STAGIONE 2016/ 2017 DEGNI DI NOTA Tra Gaber e Brassens Libretto di sala a cura di Claudia Braida Venerdì 18 novembre 2016 Ore 21.00 Per me cultura è un "modo di interrogazione". Posso dire che in me, esistenzialmente, l'interrogazione è centrale, per capire di più di sé, del mondo. Il fascino di questo mestiere d'artista è proprio avere dentro questa cosa, questa interrogazione. Giorgio Gaber Testi di: Alberto Patrucco, Antonio Voceri, Georges Brassens, Giorgio Gaber, Sandro Luporini, Federico Monti Arduini Regia di: Emilio Russo Costumi: Pamela Aicardi Luci: Mario Loprevite Musiche di: Georges Brassens, Giorgio Gaber Arrangiamenti e Direzione musicale: Daniele Caldarini, Andrea Mirò Assistente alla regia: Fabio Zulli Con: Andrea Mirò, Alberto Patrucco Daniele Caldarini (pianoforte, tastiere) Francesco Gaffuri (basso, contrabbasso elettrico) Giuseppe Gagliardi (batteria, percussioni) Voci fuori campo di G. Gaber e G. Brassens di: Marco Balbi, Alarico Salaroli Service: Theatre Project Fonico: Simone Pirovano Proiezioni: Riccardo Russo Produzione: TiEffe Teatro Milano. Si ringrazia la Fondazione Gaber. Ho sempre pensato che il teatro fosse anche arte dell’incontro. Incontro tra le persone in platea, tra questi e il palcoscenico, incontro tra gli attori, incontro e scontro tra l’attore e il suo personaggio. Incontro di lingue e linguaggi, di espressioni artistiche contaminate, incontri attraverso il tempo tra il passato e il presente. Incontri veri e, a volte, immaginati. In Degni di Nota gli incontri sono multipli. Intanto quello tra un attore/autore come Alberto Patrucco, straordinario ed efficace stand up comedian, e una musicista/autrice di particolare sensibilità e carisma come Andrea Mirò, qui per la prima volta impegnata anche come attrice; poi quello tra la parola e la musica, tra la comicità d’autore e la canzone d’autore per scoprire che raccontano di storie simili, storie individuali e collettive del nostro tempo. Ma se il teatro può immaginare, o meglio far immaginare, luoghi, tempi e personaggi, può anche far incontrare chi non si è mai incontrato per distanza di luoghi o differenze di tempo. E’ il caso di un altro incontro “degno di nota”, quello più audace ed impossibile, quello tra i due Giorgio, quello tra Gaber e Brassens. Sono loro a delineare il percorso dello spettacolo, con quanto ci hanno lasciato in canzoni, poesia, visione della vita. A volte sguardi opposti, che paiono allontanarsi, si incrociano e poi ancora si allontanano. Abbiamo provato a sottolineare i grandi temi della loro poetica, la vita, la morte, l’amore costruendo le tappe di uno spettacolo di teatro musicale tra incroci e digressioni, dove il loro presente, quello dei due “Giorgi”, si incontra con il nostro, in particolare quello raccontato dalla comicità a forti tinte di Alberto Patrucco, anche autore di traduzioni salaci e colorite delle straordinarie canzoni di Brassens. La sfida registica è stata quella di tracciare una articolata linea rossa lungo la quale sistemare, o provare a sistemare, le tessere di un mosaico, o forse meglio, le schegge di un “cluster”, un’esplosione pacifica di parole, musica, idee e suggestioni, non sempre e volutamente controllabile, spesso e involontariamente sorprendente. Uno spettacolo, Degni di Nota tra Gaber e Brassens dove si ride, si riflette, forse si pongono delle domande, magari quelle per completare un mosaico rimasto incompiuto, o magari per arricchire l’incontro con le persone in platea. Incontro, appunto. Emilio Russo In Degni di nota, due è il numero perfetto. Due, come Georges Brassens e Giorgio Gaber. Due, come Alberto Patrucco e Andrea Mirò, così come i codici espressivi che si incrociano sulle tavole del palcoscenico: la canzone d’autore e la parola, volutamente in bilico tra due – ancora una volta il due! – cifre stilistiche, l’umorismo e la poesia. Degni di nota è tutto questo. È uno spettacolo di Teatro e Canzone che scava nel tempo per brillare di luce propria nella più stretta attualità, dando profondità prospettica, tra le altre, ad alcune tematiche anticipate in anni non sospetti dai due Maestri d’antan. È una fusione di epoche, ieri e oggi; una miscela di stili, l’anarchico “minimalismo” brassensiano e il caustico “massimalismo” gaberiano; un’accoppiata di voci, quella profonda di Alberto Patrucco e quella inconfondibile di Andrea Mirò; un ampio ventaglio di emozioni, dalla risata liberatoria alla struggente malinconia, dall’ironia più sottile al graffio della satira, in un entusiasmante incedere di canzoni, monologhi e sonorità, sapientemente dosati dalla perfetta regia di Emilio Russo e da una band di ispirati musicisti. La varietà dei temi, ostinatamente rivolti a scartare gli stanchi cliché della comicità di oggi, portano lo spettatore a ridere con intelligenza dell’amore, della vita e anche della morte. Niente celebrazioni, quindi, bensì l’idea di unire, seppure in epoche storiche diverse, sensibilità tanto affini, punti di vista che coesistono in perfetta armonia, anche grazie al tessuto connettivo della musica. Uno spettacolo importante, neanche a dirlo, degno di nota, che resta a lungo nella testa e nel cuore. Già, testa e cuore, ancora una volta il due. Alberto Patrucco Alberto Patrucco Si avvicina al mondo artistico attraverso la musica. Questa formazione, la conoscenza del ritmo e della musicalità, avrà un peso determinante nella costruzione dei suoi monologhi e del suo modo di fare teatro. Debutta ufficialmente nel 1976 al Teatro Cabaret La Bullona a Milano. Entra in contatto con il mondo del cabaret e assimila l’etica e il modo di intendere e fare spettacolo di quegli anni. La proposta artistica di Patrucco è semplice e in linea coi tempi: monologhi e ballate, eseguite al pianoforte o alla chitarra, per raccontare storie con parole e canzoni originali, per lo più umoristiche. Tra la fine degli anni 70 e gli inizi degli anni 80, inizia un’intensa attività in molti locali milanesi e, nelle nascenti tivù private, affronta le prime esperienze televisive (in particolare, su Antenna Nord – l’attuale Italia 1, allora di proprietà dell’editore Rusconi – conduce Dedicomania, un programma comico ispirato dal vivace mondo delle radio libere). Con il boom commerciale del cabaret, grazie alle doti dimostrate sul palco e al proliferare di agenzie di spettacolo, Patrucco allarga il suo raggio d’azione in tutta Italia. Dal 1980 al 1990 propone una serie di spettacoli che a buon diritto entrano nella storia di questo genere. Abbandonata la musica, per un decennio sperimenta, approfondisce il monologo satirico puro, sviluppando uno stile personale e inconfondibile, riprendendo le canzoni solo in qualche occasione. Sono di quegli anni gli spettacoli: Gira la terra gira, Superfluomania, Kitsch boom, Pesi massimi e Contromano. A partire dal 2000, le esperienze televisive si sommano: i primi Zelig e Colorado cafè, oltre a Funari news, Ballarò e la più recente Xlove, su Italia 1, nel 2015. È in questo periodo che definisce l’argomento centrale