Defibrillatori, ruolo prognostico di Fa Più sincope con tachicardia

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Defibril l at ori, ruol o progn os t ic o di Fa
La fibrillazione atriale (Fa) avrebbe un ruolo importante nella prognosi di
pazienti sottoposti a impianto di defibrillatori cardiaci. Si tratta dei risultati di
uno studio apparso su Journal of American College of Cardiology che, oltre ad
analizzare la prevalenza dell'aritmia cardiaca, ha consentito di stabilire il valore
prognostico di differenti tipi di Fa in questi pazienti. L'indagine ha verificato la
presenza e il tipo di Fa in 913 pazienti (79% uomini, età media 62 ± 13 anni) che
avevano ricevuto defibrillatori impiantabili al Leiden University Medical Center.
Al momento dell'impianto, il 73% dei pazienti non mostrava storia di
fibrillazione; mentre Fa prossimale, persistente e permanente è stata riscontrata
nel 9%, 7% e 11% dei partecipanti, rispettivamente. Durante 833 ± 394 giorni di
follow-up, il 13% degli individui è deceduto; nel 25% il dispositivo cardiaco ha
funzionato in modo appropriato e nel 15% in modo errato. Individui con Fa
permanente hanno mostrato un rischio doppio di mortalità, aritmia ventricolare
e funzionamento inappropriato del dispositivo, mentre quelli con Fa prossimale
o persistente un rischio tre volte più elevato di malfunzionamento del
defibrillatore.
J Am Coll Cardiol, 2010; 55:879-885
Più sinc ope con t ac h ic ardia post urale
La sindrome della tachicardia posturale predisporrebbe allo sviluppo di sincope
più frequentemente dell'ipotensione ortostatica. I risultati sono il frutto di uno
studio apparso su America Journal of Medicine che ha utilizzato un database,
contenente referti clinici di 3.700 pazienti, per stabilire quale delle due
condizioni patologiche è più spesso associata a episodi sincopali. Alcuni
ricercatori del Neurologic Institute, University Hospitals Case Medical Center di
Cleveland, attraverso l'impiego del "head up tilt test" hanno effettuato diagnosi
di sincope nel 38% dei pazienti con tachicardia posturale, rispetto al 22% di
quelli con ipotensione ortostatica. Al contrario di quanto osservato negli
individui con ipotensione ortostatica, nei tachicardici la presenza di sincope
rivelata con il suddetto test è, inoltre, risultata correlata a storia clinica di
sincope nel 90% dei casi mentre l'assenza dell'evento sincopale soltanto nel
30%. «I nostri risultati invitano a informare tempestivamente tutti i pazienti
affetti da sindrome posturale dell'elevato rischio di sincope a cui sono esposti»
ha sottolineato O jha A., principale autore dell'indagine.
Am J Med. 2010 Mar;123(3):245-249
Caffè a pranzo con tro il diabete
Coloro che consumano caffè a ora di pranzo sono meno esposti al rischio di
sviluppare diabete di tipo 2. Lo hanno stabilito alcuni ricercatori brasiliani
prendendo in esame oltre 70mila donne francesi, d'età compresa tra 41 e 72
anni, le cui abitudini alimentari sono state seguite per oltre 11 anni. In breve,
nelle partecipanti che hanno consumato almeno una tazza di caffé durante la
pausa pranzo è stata riscontrata una riduzione del rischio di sviluppare la
patologia diabetica di circa il 30% rispetto alle donne non consumatrici. Gli
autori, però, sottolineano che per osservare l'effetto protettivo del caffé, la
bevanda deve essere consumata rigorosamente senza nessuna aggiunta di altre
sostanze, nemmeno di latte. «Non siamo ancora in grado di capire il
meccanismo alla base della protezione offerta da questa bevanda nei confronti
del diabete, ma il fatto che l'effetto si osservi solo se il caffé viene bevuto
all'ora di pranzo lascia ipotizzare che ci sia qualche legame con il tipo di cibo
consumato in questo momento della giornata» ha commentato Daniela S.
Sart orell i, principale autore dell'indagine.
Am J Clin Nutr. 2010 Feb 10.
Asa n on previene event i Cv con basso Abi
Un basso indice caviglia-braccio (Abi) è indicativo di aterosclerosi e di
aumentato rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari. Lo screening per
un ridotto Abi può identificare un rischio asintomatico potenzialmente utile per
trattamenti preventivi. Allo scopo è stato condotto uno studio per verificare
l'efficacia in tal senso dell'Asa in una popolazione generale, controllata in doppio
cieco dall'aprile 1998 all'ottobre 2008 coinvolgente 28.980 soggetti di età
compresa tra i 50 e i 75 anni residenti nella Scozia centrale, senza malattia
cardiovascolare. L'endpoint primario era un composto di evento coronarico
fatale iniziale o non fatale o stroke o rivascolarizzazione. Due endpoint
secondari erano tutti eventi vascolari iniziali definiti come composti di eventi
primari o angina, claudicatio intermittens o attacco ischemico transitorio e
mortalità da ogni causa. Dopo un follow-up medio di 8,2 anni, 357 partecipanti
hanno avuto un evento primario; nessuna differenza statisticamente significativa
si è riscontrata tra gruppo Asa e gruppo placebo (13,7 vs 13,3). All'interno dei
partecipanti con malattie cardiovascolari, identificati con un basso Abi in uno
screening su una popolazione generale, la somministrazione di Asa rispetto al
placebo non è risultata in una significativa riduzione di eventi vascolari.
Jama, 2010; 303(9):841-848
Nuovo test predit t ivo di risch io cardiac o
Il nuovo test dell'emoglobina A1C predice il diabete così come il test di digiuno,
ma supera il vecchio standard nel predire il rischio di un rischio futuro di
malattia cardiaca e ictus. Il test A1C è noto anche come test dell'emoglobina
glicata; usando un piccolo campione ematico, misura la media dei livelli dei duetre mesi pregressi. «I nostri dati mostrano che l'emoglobina glicata è un fattore
davvero potente per il diabete e la malattia cardiovascolare. Se si hanno valori
anomali di emoglobina glicata, il paziente dovrebbe essere oggetto di interventi
decisi" afferma E liz a be th Sel vin, assistente di epidemiologia e medicina al
dipartimento di epidemiologia alla Johns Hopkins Blomberg School of Public
Health a Baltimore. In gennaio l'American diabetes association (Ada) ha
raccomandato che i medici dovrebbero iniziare a utilizzare il test A1C per la
diagnosi del diabete; precedentemente il test non era stato raccomandato
perché non era stato standardizzato da un laboratorio all'altro. L'Ada ha
stabilito il livello per la diagnosi del diabete a 6,5% o superiore e quella di prediabete a livelli tra 5,7 e 6,4%. L'A1C% è il valore di emoglobina di una persona
che risulta glicata o glicosilata.
