Defibril l at ori, ruol o progn os t ic o di Fa La fibrillazione atriale (Fa) avrebbe un ruolo importante nella prognosi di pazienti sottoposti a impianto di defibrillatori cardiaci. Si tratta dei risultati di uno studio apparso su Journal of American College of Cardiology che, oltre ad analizzare la prevalenza dell'aritmia cardiaca, ha consentito di stabilire il valore prognostico di differenti tipi di Fa in questi pazienti. L'indagine ha verificato la presenza e il tipo di Fa in 913 pazienti (79% uomini, età media 62 ± 13 anni) che avevano ricevuto defibrillatori impiantabili al Leiden University Medical Center. Al momento dell'impianto, il 73% dei pazienti non mostrava storia di fibrillazione; mentre Fa prossimale, persistente e permanente è stata riscontrata nel 9%, 7% e 11% dei partecipanti, rispettivamente. Durante 833 ± 394 giorni di follow-up, il 13% degli individui è deceduto; nel 25% il dispositivo cardiaco ha funzionato in modo appropriato e nel 15% in modo errato. Individui con Fa permanente hanno mostrato un rischio doppio di mortalità, aritmia ventricolare e funzionamento inappropriato del dispositivo, mentre quelli con Fa prossimale o persistente un rischio tre volte più elevato di malfunzionamento del defibrillatore. J Am Coll Cardiol, 2010; 55:879-885 Più sinc ope con t ac h ic ardia post urale La sindrome della tachicardia posturale predisporrebbe allo sviluppo di sincope più frequentemente dell'ipotensione ortostatica. I risultati sono il frutto di uno studio apparso su America Journal of Medicine che ha utilizzato un database, contenente referti clinici di 3.700 pazienti, per stabilire quale delle due condizioni patologiche è più spesso associata a episodi sincopali. Alcuni ricercatori del Neurologic Institute, University Hospitals Case Medical Center di Cleveland, attraverso l'impiego del "head up tilt test" hanno effettuato diagnosi di sincope nel 38% dei pazienti con tachicardia posturale, rispetto al 22% di quelli con ipotensione ortostatica. Al contrario di quanto osservato negli individui con ipotensione ortostatica, nei tachicardici la presenza di sincope rivelata con il suddetto test è, inoltre, risultata correlata a storia clinica di sincope nel 90% dei casi mentre l'assenza dell'evento sincopale soltanto nel 30%. «I nostri risultati invitano a informare tempestivamente tutti i pazienti affetti da sindrome posturale dell'elevato rischio di sincope a cui sono esposti» ha sottolineato O jha A., principale autore dell'indagine. Am J Med. 2010 Mar;123(3):245-249 Caffè a pranzo con tro il diabete Coloro che consumano caffè a ora di pranzo sono meno esposti al rischio di sviluppare diabete di tipo 2. Lo hanno stabilito alcuni ricercatori brasiliani prendendo in esame oltre 70mila donne francesi, d'età compresa tra 41 e 72 anni, le cui abitudini alimentari sono state seguite per oltre 11 anni. In breve, nelle partecipanti che hanno consumato almeno una tazza di caffé durante la pausa pranzo è stata riscontrata una riduzione del rischio di sviluppare la patologia diabetica di circa il 30% rispetto alle donne non consumatrici. Gli autori, però, sottolineano che per osservare l'effetto protettivo del caffé, la bevanda deve essere consumata rigorosamente senza nessuna aggiunta di altre sostanze, nemmeno di latte. «Non siamo ancora in grado di capire il meccanismo alla base della protezione offerta da questa bevanda nei confronti del diabete, ma il fatto che l'effetto si osservi solo se il caffé viene bevuto all'ora di pranzo lascia ipotizzare che ci sia qualche legame con il tipo di cibo consumato in questo momento della giornata» ha commentato Daniela S. Sart orell i, principale autore dell'indagine. Am J Clin Nutr. 2010 Feb 10. Asa n on previene event i Cv con basso Abi Un basso indice caviglia-braccio (Abi) è indicativo di aterosclerosi e di aumentato rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari. Lo screening per un ridotto Abi può identificare un rischio asintomatico potenzialmente utile per trattamenti preventivi. Allo scopo è stato condotto uno studio per verificare l'efficacia in tal senso dell'Asa in una popolazione generale, controllata in doppio cieco dall'aprile 1998 all'ottobre 2008 coinvolgente 28.980 soggetti di età compresa tra i 50 e i 75 anni residenti nella Scozia centrale, senza malattia cardiovascolare. L'endpoint primario era un composto di evento coronarico fatale iniziale o non fatale o stroke o rivascolarizzazione. Due endpoint secondari erano tutti eventi vascolari iniziali definiti come composti di eventi primari o angina, claudicatio intermittens o attacco ischemico transitorio e mortalità da ogni causa. Dopo un follow-up medio di 8,2 anni, 357 partecipanti hanno avuto un evento primario; nessuna differenza statisticamente significativa si è riscontrata tra gruppo Asa e gruppo placebo (13,7 vs 13,3). All'interno dei partecipanti con malattie cardiovascolari, identificati con un basso Abi in uno screening su una popolazione generale, la somministrazione di Asa rispetto al placebo non è risultata in una significativa riduzione di eventi vascolari. Jama, 2010; 303(9):841-848 Nuovo test predit t ivo di risch io cardiac o Il nuovo test dell'emoglobina A1C predice il diabete così come il test di digiuno, ma supera il vecchio standard nel predire il rischio di un rischio futuro di malattia cardiaca e ictus. Il test A1C è noto anche come test dell'emoglobina glicata; usando un piccolo campione ematico, misura la media dei livelli dei duetre mesi pregressi. «I nostri dati mostrano che l'emoglobina glicata è un fattore davvero potente per il diabete e la malattia cardiovascolare. Se si hanno valori anomali di emoglobina glicata, il paziente dovrebbe essere oggetto di interventi decisi" afferma E liz a be th Sel vin, assistente di epidemiologia e medicina al dipartimento di epidemiologia alla Johns Hopkins Blomberg School of Public Health a Baltimore. In gennaio l'American diabetes association (Ada) ha raccomandato che i medici dovrebbero iniziare a utilizzare il test A1C per la diagnosi del diabete; precedentemente il test non era stato raccomandato perché non era stato standardizzato da un laboratorio all'altro. L'Ada ha stabilito il livello per la diagnosi del diabete a 6,5% o superiore