del suo cabaret, ovvero, l’originale tesi del “Pessimismo comico” che prenderà vita attraverso tappe precise e ben delineate: • dal 2000 al 2005 elabora Tempi bastardi; • nel 2005 prende parte alla Trentesima Rassegna della Canzone d’Autore, organizzata dal Club Tenco e trasmessa da RAI DUE; • dal 2006 Vedo buio!. A partire dal 2007, riprende il discorso musicale interrotto anni addietro. Col consenso degli eredi, inizia ad adattare e interpretare alcune opere di Georges Brassens mai tradotte in italiano. Torna a cantare e dà vita a uno spettacolo comico inusuale: un incontro tra satira parlata e satira cantata. Inizia così un percorso che lo condurrà a numerose e varie esperienze. • Dall’ottobre 2007 al febbraio 2009, scrive per Emme, il settimanale satirico diretto da Sergio Staino. • Nel 2008, esce Chi non la pensa come noi – Alberto Patrucco interpreta Georges Brassens. • Dal 2009 al 2011, mette in scena lo spettacolo di comicità e canzoni Chi non la pensa come noi. • Nel 2010, è la volta di Necrologica – Un libro lapidario. Si tratta di una moderna Antologia di Spoon River, in salsa umoristica, arricchita dalle illustrazioni di Sergio Staino e da un raffinato cd musicale. • Dal 2012 al 2013, va in tour con Molestia @ parte, ancora con la formula collaudata Comicità e Musica d’Autore. • Da gennaio a giugno 2014, Satira volante. Appuntamento umoristico settimanale, in diretta, per Ottovolante – RAI Radio2. • Nel 2014, esce Segni (e) Particolari – Alberto Patrucco e Andrea Mirò cantano Georges Brassens. Tredici nuove traduzioni, frutto dell’emozionante percorso compiuto tra le parole e la musica del più raffinato cantautore francese del secolo scorso. • Dal 2014, Segni e particolari diventa spettacolo, con Andrea Mirò in scena. • Il 27 Giugno 2015, Patrucco è unico protagonista al Festival Brassens Auprès de son arbre a Parigi. • Dal 2015, lo spettacolo teatrale trova il suo approdo ideale: Degni di Nota – Tra Gaber e Brassens, con Andrea Mirò. Dal 2002 l’impegno creativo, motore degli spettacoli dal vivo, delle pubblicazioni e dei monologhi televisivi, è condiviso con Antonio Voceri. Nel 2005, gli viene assegnato il Premio Charlot (Cabaret con la K). Nel 2007, il Premio Walter Chiari, il Premio Satiroffida e il Delfino D’oro. Nel 2010, Il Premio Paolo Borsellino per l’impegno culturale. Tutta l’opera di Alberto Patrucco si può considerare come un gigantesco work in progress che ruota attorno alla spiazzante tematica del pessimismo comico. L’autore è alla perenne ricerca della singolare normalizzazione di questo tema che racchiude la sua visione del mondo. Sul palcoscenico e nei suoi libri, sviscera la realtà rivoltandola e trovandone gli amari ed esilaranti lati comici. La scrittura rimane l’elemento centrale del discorso artistico di Patrucco, il punto di partenza: il contenuto comico è più importante dell’effetto esilarante. Andrea Mirò La sua carriera artistica è cominciata a Calliano negli anni ottanta come solista, e, dopo un breve periodo di interruzione, è ripresa nel 1994 nella band di Enrico Ruggeri; in seguito ha proseguito la carriera solista, continuando contemporaneamente la collaborazione con Ruggeri. Ha vinto l'edizione del Festival di Castrocaro del 1986 con Pietra su Pietra. Come solista ha partecipato al Festival di Sanremo quattro volte: nel 1987 con Notte di Praga, nel 1988 con Non è segreto, nel 2000 con La canzone del perdono e nel 2003, in coppia con Enrico Ruggeri, con Nessuno tocchi Caino. Nel 2001 pubblica l'album Lucidamente, del quale è autrice di tutte le musiche e dei testi, ad eccezione della cover The fairest of the seasons, canzone di Jackson Browne, nota soprattutto nell'interpretazione di Nico. In questa canzone duetta con David Surkamp dei Pavlov's Dog. Nel 2002 ha diretto l'orchestra al Festival di Sanremo per il compagno Enrico Ruggeri che partecipa con il brano Primavera a Sarajevo di cui è anche coautrice. Nell'aprile 2007 esce l'album A fior di pelle preceduto dal singolo Il vento. L'album contiene una collaborazione con Neri Marcorè nel singolo Preghierina dell'Infame e anche una cover del brano Don't Let Me Be Misunderstood di Nina Simone. Alla fine del 2008 collabora con il compagno Enrico Ruggeri alla realizzazione della colonna sonora per il film East West East - Volata finale, del regista albanese Gjergj Xhuvani, che verrà pubblicata l'anno successivo nell'album All in - L'ultima follia di Enrico Ruggeri, al quale partecipa anche in qualità di produttrice oltre che come musicista e cantante in un trio nel brano Sulla strada. Nel 2010 al Festival di Sanremo dirige l'orchestra per il compagno Enrico Ruggeri che si esibisce col brano La notte delle fate e per Nina Zilli che porta al festival L'uomo che amava le donne. Nel marzo 2012 duetta con la cantautrice Roberta Di Lorenzo in Menti distratte contenuto nell'album della Di Lorenzo Su questo piano che si chiama Terra. A maggio 2012 esce l'album Elettra e Calliope. Nel 2013 ritorna nuovamente al Festival di Sanremo dove dirige l'orchestra per il cantautore Andrea Nardinocchi, esibitosi nella categoria "Giovani". Sempre nello stesso anno riceve il Premio Lunezia Doc 2013 per la qualità Musical-Letteraria delle sue canzoni. Anche nel 2014 è al Festival di Sanremo nelle vesti di direttrice d'orchestra per il gruppo Perturbazione (categoria "Campioni") e Zibba (categoria "Nuove proposte"). Nel 2014 fa parte della giuria italiana all'Eurovision Song Contest. Nell'aprile 2016 esce l'album Nessuna paura di vivere, prodotto da Manuele Fusaroli, in cui collaborano tra gli altri Brian Ritchie e Nicola Manzan. PER APPROFONDIRE Giorgio Gaber, lungo viaggio biografico attraverso le sue parole La storia di Giorgio Gaberscik, in arte Gaber, inizia il 25 gennaio 1939 in via Londonio 28, a Milano. Sono cresciuto in una famiglia piccolo-borghese, in una piccola casa, con le abitudini e il tenore di vita di allora (...) si aveva un paio di scarpe sole e quando queste finivano se ne compravano delle altre, il che era certo un buon segno. Sacrifici, sicuro, ma all'insegna di un'essenzialità che oggi in qualche modo potremmo anche rimpiangere. Mio padre era impiegato (...) mia madre era casalinga, e mio fratello Marcello, più grande di me di sette anni, si era diplomato geometra e suonava la chitarra. Mio padre suonava un po' la fisarmonica, quindi un minimo di musica in casa c'era. Io poi, che avevo avuto un'infanzia piena di malattie e di rotture di coglioni tra cui un infortunio a una mano, usai la chitarra anche come sostegno e recupero del mio inserimento. (...) Io direi che tutta la mia carriera nasce da questa malattia, la quale ha fatto sì che abbia voluto reagire ad essa con la chitarra, portandomi così a fare questo lungo percorso nella musica. Anni Sessanta Inizia a comporre, quando è ancora studente. La mia prima veglia come chitarrista la faccio a quattordici anni, guadagno 1.000 lire, la mia paga di chitarrista per quel Capodanno, e in quel momento non ho nessuna intenzione di cantare, non