New England journal of medicine, 2010; 4 marzo
R os uvast at in a in pazien t i renal i con elevat a creat t iva
Rosuvastatina riduce il rischio di eventi cardiovascolari e mortalità in individui
con colesterolo Ldl inferiore a 130 mg/dl, elevati livelli di proteina c-reattiva ad
alta sensibilità (hsCrp) e concomitante presenza di insufficienza renale
moderata. L'indagine, pubblicata su Journal of the American college of
cardiology è stata condotta all'interno del trial Jupiter (Justification for the use
of statins in prevention-an intervention trial evaluating rosuvastatin) che
confrontava l'efficacia della statina in uomini e donne senza problemi
cardiovascolari, con i suddetti livelli di colesterolo Ldl e hsCrp pari o superiore a
2 mg/l. Paul M Ridker del Center for cardiovascular disease prevention, brigham
and women's hospital di Boston, ha inteso verificare l'effetto di rosuvastatina
sugli outcome cardiovascolari in pazienti inizialmente affetti da insufficienza
renale moderata che, rispetto a persone con velocità di filtrazione glomerulare
pari o superiore a 60 ml/min/1,73 m2, hanno mostrato un'incidenza più elevata
di eventi vascolari (hazard ratio = 1,54). Dopo un follow-up medio di 1,9 anni,
nei soggetti con problemi renali, l'impiego della statina è risultato associato a
una riduzione del 45% del rischio di infarto del miocardio, ictus,
ospedalizzazione per angina instabile, rivascolarizzazione e morte
cardiovascolare (hr = 0,55) e del 44% di decesso per qualsiasi causa (hr = 0,56).
J Am Coll Cardiol, 2010 Mar 3
Vit amin a D ininf l uen te sul cuore
Secondo una metanalisi apparsa su Annals of internal medicine, in letteratura
sono presenti dati limitati che dimostrino come supplementazioni di vitamina D
possano ridurre il rischio di malattie cardiovascolari. L'indagine ha, inoltre,
consentito di definire che l'apporto dietetico di calcio ha minimi effetti sugli
outcome cardiovascolari. H oward D. Sesso e collaboratori, presso la Division
of Preventive Medicine, Brigham and Women's Hospital di Boston, hanno
selezionato e analizzato 17 studi prospettici e alcuni trial randomizzati che
erano stati pubblicati tra il 1966 e il 2009 nei database Medline, Embase e
Cochrane Central Register of Controlled Trials. Soltanto cinque studi prospettici
riguardanti pazienti in dialisi e un trial relativo alla popolazione generale hanno
evidenziato riduzioni consistenti della mortalità cardiovascolare in individui
adulti sottoposti a integrazione dietetica di vitamina D. Al contrario, quattro
studi prospettici, che avevano reclutato persone inizialmente sane, non hanno
mostrato alcuna differenza nell'incidenza di problemi cardiovascolari tra
soggetti che arricchivano la propria alimentazione con supplementi di calcio e
coloro che non lo facevano.
Annals of Internal Medicine 2010 152, 5, 315-323
Funzione renale ridot t a met te il cu ore in
pericol o
Una ridotta funzione renale si associa a un rischio maggiore di patologie
cardiovascolari. Dai dati disponibili in letteratura, comunque, non è chiaro se sia
possibile utilizzare i valori di un declino dinamico del tasso stimato di filtrazione
glomerulare (eGFR) per predire eventi vascolari, venendo a costituirsi così un
utile biomarker di malattia aterotrombotica. Per testare l'ipotesi che una
riduzione di tale parametro sia indicativo di rischio cardiovascolare in una
popolazione ad alto rischio di pazienti con coronarie caratterizzate
angiograficamente, è stato condotto uno studio da quattro centri, due austriaci,
uno del Liechtenstein e uno di Philadelphia (Usa). È stato calcolato l'eGFR
mediante l'equazione Mayo clinica quadratica all'inizio dello studio e dopo due
anni in una popolazione ad alto rischio di 400 uomini sottoposti
consecutivamente a coronarografia, dei quali 355 erano coronaropatici. Gli
eventi vascolari sono stati registrati per 6 anni. Al termine del trial è emerso che
una riduzione seriale della funzione renale dall'inizio dello studio alla visita di
controllo a due anni di distanza prediceva in modo significativo gli eventi
vascolari nei 4 anni successivi in modo indipendente dal valore di base
dell'eGFR. Questo risultato si è mantenuto affidabile anche dopo aggiustamento
per età, indice di massa corporea, ipertensione, diabete, colesterolemia-Ldl,
colesterolemia-Hdl, fumo e proteina C reattiva ad alta sensibilità. Il potere
predittivo della diminuzione dell'eGFR è stato confermato anche dopo ulteriore
aggiustamento per la presenza di coronaropatia all'inizio del trial. Nel modello
finale, una diminuzione di 10 ml/min/1,73 m2 di eGFR ha conferito in modo
indipendente un aumento del 31% di rischio di eventi cardiovascolari.
Atherosclerosis. 2010 Mar 1.
Effet t i cardiovascol ari dell a riduzione del sale
Negli USA si stima che il consumo di sodio sia molto elevato, nonostante le
raccomandazioni delle autorità sanitarie che consigliano di seguire diete che ne
siano povere (fino ad un introito ideale di 3,7 g/die), si stima che se ne consumi
molto di più: gli uomini più di 10 g e le donne più di 7 g/die, e queste quantità
sono in aumento. Ciò anche a causa del preconfezionamento dei cibi, che è
responsabile del 75-80% del sale introdotto. Utilizzando il Coronary Heart
Disease (CHD) Policy Model, una simulazione al computer della malattia cardiaca
in individui dai 35 agli 84 anni e un'estensione del modello allo stroke, alcuni
ricercatori californiani hanno stimato gli effetti potenziali di una modesta
riduzione dell'apporto sodico in differenti segmenti della popolazione americana
definiti per età, sesso e razza, confrontandolo con quelli di altri interventi tesi a
ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e determinandone il rapporto costo
beneficio. Si è visto che riducendo il sale di 3 g/die si potrebbe ottenere una
riduzione stimata del numero annuale di CHD da 60.000 a 120.000, dello stroke
da 32.000 a 66.000 e dell'infarto da 44.000 a 92.000 e del numero di morti per
ogni causa da 44.000 a 92.000. Ne beneficerebbero tutti i segmenti della
popolazione, quella nera in proporzione maggiore; nelle donne si verificherebbe
una maggiore riduzione dello stroke, negli anziani degli eventi CHD, mentre nei
più giovani delle morti. Nel complesso in questo modello gli effetti della
riduzione del sale sono paragonabili a quelli della riduzione del tabacco,
dell'obesità, del colesterolo e, pur con i limiti costituiti da un modello
prospettico per di più incentrato solo sulla riduzione della pressione arteriosa, si
può calcolare che un intervento regolatore mirato a ridurre l'introito di sale di 3
g/die possa salvare da 194.000 a 392.000 anni di vita quality-adjusted e
ottenere un risparmio annuo della spesa sanitaria da 10 a 24 miliardi di dollari.
