente al di là dei rendimenti privati associati
agli investimenti stessi. Ad es.: se un’impresa effettua un investimento determinerà
conseguenze sulla qualificazione delle maestranze, favorirà gli acquisti dalle imprese che
forniscono semilavorati etc., una strada favorirà i collegamenti e permetterà ai contadini
di vendere in città la loro produzione. Proprio nella misura in cui l’investimento
incorpora le conoscenze rese disponibili dal progresso tecnico esso rappresenta, per una
singola impresa, una modalità di apprendimento attraverso la pratica (“learning by
doing”) i cui effetti tendono inevitabilmente ad estendersi ad altre imprese, anche
attraverso il miglioramento delle abilità dei lavoratori e le sollecitazioni esercitate sulle
reti di fornitura e di collaborazione delle imprese. In questo senso il progresso tecnico è
un processo che sorge all’interno del processo produttivo e che si sviluppa attarverso le
molteplici relazioni che s’intaurano tra imprese, distretti produttivi, paesi. C’è una
relazione bidirezionale tra innovazione tecnologica e investimento: una innovazione
tecnologica (un nuovo prodotto o un nuovo processo produttivo) incoraggerà l’impresa
ad effettuare l’investimento, ma un’impresa che investe favorirà la diffusione del
progresso tecnico.
4.1 Progresso tecnico: che cos’è veramente?
Il progresso tecnico viene sovente presentato come un processo che include tre
fasi distinte: la fase dell'invenzione, nella quale l'idea o il principio tecnico viene
selezionato, la fase dell'innovazione, nella quale il principio tecnico trova una prima
applicazione economica da parte di imprenditori innovatori, la fase della diffusione
nella quale l'innovazione raggiunge una platea sempre più larga di utilizzatori e di
imprenditori imitatori. Questa suddivisione in fasi non è priva di utilità, a condizione
che la si impieghi con un certo grado di flessibilità. E' evidente infatti che il ritardo
tra invenzione e innovazione dipende dalla proprietà che vengono assegnate
all'invenzione e dalla sua complessità tecnica. Si è, ad esempio, calcolato un
ritardo di 79 anni tra l'invenzione della lampada a fluorescenza (1859, Becquerel)
e la sua adozione innovativa nel 1938 (General Electric, Westinghouse), ma è noto
che il principio della lampada ad incandescenza è più antico dell'invenzione di
Becquerel. Lunghi ritardi tra invenzione e innovazione riflettono il più delle volte il
fatto che, alla data di identificazione dell'invenzione, permangono diversi problemi
tecnici importanti e non risolti che non consentono l'utilizzo economico di tipo
innovativo. Se si riconosce l'ovvia importanza della fattibilità tecnica ed economica
di un principio tecnico-scientifico, allora la distinzione tra momento dell'invenzione
e momento dell'innovazione diventa in qualche misura artificiale, mentre è
opportuno concentrare l'attenzione sulla "continuità" che caratterizza l'attività
innovativa incrementale (a livello d'impresa e di impianto), piuttosto che sulla
discontinuità dei prodotti della conoscenza scientifica:
il modo migliore di descrivere l'attività inventiva è di considerarla un processo di
accrescimento graduale, un'accumularsi di eventi in cui, in linea generale, le continuità
sono molto più importanti delle discontinuità. Anche là dove è possibile individuare grandi
invenzioni, che sembrano costituire concezioni completamente nuove, e quindi reali
discontinuità, nette e spettacolari rotture col passato, sono solitamente all'opera forze
capillarmente diffuse, di natura sia tecnologica sia economica, che tendono a rallentaree
ad ammorbidire l'impatto di queste invenzioni in termini del loro contributo all'aumento della
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produttività delle risorse (N. Rosenberg, Le vie della tecnologia, Rosenberg e Sellier,
Torino, 1989).
Possiamo pertanto distinguere, all'interno del generale processo innovativo, le
innovazioni primarie, talvolta di rilevante portata e storicamente databili (sia pure
con qualche imprecisione), e le innovazioni secondarie, che seguono, adattano e
migliorano le attrezzature e i prodotti resi possibili dai cambiamenti iniziali.