mi sfiora proprio il dubbio – non è che suono la chitarra perché voglio cantare, no; faccio solo il chitarrista. (...) Fino al momento dell'incontro con Celentano, perché io ero proprio il chitarrista di Celentano. (...) Jannacci c'era anche lui, anche lui era studente come me, eravamo tutto un gruppo intorno a questo Celentano, questo strano personaggio che ci chiamava a suonare e ci dava anche i primi soldi che guadagnavamo; lui sceglieva noi anche perché eravamo dei musicisti che conoscevano il jazz, dato che i musicisti delle balere in quel periodo suonavano veramente solo tanghi e valzer; noi eravamo invece un po' più disponibili, vista la nostra formazione jazzistica, a fare delle cose un po' più rockeggianti. L'esordio discografico avviene con Ciao ti dirò, scritta con Luigi Tenco e incisa dalla casa Ricordi. Legata a questa canzone è la prima apparizione televisiva di Gaber nel programma "Il Musichiere" di Mario Riva, nel 1959. “Ciao ti dirò" in realtà l'abbiamo scritta io e Tenco. Suonavamo in un locale con una sorta di trio alla Nat King Cole, basso, chitarra e pianoforte, e cantavamo un po' tutti, avevamo fatto una stagione estiva insieme, io infatti in quell'anno mi ero appena diplomato. Poi un signore della Ricordi, sul cui biglietto da visita c'era scritto Giulio Rapetti, mi chiamò perché voleva farmi incidere dei dischi, così andai a fare il provino e mi chiesero di cantare qualcosa. (...) Io fui praticamente il primo a fare un rock italiano, ad imitazione di un altro cantante, che faceva un altro genere di musica ma che era sempre in qualche modo rockeggiante, e che era Tony Dallara. Nel 1959, in un noto locale milanese, il Santa Tecla, quasi una "cave" parigina, conosce Sandro Luporini, che sarà il coautore di tutta la sua produzione discografica e teatrale più significativa. Conosco Sandro da quando avevo 19 anni. Per me, è stato un maestro di estetica. (...) Eravamo ragazzi, vicini di casa a Milano. Io frequentavo un gruppo di pittori e ci incontravamo per scambiarci idee. Nel gruppo c'era Sandro, più grande di me di sette, otto anni. Abbiamo cominciato a scrivere per gioco, io facevo il cantante televisivo e le canzoni che scrivevamo non erano adatte, ma al primo spettacolo teatrale lui già c'era (...) anche se allora non firmava, perché non era iscritto alla Siae. Per la verità qualche canzone a quattro mani l'avevamo già scritta. Per esempio "Barbera e champagne". Negli anni '60 la stesura di alcuni testi di maggior successo di Gaber è a cura dello scrittore Umberto Simonetta. Si tratta di ballate ispirate al repertorio popolare milanese: Porta Romana, Trani a gogò, La ballata del Cerutti, Le nostre serate, che piacque molto a Eugenio Montale, Il Riccardo, Una fetta di limone, cantata insieme a Jannacci in versione duo "I corsari". Quando Gaber inizia a cantare, Milano è in una fase di originale crescita culturale: ci sono Dario Fo, Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Franco Parenti. Nasce proprio in questi anni la definizione di 'cantautore', nell'ottica della rivalutazione del testo della canzone, in antagonismo con la musica leggera della tradizione italiana melodica e sull'onda delle risonanze della "chanson" francese. Tutti quanti affrontammo il discorso cantautorale di quegli anni come una soluzione a metà tra le influenze americane subite fino a poco prima e questa canzone francese che via via ci aveva affascinati. Dunque nel '60 cominciano ad esserci "La gatta" di Paoli, la mia "Non arrossire", "Quando" di Tenco, poi Bindi con "Il nostro concerto", "Arrivederci", canzoni che in qualche modo si staccano da una colonizzazione totale da parte dell'America, e cercano di riacquistare un'autonomia e una sincerità, non dico culturale, ma certamente di intenti. Tutti quanti abbiamo fatto un piccolo passo in avanti ed abbiamo cominciato a prendere le cose sul serio, perché prima veramente si scherzava. Nessuno pensava fino a quel momento che quel tipo di divertimento potesse diventare una professione. Dopo gli inizi brucianti, Gaber amplia i suoi interessi artistici; diventa molto popolare: partecipa a quattro edizioni di Sanremo; nell'estate 1966 ottiene il secondo posto al Festival di Napoli A pizza. Il pubblico televisivo lo scopre e lo apprezza in rubriche musicali e spettacoli di cui è ideatore-cantante-conduttore, come Canzoniere minimo (1963), una delle prime trasmissioni dedicate alla musica popolare e d'autore, e E noi qui (1970), varietà del sabato sera sulla prima rete, dove propone alcuni pezzi scritti con Sandro Luporini che troveranno poi un ambito più congeniale nel teatro, con Il signor G. Nella vita personale di questi anni: nel 1965 si sposa con Ombretta Colli; nel 1966 nasce la figlia, Dalia. C'erano stati i beatnik, il rock'n'roll, i primi dischi che i ragazzi comperavano da soli senza i genitori. E poi sono gli anni in cui mi innamoro. Ombretta studiava cinese e russo alla Statale, io andavo a prenderla con l'auto da cantante, con la Jaguar, e loro per questo non dicevano niente. Di quegli anni mi avevano colpito soprattutto due parole che sentivo ripetere molto spesso: rifiuto ed essenzialità. Anni settanta Nel biennio 1969-'70 è protagonista di una tournée teatrale con Mina. È l'inizio della svolta artistica: l'impegno teatrale, la rinuncia cosciente oltre che alla televisione anche all'attività discografica, e la scelta del teatro, appunto, come luogo di espressione diretta senza condizionamenti e filtri tra l'artista e il suo pubblico. Il percorso artistico di Gaber diventa lineare e conseguente: fare della canzone non più un fine, ma un mezzo da adattare alla forma di comunicazione teatrale. Dopo un tour di due anni con Mina ho scoperto il teatro, la gente che ti viene a sentire e guardare. Ho capito che volevo fare quello. Mi piaceva Dario Fo, ma volevo essere diverso da lui. E poi il mio maestro, sa anch'io ho dei maestri..., è stato Jacques Brel. Però devo dire che non c'erano solo queste cose, si sentiva l'aria dell'impegno. L'originale percorso artistico della "canzone a teatro" prende il via dallo spettacolo Il signor G, che debutta il 22 ottobre 1970. Il successo del "Signor G" è qualitativo ma non quantitativo. Evidentemente il pubblico del Gaber televisivo non è lo stesso che frequenta i teatri, ma alla fine delle rappresentazioni gli applausi sono calorosi e il pubblico presente si passa la voce. Con Dialogo tra un impegnato e un non so (1972-'73) inizia la lunga stagione del "tutto esaurito", che durerà, senza eccezioni, fino all'ultimo spettacolo. (Con Il signor G., ebbe 18.000 spettatori; con "Dialogo tra un impegnato e un non so" toccò le 166 recite con 130.000 presenze; "Far finta di essere sani" in 182 recite raggiunse i 186.000 spettatori). Era tale la gioia, l'entusiasmo che mi procuravano questi nuovi incontri in teatro, economicamente tutt'altro che soddisfacenti! Perché questo va detto: quando smisi con la TV i teatri me li trovai vuoti, non pieni! Azzerata la mia immagine televisiva, mi