Ma basterebbe molto meno: se solo si riducesse l'apporto sodico di 1 g/die, nel
decennio 2010-2019 si potrebbe ottenere un miglior rapporto costo beneficio
dell'uso dei farmaci antipertensivi.
Bibbins N Engl J Med. 2010;362:590-9.
W arfarin sot t o-prescrit t o nel l a Fa che
complic a la Sc a
In uno studio apparso su American Journal of Medicine di febbraio 2010, il
warfarin è risultato essere sotto-prescritto quando la SCA è complicata da FA.
L'uso del warfarin è stato valutato - insieme all'outcome a 6 mesi - in 917
pazienti che hanno sviluppato FA come complicanza intra-ospedaliera di SCA.
Questi pazienti sono stati selezionati tra i 23.208 partecipanti a tre grandi studi:
PURSUIT, PARAGON-A e SYNERGY.
Complessivamente 124 pazienti (13,5%) hanno ricevuto la prescrizione di
warfarin alla dimissione ospedaliera. Il rischio di ictus cardioembolico, valutato
secondo lo score CHADS2 (insufficienza cardiaca congestizia, ipertensione, età
superiore ai 75 anni, diabete, pregresso stroke/attacco ischemico transitorio),
non ha avuto impatto evidente sulla probabilità di prescrizione del warfarin. I
tassi di utilizzo del warfarin sono stati: 13% nei pazienti con un punteggio di 0
(su una scala da 0 a 6), 14% per score 1 e 13% per i punteggi di 2 o più.
Anche il rischio di sanguinamento sembra non avere alcuna influenza
sull'indicazione al warfarin: infatti, è stato prescritto nell'11,9% dei pazienti senza
fattori di rischio emorragico, nel 13,3% di quelli con 1 o 2 fattori di rischio e
nell'11,1% di quelli con 3 o 4 fattori di rischio.
Gli autori hanno rilevato che un punteggio CHADS2 uguale o superiore a 2 è
associato ad un più alto rischio di morte o di infarto miocardico a 6 mesi.
Paradossalmente i pazienti che hanno ricevuto warfarin avevano un rischio
significativamente più basso di morte o di infarto miocardico a 6 mesi (HR
0,39; p = 0,04). In conclusione, pur essendo il warfarin associato ad un miglior
outcome a sei mesi, nei pazienti con FA complicante la SCA la sua prescrizione
non è condizionata né dallo score CHADS2 né da quello di sanguinamento.
Am J Med. 2010;123 (2):134-140
Ipertensione: cost o/benef ic io
trat t and o l'anzian o
Prevenire e trattare l'ipertensione è una grande sfida per la salute pubblica,
considerato il suo ruolo preminente come fattore di rischio cardiovascolare. E
di fronte al grande numero di morti dovute a cause ischemiche cardiache o
cerebrali bisogna considerare che almeno nella metà dei casi si tratta di
soggetti sopra gli 80 anni: eppure i dati su questo tipo di popolazione sono
relativamente scarsi, e anche contrastanti. Ciò almeno fino a che non è stato
pubblicato il "Hypertension in the Very Elderly Trial" (HYVET): in questo studio il
trattamento con indapamide SR, associata o no a perindopril, ha dimostrato
una riduzione del 30% degli stroke fatali e non fatali e una riduzione del 39% del
tasso di morte per stroke, tanto che lo studio è stato interrotto per ragioni
etiche. Anche i tassi di morte per tutte le cause e per cause cardiovascolari si
sono ridotti rispettivamente del 21 e 23%. Lo scompenso (HF) addirittura del
64%. Un gruppo di ricercatori svizzeri ha applicato questi risultati al loro
sistema sanitario per valutare il rapporto costo beneficio della terapia
antipertensiva nel grande anziano. Si è visto che il trattamento dell'ipertensione
provoca un miglioramento dei costi di 37 franchi svizzeri per paziente per 2
anni e una spettanza di vita addizionale di 0,0457 anni per paziente riducendo il
rischio relativo di morte per stroke, cardiopatia ischemica (CHD), HF.
Certamente la traslazione ad una popolazione relativamente omogenea, come
quella svizzera, di uno studio condotto su 13 diversi Paesi quale è l'HYVET
risente di una forte limitazione metodologica, ma se si considera che i
ricercatori svizzeri non hanno valutato l'impatto favorevole della terapia sulle
funzioni cognitive, già dimostrato da altri, e se si considera l'alto costo di questa
complicazione dell'ipertensione, il rapporto costo beneficio nel grande anziano
che emerge da questo studio potrebbe essere ancora più favorevole.
Journal of Human Hypertension 2010;24:117-123.
R isch io cardiovascol are con TOS
Finanziato dal National Heart, Lung, and Blood Institute Americano, il the
Women's Health Iniziative, studio randomizzato in doppio cieco vs placebo
condotto secondo la metodica dell'intention-to-treat analyses, ha voluto
verificare se l'aumentato rischio di malattia coronarica indotto dal trattamento
estro-progestinico "sostitutivo" (TOS) riportato da altri studi in particolare dal
The Nurses' Health Study, fosse presente e/o condizionato dal tempo di utilizzo
del farmaco e/o dal suo utilizzo tardivo dopo la menopausa.