e quella di prediabete a livelli tra 5,7 e 6,4%. L'A1C% è il valore di emoglobina di una persona che risulta glicata o glicosilata. New England journal of medicine, 2010; 4 marzo R os uvast at in a in pazien t i renal i con elevat a creat t iva Rosuvastatina riduce il rischio di eventi cardiovascolari e mortalità in individui con colesterolo Ldl inferiore a 130 mg/dl, elevati livelli di proteina c-reattiva ad alta sensibilità (hsCrp) e concomitante presenza di insufficienza renale moderata. L'indagine, pubblicata su Journal of the American college of cardiology è stata condotta all'interno del trial Jupiter (Justification for the use of statins in prevention-an intervention trial evaluating rosuvastatin) che confrontava l'efficacia della statina in uomini e donne senza problemi cardiovascolari, con i suddetti livelli di colesterolo Ldl e hsCrp pari o superiore a 2 mg/l. Paul M Ridker del Center for cardiovascular disease prevention, brigham and women's hospital di Boston, ha inteso verificare l'effetto di rosuvastatina sugli outcome cardiovascolari in pazienti inizialmente affetti da insufficienza renale moderata che, rispetto a persone con velocità di filtrazione glomerulare pari o superiore a 60 ml/min/1,73 m2, hanno mostrato un'incidenza più elevata di eventi vascolari (hazard ratio = 1,54). Dopo un follow-up medio di 1,9 anni, nei soggetti con problemi renali, l'impiego della statina è risultato associato a una riduzione del 45% del rischio di infarto del miocardio, ictus, ospedalizzazione per angina instabile, rivascolarizzazione e morte cardiovascolare (hr = 0,55) e del 44% di decesso per qualsiasi causa (hr = 0,56). J Am Coll Cardiol, 2010 Mar 3 Vit amin a D ininf l uen te sul cuore Secondo una metanalisi apparsa su Annals of internal medicine, in letteratura sono presenti dati limitati che dimostrino come supplementazioni di vitamina D possano ridurre il rischio di malattie cardiovascolari. L'indagine ha, inoltre, consentito di definire che l'apporto dietetico di calcio ha minimi effetti sugli outcome cardiovascolari. H oward D. Sesso e collaboratori, presso la Division of Preventive Medicine, Brigham and Women's Hospital di Boston, hanno selezionato e analizzato 17 studi prospettici e alcuni trial randomizzati che erano stati pubblicati tra il 1966 e il 2009 nei database Medline, Embase e Cochrane Central Register of Controlled Trials. Soltanto cinque studi prospettici riguardanti pazienti in dialisi e un trial relativo alla popolazione generale hanno evidenziato riduzioni consistenti della mortalità cardiovascolare in individui adulti sottoposti a integrazione dietetica di vitamina D. Al contrario, quattro studi prospettici, che avevano reclutato persone inizialmente sane, non hanno mostrato alcuna differenza nell'incidenza di problemi cardiovascolari tra soggetti che arricchivano la propria alimentazione con supplementi di calcio e coloro che non lo facevano. Annals of Internal Medicine 2010 152, 5, 315-323 Funzione renale ridot t a met te il cu ore in pericol o Una ridotta funzione renale si associa a un rischio maggiore di patologie cardiovascolari. Dai dati disponibili in letteratura, comunque, non è chiaro se sia possibile utilizzare i valori di un declino dinamico del tasso stimato di filtrazione glomerulare (eGFR) per predire eventi vascolari, venendo a costituirsi così un utile biomarker di malattia aterotrombotica. Per testare l'ipotesi che una riduzione di tale parametro sia indicativo di rischio cardiovascolare in una popolazione ad alto rischio di pazienti con coronarie caratterizzate angiograficamente, è stato condotto uno studio da quattro centri, due austriaci, uno del Liechtenstein e uno di Philadelphia (Usa). È stato calcolato l'eGFR mediante l'equazione Mayo clinica quadratica all'inizio dello studio e dopo due anni in una popolazione ad alto rischio di 400 uomini sottoposti consecutivamente a coronarografia, dei quali 355 erano coronaropatici. Gli eventi vascolari sono stati registrati per 6 anni. Al termine del trial è emerso che una riduzione seriale della funzione renale dall'inizio dello studio alla visita di controllo a due anni di distanza prediceva in modo significativo gli eventi vascolari nei 4 anni successivi in modo indipendente dal valore di base dell'eGFR. Questo risultato si è mantenuto affidabile anche dopo aggiustamento per età, indice di massa corporea, ipertensione, diabete, colesterolemia-Ldl, colesterolemia-Hdl, fumo e proteina C reattiva ad alta sensibilità. Il potere predittivo della diminuzione dell'eGFR è stato confermato anche dopo ulteriore aggiustamento per la presenza di coronaropatia all'inizio del trial. Nel modello finale, una diminuzione di 10 ml/min/1,73 m2 di eGFR ha conferito in modo indipendente un aumento del 31% di rischio di eventi cardiovascolari. Atherosclerosis. 2010 Mar 1. Effet t i cardiovascol ari dell a riduzione del sale Negli USA si stima che il consumo di sodio sia molto elevato, nonostante le raccomandazioni delle autorità sanitarie che consigliano di seguire diete che ne siano povere (fino ad un introito ideale di 3,7 g/die), si stima che se ne consumi molto di più: gli uomini più di 10 g e le donne più di 7 g/die, e queste quantità sono in aumento. Ciò anche a causa del preconfezionamento dei cibi, che è responsabile del 75-80% del sale introdotto. Utilizzando il Coronary Heart Disease (CHD) Policy Model, una simulazione al computer della malattia cardiaca in individui dai 35 agli 84 anni e un'estensione del modello allo stroke, alcuni ricercatori californiani hanno stimato gli effetti potenziali di una modesta riduzione dell'apporto sodico in differenti segmenti della popolazione americana definiti per età, sesso e razza, confrontandolo con quelli di altri interventi tesi a ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e determinandone il rapporto costo beneficio. Si è visto che riducendo il sale di 3 g/die si potrebbe ottenere una riduzione stimata del numero annuale di CHD da 60.000 a 120.000, dello stroke da 32.000 a 66.000 e dell'infarto da 44.000 a 92.000 e del numero di morti per ogni causa da 44.000 a 92.000. Ne beneficerebbero tutti i segmenti della popolazione, quella nera in proporzione maggiore; nelle donne si verificherebbe una maggiore