ritrovavo senza alcun aiuto da parte della stampa, affidato al solo passaparola del pubblico, che allora era allucinante. Rifiutare la TV era un privilegio che potevo permettermi, avendo da parte qualche soldino, ma ricordo d'essere andato un anno in certi teatri e di aver fatto 100 persone, salvo poi tornarvi l'anno dopo e farne 2.000! C'era veramente un bisogno di qualcosa che non fosse la televisione, grande dominatrice invece degli anni Sessanta, e la mia è stata una conquista graduale, persona per persona, di un nuovo pubblico! Il signor G" era uno spettacolo a tema, con canzoni che sviluppavano il tema, con monologhi, racconti, situazioni. Erano canovacci ricchissimi di spunti e provocazioni sulla situazione reale e di collegamenti con le questioni "eterne" del vivere. La gente si è vista arrivare addosso una forma ed un materiale di spettacolo "strano" a cui ha reagito come pubblico teatrale. D'ora in avanti, ogni spettacolo di Gaber rappresenta una tappa del suo processo evolutivo individuale di presa di coscienza e di approfondimento della realtà, personale e sociale. Piano piano, impari a usare un linguaggio nuovo, diverso, a misura di teatro. Una delle regole fondamentali, per esempio, è la necessità di usare diversi "archi" espressivi anche all'interno di una canzone breve: per questo il "crescendo" è una pratica ricorrente nel mio teatro, mentre è rarissimo che io mantenga per tre o quattro minuti consecutivi un clima teso, fermo, immobile. Ecco, direi che il teatro ti costringe a "muoverti", e a permeare di questo movimento anche la musica. E ti accorgi che il nuovo linguaggio, mano a mano che te ne impossessi, ti offre, come interprete, infinite possibilità in più, proprio perché mette alla prova la tua capacità di adattarti a una gamma di toni molto più ampia, a sbalzi improvvisi, a rovesciamenti di fronte. Dal signor G in poi (tranne alcune rarissime eccezioni) tutti i dischi incisi da Gaber hanno soprattutto un valore di documentazione del lavoro teatrale, a conferma del fatto che il suo interesse è soprattutto volto alla verifica diretta con il pubblico. E il pubblico ricambia con un numero di presenze agli spettacoli senza precedenti nella storia del teatro italiano, pur non essendo sollecitato dalla pubblicità attraverso i canali consueti di promozione, di cui Gaber non fa uso. Un dato solo indicativo: dal 1972 al 1982, accumula la vertiginosa cifra di due milioni di biglietti venduti. Ma oltre la bravura dell'interprete e l'importanza dei testi, nel teatro di Gaber è il "fatto" che risulta interessante: accade che l'intensità del coinvolgimento è tale che il flusso di energia si fa "materia": cambia la qualità del clima, sul palco e in sala, durante e dopo lo spettacolo... per questo il rapporto tra il pubblico di Gaber e ciò che avviene sul palcoscenico va molto oltre la "piacevole" serata a teatro. In quello che dico, credo di attingere molto, anche dal punto di vista della recitazione, dai miei modi della vita. Quando recito non mi dico: in questo personaggio devo entrare gobbo e faccio Riccardo III: no, entro normale. È come se il mio teatro non avesse soltanto la barriera di quello che accade sul palcoscenico e della gente che lo vede, ma tenesse conto che c'è un uomo che esce dal camerino, che va sul palcoscenico e dice: siamo qua, parliamone e vediamo un po' cosa succede. Esistono due modi di far spettacolo: o vai sul palcoscenico per farti vedere (e quindi affermi te stesso), o ci vai perché cerchi una comunicazione col pubblico. Non dico che con noi in teatro si formi un'appartenenza, ma certo nasce qualcosa che ne fa parte. Sa perché alla fine io grido, faccio queste smorfie, ho queste reazioni? Perché mi vergogno, e mi vergogno perché sono stupito di questo riconoscimento che avviene tutte le sere su cose che io e Luporini abbiamo in qualche modo scoperto per noi stessi. È questo che rende il mio mestiere uno dei più belli che si possano fare. Cosa volere di più, per 120 sere all'anno? Con "Il Signor G" mi sono acquistato il grande privilegio di dire, di cantare in teatro quello che sono e quello che penso, al di là dei condizionamenti del mestiere dei quali prima risentivo. Poi, "Libertà obbligatoria", ti ripropone la tua responsabilità individuale, si scaglia contro le finte aggregazioni – questo fasullo desiderio di una falsa coscienza – e ti ributta in faccia una tua responsabilità individuale, perché oggi che la produzione ti divora e ti entra nei polmoni, è diventata una battaglia da fare nelle piccole cose, nelle scelte qualsiasi. Si delinea una strada, un genere di rappresentazione composito, l'inizio di un progetto e di un lungo discorso: il "Teatro Canzone" è il genere originale più rappresentativo nel percorso artistico di Giorgio Gaber: la canzone – così intesa – è in realtà l'unione tra un testo che ha in sé un suo racconto preciso e una musica che ne amplifica il fatto emotivo. Il teatro è un ulteriore mezzo per aumentare la resa emotiva del concetto: il testo, la musica, le luci, il palcoscenico, tutto è per Gaber in funzione di un allargamento emotivo. Quando canto c'è un po' più di energia e quindi è più una festa; quando recito c'è un po' più di concentrazione e quindi più profondità. (...) Quando non lavoro mi annoio molto. Cerco di distrarmi continuando a pensare al lavoro: lo stacco totale in un certo senso mi deprime. Anni ottanta Nel novembre del 1980 Gaber produce con una piccola etichetta indipendente Io se fossi Dio, un 'singolo' di 14 minuti. La canzone, scritta in seguito all'uccisione di Aldo Moro e pubblicata più tardi per ragioni di censura, è concepita come un violento esplicito pamphlet contro il grigiore della scena italiana di quegli anni e va considerata come il momento culminante di un'intera fase del lavoro di Gaber e Luporini. La canzone viene inserita in Anni affollati nella stagione teatrale successiva (1981-'82), spettacolo che chiude una prima parabola di intervento sul sociale del "Teatro Canzone". Certe volte mi chiedo perché non me ne resto più tranquillo, perché non mi metto a scrivere cosette rasserenanti, magari gioiose. Poi mi guardo intorno, vedo che ci stiamo tutti abituando al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione, e mi accorgo che il mio compito, il mio lavoro, è quello di dire le cose che gli altri non dicono. Le cose che voi giornalisti non avete più il coraggio di scrivere. Vorrei sapere, per esempio, perché fino a qualche anno fa si poteva parlare liberamente di Moro, dicendo che anche lui è responsabile del disastro in cui ci troviamo, mentre oggi non si può più. La retorica ufficiale, la pietà istituzionale, ci impediscono di avere reazioni spontanee, umane. Anche di provare pena, dolore. (...). Cercheremo di spiegare che questa voglia di Dio è soprattutto una voglia di avere una spinta, un desiderio morale. Voglia di credere, voglia di esistere. Non ci interessa collocarci al di là del bene e del male, come quei nostri amici che ascoltando "Io se fossi Dio" ci