L'analisi delle "fonti" delle principali innovazioni nell'industria nei paesi avanzati
mostra che in gran parte esse hanno a fondamento un’attività innovativa interna
all'unità produttiva che realizza l'innovazione. Sulla base di questa constatazione,
Rosenberg ha mostrato che anche la distinzione tra innovazione e diffusione è in
gran parte artificiale, grosso modo per ragioni analoghe a quelle viste a proposito
della distinzione tra invenzione e innovazione. Se quel che conta è, infatti, l'attività
innovativa all'interno delle imprese, allora anche la diffusione del progresso tecnico
dev'essere concepita non come semplice imitazione di imprese che seguono
l'onda dettata dalle imprese leader, bensì come un processo dinamico di
adattamento continuo. In altri termini, la diffusione dell'innovazione non comporta
semplicemente la trasmissione e la passiva ricezione di elementi tecnici (strumenti,
attrezzature, nozioni tecnico-scientifiche), bensì un attivo impegno da parte delle
unità che adottano l'elemento innovativo:
il modo migliore di descrivere l'attività inventiva è di considerarla un processo di
accrescimento graduale, un accumularsi di eventi in cui, in linea generale, le continuità
sono molto più importanti delle discontinuità. Anche là dove è possibile individuare grandi
invenzioni, che sembrano costituire concezioni completamente nuove, e quindi reali
discontinuità, nette e spettacolari rotture col passato, sono solitamente all'opera forze
capillarmente diffuse, di natura sia tecnologica sia economica, che tendono a rallentare e
ad ammorbidire l'impatto di queste invenzioni in termini del loro contributo all'aumento della
produttività delle risorse (Rosenberg, op. cit., p. 210).
Se si riconosce che l'idea di progresso tecnico implica un continuo di attività di
sperimentazione, di innovazione e di diffusione tecnologica che hanno luogo
essenzialmente nelle unità produttive e nelle imprese, si comprende l'importanza
della nozione del progresso tecnico come fenomeno tipicamente endogeno in
quanto insieme di attività che si propagano nell'economia attraverso l'introduzione
di nuovi beni capitali e di nuove pratiche organizzative.
Gli aspetti principali attraverso i quali si manifesta l'endogenità del progresso
tecnico riguardano le caratteristiche dell'ambiente economico-istituzionale, le
capacità degli utilizzatori, le caratteristiche del mercato.
i) In ogni dato momento il sistema delle imprese incorpora un insieme di tecniche, di know
how, di procedure di gestione delle risorse e di abilità le cui caratteristiche specifiche
possono favorire od ostacolare l'adozione di processi o prodotti innovativi, a causa di vincoli
tecnologici od organizzativi.
ii) La dimensione delle imprese è talvolta un fattore che può spiegare la rapidità del
processo di innovazione. Le indagini sull'innovazione in Italia mostrano che nelle piccole e
piccolissime imprese è molto minore la propensione all'innovazione.
Anche una debole posizione finanziaria delle imprese può impedire l'adozione di invenzioni
altrimenti attraenti dal punto di vista economico.
iii) Le caratteristiche dei mercati, sia dal lato dell'offerta sia da quello della domanda,
rappresentano decisive influenze sul passo della diffusione tecnologica. Mercati in crescita
saranno generalmente più pronti ad accogliere l'innovazione di mercati stagnanti, così
come condizioni di vivace concorrenza rappresentano uno stimolo all'adozione di nuovi
metodi da parte di imprese che desiderano mantenere o migliorare la loro forza in relazione
alle altre imprese. Per quanto riguarda la domanda, è indubbio che la prontezza dei
consumatori nell'accogliere nuovi prodotti o i prodotti standardizzati resi possibili dalle
17
nuove tecnologie rappresenta un fattore importante nella diffusione del progresso tecnico
(sebbene si debba tenere presente che le imprese sono continuamente impegnate in
attività orientate ad influire sui gusti dei consumatori).
Per sintetizzare la complessità delle determinazioni endogene del progresso
tecnico possiamo osservare, con le parole di Kuznets, che "i corollari economici e
sociali dell'innovazione tecnologica rappresentano un insieme di argomenti
collegati" (S. Kuznets, “Innovazioni, sviluppo e trasformazioni”, in: S. Kuznets,
Popolazione, tecnologia, sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1990Kuznets, 1977, p.
173). In buona sostanza, sono qui in gioco “processi complementari di
adattamento – nuovi schemi di vita e nuove forme istituzionali che si [evolvono]
come risposta all'innovazione tecnologica […] per convogliare efficacemente
quest'ultima alle applicazioni di massa, processi compensatori di adattamento
[…][ed] effetti distruttivi delle innovazioni tecnologiche nella loro vittoriosa
competizione con i settori maturi …”.
Il progresso tecnico come processo sociale
Una volta che si riconosca la complessità della nozione di progresso tecnico, non
è difficile vedere che l'andamento della produttività del lavoro è il frutto di un
insieme di determinazioni sociali, economiche e tecnologiche. Lo schema della fig.