riduzione dello stroke, negli anziani degli eventi CHD, mentre nei più giovani delle morti. Nel complesso in questo modello gli effetti della riduzione del sale sono paragonabili a quelli della riduzione del tabacco, dell'obesità, del colesterolo e, pur con i limiti costituiti da un modello prospettico per di più incentrato solo sulla riduzione della pressione arteriosa, si può calcolare che un intervento regolatore mirato a ridurre l'introito di sale di 3 g/die possa salvare da 194.000 a 392.000 anni di vita quality-adjusted e ottenere un risparmio annuo della spesa sanitaria da 10 a 24 miliardi di dollari. Ma basterebbe molto meno: se solo si riducesse l'apporto sodico di 1 g/die, nel decennio 2010-2019 si potrebbe ottenere un miglior rapporto costo beneficio dell'uso dei farmaci antipertensivi. Bibbins N Engl J Med. 2010;362:590-9. W arfarin sot t o-prescrit t o nel l a Fa che complic a la Sc a In uno studio apparso su American Journal of Medicine di febbraio 2010, il warfarin è risultato essere sotto-prescritto quando la SCA è complicata da FA. L'uso del warfarin è stato valutato - insieme all'outcome a 6 mesi - in 917 pazienti che hanno sviluppato FA come complicanza intra-ospedaliera di SCA. Questi pazienti sono stati selezionati tra i 23.208 partecipanti a tre grandi studi: PURSUIT, PARAGON-A e SYNERGY. Complessivamente 124 pazienti (13,5%) hanno ricevuto la prescrizione di warfarin alla dimissione ospedaliera. Il rischio di ictus cardioembolico, valutato secondo lo score CHADS2 (insufficienza cardiaca congestizia, ipertensione, età superiore ai 75 anni, diabete, pregresso stroke/attacco ischemico transitorio), non ha avuto impatto evidente sulla probabilità di prescrizione del warfarin. I tassi di utilizzo del warfarin sono stati: 13% nei pazienti con un punteggio di 0 (su una scala da 0 a 6), 14% per score 1 e 13% per i punteggi di 2 o più. Anche il rischio di sanguinamento sembra non avere alcuna influenza sull'indicazione al warfarin: infatti, è stato prescritto nell'11,9% dei pazienti senza fattori di rischio emorragico, nel 13,3% di quelli con 1 o 2 fattori di rischio e nell'11,1% di quelli con 3 o 4 fattori di rischio. Gli autori hanno rilevato che un punteggio CHADS2 uguale o superiore a 2 è associato ad un più alto rischio di morte o di infarto miocardico a 6 mesi. Paradossalmente i pazienti che hanno ricevuto warfarin avevano un rischio significativamente più basso di morte o di infarto miocardico a 6 mesi (HR 0,39; p = 0,04). In conclusione, pur essendo il warfarin associato ad un miglior outcome a sei mesi, nei pazienti con FA complicante la SCA la sua prescrizione non è condizionata né dallo score CHADS2 né da quello di sanguinamento. Am J Med. 2010;123 (2):134-140 Ipertensione: cost o/benef ic io trat t and o l'anzian o Prevenire e trattare l'ipertensione è una grande sfida per la salute pubblica, considerato il suo ruolo preminente come fattore di rischio cardiovascolare. E di fronte al grande numero di morti dovute a cause ischemiche cardiache o cerebrali bisogna considerare che almeno nella metà dei casi si tratta di soggetti sopra gli 80 anni: eppure i dati su questo tipo di popolazione sono relativamente scarsi, e anche contrastanti. Ciò almeno fino a che non è stato pubblicato il "Hypertension in the Very Elderly Trial" (HYVET): in questo studio il trattamento con indapamide SR, associata o no a perindopril, ha dimostrato una riduzione del 30% degli stroke fatali e non fatali e una riduzione del 39% del tasso di morte per stroke, tanto che lo studio è stato interrotto per ragioni etiche. Anche i tassi di morte per tutte le cause e per cause cardiovascolari si sono ridotti rispettivamente del 21 e 23%. Lo scompenso (HF) addirittura del 64%. Un gruppo di ricercatori svizzeri ha applicato questi risultati al loro sistema sanitario per valutare il rapporto costo beneficio della terapia antipertensiva nel grande anziano. Si è visto che il trattamento dell'ipertensione provoca un miglioramento dei costi di 37 franchi svizzeri per paziente per 2 anni e una spettanza di vita addizionale di 0,0457 anni per paziente riducendo il rischio relativo di morte per stroke, cardiopatia ischemica (CHD), HF. Certamente la traslazione ad una popolazione relativamente omogenea, come quella svizzera, di uno studio condotto su 13 diversi Paesi quale è l'HYVET risente di una forte limitazione metodologica, ma se si considera che i ricercatori svizzeri non hanno valutato l'impatto favorevole della terapia sulle funzioni cognitive, già dimostrato da altri, e se si considera l'alto costo di questa complicazione dell'ipertensione, il rapporto costo beneficio nel grande anziano che emerge da questo studio potrebbe essere ancora più favorevole. Journal of Human Hypertension 2010;24:117-123. R isch io cardiovascol are con TOS Finanziato dal National Heart, Lung, and Blood Institute Americano, il the Women's Health Iniziative, studio randomizzato in doppio cieco vs placebo condotto secondo la metodica dell'intention-to-treat analyses, ha voluto verificare se l'aumentato rischio di malattia coronarica indotto dal trattamento estro-progestinico "sostitutivo" (TOS) riportato da altri studi in particolare dal The Nurses' Health Study, fosse presente e/o condizionato dal tempo di utilizzo del farmaco e/o dal suo utilizzo tardivo dopo la menopausa. La ricerca ha interessato gli anni 1993-1998. Sono stati coinvolti 40 centri clinici statunitensi per un totale di più di 16.500 donne in postmenopausa di età fra i 50 ed i 79 anni con ancora l'utero. Di queste, più della metà (8.506) sono state randomizzate per l'assunzione di 0,625 mg di estrogeni coniugati equini + 2,5 mg di medrossiprogesterone acetato/die verso placebo. Durante il follow up, nelle 8.506 donne che erano in TOS si sono verificati 188 eventi coronarici (80 nei primi 2 anni di terapia) rispetto ai 147 (51 nei primi 2 anni) delle 8102 donne che non assumevano l'estro-progestinico, con un Hazard Ratio per l'insorgenza di malattia coronarica di 2,36 (95% CI 1,55-3,62) nei primi 2 anni di terapia e di 1,69 (95% CI, 0,98-2,89) nei primi 8 anni di trattamento. Nelle 2,782 donne che avevano iniziati la TOS entro 10 anni dall'inizio della menopausa si sono verificati 31 eventi coronarici (14 nei primi 2 anni) rispetto ai 34 (12 nei primi 2 anni) delle 2,712 donne che avevano assunto il placebo con un HR di 1,29 (95% CI 0,52-3,18) per i primi 2 anni e di 0,64 (95% CI 0,21-1,99) per i primi 8 anni. Il valore della p per le differenze nelle curve di comparsa degli eventi coronarici fra le donne in TOS e quelle in placebo è risultato di 0,057 per l'intera casistica, di 0,44 e di 0,011 rispettivamente per le donne che avevano iniziato il trattamento entro i primi e dopo i 10 anni dalla menopausa, con un valore della p per la variazione del HR durante il follow-up di 0,038. Il tempo di crossover medio fra una curva e l'altra era stimabile intorno ai 6 anni di trattamento (95% CI, da 2 a 10 anni). Nel confermare quindi l'assenza di qualsiasi effetto protettivo della TOS, che anzi può determinare un aumentato rischio di eventi coronarici qualora iniziata dopo i 10 anni dalla menopausa, lo studio rileva tuttavia che nel subset di donne che hanno iniziato la TOS precocemente, si può avere un piccolo e non significativo effetto cardioprotettivo ma solamente dopo 6 anni di trattamento. Ann Intern Med. 2010;152(4):211-17. Inf art o, warfarin n on migl iora ou t c ome Dopo infarto miocardico, l'impiego di anticoagulanti orali (Oac), con o senza acido acetilsalicilico (Asa), non riduce l'incidenza né di mortalità né di nuovi episodi infartuali, anche se abbassa quella di ictus. Sono questi i risultati di un'ampia analisi che ha voluto chiarire rischi e benefici legati all'utilizzo a lungo termine di questi farmaci in pazienti colpiti da infarto. S orin J. Brener e collaboratori della Division of Cardiology, New York Methodist Hospital, Brooklyn hanno preso in considerazione dieci trial randomizzati, riguardanti oltre 24mila pazienti infartuati, che mettevano a confronto regimi con warfarin, con o senza acido acetilsalicilico, con trattamenti che non prevedevano il ricorso ad anticoagulanti orali, sempre in presenza o in assenza di Asa. Gli autori hanno registrato mortalità nel 9,9% dei partecipanti, con un numero di decessi nel gruppo trattato con gli Oac molto simile a quello senza Oac (odds ratio = 0,97). Lo stesso andamento si è registrato per quanto riguarda la ricorrenza di eventi infartuali. Significativa è stata, invece, la diminuzione dei casi di ictus in seguito all'impiego di warfarin (or = 0,75) anche se sono aumentati i casi di emorragia (or = 1,83). Am J Med. 2010 Mar;123(3):250-258. Bet a blocc an t i spesso con troind ic at i con Tc coron arica L'impiego di beta bloccanti non è indicato in tutti pazienti che devono eseguire un esame coronarico mediante Tc. A stabilirlo sono alcuni ricercatori olandesi in uno studio pubblicato su American Journal of Cardiology, che ha verificato efficacia ed effetti collaterali di questi farmaci solitamente impiegati per ridurre la frequenza cardiaca e, conseguentemente, migliorare la qualità delle immagini durante la Tac. Per 537 individui da sottoporre a Tc coronarica, sono stati misurati i valori basali di frequenza cardiaca, pressione arteriosa ed eventuali controindicazioni ai beta bloccanti. Nei pazienti senza controindicazioni e frequenza cardiaca pari o superiore a 65 battiti/minuto è stata somministrata una singola dose orale di metopropolo, un'ora prima dell'esame. Nel 27% di questi pazienti non è stato raggiunto il valore target di frequenza cardiaca, rispetto al 60% di quelli che non hanno potuto assumere il farmaco. Senza betabloccanti o con dosi subottimali, la percentuale di immagini Tac di elevata qualità è risultata inferiore rispetto ai pazienti con controllo ottimale della frequenza cardiaca (40% vs 74%). «Poiché l'impiego di beta-bloccanti risulta pericoloso in un'elevata percentuale di pazienti da sottoporre a Tc coronarica sarà necessario avere a disposizione approcci alternativi in grado di ridurre la frequenza cardiaca» ha dichiarato F leur R. de Graaf, principale autore dello studio. American Journal of Cardiology, 2010 Feb 8 Defibril la t or i, ru ol o pr ogn ost ic o di Fa La fibrillazione atriale (Fa) avrebbe un ruolo importante nella prognosi di pazienti sottoposti a impianto di defibrillatori cardiaci. Si tratta dei risultati di uno studio apparso su Journal of American College of Cardiology che, oltre ad analizzare la prevalenza dell'aritmia cardiaca, ha consentito di stabilire il valore prognostico di differenti tipi di Fa in questi pazienti. L'indagine ha verificato la presenza e il tipo di Fa in 913 pazienti (79% uomini, età media 62 ± 13 anni) che avevano ricevuto defibrillatori impiantabili al Leiden University Medical Center. Al momento dell'impianto, il 73% dei pazienti non mostrava storia di fibrillazione; mentre Fa prossimale, persistente e permanente è stata riscontrata nel 9%, 7% e 11% dei partecipanti, rispettivamente. Durante 833 ± 394 giorni di follow-up, il 13% degli individui è deceduto; nel 25% il dispositivo cardiaco ha funzionato in modo appropriato e nel 15% in modo errato. Individui con Fa permanente hanno mostrato un rischio doppio di mortalità, aritmia ventricolare e funzionamento inappropriato del dispositivo, mentre quelli con Fa prossimale o persistente un rischio tre volte più elevato di malfunzionamento del defibrillatore. J Am Coll Cardiol, 2010; 55:879-885 Linee gu ida per valu t are il rischio dell a coron aropat ia Alla Duke university di Durham (Usa) le linee guida per il triage del paziente sottoposto a cateterismo cardiaco raccomandano la valutazione del rischio e un test non invasivo. Sono stati validati allora i pattern di valore diagnostico per soggetti con sospetta coronaropatia, coinvolgendo 663 ospedali tra il 2004 e il 2008. I fattori di rischio e i sintomi dei pazienti sono risultati correlati con la presenza di malattia ostruttiva coronarica, definita quale stenosi del 50% o più del diametro dell'arteria principale sinistra o di 70% o più del diametro di un vaso maggiore epicardico. In tutto sono stati inclusi nello studio 398.978 pazienti, con età mediana di 61 anni, 52,7% maschi, 26,0% diabetici. Il test non invasivo fu eseguito nell'83,9% dei pazienti e al cateterismo il 37,6% di questi aveva malattia ostruttiva coronarica. Una mancanza di patologia coronarica è stata riportata nel 39,2% dei soggetti. Fattori