chiedevano: ma chi ve lo fa fare? Perché prendersela tanto? Loro pensano che non sia il caso di indignarsi. Che va bene tutto. E invece no: va bene un cazzo. Se non si lotta per cercare una ragione, per inseguire la chiarezza, tanto vale crepare. Con gli spettacoli degli ultimi anni '80, Gaber e Luporini cambiano registro, spostano il piano dell'analisi dei malesseri collettivi a quello più intimo dei sentimenti. È un "Teatro d'evocazione" dove l'attore, solo in scena, fa rivivere attraverso il monologo personaggi e situazioni che sono nella sua memoria. Attraverso il personaggio solista che riflette e comunica i propri pensieri, il dialogo è sintetizzato all'essenziale, non è il monologo del teatro classico: è l'io interiore che parla. Parlami d'amore Mariù (1986-'88), per esempio, è un racconto a struttura aperta con brevi atti unici in forma monologica e canzoni che costituiscono un'ampia indagine sulla tematica dello spettacolo. "Parlami d'amore Mariù" non è una finestra sul privato; è una perlustrazione nell'intimo che può svelare come certi sentimenti, anche l'amore, siano solo delle illusioni, delle forme di isteria, curiosi coaguli che vivono dentro di noi ma separati dal nostro cuore, fantasmi che coprono altri fantasmi... Per esempio, si può capire perché, quando viene a mancare una persona cara, subito dopo si potrebbe indifferentemente ammazzarsi o andare al cinema. Anni novanta Nel 1991, lo spettacolo antologico Il Teatro Canzone, presentato al Festival estivo "La Versiliana", ripropone parte del repertorio precedente, col desiderio esplicito di verificare a distanza di anni l'attualità dei temi via via svolti. Il recital offre una magnifica attualità, sia per il linguaggio sia per i contenuti; non solo mantiene un valore inalterato nel tempo ma anticipa concetti e idee destinate ad entrare nel patrimonio collettivo. C'è anche un nuovo brano, Qualcuno era comunista, denso di tensione morale che, da solo, si fa manifesto del sentire taciuto da molti. La sensazione che ne scaturisce è che ora l'individuo subisca, senza avere più una possibilità di riscatto. Non è una canzone politica ma una pagina esistenziale, il racconto di un malessere. Accadde che una parte della mia generazione andò, per anni, verso un progetto utopico che chiamavamo comunismo. Forse impropriamente, visto che nessuno di noi mirava alla dittatura del proletariato, né alla Comune dei cinesi, né al riscatto dei contadini russi. Non era questione di schieramenti, ma di stati d'animo: quella cosa ci aveva preso emotivamente, ed accomunava persone divise da differenze enormi, perfino hippy e anarchici, che col comunismo non c'entravano per niente. Più che una dottrina, insomma, ci muoveva uno slancio, una grande speranza. E quando la speranza sparisce, non è che stai lì a pensare che c'è ancora Cuba, o che è nata Rifondazione: è finita l'utopia, se ne va l'illusione di poter agire, noi, per le generazioni che verranno. E allora rimani vuoto e solo, e chi se ne frega di Breznev o del delirio delle Bierre: ci fai su una canzone, non solo per raccontare la tua solitudine, ma per spiegare a te stesso che uno slancio non va mai rinnegato: sarebbe come buttar via, con l'acqua sporca, anche il bambino. I testi degli spettacoli, dal 1996 al 2000, vertono via via sempre più sull'indagine e l'approfondimento del discorso sull'individuo: lo smascheramento delle contraddizioni che vive con se stesso e in rapporto alla società che lo induce a gesti omologati, alla logica della produzione e del mercato. Nel continuo tentativo di ritrovare un'autenticità all'interno delle sue istanze, Gaber "somatizza" le idee e allontana le ideologie, tendendo ad una visione filosofica provocatoriamente "antropocentrica" del mondo. Un'idiozia conquistata a fatica, lo spettacolo ripreso in questi anni in diverse stagioni, ha un riferimento preciso e molti legami con Libertà obbligatoria, con esso sembra terminare il percorso iniziato nel 1976, portando alle estreme conseguenze il discorso iniziato più di vent'anni prima. È un momento in cui ognuno si fa assolutamente i fatti propri, senza interesse per gli altri, in cui sembra proprio che percepire l'esistenza reale di un'altra persona sia impossibile, che non esista appartenenza a nulla. Ricordo anni in cui il senso collettivo era presente come istinto nelle persone, poi via via è venuto a mancare. Credo che alla base del lavoro di Luporini e mio – e dunque anche del Signor G – ci sia un grande desiderio ci smascheramento. Del resto, da sempre, la nostra ricerca consiste nella smontare innanzitutto le nostre false convinzioni che riguardano sia la sfera personale che quella sociale, con lo scopo di diffidare di alcuni finti comportamenti. Anche nella critica che noi da sempre abbiamo rivolto alla sinistra c'è il desiderio di essere contro slogan di tipo propagandistico, a favore della chiarezza di una ricerca autentica. Abbiamo sempre avuto fiducia che se cambia la testa delle persone possono cambiare anche le cose. Ho avuto, purtroppo come tanti, anche delusioni dalla piazza. Il fenomeno di massa è un fenomeno che non amo, e che non ho amato neanche nei momenti in cui si partecipava al movimento, che era una bella parola. Sento molto importante l'esistenza di una quantità di individui che rappresentano ognuno un desiderio, mentre la massa significa spesso l'annullamento del pensiero da parte del gruppo. La massificazione, sia essa di destra o di sinistra, è sempre negativa. Ognuno di noi ha ogni giorno molto spazio nei rapporti quotidiani per mettersi alla prova e per trovare il "qui e ora", ci sono tantissime occasioni per essere persone piuttosto che maschere. E lo smascheramento di quello che siamo mi sembra una cosa realizzabile minuto per minuto nella nostra vita. Anni duemila La mia generazione ha perso, nel 2001, segna l'eccezionale ritorno al disco di un artista che negli ultimi trent'anni si è dedicato esclusivamente all'attività teatrale (disco che arriva in testa alle classifiche discografiche). Gaber si produce in una anomala tournée: tiene conferenze nelle università e nei teatri, canta e parla del suo nuovo lavoro e, retrospettivamente, del suo percorso artistico. Come un richiamo alle origini, partecipa allo show televisivo di Adriano Celentano (insieme a Dario Fo, Enzo Jannacci e Antonio Albanese), che resta la sua ultima apparizione televisiva. Forse per questioni anagrafiche, mi trovo in un momento di riflessione, direi quasi di bilancio. Non a caso il mio ultimo album si intitola “La mia generazione ha perso”. Direi che oggi prevale un senso di amarezza per le sconfitte della mia generazione. Del resto con Luporini abbiamo sempre cercato di parlare e di riflettere attorno ai nostri slanci e alle nostre utopie ma anche intorno a ciò che ci faceva male, che creava disagio a noi e forse, anzi sicuramente, non soltanto a noi. Cercando di interpretarlo e di capirlo, quel male. Oggi più che a una evoluzione positiva dell'individuo, mi sembra di aver assistito a un suo