La ricerca ha interessato gli anni 1993-1998. Sono stati coinvolti 40 centri
clinici statunitensi per un totale di più di 16.500 donne in postmenopausa di età
fra i 50 ed i 79 anni con ancora l'utero. Di queste, più della metà (8.506) sono
state randomizzate per l'assunzione di 0,625 mg di estrogeni coniugati equini +
2,5 mg di medrossiprogesterone acetato/die verso placebo. Durante il follow
up, nelle 8.506 donne che erano in TOS si sono verificati 188 eventi coronarici
(80 nei primi 2 anni di terapia) rispetto ai 147 (51 nei primi 2 anni) delle 8102
donne che non assumevano l'estro-progestinico, con un Hazard Ratio per
l'insorgenza di malattia coronarica di 2,36 (95% CI 1,55-3,62) nei primi 2 anni di
terapia e di 1,69 (95% CI, 0,98-2,89) nei primi 8 anni di trattamento. Nelle 2,782
donne che avevano iniziati la TOS entro 10 anni dall'inizio della menopausa si
sono verificati 31 eventi coronarici (14 nei primi 2 anni) rispetto ai 34 (12 nei
primi 2 anni) delle 2,712 donne che avevano assunto il placebo con un HR di
1,29 (95% CI 0,52-3,18) per i primi 2 anni e di 0,64 (95% CI 0,21-1,99) per i
primi 8 anni. Il valore della p per le differenze nelle curve di comparsa degli
eventi coronarici fra le donne in TOS e quelle in placebo è risultato di 0,057 per
l'intera casistica, di 0,44 e di 0,011 rispettivamente per le donne che avevano
iniziato il trattamento entro i primi e dopo i 10 anni dalla menopausa, con un
valore della p per la variazione del HR durante il follow-up di 0,038. Il tempo di
crossover medio fra una curva e l'altra era stimabile intorno ai 6 anni di
trattamento (95% CI, da 2 a 10 anni). Nel confermare quindi l'assenza di
qualsiasi effetto protettivo della TOS, che anzi può determinare un aumentato
rischio di eventi coronarici qualora iniziata dopo i 10 anni dalla menopausa, lo
studio rileva tuttavia che nel subset di donne che hanno iniziato la TOS
precocemente, si può avere un piccolo e non significativo effetto
cardioprotettivo ma solamente dopo 6 anni di trattamento.
Ann Intern Med. 2010;152(4):211-17.
Inf art o, warfarin n on migl iora ou t c ome
Dopo infarto miocardico, l'impiego di anticoagulanti orali (Oac), con o senza
acido acetilsalicilico (Asa), non riduce l'incidenza né di mortalità né di nuovi
episodi infartuali, anche se abbassa quella di ictus. Sono questi i risultati di
un'ampia analisi che ha voluto chiarire rischi e benefici legati all'utilizzo a lungo
termine di questi farmaci in pazienti colpiti da infarto. S orin J. Brener e
collaboratori della Division of Cardiology, New York Methodist Hospital,
Brooklyn hanno preso in considerazione dieci trial randomizzati, riguardanti
oltre 24mila pazienti infartuati, che mettevano a confronto regimi con warfarin,
con o senza acido acetilsalicilico, con trattamenti che non prevedevano il
ricorso ad anticoagulanti orali, sempre in presenza o in assenza di Asa. Gli autori
hanno registrato mortalità nel 9,9% dei partecipanti, con un numero di decessi
nel gruppo trattato con gli Oac molto simile a quello senza Oac (odds ratio =
0,97). Lo stesso andamento si è registrato per quanto riguarda la ricorrenza di
eventi infartuali. Significativa è stata, invece, la diminuzione dei casi di ictus in
seguito all'impiego di warfarin (or = 0,75) anche se sono aumentati i casi di
emorragia (or = 1,83).
Am J Med. 2010 Mar;123(3):250-258.
Bet a blocc an t i spesso con troind ic at i con Tc
coron arica
L'impiego di beta bloccanti non è indicato in tutti pazienti che devono eseguire
un esame coronarico mediante Tc. A stabilirlo sono alcuni ricercatori olandesi in
uno studio pubblicato su American Journal of Cardiology, che ha verificato
efficacia ed effetti collaterali di questi farmaci solitamente impiegati per ridurre
la frequenza cardiaca e, conseguentemente, migliorare la qualità delle immagini
durante la Tac. Per 537 individui da sottoporre a Tc coronarica, sono stati
misurati i valori basali di frequenza cardiaca, pressione arteriosa ed eventuali
controindicazioni ai beta bloccanti. Nei pazienti senza controindicazioni e
frequenza cardiaca pari o superiore a 65 battiti/minuto è stata somministrata
una singola dose orale di metopropolo, un'ora prima dell'esame. Nel 27% di
questi pazienti non è stato raggiunto il valore target di frequenza cardiaca,
rispetto al 60% di quelli che non hanno potuto assumere il farmaco. Senza
betabloccanti o con dosi subottimali, la percentuale di immagini Tac di elevata
qualità è risultata inferiore rispetto ai pazienti con controllo ottimale della
frequenza cardiaca (40% vs 74%). «Poiché l'impiego di beta-bloccanti risulta
pericoloso in un'elevata percentuale di pazienti da sottoporre a Tc coronarica
sarà necessario avere a disposizione approcci alternativi in grado di ridurre la
frequenza cardiaca» ha dichiarato F leur R. de Graaf, principale autore dello
studio.
American Journal of Cardiology, 2010 Feb 8
Defibril la t or i, ru ol o pr ogn ost ic o di Fa
La fibrillazione atriale (Fa) avrebbe un ruolo importante nella prognosi di
pazienti sottoposti a impianto di defibrillatori cardiaci. Si tratta dei risultati di
uno studio apparso su Journal of American College of Cardiology che, oltre ad
analizzare la prevalenza dell'aritmia cardiaca, ha consentito di stabilire il valore
prognostico di differenti tipi di Fa in questi pazienti. L'indagine ha verificato la
presenza e il tipo di Fa in 913 pazienti (79% uomini, età media 62 ± 13 anni) che
avevano ricevuto defibrillatori impiantabili al Leiden University Medical Center.
Al momento dell'impianto, il 73% dei pazienti non mostrava storia di
fibrillazione; mentre Fa prossimale, persistente e permanente è stata riscontrata
nel 9%, 7% e 11% dei partecipanti, rispettivamente. Durante 833 ± 394 giorni di
follow-up, il 13% degli individui è deceduto; nel 25% il dispositivo cardiaco ha
funzionato in modo appropriato e nel 15% in modo errato. Individui con Fa
permanente hanno mostrato un rischio doppio di mortalità, aritmia ventricolare
e funzionamento inappropriato del dispositivo, mentre quelli con Fa prossimale
o persistente un rischio tre volte più elevato di malfunzionamento del
defibrillatore.
J Am Coll Cardiol, 2010; 55:879-885
Linee gu ida per valu t are il rischio dell a
coron aropat ia
Alla Duke university di Durham (Usa) le linee guida per il triage del paziente
sottoposto a cateterismo cardiaco raccomandano la valutazione del rischio e un
test non invasivo. Sono stati validati allora i pattern di valore diagnostico per
soggetti con sospetta coronaropatia, coinvolgendo 663 ospedali tra il 2004 e il
2008. I fattori di rischio e i sintomi dei pazienti sono risultati correlati con la
presenza di malattia ostruttiva coronarica, definita quale stenosi del 50% o più
del diametro dell'arteria principale sinistra o di 70% o più del diametro di un
vaso maggiore epicardico. In tutto sono stati inclusi nello studio 398.978
pazienti, con età mediana di 61 anni, 52,7% maschi, 26,0% diabetici. Il test non
invasivo fu eseguito nell'83,9% dei pazienti e al cateterismo il 37,6% di questi
aveva malattia ostruttiva coronarica. Una mancanza di patologia coronarica è
stata riportata nel 39,2% dei soggetti. Fattori predittivi indipendenti di malattia
coronarica ostruttiva includono il sesso maschile, l'età avanzata, la presenza di
diabete insulino-dipendente e di dislipidemia. in conclusione, una quota
lievemente superiore di un terzo senza malattia nota e sottoposta a cateterismo
elettivo ebbe una coronaropatia ostruita non diagnosticata. Sembrano pertanto
utili strategie migliori di stratificazione del rischio.