predittivi indipendenti di malattia coronarica ostruttiva includono il sesso maschile, l'età avanzata, la presenza di diabete insulino-dipendente e di dislipidemia. in conclusione, una quota lievemente superiore di un terzo senza malattia nota e sottoposta a cateterismo elettivo ebbe una coronaropatia ostruita non diagnosticata. Sembrano pertanto utili strategie migliori di stratificazione del rischio. N Engl J Med, 2010;362(10):886-95 Un sart an o riduce gli ateromi coron aric i Alcuni studi condotti con ecografia carotidea intravascolare (Ivus) hanno documentato un rallentamento della progressione dell'ateroma grazie all'assunzione di alcuni farmaci, ma non si sono avuti dati convincenti di tale regressione con agenti bloccanti il recettore dell'angiotensina II, molecole prescritte in pazienti con angina pectoris stabile. A colmare tale lacuna arriva uno studio giapponese, prospettico, randomizzato e multicentrico, denominato Olivus (Impact of olmesartan on progression of coronary atheroslerosis: evaluation by IntraVascular UltraSound). Questo trial è stato condotto su 247 pazienti affetti da angina pectoris stabile e patologia coronarica nativa. Quando questi pazienti sono stati sottoposti a intervento transcutaneo di lesioni, l'Ivus è stata effettuata nei vasi non colpiti (senza stenosi angiograficamente documentate <50%). I pazienti sono stati assegnati in modo randomizzato a ricevere da 10 a 40 mg di olmesartan o controllo e trattati con una combinazione di beta-bloccanti, calcio-antagonisti, diuretici, nitrati e/o statine. Gli esami seriali Ivus (all'inizio dello studio e a un follow-up di 14 anni) sono stati effettuati per valutare il volume dell'ateroma coronarico. L'analisi volumetrica ha compreso il lume, la placca, il volume del vaso, il volume percentuale dell'ateroma (Pav), il cambio percentuale nel volume totale dell'ateroma (Tav). Ed ecco i risultati: le caratteristiche dei pazienti e il controllo della pressione arteriosa erano identici tra i due gruppi; in ogni caso, il follow-up Ivus ha mostrato una Tav significativamente ridotta e un cambio percentuale nella Pav del gruppo olmesartan. Queste osservazioni, concludono gli autori, suggeriscono un ruolo positivo nella riduzione della progressione dell'ateroma coronario grazie all'assunzione di olmesartan. J Am Coll Cardiol, 2010; 55(10):976-982 Inf art o: ridot t o risch io trombot ic o da Asa La mancanza di reflusso miocardico può impedire di cogliere il beneficio di una rivascolarizzazione coronarica urgente in pazienti con infarto miocardico a elevazione acuta del tratto St (Stemi). Tra i meccanismi patogenetici coinvolti, l'embolizzazione distale è di importanza prominente e vari studi hanno mostrato che un alto carico coronarico trombotico è associato con l'embolizzazione distale. Uno studio svolto all'Istituto di cardiologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, ha cercato di definire gli elementi predittivi di grado trombotico angiografico in pazienti sottoposti a intervento coronarico percutaneo. Novantanove soggetti (62 12 anni, uomini nel 79%) ricoverati per un primo Stemi e sottoposti a coronarografia urgente entro 12 ore dall'inizio dei sintomi, sono stati inclusi consecutivamente nello studio. Il grado del trombo è stato valutato dall'angiografia sulla base del punteggio Gibson e i pazienti sono stati collocati ad alto grado trombotico (4 o 5) o basso grado (da 0 a 3). Le variabili predittive del grado angiografico del trombo sono state stabilite mediante dati clinici, angiografici, procedurali e di laboratorio. 64 pazienti (di età 61 12, 78% uomini) si sono presentati con un grado alto, laddove 27 pazienti (63 10, 80% uomini) avevano un grado basso. I soggetti con un grado alto mostravano una conta di cellule bianche significativamente superiore e la terapia con acido acetilsalicilico (Asa) e beta-bloccanti prima dell'ammissione era meno frequentemente assunta. All'analisi multivariata, la cessazione della terapia precedente con Asa era il solo fattore predittivo indipendente di alto rischio trombotico. In conclusione, sostengono gli autori, una precedente terapia con Asa è associata con una riduzione del grado trombotico angiografico in pazienti con Stemi trattati con intervento primario percutaneo e questo ulteriormente impone gli sforzi per un appropriato uso dell'Asa nella prevenzione primaria del primo Stemi. Am J Cardiol, 2010; 105(5):587-91 Più sinc ope con t ac h ic ardia post urale La sindrome della tachicardia posturale predisporrebbe allo sviluppo di sincope più frequentemente dell'ipotensione ortostatica. I risultati sono il frutto di uno studio apparso su America journal of medicine che ha utilizzato un database, contenente referti clinici di 3.700 pazienti, per stabilire quale delle due condizioni patologiche è più spesso associata a episodi sincopali. Alcuni ricercatori del Neurologic institute, University hospitals case medical center di Cleveland, attraverso l'impiego del "head up tilt test" hanno effettuato diagnosi di sincope nel 38% dei pazienti con tachicardia posturale, rispetto al 22% di quelli con ipotensione ortostatica. Al contrario di quanto osservato negli individui con ipotensione ortostatica, nei tachicardici la presenza di sincope rivelata con il suddetto test è, inoltre, risultata correlata a storia clinica di sincope nel 90% dei casi mentre l'assenza dell'evento sincopale soltanto nel 30%. «I nostri risultati invitano a informare tempestivamente tutti i pazienti affetti da sindrome posturale dell'elevato rischio di sincope a cui sono esposti» ha sottolineato Ojha A., principale autore dell'indagine. Am J Med. 2010 Mar;123(3):245-249 Deficit cardiac o da disfu nzione met abol ic a Alterazioni dello stato energetico del miocardio possono essere presenti in maniera asintomatica in individui giovani con diabete mellito di tipo 1 non complicato. A stabilirlo è uno studio pubblicato su Circulation che ha, inoltre, evidenziato che queste alterazioni sono indipendenti dalla durata della patologia diabetica e sono attribuibili a problemi metabolici piuttosto che a disfunzioni microvascolari. Alcuni ricercatori dell'Università di Zurigo hanno preso in esame 25 soggetti asintomatici affetti da diabete di tipo 1 e altrettanti individui sani (età media = 33 /-8 anni). I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi in base al momento in cui era stato diagnosticato il diabete, ossia diagnosi recente (inferiore a 5 anni) e di vecchia data (superiore a 10 anni). In sintesi, rispetto ai controlli, il rapporto fosfocreatina/gamma-Atp è risultato significativamente ridotto sia nei diabetici con diagnosi recente (2,1 /-0,5 vs 1,6 /-0,2; p<0,000) sia in quelli con storia di diabete più lunga (2,1 /-0,5 vs 1,5 /-0,4; p<0,000). In aggiunta, in quest'ultimo gruppo, l'indice di riserva del flusso coronarico è apparso inferiore a quello dei soggetti sani (1,7 /-0,6 vs 2,3 /-0,4; p = 0,005). Nessuna correlazione è stata osservata tra rapporto fosfocreatina/gamma-Atp e indice di riserva del flusso coronarico. Circulation. 