4 tenta di raccogliere le principali forze responsabili delle variazioni della
produttività. Partiamo dal prodotto potenziale per lavoratore. Essenzialmente, esso
dipende, in ogni dato breve periodo, dalla qualificazione della forza lavoro e dalle
abilità manageriali, dalla dotazione di attrezzature, dal tipo di prodotti e dalla
situazione della domanda aggregata. La produttività effettiva, poi, dipenderà dal
comportamento della forza lavoro occupata, che, a sua volta, rifletterà sia lo stato
delle relazioni industriali, compresa la tipologia e la diffusione delle forme di
incentivazione (relazioni industriali molto conflittuali o sistemi di produzione poco
incentivanti avranno ovvi effetti negativi sulla performance dei lavoratori), sia gli
atteggiamenti delle maestranze e gli stili di direzione aziendale. Dietro queste
determinanti, giace una storia di opportunità imprenditoriali e di decisioni esercitate
sia utilizzando le disponibilità e le qualificazioni dei lavoratori e la conoscenza
scientifica sia effettuando investimenti produttivi.
La natura dei mercati finanziari (che determinano il grado di disponibilità dei
finanziamenti per i progetti produttivi), l'organizzazione dell'industria e le
caratteristiche dei mercati dei prodotti (grado di concorrenzialità, presenza di
elementi monopolistici, politiche di prezzo delle imprese) sono tutti fattori che
contribuiscono a formare l'ambiente in cui maturano le scelte produttive delle
imprese.
(Naturalmente, possono esserci effetti di retroazione - alcune sono indicate con
linee tratteggiate - ad esempio dalla legislazione sul lavoro e dalla domanda
aggregata, in grado di modificare le decisioni imprenditoriali).
Alla base dei questi fattori vi sono elementi che agiscono ancora più in profondità
come, ad esempio, il sistema scolastico e la formazione professionale, che
contribuiscono a determinare la qualità della forza lavoro, e il sistema delle norme e
delle regolamentazioni dell'industria, che possono agire come fattori di spinta o di
ostacolo all'espansione della produzione.
Lo schema della fig. 4 può essere letto in verticale, osservando che le determinanti
più in alto agiscono per lo più nel breve periodo, mentre le determinanti più in basso
e "più profonde" riguardano essenzialmente lo sviluppo, l'introduzione e la diffusione
di nuovi prodotti e di nuove tecniche e incorporano gli effetti di lungo periodo
dell'ambiente istituzionale.
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Figura 4
Le forze che determinano la produttività
Produttività
dei lavoratori
Legislazione del lavoro,
relazioni industriali,
schemi di incentivazione
Attitudini dei
lavoratori, stili
di direzione
aziendale,
fattori culturali
Prodotto potenziale
per lavoratore
Qualificazione
della forza
lavoro
Attrezzature,
stock di
capitale
Tipologia dei
prodotti
Situazione
della domanda
aggregata
Decisioni imprenditoriali
Qualificazione
della forza
lavoro
Risorse scientifiche, Mercati finanziari
tecniche e
organizzazione
organizzative
dei settori
industriali
Sistema
scolastico
Dimensione
e tipologia
dei mercati
dei prodotti
Dispositivi di
regolamentazione
dell’industria,
intervento pubblico
nell’economia
Formazione
professionale
Sviluppo storico del
sistema economico
5. Misurare la produttività
La produttività è la chiave dello sviluppo economic: per le persone, le imprese, l’economia
nel suo complesso. Aumentare la produttività significa produrre di più con lo stesso
ammontare di input misurati. Gli indici di produttività più usati sono la produttività del lavoro
e la produttività totale dei fattori (PTF, o total factor productivity, TFP).
La produttività del lavoro è di solito misurata con il valore aggiunto prodotto da ogni unità
di lavoro (un’ora di lavoro o un lavoratore: produttività oraria o produttività per addetto).
Aumentare la produttività del lavoro significa che una persona è capace di produrre di più:
come?
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Prendiamo l’esempio di una lavoratrice nel settore informale della produzione di vestiario.
Una possibilità è che la lavoratrice abbia accesso a più macchinario (una macchina da
cucire, un telaio): questo fa riferimento al contributo del capitale fisico. Una seconda
possibilità è che la persona riceva un addestramento addizionale che le permette di
lavorare con maggiore efficienza: il capitale umano.
Una terza possibilità è che la lavoratrice possa utilizzare macchine di tipo nuovo capaci di
cucire più abiti nell’unità di tempo (magari risparmiando filo e aghi). Una quarta possibilità
fa riferimento all’accesso più facile alle materie prime, ad agevolazioni di vario tipo legate,
ad esempio, alla burocrazia o al fisco (meno moduli da compilare) e ad un ambiente non
guastato dalla corruzione o dalla malavita. Miglioramenti in ciascuna di queste aree
contribuiscono ad aumentare la produttività della lavoratrice.
In generale la produttività totale dei fattori tenta di misurare il contributo alla produttività dei
lavoratori in aggiunta al contributo associato alla loro abilità e al macchinario usato.