N Engl J Med, 2010;362(10):886-95
Un sart an o riduce gli ateromi coron aric i
Alcuni studi condotti con ecografia carotidea intravascolare (Ivus) hanno
documentato un rallentamento della progressione dell'ateroma grazie
all'assunzione di alcuni farmaci, ma non si sono avuti dati convincenti di tale
regressione con agenti bloccanti il recettore dell'angiotensina II, molecole
prescritte in pazienti con angina pectoris stabile. A colmare tale lacuna arriva
uno studio giapponese, prospettico, randomizzato e multicentrico, denominato
Olivus (Impact of olmesartan on progression of coronary atheroslerosis:
evaluation by IntraVascular UltraSound). Questo trial è stato condotto su 247
pazienti affetti da angina pectoris stabile e patologia coronarica nativa. Quando
questi pazienti sono stati sottoposti a intervento transcutaneo di lesioni, l'Ivus è
stata effettuata nei vasi non colpiti (senza stenosi angiograficamente
documentate <50%). I pazienti sono stati assegnati in modo randomizzato a
ricevere da 10 a 40 mg di olmesartan o controllo e trattati con una
combinazione di beta-bloccanti, calcio-antagonisti, diuretici, nitrati e/o statine.
Gli esami seriali Ivus (all'inizio dello studio e a un follow-up di 14 anni) sono stati
effettuati per valutare il volume dell'ateroma coronarico. L'analisi volumetrica ha
compreso il lume, la placca, il volume del vaso, il volume percentuale
dell'ateroma (Pav), il cambio percentuale nel volume totale dell'ateroma (Tav).
Ed ecco i risultati: le caratteristiche dei pazienti e il controllo della pressione
arteriosa erano identici tra i due gruppi; in ogni caso, il follow-up Ivus ha
mostrato una Tav significativamente ridotta e un cambio percentuale nella Pav
del gruppo olmesartan. Queste osservazioni, concludono gli autori,
suggeriscono un ruolo positivo nella riduzione della progressione dell'ateroma
coronario grazie all'assunzione di olmesartan.
J Am Coll Cardiol, 2010; 55(10):976-982
Inf art o: ridot t o risch io trombot ic o da Asa
La mancanza di reflusso miocardico può impedire di cogliere il beneficio di una
rivascolarizzazione coronarica urgente in pazienti con infarto miocardico a
elevazione acuta del tratto St (Stemi). Tra i meccanismi patogenetici coinvolti,
l'embolizzazione distale è di importanza prominente e vari studi hanno mostrato
che un alto carico coronarico trombotico è associato con l'embolizzazione
distale. Uno studio svolto all'Istituto di cardiologia dell'Università Cattolica del
Sacro Cuore di Roma, ha cercato di definire gli elementi predittivi di grado
trombotico angiografico in pazienti sottoposti a intervento coronarico
percutaneo. Novantanove soggetti (62 12 anni, uomini nel 79%) ricoverati per
un primo Stemi e sottoposti a coronarografia urgente entro 12 ore dall'inizio
dei sintomi, sono stati inclusi consecutivamente nello studio. Il grado del trombo
è stato valutato dall'angiografia sulla base del punteggio Gibson e i pazienti
sono stati collocati ad alto grado trombotico (4 o 5) o basso grado (da 0 a 3).
Le variabili predittive del grado angiografico del trombo sono state stabilite
mediante dati clinici, angiografici, procedurali e di laboratorio. 64 pazienti (di
età 61 12, 78% uomini) si sono presentati con un grado alto, laddove 27
pazienti (63 10, 80% uomini) avevano un grado basso. I soggetti con un grado
alto mostravano una conta di cellule bianche significativamente superiore e la
terapia con acido acetilsalicilico (Asa) e beta-bloccanti prima dell'ammissione
era meno frequentemente assunta. All'analisi multivariata, la cessazione della
terapia precedente con Asa era il solo fattore predittivo indipendente di alto
rischio trombotico. In conclusione, sostengono gli autori, una precedente
terapia con Asa è associata con una riduzione del grado trombotico
angiografico in pazienti con Stemi trattati con intervento primario percutaneo e
questo ulteriormente impone gli sforzi per un appropriato uso dell'Asa nella
prevenzione primaria del primo Stemi.
Am J Cardiol, 2010; 105(5):587-91
Più sinc ope con t ac h ic ardia post urale
La sindrome della tachicardia posturale predisporrebbe allo sviluppo di sincope
più frequentemente dell'ipotensione ortostatica. I risultati sono il frutto di uno
studio apparso su America journal of medicine che ha utilizzato un database,
contenente referti clinici di 3.700 pazienti, per stabilire quale delle due
condizioni patologiche è più spesso associata a episodi sincopali. Alcuni
ricercatori del Neurologic institute, University hospitals case medical center di
Cleveland, attraverso l'impiego del "head up tilt test" hanno effettuato diagnosi
di sincope nel 38% dei pazienti con tachicardia posturale, rispetto al 22% di
quelli con ipotensione ortostatica. Al contrario di quanto osservato negli
individui con ipotensione ortostatica, nei tachicardici la presenza di sincope
rivelata con il suddetto test è, inoltre, risultata correlata a storia clinica di
sincope nel 90% dei casi mentre l'assenza dell'evento sincopale soltanto nel
30%. «I nostri risultati invitano a informare tempestivamente tutti i pazienti
affetti da sindrome posturale dell'elevato rischio di sincope a cui sono esposti»
ha sottolineato Ojha A., principale autore dell'indagine.
Am J Med. 2010 Mar;123(3):245-249
Deficit cardiac o da disfu nzione met abol ic a
Alterazioni dello stato energetico del miocardio possono essere presenti in
maniera asintomatica in individui giovani con diabete mellito di tipo 1 non
complicato. A stabilirlo è uno studio pubblicato su Circulation che ha, inoltre,
evidenziato che queste alterazioni sono indipendenti dalla durata della patologia
diabetica e sono attribuibili a problemi metabolici piuttosto che a disfunzioni
microvascolari. Alcuni ricercatori dell'Università di Zurigo hanno preso in esame
25 soggetti asintomatici affetti da diabete di tipo 1 e altrettanti individui sani
(età media = 33 /-8 anni). I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi in base al
momento in cui era stato diagnosticato il diabete, ossia diagnosi recente
(inferiore a 5 anni) e di vecchia data (superiore a 10 anni). In sintesi, rispetto ai
controlli, il rapporto fosfocreatina/gamma-Atp è risultato significativamente
ridotto sia nei diabetici con diagnosi recente (2,1 /-0,5 vs 1,6 /-0,2; p<0,000) sia
in quelli con storia di diabete più lunga (2,1 /-0,5 vs 1,5 /-0,4; p<0,000). In
aggiunta, in quest'ultimo gruppo, l'indice di riserva del flusso coronarico è
apparso inferiore a quello dei soggetti sani (1,7 /-0,6 vs 2,3 /-0,4; p = 0,005).