2010 Mar 1. Fibrat i e stat ine, combin azione poc o efficace La somministrazione contemporanea di fenofibrato e simvastatina non riduce l'incidenza di eventi cardiovascolari, rispetto a monoterapie con la statina, in pazienti diabetici ad alto rischio. A stabilirlo è H enry N. Ginsberg del Department of Medicine, Columbia University College of Physicians and Surgeons di New York nell'ambito del trial Accord (Action to control cardiovascular risk in diabetes). L'indagine, pubblicata su New England journal of medicine, ha considerato oltre 5.500 pazienti affetti da diabete di tipo 2, sottoposti al trattamento con simvastatina, che sono stati randomizzati a ricevere fenofibrato oppure placebo. Dopo un follow-up medio di 4,7 anni, il tasso annuale di episodi cardiovascolari fatali, infarto del miocardio e ictus non fatale è risultato pari a 2,2% con il farmaco antilipidico e di 2,4% con il placebo (hazard ratio = 0,92). Anche l'incidenza di mortalità è apparsa molto simile tra i due gruppi ( 1,5% vs 1,6%; hr = 0,91). Analisi riguardanti specifici sottogruppi di pazienti hanno, poi, suggerito una grande eterogeneità nella risposta al trattamento in base al sesso e al contenuto plasmatico di lipidi. In particolare, potrebbero verificarsi effetti dannosi nelle donne e benefici negli uomini e negli individui con elevati livelli di trigliceridi e bassa concentrazione di colesterolo Hdl. Nejm 2010,2010 Mar. 14 Diabete 2: nessun van t aggio da sistol ic a bassa Ridurre la pressione sistolica, al di sotto del valore di 120 mmHg, non abbassa il rischio di eventi cardiaci maggiori in individui affetti da diabete mellito di tipo 2 e con elevato rischio cardiovascolare. Queste le conclusioni di un'indagine facente parte dell'Accord (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes) trial. Lo studio pubblicato su New england journal of medicine e coordinato da William C. Cushman del Veterans Affairs Medical Center di Memphis ha randomizzato 4.733 diabetici a terapie antiipertensive intense, mirate al raggiungimento di un valore di pressione sistolica inferiore a 120 mm Hg, oppure ad approccio standard con un valore target minore di 140 mmHg. Endpoint primario dello studio era rappresentato dal tasso d'infarto del miocardio non fatale, ictus non fatale e decessi da ogni causa cardiovascolare. In conclusione, dopo un anno di follow-up, l'incidenza annuale dell'outcome principale è risultata di 1,87% nel gruppo con trattamento intensivo e di 2,09% in quello standard (hazard ratio = 0,88) mentre quella di mortalità di 1,28% e 1,19% nei due gruppi, rispettivamente (hr = 1,07). Seri eventi avversi, attribuibili alle terapie antiipertensive, sono stati registrati nel 3,3% dei pazienti trattati e nell'1,3% di quelli curati in modo convenzionale. Nejm 2010, published online Mar. 14, S t en t a elu izione di sirol imus e zot arol imus a confron t o Nei pazienti a basso rischio, lo stent a eluizione di zotarolimus ha mostrato di ridurre i tassi di restenosi senza aumentare il rischio di trombosi. Uno studio danese ha confrontato l'efficacia e la sicurezza di questo stent con quello a eluizione di sirolimus in soggetti coronaropatici sottoposti a cure routinarie. I pazienti sono stati trattati in uno dei cinque centri di intervento coronarico percutaneo, in un periodo compreso tra il gennaio del 2006 e l'agosto del 2007. Un metodo computerizzato ha stabilito la randomizzazione per l'uso di uno dei due tipi di stent. Al termine, 1.162 pazienti sono stati assegnati a ricevere quello allo zotarolimus e 1.170 quello allo sirolimus. 2.200 pazienti hanno completato il follow-up previsto a 18 mesi. A nove mesi, l'endpont primario (definito come un insieme di eventi avversi cardiaci maggiori, quali morte cardiaca, infarto del miocardio e rivascolarizzazione dei vasi bersaglio) è stato raggiunto in proporzione superiore tra i pazienti trattati con lo stent zotarolimus rispetto a quelli trattati con quello sirolimus (72% vs 34%). Al 18° mese, la differenza si è amplificata (113 vs 53). La mortalità per tutte le cause a 9 mesi nei due gruppi è risultata simile, ma il follow-up a 18 mesi è risultato significativamente differente nei gruppi zotarolimus rispetto a quello sirolimus (51 vs 32, rispettivamente). L'interpretazione finale è univoca: lo stent a eluizione di sirolimus è superiore a quello a eluizione di zotarolimus per i pazienti che ricevono cure cliniche di routine. Lancet. 2010 Mar 13. R isch io insu l in oresistenza con at orvast at in a Vari studi clinici suggeriscono che alcuni trattamenti con statine possono aumentare l'incidenza di diabete nonostante vi sia una riduzione della colesterolemia Ldl e un miglioramento della funzione endoteliale. Ricercatori coreani della Gachon University hanno allora voluto verificare se l'atorvastatina potesse ridurre la sensibilità all'insulina e aumentare la glicemia ambientale in pazienti ipercolesterolemici. È stato svolto uno studio randomizzato, a singolo cieco, controllato con placebo e parallelo in 44 soggetti che assumevano placebo e 42, 44, 43 e 40 pazienti che prendevano ogni giorno 10, 20, 40 e 80 mg, rispettivamente, di farmaco per un periodo di 2 mesi di trattamento. L'atorvastatina nei dosaggi crescenti ha ridotto in modo significativo il colesterolo LDL (39%, 47%, 52% e 56%, rispettivamente) e i livelli di apolipoproteina B (33%, 37%, 42% e 46%, rispettivamente) dopo due mesi di terapia, quando comparato sia con