Articolo tratto da "Corriere della sera" del 28 febbraio 2016

annuncio pubblicitario
34 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
di CARLOTTA DE LEO
Dal «Padrino» a Pif passando per Sordi
io vesto le attrici (anche in tacco 12 su Vulcano)
«F
acile vestire un’attrice? Non sempre
vero, ognuno ha le sue imperfezioni
e le sue insicurezze. Per questo
bisogna essere anche un po’ psicologi».
Cristiana Ricceri ha 45 anni e già una lunga
carriera come costumista cinematografica e
teatrale. Cresciuta alla scuola (da Oscar) di
Milena Canonero, Ricceri ha iniziato con set
internazionali — il secondo e il terzo Padrino
— per poi lavorare con Sordi, Benigni e Troisi.
Ha appena finito di girare il secondo film di Pif
Maschere
.
Teatro, musica, danza, cinema, televisione
che l’ha confermata dopo La mafia uccide solo
d’estate: lei ha inventato il vestito da Andreotti
che il bambino indossa a una festa in
maschera. Il suo è un lavoro di ricerca («per i
film in costume studiamo moda, arte e lo stile
di vita dell’epoca») che si svolge a stretto
contatto col regista. «Cominciamo con la
sceneggiatura, analizzando i personaggi e
facendo lo “spoglio”, ovvero immaginando
come saranno vestiti dal mattino alla sera.
Poi, però, dobbiamo tornare con i piedi per
I(n)stantanee
di Nathascia Severgnini
{
CRISTIANA RICCERI, 45 ANNI, COSTUMISTA
FUORI
SCENA
DOMENICA 28 FEBBRAIO 2016
terra. Noi abbiamo le migliori sartorie al
mondo ma non sempre un budget adeguato».
E così, buona parte della creatività finisce in
compromessi: «Per i film in costume, che
preferisco, sono più rigida. Su quelli moderni
vado a caccia nei centri commerciali e nei
mercatini delle pulci». E poi arrivano gli attori:
Ricceri sa nascondere qualche chilo di troppo
e aumentare un seno poco generoso («la cosa
più ardua è rendere sexy una magra magra»)
ma il lavoro psicologico è assai più delicato.
Aneddoti: l’attrice che non rinuncia al tacco 12
nemmeno per scalare Vulcano o l’altra che
deve indossare le galosce: «Ci ho messo
dentro calzini arrotolati perché camminava
solo sulle punte». Gli uomini? «Più che i chili di
troppo, a preoccuparli sono i capelli in meno».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Le peripezie della bambina di carta
In principio fu la fantasia. Poi vennero le storie,
insieme a tutti quelli che le amano. Come la
protagonista del libro Olga di carta, una bambina
che chiese aiuto a una maga per diventare
anche lei di carne e ossa; o Gloria Pozzoli
(@ghiofgreengables) che diffonde racconti
come questo attraverso la piattaforma di
booksharing «AccioBooks», di cui è fondatrice.
La parola d’ordine è condividere (Elisabetta
Gnone, Olga di carta, Salani, pp. 304, ! 14,90).
Archivi Un giovane cronista appassionato, un cantautore che ha appena pubblicato «Crêuza de mä»: nel 1985 s’incontrano
in una casa con affaccio sulla Sardegna, Brassens e il Resegone. «Da dove una volta scesero enormi insetti». O forse no
Ho visto gialle formiche giganti
di ENZO GENTILE
Il rapporto tra mondo reale e immaginazione,
tra possibile e impossibile, tra vita e arte
in un’intervista inedita a Fabrizio De André
U
n ritrovamento prezioso, tra le carte di un archivio
disordinato: mi conferma quanto occuparsi di musica per passione sia stato un privilegio e una fortuna. Un onore doppio pensando ai rapporti umani stabiliti
con personaggi ascoltati, letti, visti in concerto o sulle
copertine di un disco consumato a furia di ascolti. Avere
avuto questa possibilità con un artista come Fabrizio De
André, che negli anni mi regalò a più riprese dimostrazioni di stima e amicizia, resta uno dei cardini di una vocazione e di un amore per la musica poi diventati un lavoro. La
storia di questa intervista risulta, una trentina d’anni dopo, semplice quanto straordinaria. E testimonia di una
generosità, di un candore, di una trasparenza che non
sono forse le doti ascritte più di frequente a un poeta e
protagonista della nostra cultura. Siamo nei primi mesi
del 1985, la carriera di Faber è già stata abbondantemente
contrappuntata da capolavori (era uscito da poco il superbo Crêuza de mä). Fabrizio, per un naturale riserbo, per
una lucida ritrosia nei confronti del luna-park, rimase
1) Quali sono gli elementi che distinguono la canzone d’autore dalla musica leggera e quando si può
correttamente considerare la prima come un prodotto letterario?