Nessuna correlazione è stata osservata tra rapporto fosfocreatina/gamma-Atp
e indice di riserva del flusso coronarico.
Circulation. 2010 Mar 1.
Fibrat i e stat ine, combin azione poc o efficace
La somministrazione contemporanea di fenofibrato e simvastatina non riduce
l'incidenza di eventi cardiovascolari, rispetto a monoterapie con la statina, in
pazienti diabetici ad alto rischio. A stabilirlo è H enry N. Ginsberg del
Department of Medicine, Columbia University College of Physicians and
Surgeons di New York nell'ambito del trial Accord (Action to control
cardiovascular risk in diabetes). L'indagine, pubblicata su New England journal of
medicine, ha considerato oltre 5.500 pazienti affetti da diabete di tipo 2,
sottoposti al trattamento con simvastatina, che sono stati randomizzati a
ricevere fenofibrato oppure placebo. Dopo un follow-up medio di 4,7 anni, il
tasso annuale di episodi cardiovascolari fatali, infarto del miocardio e ictus non
fatale è risultato pari a 2,2% con il farmaco antilipidico e di 2,4% con il placebo
(hazard ratio = 0,92). Anche l'incidenza di mortalità è apparsa molto simile tra i
due gruppi ( 1,5% vs 1,6%; hr = 0,91). Analisi riguardanti specifici sottogruppi di
pazienti hanno, poi, suggerito una grande eterogeneità nella risposta al
trattamento in base al sesso e al contenuto plasmatico di lipidi. In particolare,
potrebbero verificarsi effetti dannosi nelle donne e benefici negli uomini e negli
individui con elevati livelli di trigliceridi e bassa concentrazione di colesterolo
Hdl.
Nejm 2010,2010 Mar. 14
Diabete 2: nessun van t aggio da sistol ic a
bassa
Ridurre la pressione sistolica, al di sotto del valore di 120 mmHg, non abbassa il
rischio di eventi cardiaci maggiori in individui affetti da diabete mellito di tipo 2
e con elevato rischio cardiovascolare. Queste le conclusioni di un'indagine
facente parte dell'Accord (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes)
trial. Lo studio pubblicato su New england journal of medicine e coordinato da
William C. Cushman del Veterans Affairs Medical Center di Memphis ha
randomizzato 4.733 diabetici a terapie antiipertensive intense, mirate al
raggiungimento di un valore di pressione sistolica inferiore a 120 mm Hg,
oppure ad approccio standard con un valore target minore di 140 mmHg. Endpoint primario dello studio era rappresentato dal tasso d'infarto del miocardio
non fatale, ictus non fatale e decessi da ogni causa cardiovascolare. In
conclusione, dopo un anno di follow-up, l'incidenza annuale dell'outcome
principale è risultata di 1,87% nel gruppo con trattamento intensivo e di 2,09%
in quello standard (hazard ratio = 0,88) mentre quella di mortalità di 1,28% e
1,19% nei due gruppi, rispettivamente (hr = 1,07). Seri eventi avversi, attribuibili
alle terapie antiipertensive, sono stati registrati nel 3,3% dei pazienti trattati e
nell'1,3% di quelli curati in modo convenzionale.
Nejm 2010, published online Mar. 14,
S t en t a elu izione di sirol imus e zot arol imus a
confron t o
Nei pazienti a basso rischio, lo stent a eluizione di zotarolimus ha mostrato di
ridurre i tassi di restenosi senza aumentare il rischio di trombosi. Uno studio
danese ha confrontato l'efficacia e la sicurezza di questo stent con quello a
eluizione di sirolimus in soggetti coronaropatici sottoposti a cure routinarie. I
pazienti sono stati trattati in uno dei cinque centri di intervento coronarico
percutaneo, in un periodo compreso tra il gennaio del 2006 e l'agosto del 2007.
Un metodo computerizzato ha stabilito la randomizzazione per l'uso di uno dei
due tipi di stent. Al termine, 1.162 pazienti sono stati assegnati a ricevere quello
allo zotarolimus e 1.170 quello allo sirolimus. 2.200 pazienti hanno completato il
follow-up previsto a 18 mesi. A nove mesi, l'endpont primario (definito come un
insieme di eventi avversi cardiaci maggiori, quali morte cardiaca, infarto del
miocardio e rivascolarizzazione dei vasi bersaglio) è stato raggiunto in
proporzione superiore tra i pazienti trattati con lo stent zotarolimus rispetto a
quelli trattati con quello sirolimus (72% vs 34%). Al 18° mese, la differenza si è
amplificata (113 vs 53). La mortalità per tutte le cause a 9 mesi nei due gruppi
è risultata simile, ma il follow-up a 18 mesi è risultato significativamente
differente nei gruppi zotarolimus rispetto a quello sirolimus (51 vs 32,
rispettivamente). L'interpretazione finale è univoca: lo stent a eluizione di
sirolimus è superiore a quello a eluizione di zotarolimus per i pazienti che
ricevono cure cliniche di routine.
Lancet. 2010 Mar 13.
R isch io insu l in oresistenza con at orvast at in a
Vari studi clinici suggeriscono che alcuni trattamenti con statine possono
aumentare l'incidenza di diabete nonostante vi sia una riduzione della
colesterolemia Ldl e un miglioramento della funzione endoteliale. Ricercatori
coreani della Gachon University hanno allora voluto verificare se l'atorvastatina
potesse ridurre la sensibilità all'insulina e aumentare la glicemia ambientale in
pazienti ipercolesterolemici. È stato svolto uno studio randomizzato, a singolo
cieco, controllato con placebo e parallelo in 44 soggetti che assumevano
placebo e 42, 44, 43 e 40 pazienti che prendevano ogni giorno 10, 20, 40 e 80
mg, rispettivamente, di farmaco per un periodo di 2 mesi di trattamento.