i valori iniziali sia con il placebo. Peraltro, agli stessi dosaggi, l'atorvastatina ha significativamente determinato un aumento dei livelli di insulina plasmatica a digiuno, quelli di emoglobina glicata e la sensibilità all'insulina. Le conclusioni, secondo gli autori: nonostante si ottengano benefiche riduzioni di colesterolo Ldl e apolipoproteina B, il trattamento con atorvastatina ha portato a un aumento significativo di insulina a digiuno e dei livelli di emoglobina glicata compatibili con livelli di insulinoresistenza e aumentata glicemia ambientale in pazienti ipercolesterolemici. J Am Coll Cardiol, 2010;55(12):1209-16 Il ruol o dell o stress psicol ogic o nel l o scompensat o Depressione, ansia, personalità di tipo "D" (stressata, con tendenza a provare emozioni negative combinate con inibizione sociale) sono state associate a una bassa prognosi nella coronaropatia, ma poco è noto circa il ruolo di questi disturbi sullo scompenso cardiaco cronico. Ora uno studio olandese cerca di capire se questi indicatori di stress psicologico siano associati a mortalità in caso di insufficienza cardiaca. Sono stati coinvolti 641 pazienti consecutivi scompensati, i quali hanno compilato specifici questionari per definire i sintomi di ansia e depressione e le personalità di tipo D. Dopo un follow-up mediano di 37,6 mesi, si sono registrate 123 morti (76 dovute a cause cardiache). La personalità D non è risultata associata né alla mortalità cardiaca né a quella da ogni causa. All'analisi multivariata, né i sintomi elevati di ansia/depressione né la personalità di tipo D sono apparse associate con la mortalità da tutte le cause o da quella cardiaca. A un'analisi secondaria, un aumento di 1 punto in ansia/depressione è risultato associato a un incremento dell'8% di rischio per mortalità da ogni causa. In conclusione, né sintomi elevati di ansia/depressione né personalità di tipo D sono risultati associati con un rischio accresciuto di mortalità cardiaca o da tutte le cause. In futuro, è convinzione degli autori, studi di adeguata potenza e un follow-up maggiore saranno necessari per chiarire ulteriormente il ruolo dello stress psicologico nello scompenso cardiaco cronico. Circ Heart Fail, 2010;3(2):261-7 Adiponec t in a modific a geometria e funzione cardiac a Vari studi sembrano indicare che l'adiponectina possa essere connessa con la massa e la funzione del ventricolo sinistro (Lv), ma finora scarseggiavano sperimentazioni su campioni di dimensioni adeguate. Giungono ora i risultati di un trial del Karolinska Institutet di Stoccolma, volti a indagare tali associazioni in due ampie coorti di anziani. I ricercatori svedesi hanno valutato le relazioni trasversali tra l'adiponectina sierica e le misure ecocardiografiche di geometria e funzione cardiaca in 954 partecipanti di 70 anni d'età (50% donne) del Prospective investigation of the vasculature in Uppsala seniors (Pivus) e in 427 uomini di 71 anni d'età dell'Uppsala Longitudinal study of adult men (Ulsam). Nei modelli aggiustati per età, sesso, indice di massa corporea, pressione arteriosa sistolica, colesterolo Hdl, creatinina e fumo l'adiponectina è risultata inversamente associata con la frazione d'eiezione negli uomini, ma non nelle donne. Dopo aggiustamento addizionale per il peptide natriuretico cerebrale (NT-proBNP), l'associazione tra adiponectina e la frazione d'eiezione si è però attenuata. Dunque, le concentrazioni sieriche di adiponectina sono apparse effettivamente associate con la frazione d'eiezione negli uomini. «I nostri risultati» affermano gli studiosi «implicano che l'adiponectina possa essere associata con la funzione sistolica tramite vie metaboliche che coinvolgono i peptidi natriuretici». Eur J Endocrinol, 2010; 162(3):543-50 Nuovo an t ipertensivo a duplice azione Si chiama LCZ696, ed è il capostipite di una nuova classe di farmaci che inibiscono non solo il recettore dell'angiotensina II ma anche la neprilisina, una peptidasi coinvolta nella regolazione pressoria. Uno studio spagnolo ha ora voluto verificare se la duplice azione della nuova molecola determini realmente un'ulteriore riduzione pressoria rispetto a un "normale" inibitore del recettore dell'angiotensina II quale valsartan. Allo scopo, 1.328 pazienti di età compresa tra i 18 e i 75 anni con ipertensione da lieve a moderata sono stati assegnati in modo randomizzato in doppio cieco a 8 settimane di trattamento in uno di otto gruppi: 100 mg (n=156), 200 mg (n=169) o 400 mg (n=172) con LCZ696; 80 mg (n=163), 160 mg (n=166) o 320 mg (n=164) con valsartan; 200 mg con AHU377, un farmaco che blocca solo la neprilisina, (n=165) o placebo (n=173). La riduzione media della pressione diastolica in posizione seduta ottenuta con le tre dosi del nuovo farmaco rispetto ai dosaggi di confronto di valsartan è risultata nettamente superiore (riduzione media: -2,17 mmHg). In particolare, le differenze di riduzione pressoria sono risultate significative per LCZ696 200 mg rispetto a valsartan 160 mg (-2,97 mmHg) e per LCZ696 400 mg rispetto a valsartan 320 mg (-2,70 mmHg). Il duplice inibitore è apparso inoltre ben tollerato e non si sono registrati casi di angioedema. Paragonato al valsartan, concludono gli autori, l'LCZ696 grazie alla sua duplice azione offre una riduzione complementare e completamente additiva della pressione arteriosa, divenendo così una molecola promettente per il trattamento dell'ipertensione e della malattia cardiovascolare. Lancet, 2010 Mar 15. Cu ore, poco alc ol u t ile in prevenzione secondaria Il consumo moderato di alcol (uno o due bicchieri di vino al giorno o equivalenti) riduce in modo significativo il rischio di morte nei pazienti che sono già incorsi in un evento cardiovascolare. L'informazione emerge da una meta-analisi condotta da Simona Costanzo e collaboratori dell'Università Cattolica di Campobasso su otto studi che hanno seguito complessivamente 16351 pazienti con malattia vascolare ischemica registrando le loro abitudini di vita e la comparsa di nuovi eventi clinici. L'effetto protettivo dell'alcol è simile a quello già osservato nei soggetti sani, con una riduzione del rischio di eventi pari al 20%: in pratica un evento su cinque può essere evitato. Il dato di maggiore rilevanza