mutamento direi quasi antropologico. E vedo un uomo sempre più sopraffatto e totalmente in balia della violenza del mercato. E mi chiedo a cosa siano serviti i nostri slanci, le nostre utopie, i nostri ideali, le nostre ribellioni, le nostre trasgressioni. Purtroppo devo rispondere constatando che non siamo stati migliori dei nostri padri e non credo possiamo costituire un esempio attendibile e autorevole per i nostri figli. Siamo scesi in piazza per contestare, anche con violenza, le dittature politiche del mondo, ma abbiamo perso di fronte all'unica dittatura che ha realmente trionfato: quella del mercato. Almeno i nostri padri la Resistenza l'avevano fatta davvero. Noi non siamo stati capaci di resistere alla finta seduzione del consumo, anzi, ne siamo stati complici per quanto inconsapevoli. Credo sia importante riconoscere i propri errori e le proprie sconfitte, perché comunque la consapevolezza e l'onestà intellettuale rimangono valori fondamentali. E in ogni caso ammettere la propria sconfitta è indispensabile per poter ripartire con maggior chiarezza e con nuovi slanci vitali. Sandro e io abbiamo una fiducia illimitata nelle potenziali risorse dell'individuo e questa potrebbe essere la nostra fede. Laica, naturalmente. Il primo gennaio 2003 Giorgio Gaber muore nella sua casa di Montemagno in Versilia, lasciando, ben oltre l'immediato e condiviso shock emotivo, un enorme senso di vuoto. Gaber non stava bene da tempo: la stagione teatrale "Gaber 1999-2000" era stata sospesa più volte. Ci sono argomenti tabù che si cerca di rimuovere. Penso che se le strade si riempissero di gente malata, forse cambieremmo la nostra testa. Invece nella nostra società, per la vergogna della malattia, vediamo solo gente sana, e questo cerco di dirlo anche nello spettacolo: quando incontriamo qualcuno che sta male abbiamo un turbamento fuori misura, come se non sapessimo che quello è il nostro specchio. Mi sembra che il tabù della nostra epoca sia la mancanza di consapevolezza delle cose importanti e tragiche, essenziali della vita. La spinta dovrebbe essere a parlare di queste cose non in modo macabro o funebre ma come un fatto vitale, perché morte significa vita. Liberamente tratto da: www.giorgiogaber.org George Brassens, le chansonnier Scrittore, poeta, ma soprattutto "chansonnier" autentico e originale, dissacrante e ironico, nasce a Sète (Francia) il 22 ottobre 1921. La passione per la musica lo accompagna sin da bambino. Ascolta le canzoni riprodotte dal grammofono che i suoi genitori hanno ricevuto in dono per il matrimonio, ma anche quelle trasmesse alla radio, spaziando da Charles Trenet (che considererà sempre come il suo unico, vero maestro) a Ray Ventura, da Tino Rossi a Johnny Hess a altri ancora. I suoi stessi familiari amano la musica: il padre Jean Louis, che di professione è muratore ma si definisce "libero pensatore", e la madre Elvira Dragosa (originaria di Marsico Nuovo, paesino della Basilicata in provincia di Potenza), fervente cattolica, che canticchia le melodie della sua terra di origine, e impara velocemente quelle che le capita di ascoltare. Il futuro chansonnier si dimostra ben presto insofferente nei confronti del sistema scolastico: è proprio tra i banchi di scuola, però, che fa un incontro fondamentale per la sua vita di artista. Alphonse Bonnafè, insegnante di francese, gli trasmette la passione per la poesia incoraggiandolo a scrivere. Dopo essere stato condannato a quindici giorni di prigione con la condizionale per dei furti avvenuti al College Paul Valery di Sète, Georges Brassens decide di interrompere la sua carriera scolastica e si trasferisce a Parigi, dove viene ospitato da una zia italiana, Antonietta. Qui, diciottenne, comincia a fare lavoretti di vario genere (tra cui lo spazzacamino) fino a quando è assunto come operaio alla Renault. Si dedica con sempre maggiore impegno alle sue vere passioni: la poesia e la musica, frequentando le "cantine" parigine, dove respira le atmosfere esistenzialiste dell'epoca, e fa ascoltare i suoi primi pezzi. Intanto impara a suonare il pianoforte. Nel 1942 pubblica due raccolte di poesie: Des coups dépées dans l'eau (Buchi nell'acqua) e A la venvole (Alla leggera). Gli argomenti di questi testi sono gli stessi che affronta nelle canzoni: la giustizia, la religione, la morale, interpretati in modo dissacrante e provocatorio. Nel 1943 è costretto dal servizio di Lavoro Obbligatorio (S.T.O., istituito nella Francia occupata dai nazisti in sostituzione del servizio militare) ad andare in Germania. Qui, per un anno, lavora a Basdorf, vicino a Berlino, in un campo di lavoro. Durante questa esperienza conosce André Larue, suo futuro biografo, e Pierre Onteniente, che diventerà suo segretario. Scrive canzoni e inizia il suo primo romanzo, ma soprattutto sogna la libertà: così, quando riesce ad ottenere un permesso, torna in Francia e non rientra nel campo. Ricercato dalle autorità, è ospitato da Jeanne Le Bonniec, donna di grande generosità, a cui Brassens dedicherà Jeanne, e Chanson pour l'Auvergnat (Canzone per l'Alverniate). Nel 1945 acquista la sua prima chitarra; l'anno successivo aderisce alla Federazione Anarchica e comincia a collaborare, sotto vari pseudonimi, al giornale Le Libertaire. Nel 1947 conosce Joha Heyman (soprannominata "Püppchen"), che rimarrà sua compagna per tutta la vita, e alla quale Brassens dedicherà la celebre La non-demande en mariage (La non richiesta di matrimonio). Scrive un romanzo grottesco (La tour des miracles, La torre dei miracoli) e soprattutto si dedica alle canzoni, incoraggiato da Jacques Grello. L’intuizione che imprimerà una svolta alla sua produzione è artistica viene raggiunta proprio quando capisce che poesia e musica possono viaggiare sullo stesso binario: mi sono detto: non vale la pena insistere, non sarai mai un grande poeta, non sarai un Rimbaud, un Mallarmé, un Villon (…) Perché non provare ad abbinare le poesie alla mia musica? Il 6 marzo 1952 Patachou, famosa cantante, assiste, in un locale parigino, a un'esibizione di Brassens. Decide di inserire alcune sue canzoni nel suo repertorio e convince il titubante chansonnier ad aprire i suoi spettacoli. Grazie anche all'interessamento di Jacques Canetti, uno dei massimi impresari dell'epoca, il 9 marzo Brassens sale sul palco del "Trois Baudets". Il pubblico rimane senza parole dinanzi a questo artista che non fa nulla per apparire un divo e sembra quasi imbarazzato, goffo e impacciato, così lontano e diverso da tutto ciò che la canzone del periodo propone. Scandalizzano i suoi stessi testi, che narrano storie di ladruncoli, piccoli furfanti e prostitute, senza mai essere retorici o ripetitivi (come invece gran parte della cosiddetta "canzone realista", quella cioè di carattere sociale, ambientata anch'essa nei vicoli disagiati della capitale francese, di moda in quel periodo). Alcuni di essi sono traduzioni da grandi poeti come Villon. Molti spettatori si alzano ed escono; altri, sorpresi dinanzi a questa novità assoluta, restano