L'atorvastatina nei dosaggi crescenti ha ridotto in modo significativo il
colesterolo LDL (39%, 47%, 52% e 56%, rispettivamente) e i livelli di
apolipoproteina B (33%, 37%, 42% e 46%, rispettivamente) dopo due mesi di
terapia, quando comparato sia con i valori iniziali sia con il placebo. Peraltro,
agli stessi dosaggi, l'atorvastatina ha significativamente determinato un
aumento dei livelli di insulina plasmatica a digiuno, quelli di emoglobina glicata e
la sensibilità all'insulina. Le conclusioni, secondo gli autori: nonostante si
ottengano benefiche riduzioni di colesterolo Ldl e apolipoproteina B, il
trattamento con atorvastatina ha portato a un aumento significativo di insulina
a digiuno e dei livelli di emoglobina glicata compatibili con livelli di
insulinoresistenza e aumentata glicemia ambientale in pazienti
ipercolesterolemici.
J Am Coll Cardiol, 2010;55(12):1209-16
Il ruol o dell o stress psicol ogic o nel l o
scompensat o
Depressione, ansia, personalità di tipo "D" (stressata, con tendenza a provare
emozioni negative combinate con inibizione sociale) sono state associate a una
bassa prognosi nella coronaropatia, ma poco è noto circa il ruolo di questi
disturbi sullo scompenso cardiaco cronico. Ora uno studio olandese cerca di
capire se questi indicatori di stress psicologico siano associati a mortalità in
caso di insufficienza cardiaca. Sono stati coinvolti 641 pazienti consecutivi
scompensati, i quali hanno compilato specifici questionari per definire i sintomi
di ansia e depressione e le personalità di tipo D. Dopo un follow-up mediano di
37,6 mesi, si sono registrate 123 morti (76 dovute a cause cardiache). La
personalità D non è risultata associata né alla mortalità cardiaca né a quella da
ogni causa. All'analisi multivariata, né i sintomi elevati di ansia/depressione né la
personalità di tipo D sono apparse associate con la mortalità da tutte le cause o
da quella cardiaca. A un'analisi secondaria, un aumento di 1 punto in
ansia/depressione è risultato associato a un incremento dell'8% di rischio per
mortalità da ogni causa. In conclusione, né sintomi elevati di ansia/depressione
né personalità di tipo D sono risultati associati con un rischio accresciuto di
mortalità cardiaca o da tutte le cause. In futuro, è convinzione degli autori, studi
di adeguata potenza e un follow-up maggiore saranno necessari per chiarire
ulteriormente il ruolo dello stress psicologico nello scompenso cardiaco
cronico.
Circ Heart Fail, 2010;3(2):261-7
Adiponec t in a modific a geometria e funzione
cardiac a
Vari studi sembrano indicare che l'adiponectina possa essere connessa con la
massa e la funzione del ventricolo sinistro (Lv), ma finora scarseggiavano
sperimentazioni su campioni di dimensioni adeguate. Giungono ora i risultati di
un trial del Karolinska Institutet di Stoccolma, volti a indagare tali associazioni in
due ampie coorti di anziani. I ricercatori svedesi hanno valutato le relazioni
trasversali tra l'adiponectina sierica e le misure ecocardiografiche di geometria
e funzione cardiaca in 954 partecipanti di 70 anni d'età (50% donne) del
Prospective investigation of the vasculature in Uppsala seniors (Pivus) e in 427
uomini di 71 anni d'età dell'Uppsala Longitudinal study of adult men (Ulsam). Nei
modelli aggiustati per età, sesso, indice di massa corporea, pressione arteriosa
sistolica, colesterolo Hdl, creatinina e fumo l'adiponectina è risultata
inversamente associata con la frazione d'eiezione negli uomini, ma non nelle
donne. Dopo aggiustamento addizionale per il peptide natriuretico cerebrale
(NT-proBNP), l'associazione tra adiponectina e la frazione d'eiezione si è però
attenuata. Dunque, le concentrazioni sieriche di adiponectina sono apparse
effettivamente associate con la frazione d'eiezione negli uomini. «I nostri
risultati» affermano gli studiosi «implicano che l'adiponectina possa essere
associata con la funzione sistolica tramite vie metaboliche che coinvolgono i
peptidi natriuretici».
Eur J Endocrinol, 2010; 162(3):543-50
Nuovo an t ipertensivo a duplice azione
Si chiama LCZ696, ed è il capostipite di una nuova classe di farmaci che
inibiscono non solo il recettore dell'angiotensina II ma anche la neprilisina, una
peptidasi coinvolta nella regolazione pressoria. Uno studio spagnolo ha ora
voluto verificare se la duplice azione della nuova molecola determini realmente
un'ulteriore riduzione pressoria rispetto a un "normale" inibitore del recettore
dell'angiotensina II quale valsartan. Allo scopo, 1.328 pazienti di età compresa
tra i 18 e i 75 anni con ipertensione da lieve a moderata sono stati assegnati in
modo randomizzato in doppio cieco a 8 settimane di trattamento in uno di otto
gruppi: 100 mg (n=156), 200 mg (n=169) o 400 mg (n=172) con LCZ696; 80
mg (n=163), 160 mg (n=166) o 320 mg (n=164) con valsartan; 200 mg con
AHU377, un farmaco che blocca solo la neprilisina, (n=165) o placebo (n=173).
La riduzione media della pressione diastolica in posizione seduta ottenuta con le
tre dosi del nuovo farmaco rispetto ai dosaggi di confronto di valsartan è
risultata nettamente superiore (riduzione media: -2,17 mmHg). In particolare, le
differenze di riduzione pressoria sono risultate significative per LCZ696 200 mg
rispetto a valsartan 160 mg (-2,97 mmHg) e per LCZ696 400 mg rispetto a
valsartan 320 mg (-2,70 mmHg). Il duplice inibitore è apparso inoltre ben
tollerato e non si sono registrati casi di angioedema. Paragonato al valsartan,
concludono gli autori, l'LCZ696 grazie alla sua duplice azione offre una riduzione
complementare e completamente additiva della pressione arteriosa, divenendo
così una molecola promettente per il trattamento dell'ipertensione e della
malattia cardiovascolare.
Lancet, 2010 Mar 15.
Cu ore, poco alc ol u t ile in prevenzione
secondaria
Il consumo moderato di alcol (uno o due bicchieri di vino al giorno o equivalenti)
riduce in modo significativo il rischio di morte nei pazienti che sono già incorsi
in un evento cardiovascolare. L'informazione emerge da una meta-analisi
condotta da Simona Costanzo e collaboratori dell'Università Cattolica di
Campobasso su otto studi che hanno seguito complessivamente 16351 pazienti
con malattia vascolare ischemica registrando le loro abitudini di vita e la
comparsa di nuovi eventi clinici. L'effetto protettivo dell'alcol è simile a quello
già osservato nei soggetti sani, con una riduzione del rischio di eventi pari al
20%: in pratica un evento su cinque può essere evitato. Il dato di maggiore
rilevanza clinica è che il beneficio si apprezza anche in termini di riduzione della
mortalità per tutte le cause, oltre che cardiovascolare. I ricercatori
dell'università molisana precisano che il consumo di alcol deve essere non solo
moderato ma anche regolare come parte integrante delle abitudini alimentari
mediterranee: la stessa quantità di alcol settimanale concentrata in soli due
giorni non è salutare. Questi risultati - osservano inoltre gli autori - non devono
essere interpretati come un invito a iniziare a bere alcol per le persone sane o
malate. Si raccomanda piuttosto di discutere con il proprio medico la migliore
opzione in termini di consumo di bevande alcoliche.