clinica è che il beneficio si apprezza anche in termini di riduzione della mortalità per tutte le cause, oltre che cardiovascolare. I ricercatori dell'università molisana precisano che il consumo di alcol deve essere non solo moderato ma anche regolare come parte integrante delle abitudini alimentari mediterranee: la stessa quantità di alcol settimanale concentrata in soli due giorni non è salutare. Questi risultati - osservano inoltre gli autori - non devono essere interpretati come un invito a iniziare a bere alcol per le persone sane o malate. Si raccomanda piuttosto di discutere con il proprio medico la migliore opzione in termini di consumo di bevande alcoliche. J Am Coll Cardiol 2010; 55: 1339-1347 Iperaldosteron ismo: criteri di lat eral izzazione L'iperaldosteronismo primario (PA) è la forma più frequente di ipertensione endocrina, e rende ragione del 5-10% di tutte le ipertensioni. È importante riconoscerlo, considerato che i pazienti che ne sono affetti vanno incontro a maggiori eventi cardiovascolari rispetto agli ipertesi essenziali, ma è fondamentale distinguere tra la forma unilaterale, operabile, e quella bilaterale, da curare con terapia medica. La diagnosi di PA si ottiene col rapporto Aldosterone/PRA e con la TC, ma la diagnosi di lateralizzazione suscettibile di intervento si raggiunge solo col campionamento del sangue venoso surrenalico e purtroppo manca un accordo su quale sia la procedura più appropriata da utilizzare. In linea di massima si utilizzano campionamenti dell'aldosterone (A) plasmatico (o sierico) e del cortisolo (C) plasmatico nelle vene surrenaliche, nella cava inferiore (VCI) e/o in una vena periferica (VP): il confronto tra il C delle vene surrenaliche e periferiche permette una valutazione dell'adeguatezza e del successo dell'incanulazione delle vene surrenaliche. Ma alcuni centri utilizzano criteri più permissivi (Cvena surenalica/CVCI>1,1), altri più restrittivi (Cvena surrenalica/CVP>3,0 senza stimolazione con ACTH) o ancora più restrittivi con Cvena surenalica/CVCI>4,0) sotto stimolazione continua di basse dosi di ACTH. Per chiarire la questione, il gruppo di Mulatero di Torino, in collaborazione con un gruppo australiano, ha recentemente confrontato i vari metodi su un campione di 62 iperaldosteronismi in cui la diagnosi è stata confermata da due successivi esami (il primo non era stato soddisfacente). I ricercatori hanno riscontrato che esisteva una notevole disparità nei risultati ottenuti con i tre criteri (la concordanza tra i 3 criteri era solo del 32,3 %), e che l'attendibilità dei risultati era inversamente proporzionale alla severità del criterio adottato, ma soprattutto che i criteri permissivi avevano una scarsa riproducibilità diagnostica, per cui, secondo Mulatero, andrebbero evitati. Anche se, possiamo aggiungere, molto dipende dalla collaborazione da parte dei radiologi interventisti nelle diverse realtà operative. Hypertension 2010;55:667-673. Insorgenza diabete an t icipat a dal le stat in e? Sulla scorta di precedenti e non conclusivi lavori, un'interessante review apparsa sull'ultimo numero di Febbraio di Lancet ha valutato se la prospettata eventualità che l'utilizzo delle Statine potesse determinare un'insorgenza precoce di diabete fosse reale. La casistica presa in considerazione è stata ponderosa (più di 2.200 soggetti randomizzati al trattamento con statina vs analogo numero di soggetti di controllo, su di una popolazione globale di 91.000 pazienti) e derivata da studi qualitativamente eccellenti (13 RCT) con un follow up medio di 4 anni. La terapia con statine è risultata associata ad un aumento del 9% di rischio per diabete incidente (OR 1,09; 95% CI 1,02-1,17) specie nel subset dei soggetti più anziani, con un risultato assoluto di insorgenza di 1 nuova diagnosi di diabete ogni 255 soggetti trattati con statina per 4 anni. Tali risultati, concludono gli AA, pur dimostrando un modesto aumento di rischio di accelerare la comparsa di diabete indotto dalle statine, non devono in nessun modo far modificare gli attuali orientamenti circa l'utilizzo delle statine stesse per la prevenzione degli eventi cardio-vascolari. Lancet 2010;375(9716):700-701. Sospensione Warfarin dopo ablazione per FA Uno studio multicentrico non randomizzato suggerisce che sia sicuro interrompere la terapia anticoagulante orale da tre a sei mesi dopo ablazione trans-catetere della FA(1). Secondo questi dati, rispetto ai pazienti rimasti in terapia anticoagulante dopo l'ablazione, il tasso di incidenza di tromboembolia tra coloro che l'hanno interrotta non era significativamente diverso, e ciò anche nei pazienti a moderato-alto rischio tromboembolico basato sullo score di CHADS2 (Scompenso, Ipertensione, Diabete, Ictus/TIA). Gli autori hanno esaminato pazienti provenienti da cinque diversi centri che praticavano l'ablazione, valutando la sicurezza dello stop alla TAO dopo tre/sei mesi in 2.692 pazienti di ambo i sessi. Altri 663 pazienti, al contrario, continuavano la TAO a tempo indeterminato. Vi erano differenze significative, tra i pazienti rimasti in TAO e quelli che l'avevano sospesa, nel punteggio CHADS2 e nel tipo di FA. Tra i pazienti rimasti in TAO, il 72% ha proseguito a causa di recidive aritmiche, altri per disfunzione atriale sinistra, grave stenosi della vena polmonare o altre indicazioni. In un editoriale che accompagna lo studio (2) viene tuttavia sottolineato che questa è solo una ipotesi operativa da testare. Infatti, la scelta di proseguire o no la TAO è stata lasciata principalmente al medico curante e non era basata su precisi criteri guida. La maggioranza dei pazienti in studio (82%) non avrebbe avuto bisogno di TAO postablazione perché il loro punteggio CHADS2 era < 1. Fino all'esecuzione di trial clinici randomizzati standardizzati e controllati, gli editorialisti consigliano di attenersi alle linee guida HRS/EHRA/ECAS: la TAO è raccomandata per tutti i pazienti per almeno due mesi dopo l'ablazione; la decisione sul suo uso dopo due mesi rimane a discrezione del medico, e deve essere basata sul rischio per ictus e non sulla presenza o sul tipo di FA; inoltre la sospensione della TAO non è raccomandata nei pazienti con un punteggio di CHADS2 > 2. J Am Coll Cardiol 2010;55:735-743.