Supponiamo che la produttività di una lavoratrice aumenti del 50 per cento in un periodo di
10 anni e che si possa stabilire che il 20 per cento di questo aumento dipende dal fatto di
avere usato la macchina da cucire piuttosto che l’ago (capitale fisico) e che il 10 percento
dipenda dall’addestramento ricevuto (capitale umano): resta quindi il 20 per cento che non
possiamo associare ai fattori misurati (capitale fisico e capitale umano) e che possiamo,
sia pure in modo evocativo, attribuire al “progresso tecnico” che quindi approssimiamo con
la produttività totale dei fattori: in questo caso diremo che il “progresso tecnico” spiega il
20 per cento dell’aumento della produttività. Con riferimento alla classificazione
precedente, diremo che la PTF è una misura indiretta sia del contributo delle innovazioni
incorporate nelle nuove macchine sia del “miglioramento ambientale” che permette alle
persone di lavorare in maniera più produttivo. Pertanto la PTF rappresenta non solo gli
aspetti più tradizionalmente associati al progresso tecnico (l’innovazione dei prodotti e
l’innovazione del processi produttivi), ma anche l’”innovazione organizzativa” in senso lato:
ad es. una migliore organizzazione del lavoro capace di utilizzare meglio le competenze
dei lavoratori, rapporti di lavoro meno oppressivi ma in grado di incoraggiare la creatività
delle maestranze possono contribuire all’efficienza dei lavoratori anche senza che questo
si traduca in aumenti del capitale fisico o dell’istruzione dei lavoratori. Proprio la natura
composita della nozione di PTF spiega perché le misure disponibili devono sempre essere
prese con cautela, come indizi indiretti dei processi sottostanti piuttosto che come “misure
esatte” del progresso tecnico.
Dobbiamo insistere su questo: per “tecnologia” (o “progresso tecnico”) non si intende
solamente l’avanzamento scientifico che, ad es., può essere riconosciuto da un brevetto
(“invenzione”). Di solito include miglioramenti più modesti, piccoli adattamenti di tecnologie
già esistenti, imitazione di prodotti o di metodi di altri paesi o di altre imprese, nuovi metodi
organizzativi che utilizzano tecnologie produttive note: in questo caso parliamo piuttosto di
“innovazione”, ovvero di un processo che consiste nel “modificare qualcosa che esiste”.
Importanti sono poi anche i “mutamenti organizzativi” che facilitano l’adozione di nuovi
processi produttivi o rappresentano essi stessi fattori autonomi di miglioramento produttivo.
I dati, come abbiamo già visto, dimostrano il ruolo centrale dell’investimento fisico nel
sostenere il processo di crescita. Secondo calcoli della Banca Mondiale, relativi a 87 paesi
emergenti nel periodo 1960-2000, il “capitale fisico” contribuisce per circa il 40-45 per
cento nella spiegazione della differenza nei tassi di crescita. Gli altri fattori che
contribuiscono alla crescita sono il “progresso tecnico”, nel senso di PTF, e il capitale
umano.
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La fig. 5 illustra questa informazione distinguendo quattro gruppi di paesi in via di
sviluppo (grosso modo in numero equivalente). Il primo gruppo è quello dei paesi che
non sono cresciuti: come si può vedere è trascurabile il ruolo degli investimenti mentre è
risultato addirittura negativo il ruolo del “progresso tecnico” (possiamo pensare che per
questi paesi si tratti di gravi fattori di “disfunzionalità” istuzionali-organizzative che
impediscono di sfruttare lo sforzo delle maestranze e determinano “sprechi” di vario tipo
nel processo produttivo); nel secondo gruppo, in cui è risultato trascurabile il ruolo del
capitale umano, la modesta crescita (un po’ più di mezzo punto in media all’anno) è per
lo più dovuta agli investimenti fisici; per il terzo e quarto gruppo di paesi, nei quali il
tasso di crescita del PIL per lavoratore varia da un valore medio di 1,2 punti a circa 3
punti percentuali, si vede bene il ruolo decisivo del capitale fisico (grosso modo più della
metà della crescita è attribuibile agli investimenti fisici).
Figura 5
Tassi di crescita del PIL per lavoratore, 1960-2000
62 paesi in via di sviluppo
I paesi sono divisi in quattro gruppi a seconda del tasso di crescita. Il tasso di crescita medio di ciascun
gruppo è la somma del contributo dei diversi “fattori”.
Il grafico si legge nel modo seguente: se prendiamo il quarto gruppo di paesi vediamo che in essi la
produttività (prodotto per lavoratore) è aumentata in media annua a circa il 3 per cento, somma di 1,2 per
cento dovuto a “progresso tecnico”, 1,7 per cento dovuto a investimento in capitale fisico e a circa 0,3 punti
dovuti all’istruzione.
Fonte: Banca Mondiale, World Development Report, 2005.
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