J Am Coll Cardiol 2010; 55: 1339-1347
Iperaldosteron ismo: criteri di lat eral izzazione
L'iperaldosteronismo primario (PA) è la forma più frequente di ipertensione
endocrina, e rende ragione del 5-10% di tutte le ipertensioni. È importante
riconoscerlo, considerato che i pazienti che ne sono affetti vanno incontro a
maggiori eventi cardiovascolari rispetto agli ipertesi essenziali, ma è
fondamentale distinguere tra la forma unilaterale, operabile, e quella bilaterale,
da curare con terapia medica. La diagnosi di PA si ottiene col rapporto
Aldosterone/PRA e con la TC, ma la diagnosi di lateralizzazione suscettibile di
intervento si raggiunge solo col campionamento del sangue venoso surrenalico
e purtroppo manca un accordo su quale sia la procedura più appropriata da
utilizzare. In linea di massima si utilizzano campionamenti dell'aldosterone (A)
plasmatico (o sierico) e del cortisolo (C) plasmatico nelle vene surrenaliche, nella
cava inferiore (VCI) e/o in una vena periferica (VP): il confronto tra il C delle
vene surrenaliche e periferiche permette una valutazione dell'adeguatezza e del
successo dell'incanulazione delle vene surrenaliche. Ma alcuni centri utilizzano
criteri più permissivi (Cvena surenalica/CVCI>1,1), altri più restrittivi (Cvena
surrenalica/CVP>3,0 senza stimolazione con ACTH) o ancora più restrittivi con
Cvena surenalica/CVCI>4,0) sotto stimolazione continua di basse dosi di ACTH.
Per chiarire la questione, il gruppo di Mulatero di Torino, in collaborazione con
un gruppo australiano, ha recentemente confrontato i vari metodi su un
campione di 62 iperaldosteronismi in cui la diagnosi è stata confermata da due
successivi esami (il primo non era stato soddisfacente). I ricercatori hanno
riscontrato che esisteva una notevole disparità nei risultati ottenuti con i tre
criteri (la concordanza tra i 3 criteri era solo del 32,3 %), e che l'attendibilità dei
risultati era inversamente proporzionale alla severità del criterio adottato, ma
soprattutto che i criteri permissivi avevano una scarsa riproducibilità
diagnostica, per cui, secondo Mulatero, andrebbero evitati. Anche se, possiamo
aggiungere, molto dipende dalla collaborazione da parte dei radiologi
interventisti nelle diverse realtà operative.
Hypertension 2010;55:667-673.
Insorgenza diabete an t icipat a dal le stat in e?
Sulla scorta di precedenti e non conclusivi lavori, un'interessante review apparsa
sull'ultimo numero di Febbraio di Lancet ha valutato se la prospettata
eventualità che l'utilizzo delle Statine potesse determinare un'insorgenza
precoce di diabete fosse reale. La casistica presa in considerazione è stata
ponderosa (più di 2.200 soggetti randomizzati al trattamento con statina vs
analogo numero di soggetti di controllo, su di una popolazione globale di
91.000 pazienti) e derivata da studi qualitativamente eccellenti (13 RCT) con un
follow up medio di 4 anni. La terapia con statine è risultata associata ad un
aumento del 9% di rischio per diabete incidente (OR 1,09; 95% CI 1,02-1,17)
specie nel subset dei soggetti più anziani, con un risultato assoluto di insorgenza
di 1 nuova diagnosi di diabete ogni 255 soggetti trattati con statina per 4 anni.
Tali risultati, concludono gli AA, pur dimostrando un modesto aumento di
rischio di accelerare la comparsa di diabete indotto dalle statine, non devono in
nessun modo far modificare gli attuali orientamenti circa l'utilizzo delle statine
stesse per la prevenzione degli eventi cardio-vascolari.
Lancet 2010;375(9716):700-701.
Sospensione Warfarin dopo ablazione per FA
Uno studio multicentrico non randomizzato suggerisce che sia sicuro
interrompere la terapia anticoagulante orale da tre a sei mesi dopo ablazione
trans-catetere della FA(1). Secondo questi dati, rispetto ai pazienti rimasti in
terapia anticoagulante dopo l'ablazione, il tasso di incidenza di tromboembolia
tra coloro che l'hanno interrotta non era significativamente diverso, e ciò anche
nei pazienti a moderato-alto rischio tromboembolico basato sullo score di
CHADS2 (Scompenso, Ipertensione, Diabete, Ictus/TIA). Gli autori hanno
esaminato pazienti provenienti da cinque diversi centri che praticavano
l'ablazione, valutando la sicurezza dello stop alla TAO dopo tre/sei mesi in 2.692
pazienti di ambo i sessi. Altri 663 pazienti, al contrario, continuavano la TAO a
tempo indeterminato.
Vi erano differenze significative, tra i pazienti rimasti in TAO e quelli che
l'avevano sospesa, nel punteggio CHADS2 e nel tipo di FA. Tra i pazienti rimasti
in TAO, il 72% ha proseguito a causa di recidive aritmiche, altri per disfunzione
atriale sinistra, grave stenosi della vena polmonare o altre indicazioni. In un
editoriale che accompagna lo studio (2) viene tuttavia sottolineato che questa è
solo una ipotesi operativa da testare. Infatti, la scelta di proseguire o no la TAO
è stata lasciata principalmente al medico curante e non era basata su precisi
criteri guida. La maggioranza dei pazienti in studio (82%) non avrebbe avuto
bisogno di TAO postablazione perché il loro punteggio CHADS2 era < 1.
Fino all'esecuzione di trial clinici randomizzati standardizzati e controllati, gli
editorialisti consigliano di attenersi alle linee guida HRS/EHRA/ECAS: la TAO è
raccomandata per tutti i pazienti per almeno due mesi dopo l'ablazione; la
decisione sul suo uso dopo due mesi rimane a discrezione del medico, e deve
essere basata sul rischio per ictus e non sulla presenza o sul tipo di FA; inoltre la
sospensione della TAO non è raccomandata nei pazienti con un punteggio di
CHADS2 > 2.
J Am Coll Cardiol 2010;55:735-743.
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