ad ascoltarlo. Ha inizio la leggenda di Brassens, il successo che non lo abbandonerà più da quel momento. Grazie a lui, il teatro "Bobino" (che dal 1953 diventa uno dei suoi palcoscenici preferiti) si trasforma in un autentico tempio della canzone. Nel 1954 l'Accademia "Charles Cros" assegna a Brassens il "Gran Premio del Disco" per il suo primo LP: le sue canzoni verranno raccolte nel tempo in 12 dischi. Tre anni più tardi l'artista fa la sua prima e unica apparizione cinematografica: interpreta se stesso nel film di René Clair Porte de Lilas. Nel 1967 gli viene assegnato il Grande Premio della Poesia della prestigiosissima “Académie Française”. Gli si propone anche di entrare a far parte permanentemente di questo simposio detto in Francia “degli Immortali”, ma lui rifiuta. Nel 1976-1977 si esibisce per cinque mesi ininterrottamente. E' la sua ultima serie di concerti: colpito da tumore all'intestino, si spegne il 29 ottobre 1981 a Saint Gély du Fesc, lasciando un vuoto incolmabile nella cultura, ben interpretato da queste parole di Yves Montand: "Georges Brassens ci ha fatto uno scherzo. E' partito per un viaggio. Alcuni dicono che è morto. Morto? Ma cosa significa morto? Come se Brassens, Prevert, Brel potessero morire!". In Francia Brassens è stato sempre più popolare di quanto i Beatles non siano stati in Gran Bretagna, e sono ormai migliaia le scuole, le istituzioni culturali, le strade, le piazze, i parchi a lui intitolati, ciò che non è avvenuto per nessun altro dei pur importanti esponenti della canzone francese. A più di trent’anni dalla sua morte, ogni francese conosce almeno cinque o dieci o più delle sue canzoni. Lo scrittore sudamericano G. Garcia Marquez lo ha definito addirittura il più grande poeta della letteratura francese del ‘900. In Italia, stimatissimo dagli intellettuali e studiato nelle università, è poco conosciuto dal grosso pubblico, che, non padroneggiando bene il francese, spesso non riesce a comprendere le sue inesauribili invenzioni linguistiche, le immagini poetiche, la vivacità ironica, tutti mezzi di cui il poeta si serve nelle sue canzoni per trattare i grandi temi della condizione umana. Grande l'eredità lasciata dall'artista di Sète. Numerosi gli artisti che si sono cimentati nell' interpretare le canzoni di Brassens; tra i tanti citiamo Graeme Allwright in inglese, Paco Ibanez in spagnolo; per quanto concerne gli artisti francesi, la lista di quanti hanno cantato o continuano a cantare Brassens è lunga, trai tanti ricordiamo: Maxime le Forestier, Renaud e Barbara. In Italia, tra i cantautori che maggiormente sono stati affascinati dalla musica di Brassens ricordiamo Fabrizio De André e Nanni Svampa. Il primo lo ha sempre ritenuto il suo maestro per eccellenza, e ha tradotto e cantato alcuni dei suoi brani più belli: Marcia nuziale, Il gorilla, Il testamento, Nell'acqua della chiara fontana, Le passanti, Morire per delle idee e Delitto di paese. Il secondo, con Mario Mascioli, ha curato la traduzione letterale in italiano delle sue canzoni, proponendole spesso, durante i suoi spettacoli e in alcuni dischi, in dialetto milanese. Giuseppe Setaro è da molti anni studioso e divulgatore dell’opera di Georges Brassens: partecipa a seminari, tiene conferenze o concerti-conferenze, in Italia e ancor più in Francia, presso centri studi o in occasioni di eventi culturali o festival musicali. Nell’intento di rendere accessibile a tutti in Italia l’opera dell’artista francese, si è impegnato a tradurlo nella nostra lingua. I testi da lui tradotti sono più di 80 e si trovano pubblicati in libretti che accompagnano i 5 CD dal titolo Omaggio a G. Brassens. Setaro è oggi uno dei pochi italiani che interpretano Brassens in Francia, dove viene regolarmente invitato a tenere concerti (collettivi o individuali) nelle manifestazioni o festival, insieme ad artisti di grande prestigio. Nel 2014, quando esce Segni (e) Particolari – Alberto Patrucco e Andrea Mirò cantano Georges Brassens, affascinante percorso le parole e la musica del cantautore francese (che diventerà anche spettacolo teatrale), Andrea Mirò dichiara: “È stato un artista che ha ispirato (molto…) la nostra canzone d’autore e che oggi risulta incredibilmente attuale. Alberto Patrucco ha deciso di tradurre a nuovo alcune delle canzoni più significative, per la gioia degli appassionati, con un occhio alle nuove generazioni, spesso private a loro insaputa di certi fondamenti indispensabili. Per sposare l’antica tradizione con l’attuale musicalità sono stata coinvolta ed ho accettato con entusiasmo la sfida. Abbiamo cercato di dare vita a un album attuale e allo stesso momento fuori dal tempo e dallo spazio” (www.albertopatrucco.it). Brassens e De André, un legame a distanza Fabrizio De André, parlando di quello che considerò essere il suo maestro, diceva: "Mi ha sconvolto la vita. Se ho iniziato a fare questo mestiere è solo merito suo". Una stima infinita, dunque, era quella che il cantautore genovese nutriva nei confronti del suo collega transalpino, che per lui rappresentava un vero e proprio mito. A tale proposito é utile citare un episodio: De André ebbe la possibilità di conoscerlo personalmente ma non volle incontrarlo. Girava voce, infatti che Brassens avesse un carattere scontroso e difficile e De André, dunque, non volle rischiare di rovinare quel mito, per lui così importante, con una conoscenza personale che forse lo avrebbe deluso. E' lo stesso De André a sottolineare la rilevanza ed il peso che l' influenza di Brassens ha giocato sulla sua produzione e le motivazioni del mancato incontro: "In Brassens si intrecciavano tre culture: quella mitteleuropea, col valzer, quella francese, con la giava, e quella napoletana, con la tarantella (sua madre Elvira Dragosa, tra l' altro, aveva origini napoletane). Ecco perché le mie prime canzoni vivevano su quei ritmi e su quella atmosfera. Poi mi intrigava il fatto che trattasse temi scabrosi, di grande rilevanza sociale, buttandoli via, cantandoli con una nonchalance da teatrante inglese, più che francese: perché il teatrante francese è enfatico, declamatorio, quello inglese dice cose terrificanti con una specie di indifferenza glaciale. Brassens, insomma, fu il mio grande modello anche se, avendone avuta l' occasione, ho sempre evitato di conoscerlo di persona: mi serviva troppo tenermelo come mito; se questo mito, conoscendolo, fosse crollato, mi sarebbe crollato il mondo. Sicché ho preferito immaginarmelo soltanto attraverso le sue canzoni." (C.G. Romana, Fabrizio De André - Amico Fragile, 2000) Anche chi ha conosciuto bene De André non si stupisce del mancato incontro Brassens-De André; come Fernanda Pivano, che afferma, parlando di un altro mancato incontro, quello con Bob Dylan, al quale il cantautore genovese si ispirò: "Una volta Dylan ha chiesto a Fabrizio di suonare con lui e Fabrizio non ha voluto farlo, forse per la stessa ragione per cui a suo tempo non ha voluto incontrare Brassens; sarebbe bello credere che si incontrino un giorno negli enormi spazi profumati dell'eternità e conoscano finalmente la realtà inafferrabile che hanno inseguito, forse sfiorandola appena, giusto abbastanza da illudersi di poter continuare a inseguirla. La loro è una realtà fatta di cose semplici, di tutti i giorni, di rispetto per l'amore e la morte, di orrore per l'ipocrisia e la violenza." (Fernanda Pivano, C.G. Romana, Michele Serra, De Andre' il corsaro interlinea edizioni - Novara) La stessa Pivano sottolinea l' importanza rivestita dall' influsso di Brassens sulla formazione e sulla produzione di De André "L' influenza francese è venuta poco dopo, quando il padre gli ha portato i dischi di Brassens. È diventato un suo maestro di vita già a quattordici anni, e ha confermato scelte già maturate. (...) Così aveva cominciato a cantare le canzoni di Brassens, ma anche quelle di Aznavour, di Gilbert Bécaud, di Moulodji: solo a diciotto anni ne ha cantato una sua.