«Penso che il confine sia difficilmente definibile da
un punto di vista strettamente oggettivo: è solo soggettivamente che può essere fatta una tale distinzione,
cioè solo dall’analisi della diversa qualità espressiva
che viene soggettivamente fornita dai diversi autori e
soggettivamente recepita dall’ascoltatore. È un po’ come dire che non esistono in astratto una canzone maggiore e una canzone minore, esistono semmai canzonettari maggiori o minori; quanto poi una canzone, se
pur scritta da un artista chiamiamolo “maggiore”, possa avere in sé elementi che possano farla assurgere a dignità letteraria, questo è un problema la cui soluzione
preferisco lasciare ai critici che dovrebbero in ogni caso tenere presente come le canzoni meglio riuscite siano solitamente quelle che riescono a creare un sostanziale equilibrio tra i suggerimenti mnemonici ed emozionali della cultura classica e quelli della cultura popolare; credo che proprio in questo compromesso
stiano in fondo il senso e la funzione della forma
espressiva chiamata “canzone”».
2) Quali sono gli autori del nostro secolo che più
hai amato e sentito negli ultimi anni di carriera e
perché? (Andando per gradi, nel cinema, nella letteratura, nella musica e ovunque tu abbia indagato
per lavoro e per passione).
«Per quanto riguarda il cinema direi Jodorowsky,
per la capacità qualitativa e quantitativa di sintetizzare
emozioni al di fuori delle lungaggini retoriche. Per la
letteratura faccio volentieri i nomi di Leonardo Sciascia
e dell’ultimo Umberto Eco che amo ritenere gli epigoni
sempre guardingo e cauto rispetto all’impasto di informazione-spettacolo. Credo che le sue interviste si contassero,
soprattutto all’epoca, in pochi esemplari. Tanto è vero che
a me, giovane alle prime armi, ne concesse una, a patto di
poter rispondere per iscritto, dopo avermi conosciuto e
capito le ragioni che mi animavano: una modalità assolutamente fuori dalle regole, andata in porto lungo una
decina di fogli riempiti fitti a matita, tra cancellature, ripensamenti e una pazienza, una disponibilità sorprendenti. Quel pomeriggio, nella casa milanese dei genitori di
Dori Ghezzi in cui abitavano, parlammo a lungo: io sparuto e stupefatto, davanti a uno dei miei beniamini, panorama il cavalcavia Serra, ma soprattutto l’amato Brassens,
l’anarchia, la Sardegna, i dubbi e le paure del palcoscenico. Poi gli lasciai dieci delle mille domande che avrei voluto fargli. Di quelle risposte uscì qualche virgolettato sparso nei mesi successivi; la genuinità e la veracità del testo
completo finirono in un cassetto. Da dove è saltato fuori.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
moderni di Stendhal; forse dico Sciascia ed Eco perché
essendo io un romantico passionale e confusionario
trovo un mio completamento nella loro creatività razionale e non moralistica.
«Per quanto concerne la musica poi, non ho da proporre autori ma da segnalare la musica etnica in genere
e in particolare quella sarda che si esprime attraverso
una vocalità anche policroma, ma autonoma, indipendente da qualsiasi strumento musicale che, in quanto
meccanismo, congegno, è destinato sempre a contaminare artificiosamente il suono naturale della voce».
3) Qual è, secondo te, l’età d’oro per un cantautore, quella di maggiore e migliore prolificità (il tuo
caso personale e uno sguardo su quello dei colleghi)? Credi che entrando nell’età adulta per un cantautore ci sia il rischio della perdita di credibilità da
parte del pubblico? O è il contrario?
«È quella in cui riesci più facilmente a operare delle
sintesi chiare e suggestive dall’affollamento che ti occupa il pensiero; l’età migliore è sicuramente quella
giovanile, diciamo, per quanto mi riguarda, tra i diciotto e i trent’anni, laddove il cervello opera in maniera naturale quella selezione di termini appropriati, che fanno della sintesi stessa una sorta di intuizione; questo
non vuol dire che questa capacità intuitiva non debba
avercela un individuo di ottant’anni o che il fatto di non
averla più non possa essere ovviato dall’acquisizione di
una capacità tecnica che riesce a rendere ugualmente
accettabile la tua forma espressiva, ma nel primo caso
siamo quasi al fenomeno da baraccone e nel secondo
alla impostazione professionale del “produrre poesia”,
cioè al mestiere.
«Detto questo lascio a te decidere se sia più credibile
un giovane “cantautore” di un anziano “cantastorie” e
non a caso ho fatto una distinzione di termini perché
laddove il giovane può incantarti per il suo slancio creativo e per la sua naturale disposizione alla sintesi, l’autore maturo ha per contro una maggiore ancorché necessaria tendenza all’analisi che lo porta, nella migliore
delle ipotesi, al racconto più che non alla poesia e quindi, forse, allo svolgimento di un’opera per così dire di
maggiore valore pedagogico».
4) Quanto deve essere vero, genuino e vissuto
quello che un cantautore scrive e racconta nelle sue
canzoni? Quanta parte di autobiografia e quanta di
immaginazione c’è nella tua opera?
«Tutto dipende da quale valore e soprattutto da quale differenza si vuol fare tra l’immaginario e il vissuto;
per quanto mi riguarda ciò che immagino lo vivo anche
perché molte volte mi sono trovato nella condizione di
immaginare sincronisticamente le esperienze vissute;
faccio un esempio di comodo: dalla mia finestra mi capita ogni tanto (direi ogni molto) di vedere il Resegone
e una volta ho visto scendere dal Resegone lunghe
schiere di formiconi gialli (forse un effetto dei riflessi
del sole): ora, il Resegone esiste, le formiche anche, il
problema è che probabilmente le formiche così grandi
come le ho viste io non esistono, non credo che possano scendere in frotte dal Resegone e soprattutto è difficile che siano gialle: di contro però non si può dimostrare il contrario e allora quando parliamo di immaginario, di fantastico, in effetti parliamo di possibile e il
possibile si basa sempre su un dato reale, su qualcosa
di vissuto, di visto: e chi mi dice, d’altra parte, che i formiconi da me visti o se preferisci immaginati non fossero altro che una mia svisatura, un’allegoria delle
truppe di Annibale, che scesero in Italia dal Monginevro o dal Moncenisio (altro dato reale)? In conclusione
i
Gli appuntamenti
Fabrizio De André e Fernanda
Pivano — Ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto
è la mostra organizzata
nel Salone Teresiano
della Biblioteca Universitaria
di Pavia dal 10 marzo
al 16 aprile, che prende
spunto dal progetto «...e con
la vita avrebbe ancora
giocato», viaggio
nell’universo poetico
di Fabrizio De André
e Edgar Lee Masters che si
svolgerà attraverso
numerosi appuntamenti
rivolti agli studenti e agli
appassionati. Nell’ambito
della quarta edizione di
«Pavia in poesia»,
l’esposizione proporrà
materiali originali, legati
all’album Non al denaro né
all’amore né al cielo,
comprese le traduzioni
curate da Fernanda Pivano
per la Spoon River Anthology,
con particolare riguardo ai
rapporti con Cesare Pavese,
il cui carteggio è stato
recuperato grazie all’archivio
storico della Fondazione
Corriere della Sera.
Molte le iniziative collaterali,
che sfoceranno in un grande
concerto al Teatro Fraschini il
15 aprile, con protagonisti
alcuni dei più stretti e fedeli
collaboratori di Faber.
Da segnalare anche la
pubblicazione di un volume
singolare, La mia prima volta
con Fabrizio De André (Ibis
edizioni), introduzione di
Dori Ghezzi, raccolta di circa
trecento contributi, con la
testimonianza di persone
che raccontano la loro
relazione con l’artista e le
loro storie di iniziazione e di
vita (sabato 9 aprile, ore 17,
Cortile del Broletto, Pavia)
CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 35
DOMENICA 28 FEBBRAIO 2016
Gli anni 80
Il viaggio
attraverso
i suoni
del mare
G
se il confine tra reale e fantastico è già in effetti piuttosto labile, tanto più lo è in poesia dove il fantastico può
diventare simbolo del reale».
5) In Italia non è quasi mai esistita una vera e propria scuola di corretta traduzione di canzoni dal
francese o dall’inglese in italiano? Che senso ha avuto per te che pure scrivevi molti brani ex novo, tradurre Brassens, Dylan, Cohen e musicare Edgar Lee
Master?
«È stato un divertente esercizio letterario, un interrogarmi sulle mie capacità di traduttore (in proposito
Benedetto Croce affermava che esistono due tipi di traduzione: quelle brutte e fedeli e quelle belle e infedeli)
e spero un utile lavoro di divulgazione di culture diverse dalla nostra».
In queste pagine: i testi autografi con le risposte scritte
da Fabrizio De André all’intervista di Enzo Gentile del
1985. In alto: un’immagine del cantautore. Tra gli
album di De André (Genova, 1940 — Milano, 1999):
Tutto Fabrizio De André (1966), in cui si trova La canzone
di Marinella e La guerra di Piero; Volume I (‘67) con Bocca
di rosa e Via del campo; Volume III (’68); Non al denaro,
non all’amore né al cielo (’71); Canzoni (’74); Volume 8
(’75) in cui si trova Amico fragile; Fabrizio De André (’81);
Crêuza de mä (’84); Le nuvole (’90) e Anime salve (’96)
6) Ci sono altri scrittori con cui ti piacerebbe ripetere l’operazione?
«Sì, con le parti in latino del Nome della rosa di Eco:
mi sia concessa la battuta».
7) Rispetto agli anni Sessanta, dai Settanta in poi
la forma musicale e il contributo sonoro nei tuoi dischi è aumentato sensibilmente. Che tipo di nuova
esigenza ti è nata per cercare i supporti del rock della PFM o dell’ispirazione etnica di Mauro Pagani?
«La prima operazione, cioè il vestito rock fatto indossare alle mie prime canzoni, mi è stato suggerito
soprattutto dalla curiosità di capire se il Pescatore o
Bocca di Rosa potevano portare anche la minigonna o
se invece avevano le gambe irrimediabilmente storte.
L’accostamento alla musica etnica è invece nato dalla
naturale esigenza di un uomo maturo di tornare per
così dire alle sue origini, al suo passato; da un punto di
vista musicale ai suoni crudi della tradizione popolare,
le corde e le percussioni, della sagra del pesce di Camogli, la chitarra classica del mio maestro cubano: dal
punto di vista linguistico il ritorno all’idioma della mia
infanzia».
8) I modelli culturali, i segnali e anche le ispirazioni sono molto cambiati dalla tua generazione a
quella di tuo figlio: eppure Cristiano è avviato a fare
lo stesso lavoro. Con quale spirito un figlio d’arte
può riuscire bene senza imitare o rinnegare il padre
e quanta dose di orgoglio c’è in te?
«Ci può riuscire semplicemente coltivando la propria personalità e quindi perfezionando uno stile che è
più completamente suo: d’altra parte Cristiano è un
musicista sicuramente più capace di me e il suo rispetto nei miei confronti si fonda essenzialmente sul riconoscimento da parte sua della validità dei miei testi.
Per quanto riguarda l’orgoglio di padre, come si definisce la soddisfazione di chi vede il prolungamento del
proprio ego affermarsi nella vita, ebbene non lo vivo in
quanto mio figlio faccia il musicista e ci riesca in maniera egregia, quanto piuttosto per il fatto che Cristiano, seppure ostacolato da diverse persone tra cui io
!!!
Emozioni
Amo il cinema di Jodorowsky;
la musica etnica in genere e quella
sarda in particolare; la letteratura
di Leonardo Sciascia e Umberto Eco,
epigoni moderni di Stendhal
!!!
Interpretazioni
L’idea di vestire di rock il
«Pescatore» o «Bocca di Rosa» nasce
dalla curiosità di capire se potevano
portare la minigonna o avevano
le gambe irrimediabilmente storte
!!!
Menomazioni
Hanno inserito «La guerra di Piero»
in un’antologia scolastica,
ma l’hanno inserita senza la musica:
così quella che viene fuori
è una menosissima filastrocca
stesso, sia riuscito esclusivamente grazie alla sua volontà e ai suoi meriti, a trovarsi un’attività consona al
proprio desiderio di autoidentificarsi, in una società
dove mi pare che alla maggior parte dei giovani questa
chance sia preclusa».
9) Credi che l’avvento disordinato e massiccio dell’elettronica e quello molto simile dei video abbia
aiutato o abbia provocato dei guasti nell’approccio e
nel consumo musicale in Italia?
«Sicuramente lo ha aiutato nell’approccio anche se
per quanto riguarda il consumo ha provocato, soprattutto all’inizio, qualche disorientamento. Dico che ha
aiutato perché ha messo sempre di più i “produttori” di
musica nelle condizioni di essere messi a confronto e
quindi di migliorare necessariamente quanto meno il
lato tecnico della loro produzione: il risultato fino a oggi conseguito consiste in una selezione piuttosto severa da parte dell’ascoltatore che non si accontenta più
del suono rabberciato, della ritmica imprecisa: da
adesso in poi è auspicabile che il famigerato consumatore ormai padrone della capacità di operare una distinzione di valore di ordine tecnico, arrivi quanto prima a operare una scelta altrettanto cosciente basata
sulla qualità artistica del prodotto discografico: schiarite da questo punto di vista se ne vedono già quando si
nota salire vertiginosamente nell’indice di gradimento
di ascolto un brano come The Power of Love dei
Frankie Goes To Hollywood, dove realizzazione tecnica
e forza espressiva si concretizzano in una osmosi da
brivido».
10) Un tuo brano (quale?) è stato inserito in un’antologia per la scuola media. Credi che, adottato regolarmente, sarebbe un buon sistema per introdurre la canzone nelle scuole, per interessare più da vicino gli studenti, in luogo di autori lontani e anacronistici come quelli previsti dai programmi
ministeriali? E nel contempo è una grossa conquista
che i media non censurino più le canzoni (era una
gran vergogna quando questo succedeva con te)?
«È il modo in cui alcuni miei brani sono stato inseriti
nelle antologie scolastiche che non mi sta bene. I versi
di una canzone come La guerra di Piero se letti senza
musica danno un po’ l’idea di una menosissima filastrocca e questo perché sono nati come versi per una
canzone che è un’arte composita: che senso farebbe togliere tutte le tessere di vetro di colore azzurro da una
finestra bizantina? Mi sta benissimo che la canzone
venga inserita nei programmi di studio, ma in quanto
canzone, e non mutilata di una delle sue strutture portanti: a questo punto mi domando che cosa ci stiano a
fare i dischi.
«Il problema della censura poi è strettamente legato
a quello politico e se stiamo attraversando un momento decisamente felice da questo punto di vista, potremmo in futuro ancora vederne delle belle e ascoltarne
soltanto delle brutte».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
li anni Ottanta
sono decisivi nella
storia di Fabrizio
De André (18 febbraio
1940 - 11 gennaio
1999), che si lascia alle
spalle un periodo tanto
artisticamente denso
quanto drammatico dal
punto di vista personale.
Degli ultimi mesi del
1979 è infatti il
sequestro subito in
Sardegna, con
liberazione avvenuta
appena prima di Natale,
mentre dal punto di vista
discografico quella
stagione si ricorda per i
due album dal vivo,
primi della sua
produzione, brillante
resoconto della tournée
con la Premiata Forneria
Marconi, che grande
slancio avrebbe dato ad
alcune delle sue canzoni
più famose, riarrangiate
in chiave elettrica e
cucinate in salsa rock. La
traumatica esperienza,
quasi quattro mesi nelle
mani dei banditi,
consoliderà in realtà il
rapporto d’amore di
Fabrizio con la Sardegna.
Tra i primi frutti c’è un
disco, uscito nell’estate
1981, conosciuto come
L’indiano, ma in effetti
senza titolo, scritto in
collaborazione con
Massimo Bubola, dove
spicca una canzone
influenzata dal
sequestro, Hotel
Supramonte. Da tempo
distante dalla natia
Genova, De André è
ormai naturalizzato
milanese: qui è la sua
casa discografica, la
Ricordi, i suoi principali
partner artistici e anche
gli studi in cui registra (il
castello di Carimate). Per
un po’ risiederà in un
appartamento della
periferia, con Dori, ospiti
dei genitori di lei, prima
di trasferirsi in una
luminosa abitazione in
zona Fiera. Dopo aver
fondato, nel 1982, la
Fado, De André si dedica
alla realizzazione di un
disco considerato una
summa della musica
moderna. Crêuza de mä,
composto e ideato con
Mauro Pagani, è uno
splendido esempio di
world music, un viaggio
tra culture, suoni e
leggende del
Mediterraneo. Sul finire
del decennio Fabrizio
sigla un efficace incontro
con Francesco De
Gregori e Ivano Fossati
(Quei posti davanti al
mare), sposa Dori Ghezzi
(nel comune di Tempio
Pausania, dove sorge la
loro tenuta, con Beppe
Grillo come testimone di
nozze), e inizia a lavorare
al disco che nel 1990 lo
restituirà al mercato
della musica: Le nuvole,
che vede la
partecipazione, tra gli
altri, di Bubola, Pagani,
Fossati e, agli
arrangiamenti e
direzione d’orchestra, di
Piero Milesi, suo braccio
destro per l’opera finale,
Anime salve, del 1996.
Scarica