(...) Già da adolescente era turbato dai problemi sociali suggeriti da Brassens, ma anche da quelli morali che a volte contrastavano con quelli sociali (...). Brassens è stato per lui un esempio musicale che gli ha dato aperture e tecniche sull'uso della chitarra. Si è ritrovato a inventare tarantelle non prendendo spunto dalla musica napoletana ma dalle canzoni di Brassens, scoprendo solo molto più tardi, che lo stesso Brassens aveva avuto la nonna e la mamma napoletane: cioè, imitando Brassens imitava in realtà gli italiani." (Prefazione di Fernanda Pivano a: Cesare G. Romana, Fabrizio De André - Amico Fragile, 2000). Come accenna la Pivano in questa Prefazione al libro di Romana, fu grazie a suo padre, Giuseppe De André, che Fabrizio ebbe modo di conoscere per la prima volta le canzoni di Brassens. Il padre, dai suoi frequenti viaggi in Francia, era solito riportare un' abbondante quantità di libri e dischi e fu lui che fece conoscere Brassens a Fabrizio intorno al 1954, cioè a soli due anni dall' esordio discografico dello chansonnier francese. Dunque, con grande probabilità Fabrizio De André è stato davvero tra i primissimi in Italia ad aver conosciuto Georges Brassens e le sue canzoni. Bisogna dare il giusto peso a quella che era l'attitudine culturalmente aperta della famiglia De André, dove la scoperta del nuovo, proveniente non solo dalla Francia, e l' abitudine di commentarlo, come anche la grande passione per la musica in genere, furono fattori fondamentali nella formazione musicale e culturale di De André. Le sue traduzioni ed interpretazioni non sono passate attraverso un intermediario fisico o indiretto ma sono assolutamente il risultato del suo meticoloso lavoro; si consideri tra l’altro come il francese utilizzato da Brassens, ricco di riferimenti letterari e simbologie, presupponeva una profonda conoscenza della lingua e della letteratura francese. Lo stesso Brassens (che capiva l'italiano) riconobbe come le sue canzoni erano state tradotte magistralmente da De André. E se c'è una qualità che va riconosciuta alle traduzioni di De André è proprio il fatto di essere delle fedeli trasposizioni degli originali. Due testi… Giorgio Gaber, Chiedo scusa se parlo di Maria Chiedo scusa se parlo di Maria non del senso di un discorso, quello che mi viene non vorrei che si trattasse di una cosa mia e nemmeno di un amore, non conviene. Quando dico "parlare di Maria" voglio dire di una cosa che conosco bene certamente non è un tema appassionante in un mondo così pieno di tensione certamente siam vicini alla pazzia ma è più giusto che io parli di Maria la libertà Maria la rivoluzione Maria il Vietnam, la Cambogia Maria la realtà. Non è facile parlare di Maria ci son troppe cose che sembrano più importanti mi interesso di politica e sociologia per trovare gli strumenti e andare avanti mi interesso di qualsiasi ideologia ma mi è difficile parlare di Maria la libertà Maria la rivoluzione Maria il Vietnam, la Cambogia Maria la realtà. Se sapessi parlare di Maria se sapessi davvero capire la sua esistenza avrei capito esattamente la realtà la paura, la tensione, la violenza avrei capito il capitale, la borghesia ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria la libertà Maria la rivoluzione Maria il Vietnam, la Cambogia Maria la realtà. Maria la libertà Maria la rivoluzione Maria il Vietnam, la Cambogia Maria la realtà Maria la realtà Maria la realtà. George Brassens, Les passents Traduzione italiana e adattamento di Fabrizio De Andrè Je veux dédier ce poème A toutes les femmes qu'on aime Pendant quelques instants secrets Io dedico questa canzone, ad ogni donna pensata come amore in un attimo di libertà A celles qu'on connait à peine Qu'un destin différent entraîne Et qu'on ne retrouve jamais a quella conosciuta appena, non c'era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più A celle qu'on voit apparaître Une seconde à sa fenêtre Et qui, preste, s'évanouit a quella quasi da immaginare, tanto di fretta l'hai vista passare da un balcone a un segreto più in là Mais dont la svelte silhouette Est si gracieuse et fluette Qu'on en demeure épanoui ti piace ricordarne il sorriso, che non ti ha fatto e che tu le hai deciso in un vuoto di felicità A la compagne de voyage Dont les yeux, charmant paysage Font paraître court le chemin alla compagna di viaggio, i suoi occhi il più bel paesaggio fan sembrare più corto il cammino Qu'on est seul, peut-être, à comprendre e magari sei l'unico a capirla Et qu'on laisse pourtant descendre e la fai scendere senza seguirla Sans avoir effleuré sa main senza averle sfiorato la mano A celles qui sont déjà prises Et qui, vivant des heures grises Près d'un être trop différent a quelle che sono già prese e che vivendo delle ore deluse con un uomo ormai troppo cambiato Vous ont, inutile folie, Laissé voir la mélancolie D'un avenir désesperant ti hanno lasciato, inutile pazzia, vedere il fondo della malinconia di un avvenire disperato Chères images aperçues Espérances d'un jour déçues Vous serez dans l'oubli demain immagini care per qualche istante, sarete presto una folla distante scavalcate da un ricordo più vicino Pour peu que le bonheur survienne Il est rare qu'on se souvienne Des épisodes du chemin per poco che la felicità ritorni è molto raro che ci si ricordi degli episodi del cammino Mais si l'on a manqué sa vie on songe avec un peu d'envie A tous ces bonheurs entrevus ma se la vita smette di aiutarti è più difficile dimenticarsi di quelle felicità intraviste Aux baisers qu'on n'osa pas prendre Aux coeurs qui doivent vous attendre Aux yeux qu'on n'a jamais revus dei baci che non si è osato dare delle occasioni lasciate ad aspettare dei baci, mai più rivisti Alors, aux soirs de lassitude Tout en peuplant sa solitude Des fantômes du souvenir allora nei momenti di solitudine, quando il rimpianto diventa abitudine una maniera di viversi insieme On pleure les lèvres absentes De toutes ces belles passantes Que l'on n'a pas su retenir. si rimpiangono le labbra assenti di tutte le belle passanti che non